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modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore.
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1865
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1865
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1866
The Bridge, 1635
The Bridge, 1866
The Bridge, 1635
Londra, 1866
The Bridge, 1635
The Bridge, 1866
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1866
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1866
The Bridge, 1635
The Bridge, 1866
Ospedale di St Joseph
Ringraziamenti
A Juliet
Ospedale di St Joseph
—
Ci vollero due piani di scale prima di perdere di vista le travi del salone ed
emergere su un pianerottolo. Erano accese soltanto poche lampade, che a
tratti mandavano una fiammata rivelando una tappezzeria in damasco rosso.
«Da questa parte» disse Jolyon svoltando a sinistra.
Elsie lo seguì sollevando a ogni passo nuvolette di polvere, mentre la
gonna umida sfiorava i tappeti. Il corridoio aveva un’aria di squallida
grandeur. Contro le pareti si annidavano divani foderati di tela gobelin e tra
l’uno e l’altro spiccavano dei busti in marmo scheggiato. Erano orribili e la
guardavano con espressioni morte, mentre le loro ombre strisciavano sugli
zigomi e sprofondavano nelle orbite dei loro occhi. Non riconobbe nessuno
scrittore o filosofo famoso. Che fossero i precedenti proprietari di The
Bridge? Indagò quelle facce impassibili alla ricerca di una somiglianza con
Rupert, ma non ne trovò.
Jolyon girò a destra e poi di nuovo subito a sinistra. Si ritrovarono di fronte
a una porta ad arco. «Questa è la suite degli ospiti» spiegò lui. «Ho pensato
che sarebbe stata comoda per lei, signorina Bainbridge.»
Sarah sbatté le palpebre. «Una suite, tutta per me?»
«Esatto.» E le rivolse un sorrisetto tirato. «Il suo baule è dentro. Io dormo
in fondo al corridoio, vicino alle scale della servitù.» Fece un gesto con il
braccio. «La signora Bainbridge starà in una suite identica nell’altra ala.»
Elsie sgranò gli occhi. Una suite identica. Era davvero scesa a quel livello?
«Che meraviglia. Saremo proprio come gemelle.» Cercò di non far trapelare
l’acidità del tono, ma non ci riuscì.
«Ora mi sistemo» disse Sarah, in imbarazzo. «E poi vengo ad aiutarla a
vestirsi, signora Bainbridge.»
«Si prenda tutto il tempo che le serve» disse Jolyon. «Ora faccio vedere a
mia sorella la sua stanza. Poi ceneremo insieme.»
«Grazie.»
Afferrando Elsie per il braccio, la costrinse a seguirlo da dov’erano venuti.
«Non devi trattare Sarah come una serva» borbottò.
«Non lo faccio, infatti, visto che non lavora per guadagnarsi da vivere. È
una zitella che è qui grazie alla mia generosità, no?»
«Era l’unica parente che Bainbridge aveva.»
Elsie gettò indietro la testa. «Non è vero. La famiglia di Rupert ero io. Ero
io la sua parente più prossima.»
«Oh, sì, e sei riuscita a convincerlo bene.»
«E con questo cosa vorresti dire?»
Jolyon rallentò e si fermò. Si guardò alle spalle, per controllare che non ci
fossero domestici che indugiavano nell’ombra. «Scusami. È stato volgare da
parte mia. Non è colpa tua. Ma credevo che prima del matrimonio io e
Bainbridge ci fossimo accordati su cosa sarebbe successo esattamente in
questa situazione. È stato un patto tra gentiluomini. E invece Bainbridge…»
In Elsie crebbe il disagio. «Cosa intendi?»
«Non te l’aveva detto? Un mese prima della sua morte ha cambiato il
testamento. Me l’ha letto il suo notaio.»
«E cosa diceva?»
«Ha lasciato tutto a te. Tutto. La casa di Londra, The Bridge, la sua quota
della fabbrica di fiammiferi. Nessun altro beneficiario.»
Ma certo. Un mese prima: quando lei gli aveva detto del bambino.
E pensare che dopo tutto quello che aveva passato era riuscita a sposare un
uomo premuroso, prudente… e l’aveva perduto. Che sbadata, avrebbe detto
la mamma. Tu fai sempre così, Elisabeth.
«Trovi strano che abbia cambiato il testamento? Sono sua moglie e ho in
grembo suo figlio. Io lo trovo un accorgimento perfettamente naturale.»
«E lo sarebbe. Se fossero passati un paio d’anni non avrei avuto nulla da
obiettare.» Scuotendo la testa, proseguì lungo il corridoio.
Lei cercò di stargli dietro, incapace di concentrarsi sulla strada; le pareti
rosso vino sembravano gonfiarsi come tende. «Non capisco. Rupert si è
comportato come un angelo. Questa è la risposta alle mie preghiere.»
«No, non lo è. Rifletti, Elsie, rifletti! Da fuori, come appare? Un uomo che
tutti pensavano votato a una vita da scapolo sposa una donna più giovane di
dieci anni e investe nella fabbrica di suo fratello. Cambia il testamento e la
rende la sua unica erede. Poi, soltanto un mese dopo, muore. Un uomo che
pareva forte come un bue muore, e nessuno sa perché.»
Nel petto le si formarono dei cristalli di ghiaccio. «Non essere ridicolo.
Nessuno vuole insinuare…»
«Oh, lo stanno insinuando eccome, te lo garantisco. E lo stanno anche
dicendo in giro. Pensa alla fabbrica di fiammiferi. Pensa al mio buon nome!
Sono io che devo reggere il timone in questa tempesta di pettegolezzi, e da
solo.»
Elsie barcollò. Ecco perché Jolyon aveva voluto che andasse in campagna,
ecco perché si era rifiutato di riportare a Londra il corpo di Rupert per la
sepoltura: scandalo.
Se lo ricordava, l’ultimo scandalo. I poliziotti con i loro elmetti di ferro che
si appuntavano dichiarazioni. I sussurri che la seguivano come uno sciame di
mosche e quegli sguardi famelici, aguzzi. Era andato avanti per anni. E ce ne
sarebbero voluti altrettanti perché svanisse.
«Santo Dio, Jo. Quanto dovremo restare in questo posto, il bambino e io?»
Lui fece una smorfia e per la prima volta Elsie si rese conto del dolore che
gli scintillava negli occhi. «Maledizione, ma che cos’hai? Ti sto parlando di
una macchia sul tuo nome, sulla fabbrica, e tu riesci solo a pensare a quanto
starai lontana da Londra. E Rupert ti manca mai?»
Le mancava come l’aria. «Sai benissimo che mi manca eccome.»
«Be’, devo dire che sei bravissima nel nasconderlo. Era un uomo buono,
un uomo eccezionale. Senza di lui avremmo perduto la fabbrica.»
«Lo so.»
Lui si fermò in fondo al corridoio. «Questa è la tua camera. Forse una volta
che ti sarai sistemata avrai la decenza di piangerlo.»
«Lo sto piangendo» sbottò lei. «Però lo faccio in maniera diversa da te.»
Lo scostò, spalancò la porta e poi se la sbatté alle spalle.
Chiuse gli occhi e si appoggiò al battente, i palmi appiattiti sul legno, poi
espirò e scivolò sul pavimento. Jolyon era sempre stato così. Non doveva
prendere alla lettera le sue parole. Aveva dodici anni meno di lei ed era stato
sempre libero di sentire, di piangere. Era stata Elsie quella che aveva tenuto
duro. E non era forse lì il senso di tutto questo? Mantenere Jolyon all’oscuro
di quanto lei aveva sofferto?
Dopo qualche minuto riacquistò la padronanza di sé. Si strofinò la fronte e
aprì gli occhi. Aveva davanti una stanza pulita e luminosa con finestre su due
lati, una rivolta verso il semicerchio di alberi rossastri che circondavano la
casa e l’altra orientata verso l’ala ovest, dove dormiva Sarah. I suoi bauli
erano ammucchiati in un angolo. Nel caminetto crepitava il fuoco ed Elsie
vide con sollievo che lì accanto c’era un portacatino. Dalla brocca si levavano
volute di vapore. Acqua bollente.
Sentì distintamente all’orecchio la voce della mamma. Che ragazzina
sciocca, a fare tante storie. Laviamo via tutti quei brutti pensieri.
Si rimise in piedi, si tolse i guanti e andò a spruzzarsi un po’ d’acqua in
viso. Le passò subito il bruciore agli occhi e l’asciugamano che usò per la
pelle era meravigliosamente morbido: quel posto poteva anche avere dei
difetti, ma non era certo colpa della governante.
Contro la parete opposta incombeva un enorme letto a baldacchino in
palissandro, su cui erano stese lenzuola color crema ricamate a fiori. Poi c’era
la toletta, con lo specchio a tre ante velato di stoffa nera. Sospirò. Era il primo
specchio che vedeva da quand’era partita dalla stazione. Era arrivato il
momento di valutare i danni di quel ruzzolone nel fango.
Rimise l’asciugamano sulla bacchetta, si avvicinò e sedette sullo sgabello.
Scostò la stoffa nera. Era una superstizione assurda: coprire gli specchi per
impedire ai morti di restare intrappolati. Nel vetro non c’era niente, a parte tre
donne dai capelli biondi con gli occhi castani, tutte e tre in condizioni pietose.
Il velo impalpabile le svolazzava sulla nuca come un corvo impigliato in una
rete. Aveva la fronte circondata da ricci scompigliati dal vento e, nonostante
il rapido lavacro, sulla guancia destra era rimasta una macchia di fango. Elsie
grattò fino a farla sciogliere. Grazie a Dio si era rifiutata di incontrare la
servitù.
Lentamente sollevò le braccia stanche per togliersi cappello e cuffietta e
iniziò il lungo procedimento di sfilarsi le forcine dai capelli. Le sue dita non
erano più agili come una volta, ormai si era abituata a lasciar fare a Rosie. Ma
Rosie e tutte le comodità della sua vita passata erano lontane mille miglia.
Una forcina si impigliò in un nodo e la fece sussultare. Lasciò ricadere le
mani, irritata in maniera eccessiva per quel piccolo contrattempo. «Com’è
potuto succedere?» domandò alle donne trasandate che aveva davanti. Non
ottenne risposta.
Lo specchio era freddo e duro. Non conteneva la sposa graziosa e
sorridente che aveva visto fino a poco tempo prima. Senza preavviso, la
memoria portò a galla un ricordo: Rupert, in piedi alle sue spalle quella prima
notte, che le spazzolava i capelli. La sua espressione orgogliosa, i lampi
argentei della spazzola. Una sensazione di calore e fiducia, così rara, aveva
pensato contemplandone l’immagine specchiata. Avrebbe potuto amarlo.
Il matrimonio era un contratto d’affari, stipulato per assicurarsi
l’investimento di Rupert nella fabbrica di fiammiferi, ma quella notte l’aveva
guardato con sincerità e si era resa conto che avrebbe potuto imparare a
volergli bene. Con il tempo. Purtroppo, il tempo era l’unica cosa che non
avevano avuto.
Qualcuno bussò alla porta facendola trasalire.
«Bottoni?» La voce di Sarah.
«Sì. Entra.»
Sarah si era cambiata e al posto dell’abito da viaggio ne indossava uno da
sera che aveva visto giorni migliori. Era stato tinto di nero ma in maniera
irregolare, a macchie. Era quasi impresentabile, ma almeno si era acconciata
quei capelli color topo. «Ha scelto un vestito? Potrei chiedere a una delle
cameriere se c’è un ferro…»
«No. Per favore, tirami fuori una camicia da notte.» Se Jolyon la voleva in
lutto, l’avrebbe accontentato. Si sarebbe comportata esattamente come aveva
fatto lui, dopo la mamma. Così avrebbe imparato. Avrebbe capito quant’era
irritante e inutile che lei si chiudesse di sopra a piagnucolare.
L’immagine di Sarah riflessa nello specchio si tormentava le mani. «Ma…
la cena…»
«Io non scendo. Non ho appetito.»
«Ma… ma io non posso cenare sola con il signor Livingstone! Cosa
direbbe la gente? Ci conosciamo appena!»
Seccata, Elsie si alzò e andò a prendersi da sola una camicia da notte.
Sarah era davvero stata una dama di compagnia? Avrebbe dovuto evitare di
starsene lì a discutere con la sua padrona. «Che assurdità. Vi sarete parlati al
matrimonio.»
«Io al suo matrimonio non c’ero. La signora Crabbly era malata. Non se lo
ricorda?»
«Oh.» Elsie recuperò una camicia da notte dal baule e si accertò di avere
l’espressione giusta prima di girarsi. «Certo che no. Devi perdonarmi. Quel
giorno…» Guardò la camicia di cotone bianco che aveva in mano. «Tutto si
confonde in una nebbia di felicità.»
Pizzi di Honiton, fiori d’arancio. Non aveva mai pensato che sarebbe
diventata una sposa. Dopo i venticinque anni, una donna mette da parte certe
fantasie. Per Elsie, quella prospettiva era ancora meno probabile. Aveva
rinunciato a trovare qualcuno di cui potersi fidare, ma Rupert era diverso.
C’era qualcosa nell’aria che lo circondava, un’aura di innata bontà.
«Capisco» disse Sarah. «Ora venga qui. Adesso diamo un’occhiata a quel
vestito.»
Elsie avrebbe voluto cambiarsi da sola, ma non ebbe scelta. Non poteva
certo dire alla cugina di Rupert che possedeva un allacciabottoni: era un
accessorio che usavano soltanto le prostitute.
Sarah lavorava con destrezza, le sue dita si muovevano sulle spalle di Elsie
e giù fino alla vita come una pioggerellina impalpabile. L’abito le cadde nelle
mani con un fruscio. «Che materiale finissimo. Spero che il fango venga via
lavandolo.»
«Forse puoi farmi un favore e portarlo di sotto. Per una corona, ci sarà pure
una sguattera in grado di metterlo nel paiolo senza raccontarlo a nessuno.»
Sarah annuì. Ripiegò l’abito e se lo strinse al petto. «E… il resto?» Lanciò
uno sguardo schivo all’intelaiatura di sottovesti, molle d’acciaio e cerchi in
cui Elsie era racchiusa. «Riuscirà a cavarsela…?»
«Oh, sì.» Imbarazzata, Elsie toccò i nastri che tenevano legata la crinolina.
«Non ho sempre avuto una cameriera personale, sai.»
Furono il silenzio e l’immobilità di Sarah a farle accapponare la pelle.
Aveva gli occhi fissi sul suo punto vita, sgranati, più scuri e stranamente
luccicanti.
«Sarah?»
La ragazza si riscosse. «Sì. Molto bene. Vado.»
Elsie si osservò, confusa. Cos’aveva suscitato quello sguardo? Poi se ne
rese conto con un sussulto doloroso: le sue mani. Si era sfilata i guanti per
lavarsi il viso e ne aveva rivelato tutta la squamosa bruttezza. Erano mani
indurite dal lavoro, dalla fabbrica. Non erano mani da signora.
Ma prima che potesse dire qualcosa in sua difesa, Sarah aveva aperto la
porta ed era uscita.
Ospedale di St Joseph
—
Comparve durante la notte. Lei lo vide non appena sollevò la testa dal
cuscino e si strofinò gli occhi cisposi. Alieno. Sbagliato.
Scese barcollando dal letto, i piedi si posarono sulla superficie gelida del
pavimento. Socchiuse gli occhi. Guardarlo faceva male, c’era troppa luce, ma
non osò distogliere lo sguardo. Giallo. Marrone. Linee e forme turbinanti.
Era arrivato a sua insaputa. Se avesse guardato altrove, si sarebbe mosso di
nuovo? Anche se era muto ebbe l’impressione che urlasse, che le esplodesse
dentro la testa.
Non poteva tornare a dormire; doveva tenerlo a bada. La luce del giorno
filtrava dalle finestre collocate in alto, cruda e calcinata, come le pareti. I
raggi strisciarono sul pavimento, e poi la sorpassarono. Finalmente la porta si
aprì con un clic.
«Signora Bainbridge.»
Era il dottor Shepherd.
Senza voltarsi, lei sollevò la mano tremante e tese l’indice.
«Oh. Ha visto il quadro.» Le si mise accanto, con un lieve spostamento
d’aria. «Spero che le piaccia.»
Il silenzio si prolungò.
«Rischiara questo posto, non trova? Ho pensato che, dal momento che non
le è permesso accedere alla sala comune e al cortile esterno come agli altri
pazienti, forse gradiva un po’ di colore.» Pareva a disagio. «Il nostro ospedale
sta prendendo proprio questa direzione. Non vogliamo più costringere i
pazienti a vivere in celle spoglie. Questo è un luogo di recupero e deve
contenere elementi allegri e stimolanti.»
In quel frangente capì che cosa aveva cercato di ritrarre l’artista: una
nursery. Un luogo pieno di sole in cui una madre scrutava teneramente dentro
una culla. Aveva un abito che sembrava una giunchiglia, i capelli parevano
oro filato. Sul tavolo accanto al bambino c’era un vaso pieno di rose bianche.
«Ma… il quadro la turba, signora Bainbridge?»
Lei annuì.
«E perché mai?» Il dottore andò a prendere la lavagnetta, le scarpe
scricchiolarono. Per scrivere la sua storia era meglio la matita, ma gesso e
lavagna rendevano più facile la conversazione. Lui glieli mise in mano. «Mi
spieghi.»
Ancora. La stava dissezionando, un pezzetto alla volta. Probabilmente era
questo che aveva in mente. Strapparle ogni centimetro di sé: un’altra
confessione, un altro ricordo, fino all’esaurimento.
Arrivavano già di notte: sogni che in realtà erano squarci di una vita
precedente. Paesaggi di sangue, legno e fuoco. Non li voleva. Quanto indietro
nel suo squallido passato doveva tornare prima che lui la considerasse
squilibrata e la lasciasse in pace?
«Non le piacciono i colori? Non le rallegra lo spirito, non le ricorda giorni
migliori?»
Lei scosse la testa. Giorni migliori. Dava per scontato che li avesse avuti.
«Mi dispiace di averle causato sofferenza. Mi creda, la mia intenzione era
solo di farle piacere.» Sospirò. «Vuole sedersi? Quando avremo finito farò
portare via il quadro.»
Con lo sguardo puntato a terra, lei tornò faticosamente al letto e si sedette,
stringendo forte gesso e lavagna come se fossero armi. Come se potessero
difenderla.
«Non se la prenda per questa piccola sconfitta» disse. «Io sono contento
dei suoi progressi. Ho letto quello che ha annotato. Vedo che ha seguito il
mio consiglio e ha scritto come se quelle cose fossero capitate a qualcun
altro.» Non riusciva a guardarlo; sentiva fortemente la presenza del quadro,
appeso al muro. Le pennellate, la cornice. Lui emise una risatina forzata. «La
memoria è una facoltà ingannevole. Sono buffi i dettagli che ha ricordato, sa?
Quella vacca…»
Lei prese in mano il gesso, ancora esitante. LA VACCA NON ERA
BUFFA PER NIENTE.
Lui chinò la testa. «Non intendevo… voglia perdonarmi. È stato sbagliato
ridere, da parte mia.»
SÌ.
Ma in realtà gli invidiava quella risatina. Gli invidiava che potesse ancora
ridere.
Risate, conversazioni, musica: tutte cose che le sembravano cimeli, attività
che potevano avere intrapreso i suoi antenati, tanti anni prima, ma che per lei
non avevano alcun significato.
Guardò di nuovo la scrivania.
«La vedo fissare intensamente la scrivania. Cos’è che la disturba?»
Le dita le tremavano mentre scriveva. LEGNO.
«Legno. Non le piace il legno?»
Quella parola evocò altri suoni: il sibilo di una sega, una porta che si
chiudeva di colpo.
«Interessante. Molto interessante. Ma certo, dopo l’incendio e le sue
ferite… è per questo?»
Lei lo guardò sbattendo le palpebre.
«Forse è per questo che non le piace il legno. Perché le ricorda l’incendio.
Perché brucia.»
L’incendio?
Era troppo veloce. Viveva a un ritmo tre volte più rapido del suo mondo
drogato, subacqueo. Era per questo che aveva le braccia ricoperte di cicatrici,
e che non le davano mai uno specchio? Era finita in un incendio?
«Ovviamente potrebbero esserci altri motivi. Ho esaminato la sua cartella.»
Per la prima volta notò i fogli che aveva sottobraccio. Lui li dispose sulla
scrivania: il suo passato era tutto lì, nudo, come un corpo sulla lastra di
marmo dell’obitorio. «Vedo che è cresciuta in una fabbrica di fiammiferi.
Prima apparteneva a suo padre, e alla sua morte è stata affidata a un fondo
fiduciario finché lei e suo fratello non avete raggiunto la maggiore età.
Immagino che in una fabbrica di fiammiferi abbia visto parecchio legno e
fuoco.»
Anche questo? Ma allora non c’era più nulla di sacro: bisognava riportare a
galla tutto quanto.
Nel petto le sbocciò il dubbio e lui dovette accorgersene, perché aggiunse:
«Spero che capisca che non è una curiosità oziosa ad alimentare le mie
indagini. E nemmeno il desiderio di curarla, anche se mi auguro di riuscirci
comunque. L’ospedale e la polizia mi hanno incaricato di scrivere una
relazione». Prese due fogli dalla scrivania e si avvicinò. «Quando lei è
arrivata qui, non è stato possibile interrogarla. Le sue ferite erano troppo
gravi.» Le fece vedere il primo documento: un ritaglio di giornale con un
disegno. L’immagine sgranata di una persona ricoperta di bende e macchie
scure dove il sangue era filtrato dalla stoffa. «Ma ora lei fisicamente, se non
mentalmente, si è ripresa ed è diventato piuttosto importante stabilire le cause
dell’incendio.»
Ma intendeva forse dire… quella mummia nel disegno non poteva essere
lei! Fu colta dal panico. Il giornale era di più di un anno prima. Era passato
tutto quel tempo, eppure lei non ricordava molto, a parte una vacca e i visi di
alcune sagome di legno dipinte.
Il dottore le si sedette accanto, sul letto. Lei si ritrasse. Il calore del suo
corpo, il suo odore… era troppo reale.
«Sono stati rinvenuti i resti di quattro corpi. Due decessi sono già stati
registrati. Dobbiamo recuperare informazioni sugli altri due.» Si spinse gli
occhiali sul naso. «È probabile che ci sarà un’inchiesta. Date le sue
condizioni attuali, presumibilmente mi verrà chiesto di testimoniare in sua
vece. Ecco perché devo insistere per ottenere queste informazioni da lei.
Scoprire la verità. Voglio aiutarla.»
Continuava a ripeterlo. Ma quelle ripetizioni mandavano un suono falso.
Forse in realtà voleva risolvere il suo caso per fare carriera.
Ma anche se non si fidava di lui, su una cosa aveva ragione: doveva fare
una dichiarazione. Per quanto fosse doloroso, doveva tener duro e ricordare il
resto, altrimenti sarebbe finita a penzolare da un cappio.
Il patibolo non avrebbe dovuto spaventarla. Dio solo sapeva che non le era
rimasto molto per cui vivere. Ma doveva avere un istinto sepolto in
profondità dentro di sé che combatteva come una bestia selvaggia. Non
voleva morire, soltanto dormire, al sicuro, lì dentro. In quel bozzolo di pareti
bianche e farmaci.
Davanti agli occhi le balenarono scintille dorate. Gli occhiali di lui; si era
avvicinato di più e le scrutava il viso. «Magari non ricorda ancora tutto, ma
sono sicuro che tra me e lei possiamo riuscirci, a svegliare la parte dormiente
del suo cervello.»
Lei si spostò e fece cigolare il letto. Accostò il gessetto alla lavagna e
iniziò a scrivere goffamente. Ormai la sua voce era ridotta allo stridio del
gessetto, un suono acuto e abrasivo, privo di parole.
DOV’ERA L’INCENDIO?
Il dottor Shepherd sgranò gli occhi. «Non si ricorda l’incendio? Le ferite?»
Emersero alcune immagini indistinte. Rammentava migliaia di insetti di
dolore che le rodevano la schiena. Una vaga rimembranza di infermiere e
odori medicinali. Era tutto troppo sepolto in profondità: doveva rimuovere
strati su strati se voleva arrivarci con chiarezza.
Il dottor Shepherd le mise una mano sulla spalla e le tolse la lavagna dalle
dita. Per un attimo lei pensò che le avrebbe preso la mano. Poi si rese conto
che voleva mostrarle qualcosa: la pelle lucida e marmorizzata del suo stesso
polso. Dolcemente, rimboccò la manica ruvida della camicia da notte. Intorno
al gomito si gonfiavano delle macchie rosate, deformi e grinzose come frutti
vecchi. Cicatrici impresse a fuoco così a fondo da non poter essere cancellate.
Sì, adesso le vedeva. Erano ustioni. Come aveva fatto a non accorgersene
prima?
«Ecco» disse lui rimettendole a posto il braccio, «questa fotografia è stata
scattata qualche settimana fa. Se lo ricorda?»
Lei ricordava il lampo e il fumo e come le era parso che le esplodessero
dentro la testa. Ma quando lui le fece scivolare in grembo la foto, il viso che
la guardava era quello di una sconosciuta. Era una donna, o almeno
sembravano suggerirlo la camicia da notte a righe e il fazzoletto legato
intorno al collo, ma aveva i capelli rasati, che crescevano a ciuffi da un cuoio
capelluto maculato. Sulle guance la pelle era tesa, scura e irregolare. Un
occhio aveva la palpebra inferiore cascante.
Sotto vide scritto il proprio nome.
ELISABETH BAINBRIDGE. DETENUTA PER PRESUNTO
INCENDIO DOLOSO.
The Bridge, 1865
—
In affezionato ricordo di
Rupert Jonathan Bainbridge
che ha lasciato questa vita il 3 ottobre 1865
nel suo quarantacinquesimo anno d’età
sepolto nella cappella di famiglia, chiesa di Tutti i Santi, Fayford
MEMENTO MORI
Jolyon fece la sua parte, passò di gruppo in gruppo e accettò le condoglianze.
Era lui che gli ospiti erano venuti a trovare; pochi di loro conoscevano Elsie.
Se ne sarebbero davvero accorti, se fosse sgattaiolata via? Forse doveva
andare a cercare la sua vecchia compagna, la vacca affamata. Almeno quella
creatura miserabile aveva mostrato un certo interesse per lei.
Restò immobile un istante, con lo sguardo fisso oltre i quadratini della rete
del velo. Uccelli di cui non conosceva i nomi cinguettavano sugli alberi poco
lontani. Uccelli grassi e curiosi che sembravano piccioni londinesi, però
beige. Saprofagi neri e temerari. Corvi neri? Taccole? Corvi imperiali? Non
aveva mai capito bene la differenza. Un uccello che riconobbe, una gazza,
emise il suo richiamo dal portico d’ingresso al cimitero. La striscia cobalto
della coda indicava la più povera di quelle pietre tombali, storta e divorata da
licheni e cardi.
«Sta pensando a quelle lapidi.» Una voce la fece trasalire. Si girò di scatto
e al proprio fianco vide che era comparso, con discrezione, il signor
Underwood. Teneva le mani infilate sotto la cotta; o aveva freddo oppure
stava cercando di nascondere i buchi nelle maniche.
«Sì, ha ragione. Ho l’impressione che tantissime portino gli stessi nomi.»
Lui sospirò. «È vero. E indipendentemente da quello che posso dire ai miei
parrocchiani, continuerà a essere così. La gente… Be’, signora Bainbridge,
non c’è bisogno che le indori la pillola. Lei ha visto com’è il paese. La gente
non ha speranze. Non sperano nemmeno che i loro figli restino in vita, e
quindi riutilizzano i nomi. Guardi» disse tirando fuori una mano e indicando
le Jane Price che lei aveva visto poco prima. «Queste due bambine sono
vissute nello stesso periodo. La più grande stava male e la piccola è nata
sofferente. Sono morte a distanza di un mese l’una dall’altra.»
«Che cosa orribile. Povere bambine! Ma almeno i genitori le hanno
ricordate con una lapide.»
«Conforto davvero magro.»
«Lei trova? È mai stato a Londra, signor Underwood?»
Lui si accigliò. «Qualche volta. Prima di prendere i voti.»
«Allora avrà visto i cimiteri. Fosse di sei metri, le bare accatastate una
sopra l’altra, fino in superficie. Che posti orribili. Ho sentito dire di cadaveri
spostati, e perfino smembrati, per far posto a nuovi morti. Secondo me è una
fortuna poter essere sepolti in un lotto personale sotto una lapide con un
nome, anche se è preso a prestito. Ci sono cose ben peggiori che un genitore
può fare.»
Lui la scrutò, come se volesse rivalutarla. «Questo è sicuro.»
Lei ritenne prudente cambiare argomento. «La mia cameriera mi ha detto
che nella mia proprietà è stato rinvenuto uno scheletro, anni fa. Per caso lei
sa, signor Underwood, se anche quello è sepolto qui?»
«E che scheletro sarebbe?»
Lei sbatté le palpebre. «Non la capisco.»
«Ci sono stati… più casi» ammise lui. «Ma è una casa molto antica,
signora Bainbridge. Non c’è motivo di allarmarsi.»
Ora le parole di Mabel acquistavano più senso. Sarebbe stato sciocco da
parte delle cameriere tenersi alla larga dalla tenuta solo per uno scheletro, ma
se c’erano stati parecchi rinvenimenti era comprensibile che questo le avesse
scoraggiate. Nessuno aveva voglia di imbattersi in un mucchio d’ossa mentre
svolgeva il proprio lavoro.
«Non sono allarmata, solo… sorpresa. Il mio defunto marito non
conosceva benissimo la storia della casa.»
«È una storia strana. Durante e dopo la Guerra civile è rimasta vuota. Poi,
con la Restaurazione, la famiglia ha cominciato a tornarci. Non per periodi
lunghi, però. La famiglia Bainbridge ha la brutta abitudine di perdere i propri
eredi e spesso la casa passava a secondogeniti che poi non venivano mai a
reclamarla.»
«Che tristezza.»
«Immagino che ne siano rimasti lontani per questioni d’affari.» Incrociò le
braccia. «A Torbury St Jude ci sono molti documenti; sarei ben felice di
portarglieli, se fosse interessata.»
Dalle prime impressioni, era probabile che la trama somigliasse tanto a
quella di un brutto romanzetto dell’orrore. L’ultima cosa che Elsie voleva era
una storia a base di morte e scheletri. Ma l’offerta del signor Underwood le
parve così sincera che non ebbe cuore di respingerla. «Lei è estremamente
gentile.»
Tacquero e osservarono le tombe. La terra non era adorna di fiori di serra,
ma di cardi pungenti. I boccioli viola stavano sbiadendo per trasformarsi in
vaporosi ciuffetti di semi.
«Forse, signora Bainbridge, è meglio che vada a prendere sua cugina»
disse lui alla fine. «Credo che si sia ripresa.»
«Sì. Lo spero. Grazie.» Chinò la testa mentre lui si allontanava, le ciocche
bionde che gli ondeggiavano attorno alle tempie.
La gazza era volata via. Guardò il portico dov’era stata appollaiata,
pensando alle piccole Jane Price. Il velo fluttuava nella brezza e dava
l’impressione che quelle tombe gemelle dondolassero. Che la salutassero.
Elsie si svegliò di cattivo umore. Era la seconda notte che non dormiva bene.
Quel sss, sss snervante era ricominciato, anche se era durato soltanto un’ora.
Dopo che aveva smesso, lei era rimasta a letto agitata, a scervellarsi per
trovare un modo di aiutare il paese e a ripensare al povero Rupert nella cripta
gelata.
Senza di lui il letto era troppo grande. Anche se non era il genere di moglie
che dorme raggomitolata contro il marito, c’era qualcosa di rassicurante nella
presenza di Rupert sotto le lenzuola e nel cigolio che ogni tanto sentiva
quando si girava. Era come se stesse montando la guardia. Senza di lui,
l’altro lato del materasso sbadigliava freddo e sinistro. Troppo spazio, troppe
opportunità perché qualcuno si infilasse lì dentro.
Senza la disponibilità dell’aiuto delle cameriere, si vestì da sola e prima di
scendere riuscì a fissarsi con lo spillone il cappellino da vedova.
Le parole del signor Underwood continuavano a turbarla. Doveva esserci
qualcosa che poteva fare, per Fayford. Non aveva visto bambini, ma a
giudicare dalle condizioni della vacca di certo erano pelle e ossa. Chi poteva
sapere quali orrori domestici erano costretti ad affrontare? Se i genitori
avevano paura dei Bainbridge e della tenuta degli scheletri, lei non poteva
certo piombargli in casa con un cesto pieno di offerte e un sorriso
condiscendente. Sarebbe stato meglio…
Davanti a lei danzavano nell’aria dei bruscolini, che la fecero tossire. Si
fermò e guardò verso le scale. La sua gonna nera aveva sollevato una nuvola
che però non era di normale polvere, ma una specie di cipria. Più densa. Si
chinò e ne prese un pizzico tra pollice e indice. Era fatta di granelli scabri e
beige.
Si portò le dita al naso. Le sue narici si dilatarono quando i profumi che
sentì la riportarono alla fabbrica. Un odore aspro e nitido: semi di lino. E più
sotto, un aroma più intenso simile alle nocciole. Starnutì. Sì: era segatura.
Ma lì?
Segatura, fosforo, il vorticare della lama…
La buttò subito via e si scrollò la gonna, perché non voleva che gliene
restassero addosso delle tracce.
Forse erano le travi che sostenevano il soffitto; magari si stavano
sbriciolando, come tutta la casa. Più tardi avrebbe interrogato in proposito la
signora Holt.
Si raddrizzò e la scalinata ondeggiò: stava per svenire. Si appoggiò alla
balaustra e fece gli ultimi gradini vacillando. Respira, respira.
A volte le capitava: bastava un minimo dettaglio a scagliarla indietro nel
tempo, a far riaffiorare i ricordi e a ridurla nelle condizioni di una bambina
spaventata.
Con il sangue che le rombava nelle orecchie, arrivò al salone e trasse un
respiro affannoso. Era arrivata, sana e salva.
Il passato le aveva già sottratto troppo: non gli avrebbe permesso di
toglierle anche la sua vita adulta.
Prese la porta a sinistra del caminetto ed entrò nella sala da pranzo. Jolyon
e Sarah erano già seduti al tavolo di mogano, mentre il broccato color dente
di leone proiettava sulla loro pelle una malsana sfumatura giallastra. Quando
la videro, si tolsero il tovagliolo dal grembo e si alzarono.
«Eccoti qui.» Jolyon si tamponò la bocca. «Temo che abbiamo iniziato
senza di te. Non eravamo sicuri che saresti scesa.»
La pendola rintoccò.
«Immagino di dover continuare a vivere la mia vita.» La voce le tremò. Poi
sprofondò sulla sedia che, appena in tempo, Jolyon le aveva offerto.
Accanto al buffet erano in agguato alcuni domestici: la cameriera sciatta,
Mabel, e una più anziana che doveva essere Helen. Era un donnone dall’aria
allegra, con le guance tinte di un bel rosso fragola: sicuramente effetto di
molti anni trascorsi sopra pentole d’acqua bollente. Dalla cuffietta, lungo le
tempie le sfuggivano dei ciuffi rossicci. Elsie pensò che poteva avere una
quarantina d’anni.
Le due cameriere erano sorvegliate da un uomo alto con i capelli grigi e
l’aria di non aver mai sorriso in vita sua.
Jolyon versò il caffè mentre Helen serviva del pane tostato con uova e
aringhe, ma all’odore della segatura lo stomaco di Elsie si era chiuso. Prese la
forchetta e giocherellò con il mucchietto gelatinoso delle uova.
«La signorina Bainbridge mi stava parlando della casa del vicario.» Jolyon
sollevò le code della giacca e si sedette di nuovo vicino a lei.
Sarah arrossì fino alle punte dei capelli flosci. «Non trova che sia stato
gentile, signora Bainbridge, a ospitarmi così? Anche se era tanto
impegnato?»
«Sì.»
«Mi dà l’idea di essere un uomo di razza superiore» osservò Jolyon. «Non
credo sia stato educato per la chiesa. In ogni caso, non per una chiesa a
Fayford.»
«No, infatti» farfugliò Sarah, appassionandosi all’argomento. «Ha lasciato
una famiglia ricca e un’eredità per cercare di fare del bene. Suo padre l’ha
ripudiato senza lasciargli nemmeno un penny, ma lui aveva da parte qualcosa
di suo e l’ha usato per comprarsi la casa di Fayford. Avete mai sentito niente
di più nobile?»
Elsie si infilò in bocca un pezzetto di cibo e masticò lentamente. Fu un
errore: la consistenza delle uova le fece venire di nuovo la nausea.
«Sta bene, signora Bainbridge?»
«Sì, sì.» Si portò un tovagliolo alla bocca e con discrezione sputò l’uovo.
«E tu? Ti sei ripresa dalla tua debolezza di ieri?»
«Sì, grazie. Oggi mi sento molto più in forze.»
«Mi fa piacere sentirlo. Immagino che di funerali tu ne abbia avuti a
sufficienza, dopo la morte della signora Crabbly e quella dei tuoi genitori.»
«Sì.» Tremando, Sarah bevve un sorso di tè. «Però non sono andata alla
sepoltura della signora Crabbly. Lei era estremamente legata alle tradizioni.
Si sarebbe rivoltata nella tomba se avesse saputo che al suo funerale era
presente una donna. Ma i miei genitori…» Fissò la sua tazza di tè.
«Rupert non mi ha parlato molto dei tuoi genitori» disse Elsie con
dolcezza.
«Be’, non è che io possa dirle molto di più. Credo che Rupert li conoscesse
meglio di me. Mi mandarono dalla signora Crabbly quando avevo otto anni,
per imparare a fare la dama di compagnia. Sa, il nostro ramo della famiglia
non è mai stato benestante. Credo che c’entri un diverbio tra mio nonno e il
padre di Rupert. Quindi noi abbiamo lavorato tutti. I miei genitori non
avevano tanto tempo per me.» Sarah bevve un altro sorso di tè, come per
darsi forza. «E poi se ne sono andati. Non avevamo i soldi per il funerale.
Non avrei mai potuto seppellirli se Rupert non avesse… è sempre stato così
buono con me.» La voce le si ispessì. «Vorrei tanto…»
Imbarazzata, Elsie prese la forchetta e fece a pezzetti l’aringa. Stava
cominciando a pentirsi di avere trattato quella ragazza con tanta
superficialità. Sarah poteva anche essere noiosa, ma aveva sofferto. «Mi
dispiace tanto.»
Jolyon si schiarì la voce. «La capiamo, signorina Bainbridge.» Non
incrociò lo sguardo di Elsie. «Anche noi abbiamo perduto molto presto i
genitori.»
Sarah scrollò la testa, mentre i capelli le sfuggivano dallo chignon. «Non fa
bene rimuginarci troppo su. Ma ora capite perché sono tanto grata al signor
Underwood e alla sua domestica per essersi occupati di me. Lo sapete che il
signor Underwood mi ha ceduto l’ultimo tè che gli restava? Mi sono sentita
così in colpa a berlo. La sua dispensa era totalmente vuota. Soltanto un
pizzico di zucchero, e assolutamente niente latte!»
«Latte!» Elsie inforcò trionfante un pezzetto di aringa. «Ma certo, ecco la
risposta. È così che posso aiutare il paese! Jolyon, ti devi informare. Voglio
adottare la vacca.»
Jolyon sbuffò facendo schizzare il caffè. Vicino al buffet, le cameriere
parevano inquiete. «Quale vacca?»
«La vacca che ho visto arrivando qui. Povera vecchia bestia, sembrava in
punto di morte. Più ci penso più sono convinta che volesse chiedermi aiuto.
Se la compro, posso portarla qui e farla ingrassare, e allora darà latte.
Possiamo farci del formaggio. E potrò donare il latte e il formaggio agli
abitanti del paese.»
«Sei una sciocca, Elsie.» Jolyon posò la tazza. «Perché non ti limiti a
passare da loro con un cesto pieno?»
«Così sarebbe meno paternalistico. Non trovi?»
Jolyon alzò le mani. «Quello che ho da dire non conta. Tu farai
sicuramente quello che vuoi. Ma dovrai mandare il signor Stilford o la
signora Holt, a prendere informazioni. Io torno a Londra con il treno di
questo pomeriggio.»
«Questo pomeriggio?»
«Temo proprio di sì. Parlare con quei gentiluomini al funerale mi ha fatto
capire quanto siano urgenti le questioni d’affari.»
«Ma…» Come poteva abbandonarla, lasciarla sola con Sarah? «E quando
torni?»
«Non tanto presto, credo.» Strinse le labbra; Elsie capì che c’erano delle
cose che non poteva dire davanti a Sarah. «Mi dispiace, ma devo rientrare.
Per la fabbrica.»
E come poteva Elsie mettersi a discutere? Lei, che aveva dato così tanto
per quel posto?
«Ma certo. Ma certo, capisco.»
Alla luce del giorno, lo stretto corridoio del terzo piano sembrava meno
inquietante. Era diverso da quello che l’aveva spaventata. Le maioliche
olandesi rivelavano il loro bruno ramato e tintinnavano sotto gli stivaletti.
Notò che sulle pareti c’erano alcune macchie di umidità e piccole crepe che
prima non aveva notato.
«Non le credo, signora Bainbridge. Lei si sta prendendo gioco di me. Non
posso credere che sappia scassinare una serratura.»
Elsie le rivolse un gran sorriso. «Vedrai. Sono una donna piena di risorse.»
Si rigirò lo spillone tra le dita guantate. Era passato molto tempo da quando
aveva fatto una cosa del genere l’ultima volta. Ormai in fabbrica non c’erano
più porte chiuse a chiave. Sulle maioliche alle loro spalle risuonò uno
scalpiccio felpato. Si girò a guardare e notò Jasper che trotterelava per
raggiungerle.
«Oh, che tesoro.» Sarah si fermò ad aspettarlo. Quando arrivò, Jasper le si
strofinò contro la gamba facendole frusciare il vestito.
«Come sei fortunata, Sarah. Hai trovato un amico fedele.» Era strano, ma
pareva proprio impossibile percorrere quel corridoio senza vedere il gatto.
Che fosse a guardia di qualcosa? Oppure il suo arrivo significava che la
signora Holt era vicina? Una cosa era permettere che Sarah la vedesse
scassinare una serratura; un’altra era farlo davanti alla governante. «Forza,
vieni. Sbrigati. Dobbiamo muoverci finché c’è ancora luce.»
Scorse la porta in fondo al corridoio; tre gradini bassi che portavano a una
barriera di legno scheggiato. Non aveva l’aria solida. Sembrava quasi
impossibile che potesse contenere un nido di scoiattoli o ratti. Di sicuro ormai
con quei dentini rapaci avrebbero dovuto rosicchiarla tutta.
