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VOLUME TERZO
IL COLLEZIONISTA DI SASSI
E ALTRE STORIE
Sean MacMalcom
Stampato e venduto
da Lulu.com
A Monica B.
La saga
MIDDA’S CHRONICLES
Volume primo
Il tempio nella palude (e altre storie)
Volume secondo
Condannata (e altre storie)
MIDDA’S CHRONICLES 5
Prefazione
Caro Lettore,
Introduzione
Caro lettore,
Sean MacMalcom
10 Sean MacMalcom
MIDDA’S CHRONICLES 11
Sommario
Prefazione .......................................................................................................... 5
Introduzione ...................................................................................................... 7
Sommario ......................................................................................................... 11
Il collezionista di sassi
Ormai non riesco a percepire alcun muscolo del mio corpo. La mia
vista è confusa. Il respiro è praticamente inesistente, addirittura
impossibilitato a essere. E il freddo mi domina fin dentro le ossa.
E’ questa la sensazione che dovrebbe essere avvertita in simile
frangente, oppure no?
Credo di aver sentito, in passato, ipotesi secondo le quali, innanzi alla
morte, l’intera propria vita venga riproposta agli occhi del malcapitato…
purtroppo, in questo momento, davanti a me sembra esserci solo
un’incredibile confusione.
Dei... forse sarebbe il caso che io pregassi qualche dio?
Credo di sì. Probabilmente sì.
Sto morendo. E questo sarebbe il momento migliore per pregare… se
solo lo sapessi fare. Peccato che in passato non abbia mai avuto occasione
di soffermarmi nell’analisi della mia religiosità.
In effetti, se solo riuscissi a farlo, credo che ora scoppierei a ridere per
quanto questa situazione si ritrovi a essere paradossale.
Possibile che non riesca neanche a morire in modo normale?
Falso!
Anche agli occhi degli adulti non tutte le pietre sono semplici pietre.
E’, infatti, sufficiente che una si dimostri in grado di risplendere in modo
MIDDA’S CHRONICLES 17
diverso dalle altre, rivelando un pregio meno comune, più raro, affinché
improvvisamente sia considerata quale incredibilmente preziosa e, come
tale, sia non solo apprezzata, ma addirittura bramata. Un’ingiustizia,
quella espressa da un simile pregiudizio, che si ritrova, in verità, a essere
rispettata qual regola universale, dogma di fede ancor prima di regio
decreto, in ogni aspetto della realtà quotidiana, dove non solo i sassi, che
agli occhi di un bambino sono e sempre saranno tutti meravigliosi, sono
destinati a subire arbitrarie distinzioni in base alla propria semplice
apparenza, discriminazioni in virtù dell’ipotesi di un proprio intrinseco
valore, attribuito altresì solo dal pensiero comune, ma anche, loro pari,
ogni altro elemento del Creato, compresi animali e uomini.
Ritengo, forse a torto, che proprio in questo modo nasca il potere, in
questo modo nascano i soprusi: dove, in fondo, una pietra può essere
considerata preziosa solo perché capace di risplendere in maniera diversa
dalle altre, offrendo, in conseguenza di ciò, a una privilegi e onori nel
mentre in cui all’altra viene concessa solo la polvere della strada, perché le
persone dovrebbero avere diritto a un trattamento diverso, a un altro
criterio di giudizio?
Kriarya.
Dubito che possa essere semplice tentare di spiegare a un bambino la
realtà rappresentata dalla città del peccato. Personalmente non ho mai
avuto, né mai avrò, data la mia condizione attuale, l’incombenza di una
tale responsabilità e, nonostante tutti i rancori che non riesco a evitare di
imputarle, non posso che ringraziare mia madre per il suo tentativo di
proteggermi dalla realtà, a me circostante, nella prima e più innocente
infanzia.
Inevitabilmente, comunque, la mia fuga da casa complicò il tutto,
ponendomi inerme e impreparato davanti a un mondo inadatto ad
accogliere un bambino, e, al contrario, pronto a fagocitarlo nella propria
oscura spirale senza incertezze, privo di dubbi.
Ripensandoci ora, invero, non saprei dire in virtù di quale divino
volere mi fu salva la vita: probabilmente fu ancora mia madre, che pur
non volli rincontrare, a porre una buona parola per me con il suo
protettore, il suo mecenate, e questi, in conseguenza, fece modo di
imporre un qualche veto attorno alla mia persona, tale da impedire alla
morte di raggiungermi laddove sarebbe stato ovvio che ciò avvenisse.
… maledizione!
Sto morendo e ancora trovo la forza di mentire a me stesso?
D’accordo. Ci riprovo.
Ho sempre saputo che, all’epoca, fu solo per merito di mia madre,
colei che era e sarebbe ancora stata, a mia insaputa, la sola speranza di
salvezza per quello stesso bambino che da lei aveva voluto tanto
precipitosamente cercare fuga, che potei essere posto al sicuro, evitando
che il mondo a me sconosciuto mi potesse, allora, annullare
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completamente, impedendomi ogni possibilità di crescere, di raggiungere
un’età più matura e, forse, meno stupida.
Alcuni uomini, così, mi trovarono e mi condussero a una delle tante
torri di Kriarya, dove lord Cemas si propose quale mio tutore.
