Sei sulla pagina 1di 296

Laura Purcell

GLI AMICI SILENZIOSI

Traduzione di Ada Arduini


Titolo originale: The silent companions
Traduzione dall’inglese: Ada Arduini

© Laura Purcell, 2017


Edizione originale: Raven Books, Great Britain 2017

Per l’edizione italiana: © 2018 DeA Planeta Libri S.r.l.


Redazione: Via Inverigo, 2 − 20151 Milano

Prima edizione ebook: novembre 2018


ISBN 978-88-511-6735-6

www.deagostini.it
www.deaplanetalibri.it

@DeAPlanetaLibri
@DeAPlanetaLibri
@DeAPlanetaLibri

@DeAPlanetanarrativa
@DeA_Planeta

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o
trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro
modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore.

Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque


per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione
rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail info@clearedi.org e sito
web www.clearedi.org

Edizione elettronica realizzata da Gag srl


Indice

Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1865
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1865
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1865
The Bridge, 1635
The Bridge 1865
The Bridge, 1635
The Bridge, 1866
The Bridge, 1635
The Bridge, 1866
The Bridge, 1635
Londra, 1866
The Bridge, 1635
The Bridge, 1866
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1866
Ospedale di St Joseph
The Bridge, 1866
The Bridge, 1635
The Bridge, 1866
Ospedale di St Joseph

Ringraziamenti
A Juliet
Ospedale di St Joseph

Il nuovo dottore la colse di sorpresa. Non che ci fosse qualcosa di inconsueto


nel suo arrivo: i medici andavano e venivano abbastanza spesso. Ma questo
era giovane. La professione e quel posto gli erano nuovi. In lui c’era una luce
che le faceva male agli occhi.
«È lei? Signora Bainbridge?» Chiamarla “signora” era un gesto gentile.
Non riusciva a ricordare l’ultima volta che le avevano dato del lei. Era come
risentire una melodia che ricordava soltanto vagamente. Lui alzò gli occhi dai
suoi appunti e la fissò interessato. «Signora Bainbridge, sono il dottor
Shepherd. Sono qui per aiutarla. Per accertarmi che lei riceva un livello di
cure adeguato.»
Cure. Era seduta sul bordo del letto e avrebbe voluto alzarsi in piedi,
prenderlo per un braccio e accompagnarlo dolcemente verso la porta. Quello
non era un posto adatto a un innocente. Vicino alla sorvegliante, una
corpulenta megera di mezza età, sembrava così animato, così vivo. Le pareti
intonacate a calce non gli avevano ancora risucchiato ogni colore dal viso o
spento il tono della voce. Nei suoi occhi vide una scintilla di interesse e
questo la turbò molto di più del muso della sorvegliante.
«Signora Bainbridge? Mi capisce?»
«Gliel’ho detto.» La sorvegliante sbuffò. «Non riuscirà a cavarle niente.»
Il dottore sospirò, si infilò le sue scartoffie sottobraccio e fece un passo
avanti nella cella. «A volte capita. Spesso in casi di enorme angoscia. Il
trauma è così violento da rendere il paziente incapace di parlare. Sembra
plausibile, no?»
Le parole le ribollivano in petto. Le facevano male le costole e le
pizzicavano le labbra, tanto erano potenti. Ma erano fantasmi, echi di cose
passate. Non le avrebbe pronunciate mai più.
Il dottore si protese mettendo la testa all’altezza della sua. Lei fu
dolorosamente consapevole dei suoi occhi, grandi e fissi dietro gli occhiali.
Due anelli pallidissimi verde menta.
«Si può curare. Con tempo e pazienza. L’ho già visto succedere.»
La sorvegliante fece un verso di disapprovazione. «Non si avvicini,
dottore. È tremenda. Una volta mi ha sputato in faccia.»
Con quanta saldezza la guardava. Era così vicino che riusciva a sentirne
l’odore: sapone al fenolo, chiodi di garofano. La memoria le scattò come un
acciarino, ma si rifiutò di tenere in vita la scintilla della pietra focaia.
«Lei non ha alcun desiderio di ripensare a ciò che le è accaduto, ma può
parlare. Il fumo inalato non ha avuto effetti così gravi da renderla muta.»
«Non parlerà, dottore. Non è una stupida. Sa dove l’avrebbero messa, se
non fosse qui dentro.»
«Ma è in grado di scrivere?» Si guardò intorno. «Perché qui dentro non c’è
niente per scrivere? Non avete cercato di comunicare con lei?»
«Non mi fiderei mai di metterle in mano una penna.»
«Allora una lavagna, e del gesso. Può trovarli nel mio studio.» Si frugò in
tasca e mise una chiave sotto il naso della sorvegliante. «Vada a prenderli.
Subito, per favore.»
Accigliata, la donna afferrò la chiave e uscì strascicando i piedi.
Rimasero soli. Sentiva gli occhi del dottore su di sé: non erano duri ma la
mettevano a disagio, come il solletico di un insetto che le si stesse
arrampicando sulla gamba.
«La medicina sta cambiando, signora Bainbridge. Non sono il tipo che le
somministrerebbe l’elettroshock o la tufferebbe in una vasca d’acqua gelata.
Voglio aiutarla.» Inclinò la testa. «Deve sapere che… contro di lei sono state
mosse accuse ben precise. Certe persone suggeriscono di trasferirla in una
struttura più sicura. O che il suo posto non sia affatto il manicomio.»
Accuse. Non le spiegavano mai le basi della sua incriminazione, dicevano
soltanto che era un’omicida, e per un po’ si era comportata in maniera da
rispondere alle loro aspettative: aveva lanciato tazzine, graffiato le
infermiere. Ma adesso che aveva una stanza tutta per sé e delle medicine più
potenti, interpretare quel ruolo le costava troppa fatica. Preferiva dormire.
Dimenticare.
«Sono qui per decidere il suo destino. Ma per poterla aiutare, ho bisogno
che lei aiuti me. Ho bisogno che mi dica che cosa è successo.»
Come se potesse capire. Lei aveva visto cose che andavano ben oltre la
comprensione del cervellino scientifico del dottore. Cose che avrebbe negato
fossero possibili, fino a quando non gli si fossero avvicinate di soppiatto e
avessero premuto le loro mani consunte e scheggiate sulle sue.
Lui sorrise e sulla guancia sinistra gli comparve una fossetta. «Capisco
cosa sta pensando. Lo dicono tutti i pazienti, che io non sono in grado di
capire. Glielo confesso, qui dentro ho visto molti deliri, ma pochi sono privi
di fondamento. I deliri nascono da esperienze. Anche se può sembrare
singolare, mi piacerebbe sentirlo da lei, quello che crede sia accaduto. Certe
volte il cervello non riesce ad affrontare l’informazione che deve elaborare e
cerca di dare un senso al trauma, in qualche strana maniera. Se riuscissi a
sentire ciò che le dice la sua mente, potrei essere in grado di comprendere
come funziona.»
Lei gli restituì il sorriso. Era un sorriso sgradevole, quello che faceva
scansare le infermiere. Lui non batté ciglio.
«E forse potremmo trasformare la sua situazione difficile in un vantaggio.
Quando si è verificato un trauma, spesso la vittima ne trae giovamento, se
riesce a metterlo per iscritto. In modo distaccato. Come se fosse accaduto a
qualcun altro.» La porta cigolò; era tornata la sorvegliante con gesso e
lavagna. Il dottor Shepherd li prese e li allungò verso il letto, offrendo quei
due oggetti a mo’ di ramo d’ulivo. «Allora, signora Bainbridge. Vuole
provarci, per farmi un piacere? Scriva qualcosa.»
Cautamente, lei tese la mano e afferrò il gesso. Le faceva uno strano effetto
tenerlo tra le dita. Dopo tutto quel tempo, non riusciva a ricordare come
cominciare. Premette la punta sulla lavagna e tracciò una linea verticale. Il
gesso stridette, un rumore orribile e acutissimo che le fece digrignare i denti.
Colta dal panico, calcò troppo forte. La punta del gessetto si spezzò.
«Credo proprio che per lei sarebbe più facile maneggiare una matita.
Guardi, non è pericolosa. Sta semplicemente cercando di fare quello che le
abbiamo chiesto.»
La sorvegliante gli lanciò un’occhiataccia. «La responsabilità se la prende
lei, dottore. Più tardi gliene porterò una.»
Riuscì a scarabocchiare qualche lettera. Erano quasi invisibili, ma aveva
paura di usare di nuovo la forza. Sulla lavagna comparve soltanto un
tremolante SALVE.
Il dottor Shepherd la ricompensò con un altro sorriso. «Bravissima!
Continui a esercitarsi. Crede di poterci riuscire, signora Bainbridge, come le
ho chiesto? A scrivere tutto ciò che ricorda?»
Come se fosse facile.
Era troppo giovane. Troppo fresco e pieno di speranze per rendersi conto
che nella vita avrebbe vissuto istanti che avrebbe voluto cancellare, anni
interi di momenti insopportabili.
Lei li aveva repressi così profondamente da essere in grado di
raggiungerne soltanto un paio. Quel tanto che bastava a confermarle che non
voleva assolutamente il resto. Ogni volta che cercava di rammentare, li
vedeva. Le loro facce orribili le sbarravano la strada verso il passato.
Usò il polsino della manica per ripulire la lavagna e scrisse ancora.
PERCHÉ?
Lui sbatté le palpebre dietro gli occhiali. «Be’… lei che ne dice?»
CURA.
«Esatto.» Ricomparve la fossetta. «Immagini se riuscissimo a curarla, a
farla uscire da questo ospedale.»
Benedetto ragazzo. NO.
«No? Ma… non capisco.»
«Gliel’ho detto, dottore» disse la sorvegliante con quella sua voce aspra da
gazza. «È stata lei, non c’è dubbio.»
Tirò su le gambe e si stese sul letto. La testa le pulsava. Si portò le mani al
cuoio capelluto e lo artigliò, cercando di tenere tutto quanto al suo posto. La
testa rasata era ricoperta di setole ispide. I capelli crescevano, i mesi
trascorrevano, rinchiusa là dentro.
Quanto tempo era passato? Un anno, azzardò. Avrebbe potuto chiederlo,
scrivere la domanda sulla lavagna, ma aveva paura di appurare la verità.
Era sicuramente l’ora della medicina, l’ora di smorzare il mondo.
«Signora Bainbridge? Signora Bainbridge, tutto bene?»
Tenne gli occhi chiusi. Basta, basta. Quattro parole, e aveva già scritto
troppo.
«Forse per oggi ho esagerato, a insistere» disse lui. Ma restava lì, una
presenza inquietante accanto al letto.
Era tutto sbagliato. La sua mente si stava scongelando.
Alla fine lo sentì raddrizzarsi. Un tintinnio di chiavi, una porta che si
apriva con un cigolio.
«Chi è il prossimo?»
La porta si chiuse e soffocò le voci. Le loro parole e i loro passi svanirono
lungo il corridoio.
Era sola, ma l’isolamento non la consolava più come un tempo. Suoni che
in genere non notava erano diventati dolorosamente assordanti: il rumore
metallico di una serratura, una risata lontanissima.
Come impazzita, seppellì la faccia sotto il cuscino e cercò di dimenticare.

La verità. Non riusciva a smettere di pensarci, durante le ore fredde e grigie


del silenzio.
Nella sala comune di giornali non ce n’erano, almeno non da quando le era
stato concesso di starci, ma le notizie filtravano sotto le porte e dalle crepe
dei muri. Le bugie dei giornalisti erano arrivate dentro il manicomio molto
prima di lei. Dall’istante in cui si era svegliata in quel posto, le avevano dato
un nuovo nome: assassina.
Gli altri pazienti, i sorveglianti, perfino le infermiere quando credevano
che nessuno le stesse ascoltando, torcevano la bocca e snudavano i denti
mentre pronunciavano quella parola, avidi. Assassina. Come se la volessero
spaventare. Lei.
Non era quell’ingiustizia che detestava, ma il suono, le sillabe che le
fischiavano nelle orecchie come… No.
Si agitò nel letto e si strinse forte al petto le braccia con la pelle d’oca, nel
tentativo di dominarsi. Fino a quel momento era stata al sicuro. Al sicuro
dietro i muri, al sicuro dietro il suo silenzio, al sicuro con gli stupendi
medicinali che annegavano il passato. Ma il nuovo dottore… lui era il
pendolo che con un rintocco spaventoso segnalava che il suo tempo era finito.
O che il suo posto non sia affatto il manicomio.
Il panico le attanagliò il petto.
Ancora le solite tre possibilità. Non dire nulla ed essere ritenuta colpevole.
Destinazione: il patibolo. Non dire nulla e, in virtù di qualche miracolo,
essere scagionata. Destinazione: il freddo e tagliente mondo esterno, senza
medicine per aiutarla a dimenticare.
Le restava soltanto una scelta: la verità. Ma quale?
Riandando con lo sguardo al passato, gli unici visi che vedeva chiaramente
erano quelli dei suoi genitori. Intorno, si ammassavano figure d’ombra.
Figure piene d’odio che l’avevano terrorizzata e avevano deformato il corso
della sua vita.
Ma nessuno ci avrebbe creduto.
La luna piena brillava formando linee d’argento che attraversavano la
finestra in cima alla parete e le sfioravano la testa. Restò distesa a osservarla,
quando le venne il pensiero. In quel luogo caotico, tutto era capovolto. La
verità era folle, oltre i confini di un’immaginazione sana. Ed era per questo
che la verità era l’unica cosa che poteva garantirle che sarebbe rimasta sotto
chiave.
Dal letto scivolò sul pavimento. Era freddo e leggermente appiccicoso. Per
quanto lo lavassero, nell’aria restava sempre sospeso un odore di piscio. Si
accovacciò accanto al letto, finalmente di fronte all’ombra colossale in fondo
alla stanza.
Il dottor Shepherd aveva ordinato di metterla lì: il primo oggetto nuovo in
un paesaggio che non cambiava mai. Era soltanto una scrivania. Ma era un
altro strumento per aprire la cripta e portare alla luce tutto quello che lei
aveva sepolto.
Con le vene che le pulsavano nel collo, strisciò sul pavimento. In qualche
modo si sentiva più al sicuro lì in basso, accovacciata, con lo sguardo levato
verso le gambe piene di tacche. Legno. Rabbrividì.
Di certo lì non c’era alcun motivo di avere paura. Di certo non potevano
prendere un pezzo di legno qualsiasi e… Non era possibile. Ma in fondo
nulla di tutto ciò che era accaduto era possibile. Nulla di tutto ciò aveva il
minimo senso. Eppure era accaduto davvero.
Lentamente si alzò e ne esaminò la superficie. Il dottor Shepherd aveva
lasciato bene in vista tutti gli strumenti: della carta e una grossa matita con la
punta arrotondata.
Avvicinò a sé un foglio. Nella semioscurità vide un vuoto bianco in attesa
delle sue parole. Deglutì il dolore che aveva in gola. Come avrebbe potuto
rivivere tutto quanto? Come poteva persuadersi a fare una cosa del genere a
loro, ancora una volta?
Sbirciò la pagina immacolata, cercando di scorgere, da qualche parte in
quella distesa sconfinata di nulla, quell’altra donna di tanto tempo prima.
The Bridge, 1865

Non sono morta.


Elsie recitò quelle parole mentre la carrozza avanzava a fatica sugli sterrati
campestri, sollevando grumi di fango. Le ruote mandavano un suono
vischioso, risucchiante. Non sono morta. Ma era difficile crederci, guardando
sul finestrino macchiato di pioggia lo spettro della sua immagine riflessa:
pelle pallida, guance cadaveriche, riccioli oscurati da una garza nera.
Fuori la monotonia del cielo grigio ferro era spezzata soltanto dai corvi.
Miglia e miglia di paesaggio immutabile. Campi ricoperti di stoppie, alberi
scheletrici. Mi stanno seppellendo, si rese conto. Mi stanno seppellendo
insieme a Rupert.
Non sarebbe dovuta andare così. A quell’ora dovevano essere di ritorno a
Londra, la casa spalancata, traboccante di vino e candele. Quella stagione
erano di moda i colori vivaci. I salotti sarebbero stati pieni di ceruleo, malva,
magenta e verde di Parigi. E lei sarebbe stata al centro di tutto: invitata a ogni
festa, trapunta di diamanti, aggrappata al braccio del padrone di casa con il
panciotto a strisce, la prima signora scortata in sala da pranzo. La sposa
novella aveva sempre la precedenza.
Ma una vedova no. Una vedova rifuggiva la luce e si seppelliva con il
proprio dolore. Diventò una sirena annegata nel crespo nero, come la regina.
Elsie sospirò e fissò il riflesso vuoto dei propri occhi. Doveva essere una
moglie orribile, perché non desiderava affatto la clausura. Starsene seduta in
silenzio a rimuginare sulle virtù di Rupert non l’avrebbe aiutata a superare il
dolore. Soltanto qualche distrazione poteva riuscirci. Voleva andare a teatro,
salire e scendere dagli omnibus traballanti. Avrebbe voluto essere ovunque,
tranne che tutta sola in mezzo a quei campi squallidi.
Be’, non proprio sola. Sarah sedeva ingobbita sullo strapuntino davanti,
concentrata su un volume rivestito di cuoio consumato. Mentre leggeva
muoveva la bocca grande, sussurrando le parole. Elsie la disprezzava già.
Occhi bovini color del fango che non rivelavano nessuno sprazzo
d’intelligenza, guance incavate e capelli flosci che le scivolavano sempre
fuori dalla cuffietta. Aveva visto commesse dotate di maggiore eleganza.
«Ti farà compagnia» aveva promesso Rupert. «Tienila d’occhio mentre io
sono giù a The Bridge. Mostrale qualche bel posto. Quella poverina non esce
molto.»
Non esagerava. Sua cugina Sarah mangiava, respirava e sbatteva le
palpebre; ogni tanto leggeva. Tutto qui. Non prendeva alcuna iniziativa, non
provava alcun desiderio di migliorare la propria condizione. Era stata ben
contenta della sua piccola vita abitudinaria di dama di compagnia di una
vecchia signora paralitica, finché quest’ultima non era morta.
Rupert, da buon cugino, l’aveva presa con sé. Ma adesso toccava a Elsie
occuparsene.
Foglie gialle a forma di ventaglio planavano giù dai castagni e atterravano
sul tettuccio della carrozza. Flap, flap. Palate di terra su una bara.
Di lì a un paio d’ore il sole avrebbe cominciato a tramontare.
«Quanto manca?»
Sarah alzò gli occhi dalla pagina con sguardo velato. «Eh?»
«Quanto manca?»
«Per…?»
Santo Dio. «Per arrivare.»
«Non lo so. Non sono mai stata a The Bridge.»
«Cosa? Neanche tu l’hai mai vista?» Era incomprensibile. Per essere una
famiglia antica, i Bainbridge non provavano molto orgoglio per la proprietà
avita. Perfino Rupert, all’età di quarantacinque anni, non aveva alcuna
memoria di quel posto. Si era vagamente ricordato di possedere una tenuta
solo quando gli avvocati avevano ratificato il loro contratto di matrimonio.
«Non posso crederci. Non ci sei mai stata nemmeno da piccola?»
«No. I miei genitori mi parlavano spesso dei giardini, ma non l’ho mai
vista. Rupert non si è mai interessato a quel posto finché…»
«Finché non mi ha conosciuto» concluse Elsie.
Represse le lacrime. Non era forse vero che erano arrivati vicinissimi a
crearsi una vita perfetta, insieme? Rupert era andato a preparare la tenuta per
la primavera e per il discendente che sarebbe giunto a ereditarla. Ma ora
l’aveva lasciata ad affrontare, sola, il lascito familiare e un bambino in arrivo,
e lei non aveva alcuna esperienza nella gestione di una proprietà di
campagna. Immaginò di allattare in un salottino fatiscente con mobili
tappezzati di logora stoffa verde pisello e sulla mensola del caminetto un
orologio con un sudario di ragnatele.
Fuori, gli zoccoli dei cavalli sguazzavano nel fango. I finestrini
cominciarono ad appannarsi. Elsie si tirò giù la manica e la strofinò contro il
vetro. Le passarono lentamente davanti immagini spaventevoli. Tutto era
decrepito e ricoperto da erbacce. Dall’erba sbucavano come lapidi i resti di
un muro di mattoni grigi, mentre ovunque dilagavano trifogli e felci. La
natura si stava riprendendo, riappropriandosi dello spazio con rovi e muschio.
Come poteva essere in quelle condizioni la strada che portava alla casa di
Rupert? Lui era stato un uomo d’affari puntiglioso, bravo con i numeri,
sempre capace di far tornare i conti. Ma perché allora aveva permesso che
uno dei suoi possedimenti degenerasse a quel modo?
La carrozza cigolò e si fermò di botto. Da cassetta si sentì Peters
imprecare.
Sarah chiuse il libro e lo mise da parte. «Cosa succede?»
«Credo che stiamo per arrivare.» Si protese e sbirciò il più lontano
possibile. Una nebbia leggera si alzava a spirali dal fiume che scorreva a
fianco del sentiero e offuscava l’orizzonte.
Ormai dovevano essere a Fayford, no? Le pareva che avanzassero
sobbalzando in quel modo da ore. Il momento in cui era salita sul treno a
Londra, nell’alba sporca color whisky, sembrava appartenere alla settimana
prima, non a quella mattina.
Peters fece schioccare la frusta. I cavalli sbuffarono e si agitarono nei
finimenti, ma la carrozza si limitò a dondolare.
«E adesso?»
La frusta schioccò ancora. Gli zoccoli si invischiarono nel fango.
Qualcuno bussò sul tettuccio. «Ehi, lì dentro. Deve scendere, signora.»
«Scendere?» ripeté lei. «Non possiamo scendere in questo sudiciume!»
Peters saltò giù da cassetta e atterrò con un tonfo. Dopo qualche passo
nella poltiglia fu allo sportello e lo spalancò. La foschia penetrò e volteggiò
intorno alla soglia. «Temo che non abbia scelta, signora. La ruota è
impantanata. Possiamo soltanto provare a tirarla fuori e sperare che i cavalli
facciano il resto. E meno pesa la carrozza, meglio è.»
«Ma due signore non possono pesare poi così tanto.»
«Quel che basta a fare la differenza» sbottò lui.
Elsie gemette. La nebbia le premeva sulla guancia, umida come il fiato di
un cane, e portava con sé sentore d’acqua e un afrore profondo e terroso.
Sarah mise via il libro e si raccolse la gonna. Poi si fermò, le vesti sollevate
al di sopra delle caviglie. «Dopo di lei, signora Bainbridge.»
In altre circostanze Elsie sarebbe stata felice di vedere Sarah cederle il
passo. Ma stavolta avrebbe preferito non scendere per prima. La foschia si era
addensata con rapidità sorprendente. A malapena intravedeva la sagoma di
Peters e la sua mano, tesa verso di lei. «La scaletta?» domandò, senza
sperarci molto.
«Con la carrozza inclinata in questo modo non riusciamo a tirarla giù,
signora. Dovrà saltare. Non è alto. La prendo io.»
Tutto quel suo atteggiamento dignitoso per arrivare a questo. Con un
sospiro, chiuse gli occhi e spiccò un balzo. La mano di Peters le sfiorò la vita
per un istante prima di posarla giù nel fango.
«Adesso tocca a lei, signorina.»
Elsie si allontanò barcollando dalla carrozza, non voleva che i grossi piedi
di Sarah atterrassero sulla coda del suo vestito. Era come camminare nel
budino di riso. Gli stivaletti scivolavano e restavano incastrati formando
strane angolazioni. Non riusciva a scorgere dove li metteva; la foschia le
arrivava alle ginocchia e oscurava tutto ciò che stava sotto. Forse era meglio
così: non voleva vedere insozzato l’orlo del suo nuovo vestito di crespo.
A tratti tra la nebbia comparivano altri castagni. Non aveva mai visto nulla
del genere; non era gialla e solforosa come quella londinese, non restava lì
sospesa, ma si muoveva. Scostandosi, le nuvole argentee e grigie rivelarono
un muro pieno di crepe lungo il filare degli alberi. Alcuni mattoni erano
caduti lasciando dei varchi simili a denti mancanti. Più o meno a metà c’era
la cornice marcia e vuota di una finestra. Cercò di osservare meglio, ma le
immagini si dissolsero mentre la nebbia tornava al suo posto.
«Peters? Cos’è quell’edificio spaventoso?»
L’aria umida fu lacerata da un grido. Elsie si girò di scatto, con il cuore che
le batteva forte, ma c’era soltanto foschia bianca.
«Stia calma, signorina.» La voce di Peters. «Va tutto bene.»
Poté respirare e notò il proprio fiato assorbito dalla foschia. «Cosa
succede? Non riesco a vederti. Sarah è caduta?»
«No, no. L’ho presa in tempo.»
Probabilmente era la situazione più eccitante che quella ragazza avesse
vissuto negli ultimi anni. Aveva una battuta sulla punta della lingua, ma poi
sentì un altro rumore: più basso, insistente. Un lamento profondo e
prolungato. Dovevano averlo sentito anche i cavalli, perché nonostante i
finimenti cercarono di scansarsi.
«Peters? Cos’è stato?»
Ancora quel suono: cupo e dolente. Non le piaceva. Non era abituata ai
rumori e alle nebbie di quella campagna, e non voleva abituarcisi. Sollevando
la coda del vestito, tornò in punta di piedi alla carrozza. Ma era stata troppo
veloce. Mise un piede in fallo, perse la presa e andò a sbattere con le scapole
nel fango.
Restò distesa sulla schiena, stordita. Una poltiglia gelida le penetrava dalla
fessura tra il colletto e la cuffietta.
«Signora Bainbridge? Dov’è?»
La caduta l’aveva lasciata senza fiato. Non si era fatta male: non era
preoccupata per il bambino, ma non riusciva a ritrovare la voce. Fissò quella
nebbia bianca che si gonfiava. L’umidità le impregnava il vestito. Da qualche
parte, in una zona remota del suo cervello, scoppiò a piangere per lo stato in
cui si era ridotto il suo abito di crespo nero.
«Signora Bainbridge?»
Di nuovo quel lamento, stavolta più vicino. La foschia si spostava sopra di
lei come uno spirito irrequieto. Avvertì una sagoma sopra la testa, una
presenza. Emise un suono roco e flebile.
«Signora Bainbridge!»
Elsie si irrigidì quando li vide, a qualche centimetro dalla sua faccia: due
occhi senz’anima. Un naso umido. Un paio di ali nere come quelle di un
pipistrello. La creatura l’annusò e poi si abbassò. Si abbassò.
Una vacca. Era soltanto una vacca, legata con un pezzo di corda sfilacciata.
Sull’onda dell’imbarazzo le tornò la voce. «Sciò! Vattene, non ho niente da
darti.»
Ma quella non si mosse. Elsie si domandò se l’avrebbe mai fatto: non era
un animale in salute. La testa era sorretta da un collo smagrito e intorno alle
costole sporgenti svolazzavano le mosche. Povera bestia.
«Eccola qui!» Peters costrinse la vacca a spostarsi con un paio di calci.
«Cos’è successo, signora? Sta bene? Lasci che l’aiuti.»
Ci vollero quattro tentativi prima che riuscisse a farla alzare. Il vestito si
staccò dal pantano con un risucchio e uno strappo. Rovinato.
Peters le rivolse un sorriso storto. «Non si preoccupi, signora. Non direi
che questo è un posto per mettersi in ghingheri, eh?»
Lei si girò a guardare gli ultimi brandelli di foschia che contorcendosi si
allontanavano. Certo che no. Sicuramente quel paesino che stava comparendo
non poteva essere Fayford.
Una fila di capanne decrepite accovacciate sotto gli alberi, ciascuna con
una finestra sfondata o una porta sconnessa. I buchi nei muri erano stati
frettolosamente riparati con fango e sterco. L’incannicciato malridotto faceva
un patetico tentativo di coprire i tetti, ma era punteggiato di muffa.
«Ecco perché ci siamo impantanati.» Peters indicò la strada che scorreva
davanti alle casette: era poco più di un fiumiciattolo marrone. «Benvenuta a
Fayford, signora.»
«Questa non può essere Fayford» rispose.
Accanto a loro sbucò la faccia pallida di Sarah. «Io credo proprio di sì!»
ansimò. «Oh, santo cielo.»
Elsie restò a bocca aperta. Era già abbastanza brutto finire intrappolata in
campagna, ma lì? Sposare Rupert avrebbe dovuto elevarla socialmente e
procurarle contadini ben nutriti e umili mezzadri.
«Restate lì, signore» disse Peters. «Ora che si è alzata la nebbia tirerò fuori
la ruota.» E tornò indietro camminando con cautela sul fango.
Sarah si avvicinò di soppiatto a Elsie. Per una volta, Elsie fu grata della sua
presenza. «Io speravo di fare delle piacevoli passeggiate nella natura, signora
Bainbridge, ma temo che quest’inverno dovremo restare in casa.»
In casa. Quella parola era come sentire una chiave girare nella serratura.
La vecchia sensazione di soffocamento, che provava fin dall’infanzia. Come
poteva non pensare a Rupert, se doveva stare in casa?
Probabilmente avrebbe letto dei libri. Giocato a carte. Ma in poco tempo si
sarebbero rivelati entrambi passatempi tediosi.
«La signora Crabbly ti ha mai insegnato a giocare a backgammon, Sarah?»
«Oh, sì. E poi, naturalmente…» Tacque, sgranando gli occhi.
«Sarah? Cosa c’è?»
Sarah accennò con il capo verso le capanne. Elsie si girò. Alle finestre
erano comparse alcune facce sudicie. Gente miserabile, peggio di quella
vacca.
«Devono essere i miei mezzadri.» Alzò una mano, sentiva di doverli
salutare, ma poi le mancò il coraggio.
«Dovremmo…» Sarah era a disagio. «Dovremmo cercare di parlare con
loro?»
«No. Stai lontana.»
«Ma hanno un’aria così infelice!»
Era vero. Elsie si mise a scavare nella propria mente alla ricerca di un
metodo per aiutarli. Andare a trovarli con un cestino pieno di provviste e
leggere loro un brano della Bibbia? Era così che facevano le signore ricche,
no? Non sapeva perché, ma era convinta che non avrebbero apprezzato lo
sforzo.
Un cavallo nitrì. Elsie sentì un’imprecazione e si girò in tempo per vedere
la ruota del carro sgusciare fuori dalla palude con un gorgoglio violento, che
ricoprì Peters di schizzi di fango.
«Be’» disse lui lanciando un’occhiata sarcastica al vestito di Elsie.
«Adesso siamo in due.»
La carrozza fece qualche altro metro, oscillando. Dietro, Elsie scorse le
rovine malconce di una chiesa. Il campanile era scomparso, restava soltanto
un palo di legno scheggiato. Era circondata da erba gialla e rada, da cui
sbucavano fitte delle pietre tombali. Qualcuno li guardava dal portale
d’ingresso del cimitero.
Elsie sentì delle bollicine nello stomaco. Il bambino. Si mise una mano sul
corpetto inzaccherato e usò l’altra per afferrare il braccio di Sarah. «Forza.
Risaliamo in carrozza.»
«Oh, sì.» Sarah avanzò annaspando. «Cerchiamo di arrivare alla casa il
prima possibile!»
Elsie non condivideva il suo entusiasmo. Se quel nido di ratti era il paese,
cosa mai avrebbero trovato nella tenuta?

Il fiume sussurrava, un suono liquido, disincarnato. Delle pietre macchiate di


muschio formavano un ponte sull’acqua: doveva essere proprio il ponte da
cui prendeva nome la casa.
Non somigliava a nessuno dei ponti londinesi. Al posto di architettura e
ingegneria moderne, Elsie vide arcate diroccate corrose da schiuma e spruzzi.
Una coppia di leoni di pietra scoloriti montava la guardia ai due lati del corso
d’acqua. Le vennero in mente i ponti levatoi, la Torre di Londra e il Traitors’
Gate.
Però quel fiume non era come il Tamigi; non era grigio o marrone, ma
limpido. Socchiuse gli occhi e scorse un lampo sotto la superficie. Delle
sagome scure che guizzavano. Pesci?
Quando arrivarono sull’altra riva, come sbucato dal nulla comparve un
antico cancello. Peters fece rallentare la carrozza ma nessuno venne ad
accoglierli. Elsie abbassò il finestrino e fece una smorfia alla sensazione della
manica umida che le strofinava contro il braccio. «Prosegui, Peters.»
«Eccola!» gridò Sarah. «La casa è laggiù.»
La strada scendeva attraverso una fila di collinette, dove il sole cominciava
a tramontare. Proprio in fondo, accoccolata in un ferro di cavallo d’alberi
rossi e arancioni, c’era The Bridge.
Elsie si mise il velo. Poi vide un lungo edificio in stile Giacomo I con il
tetto a tre timpani, una torre nolare centrale e, alle sue spalle, comignoli di
mattoni rossi. Dalle grondaie traboccava l’edera, che soffocava anche le due
torrette ai lati della casa. Sembrava morta.
Tutto era morto. I parterre giacevano prostrati sotto lo sguardo senz’anima
delle finestre, le siepi erano brune e disseminate di buchi. Le aiuole erano
strangolate dai rampicanti. Perfino i prati erano ingialliti e spelacchiati, come
se nella tenuta si fosse diffuso un contagio. Soltanto il cardo prosperava e le
sue spine purpuree si rizzavano ispide dal pietrisco multicolore.
La carrozza si fermò su un pendio ricoperto di ghiaia, davanti alla fontana
che costituiva il centro di quella tenuta in decadenza. Una volta, quando la
pietra era bianca e le statue di cani che la sormontavano erano nuove, doveva
essere stata una struttura splendida. Dagli ugelli non usciva una goccia
d’acqua. Nella vasca vuota si irradiavano le crepe.
Sarah sussultò. «Sono usciti tutti a salutarci» disse. «La servitù al
completo!»
Lo stomaco di Elsie si strinse. Era stata troppo occupata a osservare i
giardini, ma in quel momento scorse tre donne vestite di nero in attesa di
fronte alla casa. Due indossavano cuffietta e grembiule bianco, mentre la
terza era a capo scoperto e portava i capelli stretti in una spirale che sembrava
di ferro. Accanto a lei, un uomo rigido dall’aria formale.
Elsie si guardò la gonna, tappezzata di macchie come un cancello
arrugginito. Il fango appesantiva il crespo e glielo faceva appiccicare alle
ginocchia. Cos’avrebbero pensato i suoi nuovi domestici se l’avessero vista
in quello stato? Con i vestiti della fabbrica sarebbe stata più pulita e in ordine.
«Una padrona di casa deve conoscere la sua servitù. Ma avevo sperato di
non farlo incrostata di fango.»
Senza alcun preavviso, lo sportello della carrozza si spalancò. Lei trasalì.
Si trovò davanti un giovanotto dalla corporatura snella, in un completo nero.
«Oh, Jolyon, sei tu. Grazie a Dio.»
«Elsie? Ma cos’è successo?» Si scostò i capelli castano chiari dal viso,
come a sottolineare il proprio sgomento.
«Un incidente. La ruota della carrozza si è impantanata e io sono
caduta…» Si indicò la gonna. «Non posso incontrare la servitù in questo
stato. Rimandali dentro.»
Lui esitò. Sotto le basette, le guance erano in fiamme. «Ma… sembrerebbe
molto strano. E io cosa dovrei dire?»
«Non lo so! Quello che ti viene in mente!» Elsie si rese conto di avere
usato un tono isterico e si sentì pericolosamente vicina alle lacrime.
«Inventati una scusa.»
«Molto bene.» Jolyon chiuse lo sportello e fece un passo indietro. Lei lo
vide girarsi e un refolo di vento gli sollevò dal colletto una ciocca ricciuta.
«La signora Bainbridge… è indisposta. Dovrà mettersi subito a letto.
Accendete il fuoco e mandatele su del tè.»
Si udirono dei mormorii, ma poi arrivò l’agognato scricchiolio della ghiaia
calpestata. Elsie tirò un sospiro di sollievo. Non sarebbe stata costretta ad
affrontarli, non ancora.
Elsie trovava che i servitori fossero tra le persone più severe in assoluto:
erano invidiosi della posizione del padrone, dal momento che era strettamente
legata alla loro. La servitù londinese di Rupert l’aveva accolta con il naso
levato, quand’era arrivata dalla fabbrica di fiammiferi. E quando aveva
confessato di non avere avuto alcun aiuto domestico dalla morte di sua
madre, il loro disprezzo era stato palese. Soltanto il rispetto che portavano a
Rupert e le sue occhiate di avvertimento li avevano costretti a mantenere un
comportamento civile.
Sarah si protese verso di lei. «Cosa farà? Dovrà cambiarsi
immediatamente, senza farsi vedere. E Rosie non c’è!»
No. Rosie non aveva voluto lasciare la sua vita e il suo stipendio londinesi
per venire a vivere in quella landa desolata. Elsie non poteva biasimarla. E a
essere sinceri, dentro di sé ne era felice. Non si era mai sentita a suo agio a
cambiarsi davanti alla sua cameriera personale, ad avere sulla pelle delle
mani estranee. Ma avrebbe dovuto assumerne presto un’altra, se non altro per
salvare le apparenze. Non voleva farsi la reputazione di una delle vedove
eccentriche che popolavano quelle zone rurali.
«Oserei dire che dovrò cavarmela senza Rosie, per ora.»
Il viso di Sarah si illuminò. «Io potrei darle una mano con i bottoni sulla
schiena. Con i bottoni sono brava.»
Be’, almeno in quello.
Accanto allo sportello ricomparve Jolyon, che lo aprì e le tese la mano. «Il
personale è rientrato. Su, scendi.»
Lei scese la scaletta con cautela e atterrò goffamente facendo schizzare
qualche pietruzza. Jolyon le guardò il vestito sgranando gli occhi. «Santo
cielo.»
Lei ritrasse subito la mano.
Mentre lui aiutava Sarah, Elsie guardò la casa. Non rivelava nulla. Le
tende alle finestre erano tutte tirate, formando uno schermo nero ininterrotto.
Contro i muri sbattevano i tralci dell’edera.
«Vieni. I bauli che hai già spedito sono su in camera tua.»
Salirono i pochi gradini che portavano all’ingresso aperto. Prima di
superare la soglia, le narici di Elsie furono colpite e attraversate da un forte
odore di muffa che qualcuno aveva cercato di mascherare con un profumo
più dolce e polveroso. L’aroma di un armadio della biancheria: lavanda ed
erbe verdi.
Jolyon proseguì baldanzoso, come faceva a Londra, e i suoi piedi
avanzavano ritmici su un pavimento di losanghe di pietra grigia. Elsie e Sarah
lo seguirono, attardandosi per dare un’occhiata alla casa.
La porta si apriva direttamente sul salone, una caverna satura di antichi
splendori dal sapore medievale: un’armatura completa, pugnali disposti a
ventaglio sulla parete e, sul soffitto, travi rose dai tarli.
«Sapeva che una volta Carlo I e la sua regina hanno soggiornato qui?»
domandò Sarah. «Me l’ha detto mia madre. Pensi, avranno camminato
proprio su questo pavimento!»
A Elsie interessava di più il fuoco che ardeva dietro una grata di ferro
annerito. Vi si precipitò e avvicinò alle fiamme le mani guantate. Era abituata
al carbone; c’era qualcosa di snervante in quei ciocchi scoppiettanti e
nell’odore intenso e dolce del fumo. Le fece tornare in mente le assi da cui
ricavavano i bastoncelli alla fabbrica di fiammiferi. Il modo in cui si
spaccavano sotto i denti della sega.
Distolse lo sguardo. Ai due lati del caminetto c’erano due pesanti porte di
legno, con decorazioni in ferro sbalzato.
«Elsie.» Jolyon sembrava impaziente. «Il fuoco sarà acceso anche in
camera tua.»
«Sì, ma io…» Si girò e i muscoli del suo viso si solidificarono come cera.
Sotto le scale. Prima non l’aveva notata. Una cassa lunga e stretta posata su
un tavolo al centro di un tappeto orientale. «È…»
Jolyon chinò la testa. «Sì. All’inizio era nel salotto. Ma la governante dice
che è più facile mantenere arieggiata e fresca questa stanza.»
Ma certo: il profumo delle erbe. Elsie fece un passo indietro, con lo
stomaco che le si stringeva. Voleva ricordare Rupert sorridente ed
elegantissimo, com’era sempre stato, non come una bambola senza vita in
esposizione.
Si schiarì la voce. «Capisco. E almeno i vicini non dovranno vagare per la
casa, quando verranno a porgere le condoglianze.» Tornò a galla la
spaventosa irrequietudine che l’aveva posseduta quando aveva ricevuto la
notizia della morte di Rupert, ma riuscì a reprimerla. Non voleva lasciarsi
inghiottire dal dolore o dall’amarezza; voleva soltanto fingere che non fosse
mai, mai accaduto.
«Non mi pare che ci siano molti vicini.» Jolyon si appoggiò alla balaustra.
«Soltanto il vicario ha fatto tutta questa strada.»
Una cosa tremendamente triste. A Londra c’erano uomini che sarebbero
stati onorati di salutare Rupert per l’ultima volta. Ancora una volta rimpianse
che non l’avessero trasportato in città per una sepoltura con tutti i crismi, ma
Jolyon aveva detto che era impossibile.
Sarah si avvicinò alla bara e sbirciò dentro. «Ha l’aria di essere finalmente
in pace. Caro Rupert, se lo merita.» Si girò verso Elsie e le tese una mano.
«Venga, signora Bainbridge, e guardi.»
«No.»
«Va tutto bene. Venga. Le farà bene vedere com’è sereno. La aiuterà a
superare il lutto.»
Ne dubitava seriamente. «Non voglio.»
«Signora Bainbridge…»
Un ciocco scoppiettò nel camino. Elsie lanciò un gridolino e sobbalzò in
avanti. Una pioggia di scintille le sfiorò la gonna e si spense in cenere prima
di arrivare al tappeto. «Mio Dio.» Si portò una mano al petto. «Questi vecchi
caminetti. Potevo finire bruciata viva.»
«Non credo proprio.» Jolyon si passò le dita tra i capelli. «Dobbiamo
portarti di sopra prima che arrivi la servitù e… Elsie? Elsie, mi stai
ascoltando?»
Era stato per via di quel balzo per allontanarsi dal fuoco. Ora era
abbastanza vicina da vedere il profilo di Rupert emergere dal raso bianco: la
punta grigio-azzurrina del naso; le ciglia; i ricci dei capelli sale e pepe. Era
troppo tardi per distogliere lo sguardo. Avanzò appena, muovendo ogni passo
con la cautela che avrebbe messo nell’avvicinarsi a un bambino
addormentato. A poco a poco, l’alta parete della bara si abbassò.
Restò subito senza fiato. Non era Rupert. Non proprio. Davanti a lei c’era
un’imitazione, fredda e impersonale come un’effigie di pietra. I capelli erano
perfettamente oliati e pettinati, non c’era più traccia del ricciolo che ricadeva
sempre sopra l’occhio sinistro. I capillari spezzati che gli avevano adornato la
guancia avevano una vaga sfumatura grigia. Perfino i baffi sembravano
posticci e sporgevano prominenti dalla pelle inaridita.
Il solletico di quei baffi. Lo sentì ancora sulla guancia, sotto il naso.
Quando la baciava lei scoppiava sempre a ridere. Quella risata era un regalo
di Rupert. Le pareva sbagliato stargli accanto così solenne e muta. A lui non
sarebbe piaciuto.
Mentre il suo sguardo si spostava sul mento e sui puntolini di una barba
che ora non sarebbe più cresciuta, sulla pelle notò delle macchioline azzurre
che le ricordarono l’infanzia, quando si succhiava forte le dita dopo essersele
punte con l’ago.
Ma certo, erano schegge. Ma perché mai aveva delle schegge in faccia?
«Elsie.» Jolyon parlò in tono fermo. «Dobbiamo salire. Domani avrai tutto
il tempo di dirgli addio.»
Lei annuì e si strofinò gli occhi. Non le fu difficile staccarsi da lì.
Nonostante quello che poteva pensare Sarah, guardare dentro una bara non
somigliava affatto a dire addio a suo marito. Il momento giusto era passato
insieme al suo ultimo respiro. In quel catafalco c’era soltanto una pallida
ombra dell’uomo che era stato Rupert Bainbridge.

Ci vollero due piani di scale prima di perdere di vista le travi del salone ed
emergere su un pianerottolo. Erano accese soltanto poche lampade, che a
tratti mandavano una fiammata rivelando una tappezzeria in damasco rosso.
«Da questa parte» disse Jolyon svoltando a sinistra.
Elsie lo seguì sollevando a ogni passo nuvolette di polvere, mentre la
gonna umida sfiorava i tappeti. Il corridoio aveva un’aria di squallida
grandeur. Contro le pareti si annidavano divani foderati di tela gobelin e tra
l’uno e l’altro spiccavano dei busti in marmo scheggiato. Erano orribili e la
guardavano con espressioni morte, mentre le loro ombre strisciavano sugli
zigomi e sprofondavano nelle orbite dei loro occhi. Non riconobbe nessuno
scrittore o filosofo famoso. Che fossero i precedenti proprietari di The
Bridge? Indagò quelle facce impassibili alla ricerca di una somiglianza con
Rupert, ma non ne trovò.
Jolyon girò a destra e poi di nuovo subito a sinistra. Si ritrovarono di fronte
a una porta ad arco. «Questa è la suite degli ospiti» spiegò lui. «Ho pensato
che sarebbe stata comoda per lei, signorina Bainbridge.»
Sarah sbatté le palpebre. «Una suite, tutta per me?»
«Esatto.» E le rivolse un sorrisetto tirato. «Il suo baule è dentro. Io dormo
in fondo al corridoio, vicino alle scale della servitù.» Fece un gesto con il
braccio. «La signora Bainbridge starà in una suite identica nell’altra ala.»
Elsie sgranò gli occhi. Una suite identica. Era davvero scesa a quel livello?
«Che meraviglia. Saremo proprio come gemelle.» Cercò di non far trapelare
l’acidità del tono, ma non ci riuscì.
«Ora mi sistemo» disse Sarah, in imbarazzo. «E poi vengo ad aiutarla a
vestirsi, signora Bainbridge.»
«Si prenda tutto il tempo che le serve» disse Jolyon. «Ora faccio vedere a
mia sorella la sua stanza. Poi ceneremo insieme.»
«Grazie.»
Afferrando Elsie per il braccio, la costrinse a seguirlo da dov’erano venuti.
«Non devi trattare Sarah come una serva» borbottò.
«Non lo faccio, infatti, visto che non lavora per guadagnarsi da vivere. È
una zitella che è qui grazie alla mia generosità, no?»
«Era l’unica parente che Bainbridge aveva.»
Elsie gettò indietro la testa. «Non è vero. La famiglia di Rupert ero io. Ero
io la sua parente più prossima.»
«Oh, sì, e sei riuscita a convincerlo bene.»
«E con questo cosa vorresti dire?»
Jolyon rallentò e si fermò. Si guardò alle spalle, per controllare che non ci
fossero domestici che indugiavano nell’ombra. «Scusami. È stato volgare da
parte mia. Non è colpa tua. Ma credevo che prima del matrimonio io e
Bainbridge ci fossimo accordati su cosa sarebbe successo esattamente in
questa situazione. È stato un patto tra gentiluomini. E invece Bainbridge…»
In Elsie crebbe il disagio. «Cosa intendi?»
«Non te l’aveva detto? Un mese prima della sua morte ha cambiato il
testamento. Me l’ha letto il suo notaio.»
«E cosa diceva?»
«Ha lasciato tutto a te. Tutto. La casa di Londra, The Bridge, la sua quota
della fabbrica di fiammiferi. Nessun altro beneficiario.»
Ma certo. Un mese prima: quando lei gli aveva detto del bambino.
E pensare che dopo tutto quello che aveva passato era riuscita a sposare un
uomo premuroso, prudente… e l’aveva perduto. Che sbadata, avrebbe detto
la mamma. Tu fai sempre così, Elisabeth.
«Trovi strano che abbia cambiato il testamento? Sono sua moglie e ho in
grembo suo figlio. Io lo trovo un accorgimento perfettamente naturale.»
«E lo sarebbe. Se fossero passati un paio d’anni non avrei avuto nulla da
obiettare.» Scuotendo la testa, proseguì lungo il corridoio.
Lei cercò di stargli dietro, incapace di concentrarsi sulla strada; le pareti
rosso vino sembravano gonfiarsi come tende. «Non capisco. Rupert si è
comportato come un angelo. Questa è la risposta alle mie preghiere.»
«No, non lo è. Rifletti, Elsie, rifletti! Da fuori, come appare? Un uomo che
tutti pensavano votato a una vita da scapolo sposa una donna più giovane di
dieci anni e investe nella fabbrica di suo fratello. Cambia il testamento e la
rende la sua unica erede. Poi, soltanto un mese dopo, muore. Un uomo che
pareva forte come un bue muore, e nessuno sa perché.»
Nel petto le si formarono dei cristalli di ghiaccio. «Non essere ridicolo.
Nessuno vuole insinuare…»
«Oh, lo stanno insinuando eccome, te lo garantisco. E lo stanno anche
dicendo in giro. Pensa alla fabbrica di fiammiferi. Pensa al mio buon nome!
Sono io che devo reggere il timone in questa tempesta di pettegolezzi, e da
solo.»
Elsie barcollò. Ecco perché Jolyon aveva voluto che andasse in campagna,
ecco perché si era rifiutato di riportare a Londra il corpo di Rupert per la
sepoltura: scandalo.
Se lo ricordava, l’ultimo scandalo. I poliziotti con i loro elmetti di ferro che
si appuntavano dichiarazioni. I sussurri che la seguivano come uno sciame di
mosche e quegli sguardi famelici, aguzzi. Era andato avanti per anni. E ce ne
sarebbero voluti altrettanti perché svanisse.
«Santo Dio, Jo. Quanto dovremo restare in questo posto, il bambino e io?»
Lui fece una smorfia e per la prima volta Elsie si rese conto del dolore che
gli scintillava negli occhi. «Maledizione, ma che cos’hai? Ti sto parlando di
una macchia sul tuo nome, sulla fabbrica, e tu riesci solo a pensare a quanto
starai lontana da Londra. E Rupert ti manca mai?»
Le mancava come l’aria. «Sai benissimo che mi manca eccome.»
«Be’, devo dire che sei bravissima nel nasconderlo. Era un uomo buono,
un uomo eccezionale. Senza di lui avremmo perduto la fabbrica.»
«Lo so.»
Lui si fermò in fondo al corridoio. «Questa è la tua camera. Forse una volta
che ti sarai sistemata avrai la decenza di piangerlo.»
«Lo sto piangendo» sbottò lei. «Però lo faccio in maniera diversa da te.»
Lo scostò, spalancò la porta e poi se la sbatté alle spalle.
Chiuse gli occhi e si appoggiò al battente, i palmi appiattiti sul legno, poi
espirò e scivolò sul pavimento. Jolyon era sempre stato così. Non doveva
prendere alla lettera le sue parole. Aveva dodici anni meno di lei ed era stato
sempre libero di sentire, di piangere. Era stata Elsie quella che aveva tenuto
duro. E non era forse lì il senso di tutto questo? Mantenere Jolyon all’oscuro
di quanto lei aveva sofferto?
Dopo qualche minuto riacquistò la padronanza di sé. Si strofinò la fronte e
aprì gli occhi. Aveva davanti una stanza pulita e luminosa con finestre su due
lati, una rivolta verso il semicerchio di alberi rossastri che circondavano la
casa e l’altra orientata verso l’ala ovest, dove dormiva Sarah. I suoi bauli
erano ammucchiati in un angolo. Nel caminetto crepitava il fuoco ed Elsie
vide con sollievo che lì accanto c’era un portacatino. Dalla brocca si levavano
volute di vapore. Acqua bollente.
Sentì distintamente all’orecchio la voce della mamma. Che ragazzina
sciocca, a fare tante storie. Laviamo via tutti quei brutti pensieri.
Si rimise in piedi, si tolse i guanti e andò a spruzzarsi un po’ d’acqua in
viso. Le passò subito il bruciore agli occhi e l’asciugamano che usò per la
pelle era meravigliosamente morbido: quel posto poteva anche avere dei
difetti, ma non era certo colpa della governante.
Contro la parete opposta incombeva un enorme letto a baldacchino in
palissandro, su cui erano stese lenzuola color crema ricamate a fiori. Poi c’era
la toletta, con lo specchio a tre ante velato di stoffa nera. Sospirò. Era il primo
specchio che vedeva da quand’era partita dalla stazione. Era arrivato il
momento di valutare i danni di quel ruzzolone nel fango.
Rimise l’asciugamano sulla bacchetta, si avvicinò e sedette sullo sgabello.
Scostò la stoffa nera. Era una superstizione assurda: coprire gli specchi per
impedire ai morti di restare intrappolati. Nel vetro non c’era niente, a parte tre
donne dai capelli biondi con gli occhi castani, tutte e tre in condizioni pietose.
Il velo impalpabile le svolazzava sulla nuca come un corvo impigliato in una
rete. Aveva la fronte circondata da ricci scompigliati dal vento e, nonostante
il rapido lavacro, sulla guancia destra era rimasta una macchia di fango. Elsie
grattò fino a farla sciogliere. Grazie a Dio si era rifiutata di incontrare la
servitù.
Lentamente sollevò le braccia stanche per togliersi cappello e cuffietta e
iniziò il lungo procedimento di sfilarsi le forcine dai capelli. Le sue dita non
erano più agili come una volta, ormai si era abituata a lasciar fare a Rosie. Ma
Rosie e tutte le comodità della sua vita passata erano lontane mille miglia.
Una forcina si impigliò in un nodo e la fece sussultare. Lasciò ricadere le
mani, irritata in maniera eccessiva per quel piccolo contrattempo. «Com’è
potuto succedere?» domandò alle donne trasandate che aveva davanti. Non
ottenne risposta.
Lo specchio era freddo e duro. Non conteneva la sposa graziosa e
sorridente che aveva visto fino a poco tempo prima. Senza preavviso, la
memoria portò a galla un ricordo: Rupert, in piedi alle sue spalle quella prima
notte, che le spazzolava i capelli. La sua espressione orgogliosa, i lampi
argentei della spazzola. Una sensazione di calore e fiducia, così rara, aveva
pensato contemplandone l’immagine specchiata. Avrebbe potuto amarlo.
Il matrimonio era un contratto d’affari, stipulato per assicurarsi
l’investimento di Rupert nella fabbrica di fiammiferi, ma quella notte l’aveva
guardato con sincerità e si era resa conto che avrebbe potuto imparare a
volergli bene. Con il tempo. Purtroppo, il tempo era l’unica cosa che non
avevano avuto.
Qualcuno bussò alla porta facendola trasalire.
«Bottoni?» La voce di Sarah.
«Sì. Entra.»
Sarah si era cambiata e al posto dell’abito da viaggio ne indossava uno da
sera che aveva visto giorni migliori. Era stato tinto di nero ma in maniera
irregolare, a macchie. Era quasi impresentabile, ma almeno si era acconciata
quei capelli color topo. «Ha scelto un vestito? Potrei chiedere a una delle
cameriere se c’è un ferro…»
«No. Per favore, tirami fuori una camicia da notte.» Se Jolyon la voleva in
lutto, l’avrebbe accontentato. Si sarebbe comportata esattamente come aveva
fatto lui, dopo la mamma. Così avrebbe imparato. Avrebbe capito quant’era
irritante e inutile che lei si chiudesse di sopra a piagnucolare.
L’immagine di Sarah riflessa nello specchio si tormentava le mani. «Ma…
la cena…»
«Io non scendo. Non ho appetito.»
«Ma… ma io non posso cenare sola con il signor Livingstone! Cosa
direbbe la gente? Ci conosciamo appena!»
Seccata, Elsie si alzò e andò a prendersi da sola una camicia da notte.
Sarah era davvero stata una dama di compagnia? Avrebbe dovuto evitare di
starsene lì a discutere con la sua padrona. «Che assurdità. Vi sarete parlati al
matrimonio.»
«Io al suo matrimonio non c’ero. La signora Crabbly era malata. Non se lo
ricorda?»
«Oh.» Elsie recuperò una camicia da notte dal baule e si accertò di avere
l’espressione giusta prima di girarsi. «Certo che no. Devi perdonarmi. Quel
giorno…» Guardò la camicia di cotone bianco che aveva in mano. «Tutto si
confonde in una nebbia di felicità.»
Pizzi di Honiton, fiori d’arancio. Non aveva mai pensato che sarebbe
diventata una sposa. Dopo i venticinque anni, una donna mette da parte certe
fantasie. Per Elsie, quella prospettiva era ancora meno probabile. Aveva
rinunciato a trovare qualcuno di cui potersi fidare, ma Rupert era diverso.
C’era qualcosa nell’aria che lo circondava, un’aura di innata bontà.
«Capisco» disse Sarah. «Ora venga qui. Adesso diamo un’occhiata a quel
vestito.»
Elsie avrebbe voluto cambiarsi da sola, ma non ebbe scelta. Non poteva
certo dire alla cugina di Rupert che possedeva un allacciabottoni: era un
accessorio che usavano soltanto le prostitute.
Sarah lavorava con destrezza, le sue dita si muovevano sulle spalle di Elsie
e giù fino alla vita come una pioggerellina impalpabile. L’abito le cadde nelle
mani con un fruscio. «Che materiale finissimo. Spero che il fango venga via
lavandolo.»
«Forse puoi farmi un favore e portarlo di sotto. Per una corona, ci sarà pure
una sguattera in grado di metterlo nel paiolo senza raccontarlo a nessuno.»
Sarah annuì. Ripiegò l’abito e se lo strinse al petto. «E… il resto?» Lanciò
uno sguardo schivo all’intelaiatura di sottovesti, molle d’acciaio e cerchi in
cui Elsie era racchiusa. «Riuscirà a cavarsela…?»
«Oh, sì.» Imbarazzata, Elsie toccò i nastri che tenevano legata la crinolina.
«Non ho sempre avuto una cameriera personale, sai.»
Furono il silenzio e l’immobilità di Sarah a farle accapponare la pelle.
Aveva gli occhi fissi sul suo punto vita, sgranati, più scuri e stranamente
luccicanti.
«Sarah?»
La ragazza si riscosse. «Sì. Molto bene. Vado.»
Elsie si osservò, confusa. Cos’aveva suscitato quello sguardo? Poi se ne
rese conto con un sussulto doloroso: le sue mani. Si era sfilata i guanti per
lavarsi il viso e ne aveva rivelato tutta la squamosa bruttezza. Erano mani
indurite dal lavoro, dalla fabbrica. Non erano mani da signora.
Ma prima che potesse dire qualcosa in sua difesa, Sarah aveva aperto la
porta ed era uscita.
Ospedale di St Joseph

Comparve durante la notte. Lei lo vide non appena sollevò la testa dal
cuscino e si strofinò gli occhi cisposi. Alieno. Sbagliato.
Scese barcollando dal letto, i piedi si posarono sulla superficie gelida del
pavimento. Socchiuse gli occhi. Guardarlo faceva male, c’era troppa luce, ma
non osò distogliere lo sguardo. Giallo. Marrone. Linee e forme turbinanti.
Era arrivato a sua insaputa. Se avesse guardato altrove, si sarebbe mosso di
nuovo? Anche se era muto ebbe l’impressione che urlasse, che le esplodesse
dentro la testa.
Non poteva tornare a dormire; doveva tenerlo a bada. La luce del giorno
filtrava dalle finestre collocate in alto, cruda e calcinata, come le pareti. I
raggi strisciarono sul pavimento, e poi la sorpassarono. Finalmente la porta si
aprì con un clic.
«Signora Bainbridge.»
Era il dottor Shepherd.
Senza voltarsi, lei sollevò la mano tremante e tese l’indice.
«Oh. Ha visto il quadro.» Le si mise accanto, con un lieve spostamento
d’aria. «Spero che le piaccia.»
Il silenzio si prolungò.
«Rischiara questo posto, non trova? Ho pensato che, dal momento che non
le è permesso accedere alla sala comune e al cortile esterno come agli altri
pazienti, forse gradiva un po’ di colore.» Pareva a disagio. «Il nostro ospedale
sta prendendo proprio questa direzione. Non vogliamo più costringere i
pazienti a vivere in celle spoglie. Questo è un luogo di recupero e deve
contenere elementi allegri e stimolanti.»
In quel frangente capì che cosa aveva cercato di ritrarre l’artista: una
nursery. Un luogo pieno di sole in cui una madre scrutava teneramente dentro
una culla. Aveva un abito che sembrava una giunchiglia, i capelli parevano
oro filato. Sul tavolo accanto al bambino c’era un vaso pieno di rose bianche.
«Ma… il quadro la turba, signora Bainbridge?»
Lei annuì.
«E perché mai?» Il dottore andò a prendere la lavagnetta, le scarpe
scricchiolarono. Per scrivere la sua storia era meglio la matita, ma gesso e
lavagna rendevano più facile la conversazione. Lui glieli mise in mano. «Mi
spieghi.»
Ancora. La stava dissezionando, un pezzetto alla volta. Probabilmente era
questo che aveva in mente. Strapparle ogni centimetro di sé: un’altra
confessione, un altro ricordo, fino all’esaurimento.
Arrivavano già di notte: sogni che in realtà erano squarci di una vita
precedente. Paesaggi di sangue, legno e fuoco. Non li voleva. Quanto indietro
nel suo squallido passato doveva tornare prima che lui la considerasse
squilibrata e la lasciasse in pace?
«Non le piacciono i colori? Non le rallegra lo spirito, non le ricorda giorni
migliori?»
Lei scosse la testa. Giorni migliori. Dava per scontato che li avesse avuti.
«Mi dispiace di averle causato sofferenza. Mi creda, la mia intenzione era
solo di farle piacere.» Sospirò. «Vuole sedersi? Quando avremo finito farò
portare via il quadro.»
Con lo sguardo puntato a terra, lei tornò faticosamente al letto e si sedette,
stringendo forte gesso e lavagna come se fossero armi. Come se potessero
difenderla.
«Non se la prenda per questa piccola sconfitta» disse. «Io sono contento
dei suoi progressi. Ho letto quello che ha annotato. Vedo che ha seguito il
mio consiglio e ha scritto come se quelle cose fossero capitate a qualcun
altro.» Non riusciva a guardarlo; sentiva fortemente la presenza del quadro,
appeso al muro. Le pennellate, la cornice. Lui emise una risatina forzata. «La
memoria è una facoltà ingannevole. Sono buffi i dettagli che ha ricordato, sa?
Quella vacca…»
Lei prese in mano il gesso, ancora esitante. LA VACCA NON ERA
BUFFA PER NIENTE.
Lui chinò la testa. «Non intendevo… voglia perdonarmi. È stato sbagliato
ridere, da parte mia.»
SÌ.
Ma in realtà gli invidiava quella risatina. Gli invidiava che potesse ancora
ridere.
Risate, conversazioni, musica: tutte cose che le sembravano cimeli, attività
che potevano avere intrapreso i suoi antenati, tanti anni prima, ma che per lei
non avevano alcun significato.
Guardò di nuovo la scrivania.
«La vedo fissare intensamente la scrivania. Cos’è che la disturba?»
Le dita le tremavano mentre scriveva. LEGNO.
«Legno. Non le piace il legno?»
Quella parola evocò altri suoni: il sibilo di una sega, una porta che si
chiudeva di colpo.
«Interessante. Molto interessante. Ma certo, dopo l’incendio e le sue
ferite… è per questo?»
Lei lo guardò sbattendo le palpebre.
«Forse è per questo che non le piace il legno. Perché le ricorda l’incendio.
Perché brucia.»
L’incendio?
Era troppo veloce. Viveva a un ritmo tre volte più rapido del suo mondo
drogato, subacqueo. Era per questo che aveva le braccia ricoperte di cicatrici,
e che non le davano mai uno specchio? Era finita in un incendio?
«Ovviamente potrebbero esserci altri motivi. Ho esaminato la sua cartella.»
Per la prima volta notò i fogli che aveva sottobraccio. Lui li dispose sulla
scrivania: il suo passato era tutto lì, nudo, come un corpo sulla lastra di
marmo dell’obitorio. «Vedo che è cresciuta in una fabbrica di fiammiferi.
Prima apparteneva a suo padre, e alla sua morte è stata affidata a un fondo
fiduciario finché lei e suo fratello non avete raggiunto la maggiore età.
Immagino che in una fabbrica di fiammiferi abbia visto parecchio legno e
fuoco.»
Anche questo? Ma allora non c’era più nulla di sacro: bisognava riportare a
galla tutto quanto.
Nel petto le sbocciò il dubbio e lui dovette accorgersene, perché aggiunse:
«Spero che capisca che non è una curiosità oziosa ad alimentare le mie
indagini. E nemmeno il desiderio di curarla, anche se mi auguro di riuscirci
comunque. L’ospedale e la polizia mi hanno incaricato di scrivere una
relazione». Prese due fogli dalla scrivania e si avvicinò. «Quando lei è
arrivata qui, non è stato possibile interrogarla. Le sue ferite erano troppo
gravi.» Le fece vedere il primo documento: un ritaglio di giornale con un
disegno. L’immagine sgranata di una persona ricoperta di bende e macchie
scure dove il sangue era filtrato dalla stoffa. «Ma ora lei fisicamente, se non
mentalmente, si è ripresa ed è diventato piuttosto importante stabilire le cause
dell’incendio.»
Ma intendeva forse dire… quella mummia nel disegno non poteva essere
lei! Fu colta dal panico. Il giornale era di più di un anno prima. Era passato
tutto quel tempo, eppure lei non ricordava molto, a parte una vacca e i visi di
alcune sagome di legno dipinte.
Il dottore le si sedette accanto, sul letto. Lei si ritrasse. Il calore del suo
corpo, il suo odore… era troppo reale.
«Sono stati rinvenuti i resti di quattro corpi. Due decessi sono già stati
registrati. Dobbiamo recuperare informazioni sugli altri due.» Si spinse gli
occhiali sul naso. «È probabile che ci sarà un’inchiesta. Date le sue
condizioni attuali, presumibilmente mi verrà chiesto di testimoniare in sua
vece. Ecco perché devo insistere per ottenere queste informazioni da lei.
Scoprire la verità. Voglio aiutarla.»
Continuava a ripeterlo. Ma quelle ripetizioni mandavano un suono falso.
Forse in realtà voleva risolvere il suo caso per fare carriera.
Ma anche se non si fidava di lui, su una cosa aveva ragione: doveva fare
una dichiarazione. Per quanto fosse doloroso, doveva tener duro e ricordare il
resto, altrimenti sarebbe finita a penzolare da un cappio.
Il patibolo non avrebbe dovuto spaventarla. Dio solo sapeva che non le era
rimasto molto per cui vivere. Ma doveva avere un istinto sepolto in
profondità dentro di sé che combatteva come una bestia selvaggia. Non
voleva morire, soltanto dormire, al sicuro, lì dentro. In quel bozzolo di pareti
bianche e farmaci.
Davanti agli occhi le balenarono scintille dorate. Gli occhiali di lui; si era
avvicinato di più e le scrutava il viso. «Magari non ricorda ancora tutto, ma
sono sicuro che tra me e lei possiamo riuscirci, a svegliare la parte dormiente
del suo cervello.»
Lei si spostò e fece cigolare il letto. Accostò il gessetto alla lavagna e
iniziò a scrivere goffamente. Ormai la sua voce era ridotta allo stridio del
gessetto, un suono acuto e abrasivo, privo di parole.
DOV’ERA L’INCENDIO?
Il dottor Shepherd sgranò gli occhi. «Non si ricorda l’incendio? Le ferite?»
Emersero alcune immagini indistinte. Rammentava migliaia di insetti di
dolore che le rodevano la schiena. Una vaga rimembranza di infermiere e
odori medicinali. Era tutto troppo sepolto in profondità: doveva rimuovere
strati su strati se voleva arrivarci con chiarezza.
Il dottor Shepherd le mise una mano sulla spalla e le tolse la lavagna dalle
dita. Per un attimo lei pensò che le avrebbe preso la mano. Poi si rese conto
che voleva mostrarle qualcosa: la pelle lucida e marmorizzata del suo stesso
polso. Dolcemente, rimboccò la manica ruvida della camicia da notte. Intorno
al gomito si gonfiavano delle macchie rosate, deformi e grinzose come frutti
vecchi. Cicatrici impresse a fuoco così a fondo da non poter essere cancellate.
Sì, adesso le vedeva. Erano ustioni. Come aveva fatto a non accorgersene
prima?
«Ecco» disse lui rimettendole a posto il braccio, «questa fotografia è stata
scattata qualche settimana fa. Se lo ricorda?»
Lei ricordava il lampo e il fumo e come le era parso che le esplodessero
dentro la testa. Ma quando lui le fece scivolare in grembo la foto, il viso che
la guardava era quello di una sconosciuta. Era una donna, o almeno
sembravano suggerirlo la camicia da notte a righe e il fazzoletto legato
intorno al collo, ma aveva i capelli rasati, che crescevano a ciuffi da un cuoio
capelluto maculato. Sulle guance la pelle era tesa, scura e irregolare. Un
occhio aveva la palpebra inferiore cascante.
Sotto vide scritto il proprio nome.
ELISABETH BAINBRIDGE. DETENUTA PER PRESUNTO
INCENDIO DOLOSO.
The Bridge, 1865

Qualcuno bussò alla porta ed Elsie sobbalzò, stupefatta dall’ambiente che la


circondava. Il pomeriggio grigio si era scurito nell’antracite di una serata
autunnale. Il fuoco bruciava piano nel caminetto. Soltanto la fiamma di una
candela guizzava sulla toletta, con un rivolo serpeggiante di cera indurita
lungo un lato. La memoria si mise in moto a scatti: era intrappolata in
campagna, e Rupert era morto.
Di nuovo colpi alla porta. Prese i guanti di pizzo e se li infilò. «Avanti»
disse con voce roca. In bocca aveva un sapore stantio. Quanto tempo aveva
dormito?
La porta si aprì con uno scricchiolio. Si sentì un tintinnio di metallo su
porcellana e una giovane donna di bassa statura, di diciott’anni circa, varcò la
soglia di fianco trasportando un vassoio. «Signora.» E lo piazzò sulla toletta,
poi accese la lampada a gas usando la fiammella della candela.
Elsie sbatté le palpebre. Era sicuramente uno scherzo dei suoi occhi: quella
era davvero la sua cameriera? Era lurida per i lavori di cucina, e il grembiule
ruvido era striato di fuliggine. Non aveva un viso del tutto banale; aveva
ciglia lunghe e labbra carnose e rosate che sarebbero state anche belle, ma
erano distorte da un’espressione impertinente. Non portava la crestina. I
capelli scuri erano divisi nel mezzo in una foggia severa e poi si
attorcigliavano dietro le orecchie formando un nodo alla base della nuca. Una
creatura del genere poteva passare per una cameriera in quella parte della
provincia? Se Elsie l’avesse saputo, poco prima non si sarebbe tanto
preoccupata del suo aspetto.
«Signora» ripeté la ragazza. Con un certo ritardo, le rivolse un inchino
goffo. Il vassoio tintinnò. «Il signor Livingstone dice che forse ha fame.»
«Oh.» Non avrebbe saputo dire se fosse vero: il miscuglio degli odori che
si levavano dal vassoio le suscitavano un appetito famelico ma anche la
nausea, in egual misura. «Sì. Molto gentile da parte sua. Vorrei il vassoio
qui.» E si mise un cuscino dietro la schiena.
La ragazza si avvicinò. Non aveva l’andatura cauta della servitù londinese;
il suo passo irruente fece traballare la scodella e traboccare la minestra.
Depositò il vassoio sulle gambe di Elsie con un tonfo, indietreggiò e piegò le
ginocchia in un altro inchino.
Elsie non sapeva se offendersi o trovarla divertente. Quella ragazza era
chiaramente una bifolca. «E tu saresti…?»
«Mabel Cousins. La cameriera.» Aveva un accento strano, qualcosa tra i
suoni nasali del cockney e la pronuncia strascicata delle campagne.
«Signora.»
A Elsie venne in mente che forse a Mabel solitamente non era permesso
salire di sopra. Magari erano alla disperata ricerca di un paio di braccia e
avevano mandato le prime disponibili. Dal modo in cui guardava il mucchio
di vestiti sul pavimento e il colletto di pizzo della sua camicia da notte, dava
l’impressione di non avere mai visto qualcosa di così costoso in tutta la vita.
«Sei la cameriera? O la sguattera di cucina?»
Mabel si strinse nelle spalle. «Solo la cameriera. Siamo io e Helen. Non ce
n’è altri.»
«Bene, allora tu saresti la cameriera addetta a tutto.»
«Se lo dice lei, signora.»
Elsie si sistemò il vassoio in grembo. Dalla superficie di una minestra
giallo-bruna spruzzata di erbe saliva una voluta di vapore. Poi c’erano un
piatto di manzo arrosto e una sostanza granulosa color crema che sembrava
fricassea di pollo. Aveva fame, ma l’idea del cibo le rivoltava lo stomaco.
Con una smorfia impugnò un cucchiaio e lo immerse nella minestra.
Con stupore si accorse che Mabel era ancora lì. Ma cosa mai stava
aspettando? «Puoi andare, Mabel. Non ho bisogno d’altro.»
«Oh.» Almeno aveva la decenza di arrossire. Si asciugò le mani sul
grembiule e fece un altro pessimo inchino. «Mi scusi tanto. A The Bridge non
veniva una signora da quarant’anni. Non siamo abituati.»
Elsie abbassò il cucchiaio e lasciò che la minestra tornasse nel piatto.
«Davvero? Da tutto questo tempo? Che stranezza. Mi chiedo perché.»
«Un sacco di domestici sono morti, credo. Ai vecchi tempi. Così la
famiglia non ha più avuto voglia di vivere qui. In paese ho sentito dire che
all’epoca di re Giorgio hanno trovato uno scheletro sepolto. In giardino!
Roba da matti!»
In realtà in quel giardino c’erano così tante cose morte che non c’era da
stupirsi.
«Davvero. Immagino che tu sia cresciuta a Fayford, no?»
Lo scoppio della risata di Mabel la fece trasalire. La cameriera gettò
indietro la testa come una popolana al music hall.
Non andava bene; non andava bene affatto. «Mi trovi divertente, Mabel?»
ribatté seccata.
«Che Dio la benedica, signora.» Mabel si asciugò un occhio con la cocca
del grembiule. «Qui non lavora nessuno del paese.»
«E perché, di grazia?»
«Hanno paura di questo posto. Gli viene l’umor nero.»
Sentì un cerchio pesante calarle sul collo. Superstizione? Premonizione? Di
qualunque cosa si trattasse, non voleva che Mabel se ne accorgesse. «Be’, mi
sembra molto stupido. Era soltanto uno scheletro. Nulla di cui avere paura,
no?» La cameriera si strinse nelle spalle. «È tutto, Mabel.»
«Benissimo, signora.» Si girò senza inchinarsi, spense la lampada e uscì a
grandi passi dalla porta, senza nemmeno disturbarsi a chiuderla.
«Mabel!» gridò Elsie. «Per sbaglio hai spento la luce, non riesco a…»
Ma già udiva i piedi piatti della cameriera scendere rumorosi le scale.