Stava proprio per salire i gradini quando Jasper le passò accanto
miagolando. «Sciocchino!» Il gatto si piazzò davanti alla porta come aveva
fatto quella notte, con gli occhi verdi che scintillavano, e miagolò ancora.
Elsie si rivolse a Sarah. «Forse è una cosa buona averlo con noi. Secondo la
signora Holt là dentro ci vivono dei roditori.» Sarah rabbrividì. «Non avere
paura. Non possono farti del male. E poi il gatto li ammazzerà tutti.»
«Non credo che potrei guardare. Detesto i topi.»
«Molto bene. Allora resta qui, mentre io mi occupo della serratura.
Entreremo io e Jasper.» Tacque un istante. Sperava proprio di non essere sul
punto di scoprire uno di quegli scheletri che aveva nominato il signor
Underwood. «Devo confessarti che sono curiosa di vedere che razza di
animali girano qui dentro. Stenteresti a credere allo strano rumore che
fanno.»
«Oh! Ma l’ho sentito anch’io, di notte. È da qui che proviene?» Sarah
guardò la porta con gli occhi sgranati. Nella sua espressione c’era qualcosa
che fece stringere lo stomaco di Elsie. «Ma un animale… un animale può
produrre un rumore del genere?»
Jasper miagolò e grattò la porta. Era una vaga imitazione del sibilo che
aveva udito quella notte. Sottili linee bianche segnavano il legno dove lui
l’aveva raspato in precedenza. «Jasper. Vieni via.»
Lui la fissò, gli occhi di smeraldo imperscrutabili, la zampina sospesa. Poi
grattò di nuovo la porta, che si socchiuse con un cigolio.
Sarah indietreggiò. «Guardi! È aperta.»
Elsie non riusciva a credere alla propria fortuna. «La signora Holt deve
avere scritto a Torbury St Jude per farsi mandare un fabbro. Non avrei mai
pensato che potesse essere così veloce.» Si rimise lo spillone sotto la
cuffietta. «Entro a esplorare.»
Nessuna creatura sgattaiolò fuori dall’apertura: era un buon segno. Salendo
i gradini, si fermò accanto a Jasper e sbirciò dentro. L’aria era pesante e
immobile. Non c’erano ratti, né scoiattoli né scheletri; soltanto bauli e vecchi
mobili. La polvere ricopriva ogni superficie, densa come velluto. «Sarah»
gridò. «Qui è tutto a posto.» Tossì, poi starnutì. «C’è tanta polvere, ma è tutto
a posto.»
Spinse la porta e la guardò oscillare sui cardini con un cigolio prolungato.
Si aspettava che Jasper sfrecciasse avanti precedendola, e invece lui si girò e
scappò dalla direzione da cui era venuto. Lei scoppiò a ridere, poi diede un
altro colpo di tosse. «Gatti. Che perverse creature, non trovi?»
Fece quattro passi nella stanza, mentre l’orlo del vestito sollevava una
nuvola di pulviscolo. Nel solaio il tempo sembrava essersi fermato da secoli.
Gli angoli erano adorni di ragnatele nelle quali non si dibatteva nessun
insetto. Erano tutti morti, imbozzolati o rinsecchiti e raggrinziti. Vicino alla
parete di fondo era appoggiata una pendola che non ticchettava più. Il
quadrante era sfondato e le lancette penzolavano in una strana angolazione.
Lenzuola di tela d’Olanda coprivano forme squadrate che potevano essere
ritratti.
Si avvicinò a un tavolo vicino alla finestra macchiata. Era pieno di libri
dalle pagine ingiallite. I titoli erano velati dalla polvere. Con la punta di un
dito provò a frugare nel mucchio. Alcuni volumi in fondo alle pile avevano
ancora le copertine pulite. Manuali di giardinaggio di due secoli prima.
Culpeper’s Complete Herbal e una Generall Historie of Plantes di Gerard.
«Sarah, entra!» Mentre parlava cercò di non inalare troppa polvere. «Non ci
sono topi, ma ci sono dei libri.»
Come sospesa accanto alla porta, comparve la faccia allungata di Sarah.
«Libri?»
«Sì, se è ancora possibile leggerli. Sono vecchissimi e ammuffiti! Credo
che alcuni siano qui almeno dalla conquista normanna.»
Sarah le si avvicinò a passi felpati. «Oh! Mio Dio.» Reverente, prese i
volumi con la punta delle dita. Alcune pagine erano macchiate d’umido; altre
erano gialle e sottili come bucce di cipolla. «Ricette. Ingredienti. Il conto del
maniscalco. Oh, guardi questo! Milleseicentotrentacinque! Da non credere.»
Soffiò via la polvere dalla copertina. «Il diario di Anne Bainbridge. In due
volumi. Caspita, dev’essere una delle mie antenate!»
«Non dev’essere stata una donna molto interessante, dal momento che i
suoi diari marciscono qui da duecento anni» osservò Elsie. Allungò un piede
e saggiò le assi del pavimento, che scricchiolarono ma tennero. «Mi chiedo
cosa possa esserci sotto quelle lenzuola.» Ne sollevò una con uno svolazzo.
La polvere fu come un’esplosione ed entrambe si misero a tossire e a
respirare affannosamente. Quando l’aria si schiarì, comparvero una sedia a
dondolo e una valigetta simile a quelle che usano i dottori in viaggio per i
medicinali. Elsie la aprì. Dentro tintinnarono delle boccette di vetro
trasparente con i tappi di sughero. «In famiglia dev’esserci stato un
farmacista» disse. «Il residuo sul fondo sembra fatto d’erbe.»
Sarah si girò stringendosi al petto un libro. «Mi lasci dare un’occhiata.»
Avanzò verso Elsie e poi lanciò un grido. Elsie fece cadere la boccetta che
aveva in mano, che quando si ruppe emanò un odore sotterraneo, muffoso.
«Cosa? Cosa c’è?»
«Là c’è qualcosa… degli occhi.»
«Oh, non essere ridicola…» Ma mentre seguiva lo sguardo di Sarah la
voce le mancò.
Sarah aveva ragione. In fondo alla stanza, tra le ombre, la scrutavano un
paio di occhi bruno-verdastri. Un telo bianco nascondeva gran parte del viso,
ma si potevano vedere le pupille, che la fissavano con un’attenzione
innaturale.
«Un quadro. È soltanto un quadro, Sarah. Guarda, non batte nemmeno le
palpebre.»
Elsie si fece largo tra mucchi di oggetti, spostandoli e togliendoli di torno.
La polvere le incipriò il vestito facendolo sembrare grigio, e lungo l’orlo
formò dei nastri. Mentre si avvicinava gli occhi dipinti diventarono più dolci,
come se volessero salutare una vecchia amica.
Elsie afferrò un angolo del lenzuolo che copriva il ritratto e lo tirò via. La
stoffa si lacerò, e alla fine si staccò.
«Oh!» gridò Sarah. «È… è…»
Sono io, pensò Elsie con orrore.
Era una bambina, di circa nove o dieci anni. Con il nasino all’insù e le
labbra strette e gli occhi che al tempo stesso ti imploravano e ti sfidavano ad
avvicinarti. Stava guardando in faccia la bambina che era stata, la ragazza a
cui era stata strappata l’infanzia.
Ma com’era possibile? La sua mente vacillò e si fermò. Il viso che aveva
davanti era il suo, eppure non sentiva di avere alcun legame con esso.
Vattene, avrebbe voluto mettersi a urlare. Vattene, ho paura di te.
«Non è un quadro» disse Sarah. «È… è dipinto, ma non è una tela. Pare
che stia in piedi per conto suo.» Posò il libro, si accostò e mise la testa dietro
la figura. «Ah, no. È piatto. Ma dietro c’è un cavalletto di legno, vede?»
Il campo visivo di Elsie si dilatò. Quel viso si rimpicciolì assumendo le
proporzioni giuste e finalmente guardò la ragazza dipinta a figura intera. Le
arrivava alla vita, come una bambina vera, e portava un abito di seta verde
oliva orlato di pizzo dorato. Intorno alle gambe le svolazzava un grembiule di
garza. Non aveva i capelli biondi come lei, ma bruno-rossicci, e raccolti in
cima alla testa a formare una specie di piramide, intrecciata di nastri
arancioni e perle. All’altezza della vita reggeva un cesto di rose ed erbe.
L’altra mano era sollevata e premeva contro il cuore un bocciolo bianco. Non
apparteneva al suo secolo, e forse nemmeno a quello precedente.
«Notevole.» Sarah posò una mano sulla linea della spalla. Con gli anni i
colori erano sbiaditi e sul legno c’erano dei piccoli graffi. «È come se
qualcuno avesse ritagliato la figura da un quadro e l’avesse incollata su una
tavola di legno.»
«Ma… ma non ti ricorda nessuno?»
Sarah si mordicchiò il labbro inferiore. «Un poco. Intorno agli occhi.
Dev’essere una delle antenate dei Bainbridge. Non c’è da stupirsi che
assomigli un pochino a Rupert.»
«Rupert?» ripeté Elsie incredula. Poi se ne rese conto: era soltanto una
sfumatura, che emergeva sottile dalla vernice scheggiata. Somiglia a me e
Rupert. Le si fermò per un attimo il cuore. La sua bambina sarebbe stata così?
Sarah accarezzò il bordo del braccio di legno. «È bellissima. Dobbiamo
portarla di sotto. Sistemiamola nel salone. Insieme dovremmo essere in grado
di sollevarla. Se… Oh!» Fece un salto indietro. Aveva una scheggia di legno
conficcata nel palmo. «Ahi.»
«Vieni qui.» Con grande attenzione, Elsie le tenne ferme le dita con le sue,
avvolte nei guanti. «Stringi i denti. Uno, due… tre!»
La scheggia venne fuori e dal foro spuntarono gonfiandosi delle perle di
sangue; Sarah se le portò alla bocca e succhiò.
«Questi oggetti antichi cadono veramente a pezzi» osservò Elsie.
«Probabilmente è meglio lasciarla dove l’abbiamo trovata.»
«Oh no, signora Bainbridge, la prego! Mi piacerebbe tantissimo averla in
casa.»
Elsie rabbrividì. «Be’, forse dovresti chiedere a un domestico di
spostartela» disse riluttante. «Loro hanno la pelle più dura.»
Alle loro spalle le assi del pavimento scricchiolarono. «Maledizione!»
Elsie si girò di scatto. La cameriera Mabel giaceva a terra vicino alla porta,
con la gonna allargata intorno.
«Santo cielo, Mabel, cosa stai facendo?»
«Io non ho fatto niente! Il pavimento ha ceduto e mi ha mangiato un
piede!»
«Per l’amor di Dio!» Sarah si precipitò da lei, dimenticando la propria
ferita. «Ti sei fatta male? La senti la caviglia?»
«Sì, la sento eccome, accidenti! Mi fa un male cane.» Mabel strinse i denti
reprimendo una fitta di dolore. «Signorina.»
Prendendole un braccio a testa, Elsie e Sarah infilarono le spalle sotto le
ascelle di Mabel e la liberarono. Dal buco nelle assi emerse un cattivo odore,
a metà tra le ceneri umide e la decomposizione.
Seduta sul pavimento, Mabel allungò una mano a tastarsi la caviglia. «Mi
ha strappato la calza. Una bella fortuna che non mi sia staccata di netto questa
maledetta gamba.»
«Meglio che chiamiamo la signora Holt» disse Elsie. «Sono sicura che ha
un impiastro da metterci sopra. Cosa stavi facendo, Mabel, ci spiavi?»
Mabel abbassò il mento sul petto. Pareva più bellicosa che mai. «Non
volevo mica far niente di male. È da quando sono qui che nessuno apre
questa porta. Volevo vedere cosa c’era dentro. Poi ho sentito gridare la
signorina Sarah. Ho pensato che aveva bisogno d’aiuto. E che bel
ringraziamento che ricevo» aggiunse, inacidita.
«Ti sono molto grata» disse Sarah. «Vieni qui, ti avvolgo la gonna intorno
alla caviglia. Tu tienila premuta finché non riusciamo a bendarla per bene.»
Fu molto attenta, ma Mabel continuava a lamentarsi. «Che strano che tu sia
entrata proprio in quel momento! Io e la signora Bainbridge stavamo per
chiamarti. Volevamo che ci aiutassi a spostare di sotto la nostra nuova
scoperta.»
«Quale scoperta?» Sarah indicò la sagoma di legno. Mabel la guardò e
trasalì. «Per la miseria. Ma che cos’è?»
«Mabel» intervenne Elsie, «mi rendo conto che sei ferita, ma non è una
scusa per continuare con questo linguaggio. Per favore, ricordati della
compagnia in cui ti trovi.»
«Mi scusi, signora» borbottò lei, anche se non sembrava affatto contrita.
«È solo che… non avevo mai visto niente del genere. Che cos’è, un quadro?»
«No. Secondo noi è una specie di decorazione. Una figura eretta. Non è né
una statua né un quadro, ma una via di mezzo.»
«Non mi piace.» La mandibola di Mabel si irrigidì. «Mi guarda in modo
strano. Mi fa venire i brividi, altro che.»
«Sciocchezze» disse Elsie. «Non è diversa dai ritratti appesi in corridoio.»
«Invece sì» insisté Mabel. «È malvagia. Non mi piace.»
Elsie sentì pizzicare la pelle. Anche lei la trovava inquietante, ma non
l’avrebbe mai ammesso davanti a una domestica. «Non è necessario che
piaccia a te. Tu devi soltanto spostarla per la signorina Sarah e pulirla.»
Mabel si imbronciò. Come giunto in sua difesa, un getto di sangue fresco
uscì dal taglio alla caviglia. «Adesso non posso certo mettermi a pulire, eh?»
Elsie sospirò. «Immagino sia meglio che vada a cercare Helen.»
Helen contemplò la figura lignea, le mani piantate sui fianchi larghi. Mentre
scrutava attraverso la polvere, le si formarono delle rughe agli angoli degli
occhi. «È nuova, signora?»
«Nuova?» ripeté Elsie. «No, credo che sia molto antica.»
«No, signora, intendevo se è nuova in casa. Sono sicura che il padrone
aveva qualcosa di simile.»
Uno spasmo ai muscoli delle spalle. Sentire qualcuno parlare così di
Rupert, come se fosse ancora presente, ancora al timone della tenuta. «Non
mi ha mai parlato di un oggetto del genere. A Londra non ne abbiamo e se ne
avesse trovato uno qui… Be’, io in casa non ne ho visti, e lei?»
Helen si strinse nelle spalle e prese la sagoma. «A dire la verità no,
signora.»
«E allora cosa le fa supporre che il signor Bainbridge ne abbia avuta una?»
«Il signor Bainbridge era una persona tanto cortese» disse Helen mentre
manovrava la figura di legno per superare il buco nel pavimento e la porta del
solaio. «Non si dava arie. Chiacchierava sempre con me, quando spolveravo
la biblioteca. Un giorno si è messo a raccontarmi di alcune sagome di
Amsterdam, come questa qui. Diceva che le aveva trovate citate in un libro.»
Fuori in corridoio, Elsie schiacciò la propria crinolina contro la parete per
farle spazio. «Davvero? Non riesco a pensare a un motivo per cui
quell’argomento dovesse interessargli.»
«Nemmeno io, signora. Non ho chiesto perché ho dato per scontato che ne
possedesse una.»
Rupert aveva sempre avuto una mente attiva e curiosa. Era stato questo a
condurlo alla fabbrica di fiammiferi Livingstone. Adorava l’idea del
progresso e di nuove invenzioni. Lei non si era resa conto che fosse
interessato anche al passato.
Le parole di Helen la fecero sentire meglio rispetto alla decisione di portare
di sotto quella strana fanciulla di legno. Era sì inquietante, ma rappresentava
anche un altro legame con Rupert. Forse sarebbe piaciuta anche a lui, se
avesse mai aperto quel solaio.
«Il signor Bainbridge ti ha detto cos’erano quelle figure, Helen?»
«Le chiamava amici o compagni. Amici silenziosi.»
Elsie increspò le labbra e guardò verso il corridoio dove Sarah stava
sorreggendo la zoppicante Mabel. «Hai sentito, Sarah? Helen dice che è un
amico! La signora Crabbly avrebbe anche potuto risparmiare i suoi soldi. La
tua razza è stata sostituita da statue di legno.»
«Oh, lei è veramente maliziosa!» rise Sarah. «Mi piacerebbe proprio tanto
vedere un pezzo di legno sprimacciare cuscini, leggere poesie, suonare il
piano e preparare il porridge. Se fosse vero, me ne procurerei uno anch’io.»
Helen si tirò la manica sulle nocche e si ficcò sottobraccio la sagoma,
messa in orizzontale, come se fosse svenuta.
«Da questa parte» disse Elsie. «La signorina Sarah lo vuole nel salone.
Attenzione, non troppo vicino al fuoco. Potrà accogliere i nostri ospiti al loro
arrivo.»
«Ospiti, signora?»
Lei fece una smorfia. «Hai ragione. Non credo che ne avremo, per un po’.»
«Oh!» Sarah si fermò poco dopo di loro. «Signora Bainbridge, le
seccherebbe tornare indietro? Mi dispiace terribilmente… ho lasciato nel
solaio uno dei diari. Con l’incidente alla povera Mabel, ho scordato di
prendere il secondo volume. Mi piacerebbe tantissimo leggere la storia della
mia antenata.»
Elsie si guardò alle spalle. Non voleva mettersi a correre da una parte
all’altra; le fatiche di quella giornata l’avevano già sfinita. «Non puoi
aspettare? Io…» Si interruppe, confusa. La porta era chiusa. Non l’aveva
sentita chiudersi. «Helen» disse in tono di rimprovero, «ti avevo detto di
lasciare aperta la porta del solaio. Dio solo sa quanto abbia bisogno di essere
un po’ arieggiato.»
«Io non l’ho chiusa, signora.»
«Non l’hai chiusa? E allora quella cos’è?» E indicò con il dito.
Helen gonfiò le guance arrossate. «Mi dispiace, signora. Io non mi ricordo
di averlo fatto.»
Ma dove le trovava delle cameriere del genere, la signora Holt? «Ci vado
io, ad aprirla» sospirò, «così recupero il libro della signorina Sarah.»
«Grazie infinite, l’apprezzo molto. Se potesse lasciarmelo in camera gliene
sarei grata» esclamò Sarah. «Forse c’è descritta la visita di re Carlo I! Io
metterò a letto Mabel. E forse lei può vedere se la signora Holt…»
«Sì, sì, cercherò anche lei.» Elsie si avviò a passi rapidi e irritati, la
crinolina che le ballonzolava dietro. Ma che senso aveva essere la padrona di
casa se poi dovevi fare tutto da sola?
Ripensando a Jasper che aveva aperto il battente con una zampa,
avvicinandosi al solaio allungò la mano. Il palmo colpì forte la superficie in
legno; la spalla sussultò. Con un brontolio, ci riprovò, usando un po’ più di
forza. La porta non si mosse. «Cosa?» Strinse il pomello e cercò di farlo
girare, ma quello rimase immobile. «Maledizione.»
Doveva esserci qualcosa nella serratura: ecco perché prima si era bloccata.
Dovevano chiamare qualcuno in grado di sostituire il meccanismo, oppure
mettere una porta nuova. Un altro lavoro da sbrigare.
Fiaccamente, Elsie ripercorse i propri passi e cominciò la lunga discesa
fino al piano terra. In realtà non si sentiva troppo bene. Doveva essere quella
casa: il suo peso gravava tutto su di lei. Dopo avere parlato con la signora
Holt, sarebbe andata a stendersi.
Nel salone passò accanto a Helen che stava sistemando l’Amico accanto
alla finestra. «Ho pensato di metterlo qui» disse Helen con un sorriso, «così
può guardare fuori.» Inclinò la testa. «Le somiglia un pochino, signora, non
trova?»
In quella luce più intensa, la somiglianza tra la fanciulla di legno ed Elsie
era davvero più spiccata e le venne la pelle d’oca.
«Un poco. Non è strano?» Le lanciò un’ultima occhiata, poi si diresse
verso l’ala ovest e scomparve attraverso la porta di panno verde che
conduceva alle stanze della servitù.
Dall’altra parte del muro, l’aria era pesante e odorava di sapone, cenere e
grasso bruciato. Un dedalo di muri di pietra nuda si snodava nelle profondità
della casa, e la strada era appena visibile con quella luce oleosa.
Sulla porta della camera della signora Holt, a lettere bianche, c’era scritto
GOVERNANTE. Elsie bussò: era la seconda volta quel giorno che chiedeva
il permesso per entrare in una stanza di casa sua.
«Avanti.»
Si infilò in una cameretta con un’atmosfera che ricordava la nebbia
londinese. Una lampada solitaria bruciava sulla scrivania, gettando un
bagliore anemico sulle carte e i cassetti della signora Holt. La governante, che
era accomodata su una semplice sedia di legno, si girò e, vedendo la padrona,
scattò in piedi. «Signora Bainbridge! Non l’aspettavo. La prego, entri.»
C’era un tavolino apparecchiato per il tè con tazze bianche e azzurre. Elsie
si sedette, sollevata. Si vergognava troppo della sua stanchezza per chiedere
qualcosa da bere, ma avrebbe voluto che la signora Holt gliene offrisse.
«Stavo per venire a cercarla» confessò la signora Holt riordinando le carte
della sua scrivania. «Abbiamo appena ricevuto una consegna da Torbury St
Jude e volevo consultarla sui menu che ho preparato.»
«Sono sicura che saranno perfetti. Io e la signorina Sarah faremo una vita
molto tranquilla, finché non tornerà il signor Livingstone.»
«Lo immaginavo, signora. Ma non è un buon motivo per rinunciare a
gustare il cibo.»
«Ha ragione. Anzi, signora Holt, visto che sono qui… C’è una questione di
cui vorrei discutere con lei.»
«Mi dica, signora.»
La signora Holt si limitava a guardarla con i suoi occhi giallastri e
appannati, ma allora perché aveva la sensazione di avere puntata in viso una
luce violentissima? Deglutì, non sapendo bene da dove cominciare. Non c’era
nulla di cui vergognarsi, si ripeté. Quel bambino era stato concepito in
maniera lecita, per quanto potesse sembrare sbagliata. «Presto avremo
bisogno… di altro personale. Ma Mabel mi ha lasciato intendere che nessun
abitante di Fayford acconsentirà mai a lavorare in questa casa, o sbaglio?»
«Ah!» Le rughe sul viso della signora Holt diventarono più profonde. Elsie
le fece cenno di sedersi. «È una situazione molto strana, signora. Esiste una
faida di lunga data tra il paese e la famiglia, che penso risalga alla Guerra
civile. Credono che una delle nostre signore fosse una strega, o qualche altra
stupidaggine del genere.»
Elsie fissò la tovaglia su cui erano ricamate delle coroncine di fiori.
Quando Mabel aveva detto che gli abitanti del paese avevano paura della
casa, lei aveva immaginato fantasmi e folletti, non certo una strega. Ma tutti
sapevano che a quei tempi le donne potevano essere accusate di stregoneria
per qualsiasi cosa, e che spesso accadeva davvero. «Ha almeno cercato di
assumere qualcuno di Fayford, signora Holt?»
«Oh, sì. Ma vede, la famiglia Roberts non mi ha reso le cose facili. Uno di
loro è stato valletto qui, all’inizio del secolo, e ha avuto uno sfortunato
incidente.»
«Cosa intende con “incidente”?»
La signora Holt si portò una mano al petto e si sistemò una spilla con un
cammeo. «Nessuno sa bene come sia potuto succedere. Il poveretto è caduto
dalla galleria fin nel salone. E ovviamente si è rotto l’osso del collo. Una
tragedia immensa. Ma alcuni Roberts sostengono ancora oggi che qualcuno
l’abbia spinto.»
«Ma chi?»
«Be’, il padrone di allora perse la moglie poco dopo. Si dice che quel
Roberts ammirasse molto la signora… Lo sa come vanno queste cose.» La
signora Holt agitò la mano, la cui pelle sembrava quella di un pollo. «Un
marito geloso che si vendica.»
«Perbacco, quel paese sembra proprio pieno di leggende, e tutte che ci
riguardano.»
La signora Holt sorrise. «Tradizioni di campagna, signora. Devono pur fare
qualcosa per tenersi occupati, d’inverno. Ma non abbia paura. Sono sicura
che altrove troveremo dei domestici eccellenti, sia per la casa sia per il
giardino.»
«Speriamo.» Schiarendosi la voce, Elsie proseguì: «Vede, ho i miei motivi
per essere esigente riguardo alla servitù. Presto ci sarà… intendo, in
primavera… ho ragione di sperare che ci possa essere…». Il viso le si
infiammò. Non c’era una maniera delicata per dirlo.
«Non vorrà dire… Per l’amor del cielo, signora Bainbridge, non mi dirà
che è in stato di grazia?»
In stato di grazia. Non sentiva quell’espressione da anni, ma serviva allo
scopo. «Sì. Il bambino dovrebbe arrivare in maggio.» La turbò vedere le
lacrime emergere negli occhi dell’anziana donna. Imbarazzata, continuò.
«Avrò bisogno di balie e anche di una nuova cameriera per me. Ho
intenzione di andare a Torbury St Jude e visitare l’ufficio del registro. È lì
che ha trovato Mabel e Helen?»
La signora Holt aprì e chiuse la bocca. «Io… non avevo un salario
principesco da offrire, signora. E dato che la proprietà era in stato di
abbandono, senza che vi risiedesse una famiglia o ci fossero opportunità di
miglioramento…» Pareva agitata. «Ho ritenuto fosse meglio prendere delle
donne dall’ospizio dei poveri, signora.»
«L’ospizio dei poveri» ripeté Elsie in tono piatto. Ma certo, questo
spiegava tutto. «E immagino che non abbiano ricevuto nessuna istruzione
formale.»
La signora Holt arrossì. «Helen sì.»
«Ed esattamente, perché Helen si è licenziata da dove lavorava?»
La signora Holt riprese a giocherellare con la spilla. «Non mi sono
informata al riguardo.»
«Devo dire che sono stupefatta all’idea che lei abbia ritenuto che donne del
genere fossero adatte a essere impiegate in casa mia! Lei non poteva
conoscerne il carattere. Come si è accertata che fossero oneste? E come posso
fidarmi di lasciarle avvicinare a mio figlio? Mabel si comporta in maniera
terribile. Ha lasciato i vassoi pieni di cibo a marcire nella mia stanza. Il
linguaggio che usa, la sua incapacità di fare perfino l’inchino… non posso
rischiare che mio figlio imiti un atteggiamento del genere!»
«Posso soltanto scusarmi. Le parlerò, signora. Non sono abituate a servire
una padrona e forse in passato sono stata troppo tenera con loro.» Sospirò.
«Ma trovo che per pulire e cucinare si siano rivelate soddisfacenti.»
«Vorrei poter dire lo stesso. La quantità di polvere che ho trovato nel
corridoio rosso vino è straordinaria. Pensi, c’era perfino della segatura sulle
scale. Ma da dove può essere arrivata? Certi tappeti hanno l’aria di non essere
mai stati sbattuti, cosa che non riesco a comprendere visto che la nursery è in
perfetto ordine.»
La testa della signora Holt ebbe un guizzo. «La nursery?»
«Sì. È l’unica stanza che grazie a Dio non dovrò preparare. È già
praticamente pronta per mio figlio.»
La signora Holt la guardò incuriosita. «Forse c’è stato un equivoco. Le
ragazze entrano raramente nella nursery.»
«Si sbaglia, signora Holt. Hanno perfino spolverato il cavalluccio a
dondolo e preparato il tavolo per il tè delle bambole.»
«Santo cielo.» La signora Holt scrollò la testa. «Non ne avevo idea. Helen
mi aveva detto di avere paura di quella stanza. Era tutto coperto con dei teli.»
«Stamattina no. Venga, le faccio vedere.» E si alzò.
Anche la signora Holt si alzò, afferrando le chiavi che le pendevano dalla
cintura. «Non ci vado quasi mai» confessò. «Le scale della servitù portano
proprio a quel pianerottolo. Non le dispiace?»
«Per nulla. Sono perfettamente in grado di usare le scale della servitù.»
Elsie parlò in tono coraggioso, ma ebbe modo di pentirsene. Là non c’era
spazio per la sua crinolina, che si incastrava e bloccava formando una coda
pesante che doveva trascinarsi dietro a ogni passo.
Sbucarono sul pianerottolo su cui era già passata con Sarah poche ore
prima. Seguì la signora Holt fino alla porta. Ancora una volta cadde preda di
quella sensazione di inquieta tensione. È solo una nursery, si ripeté. Non c’è
nessun bisogno di piangere.
La signora Holt fece tintinnare le chiavi nella cintura e ne infilò una nella
serratura, che scattò mentre si spostavano i cilindri.
«Ma non era chiusa a chiave quando…» Non era possibile.
Semplicemente, non era possibile.
Quella stanza ariosa e in perfetto ordine era stata sconvolta. Le finestre
erano coperte da tende a brandelli, che facevano entrare solo poche scintille
di luce. Le bambole erano scomparse. L’arca era scomparsa. Restavano
alcuni bauli di giocattoli, ma sommersi dalla polvere di innumerevoli anni.
Enormi teli bianchi, come quelli del solaio, delineavano delle forme tozze nei
punti in cui aveva visto il cavalluccio a dondolo e la culla. Il parascintille e la
testiera di ferro erano maculati di ruggine.
La signora Holt tacque.
«Io… non…» Le parole le riempirono la bocca, ma non riuscì a proferirne
nemmeno una. Com’era possibile? Si avvicinò subito alla culla e afferrò il
telo. «Proprio qui c’era una bellissima…» Restò senza fiato. Mentre il telo
scivolava via, la investì un odore di canfora e muffa. La forma della culla
restava, ma i lenzuolini delicati erano macchiati e rosi dalle tarme.
«Ero sicura che le ragazze non si sarebbero date tanta pena» disse piano la
signora Holt. «È un luogo triste. Viene aperto per un colpo di scopa solo due
o tre volte l’anno, da quando non ci sono più i piccolini.»
Elsie la fissò. La nursery era stupenda. Non poteva avere immaginato le
cose che aveva visto. Con lei c’era anche Sarah; l’aveva spinto lei il
cavalluccio.
«Cosa… come dice? I piccolini?»
Le chiavi di metallo sferragliarono mentre la signora Holt si spostava. «Sì,
che Dio li benedica.»
«Quali piccolini?»
«Quelli del… del padrone e della padrona. Cioè i genitori di padron
Rupert. Lui era il terzo… almeno così mi hanno detto.»
Elsie si appoggiò alla culla, che cigolò. «Lei ha conosciuto i genitori di
Rupert? Prima che morissero?»
«Ma certo, signora. Certo.» A un tratto apparve più vecchia e
profondamente triste. «Lavoravo per loro a Londra. Allora ero ancora una
ragazzina. Ho visto nascere padron Rupert.» La voce le si arrochì. «Era… è
stato il primo dei bambini a nascere fuori da The Bridge. Gli altri sono morti,
mi hanno detto, prima del trasloco. Per questo si sono trasferiti a Londra.»
Distolse lo sguardo. «Può immaginare cosa vuol dire vivere in una casa dove
hai perso un figlio.»
«Gli altri bambini sono morti?» Elsie guardò la culla sfasciata e si sentì
male. Staccò la mano dal bordo e quella dondolò, vuota. Dio, che eredità, per
suo figlio: una madre nervosa e una nursery piena di morte. «Signora Holt,
non intendevo turbarla. Ma…» Le si avvicinò con passo esitante. «Lei è stata
una delle ultime persone a vedere vivo mio marito. Nessuno mi ha raccontato
com’è morto, esattamente. Non mi aveva scritto di essere malato. È mancato
all’improvviso?»
La signora Holt tirò fuori un fazzoletto e si tamponò gli occhi. «Ah,
signora. Per noi tutti è stato uno shock. Sembrava sano e vigoroso, magari
solo un po’ preoccupato. Ho avuto l’impressione che non dormisse. Ma non
pareva in punto di morte!»
«E poi…?» Lei trattenne il fiato.
«L’ha trovato Helen. Ha lanciato un urlo che non dimenticherò mai. Mi ha
gelato fino al midollo, glielo dico io.»
«Ma come? Com’è morto?»
«In pace, signora, non si preoccupi. In pace. Nel suo letto, bene al
calduccio.»
«Non nel mio letto?»
«No, no. Nella camera accanto. Il medico legale ha detto che è stato il
cuore. Ha ceduto all’improvviso, ha detto. A volte una persona si porta dietro
per tutta la vita un cuore malato e non se ne accorge finché… be’, non se ne
accorge mai.»
Quindi aveva avuto un cuore così caldo e gentile che si era bruciato da sé.
Sospirò. «Spero che non abbia sofferto molto. Ho visto che aveva delle
schegge vicino al collo. Ha idea di come ci sono arrivate?»
La signora Holt socchiuse gli occhi. «Schegge? Non lo so, signora. Certe
volte questi imbalsamatori fanno cose strane. Ma quando Helen l’ha trovato,
non c’erano tracce di sofferenza. Forse ha avuto un colpo. Gli occhi erano
aperti.» Le scese una lacrima che si incanalò in una ruga. «Ho visto che aveva
gli occhi aperti, signora, e glieli ho chiusi. Che Dio ci perdoni, che mondo è
questo.»
«Un mondo crudele con i Bainbridge.» Elsie rifletté un secondo. «Ma,
signora Holt, lei mi ha spiegato di essere stata presente alla nascita di Rupert
a Londra. Come è arrivata qui?»
La donna si asciugò gli occhi e ripiegò il fazzoletto, su cui poi fissò lo
sguardo. «È stato il padrone.»
«Il padre di Rupert?»
«Sì.» Esitò. Elsie pensò che forse voleva scegliere con cura le parole. «Mi
voleva molto bene. L’avevo aiutato con la signora. Non stava bene, povera
cara. Non si riprese mai dal parto. Poco prima che la perdessimo, le venivano
delle strane idee su questo posto. Continuava a ripeterle con una specie di…
tristezza folle.»
«Cosa intende con “strane idee”?»
La signora Holt scrollò la testa. «Non lo so. Non riuscivo a trovarci un
senso. Parlava spesso di questa nursery e del cavalluccio a dondolo. Tutte
sciocchezze. Ma quando se ne andò, quei pensieri cominciarono a turbare
anche il padrone. Ecco perché mi chiese di venire. Disse che sua moglie
avrebbe riposato in pace, sapendo che qualcuno teneva d’occhio la casa.»
L’ombra di un sorriso le comparve agli angoli grinzosi della bocca. «Non
volevo venirci. Non volevo lasciare il piccolo Rupert proprio mentre stava
imparando a camminare. Ma alla fine il padrone riuscì a convincermi.»
«E come?»
La donna rise. «Con le lusinghe. Lusingandomi e corrompendomi,
naturalmente. Per una fanciulla così giovane essere promossa governante…
non è un’opportunità che si può rifiutare. Non se hai una madre anziana da
mantenere. Il signor Bainbridge era un uomo difficile e strano, ma mi disse
una cosa molto curiosa, che poi non ho più dimenticato. “Questa casa ha
bisogno di qualcuno giovane e puro” disse. “Qualcuno di buono. Senza
amarezza. Tu devi diventare il suo angelo, Edna.” Che sciocchezza, vero? Ma
io ne fui commossa. E da quel giorno ci ho sempre provato. Ho provato a
essere l’angelo che lui era convinto che fossi.»
Elsie si mordicchiò di nuovo il labbro. La pelle era scorticata e scottava.
«No. Non sono sciocchezze. Ma perché Rupert non è venuto a vivere con lei
dopo la morte di suo padre? Per lui avrebbe avuto senso tornare qui.»
«A me avrebbe fatto piacere.» La signora Holt guardò con affetto la
sagoma del cavalluccio a dondolo sotto il suo sudario. «Ma poi lo accolse la
famiglia di sua madre. Erano gente di città e non avevano tempo per le gite in
campagna.»
«Ma per tutto quel tempo! Non erano nemmeno curiosi di vedere la
tenuta?»
«Be’, erano i parenti di sua madre. Sapevano dei piccolini che erano morti
qui dentro e tutte le sciocchezze che lei raccontava sulla casa. Credevano che
non li avrebbe perdonati, se avessero riportato qui suo figlio.»
Sembrava assurdo che per tutto quel tempo nessuno avesse cercato di
rivendicare la proprietà. Nemmeno parenti lontani e avidi. «È incredibile
quanto può essere sfortunata una famiglia. Tre figli, e non resta niente.»
La signora Holt si schiarì la voce. «Tranne…»
Tranne suo figlio. Si mise una mano sulla pancia. Le tornò la nausea.
«Sono stata molto negligente, signora Holt. Tutti questi discorsi sulla
famiglia di Rupert mi hanno fatto dimenticare il mio compito. Sono venuta a
dirle che Mabel si è fatta male a una gamba. Mi aveva seguito nel solaio.»
«Il solaio, signora?»
«Sì. E poi ho dimenticato un’altra cosa. Dovrei ringraziarla. Ha fatto bene
a scrivere, dopo che ci siamo parlate. Ma chiunque lei abbia chiamato temo
che dovrà tornare, perché la porta si è bloccata di nuovo.»
La signora Holt la guardò come se le fosse spuntata una seconda testa.
«Non capisco…»
«La porta» ripeté Elsie. «La porta del solaio. Ha chiamato qualcuno di
Torbury per aprirla e adesso si è bloccata di nuovo. Ho bisogno che lei scriva
un’altra lettera.»
«Ma… ma non posso. Credo che ci sia stato un equivoco…»
«Per l’amor del cielo, perché non può richiamare quella persona?»
La signora Holt si ritrasse. «Perché, signora, io non ho mai scritto a
Torbury St Jude.»
The Bridge, 1635
—
Che giornata provvidenziale per dare inizio al mio diario! Josiah è tornato a
casa presto e mi ha portato una notizia magnifica.
Jane mi stava arricciando i capelli corti che ho intorno alla fronte quando
ho sentito dei colpi provenire dal ponte.
«Ferma» ho detto. «Ascolta. È Josiah.»
«No, non può essere già il padrone. Tornerà soltanto la settimana
prossima.»
«È lui» ho insistito. «Ne sono certa.»
Lei mi ha lanciato quell’occhiata a cui ormai sono avvezza. Teneva la
mano lungo il fianco e le dita fremevano, come se volessero mimare l’antico
segno contro la stregoneria. Ma non ha detto una parola, io mi sono alzata e
dalla camera da letto sono corsa nel salottino estivo. Fuori era salita la
nebbia. Alla finestra ho aguzzato la vista, sicura di poterlo sentire ancora: il
battito del cuore di mio marito. Nell’ammasso delle nubi fluttuavano dei
colori. Ho premuto la fronte contro il vetro, per vedere meglio. Sì. Un
minuscolo rettangolo svolazzante di azzurro e oro, che entrava e usciva dalla
foschia. Il nostro stendardo.
Il battito è diventato più forte e si è trasformato nel ritmo pesante degli
zoccoli.
«Lo sapevo!» ho gridato, precipitandomi di nuovo in camera. «Sotto c’è
l’araldo. Preparami.»
Jane ha spiccato un balzo da cerbiatta. «Oh, santo cielo.» Mi ha messo
sulle spalle un collo di pizzo e si è infilata i coprimaniche di lino. «Meglio
che vada ad avvertire in cucina. Volete che vi finisca i capelli, padrona?»
«No, non c’è tempo. Josiah vuole parlarmi immediatamente.» Non osava
guardarmi. «O meglio, mi aspetto che voglia farlo. Accade spesso.»
Anche se faccio del mio meglio per nasconderglielo, Jane ha paura ogni
volta che il mio dono si manifesta. Non posso negare che sia strano: ho
sempre sentito, avvertito delle cose. Ma quando leggo i pensieri di Josiah non
è stregoneria, a meno che l’amore non sia un incantesimo. È solo che lo
conosco come le mie tasche.
Quando Jane ha lasciato la camera io non vi sono rimasta a lungo. Dopo
aver controllato un’ultima volta i miei nastri, ho imboccato di corsa il
corridoio e le scale, e ho sceso i gradini a due a due. Mentre passavo dal
primo piano ho gridato a Hetta che suo padre era tornato. Sarei dovuta andare
a prenderla di persona, ma sono stata egoista. Volevo Josiah tutto per me.
Ho chiesto alla servitù di accendere il fuoco nella sala da pranzo. La luce
giocava con gli arazzi e illuminava i fili d’oro. Ho pensato che dopo il
viaggio Josiah avrebbe gradito un rinfresco e così ho fatto in modo che ci
fossero vino speziato e una serie di piccoli piatti di suo gusto: pane,
formaggio, salumi e un vassoio di pasticcini. Sul tavolo nuovo di mogano, era
tutto molto invitante. Ma quando è entrato, con il farsetto imperlato di
pioggia e il mantello di lana fumante, mio marito non ha degnato della
minima attenzione il cibo. È venuto subito da me, mi ha messo le mani
intorno alla vita e mi ha sollevato.
«Bentrovata, amore mio!» Poi mi ha messo giù e mi ha scoccato un bacio.
«Riesci a indovinare perché sono tornato?»
«Presumo che ci siano buone notizie a corte. Non ti ho mai visto sorridere
così.»
Gli brillavano gli occhi. «E ne ho ben donde, Anne. Davvero non riesci a
indovinare?» Ho scrollato la testa. «Sta arrivando. Il re sta arrivando.» Devo
essere impallidita, perché ho sentito l’esplosione della sua risata. «Non
adesso, tesoro mio. Avrai tutto il tempo di prepararti. Il re e la regina faranno
tappa qui per una notte durante il loro trasferimento estivo.»
Per un attimo sono riuscita soltanto a stringergli la mano guantata. «Che
sia benedetto il Signore. È… straordinario. Quale onore. È per questo che ci
siamo dati tanta pena. Come? Come ci sei riuscito?»
Forse i petali di crisantemo che gli avevo messo nel vino, per portargli
fortuna? Le foglie d’alloro sotto il cuscino, per potenziare l’intuito? Perché
mentre Josiah cerca di promuovere la nostra famiglia presso la corte anch’io
lavoro, mi affaccendo nella dispensa. Dopo quello che mi è accaduto, non
potrei mai sottovalutare il potere delle piante.
Con un’altra risata si è sfilato i guanti e si è seduto a tavola. «Ci siamo
riusciti insieme, Anne. Te l’avevo detto che questa casa sarebbe stata solo
l’inizio.»
Era vero. Da quando abbiamo messo insieme il denaro necessario a
costruire una grandiosa residenza di campagna, Josiah ha insistito nel dire
che The Bridge avrebbe fatto la nostra fortuna. Ma io non avevo idea che
sarebbe accaduto tanto in fretta.
Lui ha preso un tozzo di pane e l’ha addentato. «Ora ci siamo fatti un
nome. Quest’anno si fermano una notte, ma l’anno prossimo chi può dirlo?