Non nego di aver più volte considerato lord Cemas quale mio
potenziale padre, soprattutto negli anni in cui raggiunsi la consapevolezza
del mestiere in cui mia madre prodigava il proprio tempo e le proprie
energie. Difficile, altrimenti, sarebbe stato ipotizzare la ragione per cui un
signore della città del peccato si sarebbe dovuto interessare al figlio di una
delle sue numerose prostitute. Ovviamente il fato non mi volle riconoscere
alcuna conferma in tal senso né, invero, io la ricercai: in merito all’identità
di mio padre, con il passare del tempo, cessai di concedermi qualsiasi
curiosità, rifiutando ogni sogno di pari passo alla separazione sempre più
netta che mi imposi nei confronti delle mie origini. La mia vita aveva, nel
bene o, più probabilmente, nel male, intrapreso una nuova strada e, per
quanto tutt’altro che semplice o gradevole essa sarebbe potuta apparire,
sarebbe dovuta essere apprezzata, comunque, quale una via utile per
proseguire oltre.
Divenni così un tuttofare al servizio dei servitori del mio mecenate,
impiegato a tempo pieno per garantire il mantenimento del regale tenore
di vita del medesimo all’interno della propria torre. Pulire pavimenti,
lucidare armi, liberarmi dell’immondizia: questi e molti altri furono, per
lunghi anni, i miei principali impieghi, gli unici interessi della mia
esistenza al di fuori dei sassi.
Alla pietra che raccolsi a seguito della fuga dalla casa in cui ero
cresciuto, in effetti, molte altre si aggiunsero nel tempo, con l’alternarsi
delle stagioni.
Ormai libero da ogni vincolo parentale, nessuno avrebbe potuto
negarmi quella mia scelta, quella mia passione, e nei miei sassi non solo
potei trovare amici fedeli ma, anche, delle rappresentazioni materiali di
ogni momento della mia esistenza. Sebbene, almeno inizialmente, il mio fu
sicuramente un gesto infantile, quasi una sorta di vendetta nei confronti di
mia madre e di tutti i suoi pregiudizi per quanto da me, invece,
apprezzato qual tesoro, nel corso del tempo maturai l’abitudine di
associare ogni sasso a un qualsiasi evento della mia stessa esistenza, bello
o brutto che esso fosse: un complimento ricevuto dai miei superiori mi
portava, così, a ricercare una pietra per festeggiare simile risultato, per
quanto misero simile gesto sarebbe potuto apparire a uno sguardo
esterno; un rimprovero, poi, mi spingeva in eguale direzione, allo scopo di
segnare simile sconfitta e tenerne memoria per il futuro.
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La valle dei morti, fuori città, dove fui accompagnato per trasportare il
primo cadavere di cui ebbi incarico di liberarmi, a otto anni, mi offrì
pertanto l’occasione di porre le mani su uno splendido quarzo, metà
ruvido e opaco, metà cristallino e lucente, in tonalità variabili fra il bianco
grigiastro e il ramato. A undici anni, dopo aver fallito nel compiere il mio
primo furto, nella volontà del mio padrone di potermi utilizzare per scopi
diversi da quelli in cui ero stato preposto fino a quel momento, raccolsi,
poi, una rara pietra lavica, nera e porosa, l’unica su cui mai sia riuscito a
porre le mie mani, per quanto impegno in ciò possa successivamente aver
messo, data la loro minima presenza nel territorio della provincia. E,
ancora, nel vicolo dove, per la prima volta, mi incontrai con una delle
ragazze al servizio di lord Cemas, per festeggiare il mio presunto
tredicesimo compleanno o quello che comunque egli stabilì essere tale,
ebbi allora modo di raccogliere una meravigliosa selce di color verde
giallastro, liscia e parzialmente scheggiata, tale da offrire un lato a dir
poco tagliente.
I pochi e scarni piedi quadrati di spazio a me concessi quale stanza
personale, ricavati nelle fondamenta stesse della torre del mio signore,
così, si arricchirono ben presto dei miei tesori, delle mie ricchezze, alle
quali alcuno avrebbe mai attentato, nessuno si sarebbe mai interessato.
Nel rispetto di tutti i pregiudizi già dimostrati da mia madre, infatti, per il
mondo intero quelli sarebbero apparsi, sempre e solo, quali banali sassi,
negando loro qualsiasi pregio, qualsiasi valore. E dove, se io avessi
posseduto “pietre preziose” non avrei potuto trovare requie nel timore di
perderle, con i miei “banali sassi” non mi fu mai offerta pena, altresì
permettendomi di vivere serenamente la mia esistenza, rimirandoli ogni
sera, ripassandoli uno a uno nelle loro incredibili forme, nelle loro
meravigliose proporzioni, nei loro pregi e difetti, unici e irripetibili.
Una chiara realtà non mi fu difficile da comprendere, in quegli anni:
inesorabilmente il tempo sarebbe trascorso, i ricordi si sarebbero affievoliti
e le persone sarebbero morte. I sassi, al contrario, sarebbero sempre
rimasti uguali, immutabili, proponendosi simili a un’ancora stabile,
irremovibile, all’interno di un vasto mare agitato, perennemente in
tempesta, qual solo sarebbe potuta essere considerata la vita e l’umano
destino.