Nessuno venne a chiudere la porta o a ritirare il cibo. Per disperazione, Elsie


abbassò il vassoio intatto sul pavimento e si abbandonò sui cuscini.
Quando si svegliò, la stanza era nera come un velo vedovile. Il fuoco si era
smorzato e l’aria era diventata gelida. Nell’aria restava ancora sospesa la
puzza di quella maledetta minestra, che le faceva contorcere lo stomaco.
Come poteva la cameriera lasciarla lì a marcire e inacidire? La mattina dopo
avrebbe fatto quattro chiacchiere con la governante.
Fu allora che lo sentì: un grattare basso, simile al rumore di una sega sul
legno. Si irrigidì.
L’aveva sentito davvero? Al buio i sensi potevano giocare brutti scherzi.
Ma poi eccolo di nuovo. Sss.
Quella sera non voleva dover affrontare un altro problema. Sicuramente se
si fosse coperta bene e avesse chiuso forte gli occhi, quel rumore se ne
sarebbe andato. Sss, sss. Un suono ritmico e abrasivo. Sss sss, sss sss. Ma
cosa poteva essere?
Si tirò le coperte fin sopra le orecchie per attutirlo. Finalmente il suono si
interruppe. Inclinò la testa, appesantita dalla stanchezza. Sarà stata una
sciocchezza, magari gli animali nel bosco. Non era in grado di riconoscerne i
versi, aveva sempre dormito in città. Ora era calato il silenzio e poteva
riaddormentarsi…
Sss, sss. Si svegliò di scatto, tutto il corpo percorso come da una scarica
elettrica. Sss. Denti che attaccano il legno. Che raspano.
Alla cieca, tastò sotto il cuscino alla ricerca della sua scatola di fiammiferi.
Non c’era. Ma certo che non c’era, non aveva ancora disfatto i bagagli. Senza
quella scatolina la mano le sembrava vuota e vulnerabile. Doveva stare
attenta a non assecondare il crescendo del panico.
Rischiando di cadere dal letto, procedette a tentoni nel buio in cerca di un
rubinetto del gas, un acciarino, qualcosa. Le sue dita incontrarono solo la cera
indurita delle candele ormai squagliate. Sss, sss.
L’oscurità era assoluta e i suoi occhi si rifiutavano di abituarsi. Non era
come Londra; fuori non c’erano lampioni. Fu costretta a procedere a tentoni,
con le mani protese in avanti. La gamba della toletta, una forma elastica e
rotondeggiante: un cerchio della sua crinolina. Ci girò faticosamente intorno,
le orecchie tese alla ricerca di quel suono. L’immobilità pesava e sembrava
carica, come in attesa.
Abbassò la mano e la sentì sprofondare in qualcosa. Si ritrasse e lanciò un
grido. Udì uno schianto e del liquido le inzuppò la camicia da notte. Odori di
pollo e manzo annunciarono che era finita dritta sopra il vassoio della cena.
Sss, sss. Elsie si allontanò dal vassoio. Nero, soltanto nero davanti agli
occhi. Come avrebbe fatto a uscire da quella stanza?
Finalmente intravide un’ombra grigia. Vi si avvicinò strisciando e tastò
una superficie solida. La porta. Si rimise in piedi a stento, si aggrappò alla
maniglia e aprì.
Nel corridoio c’era più luce. Fece qualche passo fuori, i piedi
sprofondavano nel tappeto polveroso. Mentre avanzava si levavano delle
nuvolette.
Non scorse nulla che le suggerisse da dove arrivasse quel rumore. Tutto era
immobile. La luce della luna entrava dalla torre nolare formando sbarre
argentee, e i busti di marmo brillavano.
Sss, sss. Elsie andò verso quel suono. Doveva fermarlo: non sarebbe mai
riuscita a dormire, con quel fracasso. Sss, sss. Era più veloce, frenetico. Si
mise a camminare imitandone il ritmo, svoltò oltre la galleria e verso le scale.
Ne era sicura: veniva da sopra.
I gradini conducevano a un pianerottolo stretto con le pareti intonacate di
bianco. L’ultimo piano della casa, che per tradizione ospitava la servitù.
Seguì quel suono lungo un corridoio, oltre la torre nolare, fino a quando il
faro della luna non si offuscò diventando un chiarore opaco. Il pavimento
morbido cedette il passo a delle maioliche fredde. Rabbrividì, pentendosi di
non essersi portata uno scialle o una coperta. Così, vestita soltanto di cotone e
pizzo, si sentiva vulnerabile.
Si fermò a riposare e a riprendere il controllo. Più avanti sulla parete
spiccava un cerchio giallo sfocato.
Sss, sss. Il rumore era più vicino. Fece un passo avanti… e sentì qualcosa
sfiorarle la gamba.
«Maledizione!» gridò. Vacillò, e quasi perdette l’equilibrio. «Maledizione,
maledizione.»
Dalle maioliche si levò un ticchettio minuto. Non osò guardare giù per
capire che origine avesse.
Quel rumore di raspa, di sega ormai la circondava, come la voce di Dio. E
appena sotto, un ritmo incessante. Dei passi.
Un globo giallo fluttuava nell’oscurità e le si accostava.
Elsie si irrigidì, non sapendo bene cosa aspettarsi.
Il globo era sempre più vicino. Dietro incombeva la sagoma di una donna,
la cui ombra si allungava sulle maioliche ai suoi piedi. Vide Elsie, trasalì e
ancora una volta precipitarono nel buio.
Sss, sss. Di nuovo il suo polpaccio fu sfiorato da qualcosa di liscio e
tiepido. Stavolta Elsie lanciò un grido.
«Signora Bainbridge?» Si udì un rumore di stoffa strappata, come quando
si strofina un fiammifero. Nell’alone guizzante comparve il volto di una
donna. Aveva superato la mezza età e la pelle era increspata dalle rughe.
«Santo cielo! È lei, signora Bainbridge, a quest’ora? Mi ha spaventato. Mi si
è spenta la candela.»
Le labbra di Elsie tremolarono, cercando di emettere un suono. «Sono
venuta… quel rumore…» Mentre parlava, quel terribile sss, sss ricominciò.
La donna annuì. Alla luce della fiamma aveva gli occhi umidi e itterici,
quasi le iridi nuotassero nel miele. «Le faccio vedere qual è il problema,
signora. La prego di seguirmi.»
Si girò portandosi dietro la candela. Dopo quell’istante di luce, l’oscurità
era ancora più spaventosa. Nella sua fantasia sfinita, Elsie immaginò alle
proprie spalle il ritmo felpato di un altro paio di piedi.
«Io qui sono la governante, signora Bainbridge. Mi chiamo Edna Holt.
Avevo sperato di conoscerla in circostanze più consone, ma non posso farci
niente.» Aveva una voce gentile e rispettosa, senza l’orribile pronuncia
strascicata di Mabel. Elsie ne seguì il suono, come una fune che la teneva
legata a un mondo di realtà e servitù, e non a quel fantasmagorico universo
che ribolliva nella sua immaginazione. «Mi auguro che lei stia un pochino
meglio ora, signora. Ho sentito che stava poco bene.»
«Sì. Sì, avevo solo bisogno di dormire. Ma poi…» Quel raspare la
interruppe. Sibilava e grattava e la signora Holt si fermò in fondo al corridoio
vicino a una rampa di scale di legno.
Cosa poteva essere? La sega circolare della fabbrica emetteva un rumore
simile, ma rapido, più sincopato. Questo invece era prolungato. Uno strappo
lento, lentissimo.
Qualcosa le scivolò sui piedi e nel passare le fece il solletico alle gambe.
Soffocò un grido. Davanti a loro, sulle scale, si muoveva una sagoma piccola
e scura. «Signora Holt! Ha visto?» Due fessure di un verde luminescente si
materializzarono accanto alla porta in cima alle scale. A Elsie il respiro
rimase strozzato in gola. «Che Dio ci protegga.»
«Lo so» disse la signora Holt in tono comprensivo. Ma non stava
guardando Elsie: aveva gli occhi fissi sulla porta. «Lo so, Jasper. Adesso
scendi.»
Le forme divennero più definite: Elsie scorse un gattino nero scendere un
paio di gradini per mettersi accanto alla signora Holt. Un gatto. Non si era
mai sentita così stupida.
«Credo che siano i ratti, signora. O magari scoiattoli. Qualcosa con i denti.
Fanno impazzire il povero Jasper.»
Il gatto camminava loro intorno descrivendo un cerchio di protezione e
dalla sua gola si levava un borbottio. Manto e coda sfioravano gli orli delle
due donne.
«Be’» disse Elsie recuperando l’uso della voce, «dobbiamo trovare un
uomo che venga a dare un’occhiata. Si fa presto a ripulire un nido.»
«Ah, signora, ma il problema è proprio quello.» Con la mano libera la
signora Holt si staccò dalla cintura un mazzo di chiavi e le sollevò. «Il solaio
è stato chiuso molti anni fa, prima che arrivassi io. Nessuna di queste chiavi è
quella giusta.»
«Vuole dirmi che non c’è modo di entrare?» La governante scosse la testa.
«Allora qualcuno deve buttare giù la porta con un’ascia. Non posso
permettere a quelle creature di annidarsi indisturbate. Pensi che danni
potrebbero arrecare alla struttura dell’edificio! Potrebbe crollarci tutto
addosso.»
La candela danzava sotto il suo respiro. Non riusciva a intravedere
l’espressione della signora Holt. «Non si agiti, signora. Non possono avere
fatto tanti disastri. Li ho sentiti solo nelle ultime settimane. Anzi, da quando è
arrivato il padrone.»
Si immobilizzarono entrambe. Elsie fu a un tratto consapevole della
presenza del cadavere, tre piani più sotto, forse esattamente nel punto dove i
suoi piedi si arcuavano per sfuggire al gelo delle maioliche. Si strinse le
braccia al corpo. «E cos’ha detto il signor Bainbridge al riguardo?»
«Un po’ quello che ha detto lei, signora. Doveva scrivere a Torbury St
Jude per farsi mandare un uomo… non so se poi l’abbia fatto.»
Tutte le lettere mai spedite, le parole mai pronunciate. Era come se Rupert
avesse abbandonato una festa nel bel mezzo di un ballo. Moriva dalla voglia
di vederlo arrivare a renderle semplici le cose, a toglierle quel fardello dalle
spalle.
«Be’, signora Holt, domattina controllerò in biblioteca e vedrò cosa riesco
a trovare. Se non avrò fortuna, scriverò io stessa.»
La governante tacque un istante. Quando riprese a parlare, la sua voce era
infinitamente più morbida, una carezza verbale. «Molto bene, signora.
Adesso è meglio che le faccia strada con la lampada fino al letto. Domani
sarà una giornata molto lunga e faticosa, Dio solo sa quanto.»
Per un attimo Elsie si domandò cosa volesse dire. Poi fu travolta dalla
consapevolezza: stavano aspettando soltanto lei. Il giorno dopo avrebbero
sepolto Rupert.
Le si piegarono le ginocchia. La mano libera della signora Holt si spostò
rapida sotto il suo gomito. «Attenzione, signora.»
A un tratto si rese conto di essere in camicia da notte, con le gambe umide
di minestra e intingolo, che il gatto stava leccando con la sua linguetta.
Disgustoso.
Pensò alla confusione della sua camera da letto, e a quella che aveva creato
con Jolyon. Le palpebre cominciarono a pesarle. «Credo che lei abbia
ragione, signora Holt. Meglio che torni a dormire.»

Il cielo era di un azzurro freddo e duro, senza nuvole. Un vento sostenuto


teneva gli alberi in costante movimento. Sui sentieri erano disseminati i
coriandoli verdi, gialli e marroni delle foglie, che scrocchiavano quando
venivano schiacciate dalle ruote della carrozza. Elsie restò stupefatta nel
constatare quanto riusciva a vedere lontano, perfino sprofondata dietro il suo
velo vedovile. Nell’aria non c’erano frammenti di fuliggine; la luce non era
soffocata da un drappo di fumo di carbone. La cosa la snervava.
«Sì, questo è il giorno giusto per Rupert» sospirò Sarah. «Affaccendato e
luminoso, proprio come lui.» La sua faccia allungata e cavallina sembrava
ancora più brutta del giorno prima, smunta e con le occhiaie, perché aveva
vegliato tutta la notte accanto al cadavere di Rupert.
Elsie si pentì di non avere vegliato anche lei. Nel salone, proprio in fondo
alla casa, non sarebbe stata disturbata da quel suono fastidioso; Sarah non
aveva fatto cenno di averlo sentito. E Rupert meritava un’ultima veglia. Non
aveva avuto intenzione di fargli uno sgarbo, ma con il bambino in grembo era
diventata molto attaccata alle proprie comodità. Il sonno, il fuoco acceso e
una poltrona comoda erano ormai gli elementi vitali della sua esistenza.
Appoggiò la testa al finestrino. Con il sole quelle terre erano più belle.
Vide il larice e l’olmo che crescevano tra i castagni e uno scoiattolo tagliò
loro la strada a grandi balzi. Fece una pausa ritto sulle zampette posteriori,
per guardar passare la processione funebre, e poi sfrecciò su per il tronco più
vicino.
Per primo avanzava il capo corteo, con un copricapo di piume nere bene in
equilibrio sulla testa. Poi il piangente muto con il suo seguito. Dal cappello
gli pendeva un velo nero che gli arrivava fin sotto la vita.
«Gli hai organizzato proprio un bello spettacolo.» Elsie allungò la mano e
strinse quella di Jolyon, ansiosa di cancellare le tensioni che c’erano tra loro.
«Te ne sono grata.»
«È né più né meno quel che meritava.»
Dal carro funebre, il feretro di Rupert baluginava. Povero Rupert,
intrappolato per sempre in quel luogo tetro. Con quella chiesa orrenda dal
mezzo campanile incombente su di lui, per sempre. Quando si erano sposati,
Elsie era stata certissima che avrebbero trascorso l’eternità sepolti l’uno
accanto all’altra. Forse avrebbe dovuto rivedere quel programma.
Mentre le carrozze rallentavano e si fermavano, Elsie vide con sollievo che
nessuno degli abitanti del paese si era azzardato ad avvicinarsi alla finestra,
anche se la cosa la stupì. A casa, un funerale era uno spettacolo. Lì non
sembrava affatto un episodio degno di nota.
Jolyon prese il bastone. «È ora.» Scese la scaletta con uno svolazzo del
mantello nero e offrì la mano, prima a Elsie e poi a Sarah.
Quando toccò terra si sentì fragile; leggera come uno dei rametti che
venivano sospinti dal vento in giro per il camposanto. Non sapeva come
comportarsi.
La mamma era stata colta dall’isteria alla morte del papà. Ripensando ai
suoi singhiozzi squassanti, Elsie comprese che come moglie era un fallimento
completo. Non riusciva a piangere. Aveva trascorso le sue giornate a tenere a
distanza la consapevolezza della morte di Rupert, come se avesse avuto un
pugnale puntato alla gola, per paura che penetrasse e si portasse dietro la
certezza. Le uniche sensazioni che provava erano intorpidimento e nausea.
Quella maledetta Sarah cominciò a piangere nel momento in cui si
aggrappò all’altro braccio di Jolyon. La vista delle sue lacrime riempì Elsie di
una rabbia che non riuscì a giustificare.
«Signor Livingstone. Signora Bainbridge, signorina Bainbridge. Le mie
più sincere condoglianze.»
Elsie si inginocchiò davanti al vicario. Attraverso la rete del velo vedovile
scorse un giovanotto con i capelli biondastri. Aveva un lungo naso e un
grosso mento, che suggerivano un buon lignaggio, ma la stola era sporca,
grigiastra.
«Ho avuto il piacere di incontrare il signor Livingstone soltanto una volta.
Mi chiamo Underwood. Richard Underwood.» Una voce raffinata,
pronunciava bene tutte le lettere. Ma cosa ci faceva un uomo del genere a
Fayford, dove la vita era così difficile? Non poteva ottenere di meglio, con i
suoi contatti? Mentre lui univa le mani sopra un messale e se lo premeva
contro il ventre, Elsie notò che aveva dei buchi nelle maniche della tonaca.
«Adesso, signore, prima di iniziare, devo chiedervi se siete sicure di riuscire a
seguire la funzione. Restare a casa non rappresenta una vergogna.»
Sarah si lasciò sfuggire un fresco diluvio di lacrime.
«Su, su, signorina Bainbridge» disse Jolyon. «Lei… preferisce… il signor
Underwood ha ragione. Preferisce restare nella carrozza?» Guardò Elsie per
farsi aiutare. Lei gli rispose con una smorfia. Voleva una sorella più sensibile,
no?
Intervenne il signor Underwood. «Mia cara signorina Bainbridge, si
consoli. Prenda il mio braccio.» La staccò da Jolyon con tanta delicatezza che
Elsie se ne convinse: doveva essere un gentiluomo. Poi, lentamente, fece
allontanare Sarah. «Potrà riposarsi al vicariato finché non si sarà ripresa. La
mia domestica le porterà del tè. Sali? Ha con sé i sali?»
Sarah rispose con voce strozzata ma Elsie non riuscì a sentire.
«Molto bene. Guardi, proprio qui.» La sua casa era una delle disgustose
stamberghe che sconfinavano nel cimitero: di certo una dimora poco adatta a
un vicario. Il pensiero che Sarah restasse là dentro per tutta la durata della
funzione quasi la preoccupava: sembrava un posto perfetto per contrarre il
tifo. «Ethel, prendi lo sgabello. Dovrai badare a questa signora per me.
Preparale un tè dolce.»
Sulla soglia comparve una megera ossuta a cui mancavano dei denti. «Ma
è l’ultimo…»
«Lo so benissimo, Ethel» replicò lui seccato. «Ora fai quello che ti ho
chiesto.»
Borbottando, la donna fece entrare Sarah e chiuse la porta.
Poi il signor Underwood tornò da loro, apparentemente imperterrito.
«Molto gentile da parte sua, signore. Grazie» disse Jolyon.
«Non è stato affatto un disturbo. Signora Bainbridge, possiamo stare
tranquilli riguardo a lei?»
«Sulla forza dei suoi nervi potrei scommetterci la vita» rispose Jolyon.
Underwood la osservò interessato. Aveva occhi grandi ma stranamente
incappucciati; invece di guardare, sbirciavano. «Molto bene. Ora, signora
Bainbridge, io mi metterò sulla porta della chiesa a ricevere il feretro, che
entrerà per primo. Poi lo seguiranno i partecipanti al funerale.»
Lei annuì. Non poteva fare altro.
I portatori si misero in spalla la bara e avanzarono strascicando i piedi. Il
vento si insinuò sotto il velluto nero del drappo funebre, facendolo sventolare
al ritmo dei loro passi. A tratti compariva lo stemma dei Bainbridge: azzurro,
oro, azzurro, oro e poi un’ascia.
Tirò Jolyon per un braccio. «Devo sedermi.»
Il sentiero che conduceva al portale della chiesa era bordato da lapidi
corrose dagli elementi, con incisioni primitive. Su tre di esse, in fila,
compariva il nome JOHN SMITH, con date separate da appena due anni. Poi
accanto a un cespuglio di rose c’era un’altra coppia, due JANE PRICE, 1859.
Elsie tenne gli occhi bassi. Non voleva vedere parenti e conoscenti mentre
scendevano dalle carrozze o incrociare le loro occhiate di commiserazione.
Soltanto pochi mesi prima aveva camminato nella direzione opposta, in seta e
tralci di mirto, con alle spalle uno scampanio nuziale. Si era guardata l’abito
bianco e aveva capito che la zitella, la signorina Livingstone, era scomparsa
per sempre. Lì c’era la signora Bainbridge, una creatura fresca fresca, appena
nata.
Cenere alla cenere, polvere alla polvere. Com’erano rapidi i cambiamenti
del destino. La donna che entrava in chiesa dietro quella bara… chi era
adesso? Livingstone, Bainbridge? Forse nessuna delle due. Forse non era una
persona che Elsie desiderava conoscere.
«Una cerimonia bellissima.» Un gentiluomo grasso le prese la mano e se la
premette contro i baffi. Puzzava di tabacco.
«Sì. Proprio… bellissima» ripeté lei per la millesima volta. «Grazie di
essere venuto. La prego, prenda pure un ricordo.» Sottrasse la mano guantata
alla stretta sudata di lui e la sostituì con un cartoncino orlato di nero. Poi
passò all’ospite successivo.
Erano ridicoli: quegli uomini della City con raffinati nastri sui cappelli, le
voci tonanti e il sigaro, raggruppati insieme in un cimitero in disfacimento.
Cosa dovevano pensare del luogo avito di Rupert e di sua moglie, appena
uscita da una fabbrica?
Il sole era ormai diventato un disco giallo primula, ma lei continuava a fare
avanti e indietro davanti a quella fila di sconosciuti, per ringraziarli. Per
distribuire la vita di Rupert, condensata in una serie di frasi laconiche su un
biglietto.

In affezionato ricordo di
Rupert Jonathan Bainbridge
che ha lasciato questa vita il 3 ottobre 1865
nel suo quarantacinquesimo anno d’età
sepolto nella cappella di famiglia, chiesa di Tutti i Santi, Fayford
MEMENTO MORI
Jolyon fece la sua parte, passò di gruppo in gruppo e accettò le condoglianze.
Era lui che gli ospiti erano venuti a trovare; pochi di loro conoscevano Elsie.
Se ne sarebbero davvero accorti, se fosse sgattaiolata via? Forse doveva
andare a cercare la sua vecchia compagna, la vacca affamata. Almeno quella
creatura miserabile aveva mostrato un certo interesse per lei.
Restò immobile un istante, con lo sguardo fisso oltre i quadratini della rete
del velo. Uccelli di cui non conosceva i nomi cinguettavano sugli alberi poco
lontani. Uccelli grassi e curiosi che sembravano piccioni londinesi, però
beige. Saprofagi neri e temerari. Corvi neri? Taccole? Corvi imperiali? Non
aveva mai capito bene la differenza. Un uccello che riconobbe, una gazza,
emise il suo richiamo dal portico d’ingresso al cimitero. La striscia cobalto
della coda indicava la più povera di quelle pietre tombali, storta e divorata da
licheni e cardi.
«Sta pensando a quelle lapidi.» Una voce la fece trasalire. Si girò di scatto
e al proprio fianco vide che era comparso, con discrezione, il signor
Underwood. Teneva le mani infilate sotto la cotta; o aveva freddo oppure
stava cercando di nascondere i buchi nelle maniche.
«Sì, ha ragione. Ho l’impressione che tantissime portino gli stessi nomi.»
Lui sospirò. «È vero. E indipendentemente da quello che posso dire ai miei
parrocchiani, continuerà a essere così. La gente… Be’, signora Bainbridge,
non c’è bisogno che le indori la pillola. Lei ha visto com’è il paese. La gente
non ha speranze. Non sperano nemmeno che i loro figli restino in vita, e
quindi riutilizzano i nomi. Guardi» disse tirando fuori una mano e indicando
le Jane Price che lei aveva visto poco prima. «Queste due bambine sono
vissute nello stesso periodo. La più grande stava male e la piccola è nata
sofferente. Sono morte a distanza di un mese l’una dall’altra.»
«Che cosa orribile. Povere bambine! Ma almeno i genitori le hanno
ricordate con una lapide.»
«Conforto davvero magro.»
«Lei trova? È mai stato a Londra, signor Underwood?»
Lui si accigliò. «Qualche volta. Prima di prendere i voti.»
«Allora avrà visto i cimiteri. Fosse di sei metri, le bare accatastate una
sopra l’altra, fino in superficie. Che posti orribili. Ho sentito dire di cadaveri
spostati, e perfino smembrati, per far posto a nuovi morti. Secondo me è una
fortuna poter essere sepolti in un lotto personale sotto una lapide con un
nome, anche se è preso a prestito. Ci sono cose ben peggiori che un genitore
può fare.»
Lui la scrutò, come se volesse rivalutarla. «Questo è sicuro.»
Lei ritenne prudente cambiare argomento. «La mia cameriera mi ha detto
che nella mia proprietà è stato rinvenuto uno scheletro, anni fa. Per caso lei
sa, signor Underwood, se anche quello è sepolto qui?»
«E che scheletro sarebbe?»
Lei sbatté le palpebre. «Non la capisco.»
«Ci sono stati… più casi» ammise lui. «Ma è una casa molto antica,
signora Bainbridge. Non c’è motivo di allarmarsi.»
Ora le parole di Mabel acquistavano più senso. Sarebbe stato sciocco da
parte delle cameriere tenersi alla larga dalla tenuta solo per uno scheletro, ma
se c’erano stati parecchi rinvenimenti era comprensibile che questo le avesse
scoraggiate. Nessuno aveva voglia di imbattersi in un mucchio d’ossa mentre
svolgeva il proprio lavoro.
«Non sono allarmata, solo… sorpresa. Il mio defunto marito non
conosceva benissimo la storia della casa.»
«È una storia strana. Durante e dopo la Guerra civile è rimasta vuota. Poi,
con la Restaurazione, la famiglia ha cominciato a tornarci. Non per periodi
lunghi, però. La famiglia Bainbridge ha la brutta abitudine di perdere i propri
eredi e spesso la casa passava a secondogeniti che poi non venivano mai a
reclamarla.»
«Che tristezza.»
«Immagino che ne siano rimasti lontani per questioni d’affari.» Incrociò le
braccia. «A Torbury St Jude ci sono molti documenti; sarei ben felice di
portarglieli, se fosse interessata.»
Dalle prime impressioni, era probabile che la trama somigliasse tanto a
quella di un brutto romanzetto dell’orrore. L’ultima cosa che Elsie voleva era
una storia a base di morte e scheletri. Ma l’offerta del signor Underwood le
parve così sincera che non ebbe cuore di respingerla. «Lei è estremamente
gentile.»
Tacquero e osservarono le tombe. La terra non era adorna di fiori di serra,
ma di cardi pungenti. I boccioli viola stavano sbiadendo per trasformarsi in
vaporosi ciuffetti di semi.
«Forse, signora Bainbridge, è meglio che vada a prendere sua cugina»
disse lui alla fine. «Credo che si sia ripresa.»
«Sì. Lo spero. Grazie.» Chinò la testa mentre lui si allontanava, le ciocche
bionde che gli ondeggiavano attorno alle tempie.
La gazza era volata via. Guardò il portico dov’era stata appollaiata,
pensando alle piccole Jane Price. Il velo fluttuava nella brezza e dava
l’impressione che quelle tombe gemelle dondolassero. Che la salutassero.

Elsie si svegliò di cattivo umore. Era la seconda notte che non dormiva bene.
Quel sss, sss snervante era ricominciato, anche se era durato soltanto un’ora.
Dopo che aveva smesso, lei era rimasta a letto agitata, a scervellarsi per
trovare un modo di aiutare il paese e a ripensare al povero Rupert nella cripta
gelata.
Senza di lui il letto era troppo grande. Anche se non era il genere di moglie
che dorme raggomitolata contro il marito, c’era qualcosa di rassicurante nella
presenza di Rupert sotto le lenzuola e nel cigolio che ogni tanto sentiva
quando si girava. Era come se stesse montando la guardia. Senza di lui,
l’altro lato del materasso sbadigliava freddo e sinistro. Troppo spazio, troppe
opportunità perché qualcuno si infilasse lì dentro.
Senza la disponibilità dell’aiuto delle cameriere, si vestì da sola e prima di
scendere riuscì a fissarsi con lo spillone il cappellino da vedova.
Le parole del signor Underwood continuavano a turbarla. Doveva esserci
qualcosa che poteva fare, per Fayford. Non aveva visto bambini, ma a
giudicare dalle condizioni della vacca di certo erano pelle e ossa. Chi poteva
sapere quali orrori domestici erano costretti ad affrontare? Se i genitori
avevano paura dei Bainbridge e della tenuta degli scheletri, lei non poteva
certo piombargli in casa con un cesto pieno di offerte e un sorriso
condiscendente. Sarebbe stato meglio…
Davanti a lei danzavano nell’aria dei bruscolini, che la fecero tossire. Si
fermò e guardò verso le scale. La sua gonna nera aveva sollevato una nuvola
che però non era di normale polvere, ma una specie di cipria. Più densa. Si
chinò e ne prese un pizzico tra pollice e indice. Era fatta di granelli scabri e
beige.
Si portò le dita al naso. Le sue narici si dilatarono quando i profumi che
sentì la riportarono alla fabbrica. Un odore aspro e nitido: semi di lino. E più
sotto, un aroma più intenso simile alle nocciole. Starnutì. Sì: era segatura.
Ma lì?
Segatura, fosforo, il vorticare della lama…
La buttò subito via e si scrollò la gonna, perché non voleva che gliene
restassero addosso delle tracce.
Forse erano le travi che sostenevano il soffitto; magari si stavano
sbriciolando, come tutta la casa. Più tardi avrebbe interrogato in proposito la
signora Holt.
Si raddrizzò e la scalinata ondeggiò: stava per svenire. Si appoggiò alla
balaustra e fece gli ultimi gradini vacillando. Respira, respira.
A volte le capitava: bastava un minimo dettaglio a scagliarla indietro nel
tempo, a far riaffiorare i ricordi e a ridurla nelle condizioni di una bambina
spaventata.
Con il sangue che le rombava nelle orecchie, arrivò al salone e trasse un
respiro affannoso. Era arrivata, sana e salva.
Il passato le aveva già sottratto troppo: non gli avrebbe permesso di
toglierle anche la sua vita adulta.
Prese la porta a sinistra del caminetto ed entrò nella sala da pranzo. Jolyon
e Sarah erano già seduti al tavolo di mogano, mentre il broccato color dente
di leone proiettava sulla loro pelle una malsana sfumatura giallastra. Quando
la videro, si tolsero il tovagliolo dal grembo e si alzarono.
«Eccoti qui.» Jolyon si tamponò la bocca. «Temo che abbiamo iniziato
senza di te. Non eravamo sicuri che saresti scesa.»
La pendola rintoccò.
«Immagino di dover continuare a vivere la mia vita.» La voce le tremò. Poi
sprofondò sulla sedia che, appena in tempo, Jolyon le aveva offerto.
Accanto al buffet erano in agguato alcuni domestici: la cameriera sciatta,
Mabel, e una più anziana che doveva essere Helen. Era un donnone dall’aria
allegra, con le guance tinte di un bel rosso fragola: sicuramente effetto di
molti anni trascorsi sopra pentole d’acqua bollente. Dalla cuffietta, lungo le
tempie le sfuggivano dei ciuffi rossicci. Elsie pensò che poteva avere una
quarantina d’anni.
Le due cameriere erano sorvegliate da un uomo alto con i capelli grigi e
l’aria di non aver mai sorriso in vita sua.
Jolyon versò il caffè mentre Helen serviva del pane tostato con uova e
aringhe, ma all’odore della segatura lo stomaco di Elsie si era chiuso. Prese la
forchetta e giocherellò con il mucchietto gelatinoso delle uova.
«La signorina Bainbridge mi stava parlando della casa del vicario.» Jolyon
sollevò le code della giacca e si sedette di nuovo vicino a lei.
Sarah arrossì fino alle punte dei capelli flosci. «Non trova che sia stato
gentile, signora Bainbridge, a ospitarmi così? Anche se era tanto
impegnato?»
«Sì.»
«Mi dà l’idea di essere un uomo di razza superiore» osservò Jolyon. «Non
credo sia stato educato per la chiesa. In ogni caso, non per una chiesa a
Fayford.»
«No, infatti» farfugliò Sarah, appassionandosi all’argomento. «Ha lasciato
una famiglia ricca e un’eredità per cercare di fare del bene. Suo padre l’ha
ripudiato senza lasciargli nemmeno un penny, ma lui aveva da parte qualcosa
di suo e l’ha usato per comprarsi la casa di Fayford. Avete mai sentito niente
di più nobile?»
Elsie si infilò in bocca un pezzetto di cibo e masticò lentamente. Fu un
errore: la consistenza delle uova le fece venire di nuovo la nausea.
«Sta bene, signora Bainbridge?»
«Sì, sì.» Si portò un tovagliolo alla bocca e con discrezione sputò l’uovo.
«E tu? Ti sei ripresa dalla tua debolezza di ieri?»
«Sì, grazie. Oggi mi sento molto più in forze.»
«Mi fa piacere sentirlo. Immagino che di funerali tu ne abbia avuti a
sufficienza, dopo la morte della signora Crabbly e quella dei tuoi genitori.»
«Sì.» Tremando, Sarah bevve un sorso di tè. «Però non sono andata alla
sepoltura della signora Crabbly. Lei era estremamente legata alle tradizioni.
Si sarebbe rivoltata nella tomba se avesse saputo che al suo funerale era
presente una donna. Ma i miei genitori…» Fissò la sua tazza di tè.
«Rupert non mi ha parlato molto dei tuoi genitori» disse Elsie con
dolcezza.
«Be’, non è che io possa dirle molto di più. Credo che Rupert li conoscesse
meglio di me. Mi mandarono dalla signora Crabbly quando avevo otto anni,
per imparare a fare la dama di compagnia. Sa, il nostro ramo della famiglia
non è mai stato benestante. Credo che c’entri un diverbio tra mio nonno e il
padre di Rupert. Quindi noi abbiamo lavorato tutti. I miei genitori non
avevano tanto tempo per me.» Sarah bevve un altro sorso di tè, come per
darsi forza. «E poi se ne sono andati. Non avevamo i soldi per il funerale.
Non avrei mai potuto seppellirli se Rupert non avesse… è sempre stato così
buono con me.» La voce le si ispessì. «Vorrei tanto…»
Imbarazzata, Elsie prese la forchetta e fece a pezzetti l’aringa. Stava
cominciando a pentirsi di avere trattato quella ragazza con tanta
superficialità. Sarah poteva anche essere noiosa, ma aveva sofferto. «Mi
dispiace tanto.»
Jolyon si schiarì la voce. «La capiamo, signorina Bainbridge.» Non
incrociò lo sguardo di Elsie. «Anche noi abbiamo perduto molto presto i
genitori.»
Sarah scrollò la testa, mentre i capelli le sfuggivano dallo chignon. «Non fa
bene rimuginarci troppo su. Ma ora capite perché sono tanto grata al signor
Underwood e alla sua domestica per essersi occupati di me. Lo sapete che il
signor Underwood mi ha ceduto l’ultimo tè che gli restava? Mi sono sentita
così in colpa a berlo. La sua dispensa era totalmente vuota. Soltanto un
pizzico di zucchero, e assolutamente niente latte!»
«Latte!» Elsie inforcò trionfante un pezzetto di aringa. «Ma certo, ecco la
risposta. È così che posso aiutare il paese! Jolyon, ti devi informare. Voglio
adottare la vacca.»
Jolyon sbuffò facendo schizzare il caffè. Vicino al buffet, le cameriere
parevano inquiete. «Quale vacca?»
«La vacca che ho visto arrivando qui. Povera vecchia bestia, sembrava in
punto di morte. Più ci penso più sono convinta che volesse chiedermi aiuto.
Se la compro, posso portarla qui e farla ingrassare, e allora darà latte.
Possiamo farci del formaggio. E potrò donare il latte e il formaggio agli
abitanti del paese.»
«Sei una sciocca, Elsie.» Jolyon posò la tazza. «Perché non ti limiti a
passare da loro con un cesto pieno?»
«Così sarebbe meno paternalistico. Non trovi?»
Jolyon alzò le mani. «Quello che ho da dire non conta. Tu farai
sicuramente quello che vuoi. Ma dovrai mandare il signor Stilford o la
signora Holt, a prendere informazioni. Io torno a Londra con il treno di
questo pomeriggio.»
«Questo pomeriggio?»
«Temo proprio di sì. Parlare con quei gentiluomini al funerale mi ha fatto
capire quanto siano urgenti le questioni d’affari.»
«Ma…» Come poteva abbandonarla, lasciarla sola con Sarah? «E quando
torni?»
«Non tanto presto, credo.» Strinse le labbra; Elsie capì che c’erano delle
cose che non poteva dire davanti a Sarah. «Mi dispiace, ma devo rientrare.
Per la fabbrica.»
E come poteva Elsie mettersi a discutere? Lei, che aveva dato così tanto
per quel posto?
«Ma certo. Ma certo, capisco.»

Quando la carrozza di Jolyon partì schizzando ghiaia, Elsie resto lì


sconfortata. Quella casa le sembrava ancora più grande e vuota senza di lui.
Si aggirava per la propria stanza e per il salottino estivo senza trovare nulla
da fare.
Fuori si gonfiavano nuvole grigie. Il vento frustava gli alberi. Perfino la
luce all’interno della casa era fioca e granulosa. Si sentivano soltanto il
ticchettio della pendola, i cigolii delle pareti e una cameriera che spazzava un
focolare da qualche parte al primo piano.
Non le piaceva stare sola là dentro: sentiva che la casa la osservava. Che
avvertiva i suoi movimenti all’interno delle pareti, come lei sentiva il
bambino agitarsi dentro il ventre.
Non andava bene, così. Aveva bisogno di compagnia, per quanto
discutibile. Dopo due ore di noia imboccò il corridoio purpureo e superò gli
spaventosi busti di marmo, diretta verso la camera di Sarah.
Bussò una volta, entrò e la trovò raggomitolata sul letto con un libro e il
gatto della signora Holt, Jasper. La stanza era molto simile alla sua però,
come aveva detto Jolyon, ne era l’immagine speculare. Gli alberi che si
agitavano fuori dalle finestre di Sarah erano un tripudio d’oro e bronzo,
mentre dalla parte di Elsie c’erano i rossi bruciati e ramati.
«Oh! Signora Bainbridge. Non l’aspettavo.» Sarah infilò tra le pagine un
segnalibro e si alzò imbarazzata. Jasper non la degnò neanche di un’occhiata
e non abbandonò il suo posticino sul letto. «Mi scusi. Ha bisogno di me?»
«Sì. A dire la verità, voglio esplorare la casa. E voglio che tu venga con
me.»
«Esplorare?» Gli occhi bruni di Sarah si spalancarono. «Ma noi siamo…
voglio dire… immagino che alla signora Holt non darà fastidio, no?»
«La signora Holt? E lei cosa c’entra? Questa è casa mia. Posso fare quello
che voglio.»
«Sì. Immagino che abbia ragione.» Per un momento, la grande bocca di
Sarah si afflosciò. Forse le era venuto in mente, come a Elsie, che era stata
esclusa dall’eredità. Ma poi sembrò ispirata da un pensiero più allegro,
perché sorrise e disse: «The Bridge è appartenuta alla mia famiglia per molto
tempo. È l’unica parte di loro che ancora possiedo. Un legame. Esplorarla mi
piacerebbe moltissimo».
Elsie le tese la mano guantata. «Allora vieni.»
Sarah esitò. A un tratto Elsie si ricordò di averle mostrato le mani ruvide,
la sera del loro arrivo: i palmi avevano il colore e la consistenza della cotenna
di maiale. Cercò di impedire all’imbarazzo di salirle in viso.
«Di che cosa hai paura?»
Con un sospiro, Sarah fece un passo avanti.
Iniziarono proprio dal fondo della casa. In realtà The Bridge era molto più
grande di quanto avevano immaginato. Sembrava ripiegarsi su se stessa.
Uscendo dal salone, davanti al cui caminetto Elsie si era riscaldata quella
prima sera, trovarono un salotto foderato di pannelli di legno scuro alti fino
alle spalle. Il resto delle pareti era tappezzato di carta grigio-azzurra la cui
sfumatura ricordava a Elsie i fiordalisi morti. Era una stanza fredda, piena di
urne di marmo e arazzi.
«Perché uno dovrebbe venire a rifugiarsi qui dentro?» domandò. «Sono
sicura che esistono fabbriche arredate in maniera più confortevole.»
Il salotto era collegato a un enorme spazio rosa polvere, colmo di
strumenti. Alla finestra, come se morisse dalla voglia di uscire, era
appoggiata un’arpa ricoperta di macchie. Una delle corde era spezzata. Elsie
percorse con lo sguardo le tende rosa che tenevano fuori la luce del sole. Il
soffitto era decorato a galloni, come la glassatura bianca intorno alla sommità
di una torta.
Sarah si precipitò verso il pianoforte a coda, lo aprì e premette un tasto.
Con la nota si levò anche una nuvoletta di polvere. «Io so suonare il
pianoforte» disse. «Soltanto qualche piccolo brano. Alla signora Crabbly
piaceva molto. Questa sera suonerò per lei.»
Elsie era così triste che quella prospettiva le sembrò piacevole.
Poi trovarono una stanza per il gioco delle carte, tutta arredata in verde. Da
una parete pendeva una testa di cervo impagliata, i cui palchi gettavano
ombre simili ai rami di un albero.
«Che cosa macabra.» Elsie arricciò il naso.
«Trova davvero?» Sarah guardò quella testa imbalsamata. La pelliccia era
sporca. Le ciglia bruno chiaro erano attentamente separate, rivelando le biglie
d’ebano incastrate nelle orbite. «Io credo che abbia una sua bellezza. A
quest’ora il nostro amico sarebbe putrefatto, e invece è qui, ancora maestoso.
Preservato per sempre.»
«E imprigionato a The Bridge per il resto dei suoi giorni? Di questo non
riesco certo a invidiarlo.»
Il cervo contrassegnava la fine di quell’ala; non c’era possibilità di fuga, se
non tornare indietro attraverso la stanza da musica e il salotto. Quando si
ritrovarono nel salone, dalla porta rivestita in panno verde sul lato della
servitù emerse la cameriera con i capelli rossi.
«Helen!» Al suono della voce di Elsie la donna raddrizzò subito la schiena.
«Ti chiami Helen, vero?» Lei annuì con aria ottusa e le sue gambe si
piegarono in una riverenza molto migliore di quella di Mabel. «Helen, ora
che il funerale è finito, voglio che rimetti a posto i quadri al secondo piano. E
anche in tutte le altre stanze. Io e la signorina Bainbridge vogliamo dare
un’occhiata ai ritratti. Puoi fare questo per me?»
«Sissignora.»
«Eccellente.»
Con un altro inchino, Helen si girò e uscì dalla porta di panno verde.
Sentirono i suoi passi dietro il muro, che salivano la scala a chiocciola. Elsie
e Sarah salirono invece i gradini più ampi e rivestiti di tappeto riservati alla
famiglia.
«Qui prima c’era della segatura» disse Elsie, osservando con attenzione.
«Ma pare che sia scomparsa.»
Il primo piano iniziò bene, con un salottino color miele collegato alla sala
da biliardo dell’ala ovest. Ma mentre si dirigevano verso l’ala est, Elsie si
sentì pervadere da un gelo nauseabondo. Un sesto senso le suggerì quello che
stavano per vedere.
«Oh, guardi, signora Bainbridge! Che meraviglia!»
Sarah si slanciò in avanti e la lasciò appoggiata allo stipite della porta.
«Guardi che deliziosa piccola nursery!»
Si aveva l’impressione che un bambino ci avesse giocato fino al giorno
prima. Era immacolata. La carta da parati a fiori non mostrava i segni del
tempo e il tappeto, di lucido cinz rosso e giallo, era stato sbattuto e lavato. Al
centro della stanza spiccava orgoglioso e luccicante un cavalluccio a dondolo,
con la groppa punteggiata di macchioline bianche. Sarah gli diede una
spintarella e rise quando lo vide muoversi sulle rotelle.
Elsie si guardò intorno. Il cavallo non era l’unico giocattolo. Intorno a un
tavolino in miniatura preparato per il tè c’erano delle bambole. Sul pavimento
accanto a loro c’era un’arca di Noè in legno, completa di animali. Di fronte al
focolare era stato collocato un parascintille molto alto. In prossimità del
calore del fuoco, c’era una culla orlata di fasce di stoffa color limone. Lì
vicino, la testiera di un letto per un bambino più grande, coperto con una
trapunta patchwork. Le si chiuse la gola.
«Più avanti c’è un aula scolastica» disse Sarah.
«Credo che per oggi abbiamo esplorato a sufficienza.»
Tornò nella galleria e guardò giù verso il salone. Davanti agli occhi le
danzavano bandiere grigie e nere. Dio santo, non era in grado. Era come se le
avessero chiesto di andare a Oxford a sostenere un esame. Non poteva
diventare la madre qualunque di un bambino qualunque.
Tutti quei giocattoli, souvenir di un’infanzia. Forse era diverso se crescevi
felice, con il ricordo di un padre che ti faceva saltellare sulle ginocchia e di
una madre che ti asciugava le lacrime a furia di baci. Ma per Elsie c’era
soltanto paura. Paura per il bambino. Paura del bambino.
Jolyon era venuto fuori a posto, si ripeté. Ma era più facile, perché lui era
un maschio. E se da Rupert le fosse nata una femmina? Non poteva amare
una figlia che le somigliasse. Non poteva sopportare di guardare in uno
specchio il suo passato, si sarebbe sentita male.
«Signora Bainbridge?» Sarah le scivolò accanto. «Non si sente bene?»
«No. Sono solo… stanca.»
«Domani esploreremo ancora?»
«Non è rimasto molto da vedere. La biblioteca e il salottino estivo sono
sullo stesso piano delle nostre camere da letto, possiamo andarci tutte le volte
che vogliamo. E poi c’è soltanto…» Aggrottò la fronte al ricordo del solaio.
Di quella notte e di quel raspare appena oltre la soglia, fuori portata. Che
cos’era stato?
Non riusciva a credere che fossero i ratti: non facevano un rumore del
genere. Voleva sapere la verità. Alzò una mano e si sfilò uno spillone da sotto
la cuffietta. Ne scesero due ricci biondi.
«Signora Bainbridge?»
«Ti piacerebbe vedermi scassinare una serratura?»

Alla luce del giorno, lo stretto corridoio del terzo piano sembrava meno
inquietante. Era diverso da quello che l’aveva spaventata. Le maioliche
olandesi rivelavano il loro bruno ramato e tintinnavano sotto gli stivaletti.
Notò che sulle pareti c’erano alcune macchie di umidità e piccole crepe che
prima non aveva notato.
«Non le credo, signora Bainbridge. Lei si sta prendendo gioco di me. Non
posso credere che sappia scassinare una serratura.»
Elsie le rivolse un gran sorriso. «Vedrai. Sono una donna piena di risorse.»
Si rigirò lo spillone tra le dita guantate. Era passato molto tempo da quando
aveva fatto una cosa del genere l’ultima volta. Ormai in fabbrica non c’erano
più porte chiuse a chiave. Sulle maioliche alle loro spalle risuonò uno
scalpiccio felpato. Si girò a guardare e notò Jasper che trotterelava per
raggiungerle.
«Oh, che tesoro.» Sarah si fermò ad aspettarlo. Quando arrivò, Jasper le si
strofinò contro la gamba facendole frusciare il vestito.
«Come sei fortunata, Sarah. Hai trovato un amico fedele.» Era strano, ma
pareva proprio impossibile percorrere quel corridoio senza vedere il gatto.
Che fosse a guardia di qualcosa? Oppure il suo arrivo significava che la
signora Holt era vicina? Una cosa era permettere che Sarah la vedesse
scassinare una serratura; un’altra era farlo davanti alla governante. «Forza,
vieni. Sbrigati. Dobbiamo muoverci finché c’è ancora luce.»
Scorse la porta in fondo al corridoio; tre gradini bassi che portavano a una
barriera di legno scheggiato. Non aveva l’aria solida. Sembrava quasi
impossibile che potesse contenere un nido di scoiattoli o ratti. Di sicuro ormai
con quei dentini rapaci avrebbero dovuto rosicchiarla tutta.
Stava proprio per salire i gradini quando Jasper le passò accanto
miagolando. «Sciocchino!» Il gatto si piazzò davanti alla porta come aveva
fatto quella notte, con gli occhi verdi che scintillavano, e miagolò ancora.
Elsie si rivolse a Sarah. «Forse è una cosa buona averlo con noi. Secondo la
signora Holt là dentro ci vivono dei roditori.» Sarah rabbrividì. «Non avere
paura. Non possono farti del male. E poi il gatto li ammazzerà tutti.»
«Non credo che potrei guardare. Detesto i topi.»
«Molto bene. Allora resta qui, mentre io mi occupo della serratura.
Entreremo io e Jasper.» Tacque un istante. Sperava proprio di non essere sul
punto di scoprire uno di quegli scheletri che aveva nominato il signor
Underwood. «Devo confessarti che sono curiosa di vedere che razza di
animali girano qui dentro. Stenteresti a credere allo strano rumore che
fanno.»
«Oh! Ma l’ho sentito anch’io, di notte. È da qui che proviene?» Sarah
guardò la porta con gli occhi sgranati. Nella sua espressione c’era qualcosa
che fece stringere lo stomaco di Elsie. «Ma un animale… un animale può
produrre un rumore del genere?»
Jasper miagolò e grattò la porta. Era una vaga imitazione del sibilo che
aveva udito quella notte. Sottili linee bianche segnavano il legno dove lui
l’aveva raspato in precedenza. «Jasper. Vieni via.»
Lui la fissò, gli occhi di smeraldo imperscrutabili, la zampina sospesa. Poi
grattò di nuovo la porta, che si socchiuse con un cigolio.
Sarah indietreggiò. «Guardi! È aperta.»
Elsie non riusciva a credere alla propria fortuna. «La signora Holt deve
avere scritto a Torbury St Jude per farsi mandare un fabbro. Non avrei mai
pensato che potesse essere così veloce.» Si rimise lo spillone sotto la
cuffietta. «Entro a esplorare.»
Nessuna creatura sgattaiolò fuori dall’apertura: era un buon segno. Salendo
i gradini, si fermò accanto a Jasper e sbirciò dentro. L’aria era pesante e
immobile. Non c’erano ratti, né scoiattoli né scheletri; soltanto bauli e vecchi
mobili. La polvere ricopriva ogni superficie, densa come velluto. «Sarah»
gridò. «Qui è tutto a posto.» Tossì, poi starnutì. «C’è tanta polvere, ma è tutto
a posto.»
Spinse la porta e la guardò oscillare sui cardini con un cigolio prolungato.
Si aspettava che Jasper sfrecciasse avanti precedendola, e invece lui si girò e
scappò dalla direzione da cui era venuto. Lei scoppiò a ridere, poi diede un
altro colpo di tosse. «Gatti. Che perverse creature, non trovi?»
Fece quattro passi nella stanza, mentre l’orlo del vestito sollevava una
nuvola di pulviscolo. Nel solaio il tempo sembrava essersi fermato da secoli.
Gli angoli erano adorni di ragnatele nelle quali non si dibatteva nessun
insetto. Erano tutti morti, imbozzolati o rinsecchiti e raggrinziti. Vicino alla
parete di fondo era appoggiata una pendola che non ticchettava più. Il
quadrante era sfondato e le lancette penzolavano in una strana angolazione.
Lenzuola di tela d’Olanda coprivano forme squadrate che potevano essere
ritratti.
Si avvicinò a un tavolo vicino alla finestra macchiata. Era pieno di libri
dalle pagine ingiallite. I titoli erano velati dalla polvere. Con la punta di un
dito provò a frugare nel mucchio. Alcuni volumi in fondo alle pile avevano
ancora le copertine pulite. Manuali di giardinaggio di due secoli prima.
Culpeper’s Complete Herbal e una Generall Historie of Plantes di Gerard.
«Sarah, entra!» Mentre parlava cercò di non inalare troppa polvere. «Non ci
sono topi, ma ci sono dei libri.»
Come sospesa accanto alla porta, comparve la faccia allungata di Sarah.
«Libri?»
«Sì, se è ancora possibile leggerli. Sono vecchissimi e ammuffiti! Credo
che alcuni siano qui almeno dalla conquista normanna.»
Sarah le si avvicinò a passi felpati. «Oh! Mio Dio.» Reverente, prese i
volumi con la punta delle dita. Alcune pagine erano macchiate d’umido; altre
erano gialle e sottili come bucce di cipolla. «Ricette. Ingredienti. Il conto del
maniscalco. Oh, guardi questo! Milleseicentotrentacinque! Da non credere.»
Soffiò via la polvere dalla copertina. «Il diario di Anne Bainbridge. In due
volumi. Caspita, dev’essere una delle mie antenate!»
«Non dev’essere stata una donna molto interessante, dal momento che i
suoi diari marciscono qui da duecento anni» osservò Elsie. Allungò un piede
e saggiò le assi del pavimento, che scricchiolarono ma tennero. «Mi chiedo
cosa possa esserci sotto quelle lenzuola.» Ne sollevò una con uno svolazzo.
La polvere fu come un’esplosione ed entrambe si misero a tossire e a
respirare affannosamente. Quando l’aria si schiarì, comparvero una sedia a
dondolo e una valigetta simile a quelle che usano i dottori in viaggio per i
medicinali. Elsie la aprì. Dentro tintinnarono delle boccette di vetro
trasparente con i tappi di sughero. «In famiglia dev’esserci stato un
farmacista» disse. «Il residuo sul fondo sembra fatto d’erbe.»
Sarah si girò stringendosi al petto un libro. «Mi lasci dare un’occhiata.»
Avanzò verso Elsie e poi lanciò un grido. Elsie fece cadere la boccetta che
aveva in mano, che quando si ruppe emanò un odore sotterraneo, muffoso.
«Cosa? Cosa c’è?»
«Là c’è qualcosa… degli occhi.»
«Oh, non essere ridicola…» Ma mentre seguiva lo sguardo di Sarah la
voce le mancò.
Sarah aveva ragione. In fondo alla stanza, tra le ombre, la scrutavano un
paio di occhi bruno-verdastri. Un telo bianco nascondeva gran parte del viso,
ma si potevano vedere le pupille, che la fissavano con un’attenzione
innaturale.
«Un quadro. È soltanto un quadro, Sarah. Guarda, non batte nemmeno le
palpebre.»
Elsie si fece largo tra mucchi di oggetti, spostandoli e togliendoli di torno.
La polvere le incipriò il vestito facendolo sembrare grigio, e lungo l’orlo
formò dei nastri. Mentre si avvicinava gli occhi dipinti diventarono più dolci,
come se volessero salutare una vecchia amica.
Elsie afferrò un angolo del lenzuolo che copriva il ritratto e lo tirò via. La
stoffa si lacerò, e alla fine si staccò.
«Oh!» gridò Sarah. «È… è…»
Sono io, pensò Elsie con orrore.
Era una bambina, di circa nove o dieci anni. Con il nasino all’insù e le
labbra strette e gli occhi che al tempo stesso ti imploravano e ti sfidavano ad
avvicinarti. Stava guardando in faccia la bambina che era stata, la ragazza a
cui era stata strappata l’infanzia.
Ma com’era possibile? La sua mente vacillò e si fermò. Il viso che aveva
davanti era il suo, eppure non sentiva di avere alcun legame con esso.
Vattene, avrebbe voluto mettersi a urlare. Vattene, ho paura di te.
«Non è un quadro» disse Sarah. «È… è dipinto, ma non è una tela. Pare
che stia in piedi per conto suo.» Posò il libro, si accostò e mise la testa dietro
la figura. «Ah, no. È piatto. Ma dietro c’è un cavalletto di legno, vede?»
Il campo visivo di Elsie si dilatò. Quel viso si rimpicciolì assumendo le
proporzioni giuste e finalmente guardò la ragazza dipinta a figura intera. Le
arrivava alla vita, come una bambina vera, e portava un abito di seta verde
oliva orlato di pizzo dorato. Intorno alle gambe le svolazzava un grembiule di
garza. Non aveva i capelli biondi come lei, ma bruno-rossicci, e raccolti in
cima alla testa a formare una specie di piramide, intrecciata di nastri
arancioni e perle. All’altezza della vita reggeva un cesto di rose ed erbe.
L’altra mano era sollevata e premeva contro il cuore un bocciolo bianco. Non
apparteneva al suo secolo, e forse nemmeno a quello precedente.
«Notevole.» Sarah posò una mano sulla linea della spalla. Con gli anni i
colori erano sbiaditi e sul legno c’erano dei piccoli graffi. «È come se
qualcuno avesse ritagliato la figura da un quadro e l’avesse incollata su una
tavola di legno.»
«Ma… ma non ti ricorda nessuno?»
Sarah si mordicchiò il labbro inferiore. «Un poco. Intorno agli occhi.
Dev’essere una delle antenate dei Bainbridge. Non c’è da stupirsi che
assomigli un pochino a Rupert.»
«Rupert?» ripeté Elsie incredula. Poi se ne rese conto: era soltanto una
sfumatura, che emergeva sottile dalla vernice scheggiata. Somiglia a me e
Rupert. Le si fermò per un attimo il cuore. La sua bambina sarebbe stata così?
Sarah accarezzò il bordo del braccio di legno. «È bellissima. Dobbiamo
portarla di sotto. Sistemiamola nel salone. Insieme dovremmo essere in grado
di sollevarla. Se… Oh!» Fece un salto indietro. Aveva una scheggia di legno
conficcata nel palmo. «Ahi.»
«Vieni qui.» Con grande attenzione, Elsie le tenne ferme le dita con le sue,
avvolte nei guanti. «Stringi i denti. Uno, due… tre!»
La scheggia venne fuori e dal foro spuntarono gonfiandosi delle perle di
sangue; Sarah se le portò alla bocca e succhiò.
«Questi oggetti antichi cadono veramente a pezzi» osservò Elsie.
«Probabilmente è meglio lasciarla dove l’abbiamo trovata.»
«Oh no, signora Bainbridge, la prego! Mi piacerebbe tantissimo averla in
casa.»
Elsie rabbrividì. «Be’, forse dovresti chiedere a un domestico di
spostartela» disse riluttante. «Loro hanno la pelle più dura.»
Alle loro spalle le assi del pavimento scricchiolarono. «Maledizione!»
Elsie si girò di scatto. La cameriera Mabel giaceva a terra vicino alla porta,
con la gonna allargata intorno.
«Santo cielo, Mabel, cosa stai facendo?»
«Io non ho fatto niente! Il pavimento ha ceduto e mi ha mangiato un
piede!»
«Per l’amor di Dio!» Sarah si precipitò da lei, dimenticando la propria
ferita. «Ti sei fatta male? La senti la caviglia?»
«Sì, la sento eccome, accidenti! Mi fa un male cane.» Mabel strinse i denti
reprimendo una fitta di dolore. «Signorina.»
Prendendole un braccio a testa, Elsie e Sarah infilarono le spalle sotto le
ascelle di Mabel e la liberarono. Dal buco nelle assi emerse un cattivo odore,
a metà tra le ceneri umide e la decomposizione.
Seduta sul pavimento, Mabel allungò una mano a tastarsi la caviglia. «Mi
ha strappato la calza. Una bella fortuna che non mi sia staccata di netto questa
maledetta gamba.»
«Meglio che chiamiamo la signora Holt» disse Elsie. «Sono sicura che ha
un impiastro da metterci sopra. Cosa stavi facendo, Mabel, ci spiavi?»
Mabel abbassò il mento sul petto. Pareva più bellicosa che mai. «Non
volevo mica far niente di male. È da quando sono qui che nessuno apre
questa porta. Volevo vedere cosa c’era dentro. Poi ho sentito gridare la
signorina Sarah. Ho pensato che aveva bisogno d’aiuto. E che bel
ringraziamento che ricevo» aggiunse, inacidita.
«Ti sono molto grata» disse Sarah. «Vieni qui, ti avvolgo la gonna intorno
alla caviglia. Tu tienila premuta finché non riusciamo a bendarla per bene.»
Fu molto attenta, ma Mabel continuava a lamentarsi. «Che strano che tu sia
entrata proprio in quel momento! Io e la signora Bainbridge stavamo per
chiamarti. Volevamo che ci aiutassi a spostare di sotto la nostra nuova
scoperta.»
«Quale scoperta?» Sarah indicò la sagoma di legno. Mabel la guardò e
trasalì. «Per la miseria. Ma che cos’è?»
«Mabel» intervenne Elsie, «mi rendo conto che sei ferita, ma non è una
scusa per continuare con questo linguaggio. Per favore, ricordati della
compagnia in cui ti trovi.»
«Mi scusi, signora» borbottò lei, anche se non sembrava affatto contrita.
«È solo che… non avevo mai visto niente del genere. Che cos’è, un quadro?»
«No. Secondo noi è una specie di decorazione. Una figura eretta. Non è né
una statua né un quadro, ma una via di mezzo.»
«Non mi piace.» La mandibola di Mabel si irrigidì. «Mi guarda in modo
strano. Mi fa venire i brividi, altro che.»
«Sciocchezze» disse Elsie. «Non è diversa dai ritratti appesi in corridoio.»
«Invece sì» insisté Mabel. «È malvagia. Non mi piace.»
Elsie sentì pizzicare la pelle. Anche lei la trovava inquietante, ma non
l’avrebbe mai ammesso davanti a una domestica. «Non è necessario che
piaccia a te. Tu devi soltanto spostarla per la signorina Sarah e pulirla.»
Mabel si imbronciò. Come giunto in sua difesa, un getto di sangue fresco
uscì dal taglio alla caviglia. «Adesso non posso certo mettermi a pulire, eh?»
Elsie sospirò. «Immagino sia meglio che vada a cercare Helen.»