Se riesco a ottenere un titolo… forse a Natale saremo invitati a corte. Forse la
regina ti prenderà in simpatia e ti offrirà un posto nel suo seguito.»
Non ho mai immaginato una cosa del genere, nemmeno nelle mie visioni
più folli. «A me basta che il re ti abbia in stima, e non ho bisogno di
desiderare altro.»
«Non frenare i sogni, Anne!» E ha afferrato una caraffa di vino. «Nessuno
può dire fino a dove potremo arrivare. Faremo venire i ragazzi e mostreremo
a tutti che figli educati e vigorosi abbiamo. Un giorno saranno dei perfetti
gentiluomini di camera o uscieri reali.»
«Pensi che li prenderà in considerazione?»
«Chi può dirlo? Non esiste limite ai successi che può ottenere una famiglia
titolata. Con le conoscenze di mia madre e le tue capacità, ci costruiremo una
reputazione. Guarda i Villiers!»
«No» ho replicato secca. «Non saremo come i Villiers.» Lui ha smesso di
mangiare e mi ha guardato. Ho cercato di fare un sorriso, ma troppo piccolo.
«Ricordati cos’è accaduto al duca.»
Lui ha gettato il tozzo di pane sul piatto. Nella barba gli erano rimaste
intrappolate delle briciole. «Non ti angustiare, Anne, non ho intenzione di
diventare il prossimo duca di Buckingham. Dubito che in Inghilterra sia mai
esistito un uomo più stupido, inetto e presuntuoso. Quello che voglio dire è
che costituisce un esempio. Alla nascita non era nessuno e quando la sua
esistenza è giunta al termine era più ricco dello stesso re. Tutto è possibile. E
ho l’impressione che sia nostro dovere cercare di ottenere il massimo per i
nostri figli.»
«Gli scriverò subito per dirglielo. E avranno bisogno di vestiti nuovi! Dio
solo sa quanto sono cresciuti. Dovremo prendere nuovamente le misure.»
Josiah ha fatto una risatina.
«Potrei scrivere un masque da rappresentare davanti alla regina!» Ho
sempre desiderato provare il fasto e l’esibizione di un masque di corte.
Dicono che la regina vi danzi personalmente, adorna dei costumi più preziosi.
«Ah, vedo già il nostro James avanzare sul palcoscenico per recitare una
poesia.»
«E Hetta… lei sarà la ninfa che…»
Josiah si è schiarito la voce, ha bevuto un altro sorso di vino e ha detto:
«Non ho ancora deciso quale ruolo avrà Henrietta Maria in questa visita».
Mi si è stretto lo stomaco, come mi capita ogni volta che sento nominare
mia figlia. Josiah non usa mai il suo vezzeggiativo, Hetta; è sempre formale,
la chiama Henrietta Maria.
«Cosa intendi dire? Verrà coinvolta alla stessa stregua dei ragazzi.»
«Mentre cerchiamo una strada per entrare nelle grazie della coppia reale, e
facciamo di tutto per impressionarli… sarebbe meglio non attirare troppo
l’attenzione sulla sua piccola… aberrazione.»
Sono stata travolta da un’ondata di nausea e senso di colpa. Mi sono
ripromessa di non rimbeccarlo, né di rispondere in maniera troppo affrettata.
E poi l’ho fatto. «Lei non ha niente che non vada!»
«Sai benissimo che non è vero.»
Il panico mi si è appiccicato come fanno le ortiche; ero sicura che riuscisse
a capire quel che pensavo, anche se non so come. Capire la verità. «Non vedo
perché questo dovrebbe compromettere il suo ruolo nella visita. È nostra
figlia. Merita ogni vantaggio per il suo futuro, al pari dei ragazzi.»
«Ci rifletterò.» Ha cambiato umore con la stessa rapidità delle nuvole in un
giorno di vento. L’ombra del desiderio gli ha scurito gli occhi. «Adesso basta.
Vieni a sederti vicino a me. Dio, Anne, quanto mi sei mancata.»
Alla prima opportunità che ho avuto, sono corsa a trovare Lizzy. Una volta
era la mia balia, e ha allattato tutti i miei figli. È stata presente in ogni
momento importante della mia vita. Volevo che condividesse la mia gioia nel
sentirmi raccontare questo successo ineguagliabile. Ma è riuscita soltanto a
rendermi infelice.
Ho trovato lei e Hetta concentrate su alcuni libri nella stanza per lo studio.
Però quando sono entrata, più che un luogo per apprendere sembrava la
dimora di una fata. Ogni superficie era ricoperta da piante in vaso. C’erano
cesti traboccanti d’edera e pervinche, le cui foglie arrivavano fino agli
scaffali dei libri. Il passerotto di Hetta saltellava nella sua gabbia e trillava.
Non è un ambiente sobrio o che induca alla riflessione, ma Hetta si rifiuta di
procedere negli studi se non è circondata dal verde.
Oggi stava leggendo il Culpeper’s Complete Herbal, il suo libro preferito.
Che sia una coincidenza, questo interesse per il mondo naturale? Non con
quegli occhi: un miscuglio di marrone, verde e giallo proprio come una
tisana; o con quei capelli: rossi di ogni sfumatura dell’autunno.
Lizzy si è subito alzata per salutarmi, ma Hetta mi ha rivolto soltanto quel
mezzo sorriso timido che non le arriva mai agli occhi. Non è colpa sua,
naturalmente, ma mia. Una misurazione errata, una parola mal pronunciata.
Lei non è responsabile dei miei sbagli.
«Hetta, tesoro» ho detto. «Forse dovresti andare a disegnare un po’. La
mamma ha bisogno di parlare con Lizzy.»
Obbediente, è andata a sedersi accanto alla finestra. Poi ha tirato fuori carta
e matite ed è rimasta a fissare il foglio bianco.
«Disegnerà dei fiori» ha esclamato Lizzy con una risatina. «Solo fiori, ogni
volta.» È tornata a sedersi sulla sua sedia a dondolo e si è sistemata lo
scialletto nero sulle spalle. «Ma guardala! Nella sua espressione non vedete
sempre più Mary, ogni giorno che passa?»
Era quello che volevo, certo. Ma mi sembra strano cogliere i lineamenti
della mia sorella defunta su questa ragazzina timida e silenziosa. Mary era
così piena di vita.
«Una somiglianza davvero notevole.»
«Ma volevate parlarmi in segreto? Ci sono novità?»
Finalmente ho permesso a un sorriso di aprirsi sul mio viso. «Oh, Lizzy, ho
notizie meravigliose. Sono la donna più felice del mondo.»
Ha sorriso anche lei, come fa sempre quando sono felice. «Cosa c’è, cara?
Non è possibile…» Mi ha guardato subito la pancia. «No, non è questo. Un
miracolo è già sufficiente.»
«No!» Mi sono lisciata le pieghe del corpetto. «Molto meglio. Josiah è
tornato. Mi ha detto di prepararmi. Quest’estate verranno il re e la regina!
Verranno qui!»
Il sorriso le è svanito dalle labbra. «Qui? Il re e la regina?»
«Sì!» Accanto alla finestra, Hetta aveva cominciato a disegnare, la testa
inclinata di lato. Ho abbassato la voce. «Cos’hai, Lizzy? Perché mi sembri
scontenta?»
Lei mi ha stretto la mano e le sue vecchie dita ossute hanno premuto sulle
mie. «Oh, sono felice per voi, tesoro caro. Almeno credo…» Poi ha scosso la
testa grigia. «Posso confidarvi la verità?»
«Sempre.»
«Non credo che saranno bene accolti, al villaggio.»
Il villaggio: non ci avevo pensato. Gli uomini presuntuosi e precisi di
Fayford con i loro vestiti a quadri. Non mi ci sono mai affezionata. Quando
abbiamo comprato questo terreno per costruire The Bridge, sono passata a
trovare gli operai con un unguento per le mani screpolate, ma loro si sono
ritratti, disgustati. Non si fidano della mia abilità con le piante, mi guardano
con sospetto e quindi da allora non ci sono più andata. Con un talento come il
mio, devo essere cauta. Qualche accusa falsa potrebbe danneggiarmi molto
più del mio orgoglio.
«Gli abitanti del villaggio sono impudenti con gli aristocratici, Lizzy, ma
per il loro re…»
«No. Non provano alcun rispetto per il sovrano. Non vi siete chiesta perché
non nutrano simpatia per la nostra famiglia? Il padrone serve un re che ha
prosciugato le paludi e tutti si aspettano che presto batterà cassa per comprare
navi da guerra.»
«Mio Dio! Ma quella tassa non ci verrà imposta. Non siamo un distretto
costiero.»
«Soldi per la flotta dall’entroterra.» Lizzy ha alzato le spalle, sconsolata.
«È stato già proposto. Ve l’immaginate? Mi fa orrore pensare alla scena che
si svolgerebbe nel villaggio se questo accadesse. Lancerebbero della verdura
a Sua Maestà, se passasse.»
«Non oserebbero mai! Smettila, Lizzy, mi stai spaventando.»
«Io dico soltanto la verità.»
«Allora dovrò trovare il modo di portare qui la corte senza costringerli a
passare per Fayford. Però non capisco proprio perché. Il villaggio è del re. È
il suo paese.» La matita di Hetta si è fermata. Ho sospirato e ho ripreso il
discorso. «Non credo che re Carlo chiederà altri soldi per la flotta, Lizzy. Non
può essere così povero. Josiah mi stava proprio dicendo che riaffrescheranno
il soffitto della Banqueting House e che la regina ha in mente di costruire a
Greenwich.»
«Oh, sì» ha risposto lei, incupita. «Spenderà soldi per i suoi capricci. È per
questo che la gente è così infuriata.»
L’ho guardata con occhi nuovi. «Parli come se fossi d’accordo con i
puritani di Fayford, Lizzy.»
«Non posso dire che mi piaccia l’idea che il re e la regina si presentino qui.
Sapete benissimo» ha sussurrato «che lei è una bisbetica papista.»
«Lizzy!» Hetta ha alzato lo sguardo. Io ho abbassato la testa e la voce. «La
regina sarà anche cattolica, ma non è una bisbetica. Non dovresti dire cose
del genere. Devo proprio rammentarti che mia figlia porta il nome della
regina Henrietta Maria?»
«Non mi piace» ha ripetuto Lizzy. «Lei in casa vostra, a ripetere quelle sue
nenie papiste prive di senso. Soprattutto con i bambini, che sono così
influenzabili.»
«Ma cosa intendi dire? Hetta non è sciocca, solo muta. Non si venderà
l’anima al papa solo perché avrà visto una brava regina cattolica.»
«In ogni caso. Una bambina innocente, nella stessa casa! E il re! Sapete
bene cosa dicono di lui e del duca di Buckingham.»
«Non capisco quali pettegolezzi…»
«Non potrei mai sopportarlo. Una papista e un sodomita sotto lo stesso
tetto della nostra preziosa bambina.»
«Basta!» Mi sono alzata così di scatto che la sedia ha scricchiolato. Hetta si
è irrigidita e la punta della matita è rimasta sospesa, tremante, sul foglio.
«Tieni a freno la lingua, Lizzy» ho sibilato. «Non te lo permetto, non in casa
mia. È il tuo re. E parlerai di lui con rispetto.»
Il viso di Lizzy si è adombrato. «Sì, padrona.»
L’ho fatto di nuovo. Prima l’ho trattata come un’amica e poi l’ho
brutalmente risospinta nel suo ruolo di serva. Lo faccio sempre e so che a lei
dispiace. Ma cos’altro dovevo dire?
Noi dipendiamo dal re. Josiah ha sangue blu (sua madre era una contessa
vedova, prima di sposare suo padre, che non aveva titoli) ma soltanto il re
può nobilitare il nome dei Bainbridge. Soltanto il re può dare a mio marito il
cavalierato che tanto desidera. Io non posso, non posso permettere che in casa
mia ci sia qualcuno che diffonde idee traditrici e vigliacche. Solo l’anno
scorso ho sentito dire che a un uomo sono state mozzate le orecchie perché
aveva criticato la famiglia reale. Lizzy vuole davvero che faccia un passo
indietro e permetta che questo accada anche a lei?
The Bridge, 1865
—
Ce n’erano due.
Elsie fissò prima l’uno poi l’altro, cercando un indizio su quelle facce di
legno imperscrutabili. Uno faceva quel suo infantile sorriso d’intesa; l’altro,
l’intruso, era un ragazzino vestito per lavorare nei campi. Era rivolto a destra,
e appoggiato a un vincastro da pastore. Da sotto il berretto gli sfuggivano
ciocche di capelli neri sul viso tetro dalla carnagione scura.
«Chi sei?» domandò a voce alta, come se lui potesse rispondere.
In quel ragazzo c’era qualcosa di sgradevole. Sembrava infido, ribelle.
«Da dove sei spuntato?»
Forse Helen l’aveva trovato nel solaio? No: la porta era chiusa, bloccata. O
no? Ebbe un istante di incertezza. Dopo quella strana faccenda della nursery,
non poteva più essere sicura di niente.
Sbatté le palpebre, nella speranza che quel movimento potesse rivelarle che
lo zingarello era scomparso e accanto alla sua finestra era rimasta soltanto la
bambina con i fiori. Ma non servì a nulla: il ragazzo era ancora là.
Turbata, Elsie gli voltò le spalle e andò verso la scala. Non avrebbe parlato
a nessuno di quel nuovo Amico, non ancora, a meno che non ne fosse certa.
Si era già resa ridicola davanti alla signora Holt.
Forse era il dolore del lutto a darle le allucinazioni? Il dolore faceva uno
strano effetto sulla mente, la gente lo diceva sempre. Ma dopo tutto quello
che aveva passato, non le sembrava probabile che la morte di Rupert potesse
avere l’impatto necessario a farle perdere l’equilibrio.
Mentre saliva le scale la sua gonna si gonfiava; lei la ignorò, come ignorò
lo strato di segatura spazzato dall’orlo. Non voleva pensare al passato, solo al
compito che l’aspettava; sarebbe andata in biblioteca a scrivere per richiedere
un uomo che sistemasse il solaio.
La biblioteca era al secondo piano, era la prima stanza di un corridoio che
partiva dalla sua suite e arrivava in fondo alla casa. Elsie non si era mai presa
la briga di entrarci, prima. A suo modo di vedere, la biblioteca era il regno
degli uomini, satura di tabacco e riflessioni complesse.
Non ebbe problemi con la porta, che si aprì facilmente e scivolò sul
tappeto consunto senza incastrarsi. Mise un piede dentro e rabbrividì. Era
come valicare la soglia di una tomba. E proprio come una tomba, la
biblioteca era buia e soffocante, e vi aleggiava un odore di foglie marce.
Si diresse verso le tre finestre, scostò le tende che sfioravano il pavimento
e tossì per la polvere che piovve dalle mantovane. Filtrò una luce perlacea.
Gli alberi, fuori, sembravano più malridotti di prima; avevano perso parte del
loro fogliame colorato, che era caduto sulla ghiaia. Le aiuole erano piene di
cardi. L’inverno stava arrivando di gran carriera.
Si girò verso la porta. Era ancora socchiusa: buon segno. Non stava
impazzendo. Per quanto riguardava i brividi, la causa era chiara: alla sua
destra sbadigliava un caminetto vuoto, che esalava folate d’aria gelida
convogliata dal vento nel comignolo.
Ora che le tende erano aperte, si rese conto che quella stanza non era come
se l’era aspettata. “Biblioteca” era un nome pretenzioso per una semplice
stanzetta con un’estremità concava e forse cinque o sei librerie lungo le
pareti. In un’alcova, di fronte al fuoco, troneggiava una scrivania lucida e
pesante, con una lampada dal paralume verde appesa sopra lo spazio per
scrivere.
Si avvicinò e si sedette. La poltrona era comodissima e le alleviò la
tensione alla schiena e alle gambe.
Guardò la scrivania. Il calamaio era aperto e ne spuntavano le piume di una
penna d’oca. Rupert. Si era seduto lì, la penna pronta nella mano sinistra. Le
sue gambe avevano toccato quella poltrona di cuoio liscio che scricchiolava,
ma del suo calore non era rimasto niente.
Ne sentiva terribilmente la mancanza. Le mancava e lo odiava. Come
aveva potuto abbandonarla? Avrebbe dovuto essere il suo salvatore, la sua
ricompensa, l’uomo ricco entrato in fabbrica all’improvviso che si era
innamorato di una donna di condizione inferiore. Non poteva affrontare i
giorni che l’attendevano senza di lui. Non poteva crescere un bambino e
superare tutti i ricordi che questo avrebbe risvegliato. Aveva bisogno di lui.
Le lacrime le annebbiarono la vista mentre a tentoni apriva i cassetti uno
dopo l’altro, spalancandoli. Il legno cigolava e le maniglie di metallo
tintinnavano. Doveva tenersi impegnata, doveva scrivere a qualcuno di quel
buco nel pavimento del solaio. C’erano da fare dei lavori grossi a The Bridge,
prima che potesse viverci un bambino.
Dai cassetti svolazzarono fuori alcuni fasci di fogli di carta. Avrebbe
dovuto passarli in rassegna a uno a uno e scoprire fino a che punto Rupert
aveva portato avanti i propri progetti. Quell’orribile nursery andava
completamente ristrutturata, tanto per cominciare. Forse l’avrebbe anche
spostata; detestava l’idea di mettere suo figlio nella stanza dov’erano morti i
fratellini di Rupert. Lo spazio bastava per una nursery diurna e una notturna,
per non parlare…
Le sue mani si immobilizzarono.
Qualcosa brillava nelle profondità di un cassetto. Si chinò. Di nuovo:
minuscole scintille sparse sulla fodera verde. Infilò dentro la mano e strinse le
dita intorno a un sacchetto di velluto. Era pesante. Lo tirò fuori e lo lasciò
cadere sulla scrivania con un tonfo.
Il sacchetto era vecchio ma non consumato; era come se il tempo l’avesse
abbellito, invece che rovinato. Era stato costruito per chiudersi con delle
cordicelle, ma restava aperto per colpa di un rotolo di carta. Elsie non esitò:
rovesciò il sacchetto e ne sparse il contenuto sul piano.
Si ritrasse, abbagliata. Un rivolo dei colori dell’arcobaleno si increspò a
formare una spirale. Allungò un dito per toccarlo e attraverso i guanti percepì
la solidità dei gioielli. «Non è possibile» balbettò, prendendola. E invece sì:
una collana zeppa di diamanti.
Le gemme catturavano la luce da centinaia di angolazioni diverse,
bruciando come fuoco bianco. La catena era incrostata di brillanti che
arrivavano fino al centro, dove alcune pietre taglio marquise formavano un
arco scintillante. I tre pendenti – tre enormi pietre tagliate a goccia – da soli
parevano più preziosi della casa stessa.
Ipnotizzata, rimise la collana sulla scrivania e la fissò. La catena sembrava
antica, ma i diamanti erano perfetti. Non notò la minima opacità; soltanto
quella fiamma calda e bianca che lungo i bordi si scioglieva in mille colori.
Ma il rotolo. Cosa c’era scritto? Lo prese e lo lisciò.
Non aspetto altro che la promessa della primavera. Il tempo è stato orribile
per tutta la Quaresima e poi a Pasqua la chiesa si è allagata. Josiah mi scrive
che a corte hanno sospeso i festeggiamenti fino alla Pentecoste. Certo, non li
posso biasimare. Più che giornate primaverili sembrano cupe serate
novembrine. Dio solo sa cosa farò se la situazione non migliora entro agosto.
Se il re non potrà andare a caccia nei boschi e se la regina non potrà godersi i
giardini, sarà un disastro.
Questo pomeriggio sono riuscita a uscire nei giardini all’italiana per la
prima volta da settimane. Brillava il sole, ma l’allodola non cantava e sugli
alberi non era spuntato nessun germoglio appiccicoso. La mia Hetta lavorava
nel suo giardino fisico, dove coltiva erbe. Era adorabile con il suo cappellino
di paglia, tutta concentrata, e con quelle cesoiette potava le cime morte – zac,
zac – che emanavano i loro intensi profumi. L’ho osservata con piacere.
Nell’ombra sembrava un giglio; la pelle pallida e la ragnatela di vene intorno
agli occhi. È una fanciulla così fragile e delicata: mia sorella Mary modellata
nella porcellana.
Ho cercato di non permettere all’aroma delle erbe di sconvolgermi la
memoria, ma non sono riuscita a controllarla. Ho chiuso gli occhi e sono
tornata a quella notte, a quella tisana preparata sotto la luna piena. Al torbido
riflesso del mio viso in fondo alla tazza. Il senso di colpa persiste, come
l’odore delle mele cadute che marciscono in un frutteto. Forse ho sbagliato a
voler interferire con l’ordine naturale delle cose, ma non riesco a pentirmene;
non riesco a pentirmi di lei.
Harris si occupava del giardino a nodo; in ginocchio, potava i cespugli con
precisione e rastrellava la ghiaia colorata. Il vento forte aveva cancellato i
disegni, quindi gli ho chiesto di ricostruire le volute. Gli ho anche domandato
di dare nuove forme alle siepi, o almeno al parterre – angeli e gigli per una
figlia di Francia – ma lui dubita che cresceranno a sufficienza in tempo per
agosto.
«Allora comprate dei cespugli già cresciuti» gli ho detto. «E potateli.»
Mi è parso che trovasse la cosa divertente. Tuttavia, in quell’ambito mi ha
promesso di fare del suo meglio. Per quanto riguarda la mia richiesta di
piantare certe varietà, è stato del tutto scoraggiante.
«Rose e gigli insieme non crescono» ha detto, ripulendosi la terra da sotto
le unghie storte. «Non sono fatti gli uni per gli altri.»
«Lo so. Non abbiamo bisogno che crescano insieme, ma devono essere
entrambi nel giardino. Una rosa per il re d’Inghilterra e un giglio per la
principessa di Francia.»
«Con un giglio posso riuscirci. Ai bulbi piace stare sepolti a fondo, al
fresco e all’ombra. Però se continua a piovere rischiano di guastarsi.»
«E i nostri roseti?» domandai. «Quest’anno non fioriscono?»
Lui ha allargato le braccia con un sospiro che mi ha fatto infuriare, quasi
non fosse compito suo far funzionare queste cose. «Ci vuole pieno sole,
padrona. Per fiorire hanno bisogno di tanta luce e terreno drenato. Se me li
procurate, vi faccio fiorire le rose.»
Ho temuto di perdere la calma, così mi sono piantata i pugni sui fianchi e
ho guardato Hetta. Aveva smesso di lavorare ed era là in piedi a fissare le
colline verdi, come se fosse in attesa di qualcosa. Dei fiorellini bianchi le si
intrecciavano sulle scarpe; pareva quasi che alcuni rametti scomposti
cercassero di raggiungerla e abbracciarla.
«Hetta» l’ho chiamata. «Fai un passo indietro, tesoro, ti strapperai il
vestito.»
Lei mi ha obbedito, ma senza guardarmi. Vicino a lei ho sentito le cesoiette
fare zac, zac. Ma non tagliavano niente. Solo l’aria.
«Per quanto riguarda i cardi» ha detto Harris, «non posso permettervelo.
Sono un’erba cattiva, padrona. Se glielo lasciate fare si prenderanno tutto il
giardino.»
«Il cardo è il fiore della Scozia. Il simbolo della famiglia Stuart.»
«È un’erba cattiva» ha ripetuto lui. «Invasiva. Divorante. Striscia.»
All’improvviso mi sono venuti i brividi. Dopotutto il clima non è poi così
mite. «Se dovete piantarli da qualche parte, metteteli nell’orto della signorina.
Credo che là farebbero meno danni.»
Devo confessare che aveva ragione: sui danni, intendo. Forse quello che
non è in grado di controllare il diffondersi di un’erba cattiva è lui, ma la mia
Hetta ne è capace. Non ho ancora visto una pianta che non riesca a domare o
addomesticare, dal finocchio marino e dall’uva spina che prosperano nell’orto
alla tossillaggine e al partenio che coltiva per i nostri acciacchi e dolori. Le
ho insegnato io a piantare, ma ora mi ha sorpassato. Ha solo otto anni e mi ha
superato di tanto.
A volte credo sia la tisana che le scorre nelle vene a far fiorire le sue
piante. Da Mary ha ereditato molto di più che l’aspetto, perché era mia
sorella maggiore quella che in segreto andava a trovare le curatrici e mi
insegnava le loro arti.
«Hetta. Hetta, tesoro mio.» Mi sono sollevata l’orlo della gonna e mi sono
inoltrata tra i rami non ancora potati per raggiungerla. Mi ha guardato
solamente quando le ho messo una mano sulla spalla. «Ho un grande favore
da chiederti.» Ignorando la terra, mi sono accucciata per mettermi al suo
livello. «Coltiveresti per me dei cardi nella tua aiuola?»
Lei ha sbattuto le palpebre e poi ha inclinato la testa dubbiosa.
Ho esitato. Josiah non mi ha permesso di parlare della visita reale davanti a
Hetta, ma la sottovaluta. Come dico spesso, è soltanto muta, non è una povera
sciocca qualsiasi. Sente parlare gli altri. Deve avere intuito cosa sta
succedendo.
«Il motivo per cui te lo chiedo è che verranno a stare qui il re e la regina. Il
cardo è uno dei simboli del re, capisci?»
Lei ha annuito. Il moncone rosato e deforme della sua lingua si è mosso e
dalla gola le è uscito un suono; non una parola, piuttosto un belato.
Mi sono sentita svuotare. Guardare quella lingua è come guardare un abito
macchiato o una lettera con l’inchiostro sbavato. Risento ancora una volta le
parole di Josiah: la sua aberrazione. Mary non avrebbe mai commesso un
errore del genere.
Spronata dal senso di colpa ho aggiunto: «Anzi, tesoro, potresti aiutarmi
nei preparativi anche in altri modi. La cena che serviremo al re dev’essere
squisita. Per insaporirla avrò bisogno di rosmarino, salvia e timo. Di basilico
e forse anche di un po’ di prezzemolo. Cipolle, mele cotogne, rape» ho
continuato contando sulle dita. «Credi di riuscire a far crescere tutto questo?»
Sul viso le si è aperto un sorriso e mi si è allargato il cuore. Quando Hetta
sorride non c’è bisogno di parole: riesce a incantarti con le labbra rivolte
all’insù e le morbide fossette. Come può la gente insinuare che sia un
demonio a renderla muta? Come possono anche solo pensarlo?
«Bene.» E le ho sfiorato una guancia. Il suo profumo, così dolce e fiorito, e
la sua pelle, come petali di seta. «Brava. Scrivi quello di cui hai bisogno e il
signor Harris te lo procurerà.»
Almeno così sarà coinvolta nella gloria di quella giornata, checché ne dica
Josiah.
Le sue parole mi perseguitano: la sua aberrazione. In piedi nella dispensa,
mentre cerco di schiacciare i rimorsi con pestello e mortaio, le rivedo: quella
lingua. E l’espressione di Josiah.
Credo che sappia.
Non ha mai temuto il mio potere, prima. Beve erbe e infusi per aiutare la
fortuna senza discutere. Quando però guarda Hetta è come se vedesse non un
fiore, ma soltanto la terra fangosa che c’è sotto. Come se vedesse le mie mani
callose e incrostate di sporco.
The Bridge, 1865
—
Una volta che ebbe espulso quel peso e bevuto un bicchiere d’acqua, Elsie si
rese conto dell’ambiente che la circondava. Helen l’aveva fatta sedere sul
panno verde consunto del biliardo, con i piedi penzoloni dal bordo. Lì
accanto, in salotto, si sentiva il tintinnio dei cucchiaini contro la porcellana.
La signora Holt doveva aver finalmente servito il tè.
«Ho detto alla signora Holt che sarei rimasta con lei, per un poco, nel
caso… nel caso stesse ancora male.» Helen sussurrava e i suoi occhi
continuavano a spostarsi verso il muro. «Non ho molto tempo, signora. Posso
parlarle adesso?»
Elsie non era dell’umore per occuparsi dei problemi del personale, ma
Helen le aveva impedito di vomitare e svenire in corridoio. Le doveva
almeno un orecchio attento.
«Sì, un momento ce l’avrei. Su, dimmi.»
«Io…» Helen si interruppe, confusa. Abbassò lo sguardo e cominciò a
giocherellare con il grembiule. «Non so proprio da dove cominciare, signora.
È solo che… la signora Holt mi ha detto che è stata nella nursery.»
A un tratto, una vampata di calore alla testa. «Sì.»
«E ha…» Torse ancora una volta il grembiule. «Ha visto niente, signora?»
Elsie si aggrappò al bordo del biliardo. Scherzava, sicuramente. La signora
Holt si era lasciata sfuggire la sua reazione nella nursery e la cameriera si
stava prendendo gioco di lei.
La governante della casa londinese di Rupert aveva cercato di convincere
Elsie a servire la cena alle due del pomeriggio, per farla sfigurare davanti agli
ospiti. La servitù lo capiva, che il suo era un patrimonio di origine
commerciale; “soldi da bottegai” li chiamavano. Non aveva antenati nobili e
quindi la ritenevano una preda facile.
«Cosa pensi che avrei dovuto vedere, esattamente?»
Si sarebbe aspettata la descrizione da lei resa alla signora Holt della culla e
dei giocattoli. Invece Helen disse: «Delle scritte».
«Scritte?»
Helen lasciò cadere il grembiule. «Non avrei dovuto parlare. Signora, la
prego di dimenticare quel che ho detto.»
«Hai visto delle scritte nella nursery, Helen?»
La cameriera le fece ansiosamente cenno di tacere. «La signora Holt non la
deve sentire. Odia questo genere di cose. Si è perfino comprata un gatto nero
per dimostrare che le superstizioni sono stupidaggini. Ma da quando è
arrivato il padrone, qualcosa… qui c’è qualcosa di strano.»
Se stava recitando, era brava. Aveva le mani tremanti di una donna in
preda a un attacco di nervi.
Elsie scelse con molta attenzione cosa dire in seguito. «Credo che sia stata
tu a trovare il signor Bainbridge, vero? Dopo la sua morte? È naturale che ti
senta snervata dopo avere avuto un lutto in casa. Forse…»
Helen scosse la testa. «Ci avevo pensato, signora, quando Mabel non si è
accorta di niente. E ho pensato che in quella nursery c’è abbastanza canfora
da ammazzare un gatto, e che quindi forse era stato quell’odore a
confondermi le idee. Ma il padrone… le ha viste anche lui.»
Sul bordo del biliardo, Elsie vacillò. «Le scritte?»
«No… non esattamente. Sono stata solo io a vederle, nella polvere. Come
se fossero state tracciate da un dito. Ma per il padrone è stato diverso. Lui ha
visto le lettere di legno, che formavano una parola.»
«Quale parola, Helen? Sei riuscita a leggerla?»
«Oh sì. È stata la signora Holt a insegnarmi a leggere.» E poi, con una
sfumatura d’orgoglio: «Mabel ancora non c’è riuscita».
«Lascia perdere adesso, che parola era? Cosa diceva?»
Con un sorriso storto, Helen rispose: «Mamma. C’era scritto mamma».
The Bridge, 1635
—
Non sono nemmeno lontanamente pronta alla visita reale quanto vorrei, per
via della neve (la neve!) a Pentecoste, che ha ostacolato ogni spostamento.
Una terribile gelata ha distrutto quasi tutte le mie piante. Dovrò riseminarle, o
sostituirle con fiori già sbocciati. Grazie al cielo le serre di Londra sono
riuscite a inviarci rose e gigli! Prego Dio di riuscire a mantenerli vivi per i
prossimi tre mesi. Un altro piccolo miracolo è stato che l’orto delle erbe di
Hetta è sopravvissuto. Quei rametti verdi si sono dimostrati davvero tenaci e
gli steli verde-azzurri del cardo crescono bene.
La mia ansia cresce con l’aumentare delle speranze di Josiah. Già progetta
di costruire una nuova ala per la casa. Stamattina è entrato nelle mie stanze
mentre mi vestivo, con un pacco avvolto nella seta.
«Che cos’è?» ho chiesto alla sua immagine riflessa nello specchio. Dietro
ho sentito qualcosa di freddo, di limpido come il ghiaccio.
«È un dono, mia signora.» E mi ha messo una mano sulla spalla. «Prova a
indovinare.»
«Un gioiello da indossare quando verranno il re e la regina. Una…
collana?»
Lui ha riso. «La mia piccola profetessa.»
E ha cominciato ad aprire il pacco. Ho dovuto socchiudere gli occhi, non
ho visto ma ho avvertito le sue mani intorno al collo. La collana mi sfiorava
la clavicola. Dura, fredda. Come una fascia di neve.
«Apri gli occhi» ha riso Josiah. «Lizzy, tira le tende, la tua padrona è
rimasta quasi accecata.»
Ho sentito le tende scorrere alle mie spalle e ho lentamente sollevato le
palpebre.
Avevo indovinato l’oggetto, ma non la sua qualità. Il mio collo era cinto da
diamanti che mi arrivavano fino al seno. La collana era a forma d’arco, con
tre pendenti a goccia. Pietre dal taglio perfetto, pure come acqua. Un gioiello
che potrebbe appartenere alla regina stessa.
«Josiah…»
Ho colto la sua immagine nello specchio. Era gonfio d’orgoglio. «La
tramanderemo ai nostri eredi, Annie. Alla moglie di James e alla moglie di
suo figlio e così via. Ogni grande famiglia deve avere un cimelio prezioso.
Questi saranno i diamanti Bainbridge.»
Ho dischiuso le labbra. Sono stata sul punto di dire che avevo già avuto i
gioielli di sua madre, ma nell’atmosfera c’era una pesantezza, una vibrazione
che me l’ha impedito. «Sono molto belli. Possiamo…» Ho lanciato
un’occhiata a Lizzy e ho abbassato la voce. «Possiamo permettercela,
tesoro?»
Lui si è accigliato. «Ma perché ti preoccupi di una cosa del genere? Presto
arriveranno gli affitti di mezza estate.»
Affitti che dall’ultimo trimestre avevamo aumentato, ho pensato.
«Ma certo.» I diamanti mi pesavano sul petto. Quando li muovevo sulla
pelle erano dolorosamente freddi. «Perdonami, è solo che… non ho mai
posseduto un oggetto così prezioso! A dirti la verità, ne ho un po’ di timore.»
Non riuscivo a non pensare a come Mary aveva parlato dei diamanti, molti
anni prima.
«Tengono lontano il malocchio» mi aveva detto. «Ti proteggono dalle
magie più oscure.»
Era per questo che Josiah me li aveva allacciati intorno al collo?
Sospettava forse che la mia dispensa contenesse qualcosa di più che semplici
erbe?
Mi girava la testa, mi sono toccata la gola e ho guardato la sua immagine
nello specchio.
Sorrideva e le sue guance si increspavano. «Devi abituarti ai gioielli
migliori, mia signora, come si addice alla tua posizione di mia consorte.
Vorrei che tu indossassi queste gemme tutti i giorni.»
Nella sua voce l’ombra dello stesso gelo dei diamanti. Non era un semplice
desiderio: era un ordine.
Alle sue spalle, Lizzy stava alla finestra e si teneva una mano raggrinzita
sulla clavicola, come se anche lei sentisse quel brivido sulla pelle.
Ho deglutito. I diamanti si sono mossi.
«Come desideri, mio signore.»
Nell’istante in cui mi sono svegliata ho capito subito che questa sarebbe stata
una giornata piena di conflitti: era scritto nell’aria afosa. Un muro di nuvole
escludeva la luce e sui giardini regnava una tensione muta. Il caldo era
opprimente. Ho atteso per tutto il giorno che le nubi si aprissero e che il mio
mal di capo se ne andasse, ma quelle ancora incombono su di me, come
prima. Fuori nulla si muove; la brezza è scomparsa.
Se sarà così quando arriveranno il re e la regina, saremo tutti sudati e
indisposti. Come possiamo apparire splendidi nei nostri magnifici vestiti, con
il sudore che ci cola dal viso? Nessuno avrà mai voglia di cigno arrosto. Oh,
se soltanto questo clima migliorasse!
Josiah mi ha fatto provare malinconia al pensiero del loro arrivo. Poco
dopo pranzo è venuto da me e ha mandato via le serve.
«Devo parlarti» ha dichiarato. La mandibola irrigidita, le rughe sulla fronte
dicevano già abbastanza.
«Hai preso una decisione su Hetta» ho detto.
«Sì.» Si è accarezzato la lunga barba. «Annie, quello che devo dirti non ti
piacerà.»
«Allora non dirlo. Cambia opinione.»
Lui ha sospirato. «Non posso. È meglio così. Henrietta Maria potrà
partecipare al banchetto. Ha lavorato duro e se lo merita. Ma per quanto
riguarda il resto degli intrattenimenti… La risposta è no.»
Ho stretto le mani a pugno. Ho capito che avrei dovuto scegliere con cura
le parole, ma non sono riuscita a dominare le mie emozioni. Quella pungente
sensazione di calore si è gonfiata dentro di me e mi ha fatto salire le lacrime
agli occhi.
«È giovane» ha proseguito lui. «Non sono sicuro che la sua presenza
sarebbe appropriata, anche se…»
«Ti vergogni di lei» ho detto.
Per un istante lui ha esitato. Mi è bastato. «Mi fa pena…»
«È un miracolo! Le levatrici avevano detto che non avrei mai partorito un
altro figlio, non dopo Charles. Eppure è arrivata lei. La tua unica figlia,
Josiah. Un miracolo.»
«Lo so molto bene. Tutti pensavano che non saresti riuscita a portarne in
grembo un altro. Forse è per questo che… lei ha quelle difficoltà.»
Dietro le sue parole ho percepito l’accusa che è sempre in agguato sotto la
superficie: è colpa mia se la lingua di Hetta non è cresciuta. Il mio ventre non
è stato capace di nutrire una bambina completa. Le è mancato qualcosa; o in
me, o nella pozione.
«È stata toccata da Dio!» ho gridato. Lui mi ha guardato ed è bastata
quell’espressione a far ardere la mia rabbia. «Non ne sei convinto? Pensi il
contrario?»
Lui ha alzato le mani in un gesto di resa. Si stava stancando di me.
«Calmati. Ma certo che non penso che Henrietta Maria sia posseduta dal
demonio. Sei isterica.»
«Non è vero. Tu vuoi nascondere mia figlia!»
«Al banchetto la vedranno tutti, Anne. Non la voglio nascondere, ma devo
proteggerla.» E ha cominciato a camminare avanti e indietro, facendo
scricchiolare il cuoio degli stivali. «La introdurremo in società lentamente.
Non è ancora pronta. È troppo selvatica, troppo infantile. L’abbiamo viziata e
le abbiamo permesso di scorrazzare per casa a suo piacimento. Ma tutto
questo deve finire. Bisognerà educarla.»
«Educarla?»
«Al galateo di corte. Non c’è tempo di istruirla prima della visita reale.
Non possiamo permetterci di sbagliare. Nemmeno una volta! Non oso
immaginare le conseguenze. Vuoi che sia per sempre bandito da corte a causa
delle goffaggini di Henrietta Maria? Deve andare tutto alla perfezione.»
La mia rabbia ha vacillato mentre sentivo il cigolio dei suoi stivali. Perché
non mi sembrava affatto il rumore di un paio di stivali in pelle: io udivo gli
alberi, di notte, che agitano i loro rami sopra una figura incappucciata che
raccoglie erbe; il suono del pestello nel mortaio; mistero e tentazione nelle
parole di un antico incantesimo. «Ho l’impressione che tu stia insinuando che
nostra figlia non è perfetta.»
«Sai benissimo che è proprio così.»
Sono rimasta senza fiato. Come poteva Josiah dire una cosa del genere,
della sua stessa figlia? Non credo di averlo mai odiato come in quel
momento. «Questa notizia le spezzerà il cuore» ho detto.
«Allora gliela darò io, se tu non vuoi farlo. Dove si trova?»
«In giardino.»
Mi sono avvicinata alla finestra, per poterla vedere in pace, prima di
mandare in frantumi le sue speranze. Fuori, tutto aveva un’aria strana. Le
piante rilucevano in maniera innaturale sotto il cielo che annunciava un
temporale. Le nuove siepi di gigli si erano trasformate in lance di un verde
brillante; le rose erano grumi di sangue. Dietro di esse, la mia Hetta era
inginocchiata a terra e si occupava delle sue erbe. Le si vedevano le caviglie,
macchiate di verde. La cosa non mi preoccupava. Il suo viso era pieno di
luce, nonostante le nuvole. Aveva un’aria felice; sorrideva, annuiva e
ascoltava intenta…
«Quello chi è?» ha sbottato Josiah alle mie spalle.
Sottovoce, ho imprecato. «Di nuovo quello zingarello. È ora di dargli una
bella sgridata. Gli ho già detto di stare alla larga.»
«Vedi? Lo vedi, adesso?» E ha indicato fuori dalla finestra. «Gioca con gli
zingari! È esattamente quello di cui stavo parlando.»
Mi sono girata di scatto, troppo arrabbiata per contraddirlo. «Me ne occupo
io» ho esclamato e sono uscita dalla stanza a grandi passi.
Ho sceso le scale pestando i piedi. Al diavolo quello zingarello e la sua
impudenza, al diavolo per avere spinto il padre di Hetta a pensare male di lei!
Sono uscita in giardino. L’aria era come un alito cattivo. Non c’era da
meravigliarsi che le piante non crescessero; anche la terra era pallida, asciutta
e crepata.
Lizzy non si vedeva da nessuna parte. Ma cosa credeva di fare, lasciando
Hetta senza protezione?
«Hetta! Quel ragazzino ti sta disturbando?»
Lei è saltata in piedi ed è venuta a prendermi per mano. La sua era sporca,
ma non sudata. L’umidità che spossava me e il giardino non la disturbava
affatto.
«Cosa succede?»
Lei mi ha sorriso lentamente. Poi ha sbattuto le palpebre e mi sono resa
conto che mi guardava i diamanti. Una manina si è allungata verso il mio
collo.
«Non adesso, Hetta. Hai le mani luride. Potrai toccare la collana più tardi.»
L’ho allontanata con un gesto e ho lanciato un’occhiataccia al ragazzino. Lui
non si è lasciato turbare, monello dispettoso che non era altro. «E per quanto
riguarda te… non dovresti essere qui. E lo sai benissimo. Questo è l’ultimo
avvertimento.»
Ormai in ritardo, si è tolto il berretto. «Vi prego, padrona. Sono solo
venuto a cercare lavoro.»
«Gli zingari non lavorano…» ho esordito, ma Hetta mi ha tirato per il
braccio e mi ha fatto uno di quei segni che conosciamo soltanto noi due.
Cavallo. «Ha rubato il mio cavallo?»
Lei ha scrollato la testa con energia. Le sue labbra si sono increspate per la
frustrazione, come accade sempre quando non riesce a farsi capire. Cavallo.
Ragazzo. Cavallo.