E solo le pietre, non a caso, restarono al mio fianco nel fatale e tragico
giorno in cui lord Cemas venne meno.
Tali furono le prime parole che egli rivolse verso di me, nel cogliermi,
decisamente debole e affamato, intento a frugare fra i rifiuti abbandonati
in un vicolo, così come consuetudine in città, spronato qual io ero, in tal
gesto, dalla speranza di trovare qualcosa su cui poter mettere i denti,
possibilmente non ancora reclamata da qualche ratto, o, forse, dalla
volontà di riuscire ad agguantare proprio un qualche topo lì celato,
bestiola pur utile, soprattutto se sufficientemente grassoccia, a sopperire
alla necessità di un qualche genere di pasto.
… ridicolo.
Non riesco a pensare ad attributi diversi per descrivere il mio
comportamento in quell’occasione. Anzi, in verità, ne avrei in mente
davvero molti, ma fra tutti “ridicolo” credo possa essere considerato,
probabilmente, quello più cortese.
Del resto, sebbene sia da considerarsi una giustificazione
estremamente blanda, inutile nel desiderio di perdonare il mio
comportamento, in quel momento io ero solo un ragazzo affamato e
impaurito, all’interno di una città nella quale, anche il più feroce degli
assassini, non avrebbe osato permettersi l’imprudenza di abbassare la
guardia, dove egli avesse avuto desiderio di conservarsi in vita e,
possibilmente, in salute.
E per quanto, evidentemente, non avrei mai potuto offrire timore a
nessuno con simile presentazione, nel mostrarmi impegnato in una così
disperata ricerca, cos’altro avrei potuto fare? Cos’altro avrei potuto dire?
… mi ridereste dietro.
Sì, certo. Belle parole, le mie, soprattutto quando pronunciate da chi ha
già commesso tale errore di giudizio e ora ne sta pagando le conseguenze.
Spero solo, per lo meno, che il mio sacrificio possa loro servire a
comprendere ciò che sembrano voler continuamente ignorare, volersi
testardamente negare: purtroppo, però, sono convinto che neppure dietro
tortura, né Midda né Be’Sihl, avrebbero il coraggio di dichiararsi.
Peccato per loro.
«Ho fatto tutto quello che era in mio potere: ora è nelle mani del
destino.» sussurrò Be’Sihl, sfiorando appena la mano della donna nel
confermare tale drammatica situazione.
Ed ella lottò…
La mia reazione, accolta in effetti con sguardo truce dalla donna, fece
riprendere di colpo Be’Sihl, che si scosse dal sonno e farfugliò: «Cosa
succede?»
«Io… io…» tentai di parlare, di rispondere, di dire qualsiasi cosa o,
anche solo, semplicemente, di staccare gli occhi dai seni che, innanzi al
mio viso, delicatamente continuavano a ciondolare in una rara ricchezza,
senza però ritagliarmi occasione di successo in alcuno di tali propositi.
«E riprenditi.» mi rimproverò Midda, impossessandosi dei suoi abiti,
obiettivo di quell’incursione, nel rivolgere, per la prima volta, una parola
esplicitamente verso di me, con un tono che, però, non riuscii a
comprendere, forse serio, forse spazientito, forse semplicemente scherzoso
«Sembra che non abbia mai visto una donna nuda in vita tua…»
«Questi burqa sono una maledizione per dei poveri disgraziati come
noi… lo comprendi?» rise uno fra loro, rivolgendosi direttamente alla
propria preda «Voi camminate in giro apparendo tutte uguali, e noi non
MIDDA’S CHRONICLES 171
abbiamo modo di sapere cosa ci stiate nascondendo lì sotto almeno fino a
quando non ve li strappiamo di dosso.»
«Per quanto mi riguarda, è sufficiente che non sia troppo vecchia…»
discriminò, in replica, un suo compagno, scuotendo il capo «Se fosse come
l’ultima non riuscirei proprio ad avere il fegato di combinarci qualcosa… a
quel punto, secondo me, sarebbe sicuramente meglio ammazzarla in fretta
e liberarsi del suo corpo senza troppo giochetti.»
«Io, invece, credo che siate un branco di idioti…» tornò a parlare colui
che già aveva offerto chiari segni di apprezzamento in merito ai ben pochi
dettagli fisici offerti al loro sguardo dalla vittima «Due occhi di questo
genere non potrebbero essere associati a una cagna priva di fascino. E
guardate la sua postura, la fierezza che, nonostante tutto, sembra non
abbandonarla neanche ora…»
«Forse non è semplicemente una schiava… potrebbe addirittura essere
di nobili origini!» ipotizzò a quel punto uno degli altri.
«Nobile o no, una volta che vengono spogliate e gettate a terra, queste
cagne si rivelano essere tutte uguali…» continuò, sguaiatamente, il più
ridanciano del gruppo «Anch’ella non farà differenza!»
«Silenzio ora!»
172 Sean MacMalcom
In simili, semplici parole, si impose alfine colui che per primo si era
rivolto nella direzione della mercenaria, arrestandone il cammino.