Helen contemplò la figura lignea, le mani piantate sui fianchi larghi. Mentre
scrutava attraverso la polvere, le si formarono delle rughe agli angoli degli
occhi. «È nuova, signora?»
«Nuova?» ripeté Elsie. «No, credo che sia molto antica.»
«No, signora, intendevo se è nuova in casa. Sono sicura che il padrone
aveva qualcosa di simile.»
Uno spasmo ai muscoli delle spalle. Sentire qualcuno parlare così di
Rupert, come se fosse ancora presente, ancora al timone della tenuta. «Non
mi ha mai parlato di un oggetto del genere. A Londra non ne abbiamo e se ne
avesse trovato uno qui… Be’, io in casa non ne ho visti, e lei?»
Helen si strinse nelle spalle e prese la sagoma. «A dire la verità no,
signora.»
«E allora cosa le fa supporre che il signor Bainbridge ne abbia avuta una?»
«Il signor Bainbridge era una persona tanto cortese» disse Helen mentre
manovrava la figura di legno per superare il buco nel pavimento e la porta del
solaio. «Non si dava arie. Chiacchierava sempre con me, quando spolveravo
la biblioteca. Un giorno si è messo a raccontarmi di alcune sagome di
Amsterdam, come questa qui. Diceva che le aveva trovate citate in un libro.»
Fuori in corridoio, Elsie schiacciò la propria crinolina contro la parete per
farle spazio. «Davvero? Non riesco a pensare a un motivo per cui
quell’argomento dovesse interessargli.»
«Nemmeno io, signora. Non ho chiesto perché ho dato per scontato che ne
possedesse una.»
Rupert aveva sempre avuto una mente attiva e curiosa. Era stato questo a
condurlo alla fabbrica di fiammiferi Livingstone. Adorava l’idea del
progresso e di nuove invenzioni. Lei non si era resa conto che fosse
interessato anche al passato.
Le parole di Helen la fecero sentire meglio rispetto alla decisione di portare
di sotto quella strana fanciulla di legno. Era sì inquietante, ma rappresentava
anche un altro legame con Rupert. Forse sarebbe piaciuta anche a lui, se
avesse mai aperto quel solaio.
«Il signor Bainbridge ti ha detto cos’erano quelle figure, Helen?»
«Le chiamava amici o compagni. Amici silenziosi.»
Elsie increspò le labbra e guardò verso il corridoio dove Sarah stava
sorreggendo la zoppicante Mabel. «Hai sentito, Sarah? Helen dice che è un
amico! La signora Crabbly avrebbe anche potuto risparmiare i suoi soldi. La
tua razza è stata sostituita da statue di legno.»
«Oh, lei è veramente maliziosa!» rise Sarah. «Mi piacerebbe proprio tanto
vedere un pezzo di legno sprimacciare cuscini, leggere poesie, suonare il
piano e preparare il porridge. Se fosse vero, me ne procurerei uno anch’io.»
Helen si tirò la manica sulle nocche e si ficcò sottobraccio la sagoma,
messa in orizzontale, come se fosse svenuta.
«Da questa parte» disse Elsie. «La signorina Sarah lo vuole nel salone.
Attenzione, non troppo vicino al fuoco. Potrà accogliere i nostri ospiti al loro
arrivo.»
«Ospiti, signora?»
Lei fece una smorfia. «Hai ragione. Non credo che ne avremo, per un po’.»
«Oh!» Sarah si fermò poco dopo di loro. «Signora Bainbridge, le
seccherebbe tornare indietro? Mi dispiace terribilmente… ho lasciato nel
solaio uno dei diari. Con l’incidente alla povera Mabel, ho scordato di
prendere il secondo volume. Mi piacerebbe tantissimo leggere la storia della
mia antenata.»
Elsie si guardò alle spalle. Non voleva mettersi a correre da una parte
all’altra; le fatiche di quella giornata l’avevano già sfinita. «Non puoi
aspettare? Io…» Si interruppe, confusa. La porta era chiusa. Non l’aveva
sentita chiudersi. «Helen» disse in tono di rimprovero, «ti avevo detto di
lasciare aperta la porta del solaio. Dio solo sa quanto abbia bisogno di essere
un po’ arieggiato.»
«Io non l’ho chiusa, signora.»
«Non l’hai chiusa? E allora quella cos’è?» E indicò con il dito.
Helen gonfiò le guance arrossate. «Mi dispiace, signora. Io non mi ricordo
di averlo fatto.»
Ma dove le trovava delle cameriere del genere, la signora Holt? «Ci vado
io, ad aprirla» sospirò, «così recupero il libro della signorina Sarah.»
«Grazie infinite, l’apprezzo molto. Se potesse lasciarmelo in camera gliene
sarei grata» esclamò Sarah. «Forse c’è descritta la visita di re Carlo I! Io
metterò a letto Mabel. E forse lei può vedere se la signora Holt…»
«Sì, sì, cercherò anche lei.» Elsie si avviò a passi rapidi e irritati, la
crinolina che le ballonzolava dietro. Ma che senso aveva essere la padrona di
casa se poi dovevi fare tutto da sola?
Ripensando a Jasper che aveva aperto il battente con una zampa,
avvicinandosi al solaio allungò la mano. Il palmo colpì forte la superficie in
legno; la spalla sussultò. Con un brontolio, ci riprovò, usando un po’ più di
forza. La porta non si mosse. «Cosa?» Strinse il pomello e cercò di farlo
girare, ma quello rimase immobile. «Maledizione.»
Doveva esserci qualcosa nella serratura: ecco perché prima si era bloccata.
Dovevano chiamare qualcuno in grado di sostituire il meccanismo, oppure
mettere una porta nuova. Un altro lavoro da sbrigare.
Fiaccamente, Elsie ripercorse i propri passi e cominciò la lunga discesa
fino al piano terra. In realtà non si sentiva troppo bene. Doveva essere quella
casa: il suo peso gravava tutto su di lei. Dopo avere parlato con la signora
Holt, sarebbe andata a stendersi.
Nel salone passò accanto a Helen che stava sistemando l’Amico accanto
alla finestra. «Ho pensato di metterlo qui» disse Helen con un sorriso, «così
può guardare fuori.» Inclinò la testa. «Le somiglia un pochino, signora, non
trova?»
In quella luce più intensa, la somiglianza tra la fanciulla di legno ed Elsie
era davvero più spiccata e le venne la pelle d’oca.
«Un poco. Non è strano?» Le lanciò un’ultima occhiata, poi si diresse
verso l’ala ovest e scomparve attraverso la porta di panno verde che
conduceva alle stanze della servitù.
Dall’altra parte del muro, l’aria era pesante e odorava di sapone, cenere e
grasso bruciato. Un dedalo di muri di pietra nuda si snodava nelle profondità
della casa, e la strada era appena visibile con quella luce oleosa.
Sulla porta della camera della signora Holt, a lettere bianche, c’era scritto
GOVERNANTE. Elsie bussò: era la seconda volta quel giorno che chiedeva
il permesso per entrare in una stanza di casa sua.
«Avanti.»
Si infilò in una cameretta con un’atmosfera che ricordava la nebbia
londinese. Una lampada solitaria bruciava sulla scrivania, gettando un
bagliore anemico sulle carte e i cassetti della signora Holt. La governante, che
era accomodata su una semplice sedia di legno, si girò e, vedendo la padrona,
scattò in piedi. «Signora Bainbridge! Non l’aspettavo. La prego, entri.»
C’era un tavolino apparecchiato per il tè con tazze bianche e azzurre. Elsie
si sedette, sollevata. Si vergognava troppo della sua stanchezza per chiedere
qualcosa da bere, ma avrebbe voluto che la signora Holt gliene offrisse.
«Stavo per venire a cercarla» confessò la signora Holt riordinando le carte
della sua scrivania. «Abbiamo appena ricevuto una consegna da Torbury St
Jude e volevo consultarla sui menu che ho preparato.»
«Sono sicura che saranno perfetti. Io e la signorina Sarah faremo una vita
molto tranquilla, finché non tornerà il signor Livingstone.»
«Lo immaginavo, signora. Ma non è un buon motivo per rinunciare a
gustare il cibo.»
«Ha ragione. Anzi, signora Holt, visto che sono qui… C’è una questione di
cui vorrei discutere con lei.»
«Mi dica, signora.»
La signora Holt si limitava a guardarla con i suoi occhi giallastri e
appannati, ma allora perché aveva la sensazione di avere puntata in viso una
luce violentissima? Deglutì, non sapendo bene da dove cominciare. Non c’era
nulla di cui vergognarsi, si ripeté. Quel bambino era stato concepito in
maniera lecita, per quanto potesse sembrare sbagliata. «Presto avremo
bisogno… di altro personale. Ma Mabel mi ha lasciato intendere che nessun
abitante di Fayford acconsentirà mai a lavorare in questa casa, o sbaglio?»
«Ah!» Le rughe sul viso della signora Holt diventarono più profonde. Elsie
le fece cenno di sedersi. «È una situazione molto strana, signora. Esiste una
faida di lunga data tra il paese e la famiglia, che penso risalga alla Guerra
civile. Credono che una delle nostre signore fosse una strega, o qualche altra
stupidaggine del genere.»
Elsie fissò la tovaglia su cui erano ricamate delle coroncine di fiori.
Quando Mabel aveva detto che gli abitanti del paese avevano paura della
casa, lei aveva immaginato fantasmi e folletti, non certo una strega. Ma tutti
sapevano che a quei tempi le donne potevano essere accusate di stregoneria
per qualsiasi cosa, e che spesso accadeva davvero. «Ha almeno cercato di
assumere qualcuno di Fayford, signora Holt?»
«Oh, sì. Ma vede, la famiglia Roberts non mi ha reso le cose facili. Uno di
loro è stato valletto qui, all’inizio del secolo, e ha avuto uno sfortunato
incidente.»
«Cosa intende con “incidente”?»
La signora Holt si portò una mano al petto e si sistemò una spilla con un
cammeo. «Nessuno sa bene come sia potuto succedere. Il poveretto è caduto
dalla galleria fin nel salone. E ovviamente si è rotto l’osso del collo. Una
tragedia immensa. Ma alcuni Roberts sostengono ancora oggi che qualcuno
l’abbia spinto.»
«Ma chi?»
«Be’, il padrone di allora perse la moglie poco dopo. Si dice che quel
Roberts ammirasse molto la signora… Lo sa come vanno queste cose.» La
signora Holt agitò la mano, la cui pelle sembrava quella di un pollo. «Un
marito geloso che si vendica.»
«Perbacco, quel paese sembra proprio pieno di leggende, e tutte che ci
riguardano.»
La signora Holt sorrise. «Tradizioni di campagna, signora. Devono pur fare
qualcosa per tenersi occupati, d’inverno. Ma non abbia paura. Sono sicura
che altrove troveremo dei domestici eccellenti, sia per la casa sia per il
giardino.»
«Speriamo.» Schiarendosi la voce, Elsie proseguì: «Vede, ho i miei motivi
per essere esigente riguardo alla servitù. Presto ci sarà… intendo, in
primavera… ho ragione di sperare che ci possa essere…». Il viso le si
infiammò. Non c’era una maniera delicata per dirlo.
«Non vorrà dire… Per l’amor del cielo, signora Bainbridge, non mi dirà
che è in stato di grazia?»
In stato di grazia. Non sentiva quell’espressione da anni, ma serviva allo
scopo. «Sì. Il bambino dovrebbe arrivare in maggio.» La turbò vedere le
lacrime emergere negli occhi dell’anziana donna. Imbarazzata, continuò.
«Avrò bisogno di balie e anche di una nuova cameriera per me. Ho
intenzione di andare a Torbury St Jude e visitare l’ufficio del registro. È lì
che ha trovato Mabel e Helen?»
La signora Holt aprì e chiuse la bocca. «Io… non avevo un salario
principesco da offrire, signora. E dato che la proprietà era in stato di
abbandono, senza che vi risiedesse una famiglia o ci fossero opportunità di
miglioramento…» Pareva agitata. «Ho ritenuto fosse meglio prendere delle
donne dall’ospizio dei poveri, signora.»
«L’ospizio dei poveri» ripeté Elsie in tono piatto. Ma certo, questo
spiegava tutto. «E immagino che non abbiano ricevuto nessuna istruzione
formale.»
La signora Holt arrossì. «Helen sì.»
«Ed esattamente, perché Helen si è licenziata da dove lavorava?»
La signora Holt riprese a giocherellare con la spilla. «Non mi sono
informata al riguardo.»
«Devo dire che sono stupefatta all’idea che lei abbia ritenuto che donne del
genere fossero adatte a essere impiegate in casa mia! Lei non poteva
conoscerne il carattere. Come si è accertata che fossero oneste? E come posso
fidarmi di lasciarle avvicinare a mio figlio? Mabel si comporta in maniera
terribile. Ha lasciato i vassoi pieni di cibo a marcire nella mia stanza. Il
linguaggio che usa, la sua incapacità di fare perfino l’inchino… non posso
rischiare che mio figlio imiti un atteggiamento del genere!»
«Posso soltanto scusarmi. Le parlerò, signora. Non sono abituate a servire
una padrona e forse in passato sono stata troppo tenera con loro.» Sospirò.
«Ma trovo che per pulire e cucinare si siano rivelate soddisfacenti.»
«Vorrei poter dire lo stesso. La quantità di polvere che ho trovato nel
corridoio rosso vino è straordinaria. Pensi, c’era perfino della segatura sulle
scale. Ma da dove può essere arrivata? Certi tappeti hanno l’aria di non essere
mai stati sbattuti, cosa che non riesco a comprendere visto che la nursery è in
perfetto ordine.»
La testa della signora Holt ebbe un guizzo. «La nursery?»
«Sì. È l’unica stanza che grazie a Dio non dovrò preparare. È già
praticamente pronta per mio figlio.»
La signora Holt la guardò incuriosita. «Forse c’è stato un equivoco. Le
ragazze entrano raramente nella nursery.»
«Si sbaglia, signora Holt. Hanno perfino spolverato il cavalluccio a
dondolo e preparato il tavolo per il tè delle bambole.»
«Santo cielo.» La signora Holt scrollò la testa. «Non ne avevo idea. Helen
mi aveva detto di avere paura di quella stanza. Era tutto coperto con dei teli.»
«Stamattina no. Venga, le faccio vedere.» E si alzò.
Anche la signora Holt si alzò, afferrando le chiavi che le pendevano dalla
cintura. «Non ci vado quasi mai» confessò. «Le scale della servitù portano
proprio a quel pianerottolo. Non le dispiace?»
«Per nulla. Sono perfettamente in grado di usare le scale della servitù.»
Elsie parlò in tono coraggioso, ma ebbe modo di pentirsene. Là non c’era
spazio per la sua crinolina, che si incastrava e bloccava formando una coda
pesante che doveva trascinarsi dietro a ogni passo.
Sbucarono sul pianerottolo su cui era già passata con Sarah poche ore
prima. Seguì la signora Holt fino alla porta. Ancora una volta cadde preda di
quella sensazione di inquieta tensione. È solo una nursery, si ripeté. Non c’è
nessun bisogno di piangere.
La signora Holt fece tintinnare le chiavi nella cintura e ne infilò una nella
serratura, che scattò mentre si spostavano i cilindri.
«Ma non era chiusa a chiave quando…» Non era possibile.
Semplicemente, non era possibile.
Quella stanza ariosa e in perfetto ordine era stata sconvolta. Le finestre
erano coperte da tende a brandelli, che facevano entrare solo poche scintille
di luce. Le bambole erano scomparse. L’arca era scomparsa. Restavano
alcuni bauli di giocattoli, ma sommersi dalla polvere di innumerevoli anni.
Enormi teli bianchi, come quelli del solaio, delineavano delle forme tozze nei
punti in cui aveva visto il cavalluccio a dondolo e la culla. Il parascintille e la
testiera di ferro erano maculati di ruggine.
La signora Holt tacque.
«Io… non…» Le parole le riempirono la bocca, ma non riuscì a proferirne
nemmeno una. Com’era possibile? Si avvicinò subito alla culla e afferrò il
telo. «Proprio qui c’era una bellissima…» Restò senza fiato. Mentre il telo
scivolava via, la investì un odore di canfora e muffa. La forma della culla
restava, ma i lenzuolini delicati erano macchiati e rosi dalle tarme.
«Ero sicura che le ragazze non si sarebbero date tanta pena» disse piano la
signora Holt. «È un luogo triste. Viene aperto per un colpo di scopa solo due
o tre volte l’anno, da quando non ci sono più i piccolini.»
Elsie la fissò. La nursery era stupenda. Non poteva avere immaginato le
cose che aveva visto. Con lei c’era anche Sarah; l’aveva spinto lei il
cavalluccio.
«Cosa… come dice? I piccolini?»
Le chiavi di metallo sferragliarono mentre la signora Holt si spostava. «Sì,
che Dio li benedica.»
«Quali piccolini?»
«Quelli del… del padrone e della padrona. Cioè i genitori di padron
Rupert. Lui era il terzo… almeno così mi hanno detto.»
Elsie si appoggiò alla culla, che cigolò. «Lei ha conosciuto i genitori di
Rupert? Prima che morissero?»
«Ma certo, signora. Certo.» A un tratto apparve più vecchia e
profondamente triste. «Lavoravo per loro a Londra. Allora ero ancora una
ragazzina. Ho visto nascere padron Rupert.» La voce le si arrochì. «Era… è
stato il primo dei bambini a nascere fuori da The Bridge. Gli altri sono morti,
mi hanno detto, prima del trasloco. Per questo si sono trasferiti a Londra.»
Distolse lo sguardo. «Può immaginare cosa vuol dire vivere in una casa dove
hai perso un figlio.»
«Gli altri bambini sono morti?» Elsie guardò la culla sfasciata e si sentì
male. Staccò la mano dal bordo e quella dondolò, vuota. Dio, che eredità, per
suo figlio: una madre nervosa e una nursery piena di morte. «Signora Holt,
non intendevo turbarla. Ma…» Le si avvicinò con passo esitante. «Lei è stata
una delle ultime persone a vedere vivo mio marito. Nessuno mi ha raccontato
com’è morto, esattamente. Non mi aveva scritto di essere malato. È mancato
all’improvviso?»
La signora Holt tirò fuori un fazzoletto e si tamponò gli occhi. «Ah,
signora. Per noi tutti è stato uno shock. Sembrava sano e vigoroso, magari
solo un po’ preoccupato. Ho avuto l’impressione che non dormisse. Ma non
pareva in punto di morte!»
«E poi…?» Lei trattenne il fiato.
«L’ha trovato Helen. Ha lanciato un urlo che non dimenticherò mai. Mi ha
gelato fino al midollo, glielo dico io.»
«Ma come? Com’è morto?»
«In pace, signora, non si preoccupi. In pace. Nel suo letto, bene al
calduccio.»
«Non nel mio letto?»
«No, no. Nella camera accanto. Il medico legale ha detto che è stato il
cuore. Ha ceduto all’improvviso, ha detto. A volte una persona si porta dietro
per tutta la vita un cuore malato e non se ne accorge finché… be’, non se ne
accorge mai.»
Quindi aveva avuto un cuore così caldo e gentile che si era bruciato da sé.
Sospirò. «Spero che non abbia sofferto molto. Ho visto che aveva delle
schegge vicino al collo. Ha idea di come ci sono arrivate?»
La signora Holt socchiuse gli occhi. «Schegge? Non lo so, signora. Certe
volte questi imbalsamatori fanno cose strane. Ma quando Helen l’ha trovato,
non c’erano tracce di sofferenza. Forse ha avuto un colpo. Gli occhi erano
aperti.» Le scese una lacrima che si incanalò in una ruga. «Ho visto che aveva
gli occhi aperti, signora, e glieli ho chiusi. Che Dio ci perdoni, che mondo è
questo.»
«Un mondo crudele con i Bainbridge.» Elsie rifletté un secondo. «Ma,
signora Holt, lei mi ha spiegato di essere stata presente alla nascita di Rupert
a Londra. Come è arrivata qui?»
La donna si asciugò gli occhi e ripiegò il fazzoletto, su cui poi fissò lo
sguardo. «È stato il padrone.»
«Il padre di Rupert?»
«Sì.» Esitò. Elsie pensò che forse voleva scegliere con cura le parole. «Mi
voleva molto bene. L’avevo aiutato con la signora. Non stava bene, povera
cara. Non si riprese mai dal parto. Poco prima che la perdessimo, le venivano
delle strane idee su questo posto. Continuava a ripeterle con una specie di…
tristezza folle.»
«Cosa intende con “strane idee”?»
La signora Holt scrollò la testa. «Non lo so. Non riuscivo a trovarci un
senso. Parlava spesso di questa nursery e del cavalluccio a dondolo. Tutte
sciocchezze. Ma quando se ne andò, quei pensieri cominciarono a turbare
anche il padrone. Ecco perché mi chiese di venire. Disse che sua moglie
avrebbe riposato in pace, sapendo che qualcuno teneva d’occhio la casa.»
L’ombra di un sorriso le comparve agli angoli grinzosi della bocca. «Non
volevo venirci. Non volevo lasciare il piccolo Rupert proprio mentre stava
imparando a camminare. Ma alla fine il padrone riuscì a convincermi.»
«E come?»
La donna rise. «Con le lusinghe. Lusingandomi e corrompendomi,
naturalmente. Per una fanciulla così giovane essere promossa governante…
non è un’opportunità che si può rifiutare. Non se hai una madre anziana da
mantenere. Il signor Bainbridge era un uomo difficile e strano, ma mi disse
una cosa molto curiosa, che poi non ho più dimenticato. “Questa casa ha
bisogno di qualcuno giovane e puro” disse. “Qualcuno di buono. Senza
amarezza. Tu devi diventare il suo angelo, Edna.” Che sciocchezza, vero? Ma
io ne fui commossa. E da quel giorno ci ho sempre provato. Ho provato a
essere l’angelo che lui era convinto che fossi.»
Elsie si mordicchiò di nuovo il labbro. La pelle era scorticata e scottava.
«No. Non sono sciocchezze. Ma perché Rupert non è venuto a vivere con lei
dopo la morte di suo padre? Per lui avrebbe avuto senso tornare qui.»
«A me avrebbe fatto piacere.» La signora Holt guardò con affetto la
sagoma del cavalluccio a dondolo sotto il suo sudario. «Ma poi lo accolse la
famiglia di sua madre. Erano gente di città e non avevano tempo per le gite in
campagna.»
«Ma per tutto quel tempo! Non erano nemmeno curiosi di vedere la
tenuta?»
«Be’, erano i parenti di sua madre. Sapevano dei piccolini che erano morti
qui dentro e tutte le sciocchezze che lei raccontava sulla casa. Credevano che
non li avrebbe perdonati, se avessero riportato qui suo figlio.»
Sembrava assurdo che per tutto quel tempo nessuno avesse cercato di
rivendicare la proprietà. Nemmeno parenti lontani e avidi. «È incredibile
quanto può essere sfortunata una famiglia. Tre figli, e non resta niente.»
La signora Holt si schiarì la voce. «Tranne…»
Tranne suo figlio. Si mise una mano sulla pancia. Le tornò la nausea.
«Sono stata molto negligente, signora Holt. Tutti questi discorsi sulla
famiglia di Rupert mi hanno fatto dimenticare il mio compito. Sono venuta a
dirle che Mabel si è fatta male a una gamba. Mi aveva seguito nel solaio.»
«Il solaio, signora?»
«Sì. E poi ho dimenticato un’altra cosa. Dovrei ringraziarla. Ha fatto bene
a scrivere, dopo che ci siamo parlate. Ma chiunque lei abbia chiamato temo
che dovrà tornare, perché la porta si è bloccata di nuovo.»
La signora Holt la guardò come se le fosse spuntata una seconda testa.
«Non capisco…»
«La porta» ripeté Elsie. «La porta del solaio. Ha chiamato qualcuno di
Torbury per aprirla e adesso si è bloccata di nuovo. Ho bisogno che lei scriva
un’altra lettera.»
«Ma… ma non posso. Credo che ci sia stato un equivoco…»
«Per l’amor del cielo, perché non può richiamare quella persona?»
La signora Holt si ritrasse. «Perché, signora, io non ho mai scritto a
Torbury St Jude.»
The Bridge, 1635

Che giornata provvidenziale per dare inizio al mio diario! Josiah è tornato a
casa presto e mi ha portato una notizia magnifica.
Jane mi stava arricciando i capelli corti che ho intorno alla fronte quando
ho sentito dei colpi provenire dal ponte.
«Ferma» ho detto. «Ascolta. È Josiah.»
«No, non può essere già il padrone. Tornerà soltanto la settimana
prossima.»
«È lui» ho insistito. «Ne sono certa.»
Lei mi ha lanciato quell’occhiata a cui ormai sono avvezza. Teneva la
mano lungo il fianco e le dita fremevano, come se volessero mimare l’antico
segno contro la stregoneria. Ma non ha detto una parola, io mi sono alzata e
dalla camera da letto sono corsa nel salottino estivo. Fuori era salita la
nebbia. Alla finestra ho aguzzato la vista, sicura di poterlo sentire ancora: il
battito del cuore di mio marito. Nell’ammasso delle nubi fluttuavano dei
colori. Ho premuto la fronte contro il vetro, per vedere meglio. Sì. Un
minuscolo rettangolo svolazzante di azzurro e oro, che entrava e usciva dalla
foschia. Il nostro stendardo.
Il battito è diventato più forte e si è trasformato nel ritmo pesante degli
zoccoli.
«Lo sapevo!» ho gridato, precipitandomi di nuovo in camera. «Sotto c’è
l’araldo. Preparami.»
Jane ha spiccato un balzo da cerbiatta. «Oh, santo cielo.» Mi ha messo
sulle spalle un collo di pizzo e si è infilata i coprimaniche di lino. «Meglio
che vada ad avvertire in cucina. Volete che vi finisca i capelli, padrona?»
«No, non c’è tempo. Josiah vuole parlarmi immediatamente.» Non osava
guardarmi. «O meglio, mi aspetto che voglia farlo. Accade spesso.»
Anche se faccio del mio meglio per nasconderglielo, Jane ha paura ogni
volta che il mio dono si manifesta. Non posso negare che sia strano: ho
sempre sentito, avvertito delle cose. Ma quando leggo i pensieri di Josiah non
è stregoneria, a meno che l’amore non sia un incantesimo. È solo che lo
conosco come le mie tasche.
Quando Jane ha lasciato la camera io non vi sono rimasta a lungo. Dopo
aver controllato un’ultima volta i miei nastri, ho imboccato di corsa il
corridoio e le scale, e ho sceso i gradini a due a due. Mentre passavo dal
primo piano ho gridato a Hetta che suo padre era tornato. Sarei dovuta andare
a prenderla di persona, ma sono stata egoista. Volevo Josiah tutto per me.
Ho chiesto alla servitù di accendere il fuoco nella sala da pranzo. La luce
giocava con gli arazzi e illuminava i fili d’oro. Ho pensato che dopo il
viaggio Josiah avrebbe gradito un rinfresco e così ho fatto in modo che ci
fossero vino speziato e una serie di piccoli piatti di suo gusto: pane,
formaggio, salumi e un vassoio di pasticcini. Sul tavolo nuovo di mogano, era
tutto molto invitante. Ma quando è entrato, con il farsetto imperlato di
pioggia e il mantello di lana fumante, mio marito non ha degnato della
minima attenzione il cibo. È venuto subito da me, mi ha messo le mani
intorno alla vita e mi ha sollevato.
«Bentrovata, amore mio!» Poi mi ha messo giù e mi ha scoccato un bacio.
«Riesci a indovinare perché sono tornato?»
«Presumo che ci siano buone notizie a corte. Non ti ho mai visto sorridere
così.»
Gli brillavano gli occhi. «E ne ho ben donde, Anne. Davvero non riesci a
indovinare?» Ho scrollato la testa. «Sta arrivando. Il re sta arrivando.» Devo
essere impallidita, perché ho sentito l’esplosione della sua risata. «Non
adesso, tesoro mio. Avrai tutto il tempo di prepararti. Il re e la regina faranno
tappa qui per una notte durante il loro trasferimento estivo.»
Per un attimo sono riuscita soltanto a stringergli la mano guantata. «Che
sia benedetto il Signore. È… straordinario. Quale onore. È per questo che ci
siamo dati tanta pena. Come? Come ci sei riuscito?»
Forse i petali di crisantemo che gli avevo messo nel vino, per portargli
fortuna? Le foglie d’alloro sotto il cuscino, per potenziare l’intuito? Perché
mentre Josiah cerca di promuovere la nostra famiglia presso la corte anch’io
lavoro, mi affaccendo nella dispensa. Dopo quello che mi è accaduto, non
potrei mai sottovalutare il potere delle piante.
Con un’altra risata si è sfilato i guanti e si è seduto a tavola. «Ci siamo
riusciti insieme, Anne. Te l’avevo detto che questa casa sarebbe stata solo
l’inizio.»
Era vero. Da quando abbiamo messo insieme il denaro necessario a
costruire una grandiosa residenza di campagna, Josiah ha insistito nel dire
che The Bridge avrebbe fatto la nostra fortuna. Ma io non avevo idea che
sarebbe accaduto tanto in fretta.
Lui ha preso un tozzo di pane e l’ha addentato. «Ora ci siamo fatti un
nome. Quest’anno si fermano una notte, ma l’anno prossimo chi può dirlo?
Se riesco a ottenere un titolo… forse a Natale saremo invitati a corte. Forse la
regina ti prenderà in simpatia e ti offrirà un posto nel suo seguito.»
Non ho mai immaginato una cosa del genere, nemmeno nelle mie visioni
più folli. «A me basta che il re ti abbia in stima, e non ho bisogno di
desiderare altro.»
«Non frenare i sogni, Anne!» E ha afferrato una caraffa di vino. «Nessuno
può dire fino a dove potremo arrivare. Faremo venire i ragazzi e mostreremo
a tutti che figli educati e vigorosi abbiamo. Un giorno saranno dei perfetti
gentiluomini di camera o uscieri reali.»
«Pensi che li prenderà in considerazione?»
«Chi può dirlo? Non esiste limite ai successi che può ottenere una famiglia
titolata. Con le conoscenze di mia madre e le tue capacità, ci costruiremo una
reputazione. Guarda i Villiers!»
«No» ho replicato secca. «Non saremo come i Villiers.» Lui ha smesso di
mangiare e mi ha guardato. Ho cercato di fare un sorriso, ma troppo piccolo.
«Ricordati cos’è accaduto al duca.»
Lui ha gettato il tozzo di pane sul piatto. Nella barba gli erano rimaste
intrappolate delle briciole. «Non ti angustiare, Anne, non ho intenzione di
diventare il prossimo duca di Buckingham. Dubito che in Inghilterra sia mai
esistito un uomo più stupido, inetto e presuntuoso. Quello che voglio dire è
che costituisce un esempio. Alla nascita non era nessuno e quando la sua
esistenza è giunta al termine era più ricco dello stesso re. Tutto è possibile. E
ho l’impressione che sia nostro dovere cercare di ottenere il massimo per i
nostri figli.»
«Gli scriverò subito per dirglielo. E avranno bisogno di vestiti nuovi! Dio
solo sa quanto sono cresciuti. Dovremo prendere nuovamente le misure.»
Josiah ha fatto una risatina.
«Potrei scrivere un masque da rappresentare davanti alla regina!» Ho
sempre desiderato provare il fasto e l’esibizione di un masque di corte.
Dicono che la regina vi danzi personalmente, adorna dei costumi più preziosi.
«Ah, vedo già il nostro James avanzare sul palcoscenico per recitare una
poesia.»
«E Hetta… lei sarà la ninfa che…»
Josiah si è schiarito la voce, ha bevuto un altro sorso di vino e ha detto:
«Non ho ancora deciso quale ruolo avrà Henrietta Maria in questa visita».
Mi si è stretto lo stomaco, come mi capita ogni volta che sento nominare
mia figlia. Josiah non usa mai il suo vezzeggiativo, Hetta; è sempre formale,
la chiama Henrietta Maria.
«Cosa intendi dire? Verrà coinvolta alla stessa stregua dei ragazzi.»
«Mentre cerchiamo una strada per entrare nelle grazie della coppia reale, e
facciamo di tutto per impressionarli… sarebbe meglio non attirare troppo
l’attenzione sulla sua piccola… aberrazione.»
Sono stata travolta da un’ondata di nausea e senso di colpa. Mi sono
ripromessa di non rimbeccarlo, né di rispondere in maniera troppo affrettata.
E poi l’ho fatto. «Lei non ha niente che non vada!»
«Sai benissimo che non è vero.»
Il panico mi si è appiccicato come fanno le ortiche; ero sicura che riuscisse
a capire quel che pensavo, anche se non so come. Capire la verità. «Non vedo
perché questo dovrebbe compromettere il suo ruolo nella visita. È nostra
figlia. Merita ogni vantaggio per il suo futuro, al pari dei ragazzi.»
«Ci rifletterò.» Ha cambiato umore con la stessa rapidità delle nuvole in un
giorno di vento. L’ombra del desiderio gli ha scurito gli occhi. «Adesso basta.
Vieni a sederti vicino a me. Dio, Anne, quanto mi sei mancata.»

Alla prima opportunità che ho avuto, sono corsa a trovare Lizzy. Una volta
era la mia balia, e ha allattato tutti i miei figli. È stata presente in ogni
momento importante della mia vita. Volevo che condividesse la mia gioia nel
sentirmi raccontare questo successo ineguagliabile. Ma è riuscita soltanto a
rendermi infelice.
Ho trovato lei e Hetta concentrate su alcuni libri nella stanza per lo studio.
Però quando sono entrata, più che un luogo per apprendere sembrava la
dimora di una fata. Ogni superficie era ricoperta da piante in vaso. C’erano
cesti traboccanti d’edera e pervinche, le cui foglie arrivavano fino agli
scaffali dei libri. Il passerotto di Hetta saltellava nella sua gabbia e trillava.
Non è un ambiente sobrio o che induca alla riflessione, ma Hetta si rifiuta di
procedere negli studi se non è circondata dal verde.
Oggi stava leggendo il Culpeper’s Complete Herbal, il suo libro preferito.
Che sia una coincidenza, questo interesse per il mondo naturale? Non con
quegli occhi: un miscuglio di marrone, verde e giallo proprio come una
tisana; o con quei capelli: rossi di ogni sfumatura dell’autunno.
Lizzy si è subito alzata per salutarmi, ma Hetta mi ha rivolto soltanto quel
mezzo sorriso timido che non le arriva mai agli occhi. Non è colpa sua,
naturalmente, ma mia. Una misurazione errata, una parola mal pronunciata.
Lei non è responsabile dei miei sbagli.
«Hetta, tesoro» ho detto. «Forse dovresti andare a disegnare un po’. La
mamma ha bisogno di parlare con Lizzy.»
Obbediente, è andata a sedersi accanto alla finestra. Poi ha tirato fuori carta
e matite ed è rimasta a fissare il foglio bianco.
«Disegnerà dei fiori» ha esclamato Lizzy con una risatina. «Solo fiori, ogni
volta.» È tornata a sedersi sulla sua sedia a dondolo e si è sistemata lo
scialletto nero sulle spalle. «Ma guardala! Nella sua espressione non vedete
sempre più Mary, ogni giorno che passa?»
Era quello che volevo, certo. Ma mi sembra strano cogliere i lineamenti
della mia sorella defunta su questa ragazzina timida e silenziosa. Mary era
così piena di vita.
«Una somiglianza davvero notevole.»
«Ma volevate parlarmi in segreto? Ci sono novità?»
Finalmente ho permesso a un sorriso di aprirsi sul mio viso. «Oh, Lizzy, ho
notizie meravigliose. Sono la donna più felice del mondo.»
Ha sorriso anche lei, come fa sempre quando sono felice. «Cosa c’è, cara?
Non è possibile…» Mi ha guardato subito la pancia. «No, non è questo. Un
miracolo è già sufficiente.»
«No!» Mi sono lisciata le pieghe del corpetto. «Molto meglio. Josiah è
tornato. Mi ha detto di prepararmi. Quest’estate verranno il re e la regina!
Verranno qui!»
Il sorriso le è svanito dalle labbra. «Qui? Il re e la regina?»
«Sì!» Accanto alla finestra, Hetta aveva cominciato a disegnare, la testa
inclinata di lato. Ho abbassato la voce. «Cos’hai, Lizzy? Perché mi sembri
scontenta?»
Lei mi ha stretto la mano e le sue vecchie dita ossute hanno premuto sulle
mie. «Oh, sono felice per voi, tesoro caro. Almeno credo…» Poi ha scosso la
testa grigia. «Posso confidarvi la verità?»
«Sempre.»
«Non credo che saranno bene accolti, al villaggio.»
Il villaggio: non ci avevo pensato. Gli uomini presuntuosi e precisi di
Fayford con i loro vestiti a quadri. Non mi ci sono mai affezionata. Quando
abbiamo comprato questo terreno per costruire The Bridge, sono passata a
trovare gli operai con un unguento per le mani screpolate, ma loro si sono
ritratti, disgustati. Non si fidano della mia abilità con le piante, mi guardano
con sospetto e quindi da allora non ci sono più andata. Con un talento come il
mio, devo essere cauta. Qualche accusa falsa potrebbe danneggiarmi molto
più del mio orgoglio.
«Gli abitanti del villaggio sono impudenti con gli aristocratici, Lizzy, ma
per il loro re…»
«No. Non provano alcun rispetto per il sovrano. Non vi siete chiesta perché
non nutrano simpatia per la nostra famiglia? Il padrone serve un re che ha
prosciugato le paludi e tutti si aspettano che presto batterà cassa per comprare
navi da guerra.»
«Mio Dio! Ma quella tassa non ci verrà imposta. Non siamo un distretto
costiero.»
«Soldi per la flotta dall’entroterra.» Lizzy ha alzato le spalle, sconsolata.
«È stato già proposto. Ve l’immaginate? Mi fa orrore pensare alla scena che
si svolgerebbe nel villaggio se questo accadesse. Lancerebbero della verdura
a Sua Maestà, se passasse.»
«Non oserebbero mai! Smettila, Lizzy, mi stai spaventando.»
«Io dico soltanto la verità.»
«Allora dovrò trovare il modo di portare qui la corte senza costringerli a
passare per Fayford. Però non capisco proprio perché. Il villaggio è del re. È
il suo paese.» La matita di Hetta si è fermata. Ho sospirato e ho ripreso il
discorso. «Non credo che re Carlo chiederà altri soldi per la flotta, Lizzy. Non
può essere così povero. Josiah mi stava proprio dicendo che riaffrescheranno
il soffitto della Banqueting House e che la regina ha in mente di costruire a
Greenwich.»
«Oh, sì» ha risposto lei, incupita. «Spenderà soldi per i suoi capricci. È per
questo che la gente è così infuriata.»
L’ho guardata con occhi nuovi. «Parli come se fossi d’accordo con i
puritani di Fayford, Lizzy.»
«Non posso dire che mi piaccia l’idea che il re e la regina si presentino qui.
Sapete benissimo» ha sussurrato «che lei è una bisbetica papista.»
«Lizzy!» Hetta ha alzato lo sguardo. Io ho abbassato la testa e la voce. «La
regina sarà anche cattolica, ma non è una bisbetica. Non dovresti dire cose
del genere. Devo proprio rammentarti che mia figlia porta il nome della
regina Henrietta Maria?»
«Non mi piace» ha ripetuto Lizzy. «Lei in casa vostra, a ripetere quelle sue
nenie papiste prive di senso. Soprattutto con i bambini, che sono così
influenzabili.»
«Ma cosa intendi dire? Hetta non è sciocca, solo muta. Non si venderà
l’anima al papa solo perché avrà visto una brava regina cattolica.»
«In ogni caso. Una bambina innocente, nella stessa casa! E il re! Sapete
bene cosa dicono di lui e del duca di Buckingham.»
«Non capisco quali pettegolezzi…»
«Non potrei mai sopportarlo. Una papista e un sodomita sotto lo stesso
tetto della nostra preziosa bambina.»
«Basta!» Mi sono alzata così di scatto che la sedia ha scricchiolato. Hetta si
è irrigidita e la punta della matita è rimasta sospesa, tremante, sul foglio.
«Tieni a freno la lingua, Lizzy» ho sibilato. «Non te lo permetto, non in casa
mia. È il tuo re. E parlerai di lui con rispetto.»
Il viso di Lizzy si è adombrato. «Sì, padrona.»
L’ho fatto di nuovo. Prima l’ho trattata come un’amica e poi l’ho
brutalmente risospinta nel suo ruolo di serva. Lo faccio sempre e so che a lei
dispiace. Ma cos’altro dovevo dire?
Noi dipendiamo dal re. Josiah ha sangue blu (sua madre era una contessa
vedova, prima di sposare suo padre, che non aveva titoli) ma soltanto il re
può nobilitare il nome dei Bainbridge. Soltanto il re può dare a mio marito il
cavalierato che tanto desidera. Io non posso, non posso permettere che in casa
mia ci sia qualcuno che diffonde idee traditrici e vigliacche. Solo l’anno
scorso ho sentito dire che a un uomo sono state mozzate le orecchie perché
aveva criticato la famiglia reale. Lizzy vuole davvero che faccia un passo
indietro e permetta che questo accada anche a lei?
The Bridge, 1865

Ce n’erano due.
Elsie fissò prima l’uno poi l’altro, cercando un indizio su quelle facce di
legno imperscrutabili. Uno faceva quel suo infantile sorriso d’intesa; l’altro,
l’intruso, era un ragazzino vestito per lavorare nei campi. Era rivolto a destra,
e appoggiato a un vincastro da pastore. Da sotto il berretto gli sfuggivano
ciocche di capelli neri sul viso tetro dalla carnagione scura.
«Chi sei?» domandò a voce alta, come se lui potesse rispondere.
In quel ragazzo c’era qualcosa di sgradevole. Sembrava infido, ribelle.
«Da dove sei spuntato?»
Forse Helen l’aveva trovato nel solaio? No: la porta era chiusa, bloccata. O
no? Ebbe un istante di incertezza. Dopo quella strana faccenda della nursery,
non poteva più essere sicura di niente.
Sbatté le palpebre, nella speranza che quel movimento potesse rivelarle che
lo zingarello era scomparso e accanto alla sua finestra era rimasta soltanto la
bambina con i fiori. Ma non servì a nulla: il ragazzo era ancora là.
Turbata, Elsie gli voltò le spalle e andò verso la scala. Non avrebbe parlato
a nessuno di quel nuovo Amico, non ancora, a meno che non ne fosse certa.
Si era già resa ridicola davanti alla signora Holt.
Forse era il dolore del lutto a darle le allucinazioni? Il dolore faceva uno
strano effetto sulla mente, la gente lo diceva sempre. Ma dopo tutto quello
che aveva passato, non le sembrava probabile che la morte di Rupert potesse
avere l’impatto necessario a farle perdere l’equilibrio.
Mentre saliva le scale la sua gonna si gonfiava; lei la ignorò, come ignorò
lo strato di segatura spazzato dall’orlo. Non voleva pensare al passato, solo al
compito che l’aspettava; sarebbe andata in biblioteca a scrivere per richiedere
un uomo che sistemasse il solaio.
La biblioteca era al secondo piano, era la prima stanza di un corridoio che
partiva dalla sua suite e arrivava in fondo alla casa. Elsie non si era mai presa
la briga di entrarci, prima. A suo modo di vedere, la biblioteca era il regno
degli uomini, satura di tabacco e riflessioni complesse.
Non ebbe problemi con la porta, che si aprì facilmente e scivolò sul
tappeto consunto senza incastrarsi. Mise un piede dentro e rabbrividì. Era
come valicare la soglia di una tomba. E proprio come una tomba, la
biblioteca era buia e soffocante, e vi aleggiava un odore di foglie marce.
Si diresse verso le tre finestre, scostò le tende che sfioravano il pavimento
e tossì per la polvere che piovve dalle mantovane. Filtrò una luce perlacea.
Gli alberi, fuori, sembravano più malridotti di prima; avevano perso parte del
loro fogliame colorato, che era caduto sulla ghiaia. Le aiuole erano piene di
cardi. L’inverno stava arrivando di gran carriera.
Si girò verso la porta. Era ancora socchiusa: buon segno. Non stava
impazzendo. Per quanto riguardava i brividi, la causa era chiara: alla sua
destra sbadigliava un caminetto vuoto, che esalava folate d’aria gelida
convogliata dal vento nel comignolo.
Ora che le tende erano aperte, si rese conto che quella stanza non era come
se l’era aspettata. “Biblioteca” era un nome pretenzioso per una semplice
stanzetta con un’estremità concava e forse cinque o sei librerie lungo le
pareti. In un’alcova, di fronte al fuoco, troneggiava una scrivania lucida e
pesante, con una lampada dal paralume verde appesa sopra lo spazio per
scrivere.
Si avvicinò e si sedette. La poltrona era comodissima e le alleviò la
tensione alla schiena e alle gambe.
Guardò la scrivania. Il calamaio era aperto e ne spuntavano le piume di una
penna d’oca. Rupert. Si era seduto lì, la penna pronta nella mano sinistra. Le
sue gambe avevano toccato quella poltrona di cuoio liscio che scricchiolava,
ma del suo calore non era rimasto niente.
Ne sentiva terribilmente la mancanza. Le mancava e lo odiava. Come
aveva potuto abbandonarla? Avrebbe dovuto essere il suo salvatore, la sua
ricompensa, l’uomo ricco entrato in fabbrica all’improvviso che si era
innamorato di una donna di condizione inferiore. Non poteva affrontare i
giorni che l’attendevano senza di lui. Non poteva crescere un bambino e
superare tutti i ricordi che questo avrebbe risvegliato. Aveva bisogno di lui.
Le lacrime le annebbiarono la vista mentre a tentoni apriva i cassetti uno
dopo l’altro, spalancandoli. Il legno cigolava e le maniglie di metallo
tintinnavano. Doveva tenersi impegnata, doveva scrivere a qualcuno di quel
buco nel pavimento del solaio. C’erano da fare dei lavori grossi a The Bridge,
prima che potesse viverci un bambino.
Dai cassetti svolazzarono fuori alcuni fasci di fogli di carta. Avrebbe
dovuto passarli in rassegna a uno a uno e scoprire fino a che punto Rupert
aveva portato avanti i propri progetti. Quell’orribile nursery andava
completamente ristrutturata, tanto per cominciare. Forse l’avrebbe anche
spostata; detestava l’idea di mettere suo figlio nella stanza dov’erano morti i
fratellini di Rupert. Lo spazio bastava per una nursery diurna e una notturna,
per non parlare…
Le sue mani si immobilizzarono.
Qualcosa brillava nelle profondità di un cassetto. Si chinò. Di nuovo:
minuscole scintille sparse sulla fodera verde. Infilò dentro la mano e strinse le
dita intorno a un sacchetto di velluto. Era pesante. Lo tirò fuori e lo lasciò
cadere sulla scrivania con un tonfo.
Il sacchetto era vecchio ma non consumato; era come se il tempo l’avesse
abbellito, invece che rovinato. Era stato costruito per chiudersi con delle
cordicelle, ma restava aperto per colpa di un rotolo di carta. Elsie non esitò:
rovesciò il sacchetto e ne sparse il contenuto sul piano.
Si ritrasse, abbagliata. Un rivolo dei colori dell’arcobaleno si increspò a
formare una spirale. Allungò un dito per toccarlo e attraverso i guanti percepì
la solidità dei gioielli. «Non è possibile» balbettò, prendendola. E invece sì:
una collana zeppa di diamanti.
Le gemme catturavano la luce da centinaia di angolazioni diverse,
bruciando come fuoco bianco. La catena era incrostata di brillanti che
arrivavano fino al centro, dove alcune pietre taglio marquise formavano un
arco scintillante. I tre pendenti – tre enormi pietre tagliate a goccia – da soli
parevano più preziosi della casa stessa.
Ipnotizzata, rimise la collana sulla scrivania e la fissò. La catena sembrava
antica, ma i diamanti erano perfetti. Non notò la minima opacità; soltanto
quella fiamma calda e bianca che lungo i bordi si scioglieva in mille colori.
Ma il rotolo. Cosa c’era scritto? Lo prese e lo lisciò.

Mia carissima moglie,


come un cospiratore, agito la mia bacchetta magica e… ecco! Guarda cos’è
arrivato dal caveau della banca di Torbury St Jude!
Immagino la tua espressione quando aprirai questo pacchetto. Non ti eri resa
conto di avere sposato il membro di una famiglia in cui esistono dei cimeli,
vero? I diamanti Bainbridge sono stati trasmessi di generazione in
generazione. La leggenda dice che siano stati pescati dal fiume dallo stesso
padrone della casa! Quando mia madre è morta mio padre li ha messi sotto
chiave ed è da allora che non li vedo. Starebbero divinamente intorno al tuo
bellissimo collo! Mi dispiace soltanto di non averli recuperati in tempo per il
matrimonio.
Ho scoperto che a The Bridge andranno fatti più lavori del previsto. A parte
le spese per sistemare il giardino e ritinteggiare la casa (già notevoli), ora
temo che dovremo trovare un acchiappatopi. Nelle ultime notti sono rimasto
sveglio per colpa di un rumore terribile proveniente dal solaio. La governante
non ha la chiave e sebbene io abbia cercato di forzare la serratura, sono
riuscito solo a ferirmi. Dopo averti scritto, manderò a chiamare un fabbro per
scoprire cosa c’è là dentro. Se il gatto non sterminerà i topi, dovrò incaricare
un uomo.
Stai pure tranquilla, non ti permetterò di mettere piede in questa casa fino a
quando non sarà degna di te e del nostro piccolo sconosciuto. Mi mancate
entrambi e attendo la tua prossima lettera con grande impazienza.
Tuo per sempre,
Rupert

Le sue mani non smettevano di tremare. Il foglio si agitava in maniera


incontrollabile. Poi si strappò e lei scoppiò a piangere.
The Bridge, 1635

Non aspetto altro che la promessa della primavera. Il tempo è stato orribile
per tutta la Quaresima e poi a Pasqua la chiesa si è allagata. Josiah mi scrive
che a corte hanno sospeso i festeggiamenti fino alla Pentecoste. Certo, non li
posso biasimare. Più che giornate primaverili sembrano cupe serate
novembrine. Dio solo sa cosa farò se la situazione non migliora entro agosto.
Se il re non potrà andare a caccia nei boschi e se la regina non potrà godersi i
giardini, sarà un disastro.
Questo pomeriggio sono riuscita a uscire nei giardini all’italiana per la
prima volta da settimane. Brillava il sole, ma l’allodola non cantava e sugli
alberi non era spuntato nessun germoglio appiccicoso. La mia Hetta lavorava
nel suo giardino fisico, dove coltiva erbe. Era adorabile con il suo cappellino
di paglia, tutta concentrata, e con quelle cesoiette potava le cime morte – zac,
zac – che emanavano i loro intensi profumi. L’ho osservata con piacere.
Nell’ombra sembrava un giglio; la pelle pallida e la ragnatela di vene intorno
agli occhi. È una fanciulla così fragile e delicata: mia sorella Mary modellata
nella porcellana.
Ho cercato di non permettere all’aroma delle erbe di sconvolgermi la
memoria, ma non sono riuscita a controllarla. Ho chiuso gli occhi e sono
tornata a quella notte, a quella tisana preparata sotto la luna piena. Al torbido
riflesso del mio viso in fondo alla tazza. Il senso di colpa persiste, come
l’odore delle mele cadute che marciscono in un frutteto. Forse ho sbagliato a
voler interferire con l’ordine naturale delle cose, ma non riesco a pentirmene;
non riesco a pentirmi di lei.
Harris si occupava del giardino a nodo; in ginocchio, potava i cespugli con
precisione e rastrellava la ghiaia colorata. Il vento forte aveva cancellato i
disegni, quindi gli ho chiesto di ricostruire le volute. Gli ho anche domandato
di dare nuove forme alle siepi, o almeno al parterre – angeli e gigli per una
figlia di Francia – ma lui dubita che cresceranno a sufficienza in tempo per
agosto.
«Allora comprate dei cespugli già cresciuti» gli ho detto. «E potateli.»
Mi è parso che trovasse la cosa divertente. Tuttavia, in quell’ambito mi ha
promesso di fare del suo meglio. Per quanto riguarda la mia richiesta di
piantare certe varietà, è stato del tutto scoraggiante.
«Rose e gigli insieme non crescono» ha detto, ripulendosi la terra da sotto
le unghie storte. «Non sono fatti gli uni per gli altri.»
«Lo so. Non abbiamo bisogno che crescano insieme, ma devono essere
entrambi nel giardino. Una rosa per il re d’Inghilterra e un giglio per la
principessa di Francia.»
«Con un giglio posso riuscirci. Ai bulbi piace stare sepolti a fondo, al
fresco e all’ombra. Però se continua a piovere rischiano di guastarsi.»
«E i nostri roseti?» domandai. «Quest’anno non fioriscono?»
Lui ha allargato le braccia con un sospiro che mi ha fatto infuriare, quasi
non fosse compito suo far funzionare queste cose. «Ci vuole pieno sole,
padrona. Per fiorire hanno bisogno di tanta luce e terreno drenato. Se me li
procurate, vi faccio fiorire le rose.»
Ho temuto di perdere la calma, così mi sono piantata i pugni sui fianchi e
ho guardato Hetta. Aveva smesso di lavorare ed era là in piedi a fissare le
colline verdi, come se fosse in attesa di qualcosa. Dei fiorellini bianchi le si
intrecciavano sulle scarpe; pareva quasi che alcuni rametti scomposti
cercassero di raggiungerla e abbracciarla.
«Hetta» l’ho chiamata. «Fai un passo indietro, tesoro, ti strapperai il
vestito.»
Lei mi ha obbedito, ma senza guardarmi. Vicino a lei ho sentito le cesoiette
fare zac, zac. Ma non tagliavano niente. Solo l’aria.
«Per quanto riguarda i cardi» ha detto Harris, «non posso permettervelo.
Sono un’erba cattiva, padrona. Se glielo lasciate fare si prenderanno tutto il
giardino.»
«Il cardo è il fiore della Scozia. Il simbolo della famiglia Stuart.»
«È un’erba cattiva» ha ripetuto lui. «Invasiva. Divorante. Striscia.»
All’improvviso mi sono venuti i brividi. Dopotutto il clima non è poi così
mite. «Se dovete piantarli da qualche parte, metteteli nell’orto della signorina.
Credo che là farebbero meno danni.»
Devo confessare che aveva ragione: sui danni, intendo. Forse quello che
non è in grado di controllare il diffondersi di un’erba cattiva è lui, ma la mia
Hetta ne è capace. Non ho ancora visto una pianta che non riesca a domare o
addomesticare, dal finocchio marino e dall’uva spina che prosperano nell’orto
alla tossillaggine e al partenio che coltiva per i nostri acciacchi e dolori. Le
ho insegnato io a piantare, ma ora mi ha sorpassato. Ha solo otto anni e mi ha
superato di tanto.
A volte credo sia la tisana che le scorre nelle vene a far fiorire le sue
piante. Da Mary ha ereditato molto di più che l’aspetto, perché era mia
sorella maggiore quella che in segreto andava a trovare le curatrici e mi
insegnava le loro arti.
«Hetta. Hetta, tesoro mio.» Mi sono sollevata l’orlo della gonna e mi sono
inoltrata tra i rami non ancora potati per raggiungerla. Mi ha guardato
solamente quando le ho messo una mano sulla spalla. «Ho un grande favore
da chiederti.» Ignorando la terra, mi sono accucciata per mettermi al suo
livello. «Coltiveresti per me dei cardi nella tua aiuola?»
Lei ha sbattuto le palpebre e poi ha inclinato la testa dubbiosa.
Ho esitato. Josiah non mi ha permesso di parlare della visita reale davanti a
Hetta, ma la sottovaluta. Come dico spesso, è soltanto muta, non è una povera
sciocca qualsiasi. Sente parlare gli altri. Deve avere intuito cosa sta
succedendo.
«Il motivo per cui te lo chiedo è che verranno a stare qui il re e la regina. Il
cardo è uno dei simboli del re, capisci?»
Lei ha annuito. Il moncone rosato e deforme della sua lingua si è mosso e
dalla gola le è uscito un suono; non una parola, piuttosto un belato.
Mi sono sentita svuotare. Guardare quella lingua è come guardare un abito
macchiato o una lettera con l’inchiostro sbavato. Risento ancora una volta le
parole di Josiah: la sua aberrazione. Mary non avrebbe mai commesso un
errore del genere.
Spronata dal senso di colpa ho aggiunto: «Anzi, tesoro, potresti aiutarmi
nei preparativi anche in altri modi. La cena che serviremo al re dev’essere
squisita. Per insaporirla avrò bisogno di rosmarino, salvia e timo. Di basilico
e forse anche di un po’ di prezzemolo. Cipolle, mele cotogne, rape» ho
continuato contando sulle dita. «Credi di riuscire a far crescere tutto questo?»
Sul viso le si è aperto un sorriso e mi si è allargato il cuore. Quando Hetta
sorride non c’è bisogno di parole: riesce a incantarti con le labbra rivolte
all’insù e le morbide fossette. Come può la gente insinuare che sia un
demonio a renderla muta? Come possono anche solo pensarlo?
«Bene.» E le ho sfiorato una guancia. Il suo profumo, così dolce e fiorito, e
la sua pelle, come petali di seta. «Brava. Scrivi quello di cui hai bisogno e il
signor Harris te lo procurerà.»
Almeno così sarà coinvolta nella gloria di quella giornata, checché ne dica
Josiah.
Le sue parole mi perseguitano: la sua aberrazione. In piedi nella dispensa,
mentre cerco di schiacciare i rimorsi con pestello e mortaio, le rivedo: quella
lingua. E l’espressione di Josiah.
Credo che sappia.
Non ha mai temuto il mio potere, prima. Beve erbe e infusi per aiutare la
fortuna senza discutere. Quando però guarda Hetta è come se vedesse non un
fiore, ma soltanto la terra fangosa che c’è sotto. Come se vedesse le mie mani
callose e incrostate di sporco.
The Bridge, 1865

In una giornata luminosa e frizzante la carrozza tornò traballando dal paese,


carica di pacchetti. Tra i rami spogli degli alberi occhieggiavano pezzetti di
cielo color pervinca.
«Sono così belli. Posso vederli?» Sarah allungò la mano fasciata. Sulla
superficie sbocciò un accenno di sangue. Anche se era già passata una
settimana da quando si era tagliata con l’Amico e la ferita era piccola, pareva
proprio che non volesse guarire.
Elsie le passò il pacchetto. «Fai attenzione, altrimenti ci toccherà tornare e
farli ripulire di nuovo.»
«Non mi avvicinerò alle gemme con la benda. Vede, per aprire mi basta
soltanto l’altra mano.» Sarah lisciò la stoffa e sospirò come una donna
innamorata. «Non sapevo che in famiglia ci fossero dei diamanti.»
Dopo essere stata pulita e lucidata dal gioielliere di Torbury St Jude, la
collana brillava più luminosa che mai. I diamanti a goccia mandavano lampi
color cannella, poi bianchi e azzurri, mentre la luce entrava a fiotti dal
finestrino della carrozza.
Elsie distolse il viso. Ogni volta che guardava la collana pensava alla
lettera di Rupert, alla sua cara voce che le giungeva dall’oltretomba. Stai pure
tranquilla, non ti permetterò di mettere piede in questa casa fino a quando
non sarà degna di te. Se soltanto avesse saputo.
«Rupert scriveva che fino a quando lui non è arrivato a The Bridge, la
collana è rimasta rinchiusa nel caveau di una banca.»
«La cosa non mi stupisce.» Sarah si inumidì le labbra. «Quando penso alle
mie antenate che hanno indossato questa collana… Forse l’ha messa perfino
Anne Bainbridge, di cui sto leggendo il diario! Questi diamanti possono aver
toccato la sua pelle, essersi mossi con lei. È quasi troppo meraviglioso per
riuscire a concepirlo.»
Di nuovo la storia degli antenati. Ogni volta che Sarah li nominava, Elsie
provava un’altra fitta di senso di colpa. La fanciulla aveva perduto la sua
famiglia e ora la vedova di suo cugino le strappava di mano l’eredità. Se Elsie
avesse trovato i diamanti per caso, forse li avrebbe lasciati a Sarah. Ma la
lettera di Rupert era molto chiara sulla sua volontà ed Elsie non avrebbe mai
dato via quell’ultimo dono del marito.
«Ma, signora Bainbridge, lei non può indossare diamanti fino a quando
non avrà concluso l’anno di lutto! Che peccato. Mi piacerebbe tanto vederli
ogni giorno.»
«A me basta sapere che li puoi vedere anche tu. Dopo quell’episodio con la
signora Holt, stavo cominciando a temere di essere impazzita.»
«Lei non è pazza.» Sarah richiuse il pacchetto. «Nei negozi, oggi, l’hanno
trattata come una pazza?»
«Grazie a Dio no.» Elsie doveva ammettere che quella gita le aveva
rinfrancato lo spirito. Nella confusione di Torbury St Jude, le bancarelle, gli
arrotini e i calessi che facevano avanti e indietro dalla stazione, era difficile
soffermarsi su pensieri cupi. Era stata da un carpentiere, da un muratore e da
un tappezziere per discutere i suoi progetti per la casa. Poi, visto che si
avvicinava in fretta il periodo di mezzo lutto di Sarah, erano andate a ordinare
dei vestiti nuovi per lei, in grigio e lavanda. Elsie avrebbe mantenuto il nero,
ma questo non le aveva impedito di commissionare la fattura di un paio di
abiti nuovi in grado di accogliere il suo ventre in crescita.
«Ho trascorso la vita con una persona anziana» proseguì Sarah. «Mi creda,
riconosco bene i segni di una mente che inizia a perdersi.»
«E questi segni includono fare ordinazioni sventate per rimodernare la casa
e spendere una fortuna in vestiti nuovi?»
«Direi proprio di no! Se lei è impazzita» disse Sarah, dandosi un’occhiata
alla ferita, «allora sta succedendo anche a me.»
Incapace di controllarsi, Elsie allungò una mano e afferrò il polso di Sarah.
«Li hai visti? Hai visto le bambole e gli animali della nursery?»
«Sì. Erano bellissimi! Non è assolutamente possibile che…» Si accigliò,
preoccupata. «Non riesco a capire. Mi sembra tutto uno scherzo crudele. Ma
la signora Holt non è certo il tipo di donna che si divertirebbe in questo
modo. Forse c’è stato un equivoco? L’ha fatta entrare in un’altra stanza?»
«È molto improbabile. Perché dovrebbero esserci due nursery, una
l’immagine speculare e distorta dell’altra?»
«Noi due abbiamo due stanze speculari» osservò Sarah. Con aria assente,
si succhiava la punta di un ricciolo che le ciondolava vicino alla bocca.
Fayford era più bella con il sole. La strada fangosa si era asciugata
diventando un sentiero pieno di solchi. Alcuni abitanti si erano avventurati
fuori dalle loro casette. Elsie li salutò con la mano. Quelli in risposta si
sfiorarono la fronte, ma lei notò che facevano rientrare in fretta i bambini,
come se portasse sfortuna il fatto che lei posasse lo sguardo su di loro. Con
tutte quelle superstizioni, probabilmente erano convinti che le vedove
scatenassero la sventura.
«Sarah, e il secondo Amico? Hai visto anche lui?»
«Lo zingarello. Sì, gliel’ho detto.»
«Ne sei certa?»
«Sicuro. Ce ne sono due.»
Ma come?
Ora erano sul ponte, fiancheggiato dai due leoni di pietra. Mentre
passavano Elsie ebbe un brivido. «Dovrò parlare con Helen. Ma immagino
che me l’avrebbe detto, se ne avesse trovato un altro. Non ho mai avuto una
cameriera tanto sciatta.»
Passarono dal portale d’ingresso e iniziarono a scendere la collina che
portava a The Bridge. In cielo, le nuvole sfrecciavano veloci, proiettando
ombre sul terreno. I giardinieri che lei aveva assunto erano al lavoro. Alcuni
potavano cespugli, altri erano inginocchiati nei parterre e sradicavano fiori
morti.
I cavalli frenarono davanti alla casa. Dal finestrino vide le sagome degli
Amici che attendevano nel salone. Due Amici.
Il maggiordomo che non sorrideva mai, il signor Stilford, aprì lo sportello
della carrozza e tirò fuori la scaletta con gesti efficienti. Appena questa toccò
la ghiaia, si girò e si rivolse a Peters. «Quando porterà i cavalli nella stalla
troverà un nuovo ospite, signor Peters. Sembra che abbiano un compagno.»
Facendo bene attenzione a manovrare la crinolina, Elsie lo seguiva
arrancando. «Un compagno?»
«È arrivata la sua vacca, signora.»
Se n’era quasi dimenticata. Tornando a passo di danza verso la carrozza,
offrì la mano a Sarah e l’aiutò a scendere. «È arrivata la vacca che ho
adottato, Sarah. La mia piccolina. Nel pomeriggio ci divertiremo a trovarle
una sistemazione.» Era felice di non essere costretta a rinchiudersi in casa.
«Porti dentro le scatole, le dispiace?» domandò a Stilford. «Noi andiamo a
vederla.»
Afferrando con una mano Sarah e con l’altra una manciata di stoffa della
gonna, si fece strada tra la terra e gli utensili lasciati dai giardinieri e
raggiunse la stalla dietro la casa. Era un edificio di mattoni decrepito, a forma
di ferro di cavallo. Dai portoni verde bosco si staccavano riccioli di vernice
secca. Sul tetto era montato un orologio le cui lancette erano bloccate sulle
dieci meno un quarto. Perfino la banderuola si era arrugginita indicando
eternamente l’Est.
La vacca non sembrava affatto fuori posto in quello squallido scenario. Se
ne stava accanto all’uomo che la teneva per la cavezza, la grossa testa nera
ciondoloni, come delusa.
«Oh!» La voce di Sarah si acuì. «L’ha portata il signor Underwood.»
In effetti era proprio lui: di primo acchito Elsie non l’aveva riconosciuto.
Era vestito in maniera diversa: pantaloni e giacca di tweed, chiaramente di
seconda mano, che cadevano male sul suo fisico slanciato. Un cappello basso
e a tesa larga gli schiacciava la frangia sulla fronte.
«Signora Bainbridge. Signorina Bainbridge.» Strinse loro la mano. «Che
piacere. Spero che la signorina Bainbridge si sia ripresa dal mancamento
dell’ultima volta che ci siamo visti.»
Le guance di Sarah si colorarono. «Oh, sì. Mi sono ripresa benissimo.»
Quando lui le sorrise, si lasciò sfuggire una risatina assurda.
Allora era così che stavano le cose.
«Ma mi par di vedere che si è ferita una mano.»
Sarah toccò la benda. «Sì. Ma è solo un graffio. Davvero, che gesto carino
da parte sua accorgersene!»
«Devo ringraziarla per avere scortato la mia protetta fino a The Bridge»
intervenne Elsie. «Quant’è cara. Non ha nemmeno alzato la testa per
guardarci.» Il povero animale sembrava non aspettarsi altro che future
disgrazie. «La ingrasseremo e la faremo star meglio in pochissimo tempo. E
avrà bisogno di un nome.»
«Betsy» suggerì Sarah. «O Daisy.»
«Per l’amor di Dio, un po’ di fantasia. Qualcosa di più poetico.»
«Al momento non mi pare molto poetica» osservò Underwood.
«Al contrario! È un’anima tormentata sfuggita al purgatorio che sta per
fare ingresso nel paradiso perfetto delle vacche… se lei non lo trova un
paragone blasfemo, signor Underwood.»
Le labbra di lui si incresparono in un sorriso. «Allora sarebbe la Beatrice di
Dante?»
Elsie non capì di chi stava parlando, ma il suono di quel nome le piaceva.
«La vacca Beatrice.»
«Be’, spero che le sue aspettative siano alte come il nome che porta.»
Arrivò Peters, che tolse di mano la cavezza a Underwood. Facendo
schioccare piano la lingua, incoraggiò Beatrice a seguirlo fino a un box. Lei
si allontanò dinoccolata, gli zoccoli troppo grossi che scivolavano
sull’acciottolato.
«Mi ha fatto tanto piacere» disse Underwood «quando la signora Holt mi
ha parlato della sua idea di prendere la vacca. In genere gli abitanti del paese
esitano ad avere a che fare con la grande casa. Ma con l’inverno in arrivo,
finalmente hanno capito che la cosa ha un senso.»
«Io ne sono convinta! Ho offerto un prezzo più che congruo per quel
mucchietto d’ossa.» Si pentì di quelle parole non appena le ebbe pronunciate.
Sembrava suo padre.
«Lo so, signora Bainbridge. È stata molto buona a suggerire la transazione,
ne sono perfettamente consapevole. Non deve prendere a male le loro piccole
eccentricità. I poveri possono essere molto orgogliosi.»
Elsie pensò alle fiammiferaie, alle dita avide di suo padre. «Non a Londra»
disse.