Il ragazzo era agitato e le parlava in quella sua cantilenante lingua zingara.
Sembrava uscita dall’inferno, composta da tutti gli idiomi del mondo, una
creatura demoniaca. Ma lei pareva comprenderlo, perché annuiva e
borbottava.
«La signorina Henrietta Maria…» Poi mi ha guardato, gli occhi neri come
il carbone. «La signorina pensa che mi permetterete di lavorare qui. Con i
cavalli.»
Mi sono domandata come facesse a saperlo; come osava dare per scontato
di capire Henrietta quando non ci riuscivo nemmeno io. «Non ho intenzione
di lasciarti avvicinare nemmeno a cento iarde dai miei cavalli» ho ribattuto.
«Me li ruberesti.»
Hetta mi ha lasciato andare la mano.
«Vi prego, padrona. Vi prego. La mia gente è brava con i cavalli. Adesso
che il vostro amministratore ha sgomberato il campo, cosa faremo? Dove
troverò da mangiare?»
Ho taciuto. Mi faceva un po’ pena, lì tutto rattrappito e stracciato. Hetta mi
ha fatto un altro segnale. Niente.
«So che non hanno niente, Hetta. Ma non è colpa mia.»
No, non avevo capito. Ragazzo. Niente.
«Non abbiamo rubato niente» ha replicato lui, piano. Gli occhi di Hetta si
sono illuminati e per un istante ho invidiato quello zingarello. Che genere di
intesa aveva con mia figlia, la mia creazione? Non volevo che le stesse
vicino. «In tutti gli anni che abbiamo vissuto su quel campo, durante l’estate,
non vi abbiamo mai rubato niente.»
«Può essere. Ma nella mia stalla ci saranno i cavalli del re. Lo capisci?
Come posso correre un rischio simile? Cosa direbbe se uno zingaro gli
rubasse il cavallo? Riterrebbe responsabile mio marito. Saremmo rovinati.»
Hetta ha teso le mani.
«Avrete bisogno di altra servitù» ha detto lui. «Per la visita del re. Ci
vorranno tanti stallieri. Sarete molto impegnata.»
«In quel caso assumerò degli uomini, non un ragazzino zingaro.»
Hetta ha pestato i piedi. Con mio grande stupore mi ha dato una spinta
sulla gamba.
Ho perduto la calma. Non mi trovavo più nei giardini di The Bridge, ma a
casa, tanti anni prima. Mary si era lanciata verso il vassoio dei dolci e mi
aveva spinto da parte. Ero caduta e lei aveva riso. La rabbia mi bruciava nella
mano.
Il suono di pelle contro pelle è stato più forte di qualsiasi grido. Sulla
guancia di Hetta c’era l’impronta rossa delle mie dita. Non l’avevo mai
picchiata prima.
Non dimenticherò mai lo sguardo ferito dalla passione, quasi simile
all’odio, che le bruciava negli occhi. «Oh, Hetta! Ti prego di perdonarmi.
Non ne avevo intenzione… non avresti dovuto spingermi! Oggi sei così
ostinata.»
I miei occhi furtivi hanno cercato la finestra. Grazie al cielo Josiah non
c’era. Non ha visto mia figlia comportarsi come il maschiaccio che l’accusa
di essere.
«Non volevo causarvi turbamento, padrona.» Il ragazzino si è rimesso il
berretto. «Volevo soltanto lavorare. Adesso me ne vado. Addio, signorina
Henrietta Maria.»
Dalle labbra di Hetta è uscito un suono: un rumore orribile, come quello di
un animale in preda al dolore. Gli è corsa dietro e l’ha afferrato per la giacca.
Non so dire cosa sia accaduto tra loro. Lui le parlava rassegnato in quella sua
lingua barbara e lei gli rispondeva con segnali delle mani che non conoscevo.
Alla fine l’ha lasciato andare.
È tornata alla sua aiuola e ha cominciato a potare i cardi. Non mi guardava,
ma io scorgevo il suo profilo. Dal suo viso era scomparso ogni risentimento.
Ogni traccia vitale era svanita, lasciandosi dietro soltanto tristezza.
Ho sentito il cuore stringersi in petto. Non sapeva nemmeno di essere stata
bandita dal masque. L’ho osservata chinarsi sul terreno e annaffiare il
rosmarino con le lacrime. Sulla terra riarsa sono comparse delle macchie
scure, che lentamente sono state assorbite dalle radici.
Nessun cuore di madre è in grado di sopportare una vista del genere.
Sarebbe già abbastanza difficile con una figlia normale, che piagnucola e
singhiozza. Ma guardare la mia povera mutina, tanto silenziosa nella sua
disperazione, ha spezzato la mia risolutezza, come un ramo sottile sotto il
peso di un colombaccio.
«Aspetta» ho gridato. Lo zingarello si è fermato subito. Mi sono azzardata
a lanciare un’altra occhiata alla finestra: nessuno. «Aspetta.»
The Bridge, 1865
—
Quei farmaci erano più forti degli ultimi. Mentre avanzava faticosamente
lungo il corridoio accanto al dottor Shepherd sentì che le risucchiavano il
sangue.
Forme e facce si fondevano davanti ai suoi occhi. Ovunque si girasse
c’erano le mandibole flosce e le bocche salivanti di idioti. Strillavano come
arpie, incombevano nel suo campo visivo e poi svanivano in un vortice.
Fantasmi orribili che infestavano quel luogo come il puzzo di piscio.
«Molto benefico, non trova?» domandò lui. «Camminare fa scorrere
meglio il sangue. Non vedo alcuna ragione perché lei non possa godere degli
stessi vantaggi degli altri pazienti, sotto la mia supervisione. Dopotutto, non è
stata presentata alcuna prova contro di lei.»
Un’altra delle sue ricette “utili”. Più che un piacere era una pena. La vera
punizione non era mai stata la prigione, ma la gente con cui era costretta a
stare. I lunatici erano i peggiori; balbettavano, si lagnavano, gemevano.
Alcuni non erano nemmeno in grado di controllare la vescica. Ecco perché
aveva rovesciato il pranzo addosso a quella vecchia e fatto un occhio nero
all’infermiera mentre le dava il piatto. Non c’era nulla di personale. L’unico
modo di ottenere un po’ di privacy, e un sonno tranquillo, era essere
etichettata come “pericolosa”. E voleva dire qualche giorno nella cella buia e
imbottita, ma anche farmaci più forti. Secondo lei, ne valeva la pena.
«Ma devo stare attento a non stancarla troppo. Speravo che una volta
tornati nella sua stanza potessimo parlare un poco, con la lavagna. Che ne
dice, signora Bainbridge? Se è ben disposta a farlo.»
Ben disposta? Aveva capito che quell’atteggiamento era un trucco del
medico, ideato per stuzzicare il lato più mondano e raffinato del suo carattere.
Se ce l’aveva ancora.
Gli odori contrassegnavano i luoghi. Quello di porridge bruciato le diceva
che erano vicini alla mensa; quello di sapone, acqua gelida e paura segnalava
i bagni. Quando sentì puzza di lenzuola ammuffite e udì i suoi piedi far
cigolare le assi del pavimento, capì di essere rientrata nella cella. Era quasi
come tornare a casa.
Si lasciò sprofondare sul letto, mentre il mondo era immerso nella nebbia.
Le pareti bianche tremolavano. Il dottor Shepherd le porse lavagna e gessetto.
Quando cercò di prenderli ebbe l’impressione che le mani le galleggiassero
davanti agli occhi, rallentate dalle medicine.
«Resti pure sdraiata se ne sente il bisogno, signora Bainbridge. Può
scegliere la posizione che più le piace, basta che scriva.»
Non aveva scelta: le mancava l’energia per alzarsi.
«Nella sua storia si sono verificati parecchi sviluppi interessanti. Per il
momento vorrei che si concentrasse su uno solo. Lei ha scritto che sua madre
è morta di tifo. Credo che suo padre fosse già deceduto, no?» Lei annuì. «E
come?»
Il viso di papà cercò di comparirle davanti, ma lei non glielo permise.
Chiuse forte gli occhi.
«Signora Bainbridge? Si ricorda com’è morto?»
Il gessetto scricchiolò mentre scriveva NO.
Lui si schiarì la voce. «Me l’aspettavo. Vede, signora Bainbridge, sono
dell’opinione che il suo attuale silenzio non sia stato scatenato semplicemente
dall’incendio a The Bridge. Ritengo che fosse in agguato da molto tempo.
Anzi, sono convinto che la malattia sia iniziata con suo padre.»
Lei spalancò gli occhi, girò la testa sul cuscino e fissò la forma vacillante
di lui.
«Sì. Mi dispiace doverle comunicare che suo padre è morto in una maniera
alquanto sconvolgente. È accaduto meno di due mesi dopo la nascita di suo
fratello.» Lo sentì far frusciare della carta, anche se non riusciva bene a
mettere a fuoco. «È stata chiamata la polizia. E lei ha rilasciato una
dichiarazione.» Una pausa. «Vuole… vuole che gliela legga?»
Fu come se le avesse congelato ogni goccia di sangue nelle vene. Non era
in grado di muoversi, solo di sbattere le palpebre, ma lui lo prese come un
assenso.
«“Elisabeth Livingstone della fabbrica di fiammiferi Livingstone, Bow,
Londra. Dodici anni. Sono la figlia del defunto. Aiuto gli operai della
fabbrica da quand’ero piccola. Il pomeriggio del 2 agosto, verso le tre, stavo
legando delle fascine di legnetti quando sul pavimento della fabbrica ho
notato un fuoco. Era un fuoco piccolo, situato accanto alla sega circolare.
Non ho visto com’è iniziato. Conoscevo i pericoli del fuoco in quella fabbrica
e sono corsa a spegnerlo, ma non avevo con me una coperta o della sabbia.
Ho cercato di soffocare le fiamme con le mani e mi sono ferita. Non credo di
avere gridato ‘Al fuoco’. Forse l’ha fatto un altro operaio. Poco dopo ho visto
il defunto correre verso di me con un secchio d’acqua. L’acqua nel secchio
ondeggiava e lui dev’essere scivolato. Io mi stavo occupando della mia ferita.
Ho sentito un rumore come lo scricchiolio di una scarpa e poi un tonfo. Ho
alzato la testa e mi sono resa conto che il defunto era caduto sulla sega
circolare”.»
Il dottore tacque rispettosamente per un istante. Lei non gliene fu grata: nel
silenzio poteva sentire di nuovo quel suono spaventoso.
«Direi che dev’essersi trattato di uno spettacolo orribile per gli occhi di
chiunque» affermò infine. «E soprattutto per una ragazzina di dodici anni.»
Non poteva averne la minima idea.
Il dottor Shepherd iniziò a camminare avanti e indietro. Ne fu sollevata: il
rumore attutito dei suoi passi riusciva a sostituirsi al rombo che lei aveva
nelle orecchie.
«Dalla sua storia, ne dedurrei che questo evento deve avere alterato
l’equilibrio di sua madre, e non c’è da stupirsene. Se ne ricorda?»
Lei annuì.
«Forse… che sia quasi… impazzita per il dolore?»
Ah, la mamma, fedele fino alla fine. Quanto l’aveva amato. L’aveva visto
al suo peggio, eppure gli aveva sempre voluto bene, molto più di quanto ne
avesse voluto a Elsie.
Un altro cenno.
«E non crede, signora Bainbridge, che la stessa circostanza sfortunata
possa essersi verificata nel suo caso, colpendola in maniera simile? Che nella
sua famiglia possa esserci stata una propensione? Non si dimentichi che
anche lei ha subìto un lutto tremendo. E che ne sono seguiti altri.»
La cosa buffa era che lei non aveva perduto completamente la testa. Ogni
sentimento, tutto ciò che c’era di buono e puro nel suo mondo, era stato
distrutto, e lei era ancora più forte di quei relitti che si pisciavano addosso in
corridoio. Lo sapeva.
«La follia, come la chiamiamo, si manifesta in molti modi. La gente non si
mette sempre a piangere e urlare come lei ha visto fare a sua madre. Ma ho
osservato che sembra ricorrere nelle famiglie, soprattutto in linea femminile.
Isteria: da utero a utero. Il sangue malato prima o poi si rivela. Temo proprio
che sia impossibile sfuggirgli.»
Lentamente lei lasciò cadere gessetto e lavagna.
Sentì che il passato la sopraffaceva, come un fiume che durante le piogge
ingrossa sempre più dentro gli argini; piano piano era arrivato a lambirle il
mento, a riempirle la bocca.
Temo proprio che sia impossibile sfuggirgli.
Aveva ragione. Adesso che aveva cominciato a raccontare la sua storia, la
fuga era impensabile.
The Bridge, 1865
—
Con l’Avvento arrivò anche un brusco declino nella qualità del clima. La
foschia strisciava sulle colline e annebbiava le finestre. Ogni volta che la
porta si apriva, entrava una folata di vento portandosi dietro il profumo grigio
argento della pioggia. Ma Elsie aveva promesso al signor Underwood che
avrebbe ricominciato a partecipare alle funzioni e non si può mancare a una
promessa fatta a un vicario, soprattutto sotto Natale.
In ottobre, al funerale di Rupert, si era accorta a malapena delle condizioni
della chiesa di Tutti i Santi. Era concentrata sulla presenza terribile della bara
e del cadavere che vi era intrappolato, e aveva permesso che l’ambiente
circostante diventasse sfocato e si annullasse. Ma quel giorno si rese conto
che la struttura aveva assunto intorno a lei una forma solida. Era in rovina.
Fredda, umida e fortemente bisognosa di riparazioni.
Il banco di famiglia era il primo. Elsie e Sarah erano leggermente in ritardo
e per prendere posto dovettero superare file e file di abitanti del paese vestiti
di stracci. Tutti quei relitti umani le guardarono, ma nessuno incrociò lo
sguardo di Elsie; si limitavano a lanciare occhiate furtive e sghembe da sotto
le ciglia. Forse pensavano ancora che le vedove portassero sfortuna.
Grazie a Dio il banco dei Bainbridge era più imponente e aveva uno
schienale di legno molto alto. La struttura era crivellata di forellini: prima di
osare sedersi dovette spolverare il sedile.
«Tarli» sussurrò Sarah, arricciando il naso.
Accanto a loro, lo sportello del banco si chiuse di colpo. Elsie rabbrividì.
Segregata dentro un recinto di legno insieme ai tarli: non molto diverso
dall’essere sepolti vivi.
I tarli non erano l’unico disagio. Gli archi erano velati di ragnatele e dal
tetto malandato penetrava uno sgocciolio inarrestabile. Le vetrate erano
decorate con l’agrifoglio dei giardini di The Bridge, ma la chiesa aveva
un’aria tetra, ben lontana dalle atmosfere festive. In essa aleggiava un odore
minerale, viscido e umido.
Sarah esaminava l’ambiente con aria nauseata. Aveva ancora la mano
bendata. Il farmacista di Torbury St Jude aveva detto che la ferita non si era
infettata, ma Elsie nutriva dei dubbi. Ormai erano passati quasi due mesi.
Quantomeno, il taglio avrebbe dovuto produrre una crosta.
«Ti vedo un po’ pallida, Sarah.»
«Sì… è questa chiesa. Quando penso al mio povero cugino Rupert,
costretto a riposare per sempre in questo posto!»
Elsie non poté rispondere a causa delle lacrime.
Da piccola le piaceva andare in chiesa. Era un luogo in cui poteva
passeggiare in un’atmosfera più elevata e respirare un’aria più rarefatta. Ma a
un certo punto, doveva essere accaduto più o meno nel periodo in cui era
morto il padre, i suoi sentimenti erano cambiati. La chiesa era diventata una
gigantesca lente d’ingrandimento puntata sul suo viso, nella quale la folla la
scrutava. Quel giorno non era molto diverso. I poveri di Fayford non la
guardavano negli occhi ma erano ben consapevoli della sua presenza, come
dei segugi che abbiano fiutato il sangue.
La successione fu la stessa di sempre: gli inni, la lettura del Vangelo, i
pensieri del signor Underwood, l’accensione della candela dell’Avvento. Alla
fine Sarah tremava di freddo. Elsie sentì la sua voce incrinarsi sulle parole
dell’inno Rocca eterna. Tese un braccio, con l’intenzione di metterglielo sulle
spalle, quando le fu impedito da una fitta in fondo allo stomaco.
Sarah la guardò con gli occhi sgranati. «Signora Bainbridge?»
Elsie si mise una mano sul corsetto e sotto i bottoni lo sentì ancora:
qualcosa che, dentro, sferrava calci.
«È il bambino?»
«Sì. Si muove.»
Sarah si illuminò tutta e, senza chiedere il permesso, poggiò il palmo sul
ventre di Elsie.
Una sensazione curiosa: il calore di Sarah sulla superficie della pelle; il
bambino che rispondeva spingendo sulla parete interna, umida e scivolosa. In
realtà era una cosa orribile. Un Bainbridge fuori, un altro rinchiuso in una
prigione di carne, mentre lei non era altro che una barriera sottile, un muro
attraverso il quale potevano comunicare.
Si guardò il crespo nero del vestito e la mano guantata di grigio di Sarah.
Aveva la stranissima impressione che quella non fosse affatto la sua pancia,
non più. Era soltanto una conchiglia. Lei era una conchiglia e un altro corpo,
un corpo estraneo, le cresceva dentro.
Elsie decise di tornare a The Bridge a piedi. Pensò che il movimento le
avrebbe sollecitato la circolazione e scacciato quella peculiare sensazione di
essere invasa. Helen acconsentì ad accompagnarla. Sarah era mezza morta dal
freddo e la gamba di Mabel non avrebbe retto alla distanza, così loro due
salirono in carrozza con la signora Holt.
Durante la funzione aveva piovuto e i sentieri erano diventati scivolosi,
come peltro tappezzato di foglie morte. Dal sottobosco sbucavano le
chiocciole per sgranchirsi il collo. Un paio di volte Elsie dovette balzare
all’improvviso sull’erba bagnata per evitare di calpestarle.
«Santo cielo, signora, appena rientrata dovrà farsi cambiare d’abito da
Mabel» disse Helen. «Non deve prendersi un raffreddore, nelle sue
condizioni.»
«Grazie, Helen, glielo dirò sicuramente.» Sentiva le caviglie gelate e
intorpidite. Un altro paio di calze rovinate. Pregò che il crespo non si
ritirasse, in quell’aria umida.
I suoi stivaletti producevano un ritmo irregolare mentre attraversavano il
ponte con i leoni di pietra. Un vapore bianco e fine si levava dal fiume. Le
tornò in mente la fabbrica di fiammiferi. Se chiudeva gli occhi, poteva
risentire la puzza del fosforo, che la ossessionava. Detestava quell’odore, ma
in qualche modo ne aveva bisogno; per lei voleva dire casa, voleva dire
Jolyon.
Chissà cosa stava facendo suo fratello in quel momento. Forse organizzava
le nuove ragazze delle sale solfatura, e si preparava a partire per il Natale.
Quando fosse arrivato a The Bridge, lei avrebbe ricominciato a sentirsi se
stessa. Quell’intermezzo senza di lui l’aveva scombussolata. Non le sembrava
naturale restarne separata.
Helen si schiarì la voce. «Signora?»
«Sì, Helen?»
«Posso chiederle una cosa?»
Elsie chinò la testa per evitare le grinfie gocciolanti di un ramo. «Ma
certo.»
«Cos’è successo alle sue mani, signora?»
«Cosa vuoi dire?»
«Le sue mani. Non l’ho mai vista togliersi i guanti. Ho pensato che forse…
forse si è ferita?»
Le mani le pizzicavano e le pulsavano sotto i guanti di pizzo nero:
somigliavano a quelle di Helen, callose, con le giunture gonfie e la pelle
macchiata in maniera irreparabile. «Hai ragione, Helen. C’è stato un
incidente. Si sono ustionate.»
Helen mandò un fischio sottile a denti stretti. «Che sfortuna. Con il fuoco
non si fa mai abbastanza attenzione. Una volta ho conosciuto una donna di
Torbury St Jude. Il vestito della sua figlioletta si è incendiato con la fiamma
di una candela e lei è bruciata viva.»
Elsie sentì il freddo filtrarle nelle ossa. «Manca molto?»
«Non molto. Altre due curve e dovrebbe vedere i giardini.» Helen si
asciugò il sudore dal viso con il dorso della mano. L’aria umida e gelida non
faceva che arrossarle ancor di più la pelle. «Ma mentre siamo qui, signora, mi
chiedevo… è poi tornata nella nursery?»
«Certo che no. Non ne ho avuto occasione.»
«Oh.» Una breve pausa. «Signora, posso chiederle un’altra cosa?»
«Santo cielo, credevo che questa fosse una passeggiata, non
un’inquisizione.»
«Mi scusi, signora. Mi chiedevo solo se avremo qualche altro aiuto,
quando arriva il bambino. Con il fatto che Mabel è stata promossa e tutte
queste cose da fare, io non avrò nemmeno il tempo di respirare.»
O di fare tante domande.
«Naturalmente, per l’Annunciazione assumerò delle balie. Al momento
devo affrontare altre spese.»
Ormai avrebbero dovuto esserci; Elsie udì il rumore delle cesoie che
lavoravano in giardino.
Forse sarebbero riuscite a rientrare prima del prossimo acquazzone. Le
nuvole si stavano ammassando, pronte all’attacco. Con il sole alle spalle
erano di un brillante color canna di fucile.
«Avremmo fatto meglio a congedare i giardinieri» disse. «A lavorare con
questo tempo si bagneranno troppo.»
Helen sgranò gli occhi. «Non penso che i giardinieri siano venuti, oggi.»
«Ma certo che sono venuti, non li senti? Ascolta.»
Helen scrollò la testa.
«Stanno tagliando i fiori o potando le siepi. Davvero non li senti?» Il
rumore diventava sempre più forte, come quello di una lama sulla cote. Zac,
zac. Elsie si bloccò e mise una mano sul braccio di Helen, costringendola a
fermarsi. «Ecco.»
Helen sbatté le palpebre. Sembrava completamente inebetita. Elsie non
aveva mai visto un’aria più stupida e si domandò se Helen l’avesse
perfezionata con l’esercizio.
«Non importa.»
Proprio come aveva promesso Helen, dopo altre due curve avvistarono i
giardini. Il fogliame dei sempreverdi spiccava vivido contro lo sfondo del
cielo. Elsie notò un corvo saltellare tra le siepi morenti, ma nessuna traccia
dei giardinieri. Sicuramente stavano lavorando dall’altra parte.
«Spero che non si senta troppo triste questo Natale, signora» disse Helen.
«Per via del povero padrone e tutto il resto… Il primo Natale è sempre
difficile.»
«Sì.»
«Il padrone aveva solo pochi anni più di me. Una cosa così crudele…»
Tra tutti i membri della servitù, Helen era quella che nominava più spesso
Rupert. Forse perché, come aveva detto anche lei, erano vicini d’età, oppure
perché era stata lei a trovarne il corpo.
«Si direbbe proprio che volessi molto bene al padrone, Helen. Mi fa
piacere sentirlo.»
Helen le rivolse un sorriso fiacco. «Con me era sempre gentile. Trovo che
fosse una bella cosa, da parte sua, tenere in considerazione il personale.»
Solo il cielo poteva sapere che quello di Londra, invece, non meritava
tanto. Erano tutti dei perfidi ingrati, nonostante la loro efficienza.
«E poi» continuò, «mi raccontava piccole cose della sua giornata. Per
esempio che aveva letto un certo libro, e di quando ha trovato le lettere nella
nursery.»
Di nuovo la nursery. Elsie rabbrividì quando una goccia cadde da un ramo
e le scivolò giù per la schiena. «Devi abbandonare queste fantasie, Helen. Mi
hai già detto che il signor Bainbridge era convinto che le lettere fossero state
lasciate dal precedente inquilino. Non ha mai pensato che fosse un fantasma.»
«No» ammise lei. «Ma non sapeva che la settimana prima io le avevo
riordinate e messe in una scatola. E non ha mai visto la scritta nella polvere.
Quel giorno diceva: Mamma. In genere è una frase intera.» Elsie non voleva
sentire, ma era chiaro che Helen aveva intenzione di dirglielo. «Mamma mi
ha fatto male, c’era scritto.»
Non riuscì a rispondere.
Erano quasi arrivate alla casa. Elsie aggirò le siepi imperlate di rugiada,
che emanavano un odore muschiato. Sentiva ancora il lavorio incessante di
quelle cesoie, che cominciava a darle sui nervi.
Mentre raggiungevano la fontana di pietra, Helen riprese a parlare. «Lei
cosa pensa che sia, signora? Che quelle scritte siano per me?»
«È Mabel» sbottò Elsie, irritata. «Che vuole farti uno scherzo. Le scrive e
poi fa finta di non vederle. Niente di più semplice.»
«Mabel? Ma non è nemmeno in grado di leggere il suo nome, signora, non
parliamo di…» La fine della frase di Helen scomparve in un’esclamazione.
Elsie si girò di scatto e la fissò. «Cosa? Cosa c’è?» Le guance di Helen
avevano perduto la loro sfumatura rosata. Perfino le labbra erano pallide.
«Stai male?»
Helen puntò un dito.
Elsie non voleva guardare. Non voleva che i suoi occhi seguissero la
direzione di quel dito, ma sapeva che lentamente l’avrebbero fatto, contro la
sua volontà, trascinati da un istinto fatale.
Dalla finestra del salottino le osservava la fanciulla di legno. Aveva il viso
ombreggiato dal riflesso dei rami. Anzi, erano corna, palchi di corna. Si
trovava proprio sotto la testa del cervo. Ma non fu questo a catturare
l’attenzione di Elsie: fu la finestra a sinistra.
Il rettangolo di vetro su cui era stampata l’impronta fangosa di una mano.
«Forse i giardinieri…»
«No.» Helen deglutì. «Guardi, l’impronta è dentro.»
Elsie non riusciva a respirare. Il bambino si stava muovendo e le faceva le
capriole nella pancia. Nell’aria risuonavano ancora quelle cesoie odiose: zac,
zac.
Si riscosse. Una tempesta in un bicchier d’acqua, avrebbe detto sua madre.
Mabel, o perfino la stessa Helen, poteva aver lasciato quel segno per sbaglio.
«Sciocchezze. Da qui non è possibile vedere se l’impronta è dentro o
fuori.»
Avanzò a grandi passi con una determinazione che non provava fino in
fondo. Helen la implorò di fermarsi, ma ormai non poteva più farlo. I piedi si
muovevano senza il suo intervento; lei era rimasta indietro.
Un altro passo e l’impronta fangosa si fece più vicina, diventò più nitida.
Troppo piccola. Non poteva averla lasciata un giardiniere. Quella era la mano
di un bambino.
Si fermò proprio davanti alla finestra, tanto da appannare il vetro con
l’alito. Quando il vapore scomparve, vide il riflesso del proprio viso
sovrapposto ai lineamenti dell’Amico. Però quella non era la sua faccia; non
proprio. Era pallida e contratta, resa brutta dal terrore.
Tremando, Elsie allungò la mano guantata e appoggiò la mano
all’impronta. Helen aveva ragione. Era stata fatta da dentro.
«Signora? La vede? C’è anche una scritta?»
Aprì la bocca per rispondere quando un guizzo, un piccolo movimento
dietro il vetro attirò la sua attenzione. Si ritrasse.
«Signora? Sta bene?»
Riuscì a farle cenno di sì, ma non poteva parlare.
L’Amico non guardava più verso il parco. Con occhi vacui e immobili,
scrutava Elsie fin dentro l’anima.
Mabel non aveva mentito. Gli occhi si erano mossi.
Il corridoio era percorso dalle correnti d’aria. Sul velluto delle pareti
oscillavano ombre mentre le lampade a gas si accendevano con un rombo.
Elsie si strinse nello scialle, riparandosi contro la spalla di Sarah. Non si era
mai sentita così sopraffatta, così inghiottita come in quella casa.
«Questa» disse Sarah. Allungò un dito e lasciò che la punta restasse
sospesa a poca distanza dal quadro. «La vede? Dietro la gonna della dama?»
Era un dipinto barocco, vicino allo stile di Vermeer. Una donna bionda e
paffuta con gli occhi stanchi seduta davanti a una gabbietta, che tendeva la
mano a un passero appollaiato dentro. La luce spioveva su di loro da sinistra
e le illuminava il viso. Era carina, anche se aveva un po’ di doppio mento.
Tra i capelli portava dei nastri color corallo, che riprendevano la sfumatura
del mantello orlato di pelliccia che aveva sulle spalle. Dalla vita si allargava
una gonna color burro, a cui si aggrappava una bambina. Una bambina
dall’aria stregata, con quell’espressione strana e un po’ artificiale che in
genere hanno i bambini nei ritratti antichi. Non guardava il passero ma
scrutava con attenzione il viso della signora.
Fu travolta dalle vertigini. «È lei. Sarah, è lei. È la bambina di legno.»
Sss.
Le sue dita strinsero la manica di Sarah e stropicciarono la stoffa color
lavanda. «Lo senti…?»
«I muratori» disse piano Sarah.
Elsie fece un respiro. L’aria le penetrò nei polmoni, inacidita dall’odore
della vernice. Naturalmente non era il rumore che sentiva la sera, e che
ricordava tanto una sega: era una sega vera. Veri operai, pronti a rendere
presentabile la sua casa. «Ma certo. L’avevo dimenticato.»
Sarah tornò al quadro. «Anch’io ho pensato che somigliasse a quella di
legno. Forse un po’ più giovane. Ma ecco la cosa interessante. Guardi la
scritta sulla cornice.»
«Milleseicentotrenta» lesse Elsie.
«Sì. E il nome. “Anne Bainbridge con sua figlia Henrietta Maria.”»
«Henrietta Maria.»
«Ma la chiamavano Hetta.»
«E come lo sai?»
«È una delle mie antenate! Hetta, lo zingarello, gli Amici: sono tutti nel
diario che abbiamo trovato nel solaio. La povera Hetta era muta. Sua madre
non avrebbe dovuto avere altri figli, ma prese delle erbe e Hetta nacque senza
lingua. Poverina! Sa bene com’era a quei tempi, erano convinti che i bambini
malati fossero maledetti. La tagliavano fuori da tutto. Era una ragazzina così
dolce e sola… non posso credere… cioè, anche supponendo che gli occhi si
siano mossi…»
«Si sono mossi.»
«Be’.» Sarah si accigliò. Non aveva mai riso ed Elsie gliene era
eternamente grata. Sarah affrontò il problema come se si trattasse di eseguire
una somma complicata. «E se la figura in legno servisse a impersonare lo
spirito di questa Henrietta Maria Bainbridge? Vorrebbe dire che vuole farci
del male? Non posso crederlo.» Scrollò la testa. «Hetta vuole soltanto
qualcuno che badi a lei. Un amico. Si sentiva così sola. E io so bene cosa si
prova.»
Elsie rabbrividì. «È a questo che siamo arrivate ormai? A parlare di spiriti
e possessione?»
«Lei non crede negli spiriti?» Sarah pareva stupefatta. Era come se Elsie le
avesse detto che non credeva nei colori. «Posso garantirle che esistono,
signora Bainbridge. Io li ho visti. La signora Crabbly ha ricevuto la visita di
un mesmerista e di un medium, per contattare il suo defunto marito. A
Londra tutte le vecchie signore ricche lo fanno. È molto sicuro. È una
scienza. Non c’è nulla di cui avere paura.»
Ma allora perché il sangue nelle vene le pulsava così denso? «Io ho paura.
Ho paura dello zingarello e della donna con il bambino in grembo. Hanno
qualcosa che non va. Li trovo… sbagliati.»
«Forse quello che ha visto sul vetro era l’impronta della mano di Hetta che
tentava di raggiungerci? Dovremmo cercare di metterci in contatto con lei.
Ho letto un libro sulle sedute spiritiche. Una volta ho provato a evocare i miei
genitori…»
Elsie gemette. «In nome di Dio, no! Devi smetterla di parlarne come se
fosse una bambina vera. Ho chiesto alla signora Holt di chiuderla in cantina
con tutti gli altri, per l’amor del cielo!»
«Non è una sciocchezza come sembra. Una bambina è esistita davvero. Lo
dimostrano il quadro e il diario. Sto cercando di ricordare cos’è successo
nell’ultima pagina che ho letto… Mi ricordo che il marito di Anne le aveva
regalato la collana di diamanti che adesso ha lei. Lo sapeva che è stata
commissionata appositamente per la visita di Carlo I?»
«In questo momento ha ben poca importanza.»
«No, forse ha ragione… Oh sì, alla povera Hetta era stato vietato di
partecipare al masque di corte! Il padre aveva paura che lo mettesse in
imbarazzo.»
Elsie fece un profondo respiro e cercò di nascondere l’irritazione. «Dubito
che uno spirito si prenderebbe il disturbo di ossessionarci a causa di un
masque a cui non ha potuto partecipare due secoli fa.»
«No» rispose Sarah pensierosa. «Dev’esserci qualcos’altro. Dovrò finire di
leggere il diario. Se solo avessi preso il secondo volume prima che la porta
del solaio si bloccasse!»
«Ora alla porta ci sta lavorando l’operaio. Quando avrà finito prenderemo
il diario e vedremo se contiene qualche indizio.»
C’era un modo per proseguire le ricerche, doveva soltanto tenere sotto
controllo il proprio terrore un pochino più a lungo. Dopo due settimane
sarebbe stato Natale. Sarebbero arrivati i suoi vestiti nuovi e anche Jolyon,
che avrebbe portato il pudding natalizio, arance con i chiodi di garofano e
pacchi avvolti in nastri colorati; tutto il calore e la vivacità che a lei
mancavano. Sarebbe andato tutto bene una volta arrivato Jolyon, si ripeté.
Poi sentì l’urlo.
«Mabel! Sembra la voce di Mabel.»
Si precipitarono in corridoio per raggiungere la galleria della torre nolare.
La signora Holt e Helen corsero su per la scala per incontrarle. Helen aveva
ancora il grembiule umido e impugnava un battipanni di legno, che agitava
come un’arma.
«Signora Bainbridge! Signorina Bainbridge. Cosa sta succedendo?» La
signora Holt sembrava scossa.
«Non lo sappiamo» rispose Sarah. «Pensiamo che sia Mabel, di sopra.»
I loro piedi risuonarono sui gradini. Elsie era senza fiato e il corsetto la
segava sotto le braccia, ma riuscì ad arrivare sul pianerottolo per prima. Fece
tre passi e poi andò a cozzare contro qualcuno che sfrecciava nella direzione
opposta.
«Mabel! Mabel!» La ragazza aveva un’aria quasi selvaggia e il viso rigato
di lacrime. Elsie la afferrò per le spalle e la bloccò. «Cos’è successo?»
«Come ha potuto? Come ha potuto?» Picchiò con i pugni il petto di Elsie.
«Come ha potuto essere così malvagia? Oh, oh!»
«Cosa? Di cosa stai parlando?»
«Lo sa! Lo sa benissimo!» Le ginocchia le cedettero e Mabel crollò a terra.
«Non è affatto divertente. Ho preso una tale paura…» E iniziò a singhiozzare.
Elsie la lasciò andare e guardò impotente prima Sarah, poi la signora Holt e
infine Helen. «Helen, puoi tentare di farla ragionare?»
Helen posò sul pavimento il battipanni. Cautamente, mise una mano sulla
spalla di Mabel. «Su, buona. Cos’è successo? Non era…» La sua voce
diventò un sussurro. «Ne hai visto un altro?»
«Lei… lei…» Mabel non riusciva quasi a parlare. «Dev’essere stata lei a
metterlo in camera mia. Sa benissimo che li odio! Fa tutto parte di un… di
uno scherzo!»
La pelle di Elsie fu percorsa dai brividi. «Cosa c’è in camera tua, Mabel?»
«Come se non lo sapesse! Una di quelle cose!»
Elsie guardò Sarah. «No. Non è possibile. La signora Holt li ha chiusi tutti
a chiave in cantina. Ero presente.»
«Questo no. Questo non l’avevo mai visto prima.»
Il sangue le rombava nelle orecchie. «No. No, non ci credo.»
Rigida e determinata, imboccò a grandi falcate il corridoio. Voleva
verificare di persona. Avrebbe dimostrato che le altre si sbagliavano.
La porta si spalancò con facilità rivelando il lettino di Mabel, il lavabo e le
stampe alle pareti.
Era in piedi nella bagnarola.
Una donna massiccia, intenta a pettinarsi. Con una veste del colore dei
cetriolini in salamoia. Indossava anche dei manicotti di lino sporco e un
grembiule che le arrivava alle caviglie. Con un’espressione seducente si
passava la spazzola tra i capelli bruni e ondulati, lisciandoli con l’altra mano.
Il suo era uno sguardo accattivante, eppure in qualche modo ostile.
«Forza» disse Elsie con voce roca. La propria spavalderia le faceva girare
la testa. «Muoviti, se ne sei capace. Muoviti, maledizione, muoviti!»
Gli occhi restarono immobili. Ma proprio al confine della consapevolezza
Elsie avvertì il suono di setole che spazzolano capelli secchi. Poi fu assalita
da un profumo di rose, denso e soffocante. A un tratto la stanza si riscaldò.
La sua mente non reggeva. Si girò di scatto, chiuse la porta con un tonfo e
riprese a tutta velocità il corridoio. Le sue gambe si rifiutavano di muoversi
alla rapidità consueta. Ora era lenta, il bambino la rallentava. Era vulnerabile.
Le altre la aspettavano sul pianerottolo. Avevano costretto Mabel a sedersi:
era pallidissima ma aveva il viso asciutto.
«Era chiusa a chiave» disse la signora Holt. «Giuro che era chiusa. La
signora Bainbridge non ha la chiave, Mabel. Non capisco come sia potuto
accadere.»
«Mabel.» Elsie cercò di mantenere ferma la voce che però era strana e
sfuggente, come se non riuscisse a controllarla. «Tutte quante. Voglio che ci
riflettiate molto attentamente. Chi è entrato in casa? Abbiamo avuto operai e
fattorini. Giardinieri. Voglio che facciate una lista. Qualcuno, da qualche
parte, per ragioni che non sappiamo, ci sta facendo degli scherzi. Lascia
impronte sulle finestre e…» Si accigliò, distratta da un bagliore. «Mabel, hai
addosso i miei diamanti?»
Le guance della cameriera ripresero colore. «Glieli stavo scaldando,
signora. Helen dice che nelle case eleganti si fa sempre. Vero, Helen?
Scaldare le perle della padrona.»
«Riscaldarli?» gridò Sarah. «Che storia improbabile! La signora
Bainbridge non può nemmeno portarli, è in lutto.»
Da tutto il giorno Elsie era in preda alla tensione e a quel punto la sua
angoscia tracimò. La rabbia superò la paura, e afferrò i diamanti con
entrambe le mani. «Togliteli!» urlò. «Togliteli subito!» Mentre le spuntavano
lacrime fresche, Mabel si portò le mani alla base del collo ma i capelli le
rimasero impigliati nella catenella. «Se non te li togli in un istante, ti caccio
da questa casa!»
Intervenne Helen, con le sue dita ferme e sciupate. Sganciò il fermaglio e
sfilò la collana. Alla catena restarono attaccati alcune ciocche scure.
«Non volevo far niente di male» mormorò Mabel, dondolando avanti e
indietro. «Non volevo far niente di male, non meritavo quella cosa maledetta
in camera mia.»
Si udì un colpo, e poi nell’ala est echeggiò un grido.
Lo sguardo di Elsie incrociò quello di Sarah. «Mi sa che sono riusciti ad
aprire la porta del solaio» sussurrò. «Vai a prendere la seconda parte del
diario.»
Sarah non se lo fece ripetere.
La signora Holt camminava avanti e indietro, stringendosi le mani. «Oh,
Signore, oh, Signore. Che guaio! E la lavanderia che non è nemmeno
finita…»
Elsie guardò Mabel, che rabbrividiva tra le braccia di Helen. Ora si sentiva
più calma e provava una leggera vergogna per le dure parole che aveva
pronunciato. «Ascolta, Mabel, non so come la pensi ma non sono stata io a
mettere quell’Amico nella tua stanza. Sto cominciando a odiarli proprio
quanto te.»
Mabel la osservò ma non riuscì a leggere la sua espressione.
Sarah tornò di corsa, senza fiato e a mani vuote. Aveva un’aria strana. Era
pallida e rabbrividiva come una foglia.
«Sarah, cosa c’è? Il libro è scomparso?»
«No, c’era ma lei non…» Deglutì. «Non ha voluto che lo prendessi. Ho
capito che quella povera anima non voleva che lo leggessi.»
«Ma di cosa stai parlando?»
«C’era lei, là dentro.» Il mento di Sarah tremava. «Nel solaio c’era Hetta.»
Faceva abbastanza freddo da nevicare, ma in cortile Peters e Stilford
sudavano mentre calavano l’ascia a ripetizione: toc, toc. Pezzo per pezzo,
ciocco per ciocco, il legno si riduceva in mille schegge, prima marrone e poi
bianco larva, fibroso e più difficile da tagliare. Peters riposò un istante, la
mano sul fianco. Davanti a lui un mucchio di parti anatomiche: teste di legno,
mani di legno segate.
Elsie era sulla porta della cucina, stretta a Sarah e al personale femminile, e
indossava il suo mantello più pesante. Avrebbe tanto voluto essere un uomo.
Se avesse avuto la forza di prendere in mano un’ascia l’avrebbe fatto;
avrebbe distrutto la faccia dello zingarello. Pensò alla sega circolare della
fabbrica di fiammiferi, ai bastoncelli appena tagliati che dai denti della sega
cadevano nella vasca. Fu percorsa da un tremito.
«Mi pare un gran peccato» piagnucolò Sarah. «Sono antichi! La mia
antenata, Anne Bainbridge, li aveva acquistati nel 1635. Non avremmo
almeno potuto cercare di venderli?»
«Chi mai pagherebbe una bella cifra per aggiudicarsi un mucchio di
bambole da far venire i brividi?» gridò Mabel. «Solo chi è toccato nella testa,
signora.»
Sarah si morse le labbra. Era infelice e questo mise Elsie a disagio. Per
diritto, gli Amici appartenevano a un discendente di sangue Bainbridge e non
a un’intrusa, a una che era diventata Bainbridge in virtù di un matrimonio.
Stava distruggendo l’eredità di Sarah. Ma cos’altro avrebbe potuto fare?
Permettere che spuntassero per tutta la casa come pupazzi a molla, facendoli
impazzire di paura?
«Il legno in più ci farà comodo per l’inverno» intervenne la signora Holt.
A Elsie pizzicava la pelle. «No. Non voglio bruciarli dentro casa. Non
credo che sarebbe… saggio.»
«Allora posso donarli agli abitanti del paese, signora? A Fayford?»
L’ascia fischiò ancora nell’aria, seguita dallo schiocco del legno che
cadeva.
«Forse sarebbe meglio che li bruciassimo qui, in cortile.»