Egli, fino a quel momento, era stato il solo ad aver offerto
dimostrazione di possedere un minimo di autocontrollo, l’unico fra i
propri compagni a non essersi concesso gratuite molestie nei confronti
della donna da loro fermata, praticamente catturata. E allora,
probabilmente in conseguenza di una sua posizione di comando in quel
gruppo, tutti gli altri si arrestarono di colpo a quella richiesta, zittendosi e
disponendosi, così, tranquilli, nella volontà di non essere per lui
d’ostacolo, come a temere di poter incorrere in un secondo richiamo.
Come pocanzi era avanzato verso di lei, così ora l’uomo si ritrasse,
ritornando al punto da cui era partito, ponendo distanza fra loro, ma
dimostrando, nonostante ciò, un evidente segno di inquietudine solo
attraverso una fugace contrazione delle proprie pupille nere al centro delle
lucenti iridi, impercettibile a chiunque al di fuori della sua controparte. E
nel mentre in cui i suoi compagni continuavano a mantenere il silenzio, e
le posizioni assunte a circondare la preda, la vittima ipoteticamente
catturata, egli si concesse per un momento incerto su come agire, su cosa
comandare, quasi avesse intuito, istintivamente, il pericolo incarnato nella
figura innanzi a sé, ma, al tempo stesso, si stesse rifiutando di prestare
ascolto a tale sensazione, ritenendola assurda, irrazionale.
Purtroppo, però, nell’essere giunta sino a quel punto estremo,
nell’aver visto tutti i pezzi disposti sulla scacchiera in maniera tanto
aperta, così dichiarata, la situazione così conformatasi non avrebbe ormai
potuto essere risolta in alcun modo diverso da quello preventivato e di
questo, tanto l’uomo, quanto probabilmente la sua avversaria, si stavano
ponendo perfettamente consci, confidenti con l’ineluttabilità del fato che
solo una replica avrebbe potuto allora ritrovare qual giustificata
all’affermazione insistente della mercenaria, solo una frase avrebbe potuto
essere accettata da tutti gli altri lì presenti. Impossibile, anzi, sarebbe stato
negarla loro, rifiutarla, dal momento in cui, se anche egli avesse voluto
ritirarsi, se anche avesse voluto evitare il confronto con la minaccia
rappresentata da quella donna misteriosa, non avrebbe più potuto agire in
tal senso senza perdere il rispetto dei propri compagni, e, in conseguenza,
senza, comunque, evitare quanto ormai divenuto destino già scritto, già
segnato.
Quasi quelle parole fossero state una sentenza emessa a discapito della
loro vittima, due fra i guerriglieri posti dietro alla mercenaria scattarono
verso di lei in un gesto improvviso, per afferrarla alle spalle, alle braccia,
174 Sean MacMalcom
nel desiderio di catturarla, nella volontà di impedirle ogni possibilità di
fuga dal destino a cui l’avevano votata.
Ma dove essi si sarebbero attesi, da parte sua, una qualche ribellione,
un qualche tentativo, pur vano, inutile, di evasione, la donna non offrì
invece alcun movimento, alcuna emozione. Nella loro violenza, le sue
braccia furono costrette ad aprirsi, lasciando precipitare a terra il proprio
carico, il cesto di panni da lavare, prima strettamente sostenuto: ciò
nonostante, fatta eccezione per simile reazione fisica, impossibile da
evitare, ella si dimostrò imperturbata e imperturbabile, ancora eretta e
fiera fra loro, quasi non fosse preda quanto, piuttosto, predatrice.
«Sei un… un… jinn…» balbettò colui la cui lama era trattenuta nella
mano destra di Midda.
«Sbagliato. E, se mi permetti, siete tutti a dir poco grotteschi.» rispose
ella, con assoluta tranquillità, puntando i propri occhi di ghiaccio nella
direzione dell’interlocutore innanzi a sé, senza allentare la presa sulla sua
spada o sul collo del suo degno compagno «Vorreste violentare una donna
solo perché indossa un burqa e poi, al primo segno di pericolo, invocate
subito degli spiriti maligni appartenenti alla religione che osteggiate?»
«Non è un jinn… è una cagna occidentale!» gridò il capo, spingendo
altri due, fra i suoi uomini, in avanti, nella direzione dell’avversaria, per
costringerli ad affrontarla «Avanti… ammazzatela!»
178 Sean MacMalcom
Una violenza verbale, la sua, del tutto giustificata nel momento in cui,
per quanto potenzialmente vittoriosa sulla coppia, così rallentata si offrì
praticamente indifesa a terra, sopraffabile con semplicità. E, di ciò, i due
disgraziati non ebbero esitazione ad approfittare, gettandosi senza
eleganza, ma con estrema violenza ed efficacia, contro di lei, per
costringerla a terra, impuntandosi di peso sopra le sue braccia e le sue
spalle a non concederle possibilità di ulteriore fuga.
«Ormai sei nostra, cagna tranitha!» esclamò uno degli aggressori, con
trasparente soddisfazione per il risultato raggiunto, contro ogni
aspettativa, a discapito di ogni previsione precedentemente loro avversa.
«E sarai tu a pagarla…» aggiunse l’altro, condividendo la gioia del
proprio compagno «Per ciò che hai osato contro di noi… contro i nostri
compagni!»