Accompagnò il signor Underwood al primo piano. Sentiva che portare un


vicario vicino alla nursery sarebbe servito. La sua presenza avrebbe potuto
allontanare… qualunque cosa fosse. Ciò che costringeva lei e Sarah a vedere
cose che non esistevano.
Con Mabel infortunata, la casa era ridotta in condizioni sempre peggiori.
Elsie trovò una pioggia di schegge di legno sul pianerottolo e dei lunghi
graffi profondi sul pavimento, come se vi fossero stati trascinati oggetti
pesanti. Grazie a Dio il salotto rimaneva presentabile e piacevolmente
riscaldato dal sole pomeridiano.
Elsie indicò a Underwood un divano tappezzato di seta giallo pallido e lo
pregò di accomodarsi. Suonò la campanella per chiedere il tè, senza nutrire
grandi speranze.
«Che stanza adorabile, signora Bainbridge. Mi piacciono molto le farfalle
incorniciate. Ma chi sono i nostri compagni?»
Lei ne seguì lo sguardo. «Oh!»
Ai due lati del fuoco ormai quasi spento c’erano i due Amici.
Ma prima non erano… non li aveva appena visti nel salone?
La fanciulla aveva un’aria dolcemente dispiaciuta e si stringeva al petto la
rosa bianca come se volesse implorare indulgenza. Ma il ragazzo no; i suoi
occhi malevoli la guardavano fissi, con aria di sfida.
Sarah si sistemò su una sedia di fronte al signor Underwood. «Li abbiamo
rinvenuti nel solaio qualche giorno fa. Sono oggetti curiosi, non trova? Deve
averli portati qui sopra la nostra cameriera.»
Ma perché Helen avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Era stata lei a
scavare quei solchi nel pavimento, trascinandoseli dietro?
«Un’opera d’arte davvero finissima» replicò Underwood. «Sembrano quasi
dotati di vita propria.»
Sarah fece un risolino. Elsie cercò di ridere, ma le venne fuori un gorgoglio
forzato. «In effetti mi sento un po’ sola, a girare per questa vecchia casa.
Queste figure sono i miei ospiti fino a quando non mi sarà permesso di
invitarne di veri. Ma se mai le dirò che hanno iniziato a rivolgermi la parola,
signor Underwood, le do il permesso di spedirmi al manicomio.»
Lui le rivolse un sorriso gentile. «Mi dispiace apprendere che si sente sola.
Ci farà sempre piacere vederla in chiesa. Venga questa domenica.»
All’improvviso, le lacrime le chiusero la gola. Si guardò le mani. Per la
prima volta nella sua vedovanza, le venne voglia di mettersi a urlare e
piangere come sua madre. «Lo farò. Oso dirle che può sembrare strano che
non ci sia venuta prima, ma non mi pareva di essere… bene accolta. Ma oggi
mi sono sentita incoraggiata. Quando siamo passate gli abitanti del paese mi
sono quasi sembrati amichevoli.»
«Ma certo. È tutto grazie a… ehm… Beatrice. Ho raccontato a tutti della
sua idea di ingrassarla e farle produrre latte. Sono molti anni che non è
abbastanza in salute da essere munta. Latte e burro faranno un’enorme
differenza per la vita dei paesani. In particolare per i bambini.»
«Ma certo. E farei di più se potessi. Darei lavoro alla gente. Lei sa perché
non vogliono lavorare per la mia famiglia? Si tratta solo degli scheletri di cui
abbiamo parlato? La signora Holt non ha detto che c’è stato anche un
incidente con un valletto, anni fa?»
«Be’…» Underwood tacque, toccandosi le labbra. «Direi che si tratta di un
miscuglio di leggende e di superstizione. Mi sono dimenticato di portarle
quei registri che mi ha chiesto, signora Bainbridge, ma ricordo di avere letto
di una stupidaggine riguardante una presunta strega.»
Sarah si protese, interessata. «Potrebbe essere il diario che sto leggendo!
Anne Bainbridge, una mia antenata. Era molto brava con le erbe e preparava
pozioni portafortuna. Pareva convinta di possedere un potere speciale. I
paesani credevano davvero che fosse una strega?»
Il signor Underwood sospirò. «È probabile, signorina Bainbridge.
All’epoca la gente non era molto razionale. E con la servitù la sua famiglia è
sempre stata sfortunata. Ci sono state parecchie morti accidentali e
ovviamente gli abitanti del paese vogliono poter dare la colpa a qualcuno…»
Alzò le mani. «È così che nascono le dicerie. Ma io spero che, con
l’istruzione, per la prossima generazione sia possibile sradicare le false
credenze. Devo ammettere, signora Bainbridge, di nutrire delle idee un filino
radicali. Ritengo che ogni fanciullo debba poter studiare, indipendentemente
dal suo ceto. Dovrebbero tutti ricevere gli strumenti di cui hanno bisogno in
questo mondo.»
«Non potrei essere più d’accordo.» Ripensò al piccolo Jolyon con il suo
abaco, la lingua fuori per la concentrazione, e un nodo doloroso le strinse il
petto. «Forse dovrebbe mettere su una scuola qui?»
Il sorriso che gli illuminò il viso era così grande e genuino che per un
attimo capì perché Sarah l’ammirava. «Lei mi aiuterebbe?»
«Quando potrò. La più adatta al compito sarebbe la signorina Bainbridge.
Tra poco meno di un mese non dovrà più portare il lutto e potrà fare molte
cose che non sarebbero appropriate per una vedova.»
«Oh sì, lasci che l’aiuti, signor Underwood!» Sarah batté le mani, il cui
suono fu attutito dalla benda. «Trovo che sia un’idea meravigliosa. La
signora Crabbly mi ha lasciato una piccola eredità ed elargirò una donazione.
Dobbiamo aiutare i bambini.»
A un tratto rivide di nuovo quelle lapidi. Sepolte sotto un nome preso a
prestito. Povere bambine… Non aveva intenzione di tenersi tutti i soldi di
Rupert per suo figlio. Di bambini ce n’erano altri: inermi, vulnerabili.
Il pensiero la fece vacillare e in bocca le salì un sapore acido. Scattò subito
in piedi. Tutto le parve vibrare, diventare incerto e instabile. «Io… la prego di
scusarmi. Devo… andare a vedere se arriva il tè.»
Con la coda dell’occhio scorse il primo Amico. Non le era mai somigliato
tanto. Era la sua stessa faccia, che la guardava.
Dovette scappare dalla stanza prima di vomitare.
La galleria era delimitata da un corrimano di legno, che impediva di
precipitare nel salone. Elsie dovette percorrere tutto il perimetro del quadrato
per arrivare alla toilette. In genere non le costava fatica, ma la nausea rendeva
insormontabile la distanza. Allungò un braccio e usò il corrimano per
sostenersi. Lo sentì scricchiolare. Pensò al valletto di cui le aveva raccontato
la signora Holt, che piombava giù trovando la morte, e ritirò il braccio.
Nella galleria, il pavimento cigolò. Helen si precipitò verso di lei dalla
direzione opposta, le guance rosse come mele. I lacci della cuffietta erano
sciolti e le sbattevano sulle spalle.
Elsie inspirò a fondo. «Helen? Dov’è il vassoio del tè?»
«Lo sta preparando la signora Holt, signora.» Helen fece gli ultimi passi, il
mento tremante sopra il colletto del vestito. «Spero che mi perdonerà ma
volevo parlarle… da sola.»
Proprio in quel momento dal salotto si diffuse la risata di Sarah. Le tornò
alla mente il viso dell’Amico.
«Helen, trovami un vaso da notte. Subito.»

Una volta che ebbe espulso quel peso e bevuto un bicchiere d’acqua, Elsie si
rese conto dell’ambiente che la circondava. Helen l’aveva fatta sedere sul
panno verde consunto del biliardo, con i piedi penzoloni dal bordo. Lì
accanto, in salotto, si sentiva il tintinnio dei cucchiaini contro la porcellana.
La signora Holt doveva aver finalmente servito il tè.
«Ho detto alla signora Holt che sarei rimasta con lei, per un poco, nel
caso… nel caso stesse ancora male.» Helen sussurrava e i suoi occhi
continuavano a spostarsi verso il muro. «Non ho molto tempo, signora. Posso
parlarle adesso?»
Elsie non era dell’umore per occuparsi dei problemi del personale, ma
Helen le aveva impedito di vomitare e svenire in corridoio. Le doveva
almeno un orecchio attento.
«Sì, un momento ce l’avrei. Su, dimmi.»
«Io…» Helen si interruppe, confusa. Abbassò lo sguardo e cominciò a
giocherellare con il grembiule. «Non so proprio da dove cominciare, signora.
È solo che… la signora Holt mi ha detto che è stata nella nursery.»
A un tratto, una vampata di calore alla testa. «Sì.»
«E ha…» Torse ancora una volta il grembiule. «Ha visto niente, signora?»
Elsie si aggrappò al bordo del biliardo. Scherzava, sicuramente. La signora
Holt si era lasciata sfuggire la sua reazione nella nursery e la cameriera si
stava prendendo gioco di lei.
La governante della casa londinese di Rupert aveva cercato di convincere
Elsie a servire la cena alle due del pomeriggio, per farla sfigurare davanti agli
ospiti. La servitù lo capiva, che il suo era un patrimonio di origine
commerciale; “soldi da bottegai” li chiamavano. Non aveva antenati nobili e
quindi la ritenevano una preda facile.
«Cosa pensi che avrei dovuto vedere, esattamente?»
Si sarebbe aspettata la descrizione da lei resa alla signora Holt della culla e
dei giocattoli. Invece Helen disse: «Delle scritte».
«Scritte?»
Helen lasciò cadere il grembiule. «Non avrei dovuto parlare. Signora, la
prego di dimenticare quel che ho detto.»
«Hai visto delle scritte nella nursery, Helen?»
La cameriera le fece ansiosamente cenno di tacere. «La signora Holt non la
deve sentire. Odia questo genere di cose. Si è perfino comprata un gatto nero
per dimostrare che le superstizioni sono stupidaggini. Ma da quando è
arrivato il padrone, qualcosa… qui c’è qualcosa di strano.»
Se stava recitando, era brava. Aveva le mani tremanti di una donna in
preda a un attacco di nervi.
Elsie scelse con molta attenzione cosa dire in seguito. «Credo che sia stata
tu a trovare il signor Bainbridge, vero? Dopo la sua morte? È naturale che ti
senta snervata dopo avere avuto un lutto in casa. Forse…»
Helen scosse la testa. «Ci avevo pensato, signora, quando Mabel non si è
accorta di niente. E ho pensato che in quella nursery c’è abbastanza canfora
da ammazzare un gatto, e che quindi forse era stato quell’odore a
confondermi le idee. Ma il padrone… le ha viste anche lui.»
Sul bordo del biliardo, Elsie vacillò. «Le scritte?»
«No… non esattamente. Sono stata solo io a vederle, nella polvere. Come
se fossero state tracciate da un dito. Ma per il padrone è stato diverso. Lui ha
visto le lettere di legno, che formavano una parola.»
«Quale parola, Helen? Sei riuscita a leggerla?»
«Oh sì. È stata la signora Holt a insegnarmi a leggere.» E poi, con una
sfumatura d’orgoglio: «Mabel ancora non c’è riuscita».
«Lascia perdere adesso, che parola era? Cosa diceva?»
Con un sorriso storto, Helen rispose: «Mamma. C’era scritto mamma».
The Bridge, 1635

Non sono nemmeno lontanamente pronta alla visita reale quanto vorrei, per
via della neve (la neve!) a Pentecoste, che ha ostacolato ogni spostamento.
Una terribile gelata ha distrutto quasi tutte le mie piante. Dovrò riseminarle, o
sostituirle con fiori già sbocciati. Grazie al cielo le serre di Londra sono
riuscite a inviarci rose e gigli! Prego Dio di riuscire a mantenerli vivi per i
prossimi tre mesi. Un altro piccolo miracolo è stato che l’orto delle erbe di
Hetta è sopravvissuto. Quei rametti verdi si sono dimostrati davvero tenaci e
gli steli verde-azzurri del cardo crescono bene.
La mia ansia cresce con l’aumentare delle speranze di Josiah. Già progetta
di costruire una nuova ala per la casa. Stamattina è entrato nelle mie stanze
mentre mi vestivo, con un pacco avvolto nella seta.
«Che cos’è?» ho chiesto alla sua immagine riflessa nello specchio. Dietro
ho sentito qualcosa di freddo, di limpido come il ghiaccio.
«È un dono, mia signora.» E mi ha messo una mano sulla spalla. «Prova a
indovinare.»
«Un gioiello da indossare quando verranno il re e la regina. Una…
collana?»
Lui ha riso. «La mia piccola profetessa.»
E ha cominciato ad aprire il pacco. Ho dovuto socchiudere gli occhi, non
ho visto ma ho avvertito le sue mani intorno al collo. La collana mi sfiorava
la clavicola. Dura, fredda. Come una fascia di neve.
«Apri gli occhi» ha riso Josiah. «Lizzy, tira le tende, la tua padrona è
rimasta quasi accecata.»
Ho sentito le tende scorrere alle mie spalle e ho lentamente sollevato le
palpebre.
Avevo indovinato l’oggetto, ma non la sua qualità. Il mio collo era cinto da
diamanti che mi arrivavano fino al seno. La collana era a forma d’arco, con
tre pendenti a goccia. Pietre dal taglio perfetto, pure come acqua. Un gioiello
che potrebbe appartenere alla regina stessa.
«Josiah…»
Ho colto la sua immagine nello specchio. Era gonfio d’orgoglio. «La
tramanderemo ai nostri eredi, Annie. Alla moglie di James e alla moglie di
suo figlio e così via. Ogni grande famiglia deve avere un cimelio prezioso.
Questi saranno i diamanti Bainbridge.»
Ho dischiuso le labbra. Sono stata sul punto di dire che avevo già avuto i
gioielli di sua madre, ma nell’atmosfera c’era una pesantezza, una vibrazione
che me l’ha impedito. «Sono molto belli. Possiamo…» Ho lanciato
un’occhiata a Lizzy e ho abbassato la voce. «Possiamo permettercela,
tesoro?»
Lui si è accigliato. «Ma perché ti preoccupi di una cosa del genere? Presto
arriveranno gli affitti di mezza estate.»
Affitti che dall’ultimo trimestre avevamo aumentato, ho pensato.
«Ma certo.» I diamanti mi pesavano sul petto. Quando li muovevo sulla
pelle erano dolorosamente freddi. «Perdonami, è solo che… non ho mai
posseduto un oggetto così prezioso! A dirti la verità, ne ho un po’ di timore.»
Non riuscivo a non pensare a come Mary aveva parlato dei diamanti, molti
anni prima.
«Tengono lontano il malocchio» mi aveva detto. «Ti proteggono dalle
magie più oscure.»
Era per questo che Josiah me li aveva allacciati intorno al collo?
Sospettava forse che la mia dispensa contenesse qualcosa di più che semplici
erbe?
Mi girava la testa, mi sono toccata la gola e ho guardato la sua immagine
nello specchio.
Sorrideva e le sue guance si increspavano. «Devi abituarti ai gioielli
migliori, mia signora, come si addice alla tua posizione di mia consorte.
Vorrei che tu indossassi queste gemme tutti i giorni.»
Nella sua voce l’ombra dello stesso gelo dei diamanti. Non era un semplice
desiderio: era un ordine.
Alle sue spalle, Lizzy stava alla finestra e si teneva una mano raggrinzita
sulla clavicola, come se anche lei sentisse quel brivido sulla pelle.
Ho deglutito. I diamanti si sono mossi.
«Come desideri, mio signore.»

Oggi mi sono recata a Torbury St Jude. Il tempo non è mite, ma almeno è


asciutto. Le acque dell’inondazione si sono ritirate e le strade sono in
condizioni accettabili. Siamo passati di bottega in bottega con la carrozza,
perché le strade erano piene di pozzanghere e il vento soffiava violento nei
vicoli.
«Ho preso le lenzuola nuove» ho detto a Jane, rammentando la lista sulle
dita. «Gli argenti li stanno lucidando. I vestiti dovrebbero arrivare da Londra
il mese prossimo.»
«La signora Dawson mi è parsa scandalizzata nel vedere che non li avete
ordinati nel suo negozio, padrona» ha osservato Jane.
In effetti era vero, poverina. Ma cosa si aspettava? Non si tratta di un ballo
campestre. Il re e la regina, per l’amor di Dio! Si aspettano sicuramente
velluti a doppio strato, e pizzi della fattura più squisita.
«Al momento non posso certo preoccuparmi della signora Dawson» ho
risposto. «Più avanti avrò del tempo da dedicarle. Adesso, però, mi interessa
soltanto compiacere la regina Henrietta Maria.»
«Padrona, la regina non potrà che gradire l’elegante arredamento della sua
camera da letto e le migliorie che avete apportato. Saranno sufficienti a farle
girare la testa.»
Ho sorriso, orgogliosa. «Sembra meravigliosa a noi, Jane. Ma lei è la
regina. È cresciuta nel castello di Saint-Germain-en-Laye. Ci vorranno tutte
le nostre energie per impressionarla. Le piacciono le curiosità, le cose strane
che mai nessuno ha visto prima.» Ho guardato fuori dal finestrino. Quel cielo
latteo e opprimente rendeva davvero squallido il nostro piccolo borgo. Il
cavallo ha alzato la coda e ha lasciato cadere i suoi rifiuti sul selciato. Ho
sospirato. «Dove troverò degli oggetti così esotici a Torbury St Jude?»
«Forse da questa parte, padrona. C’è una bottega di cui ho sentito parlare al
mercato.»
Mi sono girata per vedere il negozio che Jane mi indicava, a sinistra. Era
un posticino modesto, arretrato rispetto alla fila irregolare di edifici lungo la
strada. Il piano inferiore era di mattoni, quello superiore di vecchie travi e
intonaco.
«Ferma!» ho gridato. I cavalli si sono arrestati. Quando è cessato il fragore
dei loro zoccoli, ho sentito l’insegna della bottega cigolare al vento. Non
sono riuscita a distinguere l’immagine, ma mi è parso di leggere le parole
OGGETTI RICERCATI dipinte sopra il vetro della bifora. «Jane, non
conosco questo posto. Da quanto tempo esiste?»
Lei ha sorriso. «Io credevo che voi sapeste tutto, padrona.»
Le ho lasciato passare la battuta. In realtà quella bottega mi dava una
sensazione strana che non riuscivo a esprimere. Ero certa che non sarei
riuscita a proseguire senza entrarci. Là dentro c’era qualcosa, qualcosa di
importante…
Mi ero sentita così soltanto un’altra volta: in quella gelida giornata di
gennaio di nove anni fa, in cui ho aperto l’antico volume rilegato in pelle di
Mary e ne ho recitato le parole sopra le erbe che avevo pestato nella mia
dispensa. La stessa, identica sensazione: l’apprensione, la certezza.
«Entriamo.» E ho bussato sul tettuccio. Il valletto è saltato giù e ha cercato
di aprire lo sportello, che però non voleva cedere. Io ho impugnato la
maniglia e ho provato ad aiutarlo, ma era come se il vento avesse grinfie di
ferro e spingesse nella direzione opposta, impedendomi la discesa.
Ho spinto con tutta la forza che sono riuscita a trovare. Lo sportello si è
aperto, ma con una tale violenza che è andato a sbattere contro la carrozza. Io
sono finita tra le braccia del valletto.
«State bene, padrona?»
Ero imbarazzata ma indenne. La gonna era in estremo disordine; il vento
l’afferrava e mi aveva già strappato un nastro dai capelli. L’ho guardato
svanire nell’oblio bigio del cielo. «Sto benissimo. Jane, dammi il braccio fino
alla porta.»
In quel momento ho provato gratitudine per la mole di Jane e per la sua
massiccia circonferenza da contadina. Dovevamo sembrare una ben strana
coppia, a combattere contro il vento a testa bassa: Jane con la sua tunica
verde sporco e io in una nuvola di raso e pizzi.
Tutto ciò che il vento toccava diventava uno strumento. Alle mie spalle
udivo il tintinnio dei finimenti che ci richiamava indietro; davanti, il cigolio
dell’insegna che oscillava. Quel gemito cresceva a ogni passo, finché non
sono riuscita più a sentire i cavalli.
Jane ha spalancato la porta della bottega con una delle sue spalle possenti e
ha fatto suonare una campanella. «Prima voi, padrona.» Mi ha praticamente
sospinta dentro, ma non me n’è importato, perché sono stata ben felice di
essere al riparo.
Al nostro ingresso un ometto calvo ha sobbalzato. Portava un farsetto rosso
granata molto liso e teso sulla pancia, aveva degli occhietti penetranti (come
quelli dei maiali, ho pensato) e nel vederci ha sbattuto le palpebre.
«Buongiorno, signore. Mi avete colto di sorpresa.»
«Me ne scuso. Siamo state quasi soffiate dentro.»
«C’è brezza, fuori?»
Jane ha chiuso la porta con un tonfo. La campanella ha suonato ancora.
«Brezza? Sembra piuttosto una burrasca!»
«Davvero?» Ha sorriso riacquistando il contegno. «In questo caso
immagino che abbiate bisogno di rinfrancarvi. Lasciate che prenda vino e
confetti. In questa bottega ogni cliente viene trattata come una duchessa.»
Sopra la sua spalla sinistra pendeva un elaborato specchio dorato, in cui
erano intagliati cherubini e fiori. Vi ho visto riflessa la mia immagine, nel
disordine più completo. Non mi sentivo per niente una duchessa.
Mentre lui andava a prendere il vino, abbiamo avuto il tempo di guardarci
intorno a nostro piacimento. La bottega era molto più grande di quanto
appariva da fuori, ma era comunque piena zeppa di oggetti curiosi. Alle pareti
erano appese teche polverose contenenti cristalli e pietre in agguato dietro il
vetro opaco. Strani uccelli impagliati di paesi lontani ci scrutavano torvi, le
piume tinte a colori vivaci. Al soffitto era fissato uno scheletro che non avevo
mai visto prima: una creatura mostruosa dal corno gigantesco, come un
unicorno, che però spuntava dal naso. Perfino l’aria aveva un profumo strano
ed era tiepida e speziata.
«Grazie» ho detto accettando il bicchiere di vino che il mercante mi
porgeva. Ho notato che gli tremava la mano. «Mi sorprende di non avere mai
visto prima la sua bottega. Siete appena arrivato a Torbury St Jude?»
«Da pochissimo.» E ci ha offerto un vassoio di confetti. Jane d’impulso ne
ha preso uno e se l’è ficcato in bocca. «Mi chiamo Samuels. Ho trascorso la
vita a viaggiare per il mondo, signora, e ora eccomi qui, a esporre davanti ai
vostri occhi tutte le sue rarità.»
Il vino era buono. Ho sospettato che fosse anch’esso d’importazione.
Ho accarezzato un armadietto e ho tirato una nappina di velluto pendente
da un cassetto, che si è aperto. Mi sono ritrovata di fronte file e file di uova
d’uccello: azzurre, maculate, alcune minuscole, una grossa come una mela. I
gioielli della natura. Nemmeno i diamanti di corte potevano rivaleggiare con
tesori rari e delicati come quelli. «In fede mia, dev’essere difficile per voi
separarvi dalla vostra collezione. Ogni oggetto non è forse un memento dei
vostri viaggi?»
«Ci sono ricordi che non si ha voglia di conservare.» Per un istante il suo
viso si è indurito. «E poi, mi piace condividere ciò che trovo. La gente
desidera sempre una curiosità da mostrare agli amici.»
Con grande attenzione, ho preso un confetto. I granelli di zucchero mi si
sono appiccicati alle dita. «Confesso di essere qui proprio per una
commissione del genere. In agosto avremo degli ospiti molto illustri.»
«Ah! Allora, da questa parte, signora. Vi farò vedere gli avori. Pezzi
squisiti, che non hanno paragone. I vostri ospiti saranno colti da un
mancamento.»
Mi sono infilata in bocca il confetto e l’ho seguito.
È stata una mezz’ora vertiginosa in cui ho selezionato e scelto oggetti
provenienti dal baule dei tesori del mondo. Ho trovato dei tulipani pressati,
seccati e incorniciati, e un cannone meccanico che spara davvero. Confesso
di essermi lasciata trasportare. Mi sono quasi vergognata quando mi sono
girata e, nella luce fioca delle candele, ho visto che c’era un altro cliente in
attesa.
«Oh!» ho esclamato. «Vi prego di perdonarmi.» Mi sono rivolta al signor
Samuels. «Per ora basterà, vi sto rubando troppo tempo.»
I suoi occhietti hanno seguito i miei e per un attimo ho avuto l’impressione
che avesse paura. Poi ha riso.
Allora ho capito il mio errore: nell’angolo non c’era un cliente, ma una
tavola, dipinta in maniera tale da rassomigliare a una persona. Era lavorata
così splendidamente che a un primo sguardo non si notava che si trattava di
un’opera d’arte. Raffigurava una donna con una mano sul fianco. Sul viso le
erano state dipinte delle ombre proprio nei punti esatti in cui la colpiva la luce
proveniente dalla vetrina.
«Mi avete preceduto» ha detto il signor Samuels. «Ci stavo arrivando.» E
si è avvicinato all’oggetto. Alla luce della vetrina ho notato che aveva la
fronte imperlata di sudore. «Questi falsi ingannano le persone più accorte.
Conoscete il significato dell’espressione trompe l’oeil?»
«Un inganno dell’occhio?»
«Precisamente. Un raggiro divertente. Fatevi più avanti.» E ha indicato la
spalla della sagoma, tenendo le dita a qualche centimetro dal legno. «Vedete i
bordi smussati? Le impediscono di apparire piatta.» Ho guardato dietro,
ancora stupita che non si trattasse di qualcosa di solido. Non era una donna
vera, eppure sentivo di non poterla toccare, né di incrociarne lo sguardo. «Ne
ho delle altre, da mostrarvi. Bambini che recano frutti. Serve e sguattere. Una
signora con il liuto.»
«Da dove provengono?»
«Me le hanno donate ad Amsterdam. Loro le chiamano “Amici
silenziosi”.» E si è schiarito la voce. «Quegli olandesi, signora, amano i
piccoli stratagemmi. Non vanno matti solo per i tulipani. Hanno scatole
ottiche e cibi finti, perfino case delle bambole arredate con più sfarzo del
palazzo di un duca.»
Mi sono rivolta a Jane. «Sono divertenti, non trovi? Immagino gli ospiti
che, nell’incontrare queste tavole, lanciano un gridolino di sorpresa. Un
istante di confusione, poi risate e conversazioni.»
«Non so se Sua Maestà avrà voglia di un istante di confusione» ha
replicato Jane.
Il signor Samuels mi ha guardato con un rispetto nuovo. «Sua Maestà,
dite? La regina?»
Ho acquistato colore, stavolta per il piacere. «Sì. È un grandissimo onore.
Ora capite perché è importante che scelga…»
Lui ha alzato una mano. Le dita erano grasse come salsicce e segnate dalle
intemperie. «Sì, sì» mi ha interrotto, «dovete avere il meglio di ogni cosa.
Posso umilmente raccomandarvi questi oggetti?» Ha indicato ancora una
volta le figure, ma non ha permesso che la sua mano vi entrasse in contatto.
Ne ho dedotto che si trattasse di un oggetto costoso, perfino troppo prezioso
per essere toccato.
«Non somigliano a nient’altro che io abbia mai visto. Li prenderò
certamente in considerazione.»
«Cosa c’è da considerare, cara signora? Sono proprio il tipo di manufatto
che potrebbe compiacere Sua Maestà.» Nella sua voce, nei suoi occhi c’era
una preghiera. Poteva essere che gli affari non gli andassero bene quanto
sperato.
«Ho già preso una quantità di merce» ho detto, cercando di calcolare la
spesa. Di sicuro una rarità del genere costava più di quanto potevo
permettermi. «Dovrei prima consultare mio marito…»
«Ma il signore vi darebbe certamente il mio stesso consiglio. Dubito che in
Inghilterra esista qualcuno che ha mai visto un oggetto simile.»
Ho pensato a Josiah, al modo in cui si strugge dal desiderio di essere notato
dal re. «Ne prenderemmo uno o due…»
«Ma l’effetto ne sarebbe guastato. Su, vi concedo di comprare l’intera
collezione.»
In genere mi comporto con cautela nei confronti di una persona alla
disperata ricerca di piazzare la sua merce, ma volevo gli strani giocattoli del
signor Samuels. Con i loro occhi dipinti mi chiamavano, mi osservavano, mi
incitavano ad acquistarli.
«Non so se…»
«Per un prezzo speciale.» Ha sorriso. «Vi prometto che non esiste metodo
migliore per stupire la regina. Non dimenticherà mai gli Amici.»
Li ho comprati tutti quanti.
The Bridge, 1865

«Ha mosso gli occhi.»


«Come?» La penna di Elsie si inceppò e schizzò sul foglio. Rovinata: la
lettera per il muratore era rovinata. «Che cosa vuoi, Mabel?»
Dopo due settimane di riposo a letto, Mabel aveva ripreso a spolverare e a
svolgere altri lavori leggeri. Elsie era incline a credere che avrebbe potuto
fare molto di più. Esagerava il suo malanno e si trascinava in giro come un
bambino storpio. Eccola sulla soglia della biblioteca, in una posizione che
pendeva verso la gamba sana. Con la mano destra stringeva uno straccio per
la polvere e sul naso aveva uno sbaffo di cenere.
«Quella cosa. Ha mosso gli occhi e mi ha guardato.»
Elsie posò la penna. «Quale cosa?» domandò. Ma conosceva già la
risposta. Era come se avesse trascorso le ultime due settimane in attesa che
accadesse.
«Quella cosa di legno.»
«L’Amico?»
«Esatto.» Perle di sudore costellavano l’attaccatura dei capelli che
spuntava dalla cuffietta. Parlò con voce roca. «Io quella roba non la pulisco.
Ha mosso gli occhi.»
Nella mente di Elsie presero forma delle parole, migliaia di risposte
taglienti, ma non riuscì a pronunciarne nemmeno una. «Lo zingarello?»
Mabel scosse la testa. «L’altro.»
«Fammelo vedere.»
Scesero di sotto in silenzio, rigide, come marionette. Il vento fischiava
nelle fessure dell’assito e soffiava le foglie contro le finestre. Da dietro la
casa, Beatrice emise un muggito luttuoso.
Nel salone c’era Helen, le nocche strette su un piumino da polvere.
«Li avete spostati di nuovo» disse Elsie, notando i graffi sul pavimento.
«Perché continuate a farlo?»
«Noi non abbiamo mosso niente» esclamò Mabel.
I due Amici erano immobili ai lati del camino. Nel ragazzo c’era
effettivamente qualcosa di diverso, ma Elsie non riuscì a individuare cosa. La
guardava altero, gli occhi puntati un po’ alla sua sinistra. La stava
stuzzicando, la sfidava a notare il cambiamento.
Qualcosa… L’angolazione del viso… Poi scacciò il pensiero. Nessun
cambiamento. I quadri non cambiano, era una fantasia ridicola.
La fanciulla era proprio come Elsie la ricordava: la rosa bianca premuta al
petto, il sorriso birichino e l’abito di seta verde oliva. Gli occhi bruno-
verdastri conservavano ancora il loro calore, ma non si erano mossi.
Espirò. «Non sei in grado di apprezzare la vera arte, Mabel. L’abilità di un
pittore consiste nel fare in modo che il volto che ha ritratto sembri guardarti,
ovunque tu ti trovi. Prova a passare davanti ai dipinti di sopra. Ti accadrà la
stessa cosa.»
«Io non stavo passando. Non ho mosso un muscolo. Ero immobile, in
questo punto, e loro si sono mossi.»
Era troppo orribile anche da immaginare. Anzi, non aveva nessuna
intenzione di immaginarlo e nemmeno di credere alle ridicole storie di quelle
servette. «L’ha visto anche Helen?»
«Nossignora» rispose Helen con voce roca. Torse il piumino e aggiunse:
«Ma…».
«Fammi indovinare: hai trovato delle scritte?»
«No. Mi sono sentita… strana. Come se qualcuno mi stesse osservando.»
«Ci siamo tutti sentiti così, Helen. Probabilmente era Jasper.» E voltò le
spalle agli Amici. «Credo che Mabel farà meglio a riposarsi. È chiaro che non
sta ancora bene. E visto che ci siamo, Helen, preferirei che rimettessi il
ragazzo dove l’hai trovato. La signorina Sarah ha richiesto di esporre soltanto
la fanciulla.»
«Lo metterò in cantina, se vorrà, signora. Non è ancora possibile entrare in
quel solaio.»
«Sì, stavo proprio scrivendo a Torbury St Jude perché mi mandino
qualcuno ad aprire la porta, poi Mabel ha scatenato questa follia. Tu porta il
ragazzo in cantina e io riprenderò la mia lettera.» Si era avviata verso le scale
quando la voce di Mabel la fermò.
«E l’altro?»
«La signorina Sarah vuole solo la fanciulla, Mabel. Falla pulire a Helen, se
a te fa tanta paura.»
«No.» Mabel puntò un dito nero di fuliggine. «Quello.»
Sul tappeto orientale dov’era stato posto il feretro di Rupert, c’era un terzo
Amico.
Una vecchia su una sedia. Era più brutta dello zingarello: non solo
sogghignava, ma anche in maniera malevola. Portava una cuffia bianca e uno
scialletto nero. Tra le braccia reggeva un bambino che sembrava una
bambola, innaturalmente rigido e privo di espressione.
«E quello da dove viene? Perché… perché qualcuno dovrebbe dipingere un
soggetto del genere? Che faccia!» Le sue parole risuonarono nell’ingresso e
la loro eco le tornò indietro.
Helen rabbrividì.
«Mettilo via, Helen. Ma dove l’hai trovato, santo cielo?»
Le labbra di Helen tremarono. «Qui, signora. Proprio qui, stamattina.»
The Bridge, 1635

Nell’istante in cui mi sono svegliata ho capito subito che questa sarebbe stata
una giornata piena di conflitti: era scritto nell’aria afosa. Un muro di nuvole
escludeva la luce e sui giardini regnava una tensione muta. Il caldo era
opprimente. Ho atteso per tutto il giorno che le nubi si aprissero e che il mio
mal di capo se ne andasse, ma quelle ancora incombono su di me, come
prima. Fuori nulla si muove; la brezza è scomparsa.
Se sarà così quando arriveranno il re e la regina, saremo tutti sudati e
indisposti. Come possiamo apparire splendidi nei nostri magnifici vestiti, con
il sudore che ci cola dal viso? Nessuno avrà mai voglia di cigno arrosto. Oh,
se soltanto questo clima migliorasse!
Josiah mi ha fatto provare malinconia al pensiero del loro arrivo. Poco
dopo pranzo è venuto da me e ha mandato via le serve.
«Devo parlarti» ha dichiarato. La mandibola irrigidita, le rughe sulla fronte
dicevano già abbastanza.
«Hai preso una decisione su Hetta» ho detto.
«Sì.» Si è accarezzato la lunga barba. «Annie, quello che devo dirti non ti
piacerà.»
«Allora non dirlo. Cambia opinione.»
Lui ha sospirato. «Non posso. È meglio così. Henrietta Maria potrà
partecipare al banchetto. Ha lavorato duro e se lo merita. Ma per quanto
riguarda il resto degli intrattenimenti… La risposta è no.»
Ho stretto le mani a pugno. Ho capito che avrei dovuto scegliere con cura
le parole, ma non sono riuscita a dominare le mie emozioni. Quella pungente
sensazione di calore si è gonfiata dentro di me e mi ha fatto salire le lacrime
agli occhi.
«È giovane» ha proseguito lui. «Non sono sicuro che la sua presenza
sarebbe appropriata, anche se…»
«Ti vergogni di lei» ho detto.
Per un istante lui ha esitato. Mi è bastato. «Mi fa pena…»
«È un miracolo! Le levatrici avevano detto che non avrei mai partorito un
altro figlio, non dopo Charles. Eppure è arrivata lei. La tua unica figlia,
Josiah. Un miracolo.»
«Lo so molto bene. Tutti pensavano che non saresti riuscita a portarne in
grembo un altro. Forse è per questo che… lei ha quelle difficoltà.»
Dietro le sue parole ho percepito l’accusa che è sempre in agguato sotto la
superficie: è colpa mia se la lingua di Hetta non è cresciuta. Il mio ventre non
è stato capace di nutrire una bambina completa. Le è mancato qualcosa; o in
me, o nella pozione.
«È stata toccata da Dio!» ho gridato. Lui mi ha guardato ed è bastata
quell’espressione a far ardere la mia rabbia. «Non ne sei convinto? Pensi il
contrario?»
Lui ha alzato le mani in un gesto di resa. Si stava stancando di me.
«Calmati. Ma certo che non penso che Henrietta Maria sia posseduta dal
demonio. Sei isterica.»
«Non è vero. Tu vuoi nascondere mia figlia!»
«Al banchetto la vedranno tutti, Anne. Non la voglio nascondere, ma devo
proteggerla.» E ha cominciato a camminare avanti e indietro, facendo
scricchiolare il cuoio degli stivali. «La introdurremo in società lentamente.
Non è ancora pronta. È troppo selvatica, troppo infantile. L’abbiamo viziata e
le abbiamo permesso di scorrazzare per casa a suo piacimento. Ma tutto
questo deve finire. Bisognerà educarla.»
«Educarla?»
«Al galateo di corte. Non c’è tempo di istruirla prima della visita reale.
Non possiamo permetterci di sbagliare. Nemmeno una volta! Non oso
immaginare le conseguenze. Vuoi che sia per sempre bandito da corte a causa
delle goffaggini di Henrietta Maria? Deve andare tutto alla perfezione.»
La mia rabbia ha vacillato mentre sentivo il cigolio dei suoi stivali. Perché
non mi sembrava affatto il rumore di un paio di stivali in pelle: io udivo gli
alberi, di notte, che agitano i loro rami sopra una figura incappucciata che
raccoglie erbe; il suono del pestello nel mortaio; mistero e tentazione nelle
parole di un antico incantesimo. «Ho l’impressione che tu stia insinuando che
nostra figlia non è perfetta.»
«Sai benissimo che è proprio così.»
Sono rimasta senza fiato. Come poteva Josiah dire una cosa del genere,
della sua stessa figlia? Non credo di averlo mai odiato come in quel
momento. «Questa notizia le spezzerà il cuore» ho detto.
«Allora gliela darò io, se tu non vuoi farlo. Dove si trova?»
«In giardino.»
Mi sono avvicinata alla finestra, per poterla vedere in pace, prima di
mandare in frantumi le sue speranze. Fuori, tutto aveva un’aria strana. Le
piante rilucevano in maniera innaturale sotto il cielo che annunciava un
temporale. Le nuove siepi di gigli si erano trasformate in lance di un verde
brillante; le rose erano grumi di sangue. Dietro di esse, la mia Hetta era
inginocchiata a terra e si occupava delle sue erbe. Le si vedevano le caviglie,
macchiate di verde. La cosa non mi preoccupava. Il suo viso era pieno di
luce, nonostante le nuvole. Aveva un’aria felice; sorrideva, annuiva e
ascoltava intenta…
«Quello chi è?» ha sbottato Josiah alle mie spalle.
Sottovoce, ho imprecato. «Di nuovo quello zingarello. È ora di dargli una
bella sgridata. Gli ho già detto di stare alla larga.»
«Vedi? Lo vedi, adesso?» E ha indicato fuori dalla finestra. «Gioca con gli
zingari! È esattamente quello di cui stavo parlando.»
Mi sono girata di scatto, troppo arrabbiata per contraddirlo. «Me ne occupo
io» ho esclamato e sono uscita dalla stanza a grandi passi.
Ho sceso le scale pestando i piedi. Al diavolo quello zingarello e la sua
impudenza, al diavolo per avere spinto il padre di Hetta a pensare male di lei!
Sono uscita in giardino. L’aria era come un alito cattivo. Non c’era da
meravigliarsi che le piante non crescessero; anche la terra era pallida, asciutta
e crepata.
Lizzy non si vedeva da nessuna parte. Ma cosa credeva di fare, lasciando
Hetta senza protezione?
«Hetta! Quel ragazzino ti sta disturbando?»
Lei è saltata in piedi ed è venuta a prendermi per mano. La sua era sporca,
ma non sudata. L’umidità che spossava me e il giardino non la disturbava
affatto.
«Cosa succede?»
Lei mi ha sorriso lentamente. Poi ha sbattuto le palpebre e mi sono resa
conto che mi guardava i diamanti. Una manina si è allungata verso il mio
collo.
«Non adesso, Hetta. Hai le mani luride. Potrai toccare la collana più tardi.»
L’ho allontanata con un gesto e ho lanciato un’occhiataccia al ragazzino. Lui
non si è lasciato turbare, monello dispettoso che non era altro. «E per quanto
riguarda te… non dovresti essere qui. E lo sai benissimo. Questo è l’ultimo
avvertimento.»
Ormai in ritardo, si è tolto il berretto. «Vi prego, padrona. Sono solo
venuto a cercare lavoro.»
«Gli zingari non lavorano…» ho esordito, ma Hetta mi ha tirato per il
braccio e mi ha fatto uno di quei segni che conosciamo soltanto noi due.
Cavallo. «Ha rubato il mio cavallo?»
Lei ha scrollato la testa con energia. Le sue labbra si sono increspate per la
frustrazione, come accade sempre quando non riesce a farsi capire. Cavallo.
Ragazzo. Cavallo.
Il ragazzo era agitato e le parlava in quella sua cantilenante lingua zingara.
Sembrava uscita dall’inferno, composta da tutti gli idiomi del mondo, una
creatura demoniaca. Ma lei pareva comprenderlo, perché annuiva e
borbottava.
«La signorina Henrietta Maria…» Poi mi ha guardato, gli occhi neri come
il carbone. «La signorina pensa che mi permetterete di lavorare qui. Con i
cavalli.»
Mi sono domandata come facesse a saperlo; come osava dare per scontato
di capire Henrietta quando non ci riuscivo nemmeno io. «Non ho intenzione
di lasciarti avvicinare nemmeno a cento iarde dai miei cavalli» ho ribattuto.
«Me li ruberesti.»
Hetta mi ha lasciato andare la mano.
«Vi prego, padrona. Vi prego. La mia gente è brava con i cavalli. Adesso
che il vostro amministratore ha sgomberato il campo, cosa faremo? Dove
troverò da mangiare?»
Ho taciuto. Mi faceva un po’ pena, lì tutto rattrappito e stracciato. Hetta mi
ha fatto un altro segnale. Niente.
«So che non hanno niente, Hetta. Ma non è colpa mia.»
No, non avevo capito. Ragazzo. Niente.
«Non abbiamo rubato niente» ha replicato lui, piano. Gli occhi di Hetta si
sono illuminati e per un istante ho invidiato quello zingarello. Che genere di
intesa aveva con mia figlia, la mia creazione? Non volevo che le stesse
vicino. «In tutti gli anni che abbiamo vissuto su quel campo, durante l’estate,
non vi abbiamo mai rubato niente.»
«Può essere. Ma nella mia stalla ci saranno i cavalli del re. Lo capisci?
Come posso correre un rischio simile? Cosa direbbe se uno zingaro gli
rubasse il cavallo? Riterrebbe responsabile mio marito. Saremmo rovinati.»
Hetta ha teso le mani.
«Avrete bisogno di altra servitù» ha detto lui. «Per la visita del re. Ci
vorranno tanti stallieri. Sarete molto impegnata.»
«In quel caso assumerò degli uomini, non un ragazzino zingaro.»
Hetta ha pestato i piedi. Con mio grande stupore mi ha dato una spinta
sulla gamba.
Ho perduto la calma. Non mi trovavo più nei giardini di The Bridge, ma a
casa, tanti anni prima. Mary si era lanciata verso il vassoio dei dolci e mi
aveva spinto da parte. Ero caduta e lei aveva riso. La rabbia mi bruciava nella
mano.
Il suono di pelle contro pelle è stato più forte di qualsiasi grido. Sulla
guancia di Hetta c’era l’impronta rossa delle mie dita. Non l’avevo mai
picchiata prima.
Non dimenticherò mai lo sguardo ferito dalla passione, quasi simile
all’odio, che le bruciava negli occhi. «Oh, Hetta! Ti prego di perdonarmi.
Non ne avevo intenzione… non avresti dovuto spingermi! Oggi sei così
ostinata.»
I miei occhi furtivi hanno cercato la finestra. Grazie al cielo Josiah non
c’era. Non ha visto mia figlia comportarsi come il maschiaccio che l’accusa
di essere.
«Non volevo causarvi turbamento, padrona.» Il ragazzino si è rimesso il
berretto. «Volevo soltanto lavorare. Adesso me ne vado. Addio, signorina
Henrietta Maria.»
Dalle labbra di Hetta è uscito un suono: un rumore orribile, come quello di
un animale in preda al dolore. Gli è corsa dietro e l’ha afferrato per la giacca.
Non so dire cosa sia accaduto tra loro. Lui le parlava rassegnato in quella sua
lingua barbara e lei gli rispondeva con segnali delle mani che non conoscevo.
Alla fine l’ha lasciato andare.
È tornata alla sua aiuola e ha cominciato a potare i cardi. Non mi guardava,
ma io scorgevo il suo profilo. Dal suo viso era scomparso ogni risentimento.
Ogni traccia vitale era svanita, lasciandosi dietro soltanto tristezza.
Ho sentito il cuore stringersi in petto. Non sapeva nemmeno di essere stata
bandita dal masque. L’ho osservata chinarsi sul terreno e annaffiare il
rosmarino con le lacrime. Sulla terra riarsa sono comparse delle macchie
scure, che lentamente sono state assorbite dalle radici.
Nessun cuore di madre è in grado di sopportare una vista del genere.
Sarebbe già abbastanza difficile con una figlia normale, che piagnucola e
singhiozza. Ma guardare la mia povera mutina, tanto silenziosa nella sua
disperazione, ha spezzato la mia risolutezza, come un ramo sottile sotto il
peso di un colombaccio.
«Aspetta» ho gridato. Lo zingarello si è fermato subito. Mi sono azzardata
a lanciare un’altra occhiata alla finestra: nessuno. «Aspetta.»
The Bridge, 1865

«Mabel? Mabel, posso entrare?» Elsie aprì la porta.


Con il solaio chiuso e la casa vuota, le cameriere avevano cominciato a
dormire nelle camere degli ospiti dell’ala ovest, al terzo piano. Si trattava di
stanze modeste, ma confortevoli. Sul pavimento, tappeti azzurri. Piccole
stampe alle pareti, per dare un’atmosfera accogliente. Vicino al caminetto, un
trespolo con brocca e catino e una tinozza. Un posto elegante e comodo per
una ragazza abituata allo squallore dell’ospizio dei poveri, molto più bello di
qualsiasi stanzetta per la servitù, ma Mabel era sdraiata rigida nel letto con le
coperte tirate fino al mento. Il suo viso era smunto e inquieto.
«Mabel?»
«Oh, è lei, signora!» esclamò, e le sue pupille si ridussero tornando alle
dimensioni consuete. «Mi scusi. Mi sono confusa e ho creduto che fosse…
Mi ero appisolata.»
«Mi dispiace, non volevo spaventarti.» Elsie si sedette su un angolo del
letto. «Come ti senti?»
Mabel fece una smorfia e si passò una mano sui capelli scuri e arruffati.
«Sconvolta, signora. Non mi vergogno a dirglielo, mi è venuta la tremarella.»
«Devo ammettere che anch’io mi sono sentita un po’ strana.» Abbassò lo
sguardo. “Strana” era una parola inadeguata. Inerme, indifesa, esposta: quelli
sì che erano aggettivi più adatti. La paura era in grado di tirar fuori tanto da
una persona, e lei l’aveva dimenticato. «Credo che chiamerò il medico. Può
essere che il taglio alla caviglia ti si sia infettato.»
«Non è mica un’infezione che mi ha fatto sentir male. L’ho visto.»
«Non ne dubito.» Elsie tacque e fu investita da un ricordo, come fuoco
liquido. La rivide: gli occhi rossi e le labbra riarse, spalancate. «Mabel, mia
madre ha avuto il tifo. Ne hai mai sentito parlare?»
Mabel inclinò la testa.
«Povera donna. Quanto ha patito. Una volta le ho toccato la fronte e ho
pensato…» La voce le si strozzò in gola. «Ho pensato che stesse bruciando
viva. Da dentro.» Le gambe di Mabel si mossero sotto le coperte. «Era già
abbastanza brutto essere così malata nel corpo. Ma era più tormentata nella
mente, dalle cose che aveva visto. Non voglio scendere in dettagli. La
malattia aveva dipinto demoni per tutta la stanza. Lei li vedeva chiari come il
sole, ma non esistevano. Le sono rimasta seduta accanto per tutto il tempo.
Non c’era niente. Eppure per lei erano molto, molto reali.»
«Non sto diventando matta, signora. Non ho la febbre.»
«No.» Elsie unì le mani e cercò di ricomporsi. L’immagine di sua madre
restava impressa nei suoi occhi. «Ma vorrei esserne certa, per non avere
dubbi. Fino a quando non ce ne saremo assicurati, i tuoi lavori li svolgerà
Helen e Sarah potrà assisterla in caso di necessità.»
«Non posso star seduta a non far niente, signora. Tutta sola, a pensare a
quelle cose.»
Elsie rifletté un istante. La generosità della signora Holt doveva essere
contagiosa, perché la prima idea che le venne era così folle da lasciare lei
stessa senza fiato.
Doveva forse dare a Mabel l’opportunità di diventare qualcosa di meglio
che una ragazza uscita dall’ospizio per i poveri?
Ancora non le sembrava opportuno metterla vicino a un bambino piccolo.
Ma forse, se ci avesse investito del tempo ora, avrebbe potuto farla migliorare
prima che arrivasse suo figlio. Istruzione: l’aveva detto anche il signor
Underwood, no?
Sospirò e si buttò. «Be’, mentre ti riprendi forse ti andrebbe di svolgere un
lavoro meno pesante? Meno faticoso?»
«Come sarebbe a dire, signora?»
In bocca le pareva di avere briciole di ruggine, ma ci riuscì, riuscì a
rivolgerle il suo sorriso più dolce e a dirle: «Ho bisogno di una cameriera
personale».
«Una che, signora?»
«Una cameriera personale. Che mi pettini. Che mi porti la colazione e mi
prepari il bagno. Dovrà anche lavare e rammendare i miei vestiti. Dimmi, sei
stata tu a smacchiare dal fango il mio abito di crespo nero, il giorno che sono
arrivata?»
«Sissignora. Sembrava ripescato da un porcile.»
Elsie lasciò correre. «Bene. È la prova che ci sei portata. Ti piacerebbe
imparare, Mabel? Potrà darti delle buone possibilità per il futuro. Una
ragazza che conosce bene un lavoro non avrà bisogno di restare a The Bridge
per sempre.»
Le ciglia di Mabel sbattevano. «Badare ai suoi vestiti e alle sue belle cose?
Alla sua collana di diamanti?»
«Sì.»
«Cameriera personale» ripeté Mabel, incantata. «Cioè una di loro, vero? Di
quelle tipe eleganti di cui parla sempre Helen?»
«Il posto è quello di un membro della servitù di grado superiore, sì. Molto
superiore alla tua posizione attuale.»
Mabel sorrise, ogni traccia di spavento era evaporata. «Allora va bene,
signora. Accetto.»
Ospedale di St Joseph

Quei farmaci erano più forti degli ultimi. Mentre avanzava faticosamente
lungo il corridoio accanto al dottor Shepherd sentì che le risucchiavano il
sangue.
Forme e facce si fondevano davanti ai suoi occhi. Ovunque si girasse
c’erano le mandibole flosce e le bocche salivanti di idioti. Strillavano come
arpie, incombevano nel suo campo visivo e poi svanivano in un vortice.
Fantasmi orribili che infestavano quel luogo come il puzzo di piscio.
«Molto benefico, non trova?» domandò lui. «Camminare fa scorrere
meglio il sangue. Non vedo alcuna ragione perché lei non possa godere degli
stessi vantaggi degli altri pazienti, sotto la mia supervisione. Dopotutto, non è
stata presentata alcuna prova contro di lei.»
Un’altra delle sue ricette “utili”. Più che un piacere era una pena. La vera
punizione non era mai stata la prigione, ma la gente con cui era costretta a
stare. I lunatici erano i peggiori; balbettavano, si lagnavano, gemevano.
Alcuni non erano nemmeno in grado di controllare la vescica. Ecco perché
aveva rovesciato il pranzo addosso a quella vecchia e fatto un occhio nero
all’infermiera mentre le dava il piatto. Non c’era nulla di personale. L’unico
modo di ottenere un po’ di privacy, e un sonno tranquillo, era essere
etichettata come “pericolosa”. E voleva dire qualche giorno nella cella buia e
imbottita, ma anche farmaci più forti. Secondo lei, ne valeva la pena.
«Ma devo stare attento a non stancarla troppo. Speravo che una volta
tornati nella sua stanza potessimo parlare un poco, con la lavagna. Che ne
dice, signora Bainbridge? Se è ben disposta a farlo.»
Ben disposta? Aveva capito che quell’atteggiamento era un trucco del
medico, ideato per stuzzicare il lato più mondano e raffinato del suo carattere.
Se ce l’aveva ancora.
Gli odori contrassegnavano i luoghi. Quello di porridge bruciato le diceva
che erano vicini alla mensa; quello di sapone, acqua gelida e paura segnalava
i bagni. Quando sentì puzza di lenzuola ammuffite e udì i suoi piedi far
cigolare le assi del pavimento, capì di essere rientrata nella cella. Era quasi
come tornare a casa.
Si lasciò sprofondare sul letto, mentre il mondo era immerso nella nebbia.
Le pareti bianche tremolavano. Il dottor Shepherd le porse lavagna e gessetto.
Quando cercò di prenderli ebbe l’impressione che le mani le galleggiassero
davanti agli occhi, rallentate dalle medicine.
«Resti pure sdraiata se ne sente il bisogno, signora Bainbridge. Può
scegliere la posizione che più le piace, basta che scriva.»
Non aveva scelta: le mancava l’energia per alzarsi.
«Nella sua storia si sono verificati parecchi sviluppi interessanti. Per il
momento vorrei che si concentrasse su uno solo. Lei ha scritto che sua madre
è morta di tifo. Credo che suo padre fosse già deceduto, no?» Lei annuì. «E
come?»
Il viso di papà cercò di comparirle davanti, ma lei non glielo permise.
Chiuse forte gli occhi.
«Signora Bainbridge? Si ricorda com’è morto?»
Il gessetto scricchiolò mentre scriveva NO.
Lui si schiarì la voce. «Me l’aspettavo. Vede, signora Bainbridge, sono
dell’opinione che il suo attuale silenzio non sia stato scatenato semplicemente
dall’incendio a The Bridge. Ritengo che fosse in agguato da molto tempo.
Anzi, sono convinto che la malattia sia iniziata con suo padre.»
Lei spalancò gli occhi, girò la testa sul cuscino e fissò la forma vacillante
di lui.
«Sì. Mi dispiace doverle comunicare che suo padre è morto in una maniera
alquanto sconvolgente. È accaduto meno di due mesi dopo la nascita di suo
fratello.» Lo sentì far frusciare della carta, anche se non riusciva bene a
mettere a fuoco. «È stata chiamata la polizia. E lei ha rilasciato una
dichiarazione.» Una pausa. «Vuole… vuole che gliela legga?»
Fu come se le avesse congelato ogni goccia di sangue nelle vene. Non era
in grado di muoversi, solo di sbattere le palpebre, ma lui lo prese come un
assenso.
«“Elisabeth Livingstone della fabbrica di fiammiferi Livingstone, Bow,
Londra. Dodici anni. Sono la figlia del defunto. Aiuto gli operai della
fabbrica da quand’ero piccola. Il pomeriggio del 2 agosto, verso le tre, stavo
legando delle fascine di legnetti quando sul pavimento della fabbrica ho
notato un fuoco. Era un fuoco piccolo, situato accanto alla sega circolare.
Non ho visto com’è iniziato. Conoscevo i pericoli del fuoco in quella fabbrica
e sono corsa a spegnerlo, ma non avevo con me una coperta o della sabbia.
Ho cercato di soffocare le fiamme con le mani e mi sono ferita. Non credo di
avere gridato ‘Al fuoco’. Forse l’ha fatto un altro operaio. Poco dopo ho visto
il defunto correre verso di me con un secchio d’acqua. L’acqua nel secchio
ondeggiava e lui dev’essere scivolato. Io mi stavo occupando della mia ferita.
Ho sentito un rumore come lo scricchiolio di una scarpa e poi un tonfo. Ho
alzato la testa e mi sono resa conto che il defunto era caduto sulla sega
circolare”.»
Il dottore tacque rispettosamente per un istante. Lei non gliene fu grata: nel
silenzio poteva sentire di nuovo quel suono spaventoso.
«Direi che dev’essersi trattato di uno spettacolo orribile per gli occhi di
chiunque» affermò infine. «E soprattutto per una ragazzina di dodici anni.»
Non poteva averne la minima idea.
Il dottor Shepherd iniziò a camminare avanti e indietro. Ne fu sollevata: il
rumore attutito dei suoi passi riusciva a sostituirsi al rombo che lei aveva
nelle orecchie.
«Dalla sua storia, ne dedurrei che questo evento deve avere alterato
l’equilibrio di sua madre, e non c’è da stupirsene. Se ne ricorda?»
Lei annuì.
«Forse… che sia quasi… impazzita per il dolore?»
Ah, la mamma, fedele fino alla fine. Quanto l’aveva amato. L’aveva visto
al suo peggio, eppure gli aveva sempre voluto bene, molto più di quanto ne
avesse voluto a Elsie.
Un altro cenno.
«E non crede, signora Bainbridge, che la stessa circostanza sfortunata
possa essersi verificata nel suo caso, colpendola in maniera simile? Che nella
sua famiglia possa esserci stata una propensione? Non si dimentichi che
anche lei ha subìto un lutto tremendo. E che ne sono seguiti altri.»
La cosa buffa era che lei non aveva perduto completamente la testa. Ogni
sentimento, tutto ciò che c’era di buono e puro nel suo mondo, era stato
distrutto, e lei era ancora più forte di quei relitti che si pisciavano addosso in
corridoio. Lo sapeva.
«La follia, come la chiamiamo, si manifesta in molti modi. La gente non si
mette sempre a piangere e urlare come lei ha visto fare a sua madre. Ma ho
osservato che sembra ricorrere nelle famiglie, soprattutto in linea femminile.
Isteria: da utero a utero. Il sangue malato prima o poi si rivela. Temo proprio
che sia impossibile sfuggirgli.»
Lentamente lei lasciò cadere gessetto e lavagna.
Sentì che il passato la sopraffaceva, come un fiume che durante le piogge
ingrossa sempre più dentro gli argini; piano piano era arrivato a lambirle il
mento, a riempirle la bocca.
Temo proprio che sia impossibile sfuggirgli.
Aveva ragione. Adesso che aveva cominciato a raccontare la sua storia, la
fuga era impensabile.
The Bridge, 1865