La signora Holt non replicò, ma Elsie notò la sua espressione di
disapprovazione.
Si stava comportando come una sciocca? In effetti sembrava una cosa
stupida, ora che gli Amici giacevano smembrati sui ciottoli; la reazione
nervosa di una femmina ipersensibile. Eppure i cavalli erano a disagio,
tenevano le orecchie piatte e facevano roteare gli occhi. La vacca Beatrice era
tranquilla nella stalla, a brucare un altro ciuffo di fieno dalla mangiatoia. Gli
animali sapevano. Gli animali sentono sempre queste cose.
«Bene» disse Peters ansimando. Il sudore gli colò sugli occhi. «L’ultimo.»
Si girarono tutti a osservare quello che Sarah aveva soprannominato Hetta.
Calma, silenziosa e sola, contemplava i resti massacrati dei suoi compari;
sorrideva sempre serena, la rosa bianca premuta al petto.
Elsie pensò che non sarebbe riuscita a guardare Peters distruggere anche
questo. Che effetto le avrebbe fatto veder frantumare i lineamenti di quel
viso, tanto simile al suo da bambina? L’amputazione del passato, che poi
sarebbe svanito tra le fiamme.
Peters fece un passo avanti.
«No!» La voce di Sarah. «No, la prego. Non possiamo! Hetta no. Ha già
sofferto abbastanza.»
Elsie voltò la testa in modo da impedirsi di vedere Sarah e l’Amico grazie
alla banda della cuffietta. «Dobbiamo farlo, Sarah. C’è qualcosa in questi
oggetti, qualcosa di… sbagliato.»
«E come lo sa che è sbagliato? Sa soltanto che le fanno paura.»
La mano di una bambina alla finestra, il movimento di quegli occhi…
«Sì, mi fanno paura. La trovo una ragione sufficiente. Che effetto pensi
abbiano sul mio bambino, tutte queste sorprese e questi spaventi?»
«Ma Hetta è una mia antenata. Ho letto di lei, sento di conoscerla.» La
voce di Sarah passò dalla preghiera alla disperazione. «E se sta cercando di
entrare in contatto con noi? Se mi sta chiedendo di raddrizzare un torto? Non
posso deluderla!»
Era così che dicevano, no? Che la vittima non poteva riposare in pace, ma
era costretta a vagare in cerca di giustizia. Elsie sapeva per certo che erano
sciocchezze. Doveva essere stata quella vecchia signora Crabbly a riempire la
testa di Sarah di quelle storie. Mesmerismo, addirittura!
«Signorina Sarah» disse la signora Holt, «se posso permettermi… io abito
in questa casa da quand’ero giovane e non abbiamo mai avuto fantasmi.»
Helen tirò su con il naso.
«Ma lei non è imparentata con Hetta!» Sarah stava dando prova di
un’energia quasi fanatica. «Non avrebbe mai tentato di mettersi in contatto
con lei. Io e lei ci somigliamo. La prego, lasci che la tenga. Almeno finché
non avrò finito il diario.»
Dal mucchio degli Amici arrivò un suono: un cigolio secco, come di travi
che si assestano. Doveva decidere. Presto sarebbe calato il buio.
«Avanti» sussurrò Mabel. «Li faccia a pezzi e che quei bastardi brucino
all’inferno.»
La signora Holt si girò di scatto. «Mabel!»
Elsie sospirò. Il mondo ne era pieno, passato e presente: fanciulle tristi,
piccole e sole. Ha già sofferto abbastanza. Sarah parlava di Hetta o di se
stessa?
Aveva già sottratto a Sarah la sua casa e la sua collana di diamanti. Non
c’era dubbio su ciò che Rupert avrebbe voluto che lei facesse, in quel
momento.
«Sarah può tenere Hetta, se è così importante per lei. Ma statemi bene a
sentire, voglio che sia chiusa a chiave nel solaio, non la voglio in casa mia e
nemmeno vicino al mio bambino.»
«Oh, grazie, grazie, signora Bainbridge!» esclamò Sarah in tono stridulo.
«So che sta facendo la cosa giusta.» Aveva un circoletto rosso su ciascuna
guancia e gli occhi le brillavano come brina.
«Nel solaio, hai capito?»
«Sì, sì. La terrò nel solaio, non è affatto un problema.»
Sarah afferrò Hetta come se la stesse sottraendo alle fauci della morte.
Strinse al corpo il lato dipinto, ma con la mano ferita non riusciva a spostarlo.
«Chi mi aiuta a portarla di sopra?»
Mabel e Helen indietreggiarono.
«Per l’amor del cielo!» gridò la signora Holt. Poi fece tintinnare le sue
chiavi e aprì la porta della cucina. «Venga, signorina Sarah. Le mie ragazze
ormai hanno paura della loro stessa ombra.»
Quando furono dentro, Elsie tirò fuori dalla tasca una scatoletta di
fiammiferi. Peters tese la mano, ma lei scrollò la testa. Voleva appiccare il
fuoco personalmente.
«Era ora» sussurrò Mabel.
Elsie si avvicinò alla pira. Il vento si mise a soffiare e il velo le fluttuava
alle spalle come una nuvola di fumo scuro. Ebbe una visione di se stessa lì in
piedi, nera e solenne.
Gli Amici erano un rompicapo fatto di parti diverse: i capelli dello
zingarello, staccati dalla testa; quell’orribile neonato rigido segato a metà.
Ormai non potevano più spaventarla. Prese un fiammifero e lo grattò sulla
carta vetrata.
Una scintilla, una vampata azzurra e poi la fiamma arancione. Il calore
pizzicava attraverso i guanti. Guardò la luce oscillare nella brezza,
avvertendo il potere che teneva tra le dita, pronta a liberarlo con una sola
mossa. Sentiva già l’odore del fumo.
«Lo faccia, signora» insistette Helen.
Lei lasciò cadere il fiammifero.
Il legno scricchiolò e il mucchio esplose in una vampa. Un occhio la
guardava da sotto il bagliore delle fiamme. Poi si squagliò, colando sulla
guancia, gocciolando colore.
The Bridge, 1635
—
Credevo di aver preso la decisione giusta. Credevo che andasse tutto bene.
Lo zingarello, che dice di chiamarsi Merripen, si è stabilito nelle stalle. Ha
fatto voto solenne di non lasciare le porte aperte o di diventare complice dei
suoi compari ladri. Lo so com’è fatta quella gente.
Da quando mi ero ammorbidita nei confronti del suo amico, Hetta era
diventata tutta dolcezza e luce, correva su e giù per le scale con gli spaniel
che la seguivano a rompicollo, tagliava ciuffi d’erbe per la cucina e ammirava
i miei diamanti. La sua allegria mi aveva stupito, ma ne andavo anche
orgogliosa. Credevo che avesse vinto il proprio risentimento come una vera
signora. Ho immaginato che per lei fosse sufficiente garantire un lavoro al
suo amico. Com’è stato bravo Josiah con lei, ho pensato. Come potevo
sapere? Come potevo anche solo sognare che non gliel’aveva nemmeno
detto?
È iniziato tutto quando sono arrivati i ragazzi. C’era un tempo soffocante,
così afoso da mettere a disagio. Le gazze avevano ciarlato l’intera mattina,
gracchiando i loro segreti. Ma i miei figli erano di ottimo umore e si sono
riversati fuori dalla carrozza con le loro gambe lunghe, scambiandosi manate
sulle spalle.
James ci ha fatto strada nel salone. Henry lo superava di tutta una testa.
Quest’anno è proprio cresciuto, è diventato alto e sottile come una canna,
come uno degli alberelli di Hetta. E Charles! Non riesco ancora a credere che
Charles sia uscito dal mio corpo. È grande, robusto e forte come un mastino.
Non c’è da stupirsi che abbia causato tanti disastri; non c’è da stupirsi che la
levatrice mi abbia detto… Ma ora tutto questo non ha più importanza.
Ci siamo scambiati tanti abbracci, tante notizie. La cena è trascorsa in un
baleno, piena di felicità e rumore, e Hetta sorrideva, ha continuato a sorridere.
Una volta mangiato, ha fatto vedere ai suoi fratelli i preparativi per il masque:
botole e leve; piattaforme costruite in modo che sembrino nuvole. Ha cercato
di fare una piroetta e James l’ha presa tra le braccia e l’ha fatta volare intorno
alla scenografia su cui era dipinto un cielo azzurro.
È stato allora che dal negozio del signor Samuels è arrivato un altro uomo
con alcune scatole.
«Ancora!» Josiah ha finto di scandalizzarsi, ma ho capito che aveva
approvato tutte le mie scelte.
«Stupiremo la regina con le nostre curiosità» ho detto. «The Bridge sarà il
più grande capolavoro che abbia mai visto.»
Stavolta si trattava delle figure contraffatte, delle sagome in legno che il
signor Samuels chiamava gli Amici. Sono una tale meraviglia! C’erano la
signora del negozio e molte altre: un bimbo addormentato; una dama con il
liuto; un gentiluomo con in grembo l’amante.
«Sangue di Cristo! Avete mai visto niente di simile?» Charles si è
avvicinato a una sagoma e l’ha toccata con la mano grassoccia. «Una persona
uscita da un quadro!»
Hetta ha lanciato un gridolino acuto di felicità, come un cane quando vede
il padrone. È balzata al fianco di Charles e ha contemplato le figure, con lo
stupore scritto in viso. Mentre i ragazzi chiacchieravano si è messa a girare
intorno alle sagome, accarezzandone i bordi.
«Guarda guarda» ha detto Henry. «Henrietta Maria gioca a nascondino.»
Ed è questo che abbiamo fatto tutto il giorno, mentre i servi lavoravano per
rendere perfetta la casa: abbiamo corso come bambini e sistemato gli Amici
nei luoghi più strani, cercando di sorprenderci a vicenda.
«Devono sembrare veri» ho detto. «Voglio che la gente li trovi e trasalisca.
Voglio che il re vada a sbattere contro un Amico e gli chieda scusa!»
In casa abbiamo trovato migliaia di nicchie e recessi, mille angoli in cui
piazzarli. Mentre la luce scemava, le figure di legno mi osservavano dai loro
nascondigli e parevano sogghignare, complici. Promettevano davvero di fare
alla regina la sorpresa più grande di tutta la sua vita.
«Sarà un trionfo» ha detto Josiah ridendo. «Un trionfo completo.»
Ormai era piuttosto tardi, ma nessuno di noi è riuscito a prendersi un’ora
per leggere in silenzio prima di cena; eravamo febbrili, agitatissimi. Di lì a
quarantotto ore la famiglia reale sarebbe entrata nella nostra casa, che già
prendeva vita in maniera mai vista prima. Ci eravamo preparati il più
possibile. Ora non restava che attendere.
«Quando proviamo il masque?» ha domandato James, pallido e ansioso
alla luce delle candele. «Mi sono esercitato nei passi che mi hai mandato, ma
preferirei farlo qui.»
«Domani» gli ho risposto. «Gli attori arrivano domani.»
«Il Trionfo dell’Amore Platonico. Ha un bel suono, no?» Henry si è
accarezzato il pizzo dei polsini. «Non potremo mai rivaleggiare con le opere
del signor Jones, ma sono sicuro che alla regina piacerà. Tu balli, Charles?»
I tre ragazzi sono esplosi in una risata. Ho visto Charles ballare soltanto
due volte, da quand’era bambino: non è certo uno spettacolo fatto per ispirare
l’orgoglio materno. Non ha alcun senso del tempo e alcuna grazia, e la sua
figura tozza lo rende alquanto comico.
Charles ha preso lo scherzo nella maniera giusta, anche se ha finto di
incupirsi e ha agitato il pugno in direzione del fratello. «Oh, vi piacerebbe
proprio, eh! Ma non provo alcun desiderio di spaventare la regina. Entro in
scena e pronuncio il mio discorso, tutto qui. E che discorso!»
Ero così intenta a ridere con i ragazzi che non ho notato Hetta sgattaiolare
dove c’era la poltrona di Josiah, davanti al fuoco. Soltanto quando l’ho
sentito parlare mi sono voltata e l’ho vista accanto al bracciolo, che gli tirava
una manica.
«Sì, Henrietta Maria? Cosa c’è?» Lei ha sbattuto i grandi occhi verdi che al
bagliore delle fiamme erano pieni di pagliuzze dorate e brune. «Be’? Che
cosa vuoi?»
Avrei dovuto capirlo. Avrei dovuto prestare attenzione alle ombre che le si
agitavano sul viso e a quel silenzio strano, spaventoso. Ma sono rimasta
seduta lì, impotente, a guardare; ho visto Hetta indicarsi il petto, gli occhi
carichi di aspettativa.
«Allora?» ha gridato Charles. «Parla, piccola Hetta!»
I ragazzi sono scoppiati in un’altra risata.
«Lasciala in pace, Charles!» ho ribattuto, ma non è servito che a farli ridere
più forte. Erano così sovreccitati che credo avrebbero riso anche di fronte alla
morte.
«È soltanto uno scherzo, madre.»
«Non riesco davvero a capire cosa stia cercando di comunicare Henrietta
Maria» ha detto Josiah. «Anne, tu hai qualche idea?»
Lentamente, con cautela, Hetta si è alzata in punta di piedi e ha fatto una
piroetta perfetta, le braccia arcuate sopra la testa e i capelli dal colore
cangiante. Sembrava un sogno, una cortigiana francese impegnata in un
balletto. Non sapevo che danzasse così. Ma quello spettacolo non mi ha
riempito di piacere o di orgoglio materno. Sul suo viso ho visto la luce, e su
quello di Josiah una smorfia colpevole, e ogni pezzo è andato al suo posto.
«Vuole conoscere la sua parte!» ha gridato Henry. «Che parte avrà
Henrietta Maria nel masque, padre?»
No, ho pensato. Non così. Non davanti ai suoi fratelli. Ma Josiah l’ha fatto
comunque. Ha rigirato il liquido nel bicchiere e a voce molto bassa ha detto:
«Henrietta Maria non parteciperà al masque».
Lei è piombata a terra. Non riuscivo a guardarla in faccia. Ho fissato gli
spazi tra i ciocchi nel caminetto, desiderando con tutte le mie forze di esserne
inghiottita.
«Nemmeno una piccola?» La voce di Charles: troppo forte, troppo
gioviale. «Sono sicuro che da qualche parte possiamo infilarla. Certo, non
potrà recitare delle battute!»
James e Henry hanno soffocato una risata.
«È troppo giovane» ha detto Josiah. «È ancora troppo giovane per queste
cose. Starà con noi durante il banchetto e poi andrà a dormire.»
I ragazzi sono stati lontani troppo a lungo e non hanno riconosciuto
l’avvertimento nella voce del padre. Ubriachi della loro stessa allegria, hanno
elencato alcune idee.
«Fatele fare il cupido.»
«L’amore è cieco, quindi potrebbe anche essere muto!»
«Fatela recitare nell’antimasque.»
«Vestita da diavolo? Esistono diavoli così piccoli?»
«Oh sì, sono i peggiori. Il signor Jones li fa sempre saltar fuori da una
nuvola di fumo.»
«Non lo fa con i nani della regina?»
«Sì, ma c’è sempre penuria di bravi nani. Travesti una fanciulla e dipingile
in viso una barba, dico io.»
«Urrà! La metteremo nel serraglio! A Sua Maestà piace collezionare gente
strana e bizzarra.»
«Vi avverto, nessuno è più bizzarro di mia sorella.»
«Basta!» Josiah si è sporto dalla sedia e il liquido è traboccato dal
bicchiere. «Basta, tutti quanti.» Quel ruggito ha interrotto le chiacchiere e mi
è penetrato nella pelle. «Cosa sono questi discorsi da bricconi? Credevo foste
diventati uomini.»
I ragazzi hanno chinato il capo, avviliti.
«Stavamo solo…»
«Non importa, Henry. Il re e la regina saranno qui presto, capisci? Non ho
intenzione di permettere ai miei figli di comportarsi da idioti.»
«No, padre.»
«Ho detto che Henrietta Maria non parteciperà ai festeggiamenti e non
voglio discuterne oltre.»
Avrei potuto sopportarlo se lei avesse pestato i piedi, se avesse pianto o mi
avesse dato uno spintone come aveva cercato di fare quella volta in giardino.
Ma non ha fatto niente. È caduta in ginocchio accanto al fuoco e si è messa le
mani in grembo. Non ha singhiozzato. Non si è mossa. Ha fissato le fiamme,
come avevo fatto io, concentrata su qualcosa nelle profondità del focolare.
Sono andati tutti a dormire, ma né io né Lizzy siamo riusciti a smuovere
Hetta. E nemmeno a costringerla a guardarci. Il suo viso era privo di
espressione, pareva trasformata in una di quelle sagome di legno.
«I diamanti?» ha suggerito Lizzy.
Li ho agganciati al collo snello di Hetta, ma non è servito. Sulla sua pelle
hanno mandato qualche lampo, rosso e arancione.
Abbiamo dovuto lasciarla lì, a guardare i ciocchi diventare mucchietti di
cenere. Mia figlia, sola al buio con le fiamme morenti.
Non riesco a dormire. Ho le orecchie piene di melodie che non svaniscono,
che continuano a ripetersi, all’infinito. Quando chiudo gli occhi vedo seta
color champagne, taffettà scarlatto e pizzo dai bordi dorati. Ho l’impressione
che il mio corpo stia ancora ballando. So che lo sta facendo il mio cuore.
Josiah aveva ragione: è stato un trionfo.
Sono arrivati poco dopo mezzogiorno, con i loro araldi e i membri della
guardia ad aprire la strada. Uno spettacolo magnifico: un nastro scintillante di
cavalli, armature e ricchezze, che si snodava lungo il fiume e sopra le colline.
I puritani di Fayford non hanno interferito con il corteo, ma non sono
nemmeno usciti ad acclamarlo. Così ci ho pensato io. Avevo pagato dei
cittadini di Torbury St Jude per agitare stendardi e dare il benvenuto ai reali.
L’hanno fatto in maniera credibile.
Alcune chiatte sul fiume hanno suonato la fanfara mentre la coppia reale
attraversava il ponte. Le taccole hanno preso il volo al fragore degli zoccoli.
La fontana buttava vino, rosso rubino, che schizzava fuori dalla bocca del
cane e si rovesciava nella vasca.
Ho scoperto che il re è più basso di come me l’aspettavo, e più snello;
quasi gracile. Era tutto vestito di nero, aveva una barba appuntita e gli occhi
assonnati. Sembrava più vecchio della sua età. Intorno al collo gli brillava
l’unica nota di colore in quell’abbigliamento così sobrio: un collare di pizzo
d’argento, delicato e sottile come una tela di ragno.
E lei! Ho creduto di svenire quando ho visto la figura da elfo della regina
scendere da cavallo. Era splendida, allegra e dalla vivacità decisamente
contagiosa; ha riso, cantato e parlato tutto il giorno. I suoi capelli brillavano
come giaietto, i suoi occhi scuri danzavano. Lizzy dice che è una strega
papista e forse è vero, perché basta un istante in sua compagnia a incantare i
sensi.
Abbiamo banchettato nel salone su tavoli appoggiati a dei cavalletti. Uova
di quaglia, salmone, creste di gallo, patate dolci, datteri, carciofi disposti su
vassoi d’oro; tutto perfettamente condito con le erbe di Hetta. Fino a quel
momento non mi ero resa conto di quanto duramente avesse lavorato.
Si è comportata in maniera molto solenne e corretta dalla sera in cui Josiah
le ha proibito di partecipare al masque. Per tutto il banchetto è rimasta seduta
a guardare con espressione curiosa i cortigiani che mangiavano e
spettegolavano. Mi aspettavo che ridesse, che cercasse di toccare i ricci a
molla delle signore, ma non l’ha fatto. Inclinava semplicemente la testa come
il suo passero addomesticato e osservava. Avrei voluto poter decifrare il
groviglio dei suoi pensieri. Mi piacerebbe tanto, come il nostro Creatore,
poter leggere nella mente della fanciulla che ho messo al mondo. Com’è che
riesco a percepire Josiah ma non lei?
Ho avuto l’impressione che non si divertisse, al banchetto: con quella sua
lingua corta e deforme, raramente per lei il cibo è fonte di godimento. Eppure
quando Lizzy è venuta per portarla a letto, un’espressione rarissima si è
impossessata dei suoi lineamenti. Se n’è andata con il viso contorto da un
sorriso, ma che sorriso! Pareva una folata d’aria gelida, non il solito raggio di
sole.
In quel momento non mi preoccupava il pensiero di lei al piano di sopra.
Come una donna senza cuore, mi divertivo troppo per lasciarmene turbare.
Ma ora quell’immagine mi fa spuntare le lacrime agli occhi: la bambina muta
insieme al suo passerotto, mentre da sotto arrivano risate stridule e note
musicali. Povera piccola. Non toccava a lei restare confinata come una
lebbrosa: al suo posto dovevo esserci io.
Avevo soltanto voluto una figlia che stesse con me, una compagna del mio
sesso che riempisse il vuoto lasciato da mia sorella Mary. L’ho voluta con
una tale avidità che non m’importava come. Sono stata io a scottarmi le dita
con la stregoneria; sono stata io a mescolare le carte e a prendere in mano il
potere divino. Perché Hetta è stata punita per la mia cupidigia?
Si è persa gli acrobati nella galleria della torre nolare, i funamboli che
danzavano sul filo nel salone, con i loro costumi scintillanti. Non ha visto i
fuochi d’artificio balzare in cielo ed esplodere sopra i giardini. Non ha potuto
unirsi alle grida e allo stupore mentre i nostri Amici silenziosi facevano
trasalire gli ospiti, più e più volte. Ma forse è meglio che non abbia visto il
masque.
Soltanto quando è iniziato lo spettacolo mi sono resa conto che la casa si
era trasformata in un landa pagana piena di ninfe e satiri. La mia carrozza di
conchiglie è giunta sul palco del salone e ho eseguito la mia danza con al
collo i diamanti che mandavano bagliori. Intorno a me incedevano sirene in
abiti diafani, intonando il loro canto fatale. Dalla galleria piovevano petali.
L’aria era densa del profumo d’acqua d’arance bruciata. Cos’avrebbe pensato
Lizzy se ci avesse visti? Altro che i puritani di Fayford!
Forse è un peccato, forse è un errore questa corte dai lussi infiniti. Però
quant’è inebriante! E adesso che l’ho vista con i miei occhi non so come farò
a stare senza.
Dopo tutto questo scrivere ho le palpebre pesanti. Ogni volta che inizio a
perdere il filo, vedo l’antimasque: i maghi malefici e i loro servitori che si
riversano fuori da una caverna in fiamme. Creature spaventose: uomini strani,
rachitici, con teste abnormi. Tra il fumo arancione giungevano delle risatine.
Se mi addormentassi con quelle immagini farei sogni tremendi.
Sono rimasta sconvolta dai mostri della regina; lo ammetto. Non avevo
mai visto nulla di simile prima, cose innaturali e in qualche modo oscene.
Direi che non dovrebbero esistere, che non dovrebbero essere, ma poi ripenso
a Hetta e provo vergogna. Perché la gente dice che lo stesso diavolo che li ha
sfigurati ha anche mozzato la lingua di mia figlia.
Chi potrebbe paragonare Hetta a una di quelle creature maledette? Non
sono belle; sono bizzarre e squilibrate. Soprattutto quella che non si toglieva
mai la maschera ma turbava le danze con la sua faccia rossa e lasciva,
facendo le capriole come un insetto dalle molteplici zampe, e spaventando i
miei ospiti. Quando chiudo gli occhi la vedo; si muove rapida, si insinua tra i
ballerini, il corpo tozzo inghiottito da nuvole di fumo.
Fuori si stanno ammassando banchi di nuvole, spettri grigi su fondo nero.
Credo che finalmente pioverà. Il tuono striscia intorno agli alberi e in
lontananza, verso Fayford. Vedo il forcone di un lampo sfrigolare nel cielo.
Se piove troppo, forse la corte non potrà andarsene. Forse ci sarà concesso di
trattenerli.
Scoppia il tuono. La mia immaginazione febbrile ode un grido levarsi dalla
notte. Eppure fuori dalla mia finestra non c’è niente, neppure una volpe.
I lampi riempiono la stanza di luce bianca. Osservo il mio viso nel vetro,
sfuggente, spaventato. «Hetta non assomiglia affatto a quei mostri» gli
sussurro, prima di spegnere la candela. «Per nulla.»
The Bridge 1865
—
Sarah sedette al piano e suonò goffamente, con una mano, alcune melodie
natalizie. La finestra alle sue spalle era aperta e lasciava entrare l’aria
ghiacciata. Le dita le tremavano sui tasti.
«Chiudi la finestra, Sarah. Mi sembra che tu stia gelando.»
Lei sollevò lo sguardo al di sopra del piano. «L’aria mi piace. Mi piace
sentirmi come se fossi… fuori.» Qualche nota discordante e stonata, poi tornò
ad abbassare gli occhi sui tasti.
Allora la sentiva anche Sarah: quella strana pressione, quel calore
soffocante e appiccicoso che pervadeva tutta la casa. E anche l’odore. Da
quando aveva appiccato il falò, Elsie non riusciva a scacciare dalle proprie
narici un sentore di bruciato. Le ricordava il neonato di legno, segato in due,
con negli occhi né rabbia né dolore, soltanto quell’agghiacciante e orribile
vuoto.
Sospirò e ricominciò a incartare il regalo per Jolyon. Se non altro il suo
caro ragazzo sarebbe arrivato presto, con notizie da Londra, il mondo della
ragione. Cosa avrebbe pensato delle sue migliorie a The Bridge? Nella
nursery c’era una carta da parati nuova: sfondo giallo granturco con uccelli e
rami alla maniera orientale. Nel salottino, pannelli di legno nuovi, fissati con
rosoni dorati. Ma soprattutto aveva chiesto ai giardinieri di disporre nel parco
dei vasi contenenti grandi abeti e di decorarli con lanterne. Da ragazzo Jolyon
contemplava a occhi sgranati le vetrine di Natale, ipnotizzato dalle candele e
dai giocattoli meccanici. Ora finalmente lei aveva il denaro per permettersi
delle frivolezze. Gli avrebbe regalato il Natale che meritava.
Stava sistemando un nastro quando dal pianoforte arrivò una nota acuta,
che echeggiò fino al soffitto stuccato, dove aleggiò sola, patetica e fragile,
prima di morire.
«Signora Bainbridge» sussurrò Sarah. «Signora Bainbridge, guardi.»
Elsie si irrigidì. Le mani sudate inzuppavano la stoffa dei guanti sulla carta
da regalo. Poco alla volta, sollevò gli occhi preparandosi a uno spettacolo
terrificante.
Era un passerotto. Solo un passerotto, appollaiato sul coperchio del
pianoforte. Inclinava il capo a destra e a sinistra, e le guardava. Sopra il becco
balenavano due occhietti neri.
«È bellissimo.» Tenne bassa la voce per non spaventare l’uccellino.
«Meglio che Jasper non lo veda.»
Sarah sorrise. «Le sono rimaste delle briciole? Potremmo spargerle sul
pianoforte in modo che le becchi.»
Elsie guardò il tavolino. Il piatto era punteggiato di pezzettini di dolce, ce
n’erano una decina. «Sì. Ma non voglio alzarmi e spaventarlo.»
Il passerotto zampettò avanti. Tirò indietro le ali, gonfiò il petto e dischiuse
il becco delicato, pronto a cantare.
In quell’istante si sentirono tre colpi alla porta d’ingresso. Rapido come
una freccia, il passero infilò la finestra aperta. Sul pianoforte si depositò una
piuma bruna.
«Chi sarà?» Elsie andò alla finestra e cercò di sbirciare intorno alla massa
di mattoni dell’ala est. Riusciva solo a intravedere il vialetto, e non c’erano
carrozze.
«Credo…» disse Sarah incerta, «credo che sia il signor Underwood.»
«Il signor Underwood? Non ricordo di averlo invitato.»
«No.» Sarah chiuse il coperchio del piano. «No, infatti. Sono terribilmente
dispiaciuta, signora Bainbridge. Sono stata io. L’ho invitato io.»
«Oh. Capisco.»
«È solo che…»
«Forse me ne avevi parlato.» Si sentiva colta alla sprovvista. In un certo
senso, anche se non sapeva bene come, aveva ricevuto un affronto. «Non
sono pronta a ricevere ospiti.»
«Ma io non l’ho invitato in qualità di ospite.» Sarah si alzò e cominciò
nervosamente a lisciarsi i capelli. «Più come un… consigliere.»
Altri tre colpi, stavolta più ravvicinati.
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio chiedergli di Hetta.»
Il terrore le sussultò nello stomaco. «Sarah…»
«Ho pensato che forse sa cosa fare. In passato la Chiesa ha compiuto degli
esorcismi.»
Esorcismo. Quella parola era gutturale, proveniva da un punto profondo
della gola. Pronunciarla a voce alta era come soffocare, come iniziare a
parlare le lingue del demonio. Ma cosa le era saltato in mente?
«Non avrai seriamente intenzione di chiedergli di eseguire una specie di
rituale?»
«No! Oh, no, non credo che Hetta debba essere scacciata o qualcosa del
genere. Vorrei semplicemente un suo consiglio.»
Suonò il campanello.
«È ovvio che nessuno sta andando ad aprire alla porta» disse Elsie.
«Meglio che ci pensi io.»
Fu sollevata di avere una scusa per uscire dalla stanza e sfuggire
all’espressione intensa di Sarah. Almeno il signor Underwood le avrebbe
chiarito le idee. Era un uomo di fede ma, così le sembrava, non superstizioso.
Il salone era squallido e gelido. Il caminetto era stato acceso, ma non tirava
bene. Nessuna luce scintillava sulle spade cerimoniali o sull’armatura; erano
di un grigio peltro opaco. Dalla porta d’ingresso spalancata entravano folate
d’aria. Sulla soglia c’era Underwood, con in mano una lunga scatola.
«Buongiorno, signora Bainbridge. Perdoni l’intrusione. Ho suonato il
campanello ma la porta era socchiusa e sul gradino ho trovato questo.»
«Dovrebbe essere il mio vestito nuovo! È tutta la settimana che lo aspetto
da Torbury St Jude.»
«Giusto in tempo per il Natale. Che fortunata.» Si accomodò e posò la
scatola sul tappeto orientale. Lei si inginocchiò (ormai niente le riusciva più
facile, con quella pancia sporgente) e accarezzò il pacco. Non c’erano né
etichetta né cartellino, solo un nastro verde oliva e oro.
Il signor Underwood si tolse il cappello, che gli aveva schiacciato sulla
testa i capelli biondi. «Mi domandavo se la signorina Bainbridge è in casa.
Ho ricevuto un suo biglietto, in cui mi chiedeva di parlarmi. Devo dire che mi
ha allarmato. Mi è sembrato un messaggio… confuso.»
«È nella stanza della musica.» Elsie guardò il pacchetto. Provava l’impulso
di confessare tutto, di dirgli delle schegge nel collo di Rupert, della nursery,
della soffitta, dell’impronta, degli occhi. Ma parlare di quelle cose le rendeva
farsesche. Non era possibile spiegare la paura, si poteva solo sentirla ruggire
nel silenzio e azzittire il cuore. «Sento di doverla avvertire, signor
Underwood, che la signorina Bainbridge ha intenzione di discutere con lei
delle sue convinzioni, che sono… poco convenzionali. Lavorava per una
signora molto anziana ed eccentrica. Credo che facesse parte di un circolo
spiritualista.»
«Ah.»
«Spero che sia d’accordo con me quando dico che sono… cauta su queste
cose.»
«Ma certo. La Chiesa non nega l’esistenza degli spiriti, ma è fortemente
contraria a invischiarsi in questioni del genere. Pensi alla negromante di
Endor e alla maledizione su re Saul per avere consultato una medium.»
Le riemersero dei ricordi frammentari del catechismo; re Saul,
disperatamente alla ricerca di un consiglio del suo profeta Samuele, che
implora la donna di farlo ricomparire. Perché mi hai disturbato evocandomi?
Quel ricordo la inquietava perché lei l’aveva fatto. Era stato possibile.
Elsie si schiarì la voce. «Lei deve capire che Sarah è particolarmente
soggetta all’influsso di questi mesmeristi e sensitivi da strapazzo. I suoi
genitori sono morti quand’era giovane. Senza famiglia è vulnerabile… Posso
chiederle di provare a dissuaderla da questi metodi brutali? Con dolcezza?»
«Ha la mia parola.» Elsie alzò la testa. Lui la guardava con gentilezza;
anzi, temette che si trattasse di tenerezza. «Gliel’ho già detto: voglio educare
Fayford e sradicare superstizioni come questa.»
«Stavo proprio pensando a Fayford, signor Underwood. Mio fratello
arriverà da Londra per le vacanze. Se potesse raccomandarmi delle ragazze
del paese che siano adatte, potrei convincerlo a portarsele in fabbrica come
apprendiste. La paga non è elevata, ma tutti i nostri ragazzi vanno a scuola,
almeno due ore al giorno. Avranno un impiego, da mangiare e un tetto sulla
testa. Un tetto che non perde. Dei vestiti appropriati. E alla fine del periodo di
apprendistato avranno imparato un mestiere. Cosa ne dice?»
«Dico che è il dono migliore che avrei mai potuto ricevere.» Il viso gli si
illuminò di un sorriso beato. «Anzi, già mi sono venute in mente delle
giovani adatte. I genitori non avranno nulla in contrario alla vostra fabbrica. È
questa casa che temono. A proposito.» Dal taschino interno tirò fuori un
pacchetto avvolto in carta marrone, legato con uno spago. «Documenti
provenienti dal paese. Temo che siano una lettura piuttosto noiosa, ma forse
alcuni possono interessarle.»
Elsie guardò lo spago, annodato strettamente. Era la stessa sensazione che
provava al petto. È questa casa che temono. Stava cominciando a pensare che
ne avevano ben donde. Quel fascio di carte poteva fornire delle risposte, ma
forse poteva anche dirle cose che non aveva voglia di scoprire.
«Gentile da parte sua ricordarsene. Può lasciarli nella stanza della musica,
quando andrà a parlare con Sarah? Li consulterò più tardi.»
Lui le tese la mano. «Venga con me. Andiamo insieme a convincere la
signorina Bainbridge a togliersi dalla testa quelle fantasie. Sono sicuro che
uniti riusciremo a farla ragionare.»
Lei esitò. «Grazie. Ma… con Sarah ci ho già provato. Credo sarebbe
meglio che ci parlasse lei, senza che io interferisca. Dopotutto, questioni
spirituali di questo livello richiedono un certo grado di riservatezza.»
Lui lasciò cadere la mano e se la portò dietro la schiena. «Sì. Ma certo.
Un’osservazione molto saggia da parte sua, signora Bainbridge.» Voltò la
testa. «La stanza della musica è quella?»
«Quello è il salottino. Lo attraversi e giri a destra. Non può sbagliare.
Dubito che abbia mai visto una stanza più rosa.»
Lui abbozzò un inchino. «Grazie. Ora la lascio al suo pacco.»
Lei lo guardò allontanarsi, le code della giacca lisa che svolazzavano al
ritmo dei passi.
Spostò le gambe, si mise in una posizione più comoda e si preparò ad
aprire la scatola. Un vestito nuovo poteva essere proprio la distrazione di cui
aveva bisogno. Sarebbe stato il suo abito più elegante, quello per il giorno di
Natale.
Era difficile disfare il nodo con le mani guantate, ma alla fine ci riuscì. Le
dita, sudate per l’ansia, trovarono il bordo del coperchio. Crespo e chiffon,
ricamati di seta. Un abito in tre pezzi, ricco di nappine e frange. Non vedeva
l’ora. Tolse il coperchio dalla scatola.
E urlò.
Dentro c’era un mucchio di nastri di un materiale nero mischiati a foglie
secche e a cardi, che pungevano, appiccicosi e incrostati di sangue. Al centro
era posato qualcosa di nero, bianco e peloso, brulicante di mosche. Riuscì a
distinguere dei grumi di carne e osso maciullati. Vene come matasse di seta
rossa. Poi le orecchie flosce, gli occhi chiusi. Il pelo imbrattato di sangue fino
alla fronte. Una testa di vacca.
La testa di Beatrice.
La puzza le strinse la gola e le fece venire la nausea. Cadde sulla schiena e
si allontanò a tentoni, le mani che stridevano sul pavimento. Stava per
vomitare. Stava per vomitare eppure non riusciva a staccare gli occhi dalla
scatola. Beatrice. Povera Beatrice.
Con il capo andò a scontrarsi contro un oggetto duro. In preda al panico
più violento, si girò di scatto. Alle sue spalle c’era Hetta, che sorrideva
immobile, la rosa premuta al petto.
«No, no.»
Si protese in avanti e la buttò a terra con un gran fracasso. Si rimise in
piedi, aveva le gambe di gelatina ma in qualche modo riuscì a costringerle a
salire le scale, due gradini alla volta. La gonna le si impigliò nelle caviglie.
Inciampò, cadde e si tirò su. Non aveva idea di dove stava andando, solo che
doveva salire, salire… fino al tetto, se fosse stato necessario. Per mettere più
distanza possibile tra sé e quello spettacolo orrendo…
Vagamente, sentì il signor Underwood entrare nel salone e chiamarla per
nome. Poi il suono soffocato del grido di stupore di Sarah. Ma non riuscì a
fermarsi. Quel profumo di rose: la seguiva, si addensava sempre più a ogni
passo…
A un gradino dal pianerottolo si arrestò all’improvviso. Un altro viso di
legno piatto le bloccava la strada. Un nuovo Amico, ma lo riconobbe.
Baffi come uno spazzolino di fil di ferro sopra le labbra. Capelli unti con
olio di Macassar, un ricciolo che ricadeva sul sopracciglio sinistro. Guancia
percorsa da vene spezzate. E gli occhi… L’espressione tormentata di quegli
occhi le gelò il sangue.
«Rupert.»
Non era possibile. Chiuse le palpebre: se avesse continuato a guardare
sarebbe impazzita. Ma lo vedeva lo stesso; lo sentiva, vicino alla faccia. Che
si avvicinava.
«No, no.»
Fece due passi indietro. La coda del vestito le si avvolse intorno alle
caviglie come una fune. In preda al panico, agitò le gambe e mise un piede in
fallo.
Tre tonfi successivi. Poi, soltanto nero.
The Bridge, 1635
—
Stamattina ho sentito per la prima volta nella vita un uomo urlare. È un suono
che non vorrei sentire mai più: gutturale, pieno di vergogna, ha attraversato il
cortile ed è risalito fino alla torre nolare.
Mi sono svegliata ricoperta di sudore ghiacciato. Josiah era nel letto
accanto a me e fissava il soffitto con lo stesso orrore che sentivo sulla pelle. Il
ricordo è ricaduto come un colpo mortale: il re e la regina. Non poteva essere,
Dio onnipotente, non poteva essere che fosse loro accaduto qualcosa?
Quel rumore spaventoso arrivava da fuori e aveva fatto abbaiare i cani. Mi
sono precipitata giù dal letto e sono corsa alla finestra. Il vetro era
punteggiato di gocce di pioggia e non riuscivo a vedere chiaramente. Dopo il
temporale di ieri nell’aria era sospesa una foschia diafana. Le pozzanghere
evaporavano nella calura mattutina.
«Cosa c’è?» ha domandato Josiah.
La risposta non gli è arrivata da me, ma è emersa da quel luogo dove
brulicano i sogni e dove la consapevolezza giunge già perfettamente formata.
«È morto qualcuno. La vita ha abbandonato questa casa.»
Lui si è alzato subito, ha buttato via il copriletto e ho sentito i suoi piedi
nudi risuonare sulle assi del pavimento. Poi l’ho visto afferrare la spada e
irrompere in corridoio.
Non eravamo gli unici svegli. Gli ospiti giravano per casa nei loro abiti
notturni, con gli occhi gonfi e i capelli arruffati dalla sera prima. Quando
Josiah li ha visti ha assunto un’aria calma.
«Non abbiate paura. Vi prego di tornare ai vostri letti. Andrò a scoprire le
cause di questo disturbo.»
Loro hanno borbottato e si sono strofinati gli occhi. Parevano stanchi e non
sembravano avere voglia di obbedirgli.
Ho seguito Josiah giù per una rampa di scale, in preda al frenetico
desiderio di vedere i bambini al sicuro. Li ho trovati radunati fuori dalla
nursery con Lizzy, tutti mortalmente pallidi. Da dentro si sentiva pigolare il
passero di Hetta. Mi si sono rizzati i capelli sulla nuca. Una volta Mary mi
aveva detto che i passeri portano con sé le anime dei morti.
«Non sappiamo perché ci sia tanta confusione» ho detto. «Vostro padre è
andato a occuparsene.»
«Padrona?» Lizzy ha cercato di incrociare il mio sguardo ma io non la
guardavo perché sapevo che mi sarebbe bastata un’occhiata per perdere la
compostezza.
«Non adesso, Lizzy.»
Devo esserle sembrata una padrona fatta e finita, di quelle che danno
soltanto ordini. Mi sono voltata verso i miei figli. Nonostante fosse andata a
letto presto, Hetta sembrava più esausta dei ragazzi. Le ho toccato la fronte.
Bruciava.
«Tornate a letto» ho ordinato. «Tutti quanti, a letto.»
I ragazzi hanno protestato ma io non ho prestato loro attenzione; non mi
sono soffermata a discutere. Ero animata da una strana energia, una specie di
nauseabonda eccitazione, e sono tornata da dov’ero venuta, per andare a
rassicurare gli ospiti.
Sotto tutte le paure della mia mente ne ribolliva una che non riuscivo
nemmeno a pronunciare: la peste. Avevo saputo che a Londra c’erano state
alte temperature e notizie di malesseri. Ora mia figlia bruciava di febbre. Ho
pregato Dio che non si trattasse di peste.
Avevamo perduto Mary per la malattia del sudore. La gente diceva che era
una morte rapida e dolce, ma non avevano visto con i loro occhi. Se mia
sorella era morta dolcemente, non osavo immaginare come potesse essere una
morte crudele.
La mattina stava bene. Ma già mentre ci vestivamo, l’avevo sentito per la
prima volta: quel presentimento di cui ho cominciato a fidarmi più che dei
miei altri sensi. I nostri occhi si erano incontrati e avevo capito che lo sentiva
anche Mary. A mezzogiorno era ormai confinata a letto.
Tutto iniziò con dei brividi. Poi venne il calore, che le bruciava la pelle,
che le scorreva fuori dai pori formando rivoletti di sudore. Prima che fosse
trascorsa la notte, aveva la mandibola fasciata. Andata. Morta, a soli
vent’anni.
I miei piedi nudi scricchiolavano sui giunchi stesi sul pavimento.
Ossessionata dai ricordi di Mary non mi ero accorta di Jane che correva su
per le scale. Ci siamo scontrate e siamo cadute entrambe, sbattendo le
palpebre, stupefatte.
