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16 agosto 1620, l’apocalisse manfredoniana.

“Mamma, li turchi”
Ago 16, 2019Social0

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È un’afosa giornata di agosto, ma la gente è già in strada alle prime luci dell’alba per trovare un po’
di sollievo dalla calura estiva. Tra un po’ inizieranno i preparativi per onorare il giorno dedicato al
Signore. È domenica 16 agosto ed oggi si festeggia anche San Rocco. Lo sguardo dei sipontini,
come sempre, appena in strada abbraccia il mare. E qui lo sbalordimento è enorme: 55 galee
all’orizzonte a vele spiegate, una dietro l’altra, che puntano a nord della città. Ma i manfredoniani,
seppur sorpresi dall’imponente spettacolo, non hanno paura. Qualche giorno prima altre due galee
avevano fatto sosta nel golfo e da esse erano scesi alcuni giovincelli col fazzoletto al collo e
dall’aria un po’ sbruffona che percorrendo la città in lungo e in largo avevano diffuso (ahimè, ad
arte) la notizia che di lì a poco sarebbero arrivate molte navi veneziane, come raccontavano essere
veneziane le galee da cui essi stessi erano sbarcati.

Finiti i tempi di svevi, angioini ed aragonesi, ci sono gli spagnoli a reggere Manfredonia e Don
Fernando de Velasco, governatore della città, invia tre uomini a cavallo per accertare che la flotta
appartenga alla Serenissima. Le galee approdano a Chianca-Masjille (Chianca Masitto) e i tre
uomini di Don Fernando capiscono subito che non appartengono affatto ai veneziani: i soldati
sbarcati dalle navi si dispongono in tre squadroni e marciano verso Manfredonia “rovinando e
abbrugiando quanto se li parava dinnanzi”.

Uno dei tre cavalieri, galoppando all’impazzata, ritorna a Manfredonia e alle porte della città inizia
a gridare con tutto il fiato che ha in corpo: “Turchi! Turchi!”.

Don Fernando comprende dunque che la visita di quei giovinetti approdati con le loro galee nel
giorno di San Lorenzo era tutto un trucco per cogliere la città di sorpresa. Un panico incontrollato si
diffonde a Manfredonia, alcuni cercano rifugio nel castello, altri cercano scampo “alla Montagna”,
chi si barrica nelle chiese, chi si nasconde nelle fosse del grano, chi nel fondo delle cisterne, altri si
barricano in casa “come fantasmi, tutti di qua e di là, scampavano, senza salvare altra robba che
quanto vestivano”.

I turchi entrano a Manfredonia sfondando la fradicia Porta ‘vecchia di cent’anni’ alla via della
Montagna (via Scaloria, all’incirca all’altezza di via Tribuna). In meno di un’ora migliaia di soldati
ottomani sono ovunque e la loro ferocia è inumana: i bambini che trovano dinanzi vengono lanciati
contro i muri, le donne stuprate e quelle che si oppongono ammazzate e appese con le parti intime
in vista, gli anziani impiccati alle travi.

In poche ore ciò che doveva essere il giorno del Signore si trasforma in un’Apocalisse. I turchi si
impadroniscono di Manfredonia e al grido di “Uè – Uè”, depredano e incendiano le chiese, i
conventi e i palazzi. Ovunque vi sono ruderi e fiamme e la devastazione sta prendendo il posto di
ciò che solo fino al giorno prima era una delle più belle e floride città dell’Adriatico. Solo il castello
resiste ancora, ma mancano soldati e munizioni, nonostante le gabelle alzate dagli spagnoli per
rinforzare la difesa delle città più esposte al rischio d’incursioni nemiche.

Alle undici di sera le navi turche con tre salve di cannone, suonano la ritirata e gli invasori tornano
sulle navi “carichi di preda” e pronti a ricominciare il giorno successivo. I manfredoniani ce la
mettono tutta per capire come rispondere al nemico in maniera efficace, ma sono troppo pochi ed
inoltre sono stati decimati anche da un’epidemia di malaria. Decidono di chiedere aiuto al “Preside
della Provincia” don Francesco Carafa inviando un corriere di notte a Foggia e nel frattempo
riescono a sabotare i cannoni dei torrioni della città di cui i turchi hanno preso possesso.

Mentre attendono i rinforzi, all’interno del castello, che ospita circa 1.500 sipontini, si organizza al
meglio la difesa. Tutti collaborano con i trenta soldati spagnoli, anche le donne, che non solo si
preoccupano di sfamare i rifugiati, ma di mantenere efficienti e pronti all’uso munizioni e micce per
le batterie dei cannoni. I turchi, che cercano di arrampicarsi alle mura del castello, sembrano
centinaia di formiche all’assalto di un tozzo di pane. Settecento ne vengono respinti dagli impavidi
sipontini che tentano di resistere con tutte le loro forze.

I saraceni tornano dunque a sfogare sulla città la loro ferocia: radono completamente al suolo la
cattedrale gotica, la più bella di Puglia, dandola alle fiamme, e bruciano il corpo di San Lorenzo
Majorano (di cui si salverà solo un avambraccio); poi indossano i paramenti religiosi e, con la
carrozza del console di Venezia in visita in città già da alcuni giorni, girano per le piazze e le strade
facendosi beffe dei manfredoniani stremati.

Da Foggia, finalmente, arrivano i rinforzi: 400 fanti e 400 cavalieri al comando di don Francesco
Carafa, ma vengono subito individuati e fermati dai turchi a colpi di cannone presso la chiesa di San
Leonardo. I turchi, eccitati dalla notizia, riprendono l’assalto al castello e i manfredoniani, sfiniti e
con pochissimi viveri e munizioni decidono di arrendersi issando su di un’asta che fanno sporgere
dal punto più alto del castello, il grembiule bianco di una donna.

Le ostilità cessano e iniziano le trattative: don Fernando vende la fortezza al capo dei turchi, Alì
Pascià, in cambio della salvezza della sua pelle e di quella della sua famiglia. Ma i sipontini
scoprono l’inganno e intimano allo spagnolo: “o tutti liberi o tutti a sangue e fuoco”. Un secondo
messo, questa volta sipontino, il gentiluomo Antonio De Nicastro, ritorna dal comandante della
flotta turca per “trattare il bene comune”. Si giunge così a una seconda trattativa, che “alle cinque
hore di notte si conchiude con la libertà di tutti”.
Lo spettacolo che si presenta agli scampati è tremendo ed i sipontini superstiti piangono
disperatamente “vedendo i carboni ardere le loro case, le piazze desolate, l’uccisi stesi per strada, le
Case di Dio abbrugiate” l’icona della Madonna di Siponto “diruta e diluta”, le sepolture aperte, la
campane rubate”.

Dopo tre giorni d’inferno, Alì Pascià al comando della flotta “ricca di preda”, spiega le vele verso
Costantinopoli solcando e signoreggiando l’Adriatico. Sulle navi turche ci sono almeno un
centinaio di donne e uomini sipontini fatti schiavi; e c’è anche una bambina di circa 8 anni,
bellissima, rapita da un convento dove le monache fuggendo l’avevano lasciata ancora dormendo
nel suo letto. La bambina si chiama Giacometta e diventerà la moglie preferita del sultano. Ma
questa è un’altra storia…

Maria Teresa Valente

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