Con l’Avvento arrivò anche un brusco declino nella qualità del clima. La
foschia strisciava sulle colline e annebbiava le finestre. Ogni volta che la
porta si apriva, entrava una folata di vento portandosi dietro il profumo grigio
argento della pioggia. Ma Elsie aveva promesso al signor Underwood che
avrebbe ricominciato a partecipare alle funzioni e non si può mancare a una
promessa fatta a un vicario, soprattutto sotto Natale.
In ottobre, al funerale di Rupert, si era accorta a malapena delle condizioni
della chiesa di Tutti i Santi. Era concentrata sulla presenza terribile della bara
e del cadavere che vi era intrappolato, e aveva permesso che l’ambiente
circostante diventasse sfocato e si annullasse. Ma quel giorno si rese conto
che la struttura aveva assunto intorno a lei una forma solida. Era in rovina.
Fredda, umida e fortemente bisognosa di riparazioni.
Il banco di famiglia era il primo. Elsie e Sarah erano leggermente in ritardo
e per prendere posto dovettero superare file e file di abitanti del paese vestiti
di stracci. Tutti quei relitti umani le guardarono, ma nessuno incrociò lo
sguardo di Elsie; si limitavano a lanciare occhiate furtive e sghembe da sotto
le ciglia. Forse pensavano ancora che le vedove portassero sfortuna.
Grazie a Dio il banco dei Bainbridge era più imponente e aveva uno
schienale di legno molto alto. La struttura era crivellata di forellini: prima di
osare sedersi dovette spolverare il sedile.
«Tarli» sussurrò Sarah, arricciando il naso.
Accanto a loro, lo sportello del banco si chiuse di colpo. Elsie rabbrividì.
Segregata dentro un recinto di legno insieme ai tarli: non molto diverso
dall’essere sepolti vivi.
I tarli non erano l’unico disagio. Gli archi erano velati di ragnatele e dal
tetto malandato penetrava uno sgocciolio inarrestabile. Le vetrate erano
decorate con l’agrifoglio dei giardini di The Bridge, ma la chiesa aveva
un’aria tetra, ben lontana dalle atmosfere festive. In essa aleggiava un odore
minerale, viscido e umido.
Sarah esaminava l’ambiente con aria nauseata. Aveva ancora la mano
bendata. Il farmacista di Torbury St Jude aveva detto che la ferita non si era
infettata, ma Elsie nutriva dei dubbi. Ormai erano passati quasi due mesi.
Quantomeno, il taglio avrebbe dovuto produrre una crosta.
«Ti vedo un po’ pallida, Sarah.»
«Sì… è questa chiesa. Quando penso al mio povero cugino Rupert,
costretto a riposare per sempre in questo posto!»
Elsie non poté rispondere a causa delle lacrime.
Da piccola le piaceva andare in chiesa. Era un luogo in cui poteva
passeggiare in un’atmosfera più elevata e respirare un’aria più rarefatta. Ma a
un certo punto, doveva essere accaduto più o meno nel periodo in cui era
morto il padre, i suoi sentimenti erano cambiati. La chiesa era diventata una
gigantesca lente d’ingrandimento puntata sul suo viso, nella quale la folla la
scrutava. Quel giorno non era molto diverso. I poveri di Fayford non la
guardavano negli occhi ma erano ben consapevoli della sua presenza, come
dei segugi che abbiano fiutato il sangue.
La successione fu la stessa di sempre: gli inni, la lettura del Vangelo, i
pensieri del signor Underwood, l’accensione della candela dell’Avvento. Alla
fine Sarah tremava di freddo. Elsie sentì la sua voce incrinarsi sulle parole
dell’inno Rocca eterna. Tese un braccio, con l’intenzione di metterglielo sulle
spalle, quando le fu impedito da una fitta in fondo allo stomaco.
Sarah la guardò con gli occhi sgranati. «Signora Bainbridge?»
Elsie si mise una mano sul corsetto e sotto i bottoni lo sentì ancora:
qualcosa che, dentro, sferrava calci.
«È il bambino?»
«Sì. Si muove.»
Sarah si illuminò tutta e, senza chiedere il permesso, poggiò il palmo sul
ventre di Elsie.
Una sensazione curiosa: il calore di Sarah sulla superficie della pelle; il
bambino che rispondeva spingendo sulla parete interna, umida e scivolosa. In
realtà era una cosa orribile. Un Bainbridge fuori, un altro rinchiuso in una
prigione di carne, mentre lei non era altro che una barriera sottile, un muro
attraverso il quale potevano comunicare.
Si guardò il crespo nero del vestito e la mano guantata di grigio di Sarah.
Aveva la stranissima impressione che quella non fosse affatto la sua pancia,
non più. Era soltanto una conchiglia. Lei era una conchiglia e un altro corpo,
un corpo estraneo, le cresceva dentro.
Elsie decise di tornare a The Bridge a piedi. Pensò che il movimento le
avrebbe sollecitato la circolazione e scacciato quella peculiare sensazione di
essere invasa. Helen acconsentì ad accompagnarla. Sarah era mezza morta dal
freddo e la gamba di Mabel non avrebbe retto alla distanza, così loro due
salirono in carrozza con la signora Holt.
Durante la funzione aveva piovuto e i sentieri erano diventati scivolosi,
come peltro tappezzato di foglie morte. Dal sottobosco sbucavano le
chiocciole per sgranchirsi il collo. Un paio di volte Elsie dovette balzare
all’improvviso sull’erba bagnata per evitare di calpestarle.
«Santo cielo, signora, appena rientrata dovrà farsi cambiare d’abito da
Mabel» disse Helen. «Non deve prendersi un raffreddore, nelle sue
condizioni.»
«Grazie, Helen, glielo dirò sicuramente.» Sentiva le caviglie gelate e
intorpidite. Un altro paio di calze rovinate. Pregò che il crespo non si
ritirasse, in quell’aria umida.
I suoi stivaletti producevano un ritmo irregolare mentre attraversavano il
ponte con i leoni di pietra. Un vapore bianco e fine si levava dal fiume. Le
tornò in mente la fabbrica di fiammiferi. Se chiudeva gli occhi, poteva
risentire la puzza del fosforo, che la ossessionava. Detestava quell’odore, ma
in qualche modo ne aveva bisogno; per lei voleva dire casa, voleva dire
Jolyon.
Chissà cosa stava facendo suo fratello in quel momento. Forse organizzava
le nuove ragazze delle sale solfatura, e si preparava a partire per il Natale.
Quando fosse arrivato a The Bridge, lei avrebbe ricominciato a sentirsi se
stessa. Quell’intermezzo senza di lui l’aveva scombussolata. Non le sembrava
naturale restarne separata.
Helen si schiarì la voce. «Signora?»
«Sì, Helen?»
«Posso chiederle una cosa?»
Elsie chinò la testa per evitare le grinfie gocciolanti di un ramo. «Ma
certo.»
«Cos’è successo alle sue mani, signora?»
«Cosa vuoi dire?»
«Le sue mani. Non l’ho mai vista togliersi i guanti. Ho pensato che forse…
forse si è ferita?»
Le mani le pizzicavano e le pulsavano sotto i guanti di pizzo nero:
somigliavano a quelle di Helen, callose, con le giunture gonfie e la pelle
macchiata in maniera irreparabile. «Hai ragione, Helen. C’è stato un
incidente. Si sono ustionate.»
Helen mandò un fischio sottile a denti stretti. «Che sfortuna. Con il fuoco
non si fa mai abbastanza attenzione. Una volta ho conosciuto una donna di
Torbury St Jude. Il vestito della sua figlioletta si è incendiato con la fiamma
di una candela e lei è bruciata viva.»
Elsie sentì il freddo filtrarle nelle ossa. «Manca molto?»
«Non molto. Altre due curve e dovrebbe vedere i giardini.» Helen si
asciugò il sudore dal viso con il dorso della mano. L’aria umida e gelida non
faceva che arrossarle ancor di più la pelle. «Ma mentre siamo qui, signora, mi
chiedevo… è poi tornata nella nursery?»
«Certo che no. Non ne ho avuto occasione.»
«Oh.» Una breve pausa. «Signora, posso chiederle un’altra cosa?»
«Santo cielo, credevo che questa fosse una passeggiata, non
un’inquisizione.»
«Mi scusi, signora. Mi chiedevo solo se avremo qualche altro aiuto,
quando arriva il bambino. Con il fatto che Mabel è stata promossa e tutte
queste cose da fare, io non avrò nemmeno il tempo di respirare.»
O di fare tante domande.
«Naturalmente, per l’Annunciazione assumerò delle balie. Al momento
devo affrontare altre spese.»
Ormai avrebbero dovuto esserci; Elsie udì il rumore delle cesoie che
lavoravano in giardino.
Forse sarebbero riuscite a rientrare prima del prossimo acquazzone. Le
nuvole si stavano ammassando, pronte all’attacco. Con il sole alle spalle
erano di un brillante color canna di fucile.
«Avremmo fatto meglio a congedare i giardinieri» disse. «A lavorare con
questo tempo si bagneranno troppo.»
Helen sgranò gli occhi. «Non penso che i giardinieri siano venuti, oggi.»
«Ma certo che sono venuti, non li senti? Ascolta.»
Helen scrollò la testa.
«Stanno tagliando i fiori o potando le siepi. Davvero non li senti?» Il
rumore diventava sempre più forte, come quello di una lama sulla cote. Zac,
zac. Elsie si bloccò e mise una mano sul braccio di Helen, costringendola a
fermarsi. «Ecco.»
Helen sbatté le palpebre. Sembrava completamente inebetita. Elsie non
aveva mai visto un’aria più stupida e si domandò se Helen l’avesse
perfezionata con l’esercizio.
«Non importa.»
Proprio come aveva promesso Helen, dopo altre due curve avvistarono i
giardini. Il fogliame dei sempreverdi spiccava vivido contro lo sfondo del
cielo. Elsie notò un corvo saltellare tra le siepi morenti, ma nessuna traccia
dei giardinieri. Sicuramente stavano lavorando dall’altra parte.
«Spero che non si senta troppo triste questo Natale, signora» disse Helen.
«Per via del povero padrone e tutto il resto… Il primo Natale è sempre
difficile.»
«Sì.»
«Il padrone aveva solo pochi anni più di me. Una cosa così crudele…»
Tra tutti i membri della servitù, Helen era quella che nominava più spesso
Rupert. Forse perché, come aveva detto anche lei, erano vicini d’età, oppure
perché era stata lei a trovarne il corpo.
«Si direbbe proprio che volessi molto bene al padrone, Helen. Mi fa
piacere sentirlo.»
Helen le rivolse un sorriso fiacco. «Con me era sempre gentile. Trovo che
fosse una bella cosa, da parte sua, tenere in considerazione il personale.»
Solo il cielo poteva sapere che quello di Londra, invece, non meritava
tanto. Erano tutti dei perfidi ingrati, nonostante la loro efficienza.
«E poi» continuò, «mi raccontava piccole cose della sua giornata. Per
esempio che aveva letto un certo libro, e di quando ha trovato le lettere nella
nursery.»
Di nuovo la nursery. Elsie rabbrividì quando una goccia cadde da un ramo
e le scivolò giù per la schiena. «Devi abbandonare queste fantasie, Helen. Mi
hai già detto che il signor Bainbridge era convinto che le lettere fossero state
lasciate dal precedente inquilino. Non ha mai pensato che fosse un fantasma.»
«No» ammise lei. «Ma non sapeva che la settimana prima io le avevo
riordinate e messe in una scatola. E non ha mai visto la scritta nella polvere.
Quel giorno diceva: Mamma. In genere è una frase intera.» Elsie non voleva
sentire, ma era chiaro che Helen aveva intenzione di dirglielo. «Mamma mi
ha fatto male, c’era scritto.»
Non riuscì a rispondere.
Erano quasi arrivate alla casa. Elsie aggirò le siepi imperlate di rugiada,
che emanavano un odore muschiato. Sentiva ancora il lavorio incessante di
quelle cesoie, che cominciava a darle sui nervi.
Mentre raggiungevano la fontana di pietra, Helen riprese a parlare. «Lei
cosa pensa che sia, signora? Che quelle scritte siano per me?»
«È Mabel» sbottò Elsie, irritata. «Che vuole farti uno scherzo. Le scrive e
poi fa finta di non vederle. Niente di più semplice.»
«Mabel? Ma non è nemmeno in grado di leggere il suo nome, signora, non
parliamo di…» La fine della frase di Helen scomparve in un’esclamazione.
Elsie si girò di scatto e la fissò. «Cosa? Cosa c’è?» Le guance di Helen
avevano perduto la loro sfumatura rosata. Perfino le labbra erano pallide.
«Stai male?»
Helen puntò un dito.
Elsie non voleva guardare. Non voleva che i suoi occhi seguissero la
direzione di quel dito, ma sapeva che lentamente l’avrebbero fatto, contro la
sua volontà, trascinati da un istinto fatale.
Dalla finestra del salottino le osservava la fanciulla di legno. Aveva il viso
ombreggiato dal riflesso dei rami. Anzi, erano corna, palchi di corna. Si
trovava proprio sotto la testa del cervo. Ma non fu questo a catturare
l’attenzione di Elsie: fu la finestra a sinistra.
Il rettangolo di vetro su cui era stampata l’impronta fangosa di una mano.
«Forse i giardinieri…»
«No.» Helen deglutì. «Guardi, l’impronta è dentro.»
Elsie non riusciva a respirare. Il bambino si stava muovendo e le faceva le
capriole nella pancia. Nell’aria risuonavano ancora quelle cesoie odiose: zac,
zac.
Si riscosse. Una tempesta in un bicchier d’acqua, avrebbe detto sua madre.
Mabel, o perfino la stessa Helen, poteva aver lasciato quel segno per sbaglio.
«Sciocchezze. Da qui non è possibile vedere se l’impronta è dentro o
fuori.»
Avanzò a grandi passi con una determinazione che non provava fino in
fondo. Helen la implorò di fermarsi, ma ormai non poteva più farlo. I piedi si
muovevano senza il suo intervento; lei era rimasta indietro.
Un altro passo e l’impronta fangosa si fece più vicina, diventò più nitida.
Troppo piccola. Non poteva averla lasciata un giardiniere. Quella era la mano
di un bambino.
Si fermò proprio davanti alla finestra, tanto da appannare il vetro con
l’alito. Quando il vapore scomparve, vide il riflesso del proprio viso
sovrapposto ai lineamenti dell’Amico. Però quella non era la sua faccia; non
proprio. Era pallida e contratta, resa brutta dal terrore.
Tremando, Elsie allungò la mano guantata e appoggiò la mano
all’impronta. Helen aveva ragione. Era stata fatta da dentro.
«Signora? La vede? C’è anche una scritta?»
Aprì la bocca per rispondere quando un guizzo, un piccolo movimento
dietro il vetro attirò la sua attenzione. Si ritrasse.
«Signora? Sta bene?»
Riuscì a farle cenno di sì, ma non poteva parlare.
L’Amico non guardava più verso il parco. Con occhi vacui e immobili,
scrutava Elsie fin dentro l’anima.
Mabel non aveva mentito. Gli occhi si erano mossi.

Il corridoio era percorso dalle correnti d’aria. Sul velluto delle pareti
oscillavano ombre mentre le lampade a gas si accendevano con un rombo.
Elsie si strinse nello scialle, riparandosi contro la spalla di Sarah. Non si era
mai sentita così sopraffatta, così inghiottita come in quella casa.
«Questa» disse Sarah. Allungò un dito e lasciò che la punta restasse
sospesa a poca distanza dal quadro. «La vede? Dietro la gonna della dama?»
Era un dipinto barocco, vicino allo stile di Vermeer. Una donna bionda e
paffuta con gli occhi stanchi seduta davanti a una gabbietta, che tendeva la
mano a un passero appollaiato dentro. La luce spioveva su di loro da sinistra
e le illuminava il viso. Era carina, anche se aveva un po’ di doppio mento.
Tra i capelli portava dei nastri color corallo, che riprendevano la sfumatura
del mantello orlato di pelliccia che aveva sulle spalle. Dalla vita si allargava
una gonna color burro, a cui si aggrappava una bambina. Una bambina
dall’aria stregata, con quell’espressione strana e un po’ artificiale che in
genere hanno i bambini nei ritratti antichi. Non guardava il passero ma
scrutava con attenzione il viso della signora.
Fu travolta dalle vertigini. «È lei. Sarah, è lei. È la bambina di legno.»
Sss.
Le sue dita strinsero la manica di Sarah e stropicciarono la stoffa color
lavanda. «Lo senti…?»
«I muratori» disse piano Sarah.
Elsie fece un respiro. L’aria le penetrò nei polmoni, inacidita dall’odore
della vernice. Naturalmente non era il rumore che sentiva la sera, e che
ricordava tanto una sega: era una sega vera. Veri operai, pronti a rendere
presentabile la sua casa. «Ma certo. L’avevo dimenticato.»
Sarah tornò al quadro. «Anch’io ho pensato che somigliasse a quella di
legno. Forse un po’ più giovane. Ma ecco la cosa interessante. Guardi la
scritta sulla cornice.»
«Milleseicentotrenta» lesse Elsie.
«Sì. E il nome. “Anne Bainbridge con sua figlia Henrietta Maria.”»
«Henrietta Maria.»
«Ma la chiamavano Hetta.»
«E come lo sai?»
«È una delle mie antenate! Hetta, lo zingarello, gli Amici: sono tutti nel
diario che abbiamo trovato nel solaio. La povera Hetta era muta. Sua madre
non avrebbe dovuto avere altri figli, ma prese delle erbe e Hetta nacque senza
lingua. Poverina! Sa bene com’era a quei tempi, erano convinti che i bambini
malati fossero maledetti. La tagliavano fuori da tutto. Era una ragazzina così
dolce e sola… non posso credere… cioè, anche supponendo che gli occhi si
siano mossi…»
«Si sono mossi.»
«Be’.» Sarah si accigliò. Non aveva mai riso ed Elsie gliene era
eternamente grata. Sarah affrontò il problema come se si trattasse di eseguire
una somma complicata. «E se la figura in legno servisse a impersonare lo
spirito di questa Henrietta Maria Bainbridge? Vorrebbe dire che vuole farci
del male? Non posso crederlo.» Scrollò la testa. «Hetta vuole soltanto
qualcuno che badi a lei. Un amico. Si sentiva così sola. E io so bene cosa si
prova.»
Elsie rabbrividì. «È a questo che siamo arrivate ormai? A parlare di spiriti
e possessione?»
«Lei non crede negli spiriti?» Sarah pareva stupefatta. Era come se Elsie le
avesse detto che non credeva nei colori. «Posso garantirle che esistono,
signora Bainbridge. Io li ho visti. La signora Crabbly ha ricevuto la visita di
un mesmerista e di un medium, per contattare il suo defunto marito. A
Londra tutte le vecchie signore ricche lo fanno. È molto sicuro. È una
scienza. Non c’è nulla di cui avere paura.»
Ma allora perché il sangue nelle vene le pulsava così denso? «Io ho paura.
Ho paura dello zingarello e della donna con il bambino in grembo. Hanno
qualcosa che non va. Li trovo… sbagliati.»
«Forse quello che ha visto sul vetro era l’impronta della mano di Hetta che
tentava di raggiungerci? Dovremmo cercare di metterci in contatto con lei.
Ho letto un libro sulle sedute spiritiche. Una volta ho provato a evocare i miei
genitori…»
Elsie gemette. «In nome di Dio, no! Devi smetterla di parlarne come se
fosse una bambina vera. Ho chiesto alla signora Holt di chiuderla in cantina
con tutti gli altri, per l’amor del cielo!»
«Non è una sciocchezza come sembra. Una bambina è esistita davvero. Lo
dimostrano il quadro e il diario. Sto cercando di ricordare cos’è successo
nell’ultima pagina che ho letto… Mi ricordo che il marito di Anne le aveva
regalato la collana di diamanti che adesso ha lei. Lo sapeva che è stata
commissionata appositamente per la visita di Carlo I?»
«In questo momento ha ben poca importanza.»
«No, forse ha ragione… Oh sì, alla povera Hetta era stato vietato di
partecipare al masque di corte! Il padre aveva paura che lo mettesse in
imbarazzo.»
Elsie fece un profondo respiro e cercò di nascondere l’irritazione. «Dubito
che uno spirito si prenderebbe il disturbo di ossessionarci a causa di un
masque a cui non ha potuto partecipare due secoli fa.»
«No» rispose Sarah pensierosa. «Dev’esserci qualcos’altro. Dovrò finire di
leggere il diario. Se solo avessi preso il secondo volume prima che la porta
del solaio si bloccasse!»
«Ora alla porta ci sta lavorando l’operaio. Quando avrà finito prenderemo
il diario e vedremo se contiene qualche indizio.»
C’era un modo per proseguire le ricerche, doveva soltanto tenere sotto
controllo il proprio terrore un pochino più a lungo. Dopo due settimane
sarebbe stato Natale. Sarebbero arrivati i suoi vestiti nuovi e anche Jolyon,
che avrebbe portato il pudding natalizio, arance con i chiodi di garofano e
pacchi avvolti in nastri colorati; tutto il calore e la vivacità che a lei
mancavano. Sarebbe andato tutto bene una volta arrivato Jolyon, si ripeté.
Poi sentì l’urlo.
«Mabel! Sembra la voce di Mabel.»
Si precipitarono in corridoio per raggiungere la galleria della torre nolare.
La signora Holt e Helen corsero su per la scala per incontrarle. Helen aveva
ancora il grembiule umido e impugnava un battipanni di legno, che agitava
come un’arma.
«Signora Bainbridge! Signorina Bainbridge. Cosa sta succedendo?» La
signora Holt sembrava scossa.
«Non lo sappiamo» rispose Sarah. «Pensiamo che sia Mabel, di sopra.»
I loro piedi risuonarono sui gradini. Elsie era senza fiato e il corsetto la
segava sotto le braccia, ma riuscì ad arrivare sul pianerottolo per prima. Fece
tre passi e poi andò a cozzare contro qualcuno che sfrecciava nella direzione
opposta.
«Mabel! Mabel!» La ragazza aveva un’aria quasi selvaggia e il viso rigato
di lacrime. Elsie la afferrò per le spalle e la bloccò. «Cos’è successo?»
«Come ha potuto? Come ha potuto?» Picchiò con i pugni il petto di Elsie.
«Come ha potuto essere così malvagia? Oh, oh!»
«Cosa? Di cosa stai parlando?»
«Lo sa! Lo sa benissimo!» Le ginocchia le cedettero e Mabel crollò a terra.
«Non è affatto divertente. Ho preso una tale paura…» E iniziò a singhiozzare.
Elsie la lasciò andare e guardò impotente prima Sarah, poi la signora Holt e
infine Helen. «Helen, puoi tentare di farla ragionare?»
Helen posò sul pavimento il battipanni. Cautamente, mise una mano sulla
spalla di Mabel. «Su, buona. Cos’è successo? Non era…» La sua voce
diventò un sussurro. «Ne hai visto un altro?»
«Lei… lei…» Mabel non riusciva quasi a parlare. «Dev’essere stata lei a
metterlo in camera mia. Sa benissimo che li odio! Fa tutto parte di un… di
uno scherzo!»
La pelle di Elsie fu percorsa dai brividi. «Cosa c’è in camera tua, Mabel?»
«Come se non lo sapesse! Una di quelle cose!»
Elsie guardò Sarah. «No. Non è possibile. La signora Holt li ha chiusi tutti
a chiave in cantina. Ero presente.»
«Questo no. Questo non l’avevo mai visto prima.»
Il sangue le rombava nelle orecchie. «No. No, non ci credo.»
Rigida e determinata, imboccò a grandi falcate il corridoio. Voleva
verificare di persona. Avrebbe dimostrato che le altre si sbagliavano.
La porta si spalancò con facilità rivelando il lettino di Mabel, il lavabo e le
stampe alle pareti.
Era in piedi nella bagnarola.
Una donna massiccia, intenta a pettinarsi. Con una veste del colore dei
cetriolini in salamoia. Indossava anche dei manicotti di lino sporco e un
grembiule che le arrivava alle caviglie. Con un’espressione seducente si
passava la spazzola tra i capelli bruni e ondulati, lisciandoli con l’altra mano.
Il suo era uno sguardo accattivante, eppure in qualche modo ostile.
«Forza» disse Elsie con voce roca. La propria spavalderia le faceva girare
la testa. «Muoviti, se ne sei capace. Muoviti, maledizione, muoviti!»
Gli occhi restarono immobili. Ma proprio al confine della consapevolezza
Elsie avvertì il suono di setole che spazzolano capelli secchi. Poi fu assalita
da un profumo di rose, denso e soffocante. A un tratto la stanza si riscaldò.
La sua mente non reggeva. Si girò di scatto, chiuse la porta con un tonfo e
riprese a tutta velocità il corridoio. Le sue gambe si rifiutavano di muoversi
alla rapidità consueta. Ora era lenta, il bambino la rallentava. Era vulnerabile.
Le altre la aspettavano sul pianerottolo. Avevano costretto Mabel a sedersi:
era pallidissima ma aveva il viso asciutto.
«Era chiusa a chiave» disse la signora Holt. «Giuro che era chiusa. La
signora Bainbridge non ha la chiave, Mabel. Non capisco come sia potuto
accadere.»
«Mabel.» Elsie cercò di mantenere ferma la voce che però era strana e
sfuggente, come se non riuscisse a controllarla. «Tutte quante. Voglio che ci
riflettiate molto attentamente. Chi è entrato in casa? Abbiamo avuto operai e
fattorini. Giardinieri. Voglio che facciate una lista. Qualcuno, da qualche
parte, per ragioni che non sappiamo, ci sta facendo degli scherzi. Lascia
impronte sulle finestre e…» Si accigliò, distratta da un bagliore. «Mabel, hai
addosso i miei diamanti?»
Le guance della cameriera ripresero colore. «Glieli stavo scaldando,
signora. Helen dice che nelle case eleganti si fa sempre. Vero, Helen?
Scaldare le perle della padrona.»
«Riscaldarli?» gridò Sarah. «Che storia improbabile! La signora
Bainbridge non può nemmeno portarli, è in lutto.»
Da tutto il giorno Elsie era in preda alla tensione e a quel punto la sua
angoscia tracimò. La rabbia superò la paura, e afferrò i diamanti con
entrambe le mani. «Togliteli!» urlò. «Togliteli subito!» Mentre le spuntavano
lacrime fresche, Mabel si portò le mani alla base del collo ma i capelli le
rimasero impigliati nella catenella. «Se non te li togli in un istante, ti caccio
da questa casa!»
Intervenne Helen, con le sue dita ferme e sciupate. Sganciò il fermaglio e
sfilò la collana. Alla catena restarono attaccati alcune ciocche scure.
«Non volevo far niente di male» mormorò Mabel, dondolando avanti e
indietro. «Non volevo far niente di male, non meritavo quella cosa maledetta
in camera mia.»
Si udì un colpo, e poi nell’ala est echeggiò un grido.
Lo sguardo di Elsie incrociò quello di Sarah. «Mi sa che sono riusciti ad
aprire la porta del solaio» sussurrò. «Vai a prendere la seconda parte del
diario.»
Sarah non se lo fece ripetere.
La signora Holt camminava avanti e indietro, stringendosi le mani. «Oh,
Signore, oh, Signore. Che guaio! E la lavanderia che non è nemmeno
finita…»
Elsie guardò Mabel, che rabbrividiva tra le braccia di Helen. Ora si sentiva
più calma e provava una leggera vergogna per le dure parole che aveva
pronunciato. «Ascolta, Mabel, non so come la pensi ma non sono stata io a
mettere quell’Amico nella tua stanza. Sto cominciando a odiarli proprio
quanto te.»
Mabel la osservò ma non riuscì a leggere la sua espressione.
Sarah tornò di corsa, senza fiato e a mani vuote. Aveva un’aria strana. Era
pallida e rabbrividiva come una foglia.
«Sarah, cosa c’è? Il libro è scomparso?»
«No, c’era ma lei non…» Deglutì. «Non ha voluto che lo prendessi. Ho
capito che quella povera anima non voleva che lo leggessi.»
«Ma di cosa stai parlando?»
«C’era lei, là dentro.» Il mento di Sarah tremava. «Nel solaio c’era Hetta.»
Faceva abbastanza freddo da nevicare, ma in cortile Peters e Stilford
sudavano mentre calavano l’ascia a ripetizione: toc, toc. Pezzo per pezzo,
ciocco per ciocco, il legno si riduceva in mille schegge, prima marrone e poi
bianco larva, fibroso e più difficile da tagliare. Peters riposò un istante, la
mano sul fianco. Davanti a lui un mucchio di parti anatomiche: teste di legno,
mani di legno segate.
Elsie era sulla porta della cucina, stretta a Sarah e al personale femminile, e
indossava il suo mantello più pesante. Avrebbe tanto voluto essere un uomo.
Se avesse avuto la forza di prendere in mano un’ascia l’avrebbe fatto;
avrebbe distrutto la faccia dello zingarello. Pensò alla sega circolare della
fabbrica di fiammiferi, ai bastoncelli appena tagliati che dai denti della sega
cadevano nella vasca. Fu percorsa da un tremito.
«Mi pare un gran peccato» piagnucolò Sarah. «Sono antichi! La mia
antenata, Anne Bainbridge, li aveva acquistati nel 1635. Non avremmo
almeno potuto cercare di venderli?»
«Chi mai pagherebbe una bella cifra per aggiudicarsi un mucchio di
bambole da far venire i brividi?» gridò Mabel. «Solo chi è toccato nella testa,
signora.»
Sarah si morse le labbra. Era infelice e questo mise Elsie a disagio. Per
diritto, gli Amici appartenevano a un discendente di sangue Bainbridge e non
a un’intrusa, a una che era diventata Bainbridge in virtù di un matrimonio.
Stava distruggendo l’eredità di Sarah. Ma cos’altro avrebbe potuto fare?
Permettere che spuntassero per tutta la casa come pupazzi a molla, facendoli
impazzire di paura?
«Il legno in più ci farà comodo per l’inverno» intervenne la signora Holt.
A Elsie pizzicava la pelle. «No. Non voglio bruciarli dentro casa. Non
credo che sarebbe… saggio.»
«Allora posso donarli agli abitanti del paese, signora? A Fayford?»
L’ascia fischiò ancora nell’aria, seguita dallo schiocco del legno che
cadeva.
«Forse sarebbe meglio che li bruciassimo qui, in cortile.»
La signora Holt non replicò, ma Elsie notò la sua espressione di
disapprovazione.
Si stava comportando come una sciocca? In effetti sembrava una cosa
stupida, ora che gli Amici giacevano smembrati sui ciottoli; la reazione
nervosa di una femmina ipersensibile. Eppure i cavalli erano a disagio,
tenevano le orecchie piatte e facevano roteare gli occhi. La vacca Beatrice era
tranquilla nella stalla, a brucare un altro ciuffo di fieno dalla mangiatoia. Gli
animali sapevano. Gli animali sentono sempre queste cose.
«Bene» disse Peters ansimando. Il sudore gli colò sugli occhi. «L’ultimo.»
Si girarono tutti a osservare quello che Sarah aveva soprannominato Hetta.
Calma, silenziosa e sola, contemplava i resti massacrati dei suoi compari;
sorrideva sempre serena, la rosa bianca premuta al petto.
Elsie pensò che non sarebbe riuscita a guardare Peters distruggere anche
questo. Che effetto le avrebbe fatto veder frantumare i lineamenti di quel
viso, tanto simile al suo da bambina? L’amputazione del passato, che poi
sarebbe svanito tra le fiamme.
Peters fece un passo avanti.
«No!» La voce di Sarah. «No, la prego. Non possiamo! Hetta no. Ha già
sofferto abbastanza.»
Elsie voltò la testa in modo da impedirsi di vedere Sarah e l’Amico grazie
alla banda della cuffietta. «Dobbiamo farlo, Sarah. C’è qualcosa in questi
oggetti, qualcosa di… sbagliato.»
«E come lo sa che è sbagliato? Sa soltanto che le fanno paura.»
La mano di una bambina alla finestra, il movimento di quegli occhi…
«Sì, mi fanno paura. La trovo una ragione sufficiente. Che effetto pensi
abbiano sul mio bambino, tutte queste sorprese e questi spaventi?»
«Ma Hetta è una mia antenata. Ho letto di lei, sento di conoscerla.» La
voce di Sarah passò dalla preghiera alla disperazione. «E se sta cercando di
entrare in contatto con noi? Se mi sta chiedendo di raddrizzare un torto? Non
posso deluderla!»
Era così che dicevano, no? Che la vittima non poteva riposare in pace, ma
era costretta a vagare in cerca di giustizia. Elsie sapeva per certo che erano
sciocchezze. Doveva essere stata quella vecchia signora Crabbly a riempire la
testa di Sarah di quelle storie. Mesmerismo, addirittura!
«Signorina Sarah» disse la signora Holt, «se posso permettermi… io abito
in questa casa da quand’ero giovane e non abbiamo mai avuto fantasmi.»
Helen tirò su con il naso.
«Ma lei non è imparentata con Hetta!» Sarah stava dando prova di
un’energia quasi fanatica. «Non avrebbe mai tentato di mettersi in contatto
con lei. Io e lei ci somigliamo. La prego, lasci che la tenga. Almeno finché
non avrò finito il diario.»
Dal mucchio degli Amici arrivò un suono: un cigolio secco, come di travi
che si assestano. Doveva decidere. Presto sarebbe calato il buio.
«Avanti» sussurrò Mabel. «Li faccia a pezzi e che quei bastardi brucino
all’inferno.»
La signora Holt si girò di scatto. «Mabel!»
Elsie sospirò. Il mondo ne era pieno, passato e presente: fanciulle tristi,
piccole e sole. Ha già sofferto abbastanza. Sarah parlava di Hetta o di se
stessa?
Aveva già sottratto a Sarah la sua casa e la sua collana di diamanti. Non
c’era dubbio su ciò che Rupert avrebbe voluto che lei facesse, in quel
momento.
«Sarah può tenere Hetta, se è così importante per lei. Ma statemi bene a
sentire, voglio che sia chiusa a chiave nel solaio, non la voglio in casa mia e
nemmeno vicino al mio bambino.»
«Oh, grazie, grazie, signora Bainbridge!» esclamò Sarah in tono stridulo.
«So che sta facendo la cosa giusta.» Aveva un circoletto rosso su ciascuna
guancia e gli occhi le brillavano come brina.
«Nel solaio, hai capito?»
«Sì, sì. La terrò nel solaio, non è affatto un problema.»
Sarah afferrò Hetta come se la stesse sottraendo alle fauci della morte.
Strinse al corpo il lato dipinto, ma con la mano ferita non riusciva a spostarlo.
«Chi mi aiuta a portarla di sopra?»
Mabel e Helen indietreggiarono.
«Per l’amor del cielo!» gridò la signora Holt. Poi fece tintinnare le sue
chiavi e aprì la porta della cucina. «Venga, signorina Sarah. Le mie ragazze
ormai hanno paura della loro stessa ombra.»
Quando furono dentro, Elsie tirò fuori dalla tasca una scatoletta di
fiammiferi. Peters tese la mano, ma lei scrollò la testa. Voleva appiccare il
fuoco personalmente.
«Era ora» sussurrò Mabel.
Elsie si avvicinò alla pira. Il vento si mise a soffiare e il velo le fluttuava
alle spalle come una nuvola di fumo scuro. Ebbe una visione di se stessa lì in
piedi, nera e solenne.
Gli Amici erano un rompicapo fatto di parti diverse: i capelli dello
zingarello, staccati dalla testa; quell’orribile neonato rigido segato a metà.
Ormai non potevano più spaventarla. Prese un fiammifero e lo grattò sulla
carta vetrata.
Una scintilla, una vampata azzurra e poi la fiamma arancione. Il calore
pizzicava attraverso i guanti. Guardò la luce oscillare nella brezza,
avvertendo il potere che teneva tra le dita, pronta a liberarlo con una sola
mossa. Sentiva già l’odore del fumo.
«Lo faccia, signora» insistette Helen.
Lei lasciò cadere il fiammifero.
Il legno scricchiolò e il mucchio esplose in una vampa. Un occhio la
guardava da sotto il bagliore delle fiamme. Poi si squagliò, colando sulla
guancia, gocciolando colore.
The Bridge, 1635

Credevo di aver preso la decisione giusta. Credevo che andasse tutto bene.
Lo zingarello, che dice di chiamarsi Merripen, si è stabilito nelle stalle. Ha
fatto voto solenne di non lasciare le porte aperte o di diventare complice dei
suoi compari ladri. Lo so com’è fatta quella gente.
Da quando mi ero ammorbidita nei confronti del suo amico, Hetta era
diventata tutta dolcezza e luce, correva su e giù per le scale con gli spaniel
che la seguivano a rompicollo, tagliava ciuffi d’erbe per la cucina e ammirava
i miei diamanti. La sua allegria mi aveva stupito, ma ne andavo anche
orgogliosa. Credevo che avesse vinto il proprio risentimento come una vera
signora. Ho immaginato che per lei fosse sufficiente garantire un lavoro al
suo amico. Com’è stato bravo Josiah con lei, ho pensato. Come potevo
sapere? Come potevo anche solo sognare che non gliel’aveva nemmeno
detto?
È iniziato tutto quando sono arrivati i ragazzi. C’era un tempo soffocante,
così afoso da mettere a disagio. Le gazze avevano ciarlato l’intera mattina,
gracchiando i loro segreti. Ma i miei figli erano di ottimo umore e si sono
riversati fuori dalla carrozza con le loro gambe lunghe, scambiandosi manate
sulle spalle.
James ci ha fatto strada nel salone. Henry lo superava di tutta una testa.
Quest’anno è proprio cresciuto, è diventato alto e sottile come una canna,
come uno degli alberelli di Hetta. E Charles! Non riesco ancora a credere che
Charles sia uscito dal mio corpo. È grande, robusto e forte come un mastino.
Non c’è da stupirsi che abbia causato tanti disastri; non c’è da stupirsi che la
levatrice mi abbia detto… Ma ora tutto questo non ha più importanza.
Ci siamo scambiati tanti abbracci, tante notizie. La cena è trascorsa in un
baleno, piena di felicità e rumore, e Hetta sorrideva, ha continuato a sorridere.
Una volta mangiato, ha fatto vedere ai suoi fratelli i preparativi per il masque:
botole e leve; piattaforme costruite in modo che sembrino nuvole. Ha cercato
di fare una piroetta e James l’ha presa tra le braccia e l’ha fatta volare intorno
alla scenografia su cui era dipinto un cielo azzurro.
È stato allora che dal negozio del signor Samuels è arrivato un altro uomo
con alcune scatole.
«Ancora!» Josiah ha finto di scandalizzarsi, ma ho capito che aveva
approvato tutte le mie scelte.
«Stupiremo la regina con le nostre curiosità» ho detto. «The Bridge sarà il
più grande capolavoro che abbia mai visto.»
Stavolta si trattava delle figure contraffatte, delle sagome in legno che il
signor Samuels chiamava gli Amici. Sono una tale meraviglia! C’erano la
signora del negozio e molte altre: un bimbo addormentato; una dama con il
liuto; un gentiluomo con in grembo l’amante.
«Sangue di Cristo! Avete mai visto niente di simile?» Charles si è
avvicinato a una sagoma e l’ha toccata con la mano grassoccia. «Una persona
uscita da un quadro!»
Hetta ha lanciato un gridolino acuto di felicità, come un cane quando vede
il padrone. È balzata al fianco di Charles e ha contemplato le figure, con lo
stupore scritto in viso. Mentre i ragazzi chiacchieravano si è messa a girare
intorno alle sagome, accarezzandone i bordi.
«Guarda guarda» ha detto Henry. «Henrietta Maria gioca a nascondino.»
Ed è questo che abbiamo fatto tutto il giorno, mentre i servi lavoravano per
rendere perfetta la casa: abbiamo corso come bambini e sistemato gli Amici
nei luoghi più strani, cercando di sorprenderci a vicenda.
«Devono sembrare veri» ho detto. «Voglio che la gente li trovi e trasalisca.
Voglio che il re vada a sbattere contro un Amico e gli chieda scusa!»
In casa abbiamo trovato migliaia di nicchie e recessi, mille angoli in cui
piazzarli. Mentre la luce scemava, le figure di legno mi osservavano dai loro
nascondigli e parevano sogghignare, complici. Promettevano davvero di fare
alla regina la sorpresa più grande di tutta la sua vita.
«Sarà un trionfo» ha detto Josiah ridendo. «Un trionfo completo.»
Ormai era piuttosto tardi, ma nessuno di noi è riuscito a prendersi un’ora
per leggere in silenzio prima di cena; eravamo febbrili, agitatissimi. Di lì a
quarantotto ore la famiglia reale sarebbe entrata nella nostra casa, che già
prendeva vita in maniera mai vista prima. Ci eravamo preparati il più
possibile. Ora non restava che attendere.
«Quando proviamo il masque?» ha domandato James, pallido e ansioso
alla luce delle candele. «Mi sono esercitato nei passi che mi hai mandato, ma
preferirei farlo qui.»
«Domani» gli ho risposto. «Gli attori arrivano domani.»
«Il Trionfo dell’Amore Platonico. Ha un bel suono, no?» Henry si è
accarezzato il pizzo dei polsini. «Non potremo mai rivaleggiare con le opere
del signor Jones, ma sono sicuro che alla regina piacerà. Tu balli, Charles?»
I tre ragazzi sono esplosi in una risata. Ho visto Charles ballare soltanto
due volte, da quand’era bambino: non è certo uno spettacolo fatto per ispirare
l’orgoglio materno. Non ha alcun senso del tempo e alcuna grazia, e la sua
figura tozza lo rende alquanto comico.
Charles ha preso lo scherzo nella maniera giusta, anche se ha finto di
incupirsi e ha agitato il pugno in direzione del fratello. «Oh, vi piacerebbe
proprio, eh! Ma non provo alcun desiderio di spaventare la regina. Entro in
scena e pronuncio il mio discorso, tutto qui. E che discorso!»
Ero così intenta a ridere con i ragazzi che non ho notato Hetta sgattaiolare
dove c’era la poltrona di Josiah, davanti al fuoco. Soltanto quando l’ho
sentito parlare mi sono voltata e l’ho vista accanto al bracciolo, che gli tirava
una manica.
«Sì, Henrietta Maria? Cosa c’è?» Lei ha sbattuto i grandi occhi verdi che al
bagliore delle fiamme erano pieni di pagliuzze dorate e brune. «Be’? Che
cosa vuoi?»
Avrei dovuto capirlo. Avrei dovuto prestare attenzione alle ombre che le si
agitavano sul viso e a quel silenzio strano, spaventoso. Ma sono rimasta
seduta lì, impotente, a guardare; ho visto Hetta indicarsi il petto, gli occhi
carichi di aspettativa.
«Allora?» ha gridato Charles. «Parla, piccola Hetta!»
I ragazzi sono scoppiati in un’altra risata.
«Lasciala in pace, Charles!» ho ribattuto, ma non è servito che a farli ridere
più forte. Erano così sovreccitati che credo avrebbero riso anche di fronte alla
morte.
«È soltanto uno scherzo, madre.»
«Non riesco davvero a capire cosa stia cercando di comunicare Henrietta
Maria» ha detto Josiah. «Anne, tu hai qualche idea?»
Lentamente, con cautela, Hetta si è alzata in punta di piedi e ha fatto una
piroetta perfetta, le braccia arcuate sopra la testa e i capelli dal colore
cangiante. Sembrava un sogno, una cortigiana francese impegnata in un
balletto. Non sapevo che danzasse così. Ma quello spettacolo non mi ha
riempito di piacere o di orgoglio materno. Sul suo viso ho visto la luce, e su
quello di Josiah una smorfia colpevole, e ogni pezzo è andato al suo posto.
«Vuole conoscere la sua parte!» ha gridato Henry. «Che parte avrà
Henrietta Maria nel masque, padre?»
No, ho pensato. Non così. Non davanti ai suoi fratelli. Ma Josiah l’ha fatto
comunque. Ha rigirato il liquido nel bicchiere e a voce molto bassa ha detto:
«Henrietta Maria non parteciperà al masque».
Lei è piombata a terra. Non riuscivo a guardarla in faccia. Ho fissato gli
spazi tra i ciocchi nel caminetto, desiderando con tutte le mie forze di esserne
inghiottita.
«Nemmeno una piccola?» La voce di Charles: troppo forte, troppo
gioviale. «Sono sicuro che da qualche parte possiamo infilarla. Certo, non
potrà recitare delle battute!»
James e Henry hanno soffocato una risata.
«È troppo giovane» ha detto Josiah. «È ancora troppo giovane per queste
cose. Starà con noi durante il banchetto e poi andrà a dormire.»
I ragazzi sono stati lontani troppo a lungo e non hanno riconosciuto
l’avvertimento nella voce del padre. Ubriachi della loro stessa allegria, hanno
elencato alcune idee.
«Fatele fare il cupido.»
«L’amore è cieco, quindi potrebbe anche essere muto!»
«Fatela recitare nell’antimasque.»
«Vestita da diavolo? Esistono diavoli così piccoli?»
«Oh sì, sono i peggiori. Il signor Jones li fa sempre saltar fuori da una
nuvola di fumo.»
«Non lo fa con i nani della regina?»
«Sì, ma c’è sempre penuria di bravi nani. Travesti una fanciulla e dipingile
in viso una barba, dico io.»
«Urrà! La metteremo nel serraglio! A Sua Maestà piace collezionare gente
strana e bizzarra.»
«Vi avverto, nessuno è più bizzarro di mia sorella.»
«Basta!» Josiah si è sporto dalla sedia e il liquido è traboccato dal
bicchiere. «Basta, tutti quanti.» Quel ruggito ha interrotto le chiacchiere e mi
è penetrato nella pelle. «Cosa sono questi discorsi da bricconi? Credevo foste
diventati uomini.»
I ragazzi hanno chinato il capo, avviliti.
«Stavamo solo…»
«Non importa, Henry. Il re e la regina saranno qui presto, capisci? Non ho
intenzione di permettere ai miei figli di comportarsi da idioti.»
«No, padre.»
«Ho detto che Henrietta Maria non parteciperà ai festeggiamenti e non
voglio discuterne oltre.»
Avrei potuto sopportarlo se lei avesse pestato i piedi, se avesse pianto o mi
avesse dato uno spintone come aveva cercato di fare quella volta in giardino.
Ma non ha fatto niente. È caduta in ginocchio accanto al fuoco e si è messa le
mani in grembo. Non ha singhiozzato. Non si è mossa. Ha fissato le fiamme,
come avevo fatto io, concentrata su qualcosa nelle profondità del focolare.
Sono andati tutti a dormire, ma né io né Lizzy siamo riusciti a smuovere
Hetta. E nemmeno a costringerla a guardarci. Il suo viso era privo di
espressione, pareva trasformata in una di quelle sagome di legno.
«I diamanti?» ha suggerito Lizzy.
Li ho agganciati al collo snello di Hetta, ma non è servito. Sulla sua pelle
hanno mandato qualche lampo, rosso e arancione.
Abbiamo dovuto lasciarla lì, a guardare i ciocchi diventare mucchietti di
cenere. Mia figlia, sola al buio con le fiamme morenti.
Non riesco a dormire. Ho le orecchie piene di melodie che non svaniscono,
che continuano a ripetersi, all’infinito. Quando chiudo gli occhi vedo seta
color champagne, taffettà scarlatto e pizzo dai bordi dorati. Ho l’impressione
che il mio corpo stia ancora ballando. So che lo sta facendo il mio cuore.
Josiah aveva ragione: è stato un trionfo.
Sono arrivati poco dopo mezzogiorno, con i loro araldi e i membri della
guardia ad aprire la strada. Uno spettacolo magnifico: un nastro scintillante di
cavalli, armature e ricchezze, che si snodava lungo il fiume e sopra le colline.
I puritani di Fayford non hanno interferito con il corteo, ma non sono
nemmeno usciti ad acclamarlo. Così ci ho pensato io. Avevo pagato dei
cittadini di Torbury St Jude per agitare stendardi e dare il benvenuto ai reali.
L’hanno fatto in maniera credibile.
Alcune chiatte sul fiume hanno suonato la fanfara mentre la coppia reale
attraversava il ponte. Le taccole hanno preso il volo al fragore degli zoccoli.
La fontana buttava vino, rosso rubino, che schizzava fuori dalla bocca del
cane e si rovesciava nella vasca.
Ho scoperto che il re è più basso di come me l’aspettavo, e più snello;
quasi gracile. Era tutto vestito di nero, aveva una barba appuntita e gli occhi
assonnati. Sembrava più vecchio della sua età. Intorno al collo gli brillava
l’unica nota di colore in quell’abbigliamento così sobrio: un collare di pizzo
d’argento, delicato e sottile come una tela di ragno.
E lei! Ho creduto di svenire quando ho visto la figura da elfo della regina
scendere da cavallo. Era splendida, allegra e dalla vivacità decisamente
contagiosa; ha riso, cantato e parlato tutto il giorno. I suoi capelli brillavano
come giaietto, i suoi occhi scuri danzavano. Lizzy dice che è una strega
papista e forse è vero, perché basta un istante in sua compagnia a incantare i
sensi.
Abbiamo banchettato nel salone su tavoli appoggiati a dei cavalletti. Uova
di quaglia, salmone, creste di gallo, patate dolci, datteri, carciofi disposti su
vassoi d’oro; tutto perfettamente condito con le erbe di Hetta. Fino a quel
momento non mi ero resa conto di quanto duramente avesse lavorato.
Si è comportata in maniera molto solenne e corretta dalla sera in cui Josiah
le ha proibito di partecipare al masque. Per tutto il banchetto è rimasta seduta
a guardare con espressione curiosa i cortigiani che mangiavano e
spettegolavano. Mi aspettavo che ridesse, che cercasse di toccare i ricci a
molla delle signore, ma non l’ha fatto. Inclinava semplicemente la testa come
il suo passero addomesticato e osservava. Avrei voluto poter decifrare il
groviglio dei suoi pensieri. Mi piacerebbe tanto, come il nostro Creatore,
poter leggere nella mente della fanciulla che ho messo al mondo. Com’è che
riesco a percepire Josiah ma non lei?
Ho avuto l’impressione che non si divertisse, al banchetto: con quella sua
lingua corta e deforme, raramente per lei il cibo è fonte di godimento. Eppure
quando Lizzy è venuta per portarla a letto, un’espressione rarissima si è
impossessata dei suoi lineamenti. Se n’è andata con il viso contorto da un
sorriso, ma che sorriso! Pareva una folata d’aria gelida, non il solito raggio di
sole.
In quel momento non mi preoccupava il pensiero di lei al piano di sopra.
Come una donna senza cuore, mi divertivo troppo per lasciarmene turbare.
Ma ora quell’immagine mi fa spuntare le lacrime agli occhi: la bambina muta
insieme al suo passerotto, mentre da sotto arrivano risate stridule e note
musicali. Povera piccola. Non toccava a lei restare confinata come una
lebbrosa: al suo posto dovevo esserci io.
Avevo soltanto voluto una figlia che stesse con me, una compagna del mio
sesso che riempisse il vuoto lasciato da mia sorella Mary. L’ho voluta con
una tale avidità che non m’importava come. Sono stata io a scottarmi le dita
con la stregoneria; sono stata io a mescolare le carte e a prendere in mano il
potere divino. Perché Hetta è stata punita per la mia cupidigia?
Si è persa gli acrobati nella galleria della torre nolare, i funamboli che
danzavano sul filo nel salone, con i loro costumi scintillanti. Non ha visto i
fuochi d’artificio balzare in cielo ed esplodere sopra i giardini. Non ha potuto
unirsi alle grida e allo stupore mentre i nostri Amici silenziosi facevano
trasalire gli ospiti, più e più volte. Ma forse è meglio che non abbia visto il
masque.
Soltanto quando è iniziato lo spettacolo mi sono resa conto che la casa si
era trasformata in un landa pagana piena di ninfe e satiri. La mia carrozza di
conchiglie è giunta sul palco del salone e ho eseguito la mia danza con al
collo i diamanti che mandavano bagliori. Intorno a me incedevano sirene in
abiti diafani, intonando il loro canto fatale. Dalla galleria piovevano petali.
L’aria era densa del profumo d’acqua d’arance bruciata. Cos’avrebbe pensato
Lizzy se ci avesse visti? Altro che i puritani di Fayford!
Forse è un peccato, forse è un errore questa corte dai lussi infiniti. Però
quant’è inebriante! E adesso che l’ho vista con i miei occhi non so come farò
a stare senza.
Dopo tutto questo scrivere ho le palpebre pesanti. Ogni volta che inizio a
perdere il filo, vedo l’antimasque: i maghi malefici e i loro servitori che si
riversano fuori da una caverna in fiamme. Creature spaventose: uomini strani,
rachitici, con teste abnormi. Tra il fumo arancione giungevano delle risatine.
Se mi addormentassi con quelle immagini farei sogni tremendi.
Sono rimasta sconvolta dai mostri della regina; lo ammetto. Non avevo
mai visto nulla di simile prima, cose innaturali e in qualche modo oscene.
Direi che non dovrebbero esistere, che non dovrebbero essere, ma poi ripenso
a Hetta e provo vergogna. Perché la gente dice che lo stesso diavolo che li ha
sfigurati ha anche mozzato la lingua di mia figlia.
Chi potrebbe paragonare Hetta a una di quelle creature maledette? Non
sono belle; sono bizzarre e squilibrate. Soprattutto quella che non si toglieva
mai la maschera ma turbava le danze con la sua faccia rossa e lasciva,
facendo le capriole come un insetto dalle molteplici zampe, e spaventando i
miei ospiti. Quando chiudo gli occhi la vedo; si muove rapida, si insinua tra i
ballerini, il corpo tozzo inghiottito da nuvole di fumo.
Fuori si stanno ammassando banchi di nuvole, spettri grigi su fondo nero.
Credo che finalmente pioverà. Il tuono striscia intorno agli alberi e in
lontananza, verso Fayford. Vedo il forcone di un lampo sfrigolare nel cielo.
Se piove troppo, forse la corte non potrà andarsene. Forse ci sarà concesso di
trattenerli.
Scoppia il tuono. La mia immaginazione febbrile ode un grido levarsi dalla
notte. Eppure fuori dalla mia finestra non c’è niente, neppure una volpe.
I lampi riempiono la stanza di luce bianca. Osservo il mio viso nel vetro,
sfuggente, spaventato. «Hetta non assomiglia affatto a quei mostri» gli
sussurro, prima di spegnere la candela. «Per nulla.»
The Bridge 1865

Sarah sedette al piano e suonò goffamente, con una mano, alcune melodie
natalizie. La finestra alle sue spalle era aperta e lasciava entrare l’aria
ghiacciata. Le dita le tremavano sui tasti.
«Chiudi la finestra, Sarah. Mi sembra che tu stia gelando.»
Lei sollevò lo sguardo al di sopra del piano. «L’aria mi piace. Mi piace
sentirmi come se fossi… fuori.» Qualche nota discordante e stonata, poi tornò
ad abbassare gli occhi sui tasti.
Allora la sentiva anche Sarah: quella strana pressione, quel calore
soffocante e appiccicoso che pervadeva tutta la casa. E anche l’odore. Da
quando aveva appiccato il falò, Elsie non riusciva a scacciare dalle proprie
narici un sentore di bruciato. Le ricordava il neonato di legno, segato in due,
con negli occhi né rabbia né dolore, soltanto quell’agghiacciante e orribile
vuoto.
Sospirò e ricominciò a incartare il regalo per Jolyon. Se non altro il suo
caro ragazzo sarebbe arrivato presto, con notizie da Londra, il mondo della
ragione. Cosa avrebbe pensato delle sue migliorie a The Bridge? Nella
nursery c’era una carta da parati nuova: sfondo giallo granturco con uccelli e
rami alla maniera orientale. Nel salottino, pannelli di legno nuovi, fissati con
rosoni dorati. Ma soprattutto aveva chiesto ai giardinieri di disporre nel parco
dei vasi contenenti grandi abeti e di decorarli con lanterne. Da ragazzo Jolyon
contemplava a occhi sgranati le vetrine di Natale, ipnotizzato dalle candele e
dai giocattoli meccanici. Ora finalmente lei aveva il denaro per permettersi
delle frivolezze. Gli avrebbe regalato il Natale che meritava.
Stava sistemando un nastro quando dal pianoforte arrivò una nota acuta,
che echeggiò fino al soffitto stuccato, dove aleggiò sola, patetica e fragile,
prima di morire.
«Signora Bainbridge» sussurrò Sarah. «Signora Bainbridge, guardi.»
Elsie si irrigidì. Le mani sudate inzuppavano la stoffa dei guanti sulla carta
da regalo. Poco alla volta, sollevò gli occhi preparandosi a uno spettacolo
terrificante.
Era un passerotto. Solo un passerotto, appollaiato sul coperchio del
pianoforte. Inclinava il capo a destra e a sinistra, e le guardava. Sopra il becco
balenavano due occhietti neri.
«È bellissimo.» Tenne bassa la voce per non spaventare l’uccellino.
«Meglio che Jasper non lo veda.»
Sarah sorrise. «Le sono rimaste delle briciole? Potremmo spargerle sul
pianoforte in modo che le becchi.»
Elsie guardò il tavolino. Il piatto era punteggiato di pezzettini di dolce, ce
n’erano una decina. «Sì. Ma non voglio alzarmi e spaventarlo.»
Il passerotto zampettò avanti. Tirò indietro le ali, gonfiò il petto e dischiuse
il becco delicato, pronto a cantare.
In quell’istante si sentirono tre colpi alla porta d’ingresso. Rapido come
una freccia, il passero infilò la finestra aperta. Sul pianoforte si depositò una
piuma bruna.
«Chi sarà?» Elsie andò alla finestra e cercò di sbirciare intorno alla massa
di mattoni dell’ala est. Riusciva solo a intravedere il vialetto, e non c’erano
carrozze.
«Credo…» disse Sarah incerta, «credo che sia il signor Underwood.»
«Il signor Underwood? Non ricordo di averlo invitato.»
«No.» Sarah chiuse il coperchio del piano. «No, infatti. Sono terribilmente
dispiaciuta, signora Bainbridge. Sono stata io. L’ho invitato io.»
«Oh. Capisco.»
«È solo che…»
«Forse me ne avevi parlato.» Si sentiva colta alla sprovvista. In un certo
senso, anche se non sapeva bene come, aveva ricevuto un affronto. «Non
sono pronta a ricevere ospiti.»
«Ma io non l’ho invitato in qualità di ospite.» Sarah si alzò e cominciò
nervosamente a lisciarsi i capelli. «Più come un… consigliere.»
Altri tre colpi, stavolta più ravvicinati.
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio chiedergli di Hetta.»
Il terrore le sussultò nello stomaco. «Sarah…»
«Ho pensato che forse sa cosa fare. In passato la Chiesa ha compiuto degli
esorcismi.»
Esorcismo. Quella parola era gutturale, proveniva da un punto profondo
della gola. Pronunciarla a voce alta era come soffocare, come iniziare a
parlare le lingue del demonio. Ma cosa le era saltato in mente?
«Non avrai seriamente intenzione di chiedergli di eseguire una specie di
rituale?»
«No! Oh, no, non credo che Hetta debba essere scacciata o qualcosa del
genere. Vorrei semplicemente un suo consiglio.»
Suonò il campanello.
«È ovvio che nessuno sta andando ad aprire alla porta» disse Elsie.
«Meglio che ci pensi io.»
Fu sollevata di avere una scusa per uscire dalla stanza e sfuggire
all’espressione intensa di Sarah. Almeno il signor Underwood le avrebbe
chiarito le idee. Era un uomo di fede ma, così le sembrava, non superstizioso.
Il salone era squallido e gelido. Il caminetto era stato acceso, ma non tirava
bene. Nessuna luce scintillava sulle spade cerimoniali o sull’armatura; erano
di un grigio peltro opaco. Dalla porta d’ingresso spalancata entravano folate
d’aria. Sulla soglia c’era Underwood, con in mano una lunga scatola.
«Buongiorno, signora Bainbridge. Perdoni l’intrusione. Ho suonato il
campanello ma la porta era socchiusa e sul gradino ho trovato questo.»
«Dovrebbe essere il mio vestito nuovo! È tutta la settimana che lo aspetto
da Torbury St Jude.»
«Giusto in tempo per il Natale. Che fortunata.» Si accomodò e posò la
scatola sul tappeto orientale. Lei si inginocchiò (ormai niente le riusciva più
facile, con quella pancia sporgente) e accarezzò il pacco. Non c’erano né
etichetta né cartellino, solo un nastro verde oliva e oro.
Il signor Underwood si tolse il cappello, che gli aveva schiacciato sulla
testa i capelli biondi. «Mi domandavo se la signorina Bainbridge è in casa.
Ho ricevuto un suo biglietto, in cui mi chiedeva di parlarmi. Devo dire che mi
ha allarmato. Mi è sembrato un messaggio… confuso.»
«È nella stanza della musica.» Elsie guardò il pacchetto. Provava l’impulso
di confessare tutto, di dirgli delle schegge nel collo di Rupert, della nursery,
della soffitta, dell’impronta, degli occhi. Ma parlare di quelle cose le rendeva
farsesche. Non era possibile spiegare la paura, si poteva solo sentirla ruggire
nel silenzio e azzittire il cuore. «Sento di doverla avvertire, signor
Underwood, che la signorina Bainbridge ha intenzione di discutere con lei
delle sue convinzioni, che sono… poco convenzionali. Lavorava per una
signora molto anziana ed eccentrica. Credo che facesse parte di un circolo
spiritualista.»
«Ah.»
«Spero che sia d’accordo con me quando dico che sono… cauta su queste
cose.»
«Ma certo. La Chiesa non nega l’esistenza degli spiriti, ma è fortemente
contraria a invischiarsi in questioni del genere. Pensi alla negromante di
Endor e alla maledizione su re Saul per avere consultato una medium.»
Le riemersero dei ricordi frammentari del catechismo; re Saul,
disperatamente alla ricerca di un consiglio del suo profeta Samuele, che
implora la donna di farlo ricomparire. Perché mi hai disturbato evocandomi?
Quel ricordo la inquietava perché lei l’aveva fatto. Era stato possibile.
Elsie si schiarì la voce. «Lei deve capire che Sarah è particolarmente
soggetta all’influsso di questi mesmeristi e sensitivi da strapazzo. I suoi
genitori sono morti quand’era giovane. Senza famiglia è vulnerabile… Posso
chiederle di provare a dissuaderla da questi metodi brutali? Con dolcezza?»
«Ha la mia parola.» Elsie alzò la testa. Lui la guardava con gentilezza;
anzi, temette che si trattasse di tenerezza. «Gliel’ho già detto: voglio educare
Fayford e sradicare superstizioni come questa.»
«Stavo proprio pensando a Fayford, signor Underwood. Mio fratello
arriverà da Londra per le vacanze. Se potesse raccomandarmi delle ragazze
del paese che siano adatte, potrei convincerlo a portarsele in fabbrica come
apprendiste. La paga non è elevata, ma tutti i nostri ragazzi vanno a scuola,
almeno due ore al giorno. Avranno un impiego, da mangiare e un tetto sulla
testa. Un tetto che non perde. Dei vestiti appropriati. E alla fine del periodo di
apprendistato avranno imparato un mestiere. Cosa ne dice?»
«Dico che è il dono migliore che avrei mai potuto ricevere.» Il viso gli si
illuminò di un sorriso beato. «Anzi, già mi sono venute in mente delle
giovani adatte. I genitori non avranno nulla in contrario alla vostra fabbrica. È
questa casa che temono. A proposito.» Dal taschino interno tirò fuori un
pacchetto avvolto in carta marrone, legato con uno spago. «Documenti
provenienti dal paese. Temo che siano una lettura piuttosto noiosa, ma forse
alcuni possono interessarle.»
Elsie guardò lo spago, annodato strettamente. Era la stessa sensazione che
provava al petto. È questa casa che temono. Stava cominciando a pensare che
ne avevano ben donde. Quel fascio di carte poteva fornire delle risposte, ma
forse poteva anche dirle cose che non aveva voglia di scoprire.
«Gentile da parte sua ricordarsene. Può lasciarli nella stanza della musica,
quando andrà a parlare con Sarah? Li consulterò più tardi.»
Lui le tese la mano. «Venga con me. Andiamo insieme a convincere la
signorina Bainbridge a togliersi dalla testa quelle fantasie. Sono sicuro che
uniti riusciremo a farla ragionare.»
Lei esitò. «Grazie. Ma… con Sarah ci ho già provato. Credo sarebbe
meglio che ci parlasse lei, senza che io interferisca. Dopotutto, questioni
spirituali di questo livello richiedono un certo grado di riservatezza.»
Lui lasciò cadere la mano e se la portò dietro la schiena. «Sì. Ma certo.
Un’osservazione molto saggia da parte sua, signora Bainbridge.» Voltò la
testa. «La stanza della musica è quella?»
«Quello è il salottino. Lo attraversi e giri a destra. Non può sbagliare.
Dubito che abbia mai visto una stanza più rosa.»
Lui abbozzò un inchino. «Grazie. Ora la lascio al suo pacco.»
Lei lo guardò allontanarsi, le code della giacca lisa che svolazzavano al
ritmo dei passi.
Spostò le gambe, si mise in una posizione più comoda e si preparò ad
aprire la scatola. Un vestito nuovo poteva essere proprio la distrazione di cui
aveva bisogno. Sarebbe stato il suo abito più elegante, quello per il giorno di
Natale.
Era difficile disfare il nodo con le mani guantate, ma alla fine ci riuscì. Le
dita, sudate per l’ansia, trovarono il bordo del coperchio. Crespo e chiffon,
ricamati di seta. Un abito in tre pezzi, ricco di nappine e frange. Non vedeva
l’ora. Tolse il coperchio dalla scatola.
E urlò.
Dentro c’era un mucchio di nastri di un materiale nero mischiati a foglie
secche e a cardi, che pungevano, appiccicosi e incrostati di sangue. Al centro
era posato qualcosa di nero, bianco e peloso, brulicante di mosche. Riuscì a
distinguere dei grumi di carne e osso maciullati. Vene come matasse di seta
rossa. Poi le orecchie flosce, gli occhi chiusi. Il pelo imbrattato di sangue fino
alla fronte. Una testa di vacca.
La testa di Beatrice.
La puzza le strinse la gola e le fece venire la nausea. Cadde sulla schiena e
si allontanò a tentoni, le mani che stridevano sul pavimento. Stava per
vomitare. Stava per vomitare eppure non riusciva a staccare gli occhi dalla
scatola. Beatrice. Povera Beatrice.
Con il capo andò a scontrarsi contro un oggetto duro. In preda al panico
più violento, si girò di scatto. Alle sue spalle c’era Hetta, che sorrideva
immobile, la rosa premuta al petto.
«No, no.»
Si protese in avanti e la buttò a terra con un gran fracasso. Si rimise in
piedi, aveva le gambe di gelatina ma in qualche modo riuscì a costringerle a
salire le scale, due gradini alla volta. La gonna le si impigliò nelle caviglie.
Inciampò, cadde e si tirò su. Non aveva idea di dove stava andando, solo che
doveva salire, salire… fino al tetto, se fosse stato necessario. Per mettere più
distanza possibile tra sé e quello spettacolo orrendo…
Vagamente, sentì il signor Underwood entrare nel salone e chiamarla per
nome. Poi il suono soffocato del grido di stupore di Sarah. Ma non riuscì a
fermarsi. Quel profumo di rose: la seguiva, si addensava sempre più a ogni
passo…
A un gradino dal pianerottolo si arrestò all’improvviso. Un altro viso di
legno piatto le bloccava la strada. Un nuovo Amico, ma lo riconobbe.
Baffi come uno spazzolino di fil di ferro sopra le labbra. Capelli unti con
olio di Macassar, un ricciolo che ricadeva sul sopracciglio sinistro. Guancia
percorsa da vene spezzate. E gli occhi… L’espressione tormentata di quegli
occhi le gelò il sangue.
«Rupert.»
Non era possibile. Chiuse le palpebre: se avesse continuato a guardare
sarebbe impazzita. Ma lo vedeva lo stesso; lo sentiva, vicino alla faccia. Che
si avvicinava.
«No, no.»
Fece due passi indietro. La coda del vestito le si avvolse intorno alle
caviglie come una fune. In preda al panico, agitò le gambe e mise un piede in
fallo.
Tre tonfi successivi. Poi, soltanto nero.
The Bridge, 1635