Innanzi a simile svolta, nella quale la donna parve essere ormai vinta,
costretta a restare praticamente immobile a terra, sotto il peso della
coppia, privata di ogni possibilità di reazione e apparentemente
rassegnata alla fine che le avrebbero imposto, anche il capo del gruppo
maturò il desiderio di un confronto diretto con lei. E dove, sino a quel
momento, forse più pavido o forse meno impulsivo rispetto ai propri
uomini, egli si era mantenuto a distanza di sicurezza dall’azione, di fronte
a tale immagine decise finalmente di avanzare verso la propria
prigioniera, ritrovando parola e dimostrandosi di nuovo in grado di
comporre frasi di senso compiuto e non più in ordini costituiti da una
sola, ripetitiva, parola.
Tale frase, però, restò in sospeso, bloccata per l’eternità nella propria
conclusione: accogliendo, infatti, volentieri la premura della controparte,
del proprio nemico, la donna guerriero scagliò allora, senza preavviso
alcuno, la sciabola appena conquistata contro di lui, quasi fosse un
pugnale da lancio, andando in tal modo a trapassarne il petto e
stroncando, in ciò, ogni ulteriore azione, ogni possibile desiderio, ogni
eventuale reazione.
E nel mentre in cui gli occhi di quell’uomo sbiancarono, segno di una
vita giunta al termine, di un anima in distacco dal proprio corpo, il suo
sangue, caldo e viscoso, fuoriuscì in lenti rigagnoli dalla bocca e dal naso,
su un volto contratto a delineare una espressione di chiara incredulità per
quanto accaduto, per la rapidità della morte da lui stesso invocata e, per
mano della donna, divenuta realtà.
Agli occhi di un abitante del regno di Kofreya, così come per molte altre
nazioni con simile carattere culturale, con il termine “harem” sarebbe stato
inteso, semplicemente, una sorta di gineceo, forse l’unico spazio riservato
alle donne all’interno di una cultura esageratamente maschilista, di una
MIDDA’S CHRONICLES 189
fede che non avrebbe previsto alcuna forma di libertà, alcuna possibilità di
autodeterminazione per coloro che avessero avuto la sfortuna di
appartenere al genere sessuale femminile. Simile percezione, errata, era
tale al punto da far essere l’harem, al contempo, odiato e desiderato: se,
infatti, nel profondo dell’animo, là dove nessun uomo avrebbe potuto
mentire a se stesso, esso si poneva pari a un sogno erotico proibito, nel
desiderio, forse maniacale e sicuramente egocentrico, di poter essere
dominatore su troppe donne, sapendole votate unicamente alla
soddisfazione dei propri desideri più intimi, delle proprie perversioni;
all’esterno, nel confronto con la quotidianità e le proprie naturali ipocrisie,
una larga parte del continente di Qahr non avrebbe mai fatto a meno di
condannare a furor di popolo l’immagine, il concetto offerto da quella
parola, tacciandolo senza vergogna per tutte quelle colpe che in suo
contrasto erano addotte, non in conseguenza di una reale consapevolezza,
di una concreta esperienza, ma semplicemente della malizia celata e pur
presente nello sguardo dell’osservatore, e inquisitore, di tale realtà.
Agli occhi di un abitante del regno di Y’Shalf, così come di molte altre
nazioni contaminate dagli estremismi religiosi derivanti da Far’Ghar, dalle
sue tradizioni, dalla sua cultura esportata attraverso le proprie carovane
mercantili, l’harem sarebbe dovuto essere considerato, meno banalmente,
quale un’area protetta riservata alle giovani figlie delle famiglie più nobili
e influenti del regno, le discendenti dei numerosi visir, nonché dello stesso
sultano, allo scopo di mantenerle lontane da una realtà inadatta a loro, alla
loro innocenza e fragilità. Senza il rischio di subire abusi e violenze da
parte degli elementi peggiori del mondo maschile, esse sarebbero potute
crescere in salute e serenità, venendo educate secondo i dettami della fede,
quei principi quasi di legge che le avrebbero rese, un giorno, mogli
perfette per gli aristocratici mariti alle quali sarebbero state destinate. In
ciò, salvo un diverso approccio, una base di concetto estranea da quella
altresì considerata dai propri vicini, molti giudizi negativi esprimibili a tal
riguardo, non si sarebbero dimostrati del tutto gratuiti. Gli harem,
purtroppo, in tal considerazione, finivano per essere realmente baluardi di
un sistema di discriminazione sessuale, dell’imposizione di un potere
patriarcale su tutte le donne, negando loro ogni diritto personale, persino
quello a mostrare liberamente il proprio volto, la propria immagine al
mondo intero, e, nei casi peggiori, essi fungevano addirittura quali riserve
per i giovani rampolli delle famiglie nobiliari, al fine di poter scegliere al
loro interno mogli e concubine quasi fossero bestiame a una fiera.
Agli occhi di un abitante del regno di Shar’Tiagh, così come a quelli di
poche province a esso prossime e aventi in comune una medesima cultura
e storia, attorno all’harem sarebbe, infine, dovuto essere associato un terzo
valore, il solo che, effettivamente, sarebbe dovuto essere considerato quale
MIDDA’S CHRONICLES 339
«Dei… fate che questo scempio non sia colpa nostra.» sussurrò egli.