«Oh, padrona, perdonatemi.» Sembrava fuori di sé. Mi sono resa conto che
era sveglia da molto prima di noi. Stava svolgendo le sue faccende quand’era
risuonato quell’urlo.
«Jane! Jane, dimmi cos’è successo.»
Lei è scoppiata in lacrime.
Gliel’ho cavato una parola alla volta. Non ho avuto bisogno di scendere
alle stalle a fiutare il sangue e a vedere le mosche di persona; luccicava tutto
nelle sue pupille.
Nelle stalle c’era un cavallo morto. Non soltanto morto: mutilato. La coda
era stata mozzata e inchiodata sulla porta, la criniera tranciata con le forbici.
Lo stalliere ha trovato una serie di lacerazioni sulla pelle, come le tacche che
si incidono nella scorza di un albero.
«Quale cavallo, Jane?»
«Oh… pa-padrona!» ha singhiozzato lei.
«Non dirmi che è la mia giumenta grigia.»
Jane ha scosso la testa. Le sue guance umide hanno mandato un lampo di
verità. «Pe-peggio.»
«No. Non mi starai dicendo che…»
«Il cavallo della regina!» ha gridato lei.
Ho sentito le gambe cedermi; mi sono appoggiata al muro e poi sono
scivolata giù, fino al pavimento. «Ma chi… i puritani?»
«Non lo so, padrona, non lo so. Mark dice che dalle stalle manca
qualcuno.»
«Chi?»
«Un ragazzo. Uno zingarello. Io nemmeno sapevo che ne avevamo uno,
che Dio mi perdoni! Ma cosa gli sarà venuto in mente per prendersela con
una brutta bestia cattiva come quella?»
Mi si è gelato il sangue. Merripen. Era stato Merripen.
Non sapevo come. Non sapevo dove un ragazzino di nove o dieci anni
potesse aver trovato la forza per commettere un atto così infernale. Da dove,
nella sua giovane mente, era scaturito un impulso così orribile?
Il cavallo della regina! Della regina!
La testa mi si spaccava per l’angoscia. È solo colpa mia, mia. Siamo
rovinati. La corte non tornerà mai più qui. Josiah…
Santo Dio. Josiah lo scoprirà. Verrà a sapere cos’ho fatto, che con uno
stupido capriccio ho distrutto le ambizioni di tutta la sua vita. Un matrimonio
può reggere a una cosa del genere? E il mio cuore?
Che Dio perdoni la mia malvagità. Vorrei tanto che si fosse davvero
trattato della peste.
The Bridge, 1866
—
Elsie si svegliò con tre esplosioni di dolore. La prima partiva dal fondo della
schiena e le arrivava fino alle cosce. L’altra le penetrava la cima del cranio e
poi si irradiava in tutto il viso. Sentiva il labbro gonfio dove i denti avevano
morsicato la pelle.
Ma quelle fitte non erano nulla al confronto con la terza: quella di artigli
che le straziavano il ventre.
Iniziava piano, stuzzicandole le corde interne, e poi aumentava
gradatamente fino a farla urlare. Chiunque la stesse curando le portò alle
labbra un liquido amaro dall’odore pestilenziale. Sentì un fiume di sangue
rovente tra le gambe e poi ricadde all’indietro, esausta.
Dormì senza sognare. Qualcosa restava sospeso al limite della sua
consapevolezza, come un uccello saprofago sopra un animale morente, in
attesa di scendere in picchiata, ma non la attaccò.
Era intrappolata in un caleidoscopio in continuo mutamento: fiutò la puzza
stantia e penetrante di pelle non lavata e di sangue vischioso; assaporò l’aloe
e l’olio di ricino; sentì la voce di Jolyon e un’altra che non riconobbe. Colse
soltanto alcune frasi, ma furono sufficienti.
«Legno? E ce l’aveva dentro?»
«Sì, insieme al bambino. Quel poverino era spaccato in due. Non avevo
mai visto niente di simile.»
Il bambino.
Non c’era più. Amputato. Dentro non ne sentiva più i movimenti o il
ribollire.
Non siamo più due. Sono sola.
Il Natale doveva essere ormai passato, perché quando un orribile mattino
riuscì a strisciare fuori da quella nebbia, Sarah era seduta nella stanza, vestita
sobriamente, e mangiava della carne fredda che sembrava avanzata. Mabel si
stava occupando del guardaroba e indossava la nuova uniforme che Elsie
ricordava di averle comprato per Natale.
In bocca aveva un sapore spaventoso. Gemette. «Il mio tonico. Datemi…»
Farmaci. Non aveva importanza cosa: oppio, morfina, cloralio.
Sarah trasalì al suono della sua voce. Si tamponò le labbra con un
tovagliolo, si precipitò al suo capezzale e le prese la mano. Era dimagrita, e
così il suo viso sembrava più lungo e cavallino che mai. Intorno alle orbite
aveva delle ombre, le iridi luccicavano di lacrime mai piante.
«Tonico» ripeté Elsie. Il fiato le usciva scorticandole il petto. Di lì a un
istante il dolore sarebbe montato, lo sentiva crescere, prendere forza.
Sarah scosse la testa. «Il dottore ha detto di non dargliene troppo.»
«Il dottore! Lui non ha mai provato niente del genere.»
«Dice che deve mangiare. Posso darle pane e acqua o brodo di manzo…»
«Non ho fame.» La sua lingua anelava al gusto astringente dell’oppio; la
sua testa implorava un po’ di sonno. Ora le faceva un male tremendo,
rivoltava oggetti appuntiti e cercava di ridurli a ricordi. Avrebbe voluto
mettersi a piangere, ma questo l’avrebbe fatta soffrire di più. «Per l’amor di
Dio, dammi il tonico.»
«Il dottore…»
«Il dottore è un uomo. Non può comprendere questo dolore.»
Le lacrime sgorgarono sulle guance scavate di Sarah, che strinse la mano
di Elsie fino a farle male. «Oh, signora Bainbridge. Mi dispiace tantissimo.
Sarebbe stato un pezzetto di Rupert, vero?»
Il dolore la investì nuovamente, ma non allo stomaco. «Dov’è? Dov’è il
mio bambino?»
«Con suo padre. Il signor Underwood è stato molto gentile. Ha battezzato
il piccolo sconosciuto e l’ha messo a riposo nella cripta di famiglia. Non era
tenuto a farlo. Sarà il nostro segreto.»
Un piccolo sconosciuto. Cresciuto in segreto, sepolto in segreto, sempre al
buio. Elsie sentì la mente aprirsi come una ferita: umida, inerme. «Ma
allora… non lo vedrò mai!»
«Volevamo aspettarla, ma lei era così malata. Non abbiamo potuto
rimandare oltre.» Sarah pareva a disagio. Il suo corsetto frusciava. «Posso
dirle com’era. Era molto piccolo. Delicato. Si capiva appena che era un
maschio.»
«E… ed era spezzato?»
«Chi gliel’ha detto?»
«Ma allora è vero! Ho pensato, ho sperato di avere sentito la voce di
Jolyon in sogno. Sarah, com’è possibile…»
Sarah scosse la testa. «Non so spiegarglielo. Perfino il dottore non lo sa. Io
so soltanto quel che ho visto.»
«E cosa… hai visto?»
Sarah distolse lo sguardo. «La prego, signora Bainbridge, non mi va di
parlarne. Non mi costringa a farlo.»
«È mio figlio.»
«Aveva delle schegge infilate nella pelle» sussurrò Sarah, chiudendo gli
occhi. «Dappertutto.»
Alcune immagini cercarono di formarsi ma Elsie non lo permise, non
riusciva a sopportarle. «Il nome. Come l’hanno battezzato?»
«Edgar Rupert!»
«Edgar!»
Sarah la fissò sbattendo le palpebre. «Non… non andava bene? Il signor
Livingstone ha detto che era il nome di suo padre.»
«Sì.» Si lasciò cadere nuovamente sul cuscino, in preda alla nausea.
«Infatti.»
Mabel chiuse l’armadio e, strisciando lungo il muro, scivolò fuori dalla
porta.
«Jolyon era molto arrabbiato?»
«Arrabbiato? Dio la benedica, signora Bainbridge, e perché mai? L’ho
visto soltanto molto preoccupato.»
Senza dubbio era vero, ma si sarebbe pentito di quell’occasione persa con
la stessa amarezza di Elsie. Aveva perso l’erede, il futuro della loro azienda, e
in un momento di… cosa? No, mamma, non di distrazione. Qualcosa di
peggio, qualcosa in agguato ai confini della sua mente…
«Beatrice» boccheggiò. «Beatrice.» La mano di Sarah diventò rigida sotto
la sua. «Oh, Sarah, dimmi che ho immaginato tutto.»
«Non posso. Quella povera creatura. Il vestito… Signora Bainbridge, cos’è
accaduto? Non l’ho persa di vista nemmeno per dieci minuti.»
«Me l’hanno consegnato. Il signor Underwood… ha detto di averlo trovato
davanti alla porta.»
«Sì, me l’ha detto. Ma come mai lei si trovava in cima alle scale?»
Un dito gelido le si posò sul cuore. «Oddio. L’hai visto? È ancora là? Cosa
ne avete fatto?»
«Ssh.» Sarah cercò di tenerle ferme le mani, ma anche lei era scossa. «Sta
parlando di Hetta?»
«No. Di Rupert.»
Sarah lasciò andare le mani con un gemito. «Rupert?»
«Ce n’era uno con la sua faccia.» Chiuse gli occhi tentando di spingere via
il ricordo, ma non servì a nulla. «Un Amico con le fattezze di Rupert, Sarah.
Sembrava… Oddio, sembrava maledetto.»
«No! No, lei si dev’essere sbagliata, signora Bainbridge. Non è in casa.
Non l’ha visto nessuno.»
«Era proprio sul primo gradino.»
«Santo Dio.» Le labbra di Sarah tremarono, come petali appassiti di rosa
pronti a cadere. «Non ho mai voluto… mi dispiace tanto, signora Bainbridge.
Lo sa, vero, che non avrei mai messo Hetta nel salone? Le giuro che era nel
solaio. Era chiusa a chiave nel solaio, non capisco come…» E tacque. I
muscoli del viso si contraevano, come se stesse combattendo contro
un’emozione. «La verità è che è accaduto nel diario. Il diario di Anne. Poco
dopo che acquistò gli Amici, un cavallo fu mutilato. E sto cominciando a
pensare che forse… forse Anne era davvero una strega, dopotutto. Scrive di
queste pozioni che aveva usato per concepire Hetta… Forse è questo che
Hetta sta cercando di fare: avvertirci dei poteri di sua madre.»
Elsie chiuse gli occhi. Tremava in ogni particella del corpo. Stava
cominciando a pentirsi di essersi svegliata. Il sonno era una cosa semplice e
sicura. «Sarah, ne hai parlato a Jolyon? O al signor Underwood?»
«Sì.» A un tratto la sua voce si inasprì. «L’ho detto a suo fratello e ho
implorato il signor Underwood di eseguire un esorcismo. Non hanno voluto
credermi. Hanno parlato e poi mi hanno costretto a vedere il medico.»
«E lui cos’ha detto?»
«Oh, mi ha dato una medicina tremenda. Lo preoccupava di più questo.»
Sarah sollevò la mano, ancora bendata. «La pelle intorno al taglio è diventata
bianca e morbida. Secondo lui è infettata.»
Un’infezione che le faceva vedere le cose. I medici avevano sempre una
spiegazione, ma questa era insufficiente. Elsie non aveva un’infezione e
nemmeno le cameriere. Come avrebbero fatto a spiegare quello che loro
avevano visto?
«E la cosa peggiore» esclamò Sarah «è che vogliono separarci! Il signor
Livingstone la riporterà a Londra alla fine del mese.»
«Londra?» Gli occhi di Elsie si aprirono di scatto. In quel momento Londra
le pareva lontana come il paradiso.
«Per la convalescenza. Dice che le farà bene cambiare ambiente.»
«E tu?»
Sarah si sforzò di trattenere le lacrime. «I medici dicono che sono nervosa.
Pensano che il viaggio mi ecciterebbe troppo ed è meglio che riposi qui.
Senza di lei.»
Elsie sbuffò. «Riposare? In questa casa?»
«Una volta amavo questa casa, credevo che fosse il luogo a cui appartengo.
Fino a quando…» Sarah incrociò lo sguardo di Elsie, implorante. «Non so
cosa fare, signora Bainbridge. Lei sarà a Londra e io sarò qui, sola, con…
chiunque sia. Chiunque siano. Mi dica cosa devo fare.»
«Bruciala. Brucia Hetta.»
Sarah esitò. «Come lei ha bruciato gli altri?»
«Sì.»
«Li ha davvero bruciati, dopo che ho portato dentro Hetta?»
«Ma certo.»
Sarah si portò le mani ai capelli, e sovrappensiero cominciò a sfilarsi le
forcine. «Ne è sicura?»
«Ma certo che ne sono sicura! Peters e le cameriere mi hanno visto
benissimo.»
«Santo Dio.»
«Cosa? Sarah, cosa c’è?»
«Sono tornati, signora Bainbridge.» Le si spezzò la voce. «Gli Amici sono
tornati, in tutta la casa.»
The Bridge, 1635
—
Credo non sia mai esistita una vergogna come la nostra. Quasi non riesco a
respirare per lo scoramento che mi ha attanagliato lo spirito, per il senso di
colpa di cui non riesco a liberarmi.
Quella mattina continua a girarmi in mente, all’infinito. Ricordo il silenzio
sconvolto che ci circondava; i cortigiani non più allegri, ma seri, severi come
giudici. Sento l’umiliazione risuonarmi stridula nella testa mentre la regina
singhiozzava. Adorava quel cavallo. Naturalmente le abbiamo dato la mia
giumenta, ma era del tutto insufficiente a paragone con la creatura di sangue
puro che aveva appena perduto. Sembrava un cavallo da poveri. Se ne sono
andati con una doppia scorta, lasciandoci soli a The Bridge. Soli, con l’eco
sarcastica del nostro fallimento.
La mia disgrazia è duplice. Non soltanto ho deluso il mio re, ma anche il
mio signore e marito, la speranza più cara al mio cuore. Lui non sapeva del
mio tradimento, o almeno, non della sua natura. Poco dopo che se ne sono
andati è venuto da me e mi ha afferrato le mani. Quando mi ha fissato negli
occhi ho visto che era teso e tremante, come se i muscoli stessi vibrassero di
paura.
«Anne, devi dirmi la verità.» Io non riuscivo a parlare. «So che non ne
parliamo mai, ma adesso dobbiamo farlo. È arrivato il momento.»
La mia mente colpevole è subito volata a Merripen. «Josiah…»
«So che tu hai sempre visto delle cose. Che le hai sentite, prima che si
verificassero. Quelle tisane che mi hai dato… io ho creduto fossero un dono
di Dio. Ma… ora dimmi la verità.»
«Cosa dovrei dirti?»
Aveva difficoltà a far passare le parole dalla gola. «Hai avuto una figlia.
Tutti dicevano che per te sarebbe stato impossibile mettere al mondo un altro
bambino, ma tu hai avuto una femmina. A corte ho fatto carriera più
rapidamente di chiunque altro nella mia posizione. Sono state quelle erbe?
O…?»
Sono arrossita, consapevole del mio delitto, di avere avvicinato un po’
troppo la gonna alla fiamma del peccato. «Come puoi chiedermi una cosa del
genere?»
«Sono certo che tu non avresti mai compiuto quel gesto orribile e malvagio
nelle stalle» si è affrettato ad aggiungere. «Ma pensi di avere potuto
accidentalmente…» Ha guardato i miei diamanti, che mentre deglutivo hanno
mandato un bagliore. «Non lo so. È possibile che una forza oscura ti abbia
preso di mira?»
«Josiah!» ho gridato.
«Rispondimi, Anne. Perché ho guardato quell’animale e non riesco a
credere che si tratti del lavoro di mani umane.»
Così gliel’ho detto. Gli ho raccontato l’atroce, terribile verità: che era stata
la stupidità di sua moglie, e non la sua astuzia, a evocare quel demonio.
Da quel momento non mi ha più rivolto la parola.
Non riesco a trovare la forza di piangere. Non ce l’ho con lui per il suo
odio. Niente può bruciare più forte del disprezzo che provo per me stessa. Mi
sono strappata di dosso i miei diamanti scintillanti, vergognandomi di quanto
aveva speso il mio povero Josiah, di quanto aveva investito in me.
Ora è confinato qui in provincia e non può farsi vedere a corte. I suoi
conoscenti non rispondono più alle sue lettere. Non ha nulla da fare a parte
aggirarsi per casa come un orso in gabbia, sparare alla nostra selvaggina e
attaccare briga con gli abitanti del villaggio mentre ci prepariamo al raccolto.
Non vogliono lavorare le nostre terre, dopo quel che è successo. Hanno paura
che gli zingari ci abbiano maledetto.
Spero in Dio che la servitù non li imiti. Per ora sembrano intenzionati a
restare e a crogiolarsi nei pettegolezzi, ma a conti fatti possiamo fidarci
soltanto della presenza di Lizzy. Non che lei ne sia felice: con ogni sguardo
mi rimprovera di averle tenuto nascosta la presenza di Merripen. Cara Lizzy,
non ha mai accettato che io sia cresciuta, che sia una signora. Non si rende
conto di quanti altri segreti sa custodire il mio cuore traditore.
In casa cala un silenzio di tomba. Niente ospiti, niente operai, nemmeno i
miei figli a rallegrare questo mortorio. Anni fa li abbiamo sistemati presso
alcune casate nobili perché potessero imparare a governare una grande
proprietà. Ora sono tornati in quei luoghi ma immagino che i parenti di Josiah
non siano disposti a ospitarli molto più a lungo. Stringere alleanza con la
nostra famiglia rappresenta un rischio.
Perfino Hetta non è più una consolazione com’era un tempo. Oggi che ero
seduta nel salone, mi si è spezzato il cuore nel vederla saltellare intorno a
quelle sagome di legno, come se il futuro della nostra casa e della nostra
famiglia non fossero andati in fumo intorno a lei.
Ho trascorso quasi nove anni della mia vita ad anelare soltanto al suo
sorriso, ma oggi non riesco a sopportarlo.
L’ho guardata giocare per ore con le tavole dipinte e ho dato sfogo al
libero scorrere dei pensieri. Ho pensato che in questo momento potrei essere
felice, se non fosse stato per lei e il suo amichetto zingaro. Ora sarei pronta a
entrare al servizio della regina, ma Hetta è proprio la ragione, l’unica, per cui
adesso a The Bridge non sorride nessuno.
«Come puoi?» sono esplosa. «Come osi sorridere e camminare così
spavalda? Lo sai cos’è successo.»
Lei ha fissato uno degli Amici inclinando la testa, come se avesse parlato.
Poi ha continuato a giocare.
La mia rabbia è cresciuta. Che Dio mi perdoni, so di avere sbagliato, so
che è solo una bambina. Ma non sono riuscita a fermarmi. «Ascoltami! Non
capisci cosa significa questo per noi?»
Dovrebbe. Ma sembra non comprendere fino in fondo. Forse non ne è in
grado.
«Merripen!» ho gridato, giunta al limite della sopportazione. «È stato il tuo
amico Merripen a farci questo!»
Il sorriso è scomparso dal suo viso, rapido come un sipario calato.
«Ha ucciso il cavallo della regina» ho detto, «perché abbiamo scacciato la
sua gente dal campo. Ha reso tuo padre estremamente infelice.»
Lei ha guardato l’Amico più vicino e poi me.
«Sei stata tu a farmi assumere quel selvaggio e adesso ci ha rovinati,
rovinati per sempre!»
Non sono riuscita a leggere la sua espressione. Ha aperto la bocca e, per un
momento folle, ho pensato che avrebbe detto qualcosa. Poi è scappata via.
Ho sentito i suoi piedini correre sulle scale veloci come la pioggia, veloci
come le mie lacrime. Mi sono abbandonata sulla mia poltrona, sentendomi
una canaglia.
Hetta era l’unica persona rimasta a non odiarmi. E adesso l’ho respinta.
Da qualche parte, in lontananza, esplode un tuono. Non so quanto sono
rimasta lì a rammaricarmi del mio destino, a implorare di trovare la forza di
proseguire. Ma il temporale dev’essersi avvicinato, perché la luce è
scomparsa e la sala è piombata in un’oscurità livida, grigio-giallastra. Gocce
di pioggia colpiscono la finestra. Un Amico, la donna con la scopa, mi
guarda.
Il suo sguardo diventa umiliante, degradante; è come se conoscesse ogni
segreto della mia anima.
Ho ordinato che vengano restituite subito al signor Samuels, domattina.
Che siano restituiti tutti gli oggetti di lusso. Non sopporto di avere ancora in
casa il suo tesoro. Li detesto tutti, uno per uno.
Oggi è accaduta una cosa molto strana. Il mio carro è tornato con gran
fracasso da Torbury St Jude con i servi, ma le merci erano ancora a bordo.
«Cos’è successo?» ho sbraitato. «Vi avevo detto di lasciarle al signor
Samuels.»
«Lo so» ha risposto il nostro uomo, Mark, «e mi dispiace molto, padrona,
ma non c’era.»
Ho guardato Jane. «Ma cosa vuol dire? Il signor Samuels si è rifiutato di
accettare la consegna?»
«No» ha mormorato lei, tremante. «No, non è questo.» Ha assunto
un’espressione accigliata, confusa. «Il negozio… non c’era più.»
Com’era possibile? Un negozio che a giugno era così pieno e fornito!
«Come? Il locale è vuoto?»
«No, padrona.» Ora la sua voce era più acuta, e prossima alle lacrime.
«Non c’era più. Il negozio. Siamo passati là davanti almeno dieci volte ma ve
lo giuro… sembra quasi che non sia mai esistito.»
Sono riuscita soltanto a guardarla a bocca spalancata. Che ragazza stupida!
Non avevo mai sentito niente del genere. In quel negozio c’eravamo entrate
insieme. I negozi non spariscono così all’improvviso!
Forse sta male; in lei c’è sicuramente qualcosa che non va, perché è da
quando è tornata che non smette di rabbrividire.
Devo andare in città a sistemare la questione personalmente, e presto. Fino
ad allora sono costretta a tenermi i nostri mostruosi Amici. Copro i loro visi
con dei teli ma so che sono lì, e che guardano. Come se sapessero cos’è
accaduto. Come se questo li divertisse.
The Bridge, 1866
—
«I miei diamanti. Dove sono i miei diamanti?» Elsie frugava nel suo
portagioie, sparpagliando monili e perle su tutto il tavolo da toletta.
«Elsie.» Jolyon aveva l’aria stanca e si appoggiò alla colonna del
baldacchino. «Lascia perdere. Devi riposare.»
«Ma non riesco a trovare i miei diamanti.»
«Salteranno fuori.»
«Rupert voleva che li avessi io.» Si mise a cercare con più energia. Aveva
perduto Rupert. Aveva perduto il bambino. Non voleva perdere anche i
diamanti.
«Elsie.»
«Non sto avendo una crisi isterica, Jo. L’ha sentito anche Rupert. Mi ha
scritto una lettera ma io non…» Passò in rassegna gli oggetti sparsi sulla
toletta. Durante la sua malattia nessuno l’aveva pulita. La superficie era
velata di grossolana polvere beige. «Non riesco a trovarli.»
«Adesso ti devi calmare. Non sei tu quella che sta parlando. Sei stata molto
malata.»
Malata. Una parola così inadeguata da essere ridicola. «Non si tratta di una
malattia nervosa. Avevo del legno dentro! E Sarah ha visto gli Amici»
sussurrò. «Li ha visti anche lei.»
«Non è da te, Elsie. Non sei nevrotica.»
«E allora perché non mi fai la cortesia di credermi?» Improvvisamente
scoppiò a piangere.
Jolyon le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla, portando con sé quel
familiare profumo di foglie d’alloro e lime. Le sue dita, sulla clavicola di lei,
tremavano. Ma certo, non era abituato a vederla piangere. Per tutti quegli
anni gli aveva nascosto il suo dolore, aveva cercato di essere forte, di tenere
duro. Ma adesso dentro di lei si era aperta una porta e non riusciva più a
chiuderla.
«Quello che mi stai chiedendo di accettare, cara… è impossibile. Lo
capisci, vero?»
Per lui andava tutto benissimo. Il completo stirato, la cravatta e le scarpe
lucide proclamavano il suo ruolo in un mondo di ordine e sensatezza, cifre e
affari. Non sapeva cosa voleva dire fermentare lì in preda a un terrore
maligno e senza nome.
«Non sto dicendo che è colpa tua» proseguì Jolyon. «Non credo che tu te
lo sia inventato. Povero, caro tesoro, sei stata crudelmente raggirata.»
Lei lo fissò. «Cosa intendi con “raggirata”?»
«Prova a rifletterci. Una persona è in grado di macellare una vacca e
consegnarla alla tua porta senza lasciare testimoni? Qualcuno deve aver visto
qualcosa. Peters non si è accorto che Beatrice non c’era più? E i giardinieri?
E dov’erano le cameriere, per tutto quel tempo? Perché non sono andate loro
ad aprire?»
«Non penserai…»
Si stava formando un’immagine, che raccoglieva tutti i ricordi come un
cataplasma risucchia tutto il malanno. Le cameriere.
Lui le tolse la mano dalla spalla e se la passò tra i capelli. «A essere
sincero, credo che le cameriere volessero farti uno scherzo. Forse non
avevano intenzione di arrivare a tanto.»
«No… non è possibile.»
«Ti sei disfatta di tutta la servitù alla fabbrica, dopo la morte della
mamma» disse lui, con dolcezza. «Non sei abituata a trattare con quella
gente. Per le cameriere sarebbe stato abbastanza semplice spostare oggetti e
tenere nascoste delle sagome di legno di riserva. Scrivere nella polvere. Prova
a pensarci. Avrebbero potuto organizzare ogni mossa.»
Era troppo orribile per crederci. «Ma… perché?»
Lui si strinse nelle spalle. «Ce l’hanno con te. La tua presenza in casa. Una
volta per loro lavorare era facile e approssimativo. Adesso, con una padrona,
e la prospettiva di un neonato… Senza dubbio all’inizio devono averlo
trovato divertente, ma poi hanno superato il limite.»
Due donne potevano davvero esprimere tanto disprezzo? Massacrare una
vacca e lacerare un vestito solo per vendicarsi di lei? Elsie faticava a crederci.
Eppure…
Mabel era tornata a casa in carrozza dopo la messa, quella domenica prima
di Natale, no? Avrebbe avuto tutto il tempo di tirare fuori Hetta e di
fabbricare quell’impronta sul vetro. Era stata Mabel a precipitarsi da lei per
dirle che gli occhi di Hetta si erano mossi. Era stata Mabel a mettersi a urlare
che c’era un Amico nella tinozza. Poteva avercelo messo lei stessa.
«No, questo non spiega nulla. Io ho visto delle cose, Jolyon. Ho visto due
occhi muoversi e ho sentito quella nella tinozza spazzolarsi i capelli!»
«Davvero?» domandò lui, piano. «O qualcuno ti ha messo quell’idea nella
testa? Sei stata malata e hai subìto un lutto, eri molto vulnerabile. Forse le
cameriere ti hanno dato l’imbeccata. Sapevano che la tua immaginazione
terrorizzata avrebbe fatto il resto.»
Sentì una contrazione al petto mentre ripensava a Mabel che, in piedi
accanto all’armadio, aveva un’aria colpevole mentre Elsie e Sarah
piangevano per il bambino.
Guardò Jolyon, il suo caro viso sfocato attraverso le lacrime che le
riempivano gli occhi. «Ma… io Mabel l’ho promossa.»
«E lei ti ha tradito, povero tesoro. Ci scommetterei che si è presa anche i
tuoi diamanti. Ha la chiave del portagioie, no?»
Che ragazzo, così intelligente. Non gli sfuggiva niente. Era diventato più
forte di lei, più astuto. E invece lei era ridotta a una zucca vuota, convinta di
avere aiutato delle persone bisognose. Piuttosto, le aveva soltanto aiutate a
derubarla.
Si coprì gli occhi con le mani. «Oh, Jo, sono stata così stupida. Mi
perdonerai mai?»
Lui la circondò con le braccia e l’attirò a sé. Lei gli posò la testa sul petto.
Com’era diventato alto. «Perdonarti? Che sciocca! Cosa dovrei perdonarti,
poi?»
Gli affondò il viso nel panciotto e non rispose.
Le sue casse erano piene e ben chiuse, pronte a essere caricate sul carro. La
servitù compunta era radunata intorno a loro, nel salone. Elsie proseguì e
ringraziò Dio che se ne stava andando: lasciava quel luogo orribile e tutte le
cose spaventose che vi erano accadute. Lasciava gli Amici.
Erano rivolti verso il muro, come bambini messi in castigo perché non
avevano imparato la lezione. Era stata Mabel a sistemarli così? Elsie non
riuscì a guardare la cameriera, a pensare a lei. Le bastava trovarsi nella stessa
stanza di Mabel per provare nausea.
Tremante, si avvicinò allo specchio e si sistemò cuffia e velo sopra
l’acconciatura da vedova. Il viso sotto la tesa era deformato, rigido per il
terrore. Si sentiva malissimo. Il suo corpo era in uno stato di cambiamento. I
seni doloranti premevano contro il corsetto, confusi perché non sapevano se
sbocciare o sgonfiarsi. E intanto il suo bambino giaceva avvolto in un sudario
in una chiesa abbandonata, con un nome che non era il suo.
Era stata colpa di Mabel. Colpa di Helen. E un po’ di colpa doveva
avercela anche la signora Holt, per non essere stata in grado di controllarle. O
forse anche lei ora stava ridendo di Elsie.
Le schegge. Quel pensiero infernale le girava per la testa come una trottola.
Non andava d’accordo con il resto. Spaventarla e farla trasalire, era una cosa.
Ma avere a che fare con un bambino non ancora nato… Sapeva che le
cameriere non avrebbero mai osato.
In nome di Dio, ma allora cosa le era successo?
I passi di Jolyon risuonarono sul selciato. Lei non si girò, ma lo sentì
infilarsi i guanti. «Ha trovato i diamanti di mia sorella, signora Holt?»
«No, signore, temo proprio di no. Sono sicura che spunteranno fuori.»
«Non credo.» Lui fece un profondo respiro. «Li ha presi Mabel.»
Mabel trasalì. «Non è vero!»
Elsie si voltò di scatto, la rabbia sgorgò da lei come una fiammata. «Oh, e
invece sì. Ti ho già visto con la collana addosso, ricordi?»
«Gliela stavo scaldando.»
«Senza il mio permesso.»
«Dimmi, Mabel» esclamò Jolyon. Era calmo, controllato. «Chi altro ha
accesso al portagioie di mia sorella? A parte te?»
Gli occhi di Mabel si spostarono sulla porta. «La signorina Sarah?»
Sarah spalancò la bocca ma Elsie non la lasciò parlare. «Della signorina
Sarah mi fido.»
«Sono certa che è tutto un equivoco» disse in tono vellutato la signora
Holt. «Sono certa…»
Jolyon alzò una mano e la interruppe. «Io sono certo che le sue cameriere
abbiano ingannato la loro padrona. Tutte quelle sciocchezze sugli Amici!
Mabel ha accesso alla cucina, no? E ai coltelli più grandi?»
La signora Holt sbatté le palpebre. «Signore, non starà insinuando che la
vacca…»
«Lei ha perso la bussola.» Mabel sollevò il mento ma era tutta scena. Elsie
si accorse che le tremavano le labbra e che aveva gli occhi spalancati per lo
spavento. «Se pensa che mi sia intascata i diamanti e abbia ammazzato quella
vacca, allora è tocco nel cervello, signore.»
Jolyon le lanciò una lunga occhiata severa. «Davvero? Vedremo.» Si mise
il cappello, che lo faceva sembrare più alto, più imponente. «Io e la signora
Bainbridge torneremo a Pasqua. Se per allora i diamanti non saranno saltati
fuori, riferirò i miei sospetti alla polizia.»
«Ma io non so dove sono!»
«La prego, signore.» La signora Holt si torceva le mani. «Mabel ha
lavorato qui per più di due anni. Non posso credere che sia una ladra.»
Jolyon ammorbidì il tono. «Cara signora Holt, lei è troppo credulona e non
si è accorta di quello che succedeva sotto il suo stesso naso. Credo che io e lei
dobbiamo sederci a discutere di assumere… della servitù più adatta.»
«Ma…»
«Non si preoccupi. Il suo posto di lavoro è salvo.»
«Santo cielo. Sa-santo cielo.» Alla signora Holt si serrò la gola.
Stupida vecchia balbuziente, pensò Elsie. Se si fosse occupata come si
doveva delle sue cameriere, se avesse riflettuto su che razza di serva aveva
assunto, avrebbero potuto evitare quelle situazioni spiacevoli. E il bambino di
Elsie sarebbe potuto essere ancora vivo.
Jolyon prese una valigia con aria distaccata e imperturbabile. «Si
tranquillizzi, signora Holt. Parleremo di nuovo quando rientrerò da Londra.
Nel frattempo, sarà la signorina Bainbridge a darle gli ordini.» Passò la
valigia a Peters e uscì insieme a lui per ispezionare come le casse venivano
caricate sul carro.
Sarah fece un passo avanti. Non riusciva quasi a guardare Elsie in faccia.
«Signora Bainbridge… Che disastro. Io…»
«Zitta. Non potevi saperlo. Ci siamo lasciate trasportare entrambe dalla
paura e dal dolore. Nessuna delle due ha sospettato delle cameriere.»
Sarah si morse le labbra. «Lei… lei crede davvero che siano state loro a
fare tutto? Tutto quanto?»
Elsie deglutì. «Jolyon ne è convinto e io mi fido di lui.»
«Ma nel diario…»
«Basta. Non sopporto di parlarne ancora. Torna ai tuoi diari e ai tuoi studi
della casa di famiglia. Ti accorgerai a malapena che io non ci sono più.»
Per un attimo Sarah tremò. Poi si protese e baciò Elsie sulla guancia.
«Faccia buon viaggio. Mi dispiace così tanto, signora Bainbridge.»
«Be’, suppongo che ora tu possa chiamarmi Elsie.»
Soltanto quando si fu seduta al suo posto e con la mano ebbe fatto un
cenno di saluto a Sarah, se ne accorse: c’era un’altra faccia che osservava la
loro partenza. Alla finestra del secondo piano, quella della sua camera da
letto, c’era un Amico.
Lo conosceva. Era Anne Bainbridge. Inconfondibile: gli stessi nastri color
corallo del ritratto tra i capelli; le stesse guance paffute. L’abito giallo si
gonfiava e si increspava all’altezza delle braccia, incrociate sul petto. E lì,
dipinta sul collo, c’era una collana. Un arco scintillante che reggeva tre
diamanti a goccia.
I diamanti di Elsie.
The Bridge, 1635
—
Morirà domani.
È colpa mia. Tutta mia. Ogni mattina mi sveglio con lo stomaco in
subbuglio per il senso di colpa. Ma non ho sofferto abbastanza, non soffrirò
mai abbastanza per compiacere Josiah. Deve costringermi ad affondarci la
faccia, come si fa con un cane che ha sporcato la casa del padrone. Quindi
abbiamo organizzato una celebrazione.
Dal momento che è stato Mark a catturare il fuggitivo, mio marito ha
deciso che la servitù va ricompensata con un banchetto. Gli spiedi girano da
tutto il giorno e il piano terra è saturo di fumo. Mi bruciano gli occhi.
Josiah ha loro concesso di usare il salone. Ora sono seduti là dentro, a
brindare e a staccare la carne dalle ossa con i denti come se stessero facendo
a pezzi lo stesso Merripen.
Io mi sono rifugiata in cucina con Lizzy. È la mia penitenza, stare seduta
qui nel fumo soffocante, con il sudore che mi cola dalla fronte, a guardare le
pelli di quegli animali ricoprirsi di bolle e bruciature mentre girano sopra le
fiamme.
Cerchiamo di fare conversazione ma ci sembra un’attività troppo
superficiale, un’occupazione troppo ordinaria. Sciocchezze del genere
possono ancora esistere dopo ciò che è successo?
«Non mi sembra giusto» ha sospirato Lizzy asciugandosi il viso.
«Comportarsi così perché domattina un ragazzo verrà squartato. Anche se è
un ragazzo malvagio.»
Io ascoltavo il grasso che colava sfrigolando. Merripen sarebbe arrostito
così, tra le fiamme dell’inferno?
«Sono stata una stupida a fidarmi di lui. Però non mi sembrava cattivo.»
«Già. Ma il diavolo prende molte forme diverse. Come ha aggredito quel
povero cavallo…» Si è avvicinata e mi ha accarezzato la mano con la sua,
sudata e callosa. «Forse è meglio così. Darci un taglio prima che rivolga il
suo disprezzo verso un essere umano.»
Ma che maniera di darci un taglio.
Abbiamo guardato il fuoco insieme. Ai miei occhi i tronchi parevano
membra carbonizzate; una povera anima arsa sul rogo. Dio non voglia che
scoprano il modo in cui ho avuto Hetta. Se impiccano, trascinano con i
cavalli e squartano Merripen, a me cosa farebbero?
«Come sta Hetta?» ho chiesto alla fine. «Lo sa cosa accadrà al suo amico?»
Lizzy si è abbandonata su una panca. «Non gliel’ho detto, ma è
intelligente. Sapeva che ci sarebbe stato un gran banchetto. Ha fatto avanti e
indietro dall’orto tutta la mattina, per raccogliere erbe per la cuoca. Immagino
che questo l’aiuti a tenersi occupata.»
«E adesso?»
Lei ha controllato l’orologio. «Ora è meglio che vada a prenderla. Prima
non ho avuto il coraggio, quindi l’ho lasciata seduta in un posto tranquillo.
Ma in quell’aria c’è qualcosa di malsano. Non voglio che prenda un
raffreddore.»
Mentre faceva per alzarsi ho levato la mano. «Lascia che ci vada io,
Lizzy.»
Lei ha acconsentito con un cenno del capo.
Quando sono uscita dal tepore della cucina, l’aria ghiacciata era impietosa.
Non mi ero resa conto di quanto facesse freddo. Avrebbe anche potuto
nevicare. La brina scintillava sui rametti che mi si spezzavano sotto le
scarpine mentre mi dirigevo verso l’orto.
Il mio giardino prima splendido si era trasformato in un mucchio di rami
nodosi scrollati dal vento. Sopra di me si stendeva il cielo, bianco come sale.
Non c’erano più i gigli, le rose non erano sopravvissute. Restavano soltanto
le siepi, un fantasma verde delle mie speranze estive. E le erbe di Hetta.
Prima di vederla credevo di avere freddo. Ma nell’istante in cui i miei
occhi si sono posati su mia figlia, il cuore mi si è congelato in petto.
Sedeva sulla terra gelida con la gonna raccolta tutt’intorno. Perfettamente
immobile. Le mani guantate erano vuote ma le teneva in grembo con i palmi
rivolti verso il cielo.
Il cestino era rimasto sul sentiero. Le sono arrivata vicino, scricchiolando,
ma lei non ha alzato lo sguardo e l’ha tenuto dritto e vuoto davanti a sé.
«Hetta? Hetta, cosa fai? Ti ammalerai da morire.»
Le ho preso una spalla. In mano mia era come una bambola, floscia e priva
di sensi. Nei capelli le brillavano cristalli di ghiaccio. Per quanto tempo Lizzy
l’aveva lasciata seduta lì in quell’umidità?
«Hetta. Dammi la mano e tirati su.»
L’ultima fiammella del tramonto danzava sulle erbe gelate e mi ha
costretto a chiudere gli occhi. Ho allungato una mano e ho sentito che i guanti
di Hetta erano appiccicosi e macchiati della linfa delle piante. Mandavano
una fragranza di timo e di qualcosa di più profondo e amaro. L’ho fatta
alzare.
«Stavi raccogliendo erbe con le mani?» Ho guardato il cestino, era pieno di
edera e cardi. «Dove sono le tue cesoie?»
Lei ha infilato una mano nel grembiule. Una luce fredda è rimbalzata sulle
lame mentre lei le muoveva, zac, zac. Sembravano arrugginite, le
impugnature erano incrostate di una sostanza marrone.
«Dovrai chiedere al ragazzo dei coltelli di pulirtele.»
L’ho sospinta fino a casa. Pareva più morta che viva; la pelle era cerea e gli
occhi di un verde opaco e inaridito. Il mio fiato si trasformava in vapore e
rabbrividiva nell’aria prima di disperdersi, ma il suo era ridottissimo, si
vedeva appena. Una volta soltanto le è uscito un riccio di vapore dal naso,
sottile come il fumo che mandano le candele appena spente.
L’ho cambiata e ho ammucchiato pellicce sul suo letto. Le ho riattizzato il
fuoco con le mie stesse mani. Poi ho coperto la gabbietta del passero e le ho
messo accanto uno degli Amici di legno, proprio come piace a lei.
Mentre il vento si infilava fischiando nella canna del camino siamo rimaste
lì a guardarci, noi due, complici nella colpa. Insieme avevamo rovinato la
nostra famiglia. E il vento continuava a ululare, ammonendoci dell’arrivo di
ulteriori tormenti.
Hetta ha alzato una mano e l’ha tesa verso di me, voleva il mio conforto…
No. Non mi vedeva nemmeno. Voleva soltanto la mia collana di diamanti.
Io mi sono ritratta.
Quando finalmente si è addormentata, sono scesa di nuovo in cucina, di
soppiatto. Lizzy si era appisolata al tavolo, la testa sulle braccia tese. Mi
siedo accanto al suo corpo tiepido che mi è tanto caro e ascolto il respiro che
le esce fischiando dal naso. Penso che questa vecchia con le rughe scolpite in
viso è l’unico vero collegamento tra Hetta e me. Dopo tutte le fatiche che ho
fatto per crearmi una figlia e una compagna perfetta, condividiamo soltanto
questo: l’amore di una serva e la morte di Merripen.
Elsie sedeva ben piantata sui cuscini e fissava dritto davanti a sé mentre la
carrozza procedeva rumorosa verso Fayford. Fuori, il clima era mite. Una
luce pallida e morbida metteva in rilievo i boccioli nelle siepi e quelli sugli
alberi. Ma quell’anno la primavera era una farsa crudele.
Le pareva di avere le guance indurite, come cera solida. Un usignolo trillò
tra i rami e le sembrò il rumore più fastidioso e stridente che avesse mai
sentito.
Come poteva essere accaduto?
Un incidente, aveva detto la signora Holt. Mabel stava lavando la verdura
per la cena della servitù e non si era preoccupata di asciugarsi le mani prima
di preparare la carne. La mannaia doveva esserle scivolata.
Scivolata. Una parola comoda: incontrollabile; difficile da afferrare, anche
con la bocca. Troppo rapida. Era impossibile dimostrare un’eventualità del
genere. Elsie lo sapeva fin troppo bene.