Stamattina ho sentito per la prima volta nella vita un uomo urlare. È un suono
che non vorrei sentire mai più: gutturale, pieno di vergogna, ha attraversato il
cortile ed è risalito fino alla torre nolare.
Mi sono svegliata ricoperta di sudore ghiacciato. Josiah era nel letto
accanto a me e fissava il soffitto con lo stesso orrore che sentivo sulla pelle. Il
ricordo è ricaduto come un colpo mortale: il re e la regina. Non poteva essere,
Dio onnipotente, non poteva essere che fosse loro accaduto qualcosa?
Quel rumore spaventoso arrivava da fuori e aveva fatto abbaiare i cani. Mi
sono precipitata giù dal letto e sono corsa alla finestra. Il vetro era
punteggiato di gocce di pioggia e non riuscivo a vedere chiaramente. Dopo il
temporale di ieri nell’aria era sospesa una foschia diafana. Le pozzanghere
evaporavano nella calura mattutina.
«Cosa c’è?» ha domandato Josiah.
La risposta non gli è arrivata da me, ma è emersa da quel luogo dove
brulicano i sogni e dove la consapevolezza giunge già perfettamente formata.
«È morto qualcuno. La vita ha abbandonato questa casa.»
Lui si è alzato subito, ha buttato via il copriletto e ho sentito i suoi piedi
nudi risuonare sulle assi del pavimento. Poi l’ho visto afferrare la spada e
irrompere in corridoio.
Non eravamo gli unici svegli. Gli ospiti giravano per casa nei loro abiti
notturni, con gli occhi gonfi e i capelli arruffati dalla sera prima. Quando
Josiah li ha visti ha assunto un’aria calma.
«Non abbiate paura. Vi prego di tornare ai vostri letti. Andrò a scoprire le
cause di questo disturbo.»
Loro hanno borbottato e si sono strofinati gli occhi. Parevano stanchi e non
sembravano avere voglia di obbedirgli.
Ho seguito Josiah giù per una rampa di scale, in preda al frenetico
desiderio di vedere i bambini al sicuro. Li ho trovati radunati fuori dalla
nursery con Lizzy, tutti mortalmente pallidi. Da dentro si sentiva pigolare il
passero di Hetta. Mi si sono rizzati i capelli sulla nuca. Una volta Mary mi
aveva detto che i passeri portano con sé le anime dei morti.
«Non sappiamo perché ci sia tanta confusione» ho detto. «Vostro padre è
andato a occuparsene.»
«Padrona?» Lizzy ha cercato di incrociare il mio sguardo ma io non la
guardavo perché sapevo che mi sarebbe bastata un’occhiata per perdere la
compostezza.
«Non adesso, Lizzy.»
Devo esserle sembrata una padrona fatta e finita, di quelle che danno
soltanto ordini. Mi sono voltata verso i miei figli. Nonostante fosse andata a
letto presto, Hetta sembrava più esausta dei ragazzi. Le ho toccato la fronte.
Bruciava.
«Tornate a letto» ho ordinato. «Tutti quanti, a letto.»
I ragazzi hanno protestato ma io non ho prestato loro attenzione; non mi
sono soffermata a discutere. Ero animata da una strana energia, una specie di
nauseabonda eccitazione, e sono tornata da dov’ero venuta, per andare a
rassicurare gli ospiti.
Sotto tutte le paure della mia mente ne ribolliva una che non riuscivo
nemmeno a pronunciare: la peste. Avevo saputo che a Londra c’erano state
alte temperature e notizie di malesseri. Ora mia figlia bruciava di febbre. Ho
pregato Dio che non si trattasse di peste.
Avevamo perduto Mary per la malattia del sudore. La gente diceva che era
una morte rapida e dolce, ma non avevano visto con i loro occhi. Se mia
sorella era morta dolcemente, non osavo immaginare come potesse essere una
morte crudele.
La mattina stava bene. Ma già mentre ci vestivamo, l’avevo sentito per la
prima volta: quel presentimento di cui ho cominciato a fidarmi più che dei
miei altri sensi. I nostri occhi si erano incontrati e avevo capito che lo sentiva
anche Mary. A mezzogiorno era ormai confinata a letto.
Tutto iniziò con dei brividi. Poi venne il calore, che le bruciava la pelle,
che le scorreva fuori dai pori formando rivoletti di sudore. Prima che fosse
trascorsa la notte, aveva la mandibola fasciata. Andata. Morta, a soli
vent’anni.
I miei piedi nudi scricchiolavano sui giunchi stesi sul pavimento.
Ossessionata dai ricordi di Mary non mi ero accorta di Jane che correva su
per le scale. Ci siamo scontrate e siamo cadute entrambe, sbattendo le
palpebre, stupefatte.
«Oh, padrona, perdonatemi.» Sembrava fuori di sé. Mi sono resa conto che
era sveglia da molto prima di noi. Stava svolgendo le sue faccende quand’era
risuonato quell’urlo.
«Jane! Jane, dimmi cos’è successo.»
Lei è scoppiata in lacrime.
Gliel’ho cavato una parola alla volta. Non ho avuto bisogno di scendere
alle stalle a fiutare il sangue e a vedere le mosche di persona; luccicava tutto
nelle sue pupille.
Nelle stalle c’era un cavallo morto. Non soltanto morto: mutilato. La coda
era stata mozzata e inchiodata sulla porta, la criniera tranciata con le forbici.
Lo stalliere ha trovato una serie di lacerazioni sulla pelle, come le tacche che
si incidono nella scorza di un albero.
«Quale cavallo, Jane?»
«Oh… pa-padrona!» ha singhiozzato lei.
«Non dirmi che è la mia giumenta grigia.»
Jane ha scosso la testa. Le sue guance umide hanno mandato un lampo di
verità. «Pe-peggio.»
«No. Non mi starai dicendo che…»
«Il cavallo della regina!» ha gridato lei.
Ho sentito le gambe cedermi; mi sono appoggiata al muro e poi sono
scivolata giù, fino al pavimento. «Ma chi… i puritani?»
«Non lo so, padrona, non lo so. Mark dice che dalle stalle manca
qualcuno.»
«Chi?»
«Un ragazzo. Uno zingarello. Io nemmeno sapevo che ne avevamo uno,
che Dio mi perdoni! Ma cosa gli sarà venuto in mente per prendersela con
una brutta bestia cattiva come quella?»
Mi si è gelato il sangue. Merripen. Era stato Merripen.
Non sapevo come. Non sapevo dove un ragazzino di nove o dieci anni
potesse aver trovato la forza per commettere un atto così infernale. Da dove,
nella sua giovane mente, era scaturito un impulso così orribile?
Il cavallo della regina! Della regina!
La testa mi si spaccava per l’angoscia. È solo colpa mia, mia. Siamo
rovinati. La corte non tornerà mai più qui. Josiah…
Santo Dio. Josiah lo scoprirà. Verrà a sapere cos’ho fatto, che con uno
stupido capriccio ho distrutto le ambizioni di tutta la sua vita. Un matrimonio
può reggere a una cosa del genere? E il mio cuore?
Che Dio perdoni la mia malvagità. Vorrei tanto che si fosse davvero
trattato della peste.
The Bridge, 1866

Elsie si svegliò con tre esplosioni di dolore. La prima partiva dal fondo della
schiena e le arrivava fino alle cosce. L’altra le penetrava la cima del cranio e
poi si irradiava in tutto il viso. Sentiva il labbro gonfio dove i denti avevano
morsicato la pelle.
Ma quelle fitte non erano nulla al confronto con la terza: quella di artigli
che le straziavano il ventre.
Iniziava piano, stuzzicandole le corde interne, e poi aumentava
gradatamente fino a farla urlare. Chiunque la stesse curando le portò alle
labbra un liquido amaro dall’odore pestilenziale. Sentì un fiume di sangue
rovente tra le gambe e poi ricadde all’indietro, esausta.
Dormì senza sognare. Qualcosa restava sospeso al limite della sua
consapevolezza, come un uccello saprofago sopra un animale morente, in
attesa di scendere in picchiata, ma non la attaccò.
Era intrappolata in un caleidoscopio in continuo mutamento: fiutò la puzza
stantia e penetrante di pelle non lavata e di sangue vischioso; assaporò l’aloe
e l’olio di ricino; sentì la voce di Jolyon e un’altra che non riconobbe. Colse
soltanto alcune frasi, ma furono sufficienti.
«Legno? E ce l’aveva dentro?»
«Sì, insieme al bambino. Quel poverino era spaccato in due. Non avevo
mai visto niente di simile.»
Il bambino.
Non c’era più. Amputato. Dentro non ne sentiva più i movimenti o il
ribollire.
Non siamo più due. Sono sola.
Il Natale doveva essere ormai passato, perché quando un orribile mattino
riuscì a strisciare fuori da quella nebbia, Sarah era seduta nella stanza, vestita
sobriamente, e mangiava della carne fredda che sembrava avanzata. Mabel si
stava occupando del guardaroba e indossava la nuova uniforme che Elsie
ricordava di averle comprato per Natale.
In bocca aveva un sapore spaventoso. Gemette. «Il mio tonico. Datemi…»
Farmaci. Non aveva importanza cosa: oppio, morfina, cloralio.
Sarah trasalì al suono della sua voce. Si tamponò le labbra con un
tovagliolo, si precipitò al suo capezzale e le prese la mano. Era dimagrita, e
così il suo viso sembrava più lungo e cavallino che mai. Intorno alle orbite
aveva delle ombre, le iridi luccicavano di lacrime mai piante.
«Tonico» ripeté Elsie. Il fiato le usciva scorticandole il petto. Di lì a un
istante il dolore sarebbe montato, lo sentiva crescere, prendere forza.
Sarah scosse la testa. «Il dottore ha detto di non dargliene troppo.»
«Il dottore! Lui non ha mai provato niente del genere.»
«Dice che deve mangiare. Posso darle pane e acqua o brodo di manzo…»
«Non ho fame.» La sua lingua anelava al gusto astringente dell’oppio; la
sua testa implorava un po’ di sonno. Ora le faceva un male tremendo,
rivoltava oggetti appuntiti e cercava di ridurli a ricordi. Avrebbe voluto
mettersi a piangere, ma questo l’avrebbe fatta soffrire di più. «Per l’amor di
Dio, dammi il tonico.»
«Il dottore…»
«Il dottore è un uomo. Non può comprendere questo dolore.»
Le lacrime sgorgarono sulle guance scavate di Sarah, che strinse la mano
di Elsie fino a farle male. «Oh, signora Bainbridge. Mi dispiace tantissimo.
Sarebbe stato un pezzetto di Rupert, vero?»
Il dolore la investì nuovamente, ma non allo stomaco. «Dov’è? Dov’è il
mio bambino?»
«Con suo padre. Il signor Underwood è stato molto gentile. Ha battezzato
il piccolo sconosciuto e l’ha messo a riposo nella cripta di famiglia. Non era
tenuto a farlo. Sarà il nostro segreto.»
Un piccolo sconosciuto. Cresciuto in segreto, sepolto in segreto, sempre al
buio. Elsie sentì la mente aprirsi come una ferita: umida, inerme. «Ma
allora… non lo vedrò mai!»
«Volevamo aspettarla, ma lei era così malata. Non abbiamo potuto
rimandare oltre.» Sarah pareva a disagio. Il suo corsetto frusciava. «Posso
dirle com’era. Era molto piccolo. Delicato. Si capiva appena che era un
maschio.»
«E… ed era spezzato?»
«Chi gliel’ha detto?»
«Ma allora è vero! Ho pensato, ho sperato di avere sentito la voce di
Jolyon in sogno. Sarah, com’è possibile…»
Sarah scosse la testa. «Non so spiegarglielo. Perfino il dottore non lo sa. Io
so soltanto quel che ho visto.»
«E cosa… hai visto?»
Sarah distolse lo sguardo. «La prego, signora Bainbridge, non mi va di
parlarne. Non mi costringa a farlo.»
«È mio figlio.»
«Aveva delle schegge infilate nella pelle» sussurrò Sarah, chiudendo gli
occhi. «Dappertutto.»
Alcune immagini cercarono di formarsi ma Elsie non lo permise, non
riusciva a sopportarle. «Il nome. Come l’hanno battezzato?»
«Edgar Rupert!»
«Edgar!»
Sarah la fissò sbattendo le palpebre. «Non… non andava bene? Il signor
Livingstone ha detto che era il nome di suo padre.»
«Sì.» Si lasciò cadere nuovamente sul cuscino, in preda alla nausea.
«Infatti.»
Mabel chiuse l’armadio e, strisciando lungo il muro, scivolò fuori dalla
porta.
«Jolyon era molto arrabbiato?»
«Arrabbiato? Dio la benedica, signora Bainbridge, e perché mai? L’ho
visto soltanto molto preoccupato.»
Senza dubbio era vero, ma si sarebbe pentito di quell’occasione persa con
la stessa amarezza di Elsie. Aveva perso l’erede, il futuro della loro azienda, e
in un momento di… cosa? No, mamma, non di distrazione. Qualcosa di
peggio, qualcosa in agguato ai confini della sua mente…
«Beatrice» boccheggiò. «Beatrice.» La mano di Sarah diventò rigida sotto
la sua. «Oh, Sarah, dimmi che ho immaginato tutto.»
«Non posso. Quella povera creatura. Il vestito… Signora Bainbridge, cos’è
accaduto? Non l’ho persa di vista nemmeno per dieci minuti.»
«Me l’hanno consegnato. Il signor Underwood… ha detto di averlo trovato
davanti alla porta.»
«Sì, me l’ha detto. Ma come mai lei si trovava in cima alle scale?»
Un dito gelido le si posò sul cuore. «Oddio. L’hai visto? È ancora là? Cosa
ne avete fatto?»
«Ssh.» Sarah cercò di tenerle ferme le mani, ma anche lei era scossa. «Sta
parlando di Hetta?»
«No. Di Rupert.»
Sarah lasciò andare le mani con un gemito. «Rupert?»
«Ce n’era uno con la sua faccia.» Chiuse gli occhi tentando di spingere via
il ricordo, ma non servì a nulla. «Un Amico con le fattezze di Rupert, Sarah.
Sembrava… Oddio, sembrava maledetto.»
«No! No, lei si dev’essere sbagliata, signora Bainbridge. Non è in casa.
Non l’ha visto nessuno.»
«Era proprio sul primo gradino.»
«Santo Dio.» Le labbra di Sarah tremarono, come petali appassiti di rosa
pronti a cadere. «Non ho mai voluto… mi dispiace tanto, signora Bainbridge.
Lo sa, vero, che non avrei mai messo Hetta nel salone? Le giuro che era nel
solaio. Era chiusa a chiave nel solaio, non capisco come…» E tacque. I
muscoli del viso si contraevano, come se stesse combattendo contro
un’emozione. «La verità è che è accaduto nel diario. Il diario di Anne. Poco
dopo che acquistò gli Amici, un cavallo fu mutilato. E sto cominciando a
pensare che forse… forse Anne era davvero una strega, dopotutto. Scrive di
queste pozioni che aveva usato per concepire Hetta… Forse è questo che
Hetta sta cercando di fare: avvertirci dei poteri di sua madre.»
Elsie chiuse gli occhi. Tremava in ogni particella del corpo. Stava
cominciando a pentirsi di essersi svegliata. Il sonno era una cosa semplice e
sicura. «Sarah, ne hai parlato a Jolyon? O al signor Underwood?»
«Sì.» A un tratto la sua voce si inasprì. «L’ho detto a suo fratello e ho
implorato il signor Underwood di eseguire un esorcismo. Non hanno voluto
credermi. Hanno parlato e poi mi hanno costretto a vedere il medico.»
«E lui cos’ha detto?»
«Oh, mi ha dato una medicina tremenda. Lo preoccupava di più questo.»
Sarah sollevò la mano, ancora bendata. «La pelle intorno al taglio è diventata
bianca e morbida. Secondo lui è infettata.»
Un’infezione che le faceva vedere le cose. I medici avevano sempre una
spiegazione, ma questa era insufficiente. Elsie non aveva un’infezione e
nemmeno le cameriere. Come avrebbero fatto a spiegare quello che loro
avevano visto?
«E la cosa peggiore» esclamò Sarah «è che vogliono separarci! Il signor
Livingstone la riporterà a Londra alla fine del mese.»
«Londra?» Gli occhi di Elsie si aprirono di scatto. In quel momento Londra
le pareva lontana come il paradiso.
«Per la convalescenza. Dice che le farà bene cambiare ambiente.»
«E tu?»
Sarah si sforzò di trattenere le lacrime. «I medici dicono che sono nervosa.
Pensano che il viaggio mi ecciterebbe troppo ed è meglio che riposi qui.
Senza di lei.»
Elsie sbuffò. «Riposare? In questa casa?»
«Una volta amavo questa casa, credevo che fosse il luogo a cui appartengo.
Fino a quando…» Sarah incrociò lo sguardo di Elsie, implorante. «Non so
cosa fare, signora Bainbridge. Lei sarà a Londra e io sarò qui, sola, con…
chiunque sia. Chiunque siano. Mi dica cosa devo fare.»
«Bruciala. Brucia Hetta.»
Sarah esitò. «Come lei ha bruciato gli altri?»
«Sì.»
«Li ha davvero bruciati, dopo che ho portato dentro Hetta?»
«Ma certo.»
Sarah si portò le mani ai capelli, e sovrappensiero cominciò a sfilarsi le
forcine. «Ne è sicura?»
«Ma certo che ne sono sicura! Peters e le cameriere mi hanno visto
benissimo.»
«Santo Dio.»
«Cosa? Sarah, cosa c’è?»
«Sono tornati, signora Bainbridge.» Le si spezzò la voce. «Gli Amici sono
tornati, in tutta la casa.»
The Bridge, 1635

Credo non sia mai esistita una vergogna come la nostra. Quasi non riesco a
respirare per lo scoramento che mi ha attanagliato lo spirito, per il senso di
colpa di cui non riesco a liberarmi.
Quella mattina continua a girarmi in mente, all’infinito. Ricordo il silenzio
sconvolto che ci circondava; i cortigiani non più allegri, ma seri, severi come
giudici. Sento l’umiliazione risuonarmi stridula nella testa mentre la regina
singhiozzava. Adorava quel cavallo. Naturalmente le abbiamo dato la mia
giumenta, ma era del tutto insufficiente a paragone con la creatura di sangue
puro che aveva appena perduto. Sembrava un cavallo da poveri. Se ne sono
andati con una doppia scorta, lasciandoci soli a The Bridge. Soli, con l’eco
sarcastica del nostro fallimento.
La mia disgrazia è duplice. Non soltanto ho deluso il mio re, ma anche il
mio signore e marito, la speranza più cara al mio cuore. Lui non sapeva del
mio tradimento, o almeno, non della sua natura. Poco dopo che se ne sono
andati è venuto da me e mi ha afferrato le mani. Quando mi ha fissato negli
occhi ho visto che era teso e tremante, come se i muscoli stessi vibrassero di
paura.
«Anne, devi dirmi la verità.» Io non riuscivo a parlare. «So che non ne
parliamo mai, ma adesso dobbiamo farlo. È arrivato il momento.»
La mia mente colpevole è subito volata a Merripen. «Josiah…»
«So che tu hai sempre visto delle cose. Che le hai sentite, prima che si
verificassero. Quelle tisane che mi hai dato… io ho creduto fossero un dono
di Dio. Ma… ora dimmi la verità.»
«Cosa dovrei dirti?»
Aveva difficoltà a far passare le parole dalla gola. «Hai avuto una figlia.
Tutti dicevano che per te sarebbe stato impossibile mettere al mondo un altro
bambino, ma tu hai avuto una femmina. A corte ho fatto carriera più
rapidamente di chiunque altro nella mia posizione. Sono state quelle erbe?
O…?»
Sono arrossita, consapevole del mio delitto, di avere avvicinato un po’
troppo la gonna alla fiamma del peccato. «Come puoi chiedermi una cosa del
genere?»
«Sono certo che tu non avresti mai compiuto quel gesto orribile e malvagio
nelle stalle» si è affrettato ad aggiungere. «Ma pensi di avere potuto
accidentalmente…» Ha guardato i miei diamanti, che mentre deglutivo hanno
mandato un bagliore. «Non lo so. È possibile che una forza oscura ti abbia
preso di mira?»
«Josiah!» ho gridato.
«Rispondimi, Anne. Perché ho guardato quell’animale e non riesco a
credere che si tratti del lavoro di mani umane.»
Così gliel’ho detto. Gli ho raccontato l’atroce, terribile verità: che era stata
la stupidità di sua moglie, e non la sua astuzia, a evocare quel demonio.
Da quel momento non mi ha più rivolto la parola.
Non riesco a trovare la forza di piangere. Non ce l’ho con lui per il suo
odio. Niente può bruciare più forte del disprezzo che provo per me stessa. Mi
sono strappata di dosso i miei diamanti scintillanti, vergognandomi di quanto
aveva speso il mio povero Josiah, di quanto aveva investito in me.
Ora è confinato qui in provincia e non può farsi vedere a corte. I suoi
conoscenti non rispondono più alle sue lettere. Non ha nulla da fare a parte
aggirarsi per casa come un orso in gabbia, sparare alla nostra selvaggina e
attaccare briga con gli abitanti del villaggio mentre ci prepariamo al raccolto.
Non vogliono lavorare le nostre terre, dopo quel che è successo. Hanno paura
che gli zingari ci abbiano maledetto.
Spero in Dio che la servitù non li imiti. Per ora sembrano intenzionati a
restare e a crogiolarsi nei pettegolezzi, ma a conti fatti possiamo fidarci
soltanto della presenza di Lizzy. Non che lei ne sia felice: con ogni sguardo
mi rimprovera di averle tenuto nascosta la presenza di Merripen. Cara Lizzy,
non ha mai accettato che io sia cresciuta, che sia una signora. Non si rende
conto di quanti altri segreti sa custodire il mio cuore traditore.
In casa cala un silenzio di tomba. Niente ospiti, niente operai, nemmeno i
miei figli a rallegrare questo mortorio. Anni fa li abbiamo sistemati presso
alcune casate nobili perché potessero imparare a governare una grande
proprietà. Ora sono tornati in quei luoghi ma immagino che i parenti di Josiah
non siano disposti a ospitarli molto più a lungo. Stringere alleanza con la
nostra famiglia rappresenta un rischio.
Perfino Hetta non è più una consolazione com’era un tempo. Oggi che ero
seduta nel salone, mi si è spezzato il cuore nel vederla saltellare intorno a
quelle sagome di legno, come se il futuro della nostra casa e della nostra
famiglia non fossero andati in fumo intorno a lei.
Ho trascorso quasi nove anni della mia vita ad anelare soltanto al suo
sorriso, ma oggi non riesco a sopportarlo.
L’ho guardata giocare per ore con le tavole dipinte e ho dato sfogo al
libero scorrere dei pensieri. Ho pensato che in questo momento potrei essere
felice, se non fosse stato per lei e il suo amichetto zingaro. Ora sarei pronta a
entrare al servizio della regina, ma Hetta è proprio la ragione, l’unica, per cui
adesso a The Bridge non sorride nessuno.
«Come puoi?» sono esplosa. «Come osi sorridere e camminare così
spavalda? Lo sai cos’è successo.»
Lei ha fissato uno degli Amici inclinando la testa, come se avesse parlato.
Poi ha continuato a giocare.
La mia rabbia è cresciuta. Che Dio mi perdoni, so di avere sbagliato, so
che è solo una bambina. Ma non sono riuscita a fermarmi. «Ascoltami! Non
capisci cosa significa questo per noi?»
Dovrebbe. Ma sembra non comprendere fino in fondo. Forse non ne è in
grado.
«Merripen!» ho gridato, giunta al limite della sopportazione. «È stato il tuo
amico Merripen a farci questo!»
Il sorriso è scomparso dal suo viso, rapido come un sipario calato.
«Ha ucciso il cavallo della regina» ho detto, «perché abbiamo scacciato la
sua gente dal campo. Ha reso tuo padre estremamente infelice.»
Lei ha guardato l’Amico più vicino e poi me.
«Sei stata tu a farmi assumere quel selvaggio e adesso ci ha rovinati,
rovinati per sempre!»
Non sono riuscita a leggere la sua espressione. Ha aperto la bocca e, per un
momento folle, ho pensato che avrebbe detto qualcosa. Poi è scappata via.
Ho sentito i suoi piedini correre sulle scale veloci come la pioggia, veloci
come le mie lacrime. Mi sono abbandonata sulla mia poltrona, sentendomi
una canaglia.
Hetta era l’unica persona rimasta a non odiarmi. E adesso l’ho respinta.
Da qualche parte, in lontananza, esplode un tuono. Non so quanto sono
rimasta lì a rammaricarmi del mio destino, a implorare di trovare la forza di
proseguire. Ma il temporale dev’essersi avvicinato, perché la luce è
scomparsa e la sala è piombata in un’oscurità livida, grigio-giallastra. Gocce
di pioggia colpiscono la finestra. Un Amico, la donna con la scopa, mi
guarda.
Il suo sguardo diventa umiliante, degradante; è come se conoscesse ogni
segreto della mia anima.
Ho ordinato che vengano restituite subito al signor Samuels, domattina.
Che siano restituiti tutti gli oggetti di lusso. Non sopporto di avere ancora in
casa il suo tesoro. Li detesto tutti, uno per uno.

Oggi è accaduta una cosa molto strana. Il mio carro è tornato con gran
fracasso da Torbury St Jude con i servi, ma le merci erano ancora a bordo.
«Cos’è successo?» ho sbraitato. «Vi avevo detto di lasciarle al signor
Samuels.»
«Lo so» ha risposto il nostro uomo, Mark, «e mi dispiace molto, padrona,
ma non c’era.»
Ho guardato Jane. «Ma cosa vuol dire? Il signor Samuels si è rifiutato di
accettare la consegna?»
«No» ha mormorato lei, tremante. «No, non è questo.» Ha assunto
un’espressione accigliata, confusa. «Il negozio… non c’era più.»
Com’era possibile? Un negozio che a giugno era così pieno e fornito!
«Come? Il locale è vuoto?»
«No, padrona.» Ora la sua voce era più acuta, e prossima alle lacrime.
«Non c’era più. Il negozio. Siamo passati là davanti almeno dieci volte ma ve
lo giuro… sembra quasi che non sia mai esistito.»
Sono riuscita soltanto a guardarla a bocca spalancata. Che ragazza stupida!
Non avevo mai sentito niente del genere. In quel negozio c’eravamo entrate
insieme. I negozi non spariscono così all’improvviso!
Forse sta male; in lei c’è sicuramente qualcosa che non va, perché è da
quando è tornata che non smette di rabbrividire.
Devo andare in città a sistemare la questione personalmente, e presto. Fino
ad allora sono costretta a tenermi i nostri mostruosi Amici. Copro i loro visi
con dei teli ma so che sono lì, e che guardano. Come se sapessero cos’è
accaduto. Come se questo li divertisse.
The Bridge, 1866

«I miei diamanti. Dove sono i miei diamanti?» Elsie frugava nel suo
portagioie, sparpagliando monili e perle su tutto il tavolo da toletta.
«Elsie.» Jolyon aveva l’aria stanca e si appoggiò alla colonna del
baldacchino. «Lascia perdere. Devi riposare.»
«Ma non riesco a trovare i miei diamanti.»
«Salteranno fuori.»
«Rupert voleva che li avessi io.» Si mise a cercare con più energia. Aveva
perduto Rupert. Aveva perduto il bambino. Non voleva perdere anche i
diamanti.
«Elsie.»
«Non sto avendo una crisi isterica, Jo. L’ha sentito anche Rupert. Mi ha
scritto una lettera ma io non…» Passò in rassegna gli oggetti sparsi sulla
toletta. Durante la sua malattia nessuno l’aveva pulita. La superficie era
velata di grossolana polvere beige. «Non riesco a trovarli.»
«Adesso ti devi calmare. Non sei tu quella che sta parlando. Sei stata molto
malata.»
Malata. Una parola così inadeguata da essere ridicola. «Non si tratta di una
malattia nervosa. Avevo del legno dentro! E Sarah ha visto gli Amici»
sussurrò. «Li ha visti anche lei.»
«Non è da te, Elsie. Non sei nevrotica.»
«E allora perché non mi fai la cortesia di credermi?» Improvvisamente
scoppiò a piangere.
Jolyon le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla, portando con sé quel
familiare profumo di foglie d’alloro e lime. Le sue dita, sulla clavicola di lei,
tremavano. Ma certo, non era abituato a vederla piangere. Per tutti quegli
anni gli aveva nascosto il suo dolore, aveva cercato di essere forte, di tenere
duro. Ma adesso dentro di lei si era aperta una porta e non riusciva più a
chiuderla.
«Quello che mi stai chiedendo di accettare, cara… è impossibile. Lo
capisci, vero?»
Per lui andava tutto benissimo. Il completo stirato, la cravatta e le scarpe
lucide proclamavano il suo ruolo in un mondo di ordine e sensatezza, cifre e
affari. Non sapeva cosa voleva dire fermentare lì in preda a un terrore
maligno e senza nome.
«Non sto dicendo che è colpa tua» proseguì Jolyon. «Non credo che tu te
lo sia inventato. Povero, caro tesoro, sei stata crudelmente raggirata.»
Lei lo fissò. «Cosa intendi con “raggirata”?»
«Prova a rifletterci. Una persona è in grado di macellare una vacca e
consegnarla alla tua porta senza lasciare testimoni? Qualcuno deve aver visto
qualcosa. Peters non si è accorto che Beatrice non c’era più? E i giardinieri?
E dov’erano le cameriere, per tutto quel tempo? Perché non sono andate loro
ad aprire?»
«Non penserai…»
Si stava formando un’immagine, che raccoglieva tutti i ricordi come un
cataplasma risucchia tutto il malanno. Le cameriere.
Lui le tolse la mano dalla spalla e se la passò tra i capelli. «A essere
sincero, credo che le cameriere volessero farti uno scherzo. Forse non
avevano intenzione di arrivare a tanto.»
«No… non è possibile.»
«Ti sei disfatta di tutta la servitù alla fabbrica, dopo la morte della
mamma» disse lui, con dolcezza. «Non sei abituata a trattare con quella
gente. Per le cameriere sarebbe stato abbastanza semplice spostare oggetti e
tenere nascoste delle sagome di legno di riserva. Scrivere nella polvere. Prova
a pensarci. Avrebbero potuto organizzare ogni mossa.»
Era troppo orribile per crederci. «Ma… perché?»
Lui si strinse nelle spalle. «Ce l’hanno con te. La tua presenza in casa. Una
volta per loro lavorare era facile e approssimativo. Adesso, con una padrona,
e la prospettiva di un neonato… Senza dubbio all’inizio devono averlo
trovato divertente, ma poi hanno superato il limite.»
Due donne potevano davvero esprimere tanto disprezzo? Massacrare una
vacca e lacerare un vestito solo per vendicarsi di lei? Elsie faticava a crederci.
Eppure…
Mabel era tornata a casa in carrozza dopo la messa, quella domenica prima
di Natale, no? Avrebbe avuto tutto il tempo di tirare fuori Hetta e di
fabbricare quell’impronta sul vetro. Era stata Mabel a precipitarsi da lei per
dirle che gli occhi di Hetta si erano mossi. Era stata Mabel a mettersi a urlare
che c’era un Amico nella tinozza. Poteva avercelo messo lei stessa.
«No, questo non spiega nulla. Io ho visto delle cose, Jolyon. Ho visto due
occhi muoversi e ho sentito quella nella tinozza spazzolarsi i capelli!»
«Davvero?» domandò lui, piano. «O qualcuno ti ha messo quell’idea nella
testa? Sei stata malata e hai subìto un lutto, eri molto vulnerabile. Forse le
cameriere ti hanno dato l’imbeccata. Sapevano che la tua immaginazione
terrorizzata avrebbe fatto il resto.»
Sentì una contrazione al petto mentre ripensava a Mabel che, in piedi
accanto all’armadio, aveva un’aria colpevole mentre Elsie e Sarah
piangevano per il bambino.
Guardò Jolyon, il suo caro viso sfocato attraverso le lacrime che le
riempivano gli occhi. «Ma… io Mabel l’ho promossa.»
«E lei ti ha tradito, povero tesoro. Ci scommetterei che si è presa anche i
tuoi diamanti. Ha la chiave del portagioie, no?»
Che ragazzo, così intelligente. Non gli sfuggiva niente. Era diventato più
forte di lei, più astuto. E invece lei era ridotta a una zucca vuota, convinta di
avere aiutato delle persone bisognose. Piuttosto, le aveva soltanto aiutate a
derubarla.
Si coprì gli occhi con le mani. «Oh, Jo, sono stata così stupida. Mi
perdonerai mai?»
Lui la circondò con le braccia e l’attirò a sé. Lei gli posò la testa sul petto.
Com’era diventato alto. «Perdonarti? Che sciocca! Cosa dovrei perdonarti,
poi?»
Gli affondò il viso nel panciotto e non rispose.
Le sue casse erano piene e ben chiuse, pronte a essere caricate sul carro. La
servitù compunta era radunata intorno a loro, nel salone. Elsie proseguì e
ringraziò Dio che se ne stava andando: lasciava quel luogo orribile e tutte le
cose spaventose che vi erano accadute. Lasciava gli Amici.
Erano rivolti verso il muro, come bambini messi in castigo perché non
avevano imparato la lezione. Era stata Mabel a sistemarli così? Elsie non
riuscì a guardare la cameriera, a pensare a lei. Le bastava trovarsi nella stessa
stanza di Mabel per provare nausea.
Tremante, si avvicinò allo specchio e si sistemò cuffia e velo sopra
l’acconciatura da vedova. Il viso sotto la tesa era deformato, rigido per il
terrore. Si sentiva malissimo. Il suo corpo era in uno stato di cambiamento. I
seni doloranti premevano contro il corsetto, confusi perché non sapevano se
sbocciare o sgonfiarsi. E intanto il suo bambino giaceva avvolto in un sudario
in una chiesa abbandonata, con un nome che non era il suo.
Era stata colpa di Mabel. Colpa di Helen. E un po’ di colpa doveva
avercela anche la signora Holt, per non essere stata in grado di controllarle. O
forse anche lei ora stava ridendo di Elsie.
Le schegge. Quel pensiero infernale le girava per la testa come una trottola.
Non andava d’accordo con il resto. Spaventarla e farla trasalire, era una cosa.
Ma avere a che fare con un bambino non ancora nato… Sapeva che le
cameriere non avrebbero mai osato.
In nome di Dio, ma allora cosa le era successo?
I passi di Jolyon risuonarono sul selciato. Lei non si girò, ma lo sentì
infilarsi i guanti. «Ha trovato i diamanti di mia sorella, signora Holt?»
«No, signore, temo proprio di no. Sono sicura che spunteranno fuori.»
«Non credo.» Lui fece un profondo respiro. «Li ha presi Mabel.»
Mabel trasalì. «Non è vero!»
Elsie si voltò di scatto, la rabbia sgorgò da lei come una fiammata. «Oh, e
invece sì. Ti ho già visto con la collana addosso, ricordi?»
«Gliela stavo scaldando.»
«Senza il mio permesso.»
«Dimmi, Mabel» esclamò Jolyon. Era calmo, controllato. «Chi altro ha
accesso al portagioie di mia sorella? A parte te?»
Gli occhi di Mabel si spostarono sulla porta. «La signorina Sarah?»
Sarah spalancò la bocca ma Elsie non la lasciò parlare. «Della signorina
Sarah mi fido.»
«Sono certa che è tutto un equivoco» disse in tono vellutato la signora
Holt. «Sono certa…»
Jolyon alzò una mano e la interruppe. «Io sono certo che le sue cameriere
abbiano ingannato la loro padrona. Tutte quelle sciocchezze sugli Amici!
Mabel ha accesso alla cucina, no? E ai coltelli più grandi?»
La signora Holt sbatté le palpebre. «Signore, non starà insinuando che la
vacca…»
«Lei ha perso la bussola.» Mabel sollevò il mento ma era tutta scena. Elsie
si accorse che le tremavano le labbra e che aveva gli occhi spalancati per lo
spavento. «Se pensa che mi sia intascata i diamanti e abbia ammazzato quella
vacca, allora è tocco nel cervello, signore.»
Jolyon le lanciò una lunga occhiata severa. «Davvero? Vedremo.» Si mise
il cappello, che lo faceva sembrare più alto, più imponente. «Io e la signora
Bainbridge torneremo a Pasqua. Se per allora i diamanti non saranno saltati
fuori, riferirò i miei sospetti alla polizia.»
«Ma io non so dove sono!»
«La prego, signore.» La signora Holt si torceva le mani. «Mabel ha
lavorato qui per più di due anni. Non posso credere che sia una ladra.»
Jolyon ammorbidì il tono. «Cara signora Holt, lei è troppo credulona e non
si è accorta di quello che succedeva sotto il suo stesso naso. Credo che io e lei
dobbiamo sederci a discutere di assumere… della servitù più adatta.»
«Ma…»
«Non si preoccupi. Il suo posto di lavoro è salvo.»
«Santo cielo. Sa-santo cielo.» Alla signora Holt si serrò la gola.
Stupida vecchia balbuziente, pensò Elsie. Se si fosse occupata come si
doveva delle sue cameriere, se avesse riflettuto su che razza di serva aveva
assunto, avrebbero potuto evitare quelle situazioni spiacevoli. E il bambino di
Elsie sarebbe potuto essere ancora vivo.
Jolyon prese una valigia con aria distaccata e imperturbabile. «Si
tranquillizzi, signora Holt. Parleremo di nuovo quando rientrerò da Londra.
Nel frattempo, sarà la signorina Bainbridge a darle gli ordini.» Passò la
valigia a Peters e uscì insieme a lui per ispezionare come le casse venivano
caricate sul carro.
Sarah fece un passo avanti. Non riusciva quasi a guardare Elsie in faccia.
«Signora Bainbridge… Che disastro. Io…»
«Zitta. Non potevi saperlo. Ci siamo lasciate trasportare entrambe dalla
paura e dal dolore. Nessuna delle due ha sospettato delle cameriere.»
Sarah si morse le labbra. «Lei… lei crede davvero che siano state loro a
fare tutto? Tutto quanto?»
Elsie deglutì. «Jolyon ne è convinto e io mi fido di lui.»
«Ma nel diario…»
«Basta. Non sopporto di parlarne ancora. Torna ai tuoi diari e ai tuoi studi
della casa di famiglia. Ti accorgerai a malapena che io non ci sono più.»
Per un attimo Sarah tremò. Poi si protese e baciò Elsie sulla guancia.
«Faccia buon viaggio. Mi dispiace così tanto, signora Bainbridge.»
«Be’, suppongo che ora tu possa chiamarmi Elsie.»
Soltanto quando si fu seduta al suo posto e con la mano ebbe fatto un
cenno di saluto a Sarah, se ne accorse: c’era un’altra faccia che osservava la
loro partenza. Alla finestra del secondo piano, quella della sua camera da
letto, c’era un Amico.
Lo conosceva. Era Anne Bainbridge. Inconfondibile: gli stessi nastri color
corallo del ritratto tra i capelli; le stesse guance paffute. L’abito giallo si
gonfiava e si increspava all’altezza delle braccia, incrociate sul petto. E lì,
dipinta sul collo, c’era una collana. Un arco scintillante che reggeva tre
diamanti a goccia.
I diamanti di Elsie.
The Bridge, 1635

Il compleanno di Hetta. Secondo le mie consuetudini, sono andata alla chiesa


di Tutti i Santi per ringraziare Dio della figlia che tutti mi avevano detto non
sarebbe mai giunta.
Ho scritto che volevo ringraziare. Ma dentro di me mi interrogo. Sto
lodando Dio o facendo una penitenza? Perché ogni volta che metto piede in
chiesa nel mio cuore si agita un violento senso di colpa. Quando prego nella
mia testa ci sono due voci, che farfugliano l’una sopra l’altra. Una grida
grazie; l’altra perdonami.
Oggi, mentre sgattaiolavo nella chiesa deserta e mi sedevo a un banco, ho
avvertito, più potente che mai, il fardello della disapprovazione divina pesare
su di me. Una forza piena d’amore ma triste, intollerabilmente gravosa.
I santi mi guardavano dalle antiche vetrate retaggio del regno della regina
Maria. Sembrava che scrollassero la testa. Ho intrecciato più forte le mani.
Mentre chiudevo le palpebre, le parole mi hanno investita come un torrente:
Come osi?
Ho spalancato gli occhi. A un tratto mi sono sentita molto piccola. Ma
anche mentre cadevo in ginocchio la voce è tornata. Come osi? Lo sguardo è
andato all’altare, alla croce sospesa sopra. Chi credi di essere, per creare una
vita dove io l’ho rifiutata?
Allora ho capito che era una risposta alle mie preghiere, alle notti trascorse
in ginocchio a chiedere perché alla mia famiglia dovesse toccare una simile
umiliazione: era tutta colpa mia.
E adesso me ne rendo conto. Dio ha un progetto per ciascuna delle sue
creature. Quello che aveva per Josiah era brillante, proprio al centro della
corte. Ma quel progetto non teneva conto di un fattore: Hetta.
Hetta è diventata amica di quello zingarello e io, di nuovo debole, ho
ceduto alle sue richieste. Il mio peccato è così grande da avere cambiato la
direzione della mia vita.
Quell’idea mi ha ossessionato fino a casa. Mentre camminavo tra le foglie
che cadevano, mentre nell’aria annusavo l’odore di muschio di fine ottobre,
ho continuato a domandarmi perché l’avevo fatto. Avevo avuto tre maschi!
Tre! Mia madre avrebbe dato il braccio destro solo per averne uno. Ma io
avevo voluto una femmina. Un’altra Mary che mi facesse compagnia, che mi
camminasse accanto, uno specchio della mia infanzia spuntato così, ai miei
piedi. E per quanto questo sia sbagliato, la desidero ancora.
Quando sono tornata a The Bridge, sono andata subito nella nursery. Sotto
il rampicante, Lizzy sedeva sulla sedia a dondolo a rammendare una delle
calze smagliate di Hetta.
Mia figlia indossava l’abito di seta verde oliva che avevo fatto fare su
misura per la visita dei reali. Le sta molto bene, esalta la sfumatura ramata dei
capelli. Si è lasciata baciare, ma non sono riuscita a trattenerla più di un
istante. Quando le mie labbra hanno sfiorato la sua guancia è sfrecciata via, è
corsa tra i suoi Amici.
Questo mi ha ferito. Ho messo in pericolo la mia anima, ho pagato il
prezzo del mio futuro, e quel che ricevo in cambio è solo un misero bacio.
Mi sono abbandonata sulla sedia accanto a Lizzy. «Spero che non sia
considerato strano che Hetta trascorra così tanto tempo con quelle tavole
dipinte. Non è mai stata una bambina normale e ora…»
«No, no.» Lizzy ha spezzato il filo. «Non ve ne preoccupate. È naturale
che si appassioni alle cose, non avendo amici della sua età. Non deve
parlarci, con quelle tavole.»
Hetta non è come me. Naturalmente non è colpa sua, ma ogni differenza
che noto è una minuscola macchia sul sogno che nutrivo di mia figlia. La
confidente che avrebbe dovuto custodire tutti i miei segreti non riesce a
confessarmi nemmeno uno dei suoi. Non è a suo agio con me. Non sono per
lei quello che sono per i ragazzi.
Forse è parte della mia punizione. Una sfida alla mia arroganza. Con erbe e
parole antiche ho potuto crearmi una figlia, ma non posso costringerla ad
amarmi.
«Ricordate» ha continuato Lizzy rivoltando la calza, «quando avevate l’età
di Hetta voi potevate farne di tutti i colori con la povera Mary. Che riposi
nella pace del Signore.»
«E dopo ho sempre potuto parlare con te, cara Lizzy.»
Lei mi ha sorriso, le vecchie gengive punteggiate di nero. «Però c’era chi
non lo trovava appropriato, vero? A causa della mia posizione. Quindi vedete
che non c’è nulla di male se Hetta gioca a nascondino con delle persone di
legno.» Ha ricominciato a cucire. «Quello che mi sembra strano è che il
signor Samuels sia scomparso così all’improvviso. Non avete trovato sue
tracce in città?»
Ho scosso la testa. Mary e Jane avevano ragione: il negozio semplicemente
non c’è più. Non riesco a capire come sia potuto succedere, ma è successo.
Anche quell’uomo e la sua bottega sono scappati lontano da noi. E io sono
rimasta con il mio tesoro maledetto.
Lizzy ha sospirato. «Che mistero. Quando ho visto il padrone cavalcare via
tanto in fretta ho pensato che forse c’erano notizie di Samuels.»
Mi sono voltata di scatto verso di lei. «Josiah se n’è andato?»
«Certo. Non lo sapevate?»
«Ero in chiesa.»
«Oh.» Senza guardarmi, ha infilato l’ago. «L’ho visto partire circa un’ora
fa.»
Sono stata travolta da un presentimento, preciso e acuto come il vento che
frusta le colline. «A gran velocità?»
«Certo.» Lei ha stretto le labbra. «Come se avesse alle calcagna i segugi
dell’inferno.»

Ho atteso nel salone. La giornata è trascorsa in fretta. La pancia indaco delle


nuvole si è tinta di rosa mentre il sole scivolava via. I merli hanno cinguettato
finché non si è oscurata la luce e poi sono state le civette a iniziare il loro
canto.
Finalmente ho sentito lo scricchiolio sulla ghiaia. Ho udito alcune voci nel
cortile delle stalle e dei passi. Qualche istante dopo Josiah è entrato a grandi
falcate dalla porta, schizzato di fango.
Mi sono precipitata da lui. «Josiah, cosa c’è? Cos’è accaduto?»
Lui sembrava circospetto. Mi ha staccato le mani dal suo mantello e le ha
allontanate da sé. «Il ragazzo è stato rintracciato.»
«Merripen?»
«Sì. È stato il nostro uomo, il nostro Mark, a trovarlo.»
«Che Dio sia lodato.»
«Finalmente ho qualcosa da comunicare al re.»
Che magnifico sollievo immaginare quello spirito malefico catturato e
imprigionato! Non avrei mai creduto che il diavolo si immischiasse con un
fanciullo così giovane. Ho ripensato agli occhi di Merripen, scuri e
fiammeggianti come un braciere di catrame ardente, e mi è mancato il fiato.
Scioccamente ho pensato che sarebbe finita lì; che io e Josiah potessimo
continuare la nostra solita vita. Ma lui mi ha lasciato andare le mani e si è
tolto il mantello con un gesto, si è girato e ha detto: «Il ragazzo sarà detenuto
a Torbury St Jude stasera, e processato domani. Io sarò presente».
«Domani è Ognissanti.»
«Allora il giorno dopo» ha risposto in tono irritato.
Sapevo che avrei dovuto lasciar perdere, congratularmi e scomparire. Ma
un tormento orribile nell’anima mi ha spinto a domandare: «Che ne sarà di
lui?».
Josiah mi ha fissato. La sua barba a punta faceva sì che la bocca assumesse
un’espressione canzonatoria, quasi crudele. «Questo dipenderà dal verdetto.»
Colpevole. Doveva essere colpevole. Josiah non avrebbe permesso che
decidessero altrimenti. È in gioco la sua reputazione. Se non riuscirà a
catturare e punire il malvivente che ha offeso la regina nella propria casa, la
sua vergogna non conoscerà fine.
Mi si è stretta la gola, al punto da soffocarmi. Mi è tornato in mente
l’uomo a cui avevano tagliato l’orecchio. «Una morte da traditore, dunque?
Davvero applicheranno una sentenza del genere a un ragazzo?»
La sua risata mi ha fatto trasalire. Non conteneva alcuna allegria. «Un
ragazzo! Un ragazzo può davvero fare una cosa del genere a un animale? Oh,
no, mia signora. Ricordati le mie parole, è posseduto da un demonio.»
«Dev’essere così. A un’età così giovane!» È poco più grande della mia
Hetta. L’ho immaginato, piccolino sotto il patibolo. Mi sono figurata le
volute della corda intorno a quel collo da bambino, come sarebbe stato liscio
e piatto il suo giovane ventre sotto la lama. Un bambino impiccato, trascinato
dai cavalli e squartato. «Ti aspetti che il re gli dimostri misericordia?»
«Misericordia?» Ha sputato quella parola come in un conato di vomito.
«Tu avresti misericordia di quel demonio?»
Ho balbettato. «No… non lo so. Delle azioni così malvagie non possono
passare sotto silenzio, eppure… Dentro di te qualcosa non vacilla al solo
pensiero? Non credi che l’esecuzione di un bambino peserà come un macigno
sulla tua anima?»
«Per niente.» Gli brillavano gli occhi. Non mi è piaciuta la vena d’acciaio
nella sua voce. «Io non ne sono responsabile. L’unica responsabile sei tu.»
È stato come se mi avesse colpito in pieno viso.
«Sei stata tu a farlo entrare nelle stalle, sei stata tu a mettergli in mano quel
cavallo. Questo non sarebbe mai accaduto, se non fosse stato per te.» Il suo
sguardo mi ha inchiodato sul posto. «Se c’è qualcuno che ha le mani
macchiate del sangue di quel ragazzo quella sei tu, Anne, e soltanto tu.»
Londra, 1866

La consistenza dell’aria cambiò in maniera radicale. Mentre la carrozza


caracollava per le strade familiari, il fumo calava formando una nebbia color
tabacco. Le finestre erano punteggiate di macchie di fuliggine. Elsie sentì
sulla lingua il sapore pungente dello zolfo prima ancora che le invadesse le
narici.
Presto si materializzò la fabbrica: una ciminiera altissima che buttava fumo
e alle sue spalle file di timpani inclinati, come le pinne dorsali di uno squalo.
Il cortile era racchiuso da una cancellata di ferro. Dalle sbarre Elsie notò un
carro che consegnava legno tenero per i fiammiferi. Un ragazzo, uno dei loro
venditori, uscì dall’edificio e passò davanti ai cavalli tenendo appoggiato a un
fianco un vassoio. La mercanzia sembrava molto più grande del ragazzo.
Un uomo aprì il cancello ed entrarono nel complesso della fabbrica. Elsie
sentì il metallo rintoccarle dietro e chiuderla dentro. Dopo The Bridge, le
pareva di essere in un altro mondo. Sconosciuto. Guardava con occhi da
straniera un posto che un tempo era stato casa sua. Dalle vetrate velate di
vapore della fabbrica riusciva a scorgere la macchina tagliatrice che,
spostandosi avanti e indietro, luccicava come un falcetto; le scintille
provenienti dai fiammiferi stizzosi che non collaboravano. Le lame di luce le
facevano male agli occhi. Dovette voltare la testa.
«Bene» disse Jolyon quando si fermarono nel cortile. «Adesso ti porto su
nella foresteria a riposare. Dopo il viaggio sarai esausta.»
«E le ragazze di Fayford? Quando arriverà il carro bisognerà sistemarle e
mostrare loro cosa devono fare.»
«Se ne occuperà la signorina Baxter. Chi pensi che non abbia fatto altro
che correre dietro alle apprendiste, da quando ti sei sposata?»
La seccava, il pensiero di essere stata soppiantata. Quel posto era suo.
Poteva sposarsi e trasferirsi altrove, ma non avrebbe mai ceduto la fabbrica:
là dentro sarebbe sempre stata la padrona. Quel ruolo se l’era meritato
eccome. «Be’, la signorina Baxter potrà occuparsi di loro oggi, perché io
sono davvero sfinita. Ma quando avrò riposato ricomincerò a dare una
mano.»
Jolyon si morse un labbro.
«Mi farà bene» continuò lei. «Devo stare dove c’è rumore, attività, vita. A
The Bridge mi sento come un animale impagliato sotto una campana di
vetro.»
«Vedremo. Ma prima una tazza di tè e un sonnellino.»
A questo punto non poteva più discutere.
Saldamente aggrappata al braccio di Jolyon, scese dalla carrozza e svoltò a
sinistra, oltrepassò le sale solfatura e i capanni per l’asciugatura e si diresse
verso una casetta di mattoni grigi che dominava il lato ovest del cortile.
Donne trasandate e impolverate con scialli dalle frange strappate le rivolsero
un cenno di saluto. Dalle loro spalle si levava un vapore bianco e sottile, dal
pestilenziale odore d’aglio.
«Le finestre avrebbero bisogno di una bella lavata» disse a Jolyon, mentre
osservava la casa. «Guarda cosa succede quando ti lascio solo. Mi terrorizza
il solo pensiero di quale razza di tana da scapolo troverò là dentro.»
Lui sorrise. «È sempre la stessa. La stessa che è sempre stata.»
La porta d’ingresso, aperta dalla governante, scricchiolò. La signora Figgis
aveva un corpo polposo e un viso paffuto: sotto i larghi pori della pelle non
c’era traccia di zigomi. Il suo seno ingombrante la precedeva sempre. Elsie si
domandò come facesse ad allacciarsi il grembiule. Entrò nella sua vecchia
casa cercando di non guardarla.
La signora Figgis era nuova, era stata assunta dopo il matrimonio di Elsie
per occuparsi dei compiti femminili che fino a quel momento aveva svolto
lei. A Elsie fece piacere constatare come fosse gentile e materna: fece loro
strada nel salottino, dove sotto le braci già covava il fuoco, e poi si precipitò
fuori a prendere il vassoio del tè.
Era una scena stranamente speculare all’arrivo di Elsie a The Bridge.
Trovò la mensola del caminetto pulita. E anche i davanzali. Non era un
risultato da poco per una domestica che lavorava dentro la nuvola gialla della
fabbrica. Quella polvere sottile (che non era esattamente pulviscolo né
sabbia) entrava ovunque, anche sotto le unghie e nelle narici.
«Devo rimangiarmi tutto» disse sfilandosi la cuffia e sedendosi di fronte al
fuoco. «Vedo che si prende cura di te molto bene.»
«È vero. La signora Figgis è preziosa. Naturalmente non mi impedisce di
sentire la tua mancanza» si affrettò ad aggiungere, appoggiando il cappello su
un attaccapanni e facendosi dare da Elsie il suo.
«Adulatore. Non credo a una sola parola.»
Si adagiò contro lo schienale e si guardò intorno. Jolyon aveva ragione: era
sempre lo stesso salottino. La carta da parati scolorita con un motivo di
bouquet di rose, alcuni soprammobili ben scelti sugli scaffali e centrini
all’uncinetto fissati ai poggiatesta delle poltrone. Il consueto odore chimico
della fabbrica, accentuato dalla sua lunga assenza. La stanza era identica a
prima. Solo Elsie era cambiata.
Non riuscì a fare a meno di notare come dopo The Bridge tutto le apparisse
piccolo: le sedie troppo vicine, il fuoco fiacco e insufficiente. Come se fosse
cresciuta troppo per poter essere contenuta da un posto del genere.
La signora Figgis portò il tè, pane e burro e poi con molto tatto li lasciò
soli. Elsie si avvicinò la tazza alle labbra. Il bordo era scheggiato.
«Voglio che tu beva una goccia di laudano e dorma per il resto della
giornata» disse Jolyon. Poi prese una fetta di pane. «Domani assumerò
informazioni su come sei stata curata.»
Lei rischiò di lasciar cadere la tazza. «A The Bridge mi ha visto un medico.
Ha detto che stavo abbastanza bene da mettermi in viaggio.»
«Però non ti sei ripresa completamente, vero?»
«Ammetto che sono ancora debole, Jo, ma mi bastano solo un po’ di riposo
e un bicchiere di vino al giorno.»
«Hai avuto uno shock nervoso. Non bisogna trascurare questi episodi.
Oggigiorno i medici hanno moltissime terapie in grado di farti stare meglio:
suffumigi, bagni freddi.»
Lei bevve il tè, ma le sembrava acido e quando lo mandò giù le fece male.
«Credevo fossimo d’accordo. Non ero… È stato tutto un orribile scherzo.»
«Sì.» Jolyon masticò il suo pane e burro, evitando accuratamente di
guardarla negli occhi. «Non sto dicendo il contrario. Ma è stato comunque un
brutto colpo al tuo sistema nervoso. E insieme al resto… la scomparsa di
Rupert, così improvvisa.»
«Jolyon…»
«E adesso guarda cos’è successo! Hai perso il bambino. Sarebbe innaturale
se questo non ti avesse scosso. Sai, non bisogna vergognarsi di ricevere aiuto.
Solo una piccola spinta per calmarti i nervi e rinfrancarti lo spirito.»
«Lo so.» Posò la tazza sul piattino. «Ma davvero, non ce n’è bisogno. Per
favore, non sprecare denaro. È tutta la vita che ho a che fare con situazioni
del genere.» Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma lei lo precedette. «A me
succede sempre, Jo. Mi fido della gente e loro se ne approfittano. Era ora che
mi rimettessi in sesto e imparassi la lezione.» Si rese conto che stava
tremando e in fretta intrecciò le dita in grembo.
«Almeno» disse lui dolcemente, spostandosi più avanti sulla sedia,
«accetta un po’ di aiuto in questo tuo “rimetterti in sesto”. Elsie, è mio dovere
in quanto tuo fratello badare a te. Sei così coraggiosa che spesso dimentico
che sei un membro del sesso debole. Non hai la costituzione per sopportare
questo genere di cose.»
Elsie tenne per sé la risposta che aveva pronta, perché sapeva che lui ne
sarebbe stato ferito. Aveva ventitré anni e voleva sentirsi un adulto, un uomo
che tiene in pugno la situazione.
«L’hai già svolto, questo tuo dovere.»
«No, non è vero.» Si accigliò, era diventato serio. «Sono preoccupato per
te, Elsie. Dobbiamo fare attenzione. Dopo…» Per un attimo fu incerto, la
voce non gli usciva. «Dopo quello che è successo alla mamma.»
I loro sguardi si incrociarono: le iridi color nocciola di lui si spostavano
rapide da un lato all’altro, le pupille erano ridotte al minimo. Ma Elsie non
riuscì a penetrare più a fondo. Lui non rivelava nulla.
Si rese conto che aveva dimenticato di respirare. «La mamma?» sussurrò.
«Per come se n’è andata, alla fine.»
«Sei troppo giovane per ricordartene.»
«Ti assicuro che me lo ricordo con molta precisione.»
Come avrebbe fatto a nascondere quel tremito inspiegabile alle dita, quella
vibrazione che le arrivava in profondità nelle ossa? «Non lo sapevo. Mi
dispiace, Jo. È stato un periodo terribile. Io avrei voluto risparmiartelo.»
Ci fu un lungo silenzio.
«Mi ricordo» disse Jolyon, cauto «quanto stava male. Vedeva gnomi e
diavoli. E poi, alla fine, che cose orribili. Dal letto mi sussurrava delle accuse
nei tuoi confronti, di ogni genere.»
«Nei miei confronti?»
«Oh, era davvero impazzita. Nonostante la mia giovane età, l’avevo capito
bene. Ma era nostra madre, Elsie, e queste cose possono essere ereditarie.»
Con un brivido, il viso di lei riprese vita. «Aveva il tifo! Una febbre che
avrebbe mandato chiunque al manicomio.»
«La sua confusione si è aggravata con il tifo, ma non è stata quella la
causa. Me l’hai detto tu stessa. Hai detto che era così da quand’era morto il
papà.»
«Sì. L’ho detto. Certo, il dolore l’aveva cambiata. Ma non era esattamente
impazzita. Almeno, non secondo me.»
La gente lo capisce quando sta per impazzire? si domandò. Sente che la
trama della propria mente si lacera? Oppure è come passare in un dolce
mondo onirico? Non l’avrebbe mai saputo, perché lei e la mamma non ne
avevano mai discusso. E a essere sincera, allora non le importava se la madre
soffriva: anzi, quasi l’aveva desiderato.
«Vale la pena correre il rischio? Non è meglio consultare un medico?»
Fu invasa da una strana letargia. Che ne sapeva Jolyon dei rischi?
«Non puoi fare paragoni, mio caro Jo, ma se tu avessi conosciuto meglio i
nostri genitori, ti saresti reso conto che non ho nessuna delle loro
caratteristiche.» In gola le pulsò l’antico dolore. «Nessuna, hai capito?»
«E invece sì, Elsie. E non puoi farci niente. Sono sempre con noi, nel
nostro sangue, nel nostro stesso essere. Che ci piaccia o meno.»
Lei rabbrividì. «Sì. Sì, suppongo che tu abbia ragione.»
Il cuore le batteva troppo forte, le velava gli occhi e le asciugava la bocca.
Cominciò a sentire un canto lontanissimo. Non capiva se erano le sue
orecchie o le donne che lavoravano fuori.
Attraverso lo smog filtrava la luce del giorno, che sbirciava dalle tende e
proiettava macchie gialle sul vassoio del tè. Nel momento in cui le sfiorò il
ginocchio, Elsie si alzò di scatto. Tazza e piattino tintinnarono.
Jolyon la guardò.
«Scusami» disse lei. Si portò una mano alla fronte, che era madida di
sudore. «Perdonami, Jo. Provo un terribile malessere. Credo che sia meglio
che mi stenda.»
Gennaio si trasformò in un febbraio crudele e umido in cui il vento strideva
sopra gli edifici della fabbrica, soffiando in diagonale il fumo della ciminiera.
Elsie notava a malapena il trascorrere dei giorni. Che fosse merito dei
sonniferi prescritti dal medico di Jolyon o la tintura di lavanda rossa che
metteva tutte le sere nel vino, provava un senso di benessere ovattato,
distaccato dalle preoccupazioni quotidiane.
Faceva il giro della fabbrica, ma non aveva alcuna responsabilità reale.
Poteva entrare lentamente nella sala solfatura e osservare i ragazzi mescolare
una mistura fosforescente che ribolliva sul fuoco. Folate di vento gelido
trasportavano il fumo al di là del cancello e dentro la nebbia più fitta di
Londra. Ogni tanto le sue narici trovavano qualche frammento di quell’odore
solforoso, ma non la turbava più come una volta. Era come una puntura di
spillo, come un pizzicotto, e non più una lama di coltello.
Quando faceva troppo freddo per sbirciare dalle finestre appannate, entrava
nella fabbrica vera e propria, dove tagliavano i bastoncelli. Là si muoveva e
respirava liberamente, come un pesce rigettato in acqua. Il vapore, il ronzio
dei macchinari, le schegge di legno e le chiacchiere degli operai le erano
familiari quanto la voce di Jolyon. Guardava i suoi dipendenti, che correvano
di qua e di là, e il luccichio irrequieto della sega, e sentiva di essere
resuscitata. Riportata alla vita.
A marzo si era ripresa e cominciò a addestrare le tre ragazze che aveva
portato via da Fayford.
«Ecco» disse alla più piccola, una ragazzina con le lentiggini che faceva
fatica a legare il proprio mazzetto. «Prendi questo misuratore e mettilo sotto
il beccuccio. È fatto per contenere esattamente milleottocento bastoncelli. La
quantità giusta per il tuo mazzetto.»
L’amica della ragazzina sembrava allarmata all’idea di dover contare fino a
una cifra così considerevole ma Elsie la aiutò, mentre quella con le lentiggini
scappava via, insegnandole il nodo migliore con cui legare il fascio.
«Lo facevo sempre anch’io» aggiunse con un sorriso, «quando avevo la tua
età.» Certo, ormai non era più tanto svelta, con quelle mani ustionate.
La ragazza non rispose, anche se dalla sua espressione era evidente che
non aveva creduto a una parola. Forse era strano che la figlia del proprietario
lavorasse insieme ai dipendenti, ma il papà diceva che non si conosceva
davvero una fabbrica finché non ci si lavorava dentro. E per quanto ricordava
Elsie, era l’unica cosa veramente utile che suo padre le avesse mai detto.
Quando si allontanò dalle ragazze notò che le sue scarpe avevano lasciato
alcune impronte sul pavimento, come quando si cammina sulla sabbia. I
macchinari ronzavano e i bastoncelli schizzavano nella vasca, accompagnati
da una nuvola di polvere. La ragazza di Fayford con le lentiggini tossì. A
poco a poco, la polvere si depositò. E come per magia, le impronte di Elsie
erano scomparse.
Che strano pensare a tutti i passi nascosti, a tutti i momenti che il
pavimento della fabbrica aveva conosciuto, sepolti e poi spazzati via con una
scopa.
Salì le scale che portavano all’ufficio e si fermò a metà strada,
appoggiandosi alla ringhiera di ferro da cui si poteva contemplare l’intero
stabilimento. Le donne riempivano telai e controllavano le macchine, mentre
tutta la loro vitalità svaniva insieme al vapore. Come scintille di fiammiferi
difettosi che si accendevano e poi morivano. Com’erano rapidi, la
combustione e il passaggio da una condizione all’altra. Un attimo prima il
fiammifero era un bastoncello con una spavalda capocchia bianca; un attimo
dopo era un oggetto inutile e carbonizzato dall’aria misera, raggrinzita.
I mazzetti venivano caricati su dei carrelli e trasportati avanti e indietro
dalla sala solfatura. Più oltre c’erano i capanni di asciugatura, che dalle
finestre non si vedevano bene.
Eccolo. Quel punto vicino alla sega circolare, appena fuori vista. Se lo si
ripuliva bene, veniva fuori che era nero e scorticato. Era stato da lì che era
partito l’incendio. Era lì che il papà si era precipitato a spegnerlo, quasi
impazzito. E poi… era lì che era stato versato il sangue. Una grande quantità
di sangue. La macchia rossa si era allargata sulla segatura. Era gocciolata tra
le gambe dei tavoli. Di un rosso stranamente intenso, come il vino. Denso.
L’avevano ripulita quasi tutta con stracci e aceto, ma Elsie immaginava che
lì, sotto la segatura, ne fosse rimasta una traccia. Ormai non più rossa, ma
bruna. Bruna come la melassa.
Quand’era successo, Jolyon aveva solo sei settimane. Il papà non aveva
nemmeno avuto il tempo di cambiare il testamento per includervi il figlio. Se
Elsie fosse stata determinata, forse avrebbe trovato il modo di conservare
l’intera proprietà della fabbrica fino al giorno del suo matrimonio. Ma non
era naturale tenere Jolyon al di fuori di qualcosa. Aveva bisogno di lui per
reggere il fardello di un’eredità del genere: un lascito nato dal sangue.
Lentamente, si abbassò e si mise a sedere sui gradini, la guancia premuta
contro la ringhiera fredda. Sì, nella storia di quel posto c’erano stati momenti
terribili, ma in qualche modo il movimento della fabbrica li aveva cancellati,
levigati come le onde del mare su una pietra. Al loro posto era rimasto un
altro ricordo, molto più dolce.
Lei stava scendendo quegli stessi gradini, ma non era vestita di nero,
allora, piuttosto di un intenso rosso scarlatto, alla moda. In quell’istante
Jolyon aveva fatto entrare tre gentiluomini: uno portava la bombetta, gli altri
due il cilindro. Avevano più o meno la stessa età (una quarantina d’anni o
poco più), ma era stato Rupert ad attirare la sua attenzione, con quella sua
faccia animata, viva. Sembrava un giovanotto che aveva dovuto superare un
decennio difficile. I suoi compagni erano quello che la mamma avrebbe
definito “mal conservati”, la pelle grinzosa, grigiastra.
«Ah» aveva detto Jolyon quando l’aveva scorta. Era nervoso ma cercava di
non darlo a vedere. Mentre indicava i due uomini, sotto l’ascella gli era
comparsa una macchia scura. «Ecco mia sorella, che ci assisterà nella visita.
Signor Bainbridge, signor Davies, signor Greenleaf, posso presentarvi la
signorina Livingstone?»
Si erano inchinati tutti e tre. Solo Bainbridge aveva sorriso. Be’, o almeno
così lei aveva creduto: Davies e Greenleaf avevano due barbe così mostruose
che non era sicura nemmeno che possedessero la bocca.
Il signor Bainbridge era diventato subito il suo favorito. Aveva dei baffi
ben tagliati, sale e pepe, ed era più elegante degli altri due; portava perfino i
pantaloni a scacchi, blu e verdi. Camminando aveva l’abitudine di
giocherellare con la catena dell’orologio da taschino.
Lei aveva preso Jolyon sottobraccio e aveva fatto fare il giro della fabbrica
ai tre uomini, intervenendo quand’era il caso e spiegando il lavoro delle
donne. Jolyon parlava di macchine e percentuali di produttività. Lei e suo
fratello avevano provato quella conversazione come si fa con le battute di un
dramma. Tutto si stava svolgendo come da copione; i potenziali investitori
annuivano nei momenti giusti e ponevano le domande che si erano aspettati.
Soltanto quando erano passati in ufficio ed Elsie si era seduta di fronte a
Jolyon al lungo tavolo di mogano, si era presentato il primo problema.
«Perdonatemi, signori, ma credevo che dovessimo parlare d’affari.» Il
signor Greenleaf aveva posato la bombetta sul tavolo, aveva guardato Elsie,
la bottiglia di cristallo piena di brandy e poi di nuovo Elsie.
«Anche noi» aveva risposto Jolyon. «La prego, proceda.»
«Non lo troverei corretto, in presenza di una signora.»
Elsie gli aveva rivolto un sorriso tirato. «Le assicuro, signor Greenleaf, che
la fabbrica è un argomento di cui non mi stanco mai. Non deve temere di
annoiarmi.»
Lui aveva inclinato la testa. Ovviamente, la noia di Elsie era l’ultimo dei
suoi pensieri e lo sapevano tutti e due.
«Cara signorina, mi permetta di essere schietto. Durante questo genere di
incontri, il linguaggio può diventare un filino grossolano. Sarebbe molto
meglio se suo fratello le riferisse solamente le parti più adatte alle sue
orecchie, in un secondo momento.»
Una risata brevissima di Rupert. «Davvero, Greenleaf, non capisco che
genere di incontro pensava di avere. Io mi ero preparato a una cosa educata e
civile.»
Jolyon era diventato tutto rosso e aveva cominciato ad avvicinare le mani
alle tasche. «Deve capire che questa fabbrica è stata ereditata dalla signorina
Livingstone, oltre che da me. Io ritengo che abbia il diritto di essere presente
a qualunque…»
«Ehi, nessuno lo sta mettendo in discussione, amico. Ma è davvero
necessario? Risparmiamo alla povera signorina gli orrori delle formalità.»
Elsie aveva sentito il cuore pulsarle in gola per la rabbia contro quel
vecchio grassone, pieno di soldi e pregiudizi. Gli orrori. Ma che ne sapeva
lui, di orrori? L’aveva trattenuta solo il pensiero di Jolyon.
«Linguaggio grossolano e orrori formali» aveva commentato Rupert,
facendo oscillare l’orologio. «Inizio a dubitare di volerci partecipare
anch’io.»
«Bainbridge, sa benissimo cosa intendo. Certe espressioni e certe formalità
relative agli affari che noi diamo per scontate potrebbero risultare
sconvolgenti per una signora, e soprattutto stancanti.»
L’aspetto peggiore era che Greenleaf non voleva ammettere la verità. Non
avrebbe insultato l’intelligenza di Elsie. Non ne avrebbe messo in discussione
la posizione. Invece aveva scelto quella farsa degradante, inventandosi di
farlo per cavalleria, fingendo di obiettare per il bene di Elsie.
Greenleaf aveva proseguito. «Davvero, Livingstone, non vedo alcun
motivo per cui la sua povera sorella debba essere costretta a subire tutto
questo. Non ce n’è ragione.»
«A meno che» aveva insinuato astutamente Davies «non serva a lei. È
molto giovane; forse sente il bisogno della presenza di un parente con
qualche anno in più?»
Jolyon era diventato scarlatto. L’avevano toccato nel suo punto debole. Lei
si era alzata e aveva preso la bottiglia del brandy.
«Bene, signori, avete detto la vostra e sono sicura che la cosa vi ha
divertito. Per quanto riguarda me e il signor Livingstone, abbiamo degli affari
di cui occuparci. Chiunque voglia investire in questa fabbrica dovrà avere a
che fare con un padrone e una padrona, e questo non si discute.» Si era
versata un dito di liquore e l’aveva buttato giù tutto. «Se siete troppo
schifiltosi per parlare d’affari con una signora, sarà meglio che ve ne andiate
subito.»
Quel discorso sembrava esserle uscito animato di vita propria. Elsie sentì
la gola bruciare e guardò il bicchiere vuoto, incapace di comprendere come
fosse finito nella sua mano.
Il signor Greenleaf e il signor Davies se n’erano andati. Rupert era rimasto.
E dopo quella gran confusione era stato Jolyon a parlare per quasi tutto
l’incontro, illustrando nei dettagli il loro progetto di passare dalla produzione
di fiammiferi normali a quella di fiammiferi di sicurezza, e i miglioramenti
che volevano introdurre per il bene del personale. Era stato Jolyon a spiegare
i ventilatori, a sottolineare i vantaggi di un luogo per l’asciugatura separato.
Ma era stata Elsie quella che era rimasta impressa a Rupert.
«Che donna straordinaria» aveva detto a Jolyon, quando aveva creduto che
lei non potesse sentirli. «Sua sorella è molto dotata per questa attività,
Livingstone, lo sento in ogni parola che pronuncia. Ha fatto bene a
coinvolgerla.»
«Elsie.»
Quella non era la risposta che aveva dato Jolyon. Non era una voce dal
passato, ma dal presente.
«Elsie.»
Lei sbatté le palpebre, nel tentativo di tornare al qui e ora. L’immagine di
Rupert e Jolyon che si scambiavano una stretta di mano scomparve e in quel
vuoto emerse un altro Jolyon, del tutto dissimile dal giovanotto che le era
appena apparso; il viso era contratto, sconvolto; la voce svuotata e irreale.
«Elsie, cosa ci fai qui? Ti ho cercata ovunque.»
Lei si alzò e fece gli ultimi gradini per prendergli le mani. Erano sudate e
bollenti. «Cos’è successo? Hai un’aria terribile, Jo.»
«Una situazione spaventosa. Fai le valigie. Devi tornare a The Bridge. E
subito.»
Lo stomaco le si contrasse. «Ma perché? Cos’è mai potuto accadere?»
«Mabel.» Lui le strinse forte le mani guantate. «Mabel è morta.»
The Bridge, 1635