«Nell’ipotesi che riesca a riprendersi, potrà essere ella stessa a dirci chi
sia e cosa le sia accaduto…» commentò Y’Ahalla, in risposta alla domanda
postagli «… sempre ammesso che possa esserci gradito scoprire la verità
celata dietro al suo stato.» aggiunse, poi, condividendo con il proprio
comandante e amico i timori che già aveva avuto modo di esprimere
rivolgendosi alle proprie divinità.
«Non ho mai tollerato certi comportamenti e mai li tollererò.» negò
l’altro, scuotendo il capo innanzi a tale affermazione «Se dalle sue labbra
emergerà qualche accusa a carico dei nostri giovani, sarà mia premura
impegnarmi affinché possano essere puniti secondo la legge.»
«La legge…?!» intervenne, disorientato, il giovane Sa’Meehr, temendo
di non comprendere le parole del proprio comandante.
«Nessuno fra noi deve commettere l’errore di sentirsi superiore alla
legge, per quanto proprio contro coloro che ne hanno le sorti fra le mani ci
impegniamo a combattere ogni giorno. Non l’anarchia è quanto da noi
MIDDA’S CHRONICLES 349
ricercato… solo la pace. E la pace non può tollerare stupri e violenze.»
espresse Ra’Ahon, con serietà assoluta nei confronti del ragazzo
«Ricordalo bene e rammentalo anche a tutti i tuoi compagni, se mai vi
ritrovaste nell’opportunità di decidere sulla vita di una giovane indifesa,
per quanto a noi avversa.»
«Il mio nome è Al’Ehir.» si presentò, nel corso di uno dei molteplici
piccoli pasti della fanciulla, impegnata ancora ad assumere lentamente il
latte di capra presentatole innanzi alla bocca attraverso il panno umido
«Sono un cerusico, come avrai forse intuito.»
«Fath’Ma…» rispose la giovane, tentennando sul proprio nome,
ancora priva di un completo controllo sulla propria voce «… mi chiamo…
Fath’Ma.»
«E’ un piacere conoscerti, Fath’Ma.» sorrise egli, dimostrandosi
sincero in quell’affermazione come in ogni altra offertale «Hai per caso
cognizione del luogo in cui ti trovi e di come sei arrivata fino a noi?»
aggiunse poi, con intento in parte retorico, non attendendosi da parte sua
una qualche reazione positiva in tal senso.
La giovane, confermando tale ipotesi, scosse il capo, negando tale
conoscenza, dal momento in cui, date le condizioni in cui era giunta a loro,
ogni altra possibilità sarebbe stata paradossale.
«Sei in un campo della guerriglia… nelle colline fra Y’Lohaf e i monti
Rou’Farth.» le presentò, senza mezzi termini, nell’adempiere in ciò anche
a una richiesta di Ra’Ahon, nel cercare di comprendere qualcosa in più in
merito alla donna ancor prima dell’inevitabile incontro formale fra i due.
354 Sean MacMalcom
Ed ella, semplicemente, restò in silenzio, a succhiare il proprio latte
con lentezza, concedendosi ancora troppo dominata dalla stanchezza e da
emozioni contrastanti per offrire una qualsivoglia possibilità di
interpretazione utile a tal riguardo.
Parole forti quelle gettate come pietre contro di noi, che in quel
momento non apprezzai, considerandole semplicemente l’ennesima
riprova di quanto sottolineato fino a poco prima. Ripensando ora a quei
momenti, però, non posso evitare di accorgermi di come simile reazione fu
tutt’altro che sconsiderata, ben lontana dall’essere frutto di un’impulsività
derivante da un fuggevole istante di eccessiva eccitazione.
Midda Bontor, nel proporsi quale nostra carceriera, pur assumendosi
uno spiacevole ruolo, un disgraziato fardello, aveva anche imposto, sopra
alla piccola compagnia così formatasi, la quiete, calmando animi fra loro
troppo contrapposti per poter convivere senza una costrizione a tal
riguardo. E candidandosi qual bersaglio tanto per il mio rancore, quanto
per quello, addirittura, della sua stessa complice, originale vittima, ella
aveva anche, volontariamente, posto entrambe su un medesimo piano,
azzerando ogni possibile privilegio o difetto preesistente, tale per cui
avremmo potuto continuare a discutere, a confrontarci in maniera dispari,
indebolendoci vanamente l’un l’altra, invece di essere compagne innanzi a
un destino comune, come grazie a lei eravamo diventate.
Così fu, e non solo per una sera quanto, piuttosto, per tutte quelle che
seguirono a quel giorno: forte di un carico di esperienze fuori dal comune,
ella non si pose infatti eccessivi imbarazzi nel condividerle con noi, senza
seguire un qualche ordine cronologico, una qualche logica, ma saltando di
giorno in giorno a momenti diversi della propria esistenza.
In verità, penso che il suo scopo in tali discorsi fosse quello di
concedere, tanto a me quanto all’aristocratica, occasione di conoscerla, di
entrare maggiormente in comunione con la sua vita, con le sue emozioni,
per riuscire a inquadrarla al di fuori di eventuali preconcetti, avendo
occasione così di vederla non tanto quanto una nemica, una straniera
giunta a noi solo in esecuzione di ordini ricevuti, quanto qualcosa di più,
forse addirittura una compagna di antica data. E se tale, realmente,
sarebbe dovuto essere giudicato il suo scopo, il suo intento, non posso
evitare di riconoscerle, in questo momento, un chiaro successo: sebbene la
furia, il risentimento nel mio cuore non fosse venuto ancora meno, non si
fosse placato, nell’ascoltare le cronache della sua vita dalla sua stessa voce,
non enfatizzate nei canti di un bardo, non esaltate nei versi di una ballata,
non riuscii a evitare di essere ammaliata dal suo carisma, affascinata dalla
sua figura in quanto assolutamente umana, non divina o quasi tale.