Ma se la mano di Mabel era scivolata, perché non era corsa a chiedere
aiuto? Perché nessuno l’aveva sentita urlare? Com’era possibile che nessuno
avesse saputo dell’incidente fino a quando Helen non l’aveva trovata in una
pozza di sangue sul pavimento della cucina, con un taglio verticale che
andava dal polso al gomito?
C’era soltanto una risposta: non aveva voluto farsi aiutare. Era stato un
gesto deliberato.
«È tutta colpa mia.» Jolyon aveva succhiato il suo sigaro e poi,
camminando avanti e indietro in ufficio, aveva espirato il fumo dal naso.
«Ero arrabbiato. L’ho accusata di quelle cose orribili. Sta per arrivare la
Pasqua, forse aveva paura di essere rimandata all’ospizio e…»
«Non credo che tu abbia sbagliato, nell’accusarla.»
«Come puoi dire una cosa del genere?»
«Pensaci, Jolyon. Questo suicidio, se è suicidio, conferma e non smentisce
i tuoi sospetti. Molto spesso questo tipo di cose è un segnale di rimorso. Se
mi ha ingannata e questo ha portato alla morte del mio bambino… Be’, chi
potrebbe vivere con un fardello del genere?»
Lui emise un altro sbuffo di fumo. «In ogni caso» disse tra le volute, «le
mie parole hanno spinto una ragazza a uccidersi. Ho le mani macchiate di
sangue.» E si era guardato le dita che tremavano reggendo il sigaro. «Devi
andarci subito, Elsie. Io qui ho degli affari da sbrigare, ma ti raggiungerò
appena posso.»
Qualunque fosse la verità, avrebbero appoggiato la spiegazione della
signora Holt: un incidente. Il minimo che potevano fare era assicurarsi che
Mabel fosse seppellita in terra consacrata.
E pensare che tutta quell’energia, tutta quella sfacciataggine non c’erano
più. La morte conferiva a quella ragazza una dignità che in vita non aveva
mai posseduto. Avrebbero circondato il feretro in silenzio, con rispetto, quasi
aspettandosi che si svegliasse da un momento all’altro e domandasse perché
piangevano.
Mentre si avvicinavano al paese, una mano fredda le torse lo stomaco. Il
sole primaverile non serviva a migliorare l’aspetto di quelle casupole. Dalla
paglia marcia dei tetti spuntavano le erbacce. Elsie era irrequieta, sentiva che
dentro le si muoveva qualcosa. Stava ripiombando in mezzo a tutte le sue
antiche paure, indossando quelle superstizioni come un vecchio mantello.
Sollevò il velo e guardò i castagni che si chinavano cupi sulla chiesa. I
boccioli bianchi avvizzivano tra le foglie nuove spuntate sui rami. Era Sarah,
quella all’ingresso sud? Sbirciò dal finestrino, ma le figure dietro il muro di
pietra erano così piccole e confuse che non riusciva a capire. Era possibile
che Sarah fosse in chiesa, a organizzare la cerimonia. Cos’avrebbe detto di
quella morte? Cos’avrebbe detto il signor Underwood? Era una situazione
terribilmente complicata.
La carrozza superò sferragliando il ponte. Sotto gorgogliava l’acqua, che
sembrava ridere delle sue disgrazie. In The Bridge c’era qualcosa di
sbagliato. A Londra aveva imparato a liquidare le sue paure come
sciocchezze, ma adesso che era tornata le sentiva di nuovo striscianti,
insidiose. Qualcosa di oscuro e minaccioso, che arrivava fino alle radici delle
piante che crescevano in giardino. Non era soltanto il passato, quegli strani
eventi di cui Sarah aveva letto nel diario di Anne Bainbridge. Era proprio la
struttura dell’edificio a essere malvagia. Elsie era in grado di affrontare la
fabbrica di fiammiferi in cui aveva tanto sofferto da bambina, ma quel… quel
posto la rendeva nervosa.
Quando Mabel fosse stata sepolta, avrebbe riportato Sarah con sé a Londra
e avrebbe chiuso quella casa per sempre.
Mentre la carrozza svoltava e imboccava il viale, il sole splendette sopra le
colline, indorando l’erba. Da quella distanza tutto era fatto d’ombre e luci; i
cespugli rilucevano, i mattoni si scurivano, le finestre lampeggiavano.
Soltanto quando Peters condusse la carrozza intorno alla fontana le fiamme
alle finestre si estinsero ed Elsie poté vedere qualcosa che le raggelò il cuore.
Non era possibile.
Spalancò lo sportello della carrozza e scese, barcollante e sbattendo le
palpebre, sulla ghiaia.
«Signora?» domandò Peters preoccupato. «Aspetti, vengo ad aiutarla.»
«No» gemette Elsie. «No, sei morta.»
Guardava, come aveva sempre fatto, guardava e basta.
«Signora?» Peters saltò giù da cassetta facendo scricchiolare la ghiaia.
Sua madre non avrebbe potuto, guardare non le piaceva, no?
«Non si sente bene?»
Elsie non gli badò. Non l’aveva mai notata prima, ma ora la vedeva: quella
scintilla di eccitazione morbosa nelle pupille. Era lo sguardo di una persona
davanti al patibolo, venuta a godersi un’impiccagione. Assetato di sangue.
«Oh, no, mamma.» Il pensiero era peggio di qualsiasi altra cosa, peggio
dell’azione stessa.
Ora Peters le stava scrollando un braccio, la voce tesa. «Signora
Bainbridge? Signora Bainbridge? Cosa c’è, cosa sta fissando?»
«L’Amico. Guarda!»
«Amico? No, signora. Li ho fatti tutti a pezzi, se lo ricorda?»
«Quello no.» E protese la mano. Provava una specie di soddisfazione
nell’indicarla, come una vittima che accusa il suo aggressore in tribunale. «È
mia madre.»
«Come?»
«Alla finestra! Guarda!»
Ma Peters fece un passo indietro scuotendo la testa. «Non… Alla finestra
non c’è niente, signora.»
Non poteva essere vero. Si strinse la fronte con entrambe le mani. «Guarda
di nuovo.»
«Sto guardando. La finestra è vuota.» Peters si muoveva lentamente, con le
braccia allungate davanti a sé, quasi volesse placare un cane feroce. «Mi lasci
cercare la signora Holt, signora. Così potrà sedersi a bere una buona tazza di
tè.»
«No. No! È là dentro, te lo faccio vedere.»
«La prego, signora!»
Aveva superato la ragionevolezza, ormai, e anche la paura. Corse su per le
scale, entrò e si precipitò nel salone. L’aria profumava di segatura. Un fuoco
scoppiettava e sfrigolava nel caminetto.
«Mamma! Mamma!» Attraversò il salottino a passo di marcia, chiamando
sua madre. In quel grido risuonavano mille eco: preghiere infantili di tanti
anni prima. Adesso, come allora, trovavano soltanto silenzio.
La sala della musica. «Mamma!» La sua voce rimbalzò sul vasto soffitto
stuccato. Non c’era da stupirsi. Sua madre non l’aveva mai aiutata, nemmeno
quando Elsie perdeva sangue e, disperata, l’aveva invocata a lungo. «Ti
prego, mamma, solo stavolta!»
Le lacrime le bruciavano negli occhi mentre entrava incespicando nella
sala da gioco. Non avrebbe mai dovuto farlo. Non sarebbe mai stata costretta,
se solo sua madre…
Dalle profondità del suo essere eruppe una voce che salì in un rombo e le
esplose dalla bocca in un urlo tremendo. Cadde in ginocchio.
«Signora Bainbridge!» Gli scarponi di Peters sul tappeto alle sue spalle.
«Signora Bainbridge, cosa… Oh, mio Dio!»
Si addossò al muro barcollando, per sostenersi, perché aveva visto quel che
aveva visto lei.
La testa di cervo non era più appesa alla parete. Era piombata giù, con i
palchi rivolti in basso. Ma qualcosa aveva fermato la caduta.
Sotto, c’era Helen. Impalata, infilzata, penetrata.
Il sangue sgorgava da una ferita dove prima c’era stato il suo occhio. I
muscoli circostanti si contraevano ancora, come se fossero in grado di
espellere il pugnale di corno che spuntava dal globo oculare, inchiodando
Helen al tappeto.
Dalla bocca le fuoriusciva un liquido. Le labbra si muovevano, o almeno
cercavano di farlo, ma lei stava annegando. Sbottò in un gorgoglio
spaventoso proprio mentre Peters iniziava a vomitare.
Elsie ebbe un mancamento. Le immagini si sfocavano, svanivano. O
meglio, quella che svaniva era lei: tentava di sottrarsi al massacro che aveva
davanti agli occhi per nascondersi da qualche parte, dentro di sé.
Ospedale di St Joseph
—
All’inizio la stanza fu tenera con Elsie. Gli oggetti si ritirarono a una distanza
considerevole, evitando di imporre la propria mole, e i loro contorni erano
sfumati. Il panico restava sospeso dove poteva percepirlo, ma non sentirlo.
Sul soffitto tremolava la luce. Sbatté le ciglia.
«Elsie.» Qualcuno le premette la mano. «Signora Holt, prepari una
bevanda calda! Presto! Si è svegliata!»
Dal piano di sotto, un gran fragore. Era tutto troppo acuto e penetrava in
quella nebbia morbida.
«Elsie, cara Elsie. Grazie a Dio.» A poco a poco, i forti lineamenti di Sarah
acquistarono maggiore definizione.
«Non sono…» Aveva in bocca un sapore metallico. Ci riprovò. «Perché
sono…» Nessun ricordo durava a sufficienza perché potesse trattenerlo. Vide
un cervo, poi un fiammifero… E le sfuggirono di nuovo.
«Non cerchi di parlare. Il dottore dice che dobbiamo tenerla tranquilla. Ho
inviato un telegramma al signor Livingstone, verrà immediatamente.»
Si guardò intorno. C’era tutto: il pesante baldacchino in cui erano intagliati
fiori e grappoli d’uva; il lavabo; il triplo specchio sulla toletta. I dettagli di
The Bridge riemersero come un sogno dimenticato da anni. Non riusciva a
elaborarli.
Stava per arrivare Jolyon. Jolyon, il suo punto di riferimento, la sua àncora.
Doveva aggrapparsi a quel pensiero. Ma perché non era lì con lei, ora? Era
sconvolto, vero? Per la morte di qualcuno. La mamma. No, Mabel. Mabel.
Helen. Si rizzò a sedere, fradicia di sudore gelato. «Helen! Era… lei…»
La mano di Sarah le premette una spalla e la costrinse a stendersi sui
cuscini. «Su, buona. Lo so.» Deglutì. «Io e la signora Holt eravamo in chiesa
a parlare con il signor Underwood del funerale di Mabel. Ma adesso pare
che… dovremo farne due.»
Elsie chiuse forte gli occhi. La rivedeva ancora: la faccia color fragola di
Helen che la fissava dal tappeto, in tutto il suo massacrato orrore. «Ma come?
Com’è potuto accadere?»
Sarah trasse un respiro tremante. «Abbiamo fatto arrivare il conestabile da
Torbury St Jude. E poi alcuni ispettori. Peters ha rilasciato una dichiarazione.
Da quello che sono riusciti a ipotizzare, è stato una specie di terribile
incidente. Probabilmente Helen stava pulendo la testa di cervo, dicono,
quando…»
Davanti alle palpebre chiuse le balenarono delle luci. «Ma tu non ci credi,
Sarah. Lo sento dalla tua voce. Tu non hai creduto a una sola parola.»
Sentì che Sarah si avvicinava. «No, infatti.»
«Dimmi tutto.»
Sarah scoppiò in lacrime.
Gli occhi di Elsie si spalancarono. La faccia di Sarah era ridotta a un
pasticcio rosso e bagnato. Tra un singhiozzo e l’altro, faticava a respirare.
«Sarah? Cosa c’è?»
«È colpa mia. È tutta colpa mia.»
«Com’è possibile che pensi una cosa del genere?»
La mandibola di Sarah tremò. «Io… Oh, come faccio a dirglielo? Sono
stata io, signora Bainbridge. S-sono stata io a prendere i suoi diamanti!»
Avvertì un senso di nausea salirle nella gola. Non era stata Mabel a rubare
la collana: era innocente. Era innocente ed era stata spinta a commettere un
gesto disperato per colpa dello sbaglio di Elsie.
«Volevo soltanto u-un oggetto ap-appartenente alla mia famiglia. Poi
Mabel si è messa nei guai e io… io non sapevo cosa fare. Non avrei mai
creduto…»
Sangue, che le scorreva bollente sulle mani.
«Volevo dirglielo a Pasqua» continuò Sarah, balbettando. «Avrei detto a
tutti la verità, glielo giuro. Ma poi Helen ha deciso che dovevano essere stati
gli Amici, a rubare la collana! Lei…» Sarah fece una smorfia di dolore.
«Voleva bruciarli di nuovo. Mi ha portato via Hetta e l’ha gettata sul fuoco
acceso in cucina!»
Indebolita e nauseata, Elsie si premette le mani sulle tempie. «Non capisco.
Perché sospettava degli Amici?»
«È questo che la signora Holt non le ha detto. In cucina con Mabel ce n’era
uno. Uno che non avevo mai visto prima, una specie di cuoca.»
Sulle braccia di Elsie dilagò la pelle d’oca. «Io ne ho scorto uno che
raffigurava mia madre in piedi dietro la finestra. Proprio dove c’era
l’impronta di quella mano.»
«Vede? Si stanno moltiplicando. Credo che il fuoco non faccia che renderli
più forti. E un fuoco non sarebbe mai stato appiccato, se non fosse stato per la
mia stupida…»
«I diamanti avresti potuto chiedermeli» intervenne Elsie. «Non ti avrei
detto di no.»
Sarah chinò il capo. «Mi vergogno tanto. È quasi come se… Non sono
riuscita a impedirmelo. Ma non sono solo io. Anche Hetta ne era
ossessionata, dagli Amici e dalla collana di diamanti. Ho consultato i
documenti portati dal signor Underwood, per scoprire tutto il possibile su
Anne. In genere i dati riguardanti le donne nel Seicento sono scarsi, ma su
Anne ho trovato qualcosa per… per via di come è morta.»
Elsie non ebbe il coraggio di chiedere.
«È stata messa al rogo» sussurrò Sarah. «Come strega.»
«Una strega? Sarebbe lei la strega di cui gli abitanti del paese hanno ancora
paura?»
«Sì. E ne hanno ben donde. I documenti dicono che ha ucciso delle
persone, Elsie. Ma nel diario non è cattiva. Credeva di avere usato la magia
bianca, gli antichi rimedi erboristici delle curatrici. Ma deve aver commesso
un errore. La sua povera bambina è nata senza lingua e qualcos’altro,
qualcosa di malvagio…»
Elsie non voleva crederci. In fabbrica, si era convinta che non era
possibile. Ma lì, di nuovo nella casa in cui era morto Rupert, e dov’erano
morti i fratelli di lui, la sentiva. La vecchia, antica paura. Nessuna ragione o
logica avrebbe potuto cancellare quella sensazione. Lei conosceva il male fin
da piccola… ne riconosceva la voce vellutata.
Qualcuno bussò alla porta. Sobbalzarono entrambe.
«Qualcosa di caldo.» Era la signora Holt.
«Avanti» disse Elsie con voce roca.
Entrò prima il profumo, sentori di noce moscata e melassa. Comparve la
signora Holt, con un vassoio e una tazza da cui salivano nuvole di vapore.
Aveva nuove rughe intorno alla bocca, che sembrava cucita. La cornea,
sempre giallastra, ora era piena di venuzze rosse.
Elsie prese la tazza. Le sue narici furono solleticate da un aroma di latte
zuccherato. Il suo stomaco implorava un po’ di sostanza, ma lei non riusciva
a bere. Non voleva deglutire niente che provenisse da quella casa. Non la
voleva dentro di sé.
«Signorina Sarah, credo che ora sia meglio che lasci tranquilla la padrona.
Ricordi che ha bisogno di riposo. L’ha detto il dottore.»
«Ma…» fece per dire Sarah.
«Devo davvero insistere. Mi scusi, signorina, ma il signor Livingstone non
mi perdonerebbe mai, se arrivasse qui e scoprisse che non ho seguito le
indicazioni del medico.»
Sarah accarezzò i capelli di Elsie, poi le si avvicinò all’orecchio e sussurrò:
«Tornerò dopo. Dovremmo dormire nella stessa camera, d’ora in poi. Da sola
non mi sento al sicuro».
Elsie annuì. Non chiese a Sarah cosa intendeva per “sola”. Nessuno era
veramente solo. Mai, nemmeno in quella casa.
Sarah raccolse la gonna e uscì dalla stanza. Elsie ne udì i passi sul
pavimento di legno, fino in biblioteca. La signora Holt rimase.
Lo sguardo della governante possedeva una durezza che Elsie non aveva
mai notato prima. «C’è altro, signora?» Quel “signora” le uscì con un suono
forzato, orribile.
«Oh, signora Holt. Mi dispiace tantissimo. Non riesco a immaginare come
deve sentirsi. Prima Mabel e poi Helen.»
«Amavo quelle ragazze come se fossero state figlie mie. Non volevano fare
del male a nessuno. E adesso sono stese, rigide, in cantina, e dovrò
seppellirle. Tutte e due!» La signora Holt crollò. Elsie distolse lo sguardo e la
lasciò piangere. Quel suono era terribile.
«Ho sbagliato a incolparle» provò a dire. «Non mi avevano ingannato, non
hanno ucciso la mia vacca. Adesso lo so. C’è qualcos’altro all’opera,
qualcosa in questa casa.»
Il viso della signora Holt si contrasse. «Ho amministrato questo posto per
quasi quarant’anni. Prima che arrivasse lei non avevamo mai avuto né
fantasmi né morti.»
«Prima che arrivasse Rupert» la corresse Elsie dolcemente.
«Sarebbero ancora vive se non fosse per lei. Se non fosse arrivata lei, a
ficcare il naso, ad aggirarsi dappertutto, ad aprire porte che dovevano restare
chiuse.»
«Cosa intende dire?»
«Non ha importanza.» La signora Holt si girò di scatto dall’altra parte.
«“Porte che dovevano restare chiuse”? Io non la capisco. Sta parlando del
solaio?»
Il torace dell’anziana donna si sollevava e si sgonfiava, facendo dondolare
la spilla con il cameo. «Doveva restare segreta. Me l’aveva ordinato il
vecchio signor Bainbridge il primo giorno che sono arrivata qui, di tenere
chiuso a chiave il solaio e non parlarne mai.»
«Ma perché?»
«Non lo so. Diceva che dentro c’erano delle cose, cose che turbavano sua
moglie. Libri.»
«Un diario?»
Mentre lo diceva le tornò in mente che di diari ce n’erano due. Due
volumi. Sarah non le aveva mai detto se aveva recuperato il secondo. Magari
era ancora lassù.
«Forse. Non ricordo che libri fossero. Non ho mai avuto motivo di
ripensarci, finché non è arrivata lei.»
Elsie strinse più forte la tazza. «Cosa… cos’è accaduto alla madre di
Rupert? Com’è morta?»
«Non saprei proprio.»
«Ma deve averne almeno un’idea. Quali sintomi aveva?»
«Le dico che non lo so! Per quanto mi riguarda potrebbe essere ancora
viva.»
Elsie era stupefatta. «Lei c’era» disse, incredula. «Me l’ha riferito lei. Ha
parlato di quando ha perduto la padrona.»
La signora Holt chiuse gli occhi e sembrò combattere con i ricordi. «No.
No, non è morta. Era…»
«Cosa?»
«Abbiamo perduto la signora Bainbridge, ma non perché sia morta. Era
malata di nervi. Alla fine, la sua mente ha avuto il sopravvento.»
Le mani di Elsie cominciarono a tremare. La tazza tintinnò sul piattino.
«Mi sta dicendo che il marito l’ha ricoverata in manicomio?»
La signora Holt le lanciò uno sguardo lunghissimo. «A padron Rupert non
l’abbiamo mai confessato. Gli abbiamo detto solo che era morta, e in un certo
senso era vero. Quella pazza non era la signora Bainbridge, non più. Io
conosco l’isteria, signora. Ho visto una donna impazzire a forza di leggere
romanzi e contrarre febbri cerebrali. Ho già visto lo sguardo che lei ha negli
occhi.»
«Ma io non sono pazza!» La signora Holt non rispose. «Sa benissimo che
non lo sono. Lei c’era, signora Holt. Ha visto gli Amici. Li ha visti ridotti in
cenere e ricomparire dal nulla.»
La signora Holt scosse la testa. «Forse è quello che succede alla mente
quando si perde un figlio… Che Dio mi aiuti. Non ho ascoltato i deliri della
precedente signora Bainbridge e non ascolterò certo i suoi.»
Girò sui tacchi, uscì dalla stanza a grandi passi e chiuse la porta. Elsie li
sentì echeggiare in corridoio e giù per la scala a chiocciola dietro la parete.
Respirare le faceva male. Per quanto ci provasse, non riusciva a trovare una
posizione comoda. Ogni volta che si muoveva, un pugnale le penetrava nelle
costole.
Le pareva di avere il naso schiacciato. Un occhio si era gonfiato al punto
che riusciva a vedere soltanto una lama di luce. Ora non aveva più dubbi: non
era pazza. Qualcosa stava arrivando per lei, con la stessa inesorabilità della
marea che lambisce la costa. Ma non sarebbe accaduto rapidamente. No.
Godevano nel vederla scappare.
Voltò la testa. Sotto c’era un cuscino; non era nella nursery. Qualcuno
doveva aver sentito lo schianto e averla trovata in mezzo alle macerie. Non
riusciva a ricordare. Tra una stilettata di dolore e l’altra, tutto perdeva
definizione.
In corridoio risuonarono dei passi accompagnati da una voce. Una voce
maschile, che lei riconobbe.
«Jolyon!» Quel nome le uscì come un rantolo quasi impossibile da udire.
Fece un tentativo di muoversi che la precipitò nell’agonia. Era sorretta da
cuscini su entrambi i lati ed era seduta ad angolo retto.
I piedi si fermarono davanti alla sua porta. Elsie attese. Non accadde nulla.
Non entrò nessuno.
Sforzandosi, udì una conversazione tra Jolyon e Sarah.
«Dorme ancora?»
«Credo di sì.» Sarah sembrava spenta. «Dio solo sa quante medicine ha
ingerito, signor Livingstone.»
«Tutta colpa mia. Non avrei mai dovuto lasciarla tornare qui da sola.»
«Non deve sentirsi in colpa.»
Jolyon disse qualcosa che Elsie non riuscì a sentire. Poi fu la volta di
Sarah. «Il dottore ha detto che si è incrinata due costole e si è slogata
malamente il ginocchio sinistro. È un miracolo che non si sia rotta niente. Ha
qualche ferita in viso, ma solo in superficie. Un sacco di graffi e
contusioni…»
«No» disse Jolyon… o forse era qualcun altro, perché il tono era troppo
aggressivo. «Non è questo che volevo dire. Non si può fingere che abbia
tenuto un comportamento accettabile, anche dopo tutto quello che ha dovuto
passare. Ma cosa credeva di fare, aggirandosi per il solaio a mezzanotte?»
Sarah balbettò qualcosa di incoerente. Probabilmente aveva cercato di
difendere Elsie, perché Jolyon ribatté: «Lei non la deve incoraggiare,
signorina Bainbridge».
La porta scricchiolò sui cardini. Elsie chiuse gli occhi, consapevole che
non sarebbe stata capace di nascondere il dolore che contenevano.
Dei passi sul tappeto.
«Elsie? Sei sveglia?»
Mormorò qualcosa e mosse la testa in direzione della porta, ma non aprì gli
occhi.
«È venuto a trovarla il signor Livingstone, signora Bainbridge.»
Alla cieca, lei tese la mano. Solo quando Jolyon la prese si rese conto che
al posto dei guanti aveva delle bende.
«Elsie. Come ti senti?»
Lei si inumidì le labbra, gonfie e screpolate. «Come se avessi combattuto
sul ring contro Tom Sayers. Però alla fine ho vinto. Avresti dovuto vedere in
che stato era la nursery.» Cercò di usare un tono allegro, ma non le riuscì
affatto.
«L’ho vista» disse lui. «Dei danni spaventosi.»
Con cautela, lei aprì l’occhio buono. Jolyon entrò fluttuando nel suo campo
visivo. Aveva un’aria orribile. I capelli spettinati spuntavano a ciocche da
dietro le orecchie e il mento era coperto di peli ispidi. Gli occhi erano opachi
e sottolineati da occhiaie violacee.
«Oh, Jo.» Sul viso le corse una lacrima. Avrebbe voluto allungare la mano
e accarezzargli la guancia, ma sotto quell’espressione preoccupata c’era
qualcos’altro, qualcosa che scottava. «Mi dispiace che tu sia dovuto venire a
occuparti di tutto questo. Dal giorno della morte di Rupert siamo stati
perseguitati dalla sfortuna.»
«Si direbbe proprio di sì.» Lui strinse le labbra. «Cosa ci facevi nel solaio,
Elsie?»
«Cercavo una cosa. C’era un…» Si interruppe quando vide alle sue spalle
Sarah, che scuoteva la testa e le faceva dei segni convulsi con la mano
bendata.
«Cosa?»
Sarah aveva ragione: non poteva dirgli del diario. Gliel’avrebbe portato
via, dicendo che la eccitava troppo, e avrebbe dovuto ricominciare con la
lavanda rossa e i bagni ghiacciati.
«Un gioiello» inventò. «L’aveva visto Helen e le piaceva molto. Ho
pensato che sarebbe stato un gesto carino se… se l’avessimo sepolto con lei,
nella bara.»
«Oh.» Un’esclamazione fredda, impersonale. «Capisco. E non potevi
aspettare fino alla mattina dopo?»
Gli aveva mentito per tutta la vita. Perché ora le risultava così difficile?
Forse le medicine menzionate da Sarah la rallentavano, ottundevano le sue
facoltà. «Io… non riuscivo a dormire.»
«No?»
«Nessuno di noi ci riusciva» intervenne Sarah, in tono acuto. «Non con
tutte le cose che sono accadute in questa casa.»
«No. Posso capirlo.» Jolyon lasciò la mano di Elsie e si infilò due dita
nella tasca del panciotto. La guardava ma non la vedeva. Aveva
un’espressione vuota, insensibile. Cosa doveva passargli per la mente?
Una volta lo conosceva molto bene. Il suo caro ragazzo. Ma non era più un
ragazzo, vero? Era un giovanotto, aveva sei anni in più di quanti ne aveva lei
quand’era morta la loro madre. Capace di tutto quello di cui era stata capace
lei, all’epoca.
Avere dei segreti con Jolyon era come una sua seconda natura. Ma se fosse
stato lui a tenerle nascoste delle cose?
«Guardi l’orologio, presto sarà ora di cena» disse Sarah. «Vuole che chieda
alla signora Holt di portarle su un vassoio, signor Livingstone?»
«No, scendo io a cenare con lei. Solo un altro istante.» A un tratto sgranò
gli occhi inchiodando Elsie al letto. Per un momento spaventoso, le parve
identico a suo padre. «Elsie, ho bisogno che tu mi dica cos’è accaduto con
Helen.»
«Lei… non lo so. Sono entrata nella sala da gioco e lei era lì… in quel
modo.»
«Peters dice che ti comportavi in maniera strana. Che eri agitata.»
«Davvero? Non me ne ricordo.»
«Dev’essere stata una scena impressionante» disse lui, sempre con quella
voce fredda e morta. «Peters ne è rimasto molto colpito. Si è licenziato.»
Be’, Peters non era uno stupido. Per come andavano le cose tra la servitù a
The Bridge, sarebbe stato un pazzo a non abbandonare la nave.
«Sul serio? Mi dispiace perderlo. È stato un cocchiere eccellente.»
Jolyon annuì. «Sì. Se ne sono andati anche il signor Stilford e i giardinieri.
Con tutte queste morti, è comprensibile. Dall’ultimo inverno il nostro
personale si è tristemente ridotto.»
«Signor Livingstone.» Sarah si avvicinò alla porta avvolgendosi
nervosamente intorno al dito una ciocca di capelli. «Ho appena sentito la
signora Holt suonare il campanello della cena.»
«Un’altra parola e ho finito. Elsie, venerdì seppelliremo Mabel e Helen. In
coscienza, non possiamo rimandare più a lungo. Vorrei che tu restassi qui a
riposare.»
«Ma…»
«Non ci sono ma. Non voglio sottoporti a fatiche inutili.» Mosse le labbra,
provava e assaporava una frase prima di pronunciarla. «Tu sei mia sorella. Mi
devi… obbedire.»
Obbedire. Quella parola le strinse il collo come una corda.
«Ora dormi un poco.» Si chinò a baciarle la guancia. Aveva le labbra
fredde e secche. «Dopo, la signora Holt ti porterà su qualcosa da mangiare.»
Andò alla porta e offrì il braccio a Sarah. «Andiamo, signorina Bainbridge?»
«Sì, certo. Ma prima lasci che dia la buonanotte alla signora Bainbridge.»
Sarah si avvicinò e ripeté quel bacio. Elsie sentì il suo alito scaldarle
l’orecchio. «Il diario è sotto il materasso. Non sono riuscita a leggerlo, l’ho
solo nascosto quando l’ho trovato, perché la signora Holt non lo vedesse. La
prego, mentre siamo a cena guardi. Scopra come possiamo fermare tutto
questo prima che sia troppo tardi.»
The Bridge, 1635
—
Mi sono davvero interrotta a questo punto? Al sicuro e stanca nel mio letto?
Ci sarei dovuta rimanere. A ripensarci, allora ero felice.
Darei regni interi per non dovermi guardare alle spalle e vedere gli eventi
delle ultime ore. Ma di regni non ne possiedo; soltanto fardelli, di cui devo
liberarmi. Bisogna che deponga da qualche parte la verità.
Le immagini vorticano e non riesco a riordinarle. Devo riflettere. Dove mi
trovavo? A letto? Sì: a letto che dormivo, perché le fatiche di ieri notte e
arrancare nella neve finalmente mi avevano sopraffatto. Mi sono svegliata
sentendo dei singhiozzi, così teneri da spezzare il cuore.
Sono scesa dal letto a fatica. L’aria ghiacciata mi ha subito svegliata.
Dall’armadio ho preso un mantello asciutto, me lo sono buttato sulle spalle e
ho aperto la porta. Nulla si muoveva. I gemiti si intensificavano e svanivano
come un’onda gentile.
Con nell’anima un vuoto straziante, ne ho dedotto che si trattava di Hetta,
che piangeva per Merripen, oppure soltanto per la sua esistenza solitaria.
Un pezzetto minuscolo del mio cuore si crepava a ogni singulto che
sentivo. Ma ero comunque troppo egoista, troppo spaventata. Non sono
andata a consolare mia figlia: non avrei saputo affrontarla. Sono tornata in
camera mia, mi sono infilata un abito da giorno e sono scesa di sotto.
Ma non ho notato tracce di movimento della servitù. La cosa mi ha turbato.
A giudicare dal sole doveva essere già passato mezzogiorno. Nessuno mi
aveva portato da mangiare o controllato se avessi bisogno di aiuto. In casa
mia questo non accadeva mai.
Prima di arrivare in cucina ho udito un tonfo e un tintinnio metallico simile
a quello delle padelle. Ho pensato che dovesse essere la cuoca. Il mio
stomaco brontolava: erano passate molte ore dall’ultima volta che avevo
mangiato. Ma con mia grande sorpresa, quando ho aperto la porta e sono
entrata nel raggio tiepido delle fiamme del focolare, ho scoperto che la cucina
era vuota.
Nell’aria aleggiava un odore strano, di muffa.
Ho anche trovato indizi di presenze recenti: da un lato un tagliere con le
erbe di Hetta, gli steli in parte tritati e il coltello ancora bagnato, lucente e
sporco di verde. Forse la cuoca era scesa in cantina?
Ho imboccato la porta che conduceva in un corridoio umido. Sembrava di
essere in una caverna. Mi ero dimenticata di prendere la lanterna e faticavo a
vedere. Ho proseguito in maniera strana, a tentoni, incapace di muovermi
rapidamente.
La porta della cantina era aperta. Da dentro non giungeva alcun rumore di
movimento. Ho bussato. Nessuna risposta.
Ho infilato dentro la testa. È una stanza cavernosa con in fondo una fila di
ganci per la carne. Animali morti mi fissavano con i loro occhi opachi simili
a biglie e nell’aria c’era un odore così forte e primitivo da farmi venire la
pelle d’oca.
La cuoca non si vedeva.
Sono entrata. «C’è nessuno?»
Il tavolo era quasi completamente occupato dal costato spaccato di una
cerva. Ho notato che la mannaia era ancora conficcata in un pezzo di carne.
Un altro passo. Con la testa ho picchiato contro un uccello morto appeso al
soffitto. Sbattendo le palpebre, l’ho spinto via, sputando piume. L’animale
era per metà liscio e per metà piumato, come se qualcuno avesse cominciato a
spennarlo ma si fosse arreso. E adesso che ci pensavo, in casa erano stati
sospesi troppi lavori di quel genere: il secchio abbandonato, le erbe
parzialmente tritate.
Una carcassa ha cigolato appesa al suo gancio.
«C’è nessuno? Cuoca?»
Nessuna risposta. Ormai quasi spaventata, mi sono avvicinata ai ganci.
Non so che cosa mi aspettavo: che qualcuno saltasse fuori da dietro una
carcassa, forse, o che uno di quegli animali si risvegliasse a un tratto con un
guizzo. Concentrata su quelle paure, non ho pensato di guardare a terra. Il
piede mi è scivolato su qualcosa di molle e, in un istante, il mio corpo è
piombato sul pavimento di pietra.
Senza fiato, sono rimasta lì distesa, stupefatta.
Al mio fianco si stendeva una sagoma lunga e informe. Disgustata al
pensiero che potesse essere una vacca morta, caduta dal gancio, ho scalciato
per respingerla, ma quella massa nera è semplicemente rotolata su un fianco,
da cui si è disteso un braccio.
Era un essere umano.
Il mio urlo ha echeggiato. Mi sono messa a sedere e usando i palmi mi
sono trascinata indietro. Ora vedevo la faccia: era la cuoca.
Reprimendo la nausea, ho allungato una mano tremante e le ho sfiorato la
guancia. La pelle era fredda come marmo. Sarebbe stato impossibile salvarla.
Dovevo uscire da quella stanza. Mi sono aggrappata al tavolo insanguinato
e mi sono rimessa in piedi. Fremevo, ma non sono crollata. Cerca aiuto,
urlava la mia mente. Jane, Mark, chiunque.
Mi sono precipitata nel corridoio di pietra e ho raggiunto la cucina tiepida.
Nell’aria c’era ancora quell’odore di muffa.
«Aiuto!» ho urlato. «Qualcuno mi aiuti! Sono in cucina.»
Regnava il silenzio.
È stato allora che nella mia testa è strisciato quel pensiero subdolo e
terribile? Una parte di me deve aver saputo, perché i piedi mi hanno fatto
uscire dal passaggio della servitù e mi hanno condotto nella dispensa.
Prima ho sentito la puzza: vomito, e un odore acre da letamaio. In una
pozza di liquido viscoso giacevano alcuni cocci di stoviglie, coltelli macchiati
e, lì accanto, le mie due giovani sguattere.
Occhi iniettati di sangue che fissavano il soffitto. Labbra imbrattate di
scuro e pelle maculata di giallo e rosso.
«No» ho balbettato, «no.»
Quasi inconsapevole di quel che stavo facendo, sono corsa in cucina. Poi
mi sono fermata. La stanza ondeggiava intorno a me come se fosse fatta
d’acqua. Mentre i miei occhi si snebbiavano, ho messo a fuoco l’orribile
tagliere. Sulle erbe mezzo tritate, ho scorto quel che prima non avevo notato.
«No.» Le mie dita hanno sfiorato gli steli umidi, cosparsi di macchioline
violacee.
Ho preso il coltello e ho raggiunto affannosamente la porta. Non poteva
essere vero. Se avessi dovuto percorrere dieci miglia di fretta tra la neve con
quel vento crudele che mi strappava gli abiti, avrei potuto dimostrare che non
era vero.
L’orto di Hetta era ricoperto da una spruzzata di neve e brina. Ho affondato
le mani nude tra le erbe. Il cardo avviluppava tutto. Da un angolino della
mente, riecheggiavano dentro di me le parole di Harris: striscia. Ho
impugnato il coltello e mi sono fatta strada a forza di sciabolate.
Graffiata e sanguinante, ho scavato finché la neve non è scomparsa. E là,
nascoste sotto il cardo azzurro-grigiastro, crescevano piante che non avevo
mai notato, io che tanto mi vantavo della mia seconda vista. Giusquiamo,
aconito e soldinella. Verbena per le stregonerie. E infine, proprio in fondo, le
bacche scure della belladonna.
Le dita mi sono diventate molli; il coltello è caduto nella neve, senza far
rumore.
Era vero. Ed era peggio di quanto avessi immaginato.
Il ricordo mi ha investito con una forza impossibile da negare. Ho visto in
un lampo alcune immagini: la pozione; le cesoie arrugginite; il viso freddo e
impassibile di Hetta; un antimasque di fumo e luci rosse, in cui saltabeccava
un diavoletto in maschera alto come un bambino.
«Santo Dio» ho sussurrato. «Santo Dio.»
Non ricordo quanto sono rimasta inginocchiata lì insieme alle erbe amare
seminate da mia figlia. Quasi non sentivo il freddo che mi artigliava il viso o
il ghiaccio che diventava acqua sotto la mia gonna.
Josiah aveva sempre avuto ragione. Con le mie pozioni e i miei
incantesimi, avevo evocato qualcosa di malvagio. Ero stata io a crearla. Sono
peggiore di una strega.
La mia bambina. Marcia fino al midollo. Ogni ricordo della sua infanzia
acquista una sfumatura sordida, vergognosa. Era stata un demonio fin dentro
l’utero? Ma certo che sì. Cos’altro sarebbe potuto essere, innaturale e distorta
insieme?
Ora ha nove anni e il suo potere è al massimo. La nona ora, quella in cui è
morto Cristo. Ma ha iniziato a complottare anche prima. Quella che avevo
scambiato per amicizia con lo zingarello dev’essere stata un’esca. Ha fatto in
modo di riversare su di lui la colpa, ma è stata lei a uccidere il cavallo. E
adesso ha ucciso anche i miei servi.
Non so se una bambina creata da mani umane possa avere un’anima.
Eppure una cosa la so: la punizione per i peccati di Hetta verrà comminata a
me, nel giorno del Giudizio. Sono stata io ad assassinare quei servi quando ho
preparato la mia pozione: si è trattato soltanto di una combinazione di erbe
diverse.
Devo avere commesso un errore. Una proporzione negli ingredienti, una
parola nell’incantesimo. Non ho generato una bambina. Ho fabbricato un
mostro.
Vorrei poter dire di aver trovato il coraggio di entrare ad affrontare Hetta,
ma alla fine il gelo mi ha piegato. Il sole si è coricato presto, spolverando le
nuvole di rosa e grigio, come madreperla. Le mie dita tremanti hanno cercato
il coltello al mio fianco.
La gonna mi si era irrigidita per il freddo. Mentre avanzavo incespicando
verso casa mi sembrava di avere una catena intorno alla vita; anche i miei
pensieri strisciavano, non erano in grado di stabilire il comportamento che
avrei dovuto adottare. Cos’avrei dovuto dire alla mia famiglia? Lizzy adorava
quella bambina e non mi avrebbe mai creduto.
Poi l’immagine è bastata a mozzarmi il fiato.
Lizzy.
Mi sono messa a correre. Inciampando, cadendo, priva di controllo sulle
gambe, sono entrata vacillante dalla porta del cortile. La casa puzzava di
morte. Tossendo nella manica del vestito, mi sono trascinata fino al salone.
Ho salito a passi pesanti le scale mentre dalla gonna schizzavano schegge
di ghiaccio. La paura mi attanagliava il petto mentre mi avvicinavo alla
nursery.
Sono giunta alla porta. Il passero di Hetta, dentro, cinguettava. Una volta
avevo trovato dolce quel canto, ma adesso era come un richiamo, un richiamo
per i morti, per le loro anime, per portarle via da lì.
Ho esitato. Poi ho spalancato la porta.
I miei occhi non volevano accettare ciò che hanno visto. Hanno registrato
le foglie sul pavimento, gli Amici muti ordinati nella stanza come il pubblico
di un dramma e Lizzy distesa sulla schiena. Dorme, dicevano i miei occhi.
Dorme. Ma aveva qualcosa intorno al collo. Dei viticci. Una corda fatta di
viticci e rampicanti.
Mi sono ricordata i respiri affannosi che avevo sentito poc’anzi. Non era
Hetta che piangeva e singhiozzava: era Lizzy.
Hetta si è girata verso di me. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho
messo a fuoco tutto quanto. Ho visto la mia più vecchia amica, la donna che
avevo amato come una madre, con la vita strozzata via dal corpo e in piedi
sopra di lei il mostriciattolo che un tempo chiamavo “figlia”.
Nel suo viso non c’era traccia di rimorso, soltanto un odioso e smaccato
trionfo.
Impugnavo ancora il coltello.
Che Dio mi perdoni.
Ora tutto tace. Il passero siede immobile nella sua gabbia. Per l’intera casa,
i cadaveri si irrigidiscono e marciscono mentre il sangue di Hetta penetra tra
le assi del pavimento e scorre fino agli Amici, i suoi unici, veri compagni.
Guardo la pozzanghera rossa coagularsi tra i rampicanti e diventare color
ruggine, lo stesso bruno della pozione che ho bevuto tanti anni fa.
So cosa ne sarà di me: Josiah e i suoi uomini mi troveranno sola in una
casa di morti. Manderanno a chiamare l’inquisitore. I pettegolezzi mi
accompagnano da tempo. Brucerò sul rogo.
È la morte più orribile di tutte. Potrei evitarla: il coltello è ancora affilato.
Dovrei tagliarmi i polsi con la lama appiccicosa e salvarmi. Ma sarebbe
troppo bello per me.
Sono stata io a evocare il demone. Ho bisogno del fuoco purificatore della
collera divina.
Ho bisogno di sentirmi lambire dalle fiamme.
The Bridge, 1866
—
Venne il mattino e la pendola del salone batté le dieci prima che Sarah
tornasse. La luce del sole si riversava nella stanza dalle tende scostate e
allungava la sua ombra ad angolo sulla parete. Indossava l’abito lavanda e
sembrava rimpicciolita. Quando entrò non sorrise, le bende le pendevano di
dosso come da una mummia appena risorta dalla tomba, e reggeva una
scodella d’acqua.
«Sarah, grazie al cielo. Credevo che non ti avrei rivista mai più.»