Morirà domani.
È colpa mia. Tutta mia. Ogni mattina mi sveglio con lo stomaco in
subbuglio per il senso di colpa. Ma non ho sofferto abbastanza, non soffrirò
mai abbastanza per compiacere Josiah. Deve costringermi ad affondarci la
faccia, come si fa con un cane che ha sporcato la casa del padrone. Quindi
abbiamo organizzato una celebrazione.
Dal momento che è stato Mark a catturare il fuggitivo, mio marito ha
deciso che la servitù va ricompensata con un banchetto. Gli spiedi girano da
tutto il giorno e il piano terra è saturo di fumo. Mi bruciano gli occhi.
Josiah ha loro concesso di usare il salone. Ora sono seduti là dentro, a
brindare e a staccare la carne dalle ossa con i denti come se stessero facendo
a pezzi lo stesso Merripen.
Io mi sono rifugiata in cucina con Lizzy. È la mia penitenza, stare seduta
qui nel fumo soffocante, con il sudore che mi cola dalla fronte, a guardare le
pelli di quegli animali ricoprirsi di bolle e bruciature mentre girano sopra le
fiamme.
Cerchiamo di fare conversazione ma ci sembra un’attività troppo
superficiale, un’occupazione troppo ordinaria. Sciocchezze del genere
possono ancora esistere dopo ciò che è successo?
«Non mi sembra giusto» ha sospirato Lizzy asciugandosi il viso.
«Comportarsi così perché domattina un ragazzo verrà squartato. Anche se è
un ragazzo malvagio.»
Io ascoltavo il grasso che colava sfrigolando. Merripen sarebbe arrostito
così, tra le fiamme dell’inferno?
«Sono stata una stupida a fidarmi di lui. Però non mi sembrava cattivo.»
«Già. Ma il diavolo prende molte forme diverse. Come ha aggredito quel
povero cavallo…» Si è avvicinata e mi ha accarezzato la mano con la sua,
sudata e callosa. «Forse è meglio così. Darci un taglio prima che rivolga il
suo disprezzo verso un essere umano.»
Ma che maniera di darci un taglio.
Abbiamo guardato il fuoco insieme. Ai miei occhi i tronchi parevano
membra carbonizzate; una povera anima arsa sul rogo. Dio non voglia che
scoprano il modo in cui ho avuto Hetta. Se impiccano, trascinano con i
cavalli e squartano Merripen, a me cosa farebbero?
«Come sta Hetta?» ho chiesto alla fine. «Lo sa cosa accadrà al suo amico?»
Lizzy si è abbandonata su una panca. «Non gliel’ho detto, ma è
intelligente. Sapeva che ci sarebbe stato un gran banchetto. Ha fatto avanti e
indietro dall’orto tutta la mattina, per raccogliere erbe per la cuoca. Immagino
che questo l’aiuti a tenersi occupata.»
«E adesso?»
Lei ha controllato l’orologio. «Ora è meglio che vada a prenderla. Prima
non ho avuto il coraggio, quindi l’ho lasciata seduta in un posto tranquillo.
Ma in quell’aria c’è qualcosa di malsano. Non voglio che prenda un
raffreddore.»
Mentre faceva per alzarsi ho levato la mano. «Lascia che ci vada io,
Lizzy.»
Lei ha acconsentito con un cenno del capo.
Quando sono uscita dal tepore della cucina, l’aria ghiacciata era impietosa.
Non mi ero resa conto di quanto facesse freddo. Avrebbe anche potuto
nevicare. La brina scintillava sui rametti che mi si spezzavano sotto le
scarpine mentre mi dirigevo verso l’orto.
Il mio giardino prima splendido si era trasformato in un mucchio di rami
nodosi scrollati dal vento. Sopra di me si stendeva il cielo, bianco come sale.
Non c’erano più i gigli, le rose non erano sopravvissute. Restavano soltanto
le siepi, un fantasma verde delle mie speranze estive. E le erbe di Hetta.
Prima di vederla credevo di avere freddo. Ma nell’istante in cui i miei
occhi si sono posati su mia figlia, il cuore mi si è congelato in petto.
Sedeva sulla terra gelida con la gonna raccolta tutt’intorno. Perfettamente
immobile. Le mani guantate erano vuote ma le teneva in grembo con i palmi
rivolti verso il cielo.
Il cestino era rimasto sul sentiero. Le sono arrivata vicino, scricchiolando,
ma lei non ha alzato lo sguardo e l’ha tenuto dritto e vuoto davanti a sé.
«Hetta? Hetta, cosa fai? Ti ammalerai da morire.»
Le ho preso una spalla. In mano mia era come una bambola, floscia e priva
di sensi. Nei capelli le brillavano cristalli di ghiaccio. Per quanto tempo Lizzy
l’aveva lasciata seduta lì in quell’umidità?
«Hetta. Dammi la mano e tirati su.»
L’ultima fiammella del tramonto danzava sulle erbe gelate e mi ha
costretto a chiudere gli occhi. Ho allungato una mano e ho sentito che i guanti
di Hetta erano appiccicosi e macchiati della linfa delle piante. Mandavano
una fragranza di timo e di qualcosa di più profondo e amaro. L’ho fatta
alzare.
«Stavi raccogliendo erbe con le mani?» Ho guardato il cestino, era pieno di
edera e cardi. «Dove sono le tue cesoie?»
Lei ha infilato una mano nel grembiule. Una luce fredda è rimbalzata sulle
lame mentre lei le muoveva, zac, zac. Sembravano arrugginite, le
impugnature erano incrostate di una sostanza marrone.
«Dovrai chiedere al ragazzo dei coltelli di pulirtele.»
L’ho sospinta fino a casa. Pareva più morta che viva; la pelle era cerea e gli
occhi di un verde opaco e inaridito. Il mio fiato si trasformava in vapore e
rabbrividiva nell’aria prima di disperdersi, ma il suo era ridottissimo, si
vedeva appena. Una volta soltanto le è uscito un riccio di vapore dal naso,
sottile come il fumo che mandano le candele appena spente.
L’ho cambiata e ho ammucchiato pellicce sul suo letto. Le ho riattizzato il
fuoco con le mie stesse mani. Poi ho coperto la gabbietta del passero e le ho
messo accanto uno degli Amici di legno, proprio come piace a lei.
Mentre il vento si infilava fischiando nella canna del camino siamo rimaste
lì a guardarci, noi due, complici nella colpa. Insieme avevamo rovinato la
nostra famiglia. E il vento continuava a ululare, ammonendoci dell’arrivo di
ulteriori tormenti.
Hetta ha alzato una mano e l’ha tesa verso di me, voleva il mio conforto…
No. Non mi vedeva nemmeno. Voleva soltanto la mia collana di diamanti.
Io mi sono ritratta.
Quando finalmente si è addormentata, sono scesa di nuovo in cucina, di
soppiatto. Lizzy si era appisolata al tavolo, la testa sulle braccia tese. Mi
siedo accanto al suo corpo tiepido che mi è tanto caro e ascolto il respiro che
le esce fischiando dal naso. Penso che questa vecchia con le rughe scolpite in
viso è l’unico vero collegamento tra Hetta e me. Dopo tutte le fatiche che ho
fatto per crearmi una figlia e una compagna perfetta, condividiamo soltanto
questo: l’amore di una serva e la morte di Merripen.

Mi ero quasi assopita quando dall’ingresso ho sentito giungere delle urla. E


poi dei passi, pesanti e irregolari. Ho toccato la spalla di Lizzy. «Lizzy,
svegliati. Stanno tornando in cucina.»
Il fuoco si era quasi spento. Dalle pareti di pietra arrivava un alito gelido.
Ora il vento era impazzito, scuoteva la porta e bussava alla finestra. Ho
guardato fuori, cercando di vedere qualcosa, ma il vetro era marezzato di
ghiaccio.
«Lizzy.»
Lei si è stiracchiata borbottando. «Che ore sono, padrona?»
«Non lo so. Ora che andiamo a letto tutte e due. Vieni, non sopporto di
stare qui. Potrebbero entrare, ubriachi.»
Eravamo quasi arrivate alle scale della servitù quando abbiamo udito un
colpo alla porta che conduce nelle stalle. Io mi sono irrigidita. Chi poteva
essere, con quel temporale?
I vetri delle finestre vibravano nelle cornici. Dal caminetto è arrivata una
folata gelida.
Di nuovo un colpo.
Lizzy si è avvicinata alla porta, per abitudine. Io l’ho afferrata per la
manica.
«Lizzy…» Non ho potuto dirle cosa temevo. Il panico mi è salito dal petto
alla gola.
Il rumore della servitù è diventato più forte.
«Devo aprire, padrona. Con questa tempesta di ghiaccio una persona può
anche morire assiderata!» La sua manica di lana ha sfiorato le mie dita ed è
scomparsa.
Lizzy è arrivata alla porta del cortile proprio nel momento in cui la servitù
ha fatto irruzione dall’altra parte. Mark è inciampato nel girarrosto, la faccia a
chiazze rosse. Poi sono arrivati Jane, che ridacchiava, la cuoca e una serie di
valletti che non riconoscevo, senza livrea. Alle loro calcagna, li seguiva passo
passo una nuvola inacidita di odore d’alcol.
«Caspiterina, e questa novità? La padrona in cucina?»
Lizzy ha lanciato loro un’occhiata e poi ha aperto la porta, che è sbattuta
verso l’interno andando a colpire la parete. La neve ha impolverato le
maioliche e si è sciolta dopo un istante mentre il fuoco scoppiettava,
proiettando ombre sul soffitto.
Dalla servitù ubriaca si sono levate urla di protesta.
«Perché hai aperto quella porta, maledizione?» ha sbraitato Mark. «Là
fuori fa un freddo da gelare le palle.»
Non riuscivo a vedere chi avesse bussato per chiedere di entrare; la neve
era troppo fitta. Rabbrividendo, ho socchiuso gli occhi. In quel vortice
qualcosa si muoveva. Qualcosa che arrivava alla vita di Lizzy.
«Oh! Che Dio ci protegga, che cos’è?» Lizzy ha fatto un passo indietro ed
è andata a urtare Jane. Ora la scorgevo: la creatura più bizzarra che avessi
mai visto, nera come il diavolo, ma tutta punteggiata di bianco. L’essere è
avanzato barcollando, borbottava in lingue sconosciute. Jane ha lanciato un
urlo.
«Pietà.» Una parola sola, ma comprensibile. Tutto è diventato immobile.
La creatura ha teso le mani scure; pareva che l’aria pungesse. «P-p-pietà.»
Ho capito che non era un demonio, ma una bambina magrissima, i capelli
sciolti e arruffati dal vento, con le punte che gocciolavano.
«Niente mendicanti, qui!» è sbottata Lizzy. Non l’avevo mai vista così
spaventata. «Non vogliamo gente della tua razza.»
Ho aperto bocca per dire che poteva dormire nelle stalle. Poi però mi è
tornato in mente cos’era accaduto l’ultima volta che avevo permesso a uno
sconosciuto di entrarvi.
La bambina ha scrollato la testa. Nei suoi occhi neri c’era qualcosa di
familiare. «Josiah Bainbridge» ha detto stentatamente: era chiaro che quella
non era la sua lingua materna. «Vedere Josiah Bainbridge. Pietà.»
Mark ha borbottato qualcosa, si è avvicinato e ha spinto Lizzy dietro di sé.
«Tu non lo avvicinerai nemmeno, il mio padrone. E adesso fila via.»
Non ho potuto trattenermi, la domanda mi è uscita da sola dalle labbra.
«Pietà… pietà per chi?»
Quegli occhi scuri si sono girati verso di me. Sulle lunghe ciglia erano
posati diamanti di neve. «Fratello.»
Il pavimento ha cominciato a ruotare e a sfuggirmi da sotto i piedi. Mi è
venuta la pelle d’oca e in quel momento ho capito cosa significa davvero
avere la seconda vista. Non le mie strane premonizioni e sogni, ma il potere
degli occhi color inchiostro di quella bambina. Non avevo bisogno di sapere
come si chiamava, ma lei l’ha detto lo stesso.
«Fratello. Merripen.»
Jane ha lanciato un altro urlo.
«Sangue di Cristo! È quello zingaro» ha ruggito Mark. «È la sorella di quel
ragazzo malefico!»
«Portatela dal padrone» ha gridato la cuoca. Poi si è appoggiata al muro
per non perdere l’equilibrio e ha ruttato. «Vedrete che le farà fare la stessa
fine.»
I servi hanno reagito come un sol uomo. Erano meno di una decina ma
parevano una legione: un brulichio di dita mulinanti e di facce arrossate e
furiose.
Lizzy è stata scaraventata da una parte. Lo scialletto nero si è strappato. Si
è aggrappata ai mattoni del caminetto, con negli occhi un’implorazione
diretta a me. Fateli smettere. Ho fatto un passo avanti ma quelli hanno
afferrato la bambina, goffi e brutali nella loro ubriachezza.
«Basta!» Lizzy si è lanciata verso di loro e ha cercato di staccare quelle
mani. «Scappa, bambina!» ha urlato. «Scappa!»
L’ho imitata, ma non mi hanno dato ascolto. Chi ero diventata, ormai, per
loro? La padrona caduta in disgrazia, la moglie che Josiah aveva trattato
come un rifiuto in un canile.
Lizzy è riuscita a liberare uno dei polsi della bambina. Graffiando e
sibilando, la piccola ha svincolato l’altro. In quel momento, però, un pugno
anonimo è arrivato alla tempia di Lizzy, che è caduta: ormai tra la bambina e
la folla non c’era più nessuno.
Non mi sono mai mossa tanto velocemente in tutta la mia vita. Senza
pensare alle panche, alla mia gonna, mi sono infilata nello spazio lasciato da
Lizzy e ho preso una decisione. Non avrebbero osato colpire me, ma non
potevo tenerli a bada per molto. Dovevo portar via la bambina.
Le ho messo entrambe le mani sulle spalle ossute e l’ho spinta oltre la
porta, tra le grinfie della tempesta in attesa. Lei ha agitato le mani e mi ha
sfiorato il collo: ho sentito la collana di diamanti staccarsi dalla mia pelle. I
nostri occhi si sono nuovamente incrociati per il lampo di un istante. Poi è
scomparsa, cancellata da una folata di neve.
Mi sono girata di scatto e chiusa la porta alle spalle con un colpo. La mia
schiena aderiva al legno e avevo teso le braccia per sbarrare l’accesso.
«Indietro!» ho urlato. «State indietro!»
Mark mi ha guardato, poi ha fatto una smorfia. «Lo racconterò al
padrone.»
Uno per uno se ne sono andati; o nelle loro stanze oppure sono finiti sul
pavimento. Ora Jane è distesa davanti al fuoco ormai spento, e russa. Fa un
freddo mortale. Ma io e Lizzy siamo sedute insieme alla luce di una sola
candela, incapaci di muoverci.
Riusciamo soltanto ad ascoltare il vento che cinguetta e frusta i boschi.
Dalla finestra non si vede niente: è ricoperta di neve, e siamo sepolte.
«Fa molto freddo» dice Lizzy, ogni tanto. «Fa molto, molto freddo.»
The Bridge, 1866

Elsie sedeva ben piantata sui cuscini e fissava dritto davanti a sé mentre la
carrozza procedeva rumorosa verso Fayford. Fuori, il clima era mite. Una
luce pallida e morbida metteva in rilievo i boccioli nelle siepi e quelli sugli
alberi. Ma quell’anno la primavera era una farsa crudele.
Le pareva di avere le guance indurite, come cera solida. Un usignolo trillò
tra i rami e le sembrò il rumore più fastidioso e stridente che avesse mai
sentito.
Come poteva essere accaduto?
Un incidente, aveva detto la signora Holt. Mabel stava lavando la verdura
per la cena della servitù e non si era preoccupata di asciugarsi le mani prima
di preparare la carne. La mannaia doveva esserle scivolata.
Scivolata. Una parola comoda: incontrollabile; difficile da afferrare, anche
con la bocca. Troppo rapida. Era impossibile dimostrare un’eventualità del
genere. Elsie lo sapeva fin troppo bene.
Ma se la mano di Mabel era scivolata, perché non era corsa a chiedere
aiuto? Perché nessuno l’aveva sentita urlare? Com’era possibile che nessuno
avesse saputo dell’incidente fino a quando Helen non l’aveva trovata in una
pozza di sangue sul pavimento della cucina, con un taglio verticale che
andava dal polso al gomito?
C’era soltanto una risposta: non aveva voluto farsi aiutare. Era stato un
gesto deliberato.
«È tutta colpa mia.» Jolyon aveva succhiato il suo sigaro e poi,
camminando avanti e indietro in ufficio, aveva espirato il fumo dal naso.
«Ero arrabbiato. L’ho accusata di quelle cose orribili. Sta per arrivare la
Pasqua, forse aveva paura di essere rimandata all’ospizio e…»
«Non credo che tu abbia sbagliato, nell’accusarla.»
«Come puoi dire una cosa del genere?»
«Pensaci, Jolyon. Questo suicidio, se è suicidio, conferma e non smentisce
i tuoi sospetti. Molto spesso questo tipo di cose è un segnale di rimorso. Se
mi ha ingannata e questo ha portato alla morte del mio bambino… Be’, chi
potrebbe vivere con un fardello del genere?»
Lui emise un altro sbuffo di fumo. «In ogni caso» disse tra le volute, «le
mie parole hanno spinto una ragazza a uccidersi. Ho le mani macchiate di
sangue.» E si era guardato le dita che tremavano reggendo il sigaro. «Devi
andarci subito, Elsie. Io qui ho degli affari da sbrigare, ma ti raggiungerò
appena posso.»
Qualunque fosse la verità, avrebbero appoggiato la spiegazione della
signora Holt: un incidente. Il minimo che potevano fare era assicurarsi che
Mabel fosse seppellita in terra consacrata.
E pensare che tutta quell’energia, tutta quella sfacciataggine non c’erano
più. La morte conferiva a quella ragazza una dignità che in vita non aveva
mai posseduto. Avrebbero circondato il feretro in silenzio, con rispetto, quasi
aspettandosi che si svegliasse da un momento all’altro e domandasse perché
piangevano.
Mentre si avvicinavano al paese, una mano fredda le torse lo stomaco. Il
sole primaverile non serviva a migliorare l’aspetto di quelle casupole. Dalla
paglia marcia dei tetti spuntavano le erbacce. Elsie era irrequieta, sentiva che
dentro le si muoveva qualcosa. Stava ripiombando in mezzo a tutte le sue
antiche paure, indossando quelle superstizioni come un vecchio mantello.
Sollevò il velo e guardò i castagni che si chinavano cupi sulla chiesa. I
boccioli bianchi avvizzivano tra le foglie nuove spuntate sui rami. Era Sarah,
quella all’ingresso sud? Sbirciò dal finestrino, ma le figure dietro il muro di
pietra erano così piccole e confuse che non riusciva a capire. Era possibile
che Sarah fosse in chiesa, a organizzare la cerimonia. Cos’avrebbe detto di
quella morte? Cos’avrebbe detto il signor Underwood? Era una situazione
terribilmente complicata.
La carrozza superò sferragliando il ponte. Sotto gorgogliava l’acqua, che
sembrava ridere delle sue disgrazie. In The Bridge c’era qualcosa di
sbagliato. A Londra aveva imparato a liquidare le sue paure come
sciocchezze, ma adesso che era tornata le sentiva di nuovo striscianti,
insidiose. Qualcosa di oscuro e minaccioso, che arrivava fino alle radici delle
piante che crescevano in giardino. Non era soltanto il passato, quegli strani
eventi di cui Sarah aveva letto nel diario di Anne Bainbridge. Era proprio la
struttura dell’edificio a essere malvagia. Elsie era in grado di affrontare la
fabbrica di fiammiferi in cui aveva tanto sofferto da bambina, ma quel… quel
posto la rendeva nervosa.
Quando Mabel fosse stata sepolta, avrebbe riportato Sarah con sé a Londra
e avrebbe chiuso quella casa per sempre.
Mentre la carrozza svoltava e imboccava il viale, il sole splendette sopra le
colline, indorando l’erba. Da quella distanza tutto era fatto d’ombre e luci; i
cespugli rilucevano, i mattoni si scurivano, le finestre lampeggiavano.
Soltanto quando Peters condusse la carrozza intorno alla fontana le fiamme
alle finestre si estinsero ed Elsie poté vedere qualcosa che le raggelò il cuore.
Non era possibile.
Spalancò lo sportello della carrozza e scese, barcollante e sbattendo le
palpebre, sulla ghiaia.
«Signora?» domandò Peters preoccupato. «Aspetti, vengo ad aiutarla.»
«No» gemette Elsie. «No, sei morta.»
Guardava, come aveva sempre fatto, guardava e basta.
«Signora?» Peters saltò giù da cassetta facendo scricchiolare la ghiaia.
Sua madre non avrebbe potuto, guardare non le piaceva, no?
«Non si sente bene?»
Elsie non gli badò. Non l’aveva mai notata prima, ma ora la vedeva: quella
scintilla di eccitazione morbosa nelle pupille. Era lo sguardo di una persona
davanti al patibolo, venuta a godersi un’impiccagione. Assetato di sangue.
«Oh, no, mamma.» Il pensiero era peggio di qualsiasi altra cosa, peggio
dell’azione stessa.
Ora Peters le stava scrollando un braccio, la voce tesa. «Signora
Bainbridge? Signora Bainbridge? Cosa c’è, cosa sta fissando?»
«L’Amico. Guarda!»
«Amico? No, signora. Li ho fatti tutti a pezzi, se lo ricorda?»
«Quello no.» E protese la mano. Provava una specie di soddisfazione
nell’indicarla, come una vittima che accusa il suo aggressore in tribunale. «È
mia madre.»
«Come?»
«Alla finestra! Guarda!»
Ma Peters fece un passo indietro scuotendo la testa. «Non… Alla finestra
non c’è niente, signora.»
Non poteva essere vero. Si strinse la fronte con entrambe le mani. «Guarda
di nuovo.»
«Sto guardando. La finestra è vuota.» Peters si muoveva lentamente, con le
braccia allungate davanti a sé, quasi volesse placare un cane feroce. «Mi lasci
cercare la signora Holt, signora. Così potrà sedersi a bere una buona tazza di
tè.»
«No. No! È là dentro, te lo faccio vedere.»
«La prego, signora!»
Aveva superato la ragionevolezza, ormai, e anche la paura. Corse su per le
scale, entrò e si precipitò nel salone. L’aria profumava di segatura. Un fuoco
scoppiettava e sfrigolava nel caminetto.
«Mamma! Mamma!» Attraversò il salottino a passo di marcia, chiamando
sua madre. In quel grido risuonavano mille eco: preghiere infantili di tanti
anni prima. Adesso, come allora, trovavano soltanto silenzio.
La sala della musica. «Mamma!» La sua voce rimbalzò sul vasto soffitto
stuccato. Non c’era da stupirsi. Sua madre non l’aveva mai aiutata, nemmeno
quando Elsie perdeva sangue e, disperata, l’aveva invocata a lungo. «Ti
prego, mamma, solo stavolta!»
Le lacrime le bruciavano negli occhi mentre entrava incespicando nella
sala da gioco. Non avrebbe mai dovuto farlo. Non sarebbe mai stata costretta,
se solo sua madre…
Dalle profondità del suo essere eruppe una voce che salì in un rombo e le
esplose dalla bocca in un urlo tremendo. Cadde in ginocchio.
«Signora Bainbridge!» Gli scarponi di Peters sul tappeto alle sue spalle.
«Signora Bainbridge, cosa… Oh, mio Dio!»
Si addossò al muro barcollando, per sostenersi, perché aveva visto quel che
aveva visto lei.
La testa di cervo non era più appesa alla parete. Era piombata giù, con i
palchi rivolti in basso. Ma qualcosa aveva fermato la caduta.
Sotto, c’era Helen. Impalata, infilzata, penetrata.
Il sangue sgorgava da una ferita dove prima c’era stato il suo occhio. I
muscoli circostanti si contraevano ancora, come se fossero in grado di
espellere il pugnale di corno che spuntava dal globo oculare, inchiodando
Helen al tappeto.
Dalla bocca le fuoriusciva un liquido. Le labbra si muovevano, o almeno
cercavano di farlo, ma lei stava annegando. Sbottò in un gorgoglio
spaventoso proprio mentre Peters iniziava a vomitare.
Elsie ebbe un mancamento. Le immagini si sfocavano, svanivano. O
meglio, quella che svaniva era lei: tentava di sottrarsi al massacro che aveva
davanti agli occhi per nascondersi da qualche parte, dentro di sé.
Ospedale di St Joseph

La matita era appuntita. Il dottor Shepherd l’aveva temperata con il suo


coltellino tascabile. Non le piaceva come scriveva ora: grattava sul foglio, si
inceppava, minacciava di spezzarsi se premeva troppo forte. Doveva reggerla
con delicatezza, come se fosse fatta di vetro.
Ma non era di vetro, era di legno. Odorava di legno, dopo essere stata
temperata: Elsie riconosceva il profumo inquietante degli alberi spaccati a
metà.
Più volte, le stesse parole. Forse così sarebbe riuscita a ottundere la mina.
Le parole l’avrebbero resa morbida e lucida in modo che lei potesse
riprendere la sua storia. Ma si rifiutava di continuare finché le lettere
possedevano quella chiarezza tagliente e allarmante.
Avrebbe potuto ottundere anche i propri sensi? In passato, le droghe ci
riuscivano. Ricordava di avere vagato per i corridoi con il dottor Shepherd,
quasi incapace di restare sveglia. Ma ora quel suo corpo traditore si stava
abituando, come si era abituato a tante traversie.
Iniziò a percepire la tristezza che pervadeva le squallide pareti bianche e le
fredde piastrelle dell’ospedale. La sua intera esistenza si riduceva a una
celletta solitaria e sbarrata. Perché i farmacisti creavano medicamenti che
svegliavano le persone, quando la realtà era fosca e senza speranza? Meglio i
sonni a base di laudano, i tranquillizzanti. Ora si sentiva come una donna a
letto in una cocente notte estiva: moriva dal desiderio di dormire ma
continuava a rigirarsi, impossibilitata a trovare requie. Continuava a scrivere
le stesse due parole, all’infinito.
JOLYON. PROTEGGERE JOLYON.
Era il suo comandamento dal giorno in cui era nato, lo stesso del suo
dodicesimo compleanno. Proteggere Jolyon. Eppure lui non c’era e non era
venuto a trovarla. Questo poteva significare una cosa sola: lei aveva fallito.
Lo sportellino si aprì. «Signora Bainbridge? La disturbo? Posso entrare?»
Vide gli occhiali del dottor Shepherd scintillare dalla fessura nella porta.
La matita le cadde di mano.
Lui fece scorrere il chiavistello ed entrò nella cella, chiudendosi la porta
alle spalle. Il mucchio di fogli che portava era più grosso che mai.
«Perché non si siede sul letto, signora Bainbridge? Io sto benissimo in
piedi.»
Lei obbedì. Le coperte erano ancora tiepide del suo corpo, portavano
ancora il suo odore. Strano pensare che adesso un letto significasse per lei
sicurezza e fuga. Non era sempre stato così.
«Ho pensato che fosse meglio che si mettesse a sedere, signora Bainbridge,
perché temo che la nostra conversazione di oggi possa sconvolgerla. La sua
storia è arrivata a un punto in cui io comincio a comprendere i meccanismi
della sua mente. Ora siamo giunti al nodo cruciale.»
Quelle parole le precipitarono in fondo allo stomaco. Sentì il bisogno
impellente di scattare in piedi e correre via. I suoi occhi si guardarono
intorno, passando dalla finestra con le sbarre al pesante catenaccio della
porta. Non c’erano vie di fuga.
«Lei ha scritto di questi “amici”, come li chiama lei. Dice di averne avuto
paura. Ma lo sa cos’è che ci spaventa davvero? Non le cose che rintoccano o
sibilano nella notte. Le nostre paure sono molto più vicine. Abbiamo paura di
ciò che abbiamo dentro, che siano ricordi, malattie o desideri peccaminosi.»
Inclinò il capo. Gli occhiali si spostarono a sinistra. «Ne deduco che lei ha
paura di diventare come uno dei suoi genitori.»
Ma certo, era ovvio che arrivassero: i puntolini di luce nel campo visivo e
quella specie di scroscio d’acqua nelle orecchie. Ricordi infantili, pensieri
infantili, come se chiudendo gli occhi in qualche modo avesse impedito al
dottor Shepherd di vederla.
«Capisco ciò che sente. Non posso fingere di avere ignorato gli indizi che
lei ha seminato, per quanto da parte mia sarebbe molto più discreto calare un
velo sull’argomento. E credo che lei abbia fatto proprio questo, signora
Bainbridge: ha calato un velo. Prima vi è stata costretta e poi è diventata per
lei una specie di necessità mentale: ha nascosto il fatto che i suoi genitori
l’hanno maltrattata.»
Se avesse avuto ancora una voce avrebbe urlato No, no, parliamo di tutto
ma di questo no. Però una parte di lei, una parte piccola e traditrice, doveva
desiderare che si sapesse, altrimenti Elsie non ne avrebbe scritto, non
gliel’avrebbe detto.
Lui si schiarì la voce. «Mi creda, signora Bainbridge, mi dispiace
moltissimo per lei. Essere tradita nella fiducia in così giovane età, da coloro
che l’istinto ci insegna ad annoverare tra le persone care… E una madre, che
dovrebbe accudire e proteggere, e invece…»
Aveva sperato di sopravvivere alle lacrime, di riuscire a raggiungere un
paesaggio arido in cui non ne scorrevano mai. Eppure, eccole: bollenti, le
colavano giù dal mento e le impedivano di respirare. Da quanto tempo erano
lì in agguato, in attesa del disgelo?
«Più di ogni altra cosa, volevo dirle che questo è uno sviluppo positivo.
Naturalmente a lei può non sembrare così, perché la costringe ad affrontare
un dolore enorme. Eppure lo sta affrontando, signora Bainbridge. Ha avuto la
forza di ripercorrere quelle innaturali violenze al suo senso di fiducia. Io so
che troverà anche la forza di ricordare cos’è accaduto a The Bridge la notte
dell’incendio. E poi potremo stilare la nostra relazione. E riabilitare il suo
nome.»
Stupita, incrociò lo sguardo di lui: occhi del verde delicato dei boccioli in
primavera, malleabili, misericordiosi. E, con un sollievo così acuto da far
quasi male, si rese conto che lui era dalla sua parte.
The Bridge, 1866

All’inizio la stanza fu tenera con Elsie. Gli oggetti si ritirarono a una distanza
considerevole, evitando di imporre la propria mole, e i loro contorni erano
sfumati. Il panico restava sospeso dove poteva percepirlo, ma non sentirlo.
Sul soffitto tremolava la luce. Sbatté le ciglia.
«Elsie.» Qualcuno le premette la mano. «Signora Holt, prepari una
bevanda calda! Presto! Si è svegliata!»
Dal piano di sotto, un gran fragore. Era tutto troppo acuto e penetrava in
quella nebbia morbida.
«Elsie, cara Elsie. Grazie a Dio.» A poco a poco, i forti lineamenti di Sarah
acquistarono maggiore definizione.
«Non sono…» Aveva in bocca un sapore metallico. Ci riprovò. «Perché
sono…» Nessun ricordo durava a sufficienza perché potesse trattenerlo. Vide
un cervo, poi un fiammifero… E le sfuggirono di nuovo.
«Non cerchi di parlare. Il dottore dice che dobbiamo tenerla tranquilla. Ho
inviato un telegramma al signor Livingstone, verrà immediatamente.»
Si guardò intorno. C’era tutto: il pesante baldacchino in cui erano intagliati
fiori e grappoli d’uva; il lavabo; il triplo specchio sulla toletta. I dettagli di
The Bridge riemersero come un sogno dimenticato da anni. Non riusciva a
elaborarli.
Stava per arrivare Jolyon. Jolyon, il suo punto di riferimento, la sua àncora.
Doveva aggrapparsi a quel pensiero. Ma perché non era lì con lei, ora? Era
sconvolto, vero? Per la morte di qualcuno. La mamma. No, Mabel. Mabel.
Helen. Si rizzò a sedere, fradicia di sudore gelato. «Helen! Era… lei…»
La mano di Sarah le premette una spalla e la costrinse a stendersi sui
cuscini. «Su, buona. Lo so.» Deglutì. «Io e la signora Holt eravamo in chiesa
a parlare con il signor Underwood del funerale di Mabel. Ma adesso pare
che… dovremo farne due.»
Elsie chiuse forte gli occhi. La rivedeva ancora: la faccia color fragola di
Helen che la fissava dal tappeto, in tutto il suo massacrato orrore. «Ma come?
Com’è potuto accadere?»
Sarah trasse un respiro tremante. «Abbiamo fatto arrivare il conestabile da
Torbury St Jude. E poi alcuni ispettori. Peters ha rilasciato una dichiarazione.
Da quello che sono riusciti a ipotizzare, è stato una specie di terribile
incidente. Probabilmente Helen stava pulendo la testa di cervo, dicono,
quando…»
Davanti alle palpebre chiuse le balenarono delle luci. «Ma tu non ci credi,
Sarah. Lo sento dalla tua voce. Tu non hai creduto a una sola parola.»
Sentì che Sarah si avvicinava. «No, infatti.»
«Dimmi tutto.»
Sarah scoppiò in lacrime.
Gli occhi di Elsie si spalancarono. La faccia di Sarah era ridotta a un
pasticcio rosso e bagnato. Tra un singhiozzo e l’altro, faticava a respirare.
«Sarah? Cosa c’è?»
«È colpa mia. È tutta colpa mia.»
«Com’è possibile che pensi una cosa del genere?»
La mandibola di Sarah tremò. «Io… Oh, come faccio a dirglielo? Sono
stata io, signora Bainbridge. S-sono stata io a prendere i suoi diamanti!»
Avvertì un senso di nausea salirle nella gola. Non era stata Mabel a rubare
la collana: era innocente. Era innocente ed era stata spinta a commettere un
gesto disperato per colpa dello sbaglio di Elsie.
«Volevo soltanto u-un oggetto ap-appartenente alla mia famiglia. Poi
Mabel si è messa nei guai e io… io non sapevo cosa fare. Non avrei mai
creduto…»
Sangue, che le scorreva bollente sulle mani.
«Volevo dirglielo a Pasqua» continuò Sarah, balbettando. «Avrei detto a
tutti la verità, glielo giuro. Ma poi Helen ha deciso che dovevano essere stati
gli Amici, a rubare la collana! Lei…» Sarah fece una smorfia di dolore.
«Voleva bruciarli di nuovo. Mi ha portato via Hetta e l’ha gettata sul fuoco
acceso in cucina!»
Indebolita e nauseata, Elsie si premette le mani sulle tempie. «Non capisco.
Perché sospettava degli Amici?»
«È questo che la signora Holt non le ha detto. In cucina con Mabel ce n’era
uno. Uno che non avevo mai visto prima, una specie di cuoca.»
Sulle braccia di Elsie dilagò la pelle d’oca. «Io ne ho scorto uno che
raffigurava mia madre in piedi dietro la finestra. Proprio dove c’era
l’impronta di quella mano.»
«Vede? Si stanno moltiplicando. Credo che il fuoco non faccia che renderli
più forti. E un fuoco non sarebbe mai stato appiccato, se non fosse stato per la
mia stupida…»
«I diamanti avresti potuto chiedermeli» intervenne Elsie. «Non ti avrei
detto di no.»
Sarah chinò il capo. «Mi vergogno tanto. È quasi come se… Non sono
riuscita a impedirmelo. Ma non sono solo io. Anche Hetta ne era
ossessionata, dagli Amici e dalla collana di diamanti. Ho consultato i
documenti portati dal signor Underwood, per scoprire tutto il possibile su
Anne. In genere i dati riguardanti le donne nel Seicento sono scarsi, ma su
Anne ho trovato qualcosa per… per via di come è morta.»
Elsie non ebbe il coraggio di chiedere.
«È stata messa al rogo» sussurrò Sarah. «Come strega.»
«Una strega? Sarebbe lei la strega di cui gli abitanti del paese hanno ancora
paura?»
«Sì. E ne hanno ben donde. I documenti dicono che ha ucciso delle
persone, Elsie. Ma nel diario non è cattiva. Credeva di avere usato la magia
bianca, gli antichi rimedi erboristici delle curatrici. Ma deve aver commesso
un errore. La sua povera bambina è nata senza lingua e qualcos’altro,
qualcosa di malvagio…»
Elsie non voleva crederci. In fabbrica, si era convinta che non era
possibile. Ma lì, di nuovo nella casa in cui era morto Rupert, e dov’erano
morti i fratelli di lui, la sentiva. La vecchia, antica paura. Nessuna ragione o
logica avrebbe potuto cancellare quella sensazione. Lei conosceva il male fin
da piccola… ne riconosceva la voce vellutata.
Qualcuno bussò alla porta. Sobbalzarono entrambe.
«Qualcosa di caldo.» Era la signora Holt.
«Avanti» disse Elsie con voce roca.
Entrò prima il profumo, sentori di noce moscata e melassa. Comparve la
signora Holt, con un vassoio e una tazza da cui salivano nuvole di vapore.
Aveva nuove rughe intorno alla bocca, che sembrava cucita. La cornea,
sempre giallastra, ora era piena di venuzze rosse.
Elsie prese la tazza. Le sue narici furono solleticate da un aroma di latte
zuccherato. Il suo stomaco implorava un po’ di sostanza, ma lei non riusciva
a bere. Non voleva deglutire niente che provenisse da quella casa. Non la
voleva dentro di sé.
«Signorina Sarah, credo che ora sia meglio che lasci tranquilla la padrona.
Ricordi che ha bisogno di riposo. L’ha detto il dottore.»
«Ma…» fece per dire Sarah.
«Devo davvero insistere. Mi scusi, signorina, ma il signor Livingstone non
mi perdonerebbe mai, se arrivasse qui e scoprisse che non ho seguito le
indicazioni del medico.»
Sarah accarezzò i capelli di Elsie, poi le si avvicinò all’orecchio e sussurrò:
«Tornerò dopo. Dovremmo dormire nella stessa camera, d’ora in poi. Da sola
non mi sento al sicuro».
Elsie annuì. Non chiese a Sarah cosa intendeva per “sola”. Nessuno era
veramente solo. Mai, nemmeno in quella casa.
Sarah raccolse la gonna e uscì dalla stanza. Elsie ne udì i passi sul
pavimento di legno, fino in biblioteca. La signora Holt rimase.
Lo sguardo della governante possedeva una durezza che Elsie non aveva
mai notato prima. «C’è altro, signora?» Quel “signora” le uscì con un suono
forzato, orribile.
«Oh, signora Holt. Mi dispiace tantissimo. Non riesco a immaginare come
deve sentirsi. Prima Mabel e poi Helen.»
«Amavo quelle ragazze come se fossero state figlie mie. Non volevano fare
del male a nessuno. E adesso sono stese, rigide, in cantina, e dovrò
seppellirle. Tutte e due!» La signora Holt crollò. Elsie distolse lo sguardo e la
lasciò piangere. Quel suono era terribile.
«Ho sbagliato a incolparle» provò a dire. «Non mi avevano ingannato, non
hanno ucciso la mia vacca. Adesso lo so. C’è qualcos’altro all’opera,
qualcosa in questa casa.»
Il viso della signora Holt si contrasse. «Ho amministrato questo posto per
quasi quarant’anni. Prima che arrivasse lei non avevamo mai avuto né
fantasmi né morti.»
«Prima che arrivasse Rupert» la corresse Elsie dolcemente.
«Sarebbero ancora vive se non fosse per lei. Se non fosse arrivata lei, a
ficcare il naso, ad aggirarsi dappertutto, ad aprire porte che dovevano restare
chiuse.»
«Cosa intende dire?»
«Non ha importanza.» La signora Holt si girò di scatto dall’altra parte.
«“Porte che dovevano restare chiuse”? Io non la capisco. Sta parlando del
solaio?»
Il torace dell’anziana donna si sollevava e si sgonfiava, facendo dondolare
la spilla con il cameo. «Doveva restare segreta. Me l’aveva ordinato il
vecchio signor Bainbridge il primo giorno che sono arrivata qui, di tenere
chiuso a chiave il solaio e non parlarne mai.»
«Ma perché?»
«Non lo so. Diceva che dentro c’erano delle cose, cose che turbavano sua
moglie. Libri.»
«Un diario?»
Mentre lo diceva le tornò in mente che di diari ce n’erano due. Due
volumi. Sarah non le aveva mai detto se aveva recuperato il secondo. Magari
era ancora lassù.
«Forse. Non ricordo che libri fossero. Non ho mai avuto motivo di
ripensarci, finché non è arrivata lei.»
Elsie strinse più forte la tazza. «Cosa… cos’è accaduto alla madre di
Rupert? Com’è morta?»
«Non saprei proprio.»
«Ma deve averne almeno un’idea. Quali sintomi aveva?»
«Le dico che non lo so! Per quanto mi riguarda potrebbe essere ancora
viva.»
Elsie era stupefatta. «Lei c’era» disse, incredula. «Me l’ha riferito lei. Ha
parlato di quando ha perduto la padrona.»
La signora Holt chiuse gli occhi e sembrò combattere con i ricordi. «No.
No, non è morta. Era…»
«Cosa?»
«Abbiamo perduto la signora Bainbridge, ma non perché sia morta. Era
malata di nervi. Alla fine, la sua mente ha avuto il sopravvento.»
Le mani di Elsie cominciarono a tremare. La tazza tintinnò sul piattino.
«Mi sta dicendo che il marito l’ha ricoverata in manicomio?»
La signora Holt le lanciò uno sguardo lunghissimo. «A padron Rupert non
l’abbiamo mai confessato. Gli abbiamo detto solo che era morta, e in un certo
senso era vero. Quella pazza non era la signora Bainbridge, non più. Io
conosco l’isteria, signora. Ho visto una donna impazzire a forza di leggere
romanzi e contrarre febbri cerebrali. Ho già visto lo sguardo che lei ha negli
occhi.»
«Ma io non sono pazza!» La signora Holt non rispose. «Sa benissimo che
non lo sono. Lei c’era, signora Holt. Ha visto gli Amici. Li ha visti ridotti in
cenere e ricomparire dal nulla.»
La signora Holt scosse la testa. «Forse è quello che succede alla mente
quando si perde un figlio… Che Dio mi aiuti. Non ho ascoltato i deliri della
precedente signora Bainbridge e non ascolterò certo i suoi.»
Girò sui tacchi, uscì dalla stanza a grandi passi e chiuse la porta. Elsie li
sentì echeggiare in corridoio e giù per la scala a chiocciola dietro la parete.

La notte trascorreva pesante e interminabile. Sarah era distesa nel letto


accanto a lei, i capelli radi e opachi sparpagliati sul cuscino. Il suo petto si
alzava e si abbassava sotto i volant della camicia da notte. Come faceva a
dormire?
Una finestra socchiusa lasciava entrare un filo d’aria nella camera
soffocante, ma non la rinfrescava; odorava di tepore ed erbe. Fuori, un
barbagianni strideva rivolto al suo compagno.
La madre di Rupert danzava il valzer nella mente di Elsie. Aveva dormito
in quella casa, passeggiato nei giardini. Era stata una pazza! Oppure una
vittima come lei? Ripensò alla culla sbrindellata e depredata della nursery e
rabbrividì.
Sarah si agitò. Il suo corpo riscaldava troppo le lenzuola, ma Elsie non si
mosse. Teneva gli occhi aperti, in attesa. Sapendo che sarebbe arrivato.
Sì.
Sss, sss. Un sibilo dolcissimo, sembrava una brezza che soffiava nella
stanza. Ma quella sera la brezza non si era levata.
Sss. Non riusciva più a sopportarlo. Doveva scoprire cos’era. Doveva
procurarsi il secondo volume di quel maledetto diario e scoprire ciò che
aveva scoperto anche la madre di Rupert.
Cauta, tirò fuori i piedi dalle coperte e li mise sul tappeto. Il letto frusciò,
ma Sarah non si svegliò. Elsie infilò una mano sotto il cuscino per prendere i
fiammiferi, che teneva là sotto come un talismano.
Sulla toletta, dentro una bugia, c’era una candela. Passando la prese. Pensò
di accenderla una volta arrivata fuori in corridoio, così avrebbe potuto lasciar
dormire Sarah e proteggerla dal pericolo a cui lei stava andando incontro.
Sss, sss.
Muoveva una gamba dopo l’altra, costringendosi a proseguire, la mano
tesa in avanti, per aiutarsi. Si aspettava da un momento all’altro il contatto
disgustoso con il legno.
Il palmo si scontrò con qualcosa. Sbatté le palpebre: era la maniglia della
camera da letto, solo la maniglia. Vi si appoggiò e si mise in ascolto, acuendo
i sensi per percepire il sibilo successivo, che non arrivò.
Aprì la porta a fatica, le unghie stridettero sul metallo quando impugnò la
maniglia. La abbassò e socchiuse la porta.
Urtò contro un muro di calore. Fu come aprire lo sportello di un forno. Il
profumo di rosa e timo la stordì, insinuandosi nella stoffa della camicia da
notte. Accendi la candela, accendi la candela. Né la luce né il fuoco
l’avrebbero protetta, ma ne aveva bisogno, come dell’aria che respirava.
Il fiammifero bruciò nella sua mano tremante, proiettando ombre
serpentine in corridoio. Lei non guardò fino a quando la candela non fu
accesa. Le ci volle tutta la concentrazione per avvicinare la fiamma allo
stoppino. Finalmente ci riuscì; spense il fiammifero e lo lasciò cadere,
fumante, a terra.
Presto, presto. Doveva muoversi ma la sua mano si rifiutava di alzare la
candela, o di fare qualcos’altro che non fosse stringere l’anello di metallo
fino a farsi diventare bianche le nocche. Sull’orlo del pianto, finalmente
riuscì a portare la candela davanti a sé. Il respiro le si mozzò nel petto.
Di fronte a lei si estendeva il corridoio color vino, striato d’ombre
incrociate. Pozze di argentea luce lunare punteggiavano la strada che portava
alle scale. Là l’attendevano tre Amici, gli occhi che brillavano, famelici e
rivoltanti.
Non doveva urlare, non doveva urlare. Erano soltanto dei pezzi di legno.
Pezzi di legno che possono muoversi.
Doveva essere più rapida, tutto qui. Poteva farcela, sì, poteva farcela. Era
come saltare, come accendere un fiammifero. Uno. Due. Tre.
La sua andatura era regolare, molto più del suo battito cardiaco impazzito.
Ogni volta che un piede toccava terra, la candela sobbalzava nella bugia. La
luce si alzava e si abbassava, ma la fiamma non si spegneva.
Mentre si avvicinava al primo Amico, dal tappeto si levò una nuvola di
segatura. In quella nebbia riuscì a distinguere la sagoma di una donna. Una
donna senza braccia.
Quando le fu accanto le si strinse la gola. La donna aveva lunghi capelli
arruffati e gli occhi pieni di una vivacità spaventosa. Le ricordavano
qualcosa. Li aveva già visti prima, quegli occhi, li conosceva bene…
Rupert.
La madre di Rupert, l’altra signora Bainbridge. Aveva le braccia nascoste
da una camicia di forza. Era inerme e implorava Elsie con un’espressione
così vera da penetrarle in fondo al cuore. Sotto il pulsare confuso del sangue
di Elsie emerse un gemito, sottile e patetico. La sentiva. Elsie sentiva
piangere la madre di Rupert.
La pelle le pizzicò, e poi si tese per lo shock del contatto, che però non
giunse. In qualche modo i suoi piedi avevano continuato a muoversi; le era
passata accanto, indenne, e si stava avvicinando all’Amico successivo.
Doveva essere la cuoca di cui le aveva parlato Sarah: nelle manone gonfie
stringeva una mannaia. Portava un grembiule macchiato di sangue e una
cuffietta che le copriva i capelli. Vernice rossa, è solo vernice rossa. Eppure
aveva l’odore rancido del sangue vero. Insieme al profumo delle rose e del
timo formava una combinazione nauseabonda e insopportabile.
Elsie superò anche quell’Amico, provando una paura superiore alla
precedente. Il terrore le permetteva di guardare solo di sbieco. L’ultimo lo
vide a malapena, era la vecchia con il bambino in grembo. Guidata dalla
memoria, svoltò, superò la galleria della torre nolare e si diresse alle scale che
portavano al solaio.
La scala era vuota. Sollevata, stordita dal suo stesso coraggio, si mise a
correre e fece i gradini due alla volta. Intorno a lei frullavano le ombre,
rifugiandosi negli angoli. Li aveva sconfitti. Avrebbe trovato il diario.
Mentre girava intorno al pilastro centrale e raggiungeva il pianerottolo, un
rumore la costrinse a fermarsi di colpo. Lanciò uno sguardo indietro, alla
scala. Erano tutti là, gli Amici che aveva oltrepassato, e barcollavano come
bambini che giocano a seguire i passi della nonna; uno sui gradini, gli altri
due nel corridoio, divisi da un intervallo.
L’avevano seguita.
Sss.
Alzò gli occhi: erano comparsi altri Amici, attirati da lei come mosche da
un cadavere. Montavano la guardia al passaggio intonacato di bianco che
portava alla soffitta. Sss. Si voltò di nuovo: l’Amico sulle scale si era mosso,
anche se di pochissimo.
Un centimetro alla volta, passo dopo passo, stavano per raggiungerla.
«Dio aiutami, ti prego, aiutami.»
Non riusciva a tenerli d’occhio tutti insieme.
Con un gemito di agonia, si staccò a fatica dalla balaustra e si lanciò nel
corridoio. La candela si spense ma lei non si fermò, non poteva farlo;
continuò dritto, senza soste. Non volevano che raggiungesse il diario e questo
era esattamente il motivo per cui doveva leggerlo. L’avrebbe letto anche se
fosse stato il suo ultimo gesto.
Superò gli Amici, prendendoli a spallate e gettandoli a terra sulle maioliche
olandesi. Ci sono quasi, ci sono quasi. Urtò qualcosa con il piede e per poco
non urlò di gioia. Era un gradino, il primo di quelli che portavano alla
soffitta.
Cercò affannosamente un altro fiammifero. La scatolina cadde frusciando a
terra, ma lei riuscì a prenderne uno, e a stringerlo forte in pugno. Lo strofinò
sulla parete e riaccese la candela.
La porta della soffitta era aperta.
Sss. Quel suono le faceva venire la nausea. Non poteva fermarsi: ce li
aveva alle calcagna. Salì a precipizio la scala, si girò di scatto e chiuse la
porta con un colpo. Appena in tempo. Dalla fessura del battente che si
chiudeva intravide un sinistro sorriso dipinto ed enormi occhi volpini.
I polmoni le si bloccarono in petto. Era una fatica immane respirare con
quella polvere e quell’odore di umidità, di sottosuolo che avvelenavano
l’atmosfera. Sentiva di stare per svenire ma doveva ancora percorrere la lunga
strada che la riportava alla sua camera. Se fosse riuscita a tornarci. E se le
avessero bloccato il passaggio? E se fossero riusciti a entrare?
Si guardò attorno, alla frenetica ricerca del diario. La polvere si levava
come piume in un pollaio. Quando l’aria si schiarì, scorse due occhi brillanti
color smeraldo.
«Jasper!»
Non era mai stata così felice di vedere un animale in tutta la sua vita. Si
precipitò al tavolo dov’era il gatto e vi appoggiò la candela. Affondò
avidamente le dita nella pelliccia. Il calore della pelle, il pulsare del sangue
dietro l’orecchio la confortavano oltre ogni dire. Un altro essere vivente, vivo
in maniera naturale. Non poteva aiutarla, ma avrebbe preferito affrontare gli
Amici con lui piuttosto che da sola.
Miagolando, Jasper si alzò e si chinò stiracchiandosi a lungo, con grande
goduria. Sfoderò e poi ritirò gli artigli, e così facendo impresse una piccola
tacca nella superficie sottostante. Era cuoio. Consumato e scolorito, ma
l’odore era inconfondibile. Jasper spiccò un balzo elegante fino a terra e
rivelò su cosa aveva dormito: Il diario di Anne Bainbridge. Elsie lo prese e se
lo premette al petto. Era ancora tiepido.
Avrebbe dovuto leggerlo lì, in quel momento, mentre ne aveva l’occasione.
Le sue dita sfogliarono le pagine ma non servì. Non riusciva a concentrarsi,
né a leggere. Per lei erano tutte parole senza senso.
Proprio in quell’istante lo sentì sulla spalla: tagliente come la lama di un
coltello. Con un urlo, si girò di scatto. Nell’attimo prima che la candela si
spegnesse, vide una bocca di legno guardarla con un sogghigno.
«No! Jasper!»
Il miagolio le arrivò dall’altro capo della stanza; sentì il rumore degli
artigli mentre le zampe aprivano la porta e lui scappava fuori. Jasper al buio
si orientava. Doveva soltanto seguirlo.
Incespicando e tenendo ben stretto il diario nella mano, ripercorse
goffamente la strada fatta fin lì, verso la porta e, più oltre, la scala. O almeno
pensava che fosse quella la via da cui era venuta. Non riusciva a vedere a un
palmo dal suo naso. Gli Amici dovevano essersi ammassati intorno alla porta:
li percepiva, sentiva la loro energia comprimere l’aria, malevola, piena di
odio.
Andò a sbattere con la mano contro un tavolo; alcuni fogli scivolarono a
terra. Non vedeva niente, non riusciva a respirare…
A un tratto il pavimento s’inclinò. Annaspò nell’aria e udì un grido
proromperle dalle labbra. Poi cadde.
Un angolo del diario le si conficcò nel torace quando si arrestò
bruscamente. Le gambe le bruciavano, aveva il petto contratto. Cos’era
accaduto? Lamentandosi, riuscì a muovere i piedi. Erano liberi, ma per il
resto era bloccata.
A un tratto la consapevolezza la colpì come uno schiaffo: le assi del
pavimento si erano aperte di nuovo. Era intrappolata nel buco in cui era
caduta Mabel.
Sss, sss.
Imprigionata, messa all’angolo. E intanto gli Amici si avvicinavano.
Cominciò a scalciare, come impazzita. Doveva rimettersi in piedi, ma
aveva una mano premuta forte al petto, per proteggere il diario, mentre l’altra
sventolava invano nel buio, incapace di aggrapparsi a qualcosa di solido.
Sss, sss. Più che vederli muoversi, li sentiva: il lento e doloroso
sfregamento della base contro il pavimento. Le venne la pelle d’oca.
Qualcosa di duro le premette contro la nuca.
«No, no, no!»
Con un’ultima, disperata convulsione, agitò le gambe.
Si udì uno scricchiolio lungo e basso. E a un tratto cadde, cadde, finché la
sua spina dorsale non si schiantò contro il pavimento.
Giacque paralizzata dallo shock e dal dolore.
Infine, con enorme difficoltà, voltò la testa e vide il cavalluccio a dondolo
oscillare accanto a lei. Il pavimento aveva ceduto. Era nella nursery.
Ospedale di St Joseph