Sicuramente da quelle storie, da quei racconti, quella emersa fu
l’immagine di una donna in grado di raggiungere e superare traguardi
innanzi ai quali la maggioranza di noi, comuni mortali, non avrebbero mai
osato neppure spingere i propri pensieri più sfrenati, ma in questo ella
non si è mai dimostrata qualcosa di diverso da, appunto, una comune
mortale. Nell’affrontare il fuoco vivo della terra in un tempio votato alla
fenice, così come nello spingersi contro negromantiche creature di ogni
risma, ella aveva sempre dimostrato di essere incredibilmente coraggiosa,
estremamente tenace, ma pur, comunque, una donna mortale,
consapevole dei propri limiti, conscia della perpetua imminenza della
morte su di sé, sul proprio destino. Al contrario rispetto alla maggioranza
di tutti noi, che, nel rifiutare di vivere per timore di morire, tendiamo a
rinchiuderci solitamente in un piccolo mondo che consideriamo perfetto,
per quanto esso lo sia più a livello psicologico che reale, Midda Bontor ha
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tuttavia sempre usato la percezione di simile letale ombra sul proprio fato,
un appuntamento certo al quale nessuno, in fondo, potrebbe mai sottrarsi,
per trovare una fonte illimitata di energia vitale, nella volontà di non
lasciare neppure un singolo istante della propria esistenza come sprecato.
Come non essere conquistata da simile immagine, da tale figura, pur
sicuramente colma di difetti, tutt’altro che immune a errori?
Io non vi riuscii e, così, inconsciamente, senza aver compiuto un
concreto ragionamento a tal proposito, senza aver preso una decisione
esplicita in tal senso, iniziai a ignorare ogni sentimento avverso prima
provato verso la mercenaria. E proprio in conseguenza di tale affezione,
ritrovata verso di lei nonostante tutto quello che era accaduto, quando fu
necessaria una sosta in un centro abitato, l’ultimo piccolo paese sul
limitare dei monti, io decisi di collaborare con colei che avrei dovuto
considerare quale mia rapitrice, accettando di reggere il gioco che ella
volle porre in essere nel concederci quella tappa, al solo scopo di
acquistare abiti adatti al passaggio fra i monti, nonché una scorta di viveri
con i quali caricare il nostro asino, fedele compagno in quell’avventura per
quanto, anch’esso, sottratto con la violenza alla propria consueta vita.
Avrei potuto denunciarla alle autorità locali, evadere da lei senza
alcuna fatica, eppure collaborai, diventando complice della mia ipotetica
carnefice, nel recitare alla perfezione il ruolo assegnatomi e nel concedere
il completo successo della nostra visita a quell’ultimo faro di civiltà prima
del nulla assoluto rappresentato dai monti Rou’Farth.
Difficile sarebbe stato non essere spiazzata all’idea che una signora del
rango della principessa si fosse proposta in maniera del tutto spontanea
nell’offrire il proprio aiuto a una serva, anziché richiederlo dalla
medesima. E per quanto negli ultimi giorni i rapporti fra noi si fossero
placati, vedendoci semplicemente essere quali donne, compagne, complici
MIDDA’S CHRONICLES 523
«Be’Sihl…?»
«Chi… cosa…?»
«Chi?!»
Un grido che esplose dal profondo del suo animo, dirompendo nello
spazio pur non eccessivo della stanza e rimbombando in essa quale un
ruggito, carico di una forza contro la quale alcun mortale avrebbe mai
voluto avere a che fare, alcun mortale avrebbe mai cercato confronto.
Alcun mortale…
«Quanta enfasi, mia sposa… vedo il tuo corpo fremere alla ricerca del
mio.» la beffeggiò il Figlio di Kah, continuando a ridere nel non aver
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motivo per temere quell’irruenza, quella foga che avrebbe privato di
coscienza chiunque altro nel confronto con lei «Tanto ardore potrebbe
commuovermi…»
«Muori, maledetto! Muori!» replicò ella, lasciando ricadere la lama
della propria spada bastarda contro le sue carni, senza alcuna incertezza,
senza ombra di pietà, desiderando solo vendicare l’amore perduto, l’uomo
ucciso nel suo letto.
… ma quel momento venne loro negato, dove, per quanto ella stessa
fosse, ora più che mai, bramosa di quel calore, ardente al pensiero di
quell’unione con colui che da sempre si era ostinata a ritenere solo un
amico, un’immagine riaffiorò violenta alla sua attenzione, frantumando,
nell’orrore del sangue e della morte, la meraviglia del quadro così creatosi.
