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L’Arena di Giletti domenica scorsa ha puntato i riflettori su Napoli e i biglietti gratuiti allo stadio per

consiglieri ed assessori (le altre autorità sono state esentate dalla polemica). Nessuno può immaginare che i
problemi della città, o la qualità più o meno scadente della sua classe politica, si misurino dalla possibilità di
vedere gratis il Napoli giocare al San Paolo. Ma la notizia da commentare in apertura di trasmissione era
quella, e l’infuocato dibattito è partito da lì. Con le immagini di una surreale discussione in consiglio
comunale, e il servizio ironico di commento davanti allo stadio. Dopodiché la puntata si è spinta oltre,
molto oltre, scatenando un putiferio per la rappresentazione del capoluogo campano che vi veniva offerta.

Ora, pare che il problema sia se i toni e le parole usati dal conduttore, Massimo Giletti, e da Matteo Salvini,
il leader della Lega Nord, fossero offensive nei confronti della città, o se fossero sufficientemente
equilibrate, o se cadessero o meno nei soliti luoghi comuni, con le musichette d’avanspettacolo in
sottofondo. Il che, francamente, equivale a continuare sulla falsariga del programma domenicale: né più, né
meno.

E se invece il problema fosse il genere stesso di trasmissione televisiva a cui era affidata la discussione su
Napoli, i mali di Napoli e i politici napoletani? Intendiamoci: non si tratta di mettere in discussione la
bravura di Giletti, per la quale parleranno i risultati, l’audience o la raccolta pubblicitaria. Non si tratta
neppure di chiedersi se opinioni diverse abbiano o no avuto adeguato spazio, oppure se Giletti si sia
olimpicamente tenuto al di sopra delle parti, o ancora se lo stesso trattamento sia stato riservato in passato
anche a Montebelluna o a Mondovì. Si tratta invece di sollevare un dubbio (almeno un dubbio) sul modo in
cui il servizio pubblico della Rai allestisce l’informazione giornalistica sui suoi canali principali, nelle
trasmissioni di punta, negli immortali talk show.

Cos’è infatti un talk show, questo genere televisivo nato quasi quarant’anni fa, con «Bontà loro», di
Maurizio Costanzo, genere che nel tempo ha sperimentato sia i divanetti che gli sgabelli, sia il conduttore
seduto che quello in piedi, sia i toni pacati che quelli urlati?

Per l’azienda è anzitutto e fondamentalmente un format dai costi contenuti, che assicura un pubblico
sufficientemente numeroso e che quindi si può continuare tranquillamente a mandare in onda. Ma se vale
la necessità, che la Rai dovrebbe pure avvertire, di informare il pubblico dei telespettatori, è molto
opinabile che il talk show, così come oggi viene condotto, risponda davvero allo scopo. Non c’è nessun
aspetto della realtà napoletana, buono o cattivo non importa, che sia conosciuto oggi meglio di quanto lo
fosse sabato scorso, prima che l’Arena andasse in onda. Quel che pensa di Salvini su Napoli lo si sapeva
bene anche prima che lo ripetesse un’altra volta, domenica scorsa, e che ripeterà uguale alla prossima
occasione, indipendentemente dai fatti che si tratta di commentare. E non perché si tratti di Salvini (o
dell’Arena): non sarebbe diversamente se in trasmissione andasse un Brunetta, o un esponente della
minoranza del Pd, per criticare Renzi ed il Pd, oppure uno della maggioranza (ovviamente: per difendere
Renzi ed il Pd). Il fatto è che il talk show è soprattutto uno show: lo dice la parola stessa. È, cioè, uno
spettacolo, e dello spettacolo ha le medesime esigenze. Gli ospiti vi vengono invitati per rappresentare, nel
senso di impersonare, una parte. Vale per i politici e vale pure per i cosiddetti esperti, in servizio
permanente effettivo sulle poltrone del talk. Lo stesso contraddittorio non avvicina affatto la realtà
attraverso punti di vista diversi: è piuttosto un modulo proprio del linguaggio televisivo, che favorisce
meno, molto meno una rappresentazione perspicua della realtà che il suo intorbidamento nella confusione
azzuffata delle parole.

La domanda è dunque per la presidente della Rai, Monica Maggioni, più che per i conduttori dei singoli
programmi, che stanno nei formati come pesci nell’acquario, e a cui dunque non si può chiudere di provare
a svuotare la vasca. La domanda è: si vuole proseguire così? Oppure è compito del servizio pubblico favorire
una diversa pedagogia dell’ascolto, e rendere anche un servizio alla politica, che viene fatta nei salotti
televisivi molto più che in piazza o nelle istituzioni, e che quindi risente di questa enfatizzazione mediatica
della realtà, e peggiora insieme con essa?

Paragone irriverente: all’aeroporto di Schipol, Amsterdam, hanno disegnato una mosca nei water dei bagni
per uomini. Accade che gli uomini ne siano terribilmente attratti: prendono la mira e centrano il vaso con
più frequenza di prima. I bagni sono più puliti. Si chiama «nudge», spinta gentile. Cass Sunstein e Richard
Thaler, che la teorizzano, parlano, con un paradosso, di paternalismo libertario, di un modo (gentile,
appunto, non costrittivo) di suggerire comportamenti virtuosi. Ecco: se non piace un’idea pedagogica della
tv, parliamo pure di spinta gentile e auguriamoci che la nuova dirigenza della Rai voglia provare a darla, con
un palinsesto meno affidato alle zuffe televisive. Che magari si vedono di più ma che, purtroppo, sempre
meno fanno vedere la realtà.

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