«Sono venuta a cambiarle le fasciature» rispose Sarah a voce alta. «Va
fatto, per evitare infezioni.» Chiuse la porta con un calcio e si mise a
sussurrare. «Ecco, così guadagneremo un po’ di tempo.»
Elsie la guardò posare le strisce di lino e la scodella sulla toletta. «Cosa
c’è, Sarah?»
Sarah lanciò un’occhiata alle sue spalle. «Tra un momento. Venga, mi dia
la mano.» Si sedette accanto al letto e si mise in grembo la mano di Elsie, che
fece una smorfia mentre Sarah le staccava dal palmo un pezzo di stoffa,
incrostato di sangue secco.
«E allora? Parla!»
Sarah tacque un istante, ben sapendo che non sarebbe mai stata capace di
descrivere la disperazione e l’agghiacciante senso di colpa di quelle ultime
pagine. La voce di cui aveva bisogno apparteneva ad Anne, a un’altra epoca.
«Aveva ragione. Su Anne. Non aveva intenzione di nuocere a nessuno. Si è
trovata al centro di una serie di eventi terribili che non è stata in grado di
controllare.» A Elsie mancò il fiato, ma non ebbe bisogno di fingere: nello
stesso istante la benda cadde, esponendo all’aria le sue ferite. Erano quasi
tutte coperte da una crosticina, ma un paio spurgavano ancora.
Strano che le sue mani stessero guarendo più rapidamente del taglio di
Sarah. A quel punto, anche un’infezione avrebbe dovuto essere rimarginata.
«Ma che ne è stato della povera Hetta?»
«Anne… è stata Anne a ucciderla.»
«Ha ucciso la sua stessa figlia!»
«Ha dovuto!» Un impeto difensivo che non aveva nulla a che fare con
l’antenata. «Quel male di cui parlava lei. Una pozione e un incantesimo? Il
male era in Hetta. Dentro di lei. Anne ha dovuto ucciderla e salvare ciò che
restava della sua famiglia. Ha dovuto salvare i suoi ragazzi.»
Sarah si accigliò, pensierosa. Bagnò una pezza nella scodella d’acqua e la
passò dolcemente sul palmo di Elsie. Le ferite sospirarono di sollievo. «Ma
allora non è il fantasma di Hetta a perseguitarci?»
«Non proprio. È molto più di questo. Io credo… Gli Amici erano presenti
quando Hetta è morta. Anne scrive che il sangue è colato sul pavimento fino
ai loro piedi. L’hanno assorbito, capisce? E così il male è stato trasmesso.»
«Ma che cosa vuole?»
«Non ne ho idea.» Le entità malvagie hanno desideri e necessità? Certo
che no, questo le renderebbe troppo umane. Non più una contrazione dalle
profondità dell’abisso, ma qualcosa di senziente che poteva emergere in
chiunque. In lei.
«Forse quel male cerca qualcosa.» Il fiato di Sarah era bollente sulla sua
pelle. «Cerca… un ospite permanente.»
Cadde un silenzio di tomba, mentre riflettevano sulle implicazioni di quella
possibilità. Schegge. Su Rupert, sul bambino. Qualcosa che tentava di
entrare.
Sarah srotolò una benda fresca e la premette al centro del palmo di Elsie.
«Finché resta negli Amici, è intrappolato dentro la casa.»
«Allora dobbiamo fermarlo, prima che possa fuggire.»
Sarah fasciò le ferite di Elsie e fece un nodo alle bende. Poi, finalmente,
espirò. «Non possiamo fermarlo. Non abbiamo tempo. Possiamo soltanto
scappare.»
«Scappare?» esclamò Elsie. «Non possiamo metterci a correre e basta! E se
fa del male ad altre persone?»
«Forse lo farà. Ma le altre persone non mi interessano. Io mi preoccupo
solo di lei.» Elsie avrebbe voluto ritirare la mano. Negli occhi di Sarah c’era
qualcosa che pretendeva troppo. «Mi stia a sentire, la prego. Sono stata sola
tutta la vita. Non avrei mai potuto pensare alla signora Crabbly come a una di
famiglia, con i suoi rimproveri e le sue maniere orribili. E Rupert… be’, c’è
stato un tempo in cui ho creduto che mi avrebbe sposato. Ho creduto che
sarebbe arrivato e mi avrebbe salvato da una vita come dama di compagnia.
Ma lei sa bene com’è andata.»
Elsie non seppe cosa rispondere.
«Poi ho conosciuto lei, che è stata gentile con me. Ho iniziato a pensare
che forse… dopotutto mi avrebbe concesso di diventare sua amica. Che forse
avrei potuto esserle utile.»
«Ed è stato così, Sarah. Tu sei l’unica persona al mondo che mi crede, che
capisce. Sei stata l’amica migliore del mondo.»
«Non avevo mai avuto un’amica, prima.» Stava stringendo la mano ferita
di Elsie fino a farle male. «E non permetterò che loro me la portino via.»
«Gli Amici?»
«Non gli Amici! I dottori!»
Il corpo di Elsie si irrigidì sotto le lenzuola. «Ma perché… perché i dottori
dovrebbero portarmi via?»
«Mi dispiace, Elsie. Non volevo dirglielo, ma l’ha deciso il signor
Livingstone. L’ha detto lui stesso ieri sera, a cena. Ha scritto a un
manicomio.»
Il panico dilagò nelle profondità del suo petto. Doveva esserci un errore.
Ma certo, doveva essere così… Jolyon non l’avrebbe mai fatta ricoverare!
Però gli occhi bruni e limpidi di Sarah raccontavano un’altra storia.
«Cosa ti ha detto, esattamente?»
«Che lei sta molto male.» Con dolcezza, rimise la mano di Elsie sul letto.
«Ha detto che lo sospettava da un po’. Poi mi ha chiesto di preparare le sue
valigie perché dovevano venire degli uomini, dei medici, a visitarla. Che
l’avrebbero portata con sé e che probabilmente sarebbe rimasta lontana a
lungo.»
Cadere: ecco la sensazione che provava. Piombare giù da una scogliera con
sotto soltanto rocce. Jolyon l’aveva tradita? Il ragazzo per cui avrebbe dato il
sangue, per crescere il quale aveva rinunciato alla giovinezza. No, lui non
avrebbe mai… A meno che… a meno che fosse sveglio.
«Ne sei certa, Sarah? Assolutamente certa?»
Sarah annuì. Ciocche di capelli sputavano irrequiete, libere dalle forcine.
«Sono andata nella biblioteca. Ho visto le lettere che ha scritto.»
«Ma tu lo sai che non sono pazza!»
«Ma certo. Ecco perché mi sono decisa.» Alzò il mento, con aria di sfida.
«Voglio portarla via di qui. Stanotte.»
Elsie provò il desiderio insopprimibile di ridere. La risata sconvolta e
isterica di quando ormai ogni speranza è vana. «E come credi di riuscirci?
Pensa alla mia gamba.»
«Ho trovato un bastone. Può usarlo per appoggiarsi.»
«Farà rumore. Sulle scale si sentirà.»
Sulle guance di Sarah sbocciarono delle rose. «C’è qualcosa… qualcosa
che posso fare a cena. Lo facevo sempre per la signora Crabbly, quando era
troppo molesta.» Elsie la fissò. «Una goccia nel bicchiere, per gettarli in un
sonno pesante.»
Elsie ebbe la sensazione di avere completamente sbagliato, nel giudicare
Sarah. «Davvero? Davvero drogavi la signora Crabbly solo per avere un po’
di pace?»
Sul viso di Sarah comparve un sorriso malandrino. «Tutti abbiamo fatto
cose di cui ci vergogniamo un poco, signora Bainbridge.»
Per un attimo tutto fu immobile. Poi il suo cuore ripartì e le pompò il sangue
nella testa con pulsazioni dolorose. Uscì dalla stanza incespicando.
Una sola parola le rimbalzava nel cervello: “pazzi”.
Ormai non poteva più dubitare di Sarah. Jolyon era davvero convinto della
sua follia. Aveva rinunciato a lei. Quel dolore era ancora più cocente delle
costole incrinate. Chiuse la porta con un colpo, si girò e si rituffò nel buio,
risalendo il corridoio.
«La prego, Elsie!» La voce soffocata di Sarah la guidava. «Dov’è? Non
riesco più a guardare quelle cose.»
«Si sono mossi?»
«Solo gli occhi. La fissavano.»
Elsie rabbrividì.
Se soltanto avesse potuto vedere chiaramente. Non poteva riaccendere la
lanterna rotta, perché il petrolio aveva impregnato il tappeto. Avrebbe osato
accendere una delle lampade a parete? E sarebbe bastata a risvegliare Jolyon?
Con la mano libera tirò la leva.
«Ecco, Sarah, prendi i miei fiammiferi. Io reggo la lanterna e tu accendi il
gas.»
Sarah obbedì e con un guizzo la fiamma prese vita. La luce si allargò sulla
carta da parati damascata, sui busti di marmo. «Oh, mio Dio. Sembra che si
siano avvicinati.»
«Non dobbiamo smettere di guardarli» disse Elsie. «Io prima scendo le
scale con la lanterna, per vedere che nel salone non ce ne siano altri. Tu
cammini all’indietro e tieni d’occhio questi.»
Le dita di Sarah si strinsero intorno alla scatola di fiammiferi.
«All’indietro? E perché io?»
Elsie picchiò impaziente il bastone a terra. «Per me sarà già difficile
procedere in avanti.»
Si misero schiena contro schiena. Grazie a Dio erano vestite
semplicemente, senza crinoline gonfie. Elsie sentì il contatto con le spalle di
Sarah, il sudore che filtrava dall’abito. «Pronta?»
Sarah trattenne il fiato. «Pronta.»
Raccolse la gonna con la mano che reggeva il bastone e la stoffa le asciugò
la mano sudata. «Allora andiamo.»
Le tremavano le gambe, non solo quella ferita. Un passo. Due.
Lentamente, lentamente, i talloni di Sarah che urtavano contro i suoi. La nube
di luce della lanterna scendeva giù per la tromba delle scale, illuminando
tratti della tappezzeria e del tappeto. Nessuna traccia degli Amici.
«L’ultimo» sussurrò Elsie e giunsero goffamente a un pianerottolo.
Avevano percorso una rampa e ne restava un’altra.
Sss, sss.
Le spalle di Sarah si irrigidirono. «Non li vedo più. La lampada a gas… è
troppo lontana.»
«Accendi un fiammifero. È solo un po’ più in là.»
Da sopra sentirono arrivare un raschio lento. Elsie immaginò gli Amici
trascinare i loro piedistalli mostruosi sulle assi del pavimento.
L’estrema stanchezza minacciava di travolgerla, ma non si arrese. Toc toc,
faceva il suo bastone sulle scale, la gamba che quasi cedeva. A ogni passo
Sarah andava a sbatterle contro, mentre il dolore le si amplificava nel petto. E
intanto le ombre le seguivano.
Sss, sss.
Infine la lanterna fece scintillare del metallo e illuminò lo stemma azzurro
e oro dei Bainbridge. Avvistarono il salone. Ce l’avevano quasi fatta.
«Elsie! Elsie, sento qualcosa!»
Erano sull’ultimo gradino. Elsie si precipitò verso la sicurezza del
pavimento, ma inciampò.
No, no. Il bastone scivolò, la lanterna oscillò. Una fitta di dolore nella
gamba malata. Sarah urlò. Eccolo: il pavimento, duro e piano sotto le scarpe.
Elsie vacillò e in qualche modo riuscì a riacquistare l’equilibrio.
Erano riuscite a raggiungere il salone.
«Santo cielo! Signorina Sarah!»
Una luce che sbucava dall’estremità opposta della stanza. A Elsie balzò il
cuore in gola.
«Come ha potuto?»
Annaspando e socchiudendo gli occhi, si girò verso la voce. La porta di
panno verde della servitù era aperta. La sagoma della signora Holt si
stagliava su uno sfondo di fuoco, rischiarata da dietro. Cercò qualcosa, si
sentì uno scatto e poi una lampada prese vita.
«Bene, bene.» I passi della signora Holt risuonarono sulle lastre di pietra,
secchi, severi. «Chi l’avrebbe mai detto? Da lei me lo sarei anche aspettata» e
fece un cenno brusco in direzione di Elsie. «Ma dalla signorina Sarah! La
credevo più saggia.»
Disorientata, Elsie si lasciò sfuggire la lanterna dalle mani. La signora Holt
accese un’altra lampada.
«Lei!» La voce di Sarah, acuta, alle sue spalle. «Lei dovrebbe… Ma perché
non sta dormendo?»
«Che Dio ti perdoni, ragazzina, credi che non sappia riconoscere l’odore
della tisana di papavero? Sapevo che stavi tramando qualcosa, ma non avrei
mai immaginato che avresti provato a portarla fuori! Ma cosa ti ha preso?»
Dov’erano gli Amici? Intorno a lei si materializzò il salone. Le armature, le
spade, il tappeto orientale. Gli Amici non c’erano. C’erano soltanto la signora
Holt e il fischio delle lampade a gas.
«Lei sta cercando di portarmela via!» strillò Sarah. La sua mano abbrancò
il polso di Elsie. «E non glielo permetterò. Non è pazza! Erano proprio qui,
non li ha visti? Non li ha sentiti, stupida vecchia?»
Sarah aveva ancora energia da vendere. Ma Elsie no. Ogni sensazione
l’aveva abbandonata, lasciandosi dietro solo un guscio vuoto. La delusione
era scomparsa. La paura giaceva ai suoi piedi. Le ultime tracce somigliavano
un po’ al sollievo. Almeno ora non avrebbe dovuto lasciare Jolyon.
«Non ho sentito niente. Non c’era niente.» I lineamenti della signora Holt
erano contorti dal disgusto. «Per tutti i santi del paradiso! Sei pazza quanto
lei!»
Sarah serrò la mascella. Per un attimo sembrò quasi che volesse colpire la
signora Holt, ma poi di sopra si udirono un fragore di mobili e uno scalpiccio
irregolare, finché nella galleria non comparve Jolyon. Sembrava ubriaco: era
tutto rosso e aveva i capelli arruffati. «Cosa succede?» Le guardava sbattendo
le palpebre, cercando di estrarre le parole da quel sonno drogato. «Ho sentito
un urlo e… Elsie? Sei tu?»
«Sono le signore, signor Livingstone» intervenne la signora Holt. «Le ho
sorprese che tentavano di fuggire.»
«Fuggire!»
«Temo che l’abbiano drogata, signor Livingstone. Sono molto astute.
Molto più pericolose di quanto avessimo temuto.»
Elsie non avrebbe mai dimenticato l’espressione sul viso di lui, quel
miscuglio di paura e rabbia. Non era più Jolyon, quello che la fissava con gli
occhi nocciola orlati di rosso. Alle parole della signora Holt il suo caro
ragazzo aveva cessato di esistere. Al suo posto c’era qualcun altro, qualcuno
che aveva pregato di non rivedere mai più in tutta la vita.
Suo padre.
«Lasciami uscire!» Il palmo di Elsie si abbatté nuovamente sul legno,
facendo tremare la porta sui cardini. A ogni colpo, una vibrazione nelle
costole le dava un dolore acutissimo, ma non smise. Non poteva. «Jolyon,
apri subito la porta!»
«Non posso.»
«Ti prego! Fammi uscire! Sono qui dentro da tutta la notte!» Le si spezzò
la voce. Isterica, impazzita. Sembrava la prova della sua diagnosi, perfino alle
sue stesse orecchie. «Jolyon!»
«Tu non stai bene. Avrei dovuto saperlo.» Sentì la spalla di lui sfiorare la
porta. «Avrei dovuto sospettarlo molto tempo fa.»
La mano di lei restò sospesa a un palmo dal legno. Si stava riempiendo di
fumo: gli occhi, la pancia, sotto la lingua. Era un fumo amaro e soffocante
che rappresentava il passato e il presente, e la strozzava con le sue spire acri.
«Ma di cosa stai parlando?» Che suono falso. Sembrava la battuta di
un’attrice teatrale.
«Dopo che la mamma…»
«No!»
«Ti ho visto, Elsie. Ti ho visto metterle il cuscino sulla faccia…»
«Non è andata così!» urlò lei, scrollando la maniglia. «Stammi a sentire,
posso spiegare…»
«Non posso credere a una tua sola parola!»
«Soffriva troppo. Aveva già un piede nella fossa, non ho commesso nessun
peccato.»
«Nessun peccato!» esplose lui. «Dio santo. Forse dopotutto la povera
mamma aveva ragione. Forse non era pazza. Le cose di cui ti accusava…»
«Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per te.»
Sentì un singhiozzo erompergli dal petto. «Non l’hai fatto in nome mio.
Non hai ucciso mia madre per il mio bene.»
«Jolyon, ascolta. Ci sono delle cose che non ti ho mai detto, cose…»
«Basta!» La mano di lui restituì il colpo, dall’altra parte. «Ti prego, non
costringermi a starti a sentire. Le tue parole potrebbero far impazzire anche
me. Ho chiesto aiuto. Devo solo tenerti al sicuro finché non arriveranno gli
uomini.»
«Gli uomini del St Joseph?»
«La signora Holt è andata a spedire il telegramma. È il posto migliore per
te. Forse riusciranno a…» E si interruppe.
Lei aveva il viso rigato di lacrime. Come poteva trovarsi in una situazione
del genere?
Ogni giorno l’impossibile diventava realtà, ma era più facile credere negli
assassini di legno che accettare che Jolyon, il suo Jolyon, fosse contro di lei.
Premette la fronte contro la porta. Sotto la vernice bianca intravedeva le
venature e i nodi del legno, come se fosse non solo una barriera che li
separava, ma una creatura vivente, dotata di arterie e cartilagini.
«Jolyon, ripensaci.» Faticava a respirare regolarmente, a sembrare una
persona sana di mente. «Sai bene che tutto questo non si confà al mio
carattere. Sei stato tu stesso a dire al signor Underwood che sulla forza dei
miei nervi potresti scommetterci la vita.»
«I tuoi nervi sono spezzati, e con loro anche il mio cuore.»
Lei allargò le dita, immaginando la testa di lui appoggiata al legno. Se
soltanto l’avesse guardata. Se soltanto l’avesse guardata negli occhi avrebbe
capito che diceva la verità. «Sei stato troppo affrettato. Chiedi a Sarah…»
«Ho mandato Sarah nella sua suite! Non posso permetterle di venire in
camera tua, di incoraggiarti nelle tue illusioni.»
Elsie scivolò sul tappeto e atterrò, con una fitta, sul ginocchio malconcio.
«Non puoi confinare Sarah» tentò ancora. «Non hai alcuna autorità su di lei.
Non puoi trattarci come prigioniere.»
«È per il tuo bene. So cos’è meglio per te.»
Ma se non la conosceva nemmeno.
Restò sul pavimento, svuotata e sfinita. In quel momento i passi di Jolyon
risuonarono in corridoio. La porta della biblioteca si aprì e poi si chiuse.
Le ombre degli alberi si allungavano sul tappeto vicino alla finestra, un
poco alla volta. Una parte di lei, quasi distaccata, si domandò chi l’avrebbe
raggiunta per primo: gli Amici o il manicomio. Forse ormai la signora Holt
aveva segnato il suo destino e aveva sillabato il suo fato grazie a dei fili su
cui viaggiavano punti e linee. Si sentiva già circondata dal gelo del
dormitorio dell’ospedale.
Se lo meritava? Forse. Non per gli Amici, ma per quell’altra cosa. Papà,
mamma. Poteva cercare di non pensarci ma loro non l’abbandonavano mai;
scorrevano, oscuri, nelle sue vene. E in Jolyon.
Era passata un’ora quando sentì il rumore: dapprima sottile, uno
scricchiolio simile a un ciocco di legno che crolli tra le fiamme. Lanciò
un’occhiata al caminetto ma il legno si era consumato. Poi di nuovo: un
raschio, un suono sussurrato. Proprio fuori dalla porta.
Elsie inclinò la testa per sentire meglio. Stavolta udì dei piccoli clic. E poi
una porta, che si apriva cigolando.
L’esclamazione inarticolata di Jolyon la fece trasalire. Magari era tornata
la signora Holt? Ma non c’erano stati né passi né voci. Solo quel fruscio
lontano, come di rametti spezzati. O di minuscole ossa.
Si stese indolenzita sul pavimento. La lama di luce sotto la porta rivelava
solo una distesa di tappeto color vino.
Jolyon urlò.
Elsie scattò in piedi, con una smorfia per la fitta di dolore che le trapassò le
costole. «Jo?» Provò la maniglia. Ancora chiusa. Gridò ancora, una parola
soffocata che somigliava al nome di lui. «Jolyon!»
Ora i suoni erano amplificati. Rumori di cose spezzate, viscide. Pensò a
degli animali che si aggiravano in un bosco, intrappolati tra i rami. Santo Dio,
ma cosa stava succedendo?
«Elsie!» Un grido angosciato, un gorgoglio liquido.
Si mise ad agitare furiosamente la maniglia e a martellare la porta. Non
riusciva a raggiungerlo. Non riusciva a uscire.
Non poteva esistere tortura più adatta a far uscire di senno: sentire e non
vedere; essere impotente mentre lui urlava. L’aria diventò soffocante,
impossibile da respirare, e la comprimeva tutt’intorno.
Elsie guardò in giro alla ricerca di un oggetto per abbattere la porta. I suoi
occhi caddero sulla toletta e dal cuore le uscì una preghiera di gratitudine.
Perché non ci aveva pensato prima?
Si precipitò, ignorando il dolore al ginocchio, e afferrò una manciata di
forcine. Con le mani sudate, piegò la prima e cercò di infilarla nella toppa.
Niente. Ci riprovò, e quella le sfuggì di nuovo. «Maledizione!» Le mani le
tremavano come se avesse la febbre malarica.
Un rumore di vetri infranti.
«Dài, dài.» Finalmente riuscì a inserire la forcina nel buco ma a vuoto, non
sentiva i cilindri. «Forza!»
Sss. La forcina le sfuggì dalle mani. Sss.
Un altro urlo e la voce di Jolyon si spense. Quel silenzio era assordante.
Prese una terza forcina, la piegò con i denti e la ficcò nella toppa. Con suo
grande sollievo i cilindri scattarono e si mossero, e la porta cedette alla
pressione della sua mano.
Nel corridoio tutto era immobile. Uscì zoppicando, digrignando i denti.
Alla sua sinistra, un rimbombo di passi. Quando si girò, vide Sarah che le
correva incontro a occhi sgranati, con Jasper alle calcagna.
«Elsie! Cos’è successo? Ho sentito urlare.»
«Jolyon» rispose boccheggiando. «Jolyon.»
Sarah spalancò di nuovo gli occhi. «Non saranno loro?»
Dalle labbra le esplose un suono, un lamento animalesco. Non aveva mai
provato un dolore del genere. «No! Dio ti prego, no.»
Senza dire altro, Sarah le infilò la spalla sotto l’ascella e la aiutò a
raggiungere la biblioteca.
Era un disastro. Il pavimento era disseminato di libri squadernati con le
pagine staccate. Il tappeto era un cimitero di carta, vetro e foglie avvizzite.
Mentre avanzavano barcollando, Elsie vide degli strappi nelle tende che
fluttuavano e danzavano al vento.
«Jolyon?» Quella non era la sua voce; quello non era il suo nome.
La scrivania era schizzata d’inchiostro e punteggiata di schegge di vetro
verde della lampada, ma la sedia era vuota.
«Elsie! Da questa parte!»
Si girò di scatto. Accanto al fuoco c’era lo zingarello con il suo vincastro.
Su quel viso piatto balenava qualcosa d’inumano. Gli occhi di Elsie
seguirono la direzione indicata dal vincastro.
La finestra centrale era sfondata e il vetro ridotto a una ragnatela. Le crepe
si irraggiavano dal frastagliato buco centrale. A una delle punte era rimasto
attaccato qualcosa. Dei capelli?
Le tende sbrindellate si agitavano frenetiche, come a intimarle di
andarsene. Ma i piedi si muovevano senza il suo permesso e si trascinarono
impotenti sul tappeto, facendo scricchiolare i vetri, fino al punto in cui il
vento poté schiaffeggiarle il viso.
Decine di Elsie la fissarono dalla finestra frantumata, tutte di forme
diverse. Allungate, schiacciate, senza bocca; con il viso che si scioglieva. E
vide che le crepe erano bordate di sangue.
Con un profondo respiro, guardò giù dal davanzale.
Il suo Jolyon, il suo ragazzo, giaceva a faccia in giù sulla ghiaia, il collo
piegato in maniera innaturale. Morto.
Le tende si gonfiarono intorno a lei e l’abbracciarono mentre urlava.
Quando finì di leggere, restò chino sulla scrivania, a fissare l’ultima parola.
Poi si raddrizzò e appoggiò la schiena, emettendo un suono basso, gutturale.
Elsie ebbe l’impressione che quel suono le cadesse dentro, come una
monetina in un pozzo, e mandasse echi mentre rimbalzava sui lati e atterrava
con un tonfo sordo nelle profondità del suo stomaco.
Fallimento. Tutto quel lavoro, quel rivangare ricordi ed emozioni fino a
farne semi sulla superficie del terreno, perché i corvi potessero becchettarli, e
poi… il fallimento.
Non era forse così? Lo osservava con enorme attenzione, pronta a cogliere
il minimo mutamento di espressione. I suoi occhi verdi non si erano mossi,
erano incollati al foglio. Erano passati almeno tre minuti. Lo spazio tra loro si
addensava, carico di aspettativa.
Immaginò la sua mente come una macchina gigantesca, dai pistoni che
pompavano, che assemblava il suo passato in… che cosa? Voleva davvero
saperlo?
«Bene» sospirò lui. «Bene. Quello che ha sentito, che la chiamava,
dev’essere stato il signor Underwood. È stato lui a trovarla.»
Era soltanto una briciola d’informazione, ma lei si piegò in avanti, avida di
coglierla.
«Però» continuò lui, assestandosi sulla poltrona, «era molto più tardi di
quanto ha scritto qui. Era notte fonda. Ha visto all’orizzonte il bagliore
proveniente da casa sua e ha lanciato l’allarme.»
Non gliel’aveva detto nessuno. Nessuno le aveva detto nulla.
Qualche ricordo, come lampi dolorosi: non semplici fotografie seppia di
persone, ma voci, odori, sentimenti a loro legati. Il signor Underwood, Sarah,
Jasper. Che ne era stato di loro?
Aveva considerato quella storia il suo segreto. Adesso lo vedeva davanti a
sé sulla scrivania, pagine e pagine ricoperte della sua calligrafia larga e
squadrata, e si rendeva conto che era incompleta. La fine non era in suo
potere. L’ultimo atto spettava al dottor Shepherd, era chiuso dentro di lui.
Esitante, prese la matita e in fondo all’ultimo foglio scrisse una parola.
SARAH?
«Questo è il problema. Cos’è accaduto a Sarah Bainbridge?»
Lei inclinò la testa, cercando di incrociare il suo sguardo, ma la luce era
sbagliata. Le lenti dei suoi occhiali erano opache e glielo nascondevano.
«Quello che ha scritto… penso, forse, di poterlo usare. Ma probabilmente
non nella maniera che lei aveva sperato. Non dimostra la sua innocenza, non
dimostra nulla tranne forse una grande capacità d’invenzione. E se
l’immaginazione fosse una malattia, il signor Dickens sarebbe un nostro
paziente fisso.»
Immaginazione! Almeno nella parola “follia” c’era della forza. Non la
faceva sembrare puerile, una ragazzina che sogna fate e unicorni.
SARAH? Sottolineò quella parola, premendo sulla carta.
«Sì. È l’unica persona in grado di corroborare la sua storia. Se quello che
lei scrive è vero, può confermare dove si trovava nel momento della morte di
Jolyon Livingstone.»
Nel sentir nominare Jolyon una lacrima le bagnò la guancia.
«E qui sorgono le difficoltà, signora Bainbridge. Da quando lei ha iniziato
a scrivere, ho consultato documenti su documenti alla ricerca di Sarah
Bainbridge. Riesce a indovinare cos’ho trovato?» Tese le mani, facendole
vedere che erano vuote. «Niente. Né dati anagrafici né certificati di morte:
niente di niente. Ho perfino messo un annuncio per raccogliere informazioni.
Sarah Bainbridge è svanita.»
Un’altra lacrima, che cadde e si unì alla prima. La povera Sarah non era
mai arrivata alla polizia. Non avevano trovato il suo cadavere. Forse giaceva
in qualche fosso, ormai decomposta, con le mosche che le ronzavano dentro e
fuori le labbra. Oh, Sarah. Avrebbe meritato molto di più.
Il dottor Shepherd tossì: non un vero colpo di tosse, ma un modesto
schiarirsi la voce. Un preludio. Eccola in arrivo: la sua teoria.
«Dal suo scritto una cosa mi è chiara, signora Bainbridge. Lei ha la
tendenza a reprimere le emozioni sgradevoli. È la sua maniera di difendersi,
la sua strategia per resistere. Gli episodi… con suo padre, per esempio. E poi
i momenti mancanti della storia. Elsie, cioè, la Elsie di queste pagine, sviene
in parecchie occasioni. Non posso fare a meno di pensare che ciascuna di
esse rappresenti un pezzetto di passato che lei si rifiuta di ricordare.»
In corridoio squillò un campanello.
«Proviamo a pensare, per un istante, che lei stia volutamente soffocando i
suoi ricordi più dolorosi. La rabbia verso i suoi genitori, il senso di colpa che
prova per la loro morte: arrivati a questo punto, non sono in grado di dire se
sono giustificati o meno. Tutte quelle emozioni negative devono finire da
qualche parte. Ho letto che può capitare che si rivoltino contro il corpo di un
paziente e lo facciano star male. Ma ci sono anche casi in cui si biforcano, per
così dire, in quella che possiamo definire “doppia coscienza”.
«Mi faccia una cortesia, signora Bainbridge: vuole considerare un’ipotesi?
Sicuramente la troverà spaventosa, ma vorrei pregarla di aprirsi alla
possibilità che Sarah Bainbridge non esista affatto. Che in realtà sia un lato di
lei stessa.»
Elsie afferrò la matita e cercò di tenere salda la mano. C’È GENTE CHE
L’HA VISTA. CHE CI HA PARLATO.
«Questo lo crede lei.» La sua voce era dolce, ma non gentile.
Quell’insinuazione le stuzzicò l’orecchio. «Ma non abbiamo modo di
verificarlo. Gli interpreti della sua storia se ne sono andati. Le uniche persone
in grado di attestare l’esistenza di Sarah Bainbridge ora sono morte e
sepolte.»
IL SIGNOR UNDERWOOD.
«Ah.» Accavallò le gambe. «Mi dispiace doverla informare che anche il
signor Underwood è deceduto.»
Le sue dita si mossero ma sentiva soltanto le vibrazioni della matita.
COME?
«Nell’incendio. Pare che quando sono arrivati i soccorsi da Fayford, il
signor Underwood abbia mandato alcuni abitanti del paese a Torbury St Jude,
a cercare aiuto. Ma poi non ha atteso il loro ritorno. Alcuni testimoni
raccontano che ha parlato di altre persone intrappolate nell’edificio. Questo
coincide con la sua storia: non era possibile che fosse al corrente della morte
del signor Livingstone o della signora Holt e quindi immaginava che fossero
ancora dentro. Si è precipitato in casa per cercare di salvarli ma ahimè…
Poveretto.»
JASPER?
Sul viso del dottore si aprì un sorriso di sollievo. «Almeno qui ci sono
buone notizie. Il piccolino non l’ha abbandonata. Ha montato fedelmente la
guardia. Al sorgere del sole, sono arrivati i nostri in risposta al telegramma
del signor Livingstone. Date le sue condizioni, la polizia ci ha permesso di
trasferirla alla nostra infermeria e il gattino ha cercato di seguirla. Uno dei
portantini si è impietosito e l’ha portato qui. Da allora vive con il nostro capo
sorvegliante. L’ho visto. È molto grasso e sembra anche molto felice.»
SETTE, scrisse lei.
«Prego?»
SETTE VITE.
«Ah! Sì, più o meno.» Il dottor Shepherd sciolse l’intreccio delle gambe e
si protese posando le mani sulla scrivania. Aveva unghie corte e regolari. Dei
peli biondi sulle nocche. Accanto a lui, la mano ustionata di Elsie sembrava
la zampa di un mostro. «Per fortuna, noi non abbiamo avuto sette vittime.
Soltanto due. Il signor Livingstone e la signora Holt.»
Finalmente la guardò negli occhi.
«Signora Bainbridge, io non credo che li abbia uccisi lei. Non l’ho mai
creduto. E mentre non posso credere nemmeno a tutti gli aspetti del suo
racconto, credo però nell’amore che nutriva per il signor Livingstone. Non gli
avrebbe mai fatto del male. Ho l’impressione che l’incendio sia stato un
incidente, come accade in molti casi. Ha consumato due vite e ha quasi
consumato anche la sua, fino a quando la Provvidenza non le ha permesso la
fuga. Ma lei deve comprendere che questa mia convinzione è immateriale.
Quando la esaminerà una giuria, vedranno una donna il cui padre è morto in
circostanze sospette e il cui marito è deceduto a pochi mesi dal matrimonio,
recandole considerevoli vantaggi. Due domestiche uccise in circostanze
misteriose. E poi, proprio il giorno in cui al manicomio arriva un telegramma
secondo il quale lei è ingestibile e va frenata… Si renderà conto anche lei di
quale immagine ne esce.»
Assassina. Quel nome non corrispondeva all’Elsie della storia, ma adesso
ne aveva la faccia: la carne rosata e lustra; i capelli rapati; occhi che
sembravano avvitati nelle orbite. Un mostro, dato in pasto al pubblico.
L’avrebbero divorata, ne avrebbero scritto, si sarebbero lanciati in affettati
gridolini di piacere nel vederla barcollare verso e dal banco degli imputati.
«Ho pochissime opzioni, signora Bainbridge. Devo scrivere la mia
relazione, e presto.» Gli tremavano le dita. Avrebbero scritto le parole
successive, quelle che avrebbero deciso il suo destino. Guardò quelle dita
sottili e affusolate, incerta. Avrebbero davvero potuto salvarle la vita?
«A mio parere, ho soltanto due modi per tenerla fuori dal carcere. Il primo
è che lei aderisca alla mia teoria. Accetti di essere una persona disturbata,
segnata da due genitori crudeli e insensibili. Mi permetta di dire che Sarah è
una parte ben distinta del suo inconscio, che forse può avere ucciso ma che
non può accettare di averlo fatto, e quindi si è inventata questi fantasmi,
questi Amici, a cui addossare le sue colpe. Il verdetto sarà senza dubbio di
colpevolezza, ma almeno avremo la possibilità di chiedere l’infermità
mentale. Questo significa Broadmoor, e non Newgate.»
Lasciare che tutti credessero che Jolyon l’aveva ucciso lei? Finire su tutti i
documenti come distruttrice della sua vita? Scosse la testa con veemenza.
«Ci rifletta su, signora Bainbridge. Mi prometta che lo farà. Potrà non
essere tutta la verità ma… è la nostra migliore speranza.»
La matita le scivolò nella mano sudata. QUAL È L’ALTRA STRADA?
Lui fece una smorfia. «Be’, ce n’è una, ma temo che non sia praticabile.»
SÌ.
«Mia cara signora Bainbridge, l’altra strada è pregare che Sarah
Bainbridge entri da quella porta, pronta a giurare sulla sua innocenza.»
Quella notte sognò Sarah. Abito color lavanda, mantello grigio che fluttuava
nella pioggia. Dei rami si contorcevano sopra la sua testa, tentando di
afferrarla con una richiesta muta. I suoi stivaletti scalpicciavano nelle
pozzanghere che ribollivano sul terreno.
Davanti a lei si estendeva il paesaggio: rigagnoli, collinette nere e la massa
aggrovigliata delle siepi. Dietro c’era il paese di Fayford in sfumature di
argento e grigio, un dagherrotipo del posto che Elsie aveva conosciuto. Non
c’era luce.
Sarah inciampò. Aveva l’orlo della gonna incrostato di fango, le caviglie
bagnate e il vestito fradicio, che le si appiccicava alle gambe. Sembrava
completamente perduta, completamente sola. Annegava.
Un cigolio lungo e basso, come un gemito di dolore nel buio. Due colpi
pesanti: tump, tump. E poi di nuovo il cigolio.
Elsie sbatté le palpebre. Quel suono proveniva dal suo sogno? Oppure era
nella stanza? Vedeva ancora Sarah, impaurita dagli aghi di pioggia argentea
che le cadevano addosso, ma non sentiva odore di terriccio bagnato, né il
tintinnio metallico delle gocce; le sue narici si erano riempite di un profumo
più dolce e intenso. Rose.
Si svegliò di soprassalto e mosse istintivamente le braccia. Erano
inchiodate ai lati del corpo, appesantite dalle lenzuola rimboccate. Cercò di
guardarsi intorno ma vide soltanto tenebre.
Le assi del pavimento scricchiolarono. Elsie sentì un brivido lungo la spina
dorsale. Dei colpetti simili ai passi delle zampe di un animale.
Jasper?
No; Jasper non c’era. Lei non si trovava a The Bridge. Esalò un sospiro,
sollevata da quel pensiero: non era laggiù.
Toc, toc. Sobbalzò. Qualcuno alla porta.
Non risponderò, pensò agitatissima, non potevano costringerla a farlo.
Cercò di nascondersi sotto le coperte ma erano strette, così strette. Sentì di
nuovo bussare.
Chi poteva essere? Infermiere, sorveglianti, dottori: nessuno di loro
bussava per avere il permesso di entrare.
La paura le strozzava la gola. Non riusciva a parlare né a gridare; poteva
soltanto agitare le gambe in fondo al letto, mentre il cigolio si avvicinava
sempre più. Le lenzuola si rifiutavano di allentarsi e faceva caldo; un caldo
tremendo, come un alito d’inferno.
Le venne la nausea. Avrebbe voluto mettersi a piangere. Con la forza della
disperazione, riuscì a svincolare le braccia dalle lenzuola e a tastare sotto il
cuscino. Ti prego, fa’ che ci siano ancora. Ma no, quello era il passato. Là
dentro non le permettevano di tenere dei fiammiferi.
Qualcosa le sfiorò un piede.
Bruciava come un ferro rovente. Frecce ardenti le bucarono la pelle e le si
infilarono nelle vene. Le penetrarono la gola bloccata e liberarono un urlo.
Fuori, dei passi pesanti. Voci, gente vera, che veniva in suo aiuto. Tenne
gli occhi ben chiusi e urlò più forte. Non vedeva l’ora che arrivassero.
Li udì agitare la catena, far scorrere il chiavistello nella guida. Ma perché
ci mettevano tanto?
Un altro ferro rovente sulla gamba. Stavolta vicino allo stinco.
Bang. La porta andò a sbattere contro la parete. Nel corridoio erano accese
delle lampade a gas, il cui bagliore rimbalzò nella stanza.
Fu soltanto un’immagine fugace, tra le ombre rapidissime, ma Elsie la
vide: Sarah. Di legno dipinto.
Urlò di nuovo.
«Fate attenzione.» La voce bassa di un sorvegliante.
Qualcosa sibilò, poi il suo campo visivo fu attraversato da uno squarcio di
luce. Chiuse gli occhi, accecata. Era la lampada della sua stanza: l’avevano
accesa. Molto lentamente, riuscì ad aprire gli occhi. Sarah non c’era più. Al
suo posto c’erano due sorveglianti robusti e un uomo con dei polsini di carta.
«Adesso!»
Con un balzo, le afferrarono la carne tenera dei polsi. Altri due sorveglianti
le strinsero le caviglie. Ora le lenzuola ricaddero facilmente, non più tese e
soffocanti.
Lei scalciò e si dimenò, ma loro non cedettero. Erano insensibili ai suoi
colpi, sordi alle sue urla. Cercò di mordere. La sua bocca si riempì di un
sapore acre e asciutto mentre gliela tappavano con uno straccio. Imbavagliata,
tentò di sputarlo, ma qualcosa le copriva la faccia, bloccandole la visione
laterale; qualcosa di ruvido e rigido, che puzzava di terrore.
Sentì le costole comprimersi. Le sue mani frenetiche furono infilate dentro
a maniche infinite. Per un attimo diventò una figura spettrale con lunghe
braccia penzoloni e priva di mani. Poi le maniche le furono incrociate sul
petto e strettamente assicurate dietro la schiena. Un cadavere: l’avevano
legata nella posizione del cadavere.
L’uomo con i polsini di carta le rivolse un sorriso orribile. Aveva i denti
marci. «Meglio chiamare il dottore. Diavolo, bisogna dirgli che qui è
successo un miracolo. L’assassina parla.»
Lei ci provò. Le parole erano tutte lì, in fila nella sua gola, che si
affannavano per uscire: “Corri”, “Sarah”, “Amici”, “vengono”. Ma la sua
lingua gonfia e inaridita si rifiutava di muoversi.
Emise una specie di fischio e fu tutto. La patetica eco del sibilo degli
Amici.
«Non mi sembra proprio che riesca a parlare» disse un sorvegliante.
L’uomo la guardò e il suo sorriso diventò un sogghigno. «Be’, perlomeno
sa urlare.»
Ci sono molti “Amici silenziosi” nascosti dietro il mio nome sulla copertina
di questo libro e vorrei cogliere l’opportunità per rivolgere a tutti loro i miei
più sentiti ringraziamenti.
A Juliet Mushens, la mia meravigliosa agente, a cui il libro è dedicato. Hai
creduto nella mia idea fin dall’inizio. Non sarei mai potuta arrivare così
lontano senza i tuoi consigli e i tuoi incoraggiamenti. Grazie, grazie, grazie.
Allo staff di Raven Books, e soprattutto ai miei editor Alison Hennessey e
Imogen Denny. Siete le persone più intelligenti e adorabili con cui potessi
mai sperare di lavorare. Il vostro entusiasmo per la storia mi ha tenuto a galla
e ha reso un piacere l’esperienza della pubblicazione. A David Mann, per
quella copertina. Ti sarò sempre grata della bellissima veste che hai dato alla
mia scrittura.
Grazie a Hannah Renowden per avermi informato dell’esistenza di quelle
inquietanti figure di legno e per aver messo in moto le mie rotelline. Ai miei
primi lettori Anna Drizen, Laura Terry, Sarah Hiorns e Jonathan Clark: i
vostri giudizi sono stati preziosissimi.
Sono grata a Mimi Matthews e a Past Mastery per i loro esaurientissimi
blog, che hanno corroborato le mie più ampie ricerche. Grazie anche allo staff
di Harris & Hoole di Colchester, per avermi fornito ogni giorno la mia dose
di caffeina!
Infine il grazie più importante, a mio marito Kevin. Mi hai aiutato con gli
snodi nella trama, hai contribuito al brainstorming di idee e mi hai sostenuto
in parecchie crisi legate a questo libro. Ti amo con tutto il mio cuore.