«Lo dirò solo una volta… e ti invito a farne tesoro prezioso per il bene
del futuro del nostro rapporto: evita questo atteggiamento di meraviglia
ogni volta che ti capita di vedermi nuda.» suggerì al proprio ospite,
tirandosi indietro e invitandolo, ora, ad avanzare, dal momento in cui,
chiaramente, egli doveva essere giunto fino a lei con tanta irruenza solo
per questioni serie e non per un semplice saluto «Ormai dovresti
conoscere a sufficienza come sono fatta e, sinceramente, le tue scene mute
stanno iniziando a diventare ripetitive…»
Un fanciullo, poco più che ragazzo e ben lontano dal potersi definire
quale uomo, era colui al quale ella si stava rivolgendo: ancora immobile
sulla porta di quella stanza, egli dimostrava in maniera estremamente
palese la propria giovane età, in un viso ancor morbido, quasi
tondeggiante, non ancora indurito dall’età e dall’esperienza, sebbene la
sua infanzia fosse trascorsa nelle strade più pericolose di tutto il regno di
Kofreya, se non di quell’intera estremità del continente… quelle della
stessa Kriarya. Al centro del suo volto, sopra a labbra sottili e a un naso
appena schiacciato, due grandi occhi verdi sembravano pur impazienti di
comprendere il mondo a loro circostante, in una continua scoperta tipica
più di un bambino che di un giovane uomo. La sua esistenza, invero, fino
a pochi mesi prima, all’incontro con la stessa mercenaria, era stata vissuta
in un’illusione di vita, dove egli aveva sempre preferito limitarsi al ruolo
di spettatore più che di attore, di protagonista. In ciò, pertanto, il giovane
si sarebbe potuto considerare particolarmente immaturo, soprattutto nel
confronto con l’animo proprio molti altri ragazzi suoi coetanei e
concittadini, i quali si concedevano, già da tempo, impegnati nel ruolo di
sicari, attivi e operanti, tutt’altro che animati da quello stesso spirito di
innocente curiosità, di bramosia di scoperta.
Arruffati capelli castani, a contorno di un’epidermide appena scurita
dall’effetto del sole, si concedevano stretti nell’azione di un fazzoletto di
stoffa violacea, utile a offrire agli stessi una parvenza di ordine dove,
altrimenti, solo anarchia avrebbe lì regnato sovrana. Quel copricapo, in
verità richiamante una moda pur tipica di molti marinai, non era il solo a
caratterizzarne similmente l’abbigliamento: a esso, infatti, avrebbero
dovuto essere aggiunte una casacca bluastra priva di maniche, e
ampiamente aperta sul torace, per quanto tutt’altro che estremamente
virile o muscoloso, una fascia gialla, stretta attorno alla vita, nonché
pantaloni nuovamente tendenti a tonalità di viola, per quanto diverse da
quelle dello stesso fazzoletto. Un abbigliamento, quello sì costituito, che
per quanto avrebbe evidentemente voluto emulare una qualche parvenza
marinaresca attorno alla figura del suo proprietario, non avrebbe altresì
mancato di tradirlo nell’osservare i suoi stessi piedi, dove essi, infatti, si
presentavano stretti in robusti stivali di cuoio neri. Considerabili, questi
ultimi, forse indispensabili per affrontare comodamente la terraferma, essi
sarebbero stati abiurati da qualsiasi vero figlio del mare, paragonabili alla
peggiore delle torture loro adducibili, nel preferire, altresì, l’utilizzo di
sandali, decisamente più comodi da indossare e rapidamente sfilare, a
548 Sean MacMalcom
concedere in tal modo al nudo piede un contatto autentico con il legno del
ponte di una nave. In effetti, egli era quanto di più lontano potesse esistere
da un figlio del mare, nonostante nel proprio vestiario avesse voluto
lasciarsi candidamente influenzare dall’ultima, e unica, avventura vissuta
insieme alla donna guerriero, nel corso della quale aveva lasciato, per la
prima volta, i confini della città del peccato per spingersi, addirittura, ad
affrontare i misteri e i pericoli delle immense distese d’acqua.
A completare il quadro, quantomeno originale, così da lui offerto in
quel momento all’attenzione, effettivamente scarsa nei suoi stessi riguardi,
della propria anfitrione, poi, sarebbero dovute essere considerate una
borsa di pelle marrone scuro, indossata a tracolla, e due lunghe coperture
poste a protezione delle sue stesse braccia: in stoffa scura, strette da un
intreccio di lacci bluastri, esse incominciavano il proprio cammino
all’altezza delle dita delle mani, per giungere, più in alto, poco sotto le
spalle lasciate nude dalla particolare casacca scelta.
Ringraziamenti
Sean MacMalcom
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Prossimamente…
MIDDA’S CHRONICLES
VOLUME QUARTO
Non fingiamo di essere nulla di più di ciò che siamo, non ci arroghiamo il
diritto di ambire a nulla di più di ciò che la libertà di Internet ci consente
di cercare: non crediamo di essere grandi scrittori, non vogliamo cambiare
il mondo con ciò che scriviamo. Semplicemente seguiamo un interesse,
con passione e umiltà, accogliendo a braccia aperte chiunque voglia unirsi
a noi in questo cammino.
http://newwavenovelers.altervista.org/
694 Sean MacMalcom
Midda Bontor:
donna guerriero per vocazione,
mercenaria per professione.
MIDDA’S CHRONICLES
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