Tutto cominciò con l’esplosione di un fischio: acuto, nasale, la strappò


brutalmente al sonno. Si alzò a fatica in un mondo ancora immerso nella
foschia.
Echeggiarono dei suoni: tonfi di scarponi sul pavimento, urla. Solo quel
fischio acutissimo fu distinguibile finché la porta non si aprì con uno
schianto. Nella stanza si affollarono i sorveglianti, ma non capiva bene quali.
Erano difficili da riconoscere, avevano tutti facce dure e piene di rughe di
ostinazione. Con braccia muscolose afferrarono le sue e gliele misero dietro
la schiena.
«Signora Bainbridge.» La voce del dottor Shepherd. Per un attimo il
sollievo la invase, ma lui scosse la testa bionda. «Signora Bainbridge, questo
non me l’aspettavo. Cos’è successo?»
Cos’era successo?
Lui indicò alla sinistra di lei. «Che ne è stato della scrivania?»
Lei si divincolava nella stretta dei sorveglianti, cercava di vedere. La
scrivania era implosa. I cassetti giacevano sparpagliati sul pavimento; alcuni
capovolti, altri sfondati. Il legno era segnato. Impronte di denti? Sì, denti. Ma
di chi?
Il dottor Shepherd si avvicinò e si accovacciò, come se stesse esaminando
un reperto scientifico. «Notevole. Davvero notevole. Come ha fatto a ridursi
così?»
La domanda era proprio quella. Un altro paziente si era introdotto nella
stanza mentre lei dormiva? Ma avrebbe dovuto accorgersene. Doveva essere
stato qualcuno con una chiave e la capacità di aprire e chiudere le serrature,
di muoversi senza far rumore quando…
Mio Dio, no.
Legno; venivano sempre dal legno.
Un’infermiera smunta con gli zigomi come lame fece un passo avanti. «È
stata lei, dottore. Distrugge tutto quanto.»
«Non ne sono sicuro» mormorò il dottor Shepherd.
«Come?»
Il viso di lui denotava confusione. Elsie se ne ricordava bene, dell’esatto
momento in cui aveva cominciato a dubitare dei propri stessi sensi.
«Innanzitutto, non credo che la signora Bainbridge sia abbastanza forte da
provocare tali danni. E poi guardatele le braccia. Non ha strappi nel vestito,
né tracce di sangue o di schegge sulle mani.» Prese una matita e diede un
colpetto a un cassetto. «Non comprendo come una persona possa fare una
cosa del genere senza procurarsi qualche ferita.»
«Quindi mi sta dicendo che la scrivania è implosa da sola?»
«No.» Lui si rimise in piedi e mordicchiò l’estremità della matita. «No,
naturalmente questo è impossibile. Ma voi avete sentito lo schianto? Chi è
che ha fischiato per farci arrivare tutti qui?»
«Sono stata io» disse l’infermiera sollevando il mento. «Ho sentito uno
strano rumore provenire da dentro mentre in genere è silenziosa come una
morta.»
«Ha sentito dei colpi? Doveva essersi messa al lavoro già da un po’, a
giudicare dallo stato della scrivania.»
«No, non dei colpi. L’ho sentito solo per qualche minuto. Sembrava… non
lo so. Un raschio, come se avesse una sega.»
Il dottore guardò Elsie negli occhi. «Si potrebbe dire» domandò, sempre
rivolto all’infermiera «che fosse una specie di sibilo?»
Le ginocchia di Elsie si piegarono.
«Sì, esatto, dottore. Una specie di sibilo raschiante.»
Dio, cos’aveva fatto? Non avrebbe mai dovuto scrivere la sua storia, né
cercare di ricordarla.
Il dottor Shepherd strinse le labbra. «Non importa. Chiami qualcuno a
pulire questo disastro. Fino a quando la stanza non sarà di nuovo agibile,
dovremo trovare alla signora Bainbridge una sistemazione alternativa.»
Il respiro di uno dei sorveglianti le bruciava nell’orecchio, odoroso di birra.
«Vuole che la sediamo, dottore?»
«No, no» rispose lui. «Lasciatela stare. La porterò nel mio studio.»
«Nel suo studio?» ripeté il sorvegliante incredulo.
«Sì. Ora liberatela, per favore. Le darò io il braccio.»
E le offrì il gomito, bianco e immacolato. Lei vi si aggrappò come una
donna in procinto di affogare.
L’infermiera e i sorveglianti borbottarono qualcosa mentre il dottore la
faceva uscire dalla camera.
Era passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva camminato come una
signora, scortata da un gentiluomo. E ora non era in grado di apprezzarlo. Il
terrore le logorava i nervi. Per fortuna il dottor Shepherd era giovane e forte,
perché dovette praticamente trasportarla giù per quei corridoi infiniti fino a
un passaggio dove l’eco si attutiva e l’intonaco delle pareti si sfaldava.
«Da questa parte» disse.
Nel suo racconto lei aveva combattuto con coraggio contro gli Amici. Ora
invece il dottor Shepherd doveva farle valicare la porta di peso e spingerla su
una sedia a rotelle come se fosse paralizzata. Non poteva parlare e si
muoveva a malapena. Cosa le era rimasto dentro, se non la paura?
Lo studio del dottor Shepherd era più piccolo di come l’aveva immaginato.
I muri erano dello stesso verde e bianco che impregnava il resto
dell’ospedale. Dentro c’erano una buona e solida scrivania e una lampada
d’ottone, ma poco altro. Sotto la modanatura notò una campanella, del tipo
usato per chiamare la servitù. Da qualche parte doveva anche esserci un
orologio perché lo sentiva ticchettare regolarmente, molto più lento del suo
polso impazzito.
«Mi dispiace che sia accaduto tutto questo, signora Bainbridge. La prego,
non si agiti. Con il senno di poi, avrei dovuto rendermi conto che poteva
verificarsi qualcosa di questa natura.» Si sedette dall’altro lato della scrivania
e sospirò. In quei giorni era un poco più pallido. Gli occhi erano più infossati.
L’ospedale lo stava prosciugando. «Gli indizi sono nella sua cartella. Quando
non può più sfuggire ai ricordi sgradevoli, il suo istinto naturale le dice di
combatterli. È comprensibile. Sfogare la rabbia, se indirizzata in maniera
corretta, può essere un gesto purificatore.» Tamburellò con le dita sulla
superficie della scrivania. «Ma è preferibile che io e lei lavoriamo sui suoi
sentimenti insieme, invece di lasciarli a briglia sciolta. Devo includere tutte le
mie osservazioni nella sua cartella e… be’, i gesti violenti non la mettono in
buona luce.»
Lei scrollò la testa, incredula. Quel sibilo! Come lo spiegava? E lui stesso
aveva detto che avrebbe dovuto riportare dei graffi o dei tagli, se fosse stata
lei a devastare lo scrittoio. Tese le mani per dirglielo, ma erano vuote: il
gesso e la lavagna erano rimasti nella sua camera.
«Sì» disse lui notando il gesto. «Ho pensato che fosse meglio lasciarli là.
Da quel che dice l’infermiera Douglas, lei ha iniziato a emettere qualche
suono. Anche se sono solo i rumori della sua storia… sto cominciando a
credere che quel “sibilo” sia più significativo di quel che immaginavo.
Sarebbe in grado di riprodurlo?»
Pensava veramente che lei ci avrebbe provato? Avrebbe fatto di tutto per
non sentirlo mai più, ma anche se si fosse assordata con le sue mani non se ne
sarebbe liberata e l’avrebbe risentito nei sogni.
«Signora Bainbridge?»
Per placarlo, aprì la bocca, espirò e poi la richiuse.
Il dottor Shepherd sospirò. «Be’, forse non subito.» Aprì un cassetto, con
un orribile tonfo legnoso che le fece digrignare i denti. «Mentre siamo qui,
c’è una cosa che le vorrei mostrare, signora Bainbridge. È una nostra vecchia
cartella, che ho trovato mentre cercavo la sua. All’epoca non ho ritenuto
importante che avessimo curato un altro Bainbridge, qui. Ma quando nel suo
racconto ha parlato della madre di Rupert, ho dato un’ulteriore occhiata.»
Tirò fuori una cartella e la mise sulla scrivania. La copertina era macchiata e
ne mancava un pezzo. «Questa era lei. Julia Bainbridge.»
Una piccola esplosione nel petto. La donna che piangeva, quella con gli
occhi di Rupert.
Tese una mano tremante ma il dottor Shepherd posò fermamente il palmo
sulla cartella.
«Temo che non contenga fotografie. A quei tempi non si usava. Ma l’ho
letta tutta e sono pronto a farle un riassunto.»
Non voleva che lei guardasse dentro. Perché?
Distrattamente, il dottor Shepherd cominciò a lisciare i bordi della cartella.
«Nella sua storia, lei sembra preoccupata al pensiero che l’altra signora
Bainbridge abbia sofferto di una malattia simile. Che sia stata turbata dalle
stesse circostanze che, in fondo, possono confermare le sue paure
soprannaturali. Ma ho pensato che l’aiuterebbe sapere che Julia in realtà era
un caso di gran lunga diverso. Ha sofferto di melanconia per tutta la vita, e in
particolar modo quand’era costretta a letto dalle gravidanze.»
Il tenore di quei singhiozzi, così diversi da quelli di Sarah o perfino da
quelli della signora Holt. Chiuse gli occhi, cercando di dimenticare.
«L’episodio fatale si verificò un’estate a The Bridge. Suo figlio, che aveva
cinque anni, tentò di saltare una siepe a cavallo del suo pony. Ma era troppo
alta. L’animale ne rimase irrimediabilmente ferito e dovette essere abbattuto.
Il bambino resistette qualche giorno in più, ma il cervello era troppo
tumefatto… Alla fine morì.»
La trapunta. Doveva essere stato disteso là sotto mentre Julia, torturata, lo
vegliava.
«Una concomitanza quanto mai sfortunata. Julia aveva dato alla luce una
bambina solo tre mesi prima. Le sue condizioni erano… instabili. Aveva
sviluppato una particolare ossessione per il cavalluccio a dondolo. Diceva di
averlo trovato graffiato qualche giorno prima dell’incidente, negli stessi punti
in cui poi il pony era rimasto ferito.»
Questo era già abbastanza brutto, ma c’era di peggio. Elsie si rese conto
che qualcosa era rimasto in sospeso sulle labbra del dottor Shepherd.
Lentamente, aprì gli occhi.
Stava fissando la cartella. Era come se vi vedesse attraverso, come se
stesse scrutando nel passato tormentato di Julia Bainbridge.
«A questo punto, i dettagli diventano confusi. Io ho il rapporto ufficiale, la
corrispondenza molto formale del marito della signora… e la trascrizione
della conversazione tra uno dei nostri medici e Edna Holt.»
Elsie trattenne il fiato.
«Mi ha incoraggiato sapere che la signora Holt conferma vari particolari
della sua storia. Per esempio, non fu presente alla morte dei due bambini ma
fu lei a curare Julia durante la malattia. Forse è l’unica consolazione di questa
storia tristissima.» Il dottor Shepherd la guardò negli occhi. Strinse le labbra,
incerto, poi disse: «Ufficialmente si trattò di soffocamento. I bambini
soffocano nel sonno, ogni tanto succede. Ma da alcuni accenni da parte della
signora Holt e del signor Bainbridge, credo che Julia abbia annegato la
neonata nella fontana».
Polmoni svuotati, una pressione al petto: li sentiva anche lei. La mamma
mi ha fatto male.
«Che tragedia» proseguì lui. «Ne deduco che la questione fu messa a tacere
fino a quando, naturalmente, nacque suo marito. Il padre e la governante
cominciarono a preoccuparsi della sua sicurezza. Julia parlava di
“proteggerlo”. La stessa parola che aveva usato per la piccola Alice. Non si
può biasimarli per avere preso provvedimenti drastici.»
Elsie pensò al suo bambino e al corno che sbucava dall’occhio di Helen.
Forse l’annegamento era una soluzione più dolce.
Il dottor Shepherd avvicinò la cartella a sé e ci appoggiò sopra le braccia
ripiegate. Non avrebbe avuto alcun bisogno di tirarla materialmente fuori,
sembrava che ne conoscesse il contenuto a memoria. «Nonostante tutti i
tentativi dell’ospedale, non ci fu nessuna guarigione. Julia restò qui dentro
per molti anni. Pare che sia morta, come suo marito, verso i quarant’anni, per
un problema cardiaco.»
Povera donna. C’era da stupirsi che le fosse rimasto un angolo di cuore da
farsi spezzare.
Il dottor Shepherd raddrizzò la schiena e perse quell’aria cupa. «Per quanto
strano possa sembrare, signora Bainbridge, le ho raccontato questa storia per
sollevarle il morale. Secondo me è la prova che da lei abbiamo ottenuto dei
ricordi autentici, per quanto…» aggiunse agitando la mano «arricchiti da
parecchi dettagli. Stiamo facendo dei progressi.»
Lei pensò alla scrivania, al sibilo. Proprio dentro la sua camera. Certo,
qualcosa stava facendo dei progressi.
Sperava soltanto che si trattasse di lei.
The Bridge, 1866

Respirare le faceva male. Per quanto ci provasse, non riusciva a trovare una
posizione comoda. Ogni volta che si muoveva, un pugnale le penetrava nelle
costole.
Le pareva di avere il naso schiacciato. Un occhio si era gonfiato al punto
che riusciva a vedere soltanto una lama di luce. Ora non aveva più dubbi: non
era pazza. Qualcosa stava arrivando per lei, con la stessa inesorabilità della
marea che lambisce la costa. Ma non sarebbe accaduto rapidamente. No.
Godevano nel vederla scappare.
Voltò la testa. Sotto c’era un cuscino; non era nella nursery. Qualcuno
doveva aver sentito lo schianto e averla trovata in mezzo alle macerie. Non
riusciva a ricordare. Tra una stilettata di dolore e l’altra, tutto perdeva
definizione.
In corridoio risuonarono dei passi accompagnati da una voce. Una voce
maschile, che lei riconobbe.
«Jolyon!» Quel nome le uscì come un rantolo quasi impossibile da udire.
Fece un tentativo di muoversi che la precipitò nell’agonia. Era sorretta da
cuscini su entrambi i lati ed era seduta ad angolo retto.
I piedi si fermarono davanti alla sua porta. Elsie attese. Non accadde nulla.
Non entrò nessuno.
Sforzandosi, udì una conversazione tra Jolyon e Sarah.
«Dorme ancora?»
«Credo di sì.» Sarah sembrava spenta. «Dio solo sa quante medicine ha
ingerito, signor Livingstone.»
«Tutta colpa mia. Non avrei mai dovuto lasciarla tornare qui da sola.»
«Non deve sentirsi in colpa.»
Jolyon disse qualcosa che Elsie non riuscì a sentire. Poi fu la volta di
Sarah. «Il dottore ha detto che si è incrinata due costole e si è slogata
malamente il ginocchio sinistro. È un miracolo che non si sia rotta niente. Ha
qualche ferita in viso, ma solo in superficie. Un sacco di graffi e
contusioni…»
«No» disse Jolyon… o forse era qualcun altro, perché il tono era troppo
aggressivo. «Non è questo che volevo dire. Non si può fingere che abbia
tenuto un comportamento accettabile, anche dopo tutto quello che ha dovuto
passare. Ma cosa credeva di fare, aggirandosi per il solaio a mezzanotte?»
Sarah balbettò qualcosa di incoerente. Probabilmente aveva cercato di
difendere Elsie, perché Jolyon ribatté: «Lei non la deve incoraggiare,
signorina Bainbridge».
La porta scricchiolò sui cardini. Elsie chiuse gli occhi, consapevole che
non sarebbe stata capace di nascondere il dolore che contenevano.
Dei passi sul tappeto.
«Elsie? Sei sveglia?»
Mormorò qualcosa e mosse la testa in direzione della porta, ma non aprì gli
occhi.
«È venuto a trovarla il signor Livingstone, signora Bainbridge.»
Alla cieca, lei tese la mano. Solo quando Jolyon la prese si rese conto che
al posto dei guanti aveva delle bende.
«Elsie. Come ti senti?»
Lei si inumidì le labbra, gonfie e screpolate. «Come se avessi combattuto
sul ring contro Tom Sayers. Però alla fine ho vinto. Avresti dovuto vedere in
che stato era la nursery.» Cercò di usare un tono allegro, ma non le riuscì
affatto.
«L’ho vista» disse lui. «Dei danni spaventosi.»
Con cautela, lei aprì l’occhio buono. Jolyon entrò fluttuando nel suo campo
visivo. Aveva un’aria orribile. I capelli spettinati spuntavano a ciocche da
dietro le orecchie e il mento era coperto di peli ispidi. Gli occhi erano opachi
e sottolineati da occhiaie violacee.
«Oh, Jo.» Sul viso le corse una lacrima. Avrebbe voluto allungare la mano
e accarezzargli la guancia, ma sotto quell’espressione preoccupata c’era
qualcos’altro, qualcosa che scottava. «Mi dispiace che tu sia dovuto venire a
occuparti di tutto questo. Dal giorno della morte di Rupert siamo stati
perseguitati dalla sfortuna.»
«Si direbbe proprio di sì.» Lui strinse le labbra. «Cosa ci facevi nel solaio,
Elsie?»
«Cercavo una cosa. C’era un…» Si interruppe quando vide alle sue spalle
Sarah, che scuoteva la testa e le faceva dei segni convulsi con la mano
bendata.
«Cosa?»
Sarah aveva ragione: non poteva dirgli del diario. Gliel’avrebbe portato
via, dicendo che la eccitava troppo, e avrebbe dovuto ricominciare con la
lavanda rossa e i bagni ghiacciati.
«Un gioiello» inventò. «L’aveva visto Helen e le piaceva molto. Ho
pensato che sarebbe stato un gesto carino se… se l’avessimo sepolto con lei,
nella bara.»
«Oh.» Un’esclamazione fredda, impersonale. «Capisco. E non potevi
aspettare fino alla mattina dopo?»
Gli aveva mentito per tutta la vita. Perché ora le risultava così difficile?
Forse le medicine menzionate da Sarah la rallentavano, ottundevano le sue
facoltà. «Io… non riuscivo a dormire.»
«No?»
«Nessuno di noi ci riusciva» intervenne Sarah, in tono acuto. «Non con
tutte le cose che sono accadute in questa casa.»
«No. Posso capirlo.» Jolyon lasciò la mano di Elsie e si infilò due dita
nella tasca del panciotto. La guardava ma non la vedeva. Aveva
un’espressione vuota, insensibile. Cosa doveva passargli per la mente?
Una volta lo conosceva molto bene. Il suo caro ragazzo. Ma non era più un
ragazzo, vero? Era un giovanotto, aveva sei anni in più di quanti ne aveva lei
quand’era morta la loro madre. Capace di tutto quello di cui era stata capace
lei, all’epoca.
Avere dei segreti con Jolyon era come una sua seconda natura. Ma se fosse
stato lui a tenerle nascoste delle cose?
«Guardi l’orologio, presto sarà ora di cena» disse Sarah. «Vuole che chieda
alla signora Holt di portarle su un vassoio, signor Livingstone?»
«No, scendo io a cenare con lei. Solo un altro istante.» A un tratto sgranò
gli occhi inchiodando Elsie al letto. Per un momento spaventoso, le parve
identico a suo padre. «Elsie, ho bisogno che tu mi dica cos’è accaduto con
Helen.»
«Lei… non lo so. Sono entrata nella sala da gioco e lei era lì… in quel
modo.»
«Peters dice che ti comportavi in maniera strana. Che eri agitata.»
«Davvero? Non me ne ricordo.»
«Dev’essere stata una scena impressionante» disse lui, sempre con quella
voce fredda e morta. «Peters ne è rimasto molto colpito. Si è licenziato.»
Be’, Peters non era uno stupido. Per come andavano le cose tra la servitù a
The Bridge, sarebbe stato un pazzo a non abbandonare la nave.
«Sul serio? Mi dispiace perderlo. È stato un cocchiere eccellente.»
Jolyon annuì. «Sì. Se ne sono andati anche il signor Stilford e i giardinieri.
Con tutte queste morti, è comprensibile. Dall’ultimo inverno il nostro
personale si è tristemente ridotto.»
«Signor Livingstone.» Sarah si avvicinò alla porta avvolgendosi
nervosamente intorno al dito una ciocca di capelli. «Ho appena sentito la
signora Holt suonare il campanello della cena.»
«Un’altra parola e ho finito. Elsie, venerdì seppelliremo Mabel e Helen. In
coscienza, non possiamo rimandare più a lungo. Vorrei che tu restassi qui a
riposare.»
«Ma…»
«Non ci sono ma. Non voglio sottoporti a fatiche inutili.» Mosse le labbra,
provava e assaporava una frase prima di pronunciarla. «Tu sei mia sorella. Mi
devi… obbedire.»
Obbedire. Quella parola le strinse il collo come una corda.
«Ora dormi un poco.» Si chinò a baciarle la guancia. Aveva le labbra
fredde e secche. «Dopo, la signora Holt ti porterà su qualcosa da mangiare.»
Andò alla porta e offrì il braccio a Sarah. «Andiamo, signorina Bainbridge?»
«Sì, certo. Ma prima lasci che dia la buonanotte alla signora Bainbridge.»
Sarah si avvicinò e ripeté quel bacio. Elsie sentì il suo alito scaldarle
l’orecchio. «Il diario è sotto il materasso. Non sono riuscita a leggerlo, l’ho
solo nascosto quando l’ho trovato, perché la signora Holt non lo vedesse. La
prego, mentre siamo a cena guardi. Scopra come possiamo fermare tutto
questo prima che sia troppo tardi.»
The Bridge, 1635

Verso le cinque ho salito arrancando le scale per andare a dormire. La neve


continuava a cadere spietata. Non si sarebbe fermata finché non avesse
cancellato ogni oggetto sotto un sudario bianco.
Avevo così freddo che non lo sentivo più. Intorpidita, dentro e fuori,
avanzavo come in un sogno. Ho creduto che facesse parte di quel sogno,
quando Josiah si è materializzato sul pianerottolo in camicia da notte e a piedi
nudi, a fissare le raffiche di neve fuori dalla finestra. Ma era vero; dalle narici
gli usciva un filo di vapore che appannava il vetro gelato. Appena mi ha
sentita si è girato di scatto.
«Sangue di Cristo! Anne, cosa ci fai in piedi a quest’ora?»
«Non riuscivo a dormire» ho risposto. Lui continuava a osservare prima
me e poi la finestra. Con una fitta di dolore, ho capito cosa pensava: scrutava
la tempesta e si chiedeva se l’avessi evocata io. «Il vento ti ha svegliato?»
Lui non mi ha guardato negli occhi. «No. Sono sveglio per un motivo. Tra
un’ora parto. Avevo intenzione di avviarmi un po’ più tardi, ma questo tempo
ci rallenterà il passo.»
«Parti?» Non avevo dormito e non riuscivo a pensare chiaramente. Le
tempie mi pulsavano per la stanchezza. «Dove andrai?»
«Sai benissimo dove.»
Poi mi è tornato in mente: Merripen. Josiah avrebbe contemplato quel
ragazzo penzolare da un cappio mentre lo squartavano e le sue interiora
emanavano vapore nell’aria invernale. Mi sembrò di vederle, putrefatte, nere
come il carbone.
«Josiah, non puoi andare! Non puoi metterti in viaggio con questo tempo!
Sarebbe una follia.»
«Devo provarci. Ho già spedito alcuni uomini a scavare una trincea che
porti al ponte.» Sono gli uomini che cavalcano con lui, non la servitù invitata
al banchetto di ieri sera. Una circostanza fortunata, perché sono certa che se
l’avesse mandato fuori con una pala stamattina, Mark sarebbe caduto dentro
un banco di neve. «Voglio essere il primo a dire al re che giustizia è stata
fatta.»
Ho posato la mano sulla sua spalla per un istante prima che si ritraesse.
«Davvero, marito mio, non vale la pena che rischi la salute. Dubito che in una
giornata come questa porteranno a termine l’esecuzione.»
«Ti piacerebbe, non è vero?» Il ghiaccio che scricchiolava nella sua voce
era infinitamente più freddo del vento fuori. «Tranquilla, Anne. Farò in modo
che la condanna venga eseguita.»
La paura ha stretto le dita intorno al mio cuore. Sarebbe accaduto qualcosa
di terribile. L’ho sentito, con la certezza con cui sentivo lui accanto a me.
«Josiah!» l’ho implorato. «Non agire d’impulso! Potresti morire!»
È stato allora che l’ho notato: l’antico gesto che avevo visto già mille volte.
Ma mai da parte sua. Non avrei mai sognato di vedere mio marito incrociare
le dita davanti a me, come se fossi una strega. «Non mi lanciare il malocchio.
Hai già fatto abbastanza, mia signora.»
Si è girato ed è tornato a grandi falcate in camera sua.
La mia era straordinariamente gelata. Con i servi a festeggiare di sotto,
nessuno aveva acceso il fuoco. Anche l’inchiostro che uso per scrivere il mio
diario si era congelato nella boccetta, così l’ho tenuto stretto tra i palmi
mentre entravo, completamente vestita, sotto le coltri. Le lenzuola erano così
fredde che sembravano umide.
Devo avere dormito, perché mi sono svegliata con la sensazione di cadere
che mi ha fatto trasalire. Dalle finestre penetrava scintillando una luce fredda
e bianca: avevo dimenticato di chiudere le persiane. Il sole stava sorgendo ma
nessun servo mi aveva portato la mia bevanda mattutina.
Sfinita, sono scesa dal letto, consapevole che tanto non sarei riuscita a
riaddormentarmi. C’era qualcosa di strano. L’ho sentito, fastidioso, come una
striscia di pelle lacerata. Forse potevo andare in cucina. Se da qualche parte
era stato acceso il fuoco, era sicuramente lì.
Ho disceso le scale incespicando, con gli occhi appannati. Sono stata
fortunata. Nel focolare danzavano fiamme arancioni e sopra era stata appesa
una pentola. Jane non era più stesa sul pavimento, ma seduta a tavola con uno
degli uomini di Josiah. Erano entrambi pallidi come fantasmi.
«Cos’è successo?» ho domandato. Al suono della mia voce sono balzati in
piedi. «Tu» ho detto all’uomo, «perché non stai viaggiando al fianco del tuo
padrone?»
Lui ha inspirato. «Ero con lui» ha risposto. «Il padrone mi ha ordinato di
tornare qui con un messaggio. C’è qualcosa di cui… bisogna occuparsi.»
Jane fissava il tavolo pieno di scalfitture.
«Cosa?»
«Una circostanza sgradevole. Non ve ne preoccupate, padrona, ci
penseremo noi…»
Mi si è stretto lo stomaco. «A cosa?»
Lui e Jane si sono scambiati un’occhiata. Ce l’avevano inciso sulla fronte,
il sospetto che nutrivano nei miei confronti. Non sapevano quanto potevano
tenermi nascosto.
«C’è qualcosa… qualcosa nel fiume» ha detto lui.
La consapevolezza è piombata su me.
«No» ho urlato. «No, no!»
Mi sono lanciata verso la porta. Sapevo che sarebbe stato inutile, ma
dovevo vedere con i miei occhi.
Ho socchiuso il battente per non far entrare la neve e sono uscita in cortile,
barcollando. Nulla si muoveva. Nessun suono. Tutto era caduto sotto un
incantesimo candido.
Irrigidendomi per difendermi dall’aria tagliente, ho seguito il sentiero
tracciato dagli uomini di Josiah e dai loro cavalli, già coperto da un velo di
neve fresca, muovendo con fatica un passo alla volta. Dopo qualche minuto
le mie scarpette erano fradice. Tenevo la gonna raccolta con una mano, ben
sopra le caviglie, ma la stoffa si impregnava di neve e mi appesantiva.
Battevo i denti. Fiocchi di neve così freddi da far male come se fossero di
brace mi frustavano il viso. Un vento sprezzante mi aggrovigliava i capelli.
Sapevo che se fossi rimasta fuori molto più a lungo, ne sarei morta.
Finalmente ho intravisto i leoni di pietra del ponte. Dalle loro fauci
ringhianti pendevano dei ghiaccioli. Mi sono avvicinata incespicando a uno
dei due, i nervi tesi e pronti a contemplare l’orrore.
Ma non c’era niente. Soltanto un ponte deserto che scintillava di brina e il
fiume, di ghiaccio solido.
Esausta, mi sono appoggiata al leone di pietra. Era così freddo che il mio
guanto vi si è appiccicato.
Ho fatto una pausa, ansimando e cercando di raccogliere le forze per
tornare faticosamente a casa. I polmoni mi dolevano. Ero troppo stanca per
provare una sensazione come il sollievo.
È stato allora che l’ho vista, con la coda dell’occhio. Ho sbattuto le
palpebre e ho guardato di nuovo il fiume. Ho scrutato attentamente quel
ghiaccio opaco, grigio argento.
Da dentro quell’acqua solidificata mi fissava una faccia.
Due occhi scuri rivolti al cielo. Capelli neri che si allargavano come
tentacoli sulle spalle. Doveva essere inciampata nei rovi che infestavano la
riva ed essere caduta dentro, perché ce li aveva tutt’intorno, e la tenevano
ferma. Labbra e mani erano premute contro il ghiaccio nella spaventosa
imitazione di una bambina che tenta di guardare attraverso una finestra. La
bocca aperta cercava un’aria che non sarebbe mai arrivata. L’ho sentita
parlare, mentre sprofondavo in ginocchio in un banco di neve.
«Pietà.»

Sono stata una codarda. Incapace di sopportare la vista di quella povera


zingarella, sono tornata strisciando al caldo, alla vita e alle comodità. Non ho
impartito a nessuno l’ordine di recuperare il cadavere. In un silenzio vile, ho
lasciato che gli eventi mi scivolassero addosso. Sono stati gli uomini di
Josiah a fare ciò che andava fatto.
«Io torno a letto» ho detto a Jane. Non a dormire, perché se avessi chiuso
gli occhi quel viso devastato sarebbe riemerso davanti a me. Ma almeno nel
letto potevo nascondermi, sommergermi nel calore delle coperte e chiudere a
chiave la porta.
Jane si è alzata goffamente. Ho notato che si reggeva al bordo del tavolo.
«Avete bisogno che vi aiuti a slacciare le vesti, padrona?»
«No, mi arrangerò. In realtà, non credo che ce la faresti, con un corsetto.»
Le ho toccato le mani, scosse da minuscoli tremiti. Non sembrava in grado di
controllarli. «Hai tanto freddo, Jane?»
«Credo di sì, padrona. Non mi sento più le gambe.»
Mi sono accigliata. Il fuoco scoppiettava bene. Il calore colpiva la mia
pelle gelata con fitte dolorose. «Siediti vicino al focolare e scaldati un po’ di
vino speziato. Non voglio che ti buschi un raffreddore.»
Lei mi ha ringraziato, ha detto che sono una padrona gentile. Avrei voluto
risponderle che la mia gentilezza proviene da una riserva interiore di buona
volontà, ma che a rendermi generosa è un vero e proprio terrore. Il terrore di
avere già lasciato morire congelata una fanciulla, e il non sopportare di
averne un’altra sulla coscienza.
La mia gonna lasciava una traccia umida sulle pietre del pavimento mentre
mi trascinavo nel salone e su per le scale. La stanchezza cominciava a
sopraffarmi. Febbricitante e tremante, ho vagato nella casa vuota. Nessun
servo si è mosso. Tutto ciò che restava dei festeggiamenti della sera prima
erano i colpi di tosse secca che risuonavano dal solaio e ogni tanto qualche
conato. Jane mi aveva informato che un paio degli uomini aveva vomitato
durante la notte. Percepivo l’odore: pungente, acido e disgustosamente
cremoso. Secchio e scopa giacevano abbandonati sul pianerottolo del primo
piano, ma non sono riuscita a vedere il proprietario.
Forse in un altro momento ne sarei rimasta seccata. Dopotutto Josiah aveva
concesso loro un giorno di riposo per i festeggiamenti, ma non li aveva certo
dispensati dai doveri del giorno seguente. Ma chi sono io per parlare di
doveri? La nostra famiglia è in rovina e due zingarelli sono morti, tutto a
causa mia. Non posso certo rimproverare i miei domestici.
Ho rimpianto la mia compassione verso Jane nell’istante in cui sono
riuscita a raggiungere la mia camera. È stata una fatica abominevole,
manovrare il mio corpo intorpidito per fare in modo di liberarlo dagli abiti
fradici. Li ho lasciati cadere a terra e mi sono guardata la pelle: ancora umida
e leggermente lucida. Mi sono asciugata le braccia con un telo pulito, ho
preparato e acceso il fuoco e poi mi sono ritirata nel letto con il mio diario. E
ci sono rimasta.
Il diario non mi conforta come mi accade di solito. Credevo che sarei stata
in grado di scrivere a lungo del rimorso che mi consuma, un pezzo alla volta;
di spiegare come i dettagli inquietanti di ieri sera continuino a rigirarmi nella
testa. Se soltanto avessi fatto questo. Ma adesso scopro che alcuni rimorsi
sono troppo profondi per essere espressi a parole. Il linguaggio è
insufficiente. Non posso fare altro che ricordare quel viso. È l’immagine di
cui ho bisogno per confessare il mio crimine. Tutto il mio incommensurabile
e dilagante senso di colpa è espresso perfettamente da quei due occhi velati di
ghiaccio.
Dev’essere inciampata. Dev’essere inciampata nei cardi e caduta nel
fiume. Quando chiudo gli occhi la vedo: incespica nella neve, le piante le si
attorcigliano intorno alle caviglie. Ha portato con sé i miei diamanti in quella
tomba d’acqua? Le pietre che Josiah aveva scelto con tanta speranza e
orgoglio? Se è andata così, è giusto. L’uomo che ha acquistato quei diamanti
e la donna che li ha indossati sono scomparsi. Io non li riconosco più.
In casa regna un silenzio snervante. Ogni volta che si sente un suono,
echeggia come se rivestisse un significato profondo. Dalla finestra scivolano
delle gocce mentre i ghiaccioli si sciolgono. Sopra di me, qualche colpo
proveniente dal solaio. E da sotto un gran fracasso: immagino che Jane abbia
lasciato cadere una padella con le dita tremanti.
Mi chiedo cosa stia facendo Hetta nella nursery, con i suoi Amici di legno.
Dovrei andare da Lizzy, lo so, e dirle cos’è accaduto alla zingarella. Merita di
saperlo da me. Ma che Dio mi perdoni, non riesco a sopportare l’idea di
assistere al suo sgomento.

Mi sono davvero interrotta a questo punto? Al sicuro e stanca nel mio letto?
Ci sarei dovuta rimanere. A ripensarci, allora ero felice.
Darei regni interi per non dovermi guardare alle spalle e vedere gli eventi
delle ultime ore. Ma di regni non ne possiedo; soltanto fardelli, di cui devo
liberarmi. Bisogna che deponga da qualche parte la verità.
Le immagini vorticano e non riesco a riordinarle. Devo riflettere. Dove mi
trovavo? A letto? Sì: a letto che dormivo, perché le fatiche di ieri notte e
arrancare nella neve finalmente mi avevano sopraffatto. Mi sono svegliata
sentendo dei singhiozzi, così teneri da spezzare il cuore.
Sono scesa dal letto a fatica. L’aria ghiacciata mi ha subito svegliata.
Dall’armadio ho preso un mantello asciutto, me lo sono buttato sulle spalle e
ho aperto la porta. Nulla si muoveva. I gemiti si intensificavano e svanivano
come un’onda gentile.
Con nell’anima un vuoto straziante, ne ho dedotto che si trattava di Hetta,
che piangeva per Merripen, oppure soltanto per la sua esistenza solitaria.
Un pezzetto minuscolo del mio cuore si crepava a ogni singulto che
sentivo. Ma ero comunque troppo egoista, troppo spaventata. Non sono
andata a consolare mia figlia: non avrei saputo affrontarla. Sono tornata in
camera mia, mi sono infilata un abito da giorno e sono scesa di sotto.
Ma non ho notato tracce di movimento della servitù. La cosa mi ha turbato.
A giudicare dal sole doveva essere già passato mezzogiorno. Nessuno mi
aveva portato da mangiare o controllato se avessi bisogno di aiuto. In casa
mia questo non accadeva mai.
Prima di arrivare in cucina ho udito un tonfo e un tintinnio metallico simile
a quello delle padelle. Ho pensato che dovesse essere la cuoca. Il mio
stomaco brontolava: erano passate molte ore dall’ultima volta che avevo
mangiato. Ma con mia grande sorpresa, quando ho aperto la porta e sono
entrata nel raggio tiepido delle fiamme del focolare, ho scoperto che la cucina
era vuota.
Nell’aria aleggiava un odore strano, di muffa.
Ho anche trovato indizi di presenze recenti: da un lato un tagliere con le
erbe di Hetta, gli steli in parte tritati e il coltello ancora bagnato, lucente e
sporco di verde. Forse la cuoca era scesa in cantina?
Ho imboccato la porta che conduceva in un corridoio umido. Sembrava di
essere in una caverna. Mi ero dimenticata di prendere la lanterna e faticavo a
vedere. Ho proseguito in maniera strana, a tentoni, incapace di muovermi
rapidamente.
La porta della cantina era aperta. Da dentro non giungeva alcun rumore di
movimento. Ho bussato. Nessuna risposta.
Ho infilato dentro la testa. È una stanza cavernosa con in fondo una fila di
ganci per la carne. Animali morti mi fissavano con i loro occhi opachi simili
a biglie e nell’aria c’era un odore così forte e primitivo da farmi venire la
pelle d’oca.
La cuoca non si vedeva.
Sono entrata. «C’è nessuno?»
Il tavolo era quasi completamente occupato dal costato spaccato di una
cerva. Ho notato che la mannaia era ancora conficcata in un pezzo di carne.
Un altro passo. Con la testa ho picchiato contro un uccello morto appeso al
soffitto. Sbattendo le palpebre, l’ho spinto via, sputando piume. L’animale
era per metà liscio e per metà piumato, come se qualcuno avesse cominciato a
spennarlo ma si fosse arreso. E adesso che ci pensavo, in casa erano stati
sospesi troppi lavori di quel genere: il secchio abbandonato, le erbe
parzialmente tritate.
Una carcassa ha cigolato appesa al suo gancio.
«C’è nessuno? Cuoca?»
Nessuna risposta. Ormai quasi spaventata, mi sono avvicinata ai ganci.
Non so che cosa mi aspettavo: che qualcuno saltasse fuori da dietro una
carcassa, forse, o che uno di quegli animali si risvegliasse a un tratto con un
guizzo. Concentrata su quelle paure, non ho pensato di guardare a terra. Il
piede mi è scivolato su qualcosa di molle e, in un istante, il mio corpo è
piombato sul pavimento di pietra.
Senza fiato, sono rimasta lì distesa, stupefatta.
Al mio fianco si stendeva una sagoma lunga e informe. Disgustata al
pensiero che potesse essere una vacca morta, caduta dal gancio, ho scalciato
per respingerla, ma quella massa nera è semplicemente rotolata su un fianco,
da cui si è disteso un braccio.
Era un essere umano.
Il mio urlo ha echeggiato. Mi sono messa a sedere e usando i palmi mi
sono trascinata indietro. Ora vedevo la faccia: era la cuoca.
Reprimendo la nausea, ho allungato una mano tremante e le ho sfiorato la
guancia. La pelle era fredda come marmo. Sarebbe stato impossibile salvarla.
Dovevo uscire da quella stanza. Mi sono aggrappata al tavolo insanguinato
e mi sono rimessa in piedi. Fremevo, ma non sono crollata. Cerca aiuto,
urlava la mia mente. Jane, Mark, chiunque.
Mi sono precipitata nel corridoio di pietra e ho raggiunto la cucina tiepida.
Nell’aria c’era ancora quell’odore di muffa.
«Aiuto!» ho urlato. «Qualcuno mi aiuti! Sono in cucina.»
Regnava il silenzio.
È stato allora che nella mia testa è strisciato quel pensiero subdolo e
terribile? Una parte di me deve aver saputo, perché i piedi mi hanno fatto
uscire dal passaggio della servitù e mi hanno condotto nella dispensa.
Prima ho sentito la puzza: vomito, e un odore acre da letamaio. In una
pozza di liquido viscoso giacevano alcuni cocci di stoviglie, coltelli macchiati
e, lì accanto, le mie due giovani sguattere.
Occhi iniettati di sangue che fissavano il soffitto. Labbra imbrattate di
scuro e pelle maculata di giallo e rosso.
«No» ho balbettato, «no.»
Quasi inconsapevole di quel che stavo facendo, sono corsa in cucina. Poi
mi sono fermata. La stanza ondeggiava intorno a me come se fosse fatta
d’acqua. Mentre i miei occhi si snebbiavano, ho messo a fuoco l’orribile
tagliere. Sulle erbe mezzo tritate, ho scorto quel che prima non avevo notato.
«No.» Le mie dita hanno sfiorato gli steli umidi, cosparsi di macchioline
violacee.
Ho preso il coltello e ho raggiunto affannosamente la porta. Non poteva
essere vero. Se avessi dovuto percorrere dieci miglia di fretta tra la neve con
quel vento crudele che mi strappava gli abiti, avrei potuto dimostrare che non
era vero.
L’orto di Hetta era ricoperto da una spruzzata di neve e brina. Ho affondato
le mani nude tra le erbe. Il cardo avviluppava tutto. Da un angolino della
mente, riecheggiavano dentro di me le parole di Harris: striscia. Ho
impugnato il coltello e mi sono fatta strada a forza di sciabolate.
Graffiata e sanguinante, ho scavato finché la neve non è scomparsa. E là,
nascoste sotto il cardo azzurro-grigiastro, crescevano piante che non avevo
mai notato, io che tanto mi vantavo della mia seconda vista. Giusquiamo,
aconito e soldinella. Verbena per le stregonerie. E infine, proprio in fondo, le
bacche scure della belladonna.
Le dita mi sono diventate molli; il coltello è caduto nella neve, senza far
rumore.
Era vero. Ed era peggio di quanto avessi immaginato.
Il ricordo mi ha investito con una forza impossibile da negare. Ho visto in
un lampo alcune immagini: la pozione; le cesoie arrugginite; il viso freddo e
impassibile di Hetta; un antimasque di fumo e luci rosse, in cui saltabeccava
un diavoletto in maschera alto come un bambino.
«Santo Dio» ho sussurrato. «Santo Dio.»

Non ricordo quanto sono rimasta inginocchiata lì insieme alle erbe amare
seminate da mia figlia. Quasi non sentivo il freddo che mi artigliava il viso o
il ghiaccio che diventava acqua sotto la mia gonna.
Josiah aveva sempre avuto ragione. Con le mie pozioni e i miei
incantesimi, avevo evocato qualcosa di malvagio. Ero stata io a crearla. Sono
peggiore di una strega.
La mia bambina. Marcia fino al midollo. Ogni ricordo della sua infanzia
acquista una sfumatura sordida, vergognosa. Era stata un demonio fin dentro
l’utero? Ma certo che sì. Cos’altro sarebbe potuto essere, innaturale e distorta
insieme?
Ora ha nove anni e il suo potere è al massimo. La nona ora, quella in cui è
morto Cristo. Ma ha iniziato a complottare anche prima. Quella che avevo
scambiato per amicizia con lo zingarello dev’essere stata un’esca. Ha fatto in
modo di riversare su di lui la colpa, ma è stata lei a uccidere il cavallo. E
adesso ha ucciso anche i miei servi.
Non so se una bambina creata da mani umane possa avere un’anima.
Eppure una cosa la so: la punizione per i peccati di Hetta verrà comminata a
me, nel giorno del Giudizio. Sono stata io ad assassinare quei servi quando ho
preparato la mia pozione: si è trattato soltanto di una combinazione di erbe
diverse.
Devo avere commesso un errore. Una proporzione negli ingredienti, una
parola nell’incantesimo. Non ho generato una bambina. Ho fabbricato un
mostro.
Vorrei poter dire di aver trovato il coraggio di entrare ad affrontare Hetta,
ma alla fine il gelo mi ha piegato. Il sole si è coricato presto, spolverando le
nuvole di rosa e grigio, come madreperla. Le mie dita tremanti hanno cercato
il coltello al mio fianco.
La gonna mi si era irrigidita per il freddo. Mentre avanzavo incespicando
verso casa mi sembrava di avere una catena intorno alla vita; anche i miei
pensieri strisciavano, non erano in grado di stabilire il comportamento che
avrei dovuto adottare. Cos’avrei dovuto dire alla mia famiglia? Lizzy adorava
quella bambina e non mi avrebbe mai creduto.
Poi l’immagine è bastata a mozzarmi il fiato.
Lizzy.
Mi sono messa a correre. Inciampando, cadendo, priva di controllo sulle
gambe, sono entrata vacillante dalla porta del cortile. La casa puzzava di
morte. Tossendo nella manica del vestito, mi sono trascinata fino al salone.
Ho salito a passi pesanti le scale mentre dalla gonna schizzavano schegge
di ghiaccio. La paura mi attanagliava il petto mentre mi avvicinavo alla
nursery.
Sono giunta alla porta. Il passero di Hetta, dentro, cinguettava. Una volta
avevo trovato dolce quel canto, ma adesso era come un richiamo, un richiamo
per i morti, per le loro anime, per portarle via da lì.
Ho esitato. Poi ho spalancato la porta.
I miei occhi non volevano accettare ciò che hanno visto. Hanno registrato
le foglie sul pavimento, gli Amici muti ordinati nella stanza come il pubblico
di un dramma e Lizzy distesa sulla schiena. Dorme, dicevano i miei occhi.
Dorme. Ma aveva qualcosa intorno al collo. Dei viticci. Una corda fatta di
viticci e rampicanti.
Mi sono ricordata i respiri affannosi che avevo sentito poc’anzi. Non era
Hetta che piangeva e singhiozzava: era Lizzy.
Hetta si è girata verso di me. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho
messo a fuoco tutto quanto. Ho visto la mia più vecchia amica, la donna che
avevo amato come una madre, con la vita strozzata via dal corpo e in piedi
sopra di lei il mostriciattolo che un tempo chiamavo “figlia”.
Nel suo viso non c’era traccia di rimorso, soltanto un odioso e smaccato
trionfo.
Impugnavo ancora il coltello.
Che Dio mi perdoni.
Ora tutto tace. Il passero siede immobile nella sua gabbia. Per l’intera casa,
i cadaveri si irrigidiscono e marciscono mentre il sangue di Hetta penetra tra
le assi del pavimento e scorre fino agli Amici, i suoi unici, veri compagni.
Guardo la pozzanghera rossa coagularsi tra i rampicanti e diventare color
ruggine, lo stesso bruno della pozione che ho bevuto tanti anni fa.
So cosa ne sarà di me: Josiah e i suoi uomini mi troveranno sola in una
casa di morti. Manderanno a chiamare l’inquisitore. I pettegolezzi mi
accompagnano da tempo. Brucerò sul rogo.
È la morte più orribile di tutte. Potrei evitarla: il coltello è ancora affilato.
Dovrei tagliarmi i polsi con la lama appiccicosa e salvarmi. Ma sarebbe
troppo bello per me.
Sono stata io a evocare il demone. Ho bisogno del fuoco purificatore della
collera divina.
Ho bisogno di sentirmi lambire dalle fiamme.
The Bridge, 1866

Venne il mattino e la pendola del salone batté le dieci prima che Sarah
tornasse. La luce del sole si riversava nella stanza dalle tende scostate e
allungava la sua ombra ad angolo sulla parete. Indossava l’abito lavanda e
sembrava rimpicciolita. Quando entrò non sorrise, le bende le pendevano di
dosso come da una mummia appena risorta dalla tomba, e reggeva una
scodella d’acqua.
«Sarah, grazie al cielo. Credevo che non ti avrei rivista mai più.»
«Sono venuta a cambiarle le fasciature» rispose Sarah a voce alta. «Va
fatto, per evitare infezioni.» Chiuse la porta con un calcio e si mise a
sussurrare. «Ecco, così guadagneremo un po’ di tempo.»
Elsie la guardò posare le strisce di lino e la scodella sulla toletta. «Cosa
c’è, Sarah?»
Sarah lanciò un’occhiata alle sue spalle. «Tra un momento. Venga, mi dia
la mano.» Si sedette accanto al letto e si mise in grembo la mano di Elsie, che
fece una smorfia mentre Sarah le staccava dal palmo un pezzo di stoffa,
incrostato di sangue secco.
«E allora? Parla!»
Sarah tacque un istante, ben sapendo che non sarebbe mai stata capace di
descrivere la disperazione e l’agghiacciante senso di colpa di quelle ultime
pagine. La voce di cui aveva bisogno apparteneva ad Anne, a un’altra epoca.
«Aveva ragione. Su Anne. Non aveva intenzione di nuocere a nessuno. Si è
trovata al centro di una serie di eventi terribili che non è stata in grado di
controllare.» A Elsie mancò il fiato, ma non ebbe bisogno di fingere: nello
stesso istante la benda cadde, esponendo all’aria le sue ferite. Erano quasi
tutte coperte da una crosticina, ma un paio spurgavano ancora.
Strano che le sue mani stessero guarendo più rapidamente del taglio di
Sarah. A quel punto, anche un’infezione avrebbe dovuto essere rimarginata.
«Ma che ne è stato della povera Hetta?»
«Anne… è stata Anne a ucciderla.»
«Ha ucciso la sua stessa figlia!»
«Ha dovuto!» Un impeto difensivo che non aveva nulla a che fare con
l’antenata. «Quel male di cui parlava lei. Una pozione e un incantesimo? Il
male era in Hetta. Dentro di lei. Anne ha dovuto ucciderla e salvare ciò che
restava della sua famiglia. Ha dovuto salvare i suoi ragazzi.»
Sarah si accigliò, pensierosa. Bagnò una pezza nella scodella d’acqua e la
passò dolcemente sul palmo di Elsie. Le ferite sospirarono di sollievo. «Ma
allora non è il fantasma di Hetta a perseguitarci?»
«Non proprio. È molto più di questo. Io credo… Gli Amici erano presenti
quando Hetta è morta. Anne scrive che il sangue è colato sul pavimento fino
ai loro piedi. L’hanno assorbito, capisce? E così il male è stato trasmesso.»
«Ma che cosa vuole?»
«Non ne ho idea.» Le entità malvagie hanno desideri e necessità? Certo
che no, questo le renderebbe troppo umane. Non più una contrazione dalle
profondità dell’abisso, ma qualcosa di senziente che poteva emergere in
chiunque. In lei.
«Forse quel male cerca qualcosa.» Il fiato di Sarah era bollente sulla sua
pelle. «Cerca… un ospite permanente.»
Cadde un silenzio di tomba, mentre riflettevano sulle implicazioni di quella
possibilità. Schegge. Su Rupert, sul bambino. Qualcosa che tentava di
entrare.
Sarah srotolò una benda fresca e la premette al centro del palmo di Elsie.
«Finché resta negli Amici, è intrappolato dentro la casa.»
«Allora dobbiamo fermarlo, prima che possa fuggire.»
Sarah fasciò le ferite di Elsie e fece un nodo alle bende. Poi, finalmente,
espirò. «Non possiamo fermarlo. Non abbiamo tempo. Possiamo soltanto
scappare.»
«Scappare?» esclamò Elsie. «Non possiamo metterci a correre e basta! E se
fa del male ad altre persone?»
«Forse lo farà. Ma le altre persone non mi interessano. Io mi preoccupo
solo di lei.» Elsie avrebbe voluto ritirare la mano. Negli occhi di Sarah c’era
qualcosa che pretendeva troppo. «Mi stia a sentire, la prego. Sono stata sola
tutta la vita. Non avrei mai potuto pensare alla signora Crabbly come a una di
famiglia, con i suoi rimproveri e le sue maniere orribili. E Rupert… be’, c’è
stato un tempo in cui ho creduto che mi avrebbe sposato. Ho creduto che
sarebbe arrivato e mi avrebbe salvato da una vita come dama di compagnia.
Ma lei sa bene com’è andata.»
Elsie non seppe cosa rispondere.
«Poi ho conosciuto lei, che è stata gentile con me. Ho iniziato a pensare
che forse… dopotutto mi avrebbe concesso di diventare sua amica. Che forse
avrei potuto esserle utile.»
«Ed è stato così, Sarah. Tu sei l’unica persona al mondo che mi crede, che
capisce. Sei stata l’amica migliore del mondo.»
«Non avevo mai avuto un’amica, prima.» Stava stringendo la mano ferita
di Elsie fino a farle male. «E non permetterò che loro me la portino via.»
«Gli Amici?»
«Non gli Amici! I dottori!»
Il corpo di Elsie si irrigidì sotto le lenzuola. «Ma perché… perché i dottori
dovrebbero portarmi via?»
«Mi dispiace, Elsie. Non volevo dirglielo, ma l’ha deciso il signor
Livingstone. L’ha detto lui stesso ieri sera, a cena. Ha scritto a un
manicomio.»
Il panico dilagò nelle profondità del suo petto. Doveva esserci un errore.
Ma certo, doveva essere così… Jolyon non l’avrebbe mai fatta ricoverare!
Però gli occhi bruni e limpidi di Sarah raccontavano un’altra storia.
«Cosa ti ha detto, esattamente?»
«Che lei sta molto male.» Con dolcezza, rimise la mano di Elsie sul letto.
«Ha detto che lo sospettava da un po’. Poi mi ha chiesto di preparare le sue
valigie perché dovevano venire degli uomini, dei medici, a visitarla. Che
l’avrebbero portata con sé e che probabilmente sarebbe rimasta lontana a
lungo.»
Cadere: ecco la sensazione che provava. Piombare giù da una scogliera con
sotto soltanto rocce. Jolyon l’aveva tradita? Il ragazzo per cui avrebbe dato il
sangue, per crescere il quale aveva rinunciato alla giovinezza. No, lui non
avrebbe mai… A meno che… a meno che fosse sveglio.
«Ne sei certa, Sarah? Assolutamente certa?»
Sarah annuì. Ciocche di capelli sputavano irrequiete, libere dalle forcine.
«Sono andata nella biblioteca. Ho visto le lettere che ha scritto.»
«Ma tu lo sai che non sono pazza!»
«Ma certo. Ecco perché mi sono decisa.» Alzò il mento, con aria di sfida.
«Voglio portarla via di qui. Stanotte.»
Elsie provò il desiderio insopprimibile di ridere. La risata sconvolta e
isterica di quando ormai ogni speranza è vana. «E come credi di riuscirci?
Pensa alla mia gamba.»
«Ho trovato un bastone. Può usarlo per appoggiarsi.»
«Farà rumore. Sulle scale si sentirà.»
Sulle guance di Sarah sbocciarono delle rose. «C’è qualcosa… qualcosa
che posso fare a cena. Lo facevo sempre per la signora Crabbly, quando era
troppo molesta.» Elsie la fissò. «Una goccia nel bicchiere, per gettarli in un
sonno pesante.»
Elsie ebbe la sensazione di avere completamente sbagliato, nel giudicare
Sarah. «Davvero? Davvero drogavi la signora Crabbly solo per avere un po’
di pace?»
Sul viso di Sarah comparve un sorriso malandrino. «Tutti abbiamo fatto
cose di cui ci vergogniamo un poco, signora Bainbridge.»

La sera arrivò in fretta. La pioggia aveva picchiettato contro le finestre per


tutto il pomeriggio. Ogni volta che Elsie si svegliava da un sonnellino, le
nuvole erano un poco più scure. Chiuse gli occhi davanti a un cielo color
polvere da sparo e li aprì che era nero pece. Era giunta l’ora.
Scese faticosamente dal letto prima di riaddormentarsi di nuovo. Con
grande difficoltà si allacciò il mantello che le aveva lasciato fuori Sarah e si
infilò in tasca una scatola di fiammiferi nuova. Aveva la vista annebbiata dal
laudano. Ogni muscolo protestava per quella follia. Come avrebbe fatto
anche solo a scendere le scale?
Il bastone era troppo fragile, tremava sotto il suo peso mentre lei si
dirigeva zoppicando alla porta. Se fossero arrivati gli Amici, non sarebbe
stata in grado di correre.
Ma quali altre possibilità aveva?
Due colpi soffocati. Elsie alzò la testa di scatto.
«Entra» sussurrò.
La porta si aprì senza un suono e Sarah sgattaiolò dentro portandosi dietro
un’aureola di luce dorata. Reggeva una lanterna a petrolio in ciascuna mano.
«Ecco.» Ne diede una a Elsie, le ombre le guizzarono sul viso. Le sue
pupille riflettevano la luce.
«Dormono tutti e due?»
«C’è stato un piccolo problema» disse Sarah. «Il signor Livingstone è
andato in biblioteca. Temo che si sia addormentato là. Quando si sveglierà
avrà il torcicollo.»
La preoccupazione le strinse il petto. Ora che era giunto il momento, si
sentiva debole. Non voleva lasciarlo lì. «Sarah… forse dovremmo aspettare.
Dobbiamo studiare un piano migliore. Dove andremo, cosa faremo?»
Sarah la fissò. «Non c’è tempo. In due abbiamo abbastanza soldi per
prendere un treno.»
«Ma… non posso abbandonare Jolyon così. E se gli Amici lo inseguono? E
se lo usano come ospite?»
«Se resta qui sarà in grado di fermarli?»
«No… ma…»
«Sarà in grado di proteggerlo, da dentro un manicomio?»
Elsie chiuse gli occhi. Non c’erano vie d’uscita. Qualunque scelta avesse
compiuto, avrebbe perduto Jolyon. E allora che ne sarebbe stato della sua
vita?
«Non posso…»
«Non lo sta tradendo, Elsie. È lui che ha rinunciato a lei.»
A malincuore annuì. Meglio correre dei rischi con Sarah che trascorrere il
resto della vita intrappolata dietro un muro altissimo. Non avrebbe permesso
a nessuno di costringerla, non più.
Sarah la precedette. Elsie le zoppicò dietro. Tutto era immerso nel buio.
Non erano accesi nemmeno i lumi a gas.
Sentiva soltanto i passi di Sarah e il toc toc ritmico del suo bastone. La
lanterna che aveva in mano ballonzolava a causa dell’andatura irregolare,
rischiarando a tratti il tappeto color vino.
D’improvviso Sarah si bloccò. Elsie non riuscì a fermarsi in tempo. Ci
furono un tonfo e un rumore di vetri infranti e di petrolio spanto. Le ombre si
addensarono mentre il corridoio diventava ancora più buio. Sarah aveva
lasciato cadere la lanterna.
«Presto.» Si girò di scatto e strappò di mano a Elsie la luce rimasta. Nel
momento in cui la sollevò, entrambe rimasero senza fiato.
Sette Amici erano appostati accanto alle scale.
C’era troppo buio per distinguerne le facce. Solo le loro sagome
incombevano enormi sulla parete, mentre la lampada tremava nelle mani di
Sarah. Elsie si guardò alle spalle, ripensando a come si erano mossi in
precedenza, su due lati, come un branco di lupi. Non vedeva nulla di
concreto, solo un pallido bagliore proveniente dal soffitto in fondo al
corridoio.
«Sarah, cosa…» Prima che potesse finire, sentì russare Jolyon. Alcune
immagini confuse si sommarono e a quel punto si rese conto che la striscia
gialla luminosa era una lampada accesa in biblioteca. La porta era aperta. Si
aggrappò alla veste di Sarah. «È là dentro tutto solo. Non posso lasciarlo, non
con loro qui fuori.»
Gli occhi di Sarah erano fissi sugli Amici. «Ma di cosa parla?»
«Di Jolyon!»
«Ma il fatto che lei resti in casa non li fermerà!»
La gamba ferita iniziò a tremare. «Ha lasciato la porta aperta.»
«E che differenza fa?»
Aveva ragione. Esisteva la logica, ma anche il cuore: il cuore di una donna
che aveva cresciuto da sola quel ragazzino fin dall’età di cinque anni. Elsie
non poteva lasciarlo. Quanto meno doveva chiudere la porta.
«Tienili d’occhio» gridò, e fece perno sul bastone. Con in testa soltanto
Jolyon, si lanciò avanti nel corridoio.
Il bastone ticchettava a tempo con il suo cuore impazzito. Sentì il grido
d’allarme di Sarah, ma le sembrava già lontanissimo. Stava annegando
nell’oscurità. I suoi occhi guizzavano qui e là, cercando sollievo da quel nero
implacabile. Jolyon. Concentrati su Jolyon. Nonostante il dolore che le
bruciava le costole, nonostante l’intorpidimento e la debolezza della gamba
sinistra, proseguì verso quella lama di luce.
Credette che sarebbe caduta. Scoppiava di sofferenza, paura e laudano.
Soltanto l’aria gelida e innaturale che usciva dalla biblioteca e quella puzza di
muffa e umidità riuscivano a penetrare la nebbia. Inciampò e valicò la soglia.
Jolyon era accasciato sulla scrivania nell’alcova, la testa china sulla
superficie lucidata.
Si avvicinò claudicante e vide il movimento degli occhi sotto le palpebre e
il lento pulsare di una vena del collo. Era vivo. Stava solo dormendo. Il suo
respiro faceva increspare il foglio che aveva sotto la guancia.
Fu soltanto per caso che Elsie notò l’intestazione. Stava per andarsene,
quando il suo sguardo lesse quelle lettere stampate, che formavano quasi un
grido:

OSPEDALE DI ST JOSEPH PER I PAZZI

Per un attimo tutto fu immobile. Poi il suo cuore ripartì e le pompò il sangue
nella testa con pulsazioni dolorose. Uscì dalla stanza incespicando.
Una sola parola le rimbalzava nel cervello: “pazzi”.
Ormai non poteva più dubitare di Sarah. Jolyon era davvero convinto della
sua follia. Aveva rinunciato a lei. Quel dolore era ancora più cocente delle
costole incrinate. Chiuse la porta con un colpo, si girò e si rituffò nel buio,
risalendo il corridoio.
«La prego, Elsie!» La voce soffocata di Sarah la guidava. «Dov’è? Non
riesco più a guardare quelle cose.»
«Si sono mossi?»
«Solo gli occhi. La fissavano.»
Elsie rabbrividì.
Se soltanto avesse potuto vedere chiaramente. Non poteva riaccendere la
lanterna rotta, perché il petrolio aveva impregnato il tappeto. Avrebbe osato
accendere una delle lampade a parete? E sarebbe bastata a risvegliare Jolyon?
Con la mano libera tirò la leva.
«Ecco, Sarah, prendi i miei fiammiferi. Io reggo la lanterna e tu accendi il
gas.»
Sarah obbedì e con un guizzo la fiamma prese vita. La luce si allargò sulla
carta da parati damascata, sui busti di marmo. «Oh, mio Dio. Sembra che si
siano avvicinati.»
«Non dobbiamo smettere di guardarli» disse Elsie. «Io prima scendo le
scale con la lanterna, per vedere che nel salone non ce ne siano altri. Tu
cammini all’indietro e tieni d’occhio questi.»
Le dita di Sarah si strinsero intorno alla scatola di fiammiferi.
«All’indietro? E perché io?»
Elsie picchiò impaziente il bastone a terra. «Per me sarà già difficile
procedere in avanti.»
Si misero schiena contro schiena. Grazie a Dio erano vestite
semplicemente, senza crinoline gonfie. Elsie sentì il contatto con le spalle di
Sarah, il sudore che filtrava dall’abito. «Pronta?»
Sarah trattenne il fiato. «Pronta.»
Raccolse la gonna con la mano che reggeva il bastone e la stoffa le asciugò
la mano sudata. «Allora andiamo.»
Le tremavano le gambe, non solo quella ferita. Un passo. Due.
Lentamente, lentamente, i talloni di Sarah che urtavano contro i suoi. La nube
di luce della lanterna scendeva giù per la tromba delle scale, illuminando
tratti della tappezzeria e del tappeto. Nessuna traccia degli Amici.
«L’ultimo» sussurrò Elsie e giunsero goffamente a un pianerottolo.
Avevano percorso una rampa e ne restava un’altra.
Sss, sss.
Le spalle di Sarah si irrigidirono. «Non li vedo più. La lampada a gas… è
troppo lontana.»
«Accendi un fiammifero. È solo un po’ più in là.»
Da sopra sentirono arrivare un raschio lento. Elsie immaginò gli Amici
trascinare i loro piedistalli mostruosi sulle assi del pavimento.
L’estrema stanchezza minacciava di travolgerla, ma non si arrese. Toc toc,
faceva il suo bastone sulle scale, la gamba che quasi cedeva. A ogni passo
Sarah andava a sbatterle contro, mentre il dolore le si amplificava nel petto. E
intanto le ombre le seguivano.
Sss, sss.
Infine la lanterna fece scintillare del metallo e illuminò lo stemma azzurro
e oro dei Bainbridge. Avvistarono il salone. Ce l’avevano quasi fatta.
«Elsie! Elsie, sento qualcosa!»
Erano sull’ultimo gradino. Elsie si precipitò verso la sicurezza del
pavimento, ma inciampò.
No, no. Il bastone scivolò, la lanterna oscillò. Una fitta di dolore nella
gamba malata. Sarah urlò. Eccolo: il pavimento, duro e piano sotto le scarpe.
Elsie vacillò e in qualche modo riuscì a riacquistare l’equilibrio.
Erano riuscite a raggiungere il salone.
«Santo cielo! Signorina Sarah!»
Una luce che sbucava dall’estremità opposta della stanza. A Elsie balzò il
cuore in gola.
«Come ha potuto?»
Annaspando e socchiudendo gli occhi, si girò verso la voce. La porta di
panno verde della servitù era aperta. La sagoma della signora Holt si
stagliava su uno sfondo di fuoco, rischiarata da dietro. Cercò qualcosa, si
sentì uno scatto e poi una lampada prese vita.
«Bene, bene.» I passi della signora Holt risuonarono sulle lastre di pietra,
secchi, severi. «Chi l’avrebbe mai detto? Da lei me lo sarei anche aspettata» e
fece un cenno brusco in direzione di Elsie. «Ma dalla signorina Sarah! La
credevo più saggia.»
Disorientata, Elsie si lasciò sfuggire la lanterna dalle mani. La signora Holt
accese un’altra lampada.
«Lei!» La voce di Sarah, acuta, alle sue spalle. «Lei dovrebbe… Ma perché
non sta dormendo?»
«Che Dio ti perdoni, ragazzina, credi che non sappia riconoscere l’odore
della tisana di papavero? Sapevo che stavi tramando qualcosa, ma non avrei
mai immaginato che avresti provato a portarla fuori! Ma cosa ti ha preso?»
Dov’erano gli Amici? Intorno a lei si materializzò il salone. Le armature, le
spade, il tappeto orientale. Gli Amici non c’erano. C’erano soltanto la signora
Holt e il fischio delle lampade a gas.
«Lei sta cercando di portarmela via!» strillò Sarah. La sua mano abbrancò
il polso di Elsie. «E non glielo permetterò. Non è pazza! Erano proprio qui,
non li ha visti? Non li ha sentiti, stupida vecchia?»
Sarah aveva ancora energia da vendere. Ma Elsie no. Ogni sensazione
l’aveva abbandonata, lasciandosi dietro solo un guscio vuoto. La delusione
era scomparsa. La paura giaceva ai suoi piedi. Le ultime tracce somigliavano
un po’ al sollievo. Almeno ora non avrebbe dovuto lasciare Jolyon.
«Non ho sentito niente. Non c’era niente.» I lineamenti della signora Holt
erano contorti dal disgusto. «Per tutti i santi del paradiso! Sei pazza quanto
lei!»
Sarah serrò la mascella. Per un attimo sembrò quasi che volesse colpire la
signora Holt, ma poi di sopra si udirono un fragore di mobili e uno scalpiccio
irregolare, finché nella galleria non comparve Jolyon. Sembrava ubriaco: era
tutto rosso e aveva i capelli arruffati. «Cosa succede?» Le guardava sbattendo
le palpebre, cercando di estrarre le parole da quel sonno drogato. «Ho sentito
un urlo e… Elsie? Sei tu?»
«Sono le signore, signor Livingstone» intervenne la signora Holt. «Le ho
sorprese che tentavano di fuggire.»
«Fuggire!»
«Temo che l’abbiano drogata, signor Livingstone. Sono molto astute.
Molto più pericolose di quanto avessimo temuto.»
Elsie non avrebbe mai dimenticato l’espressione sul viso di lui, quel
miscuglio di paura e rabbia. Non era più Jolyon, quello che la fissava con gli
occhi nocciola orlati di rosso. Alle parole della signora Holt il suo caro
ragazzo aveva cessato di esistere. Al suo posto c’era qualcun altro, qualcuno
che aveva pregato di non rivedere mai più in tutta la vita.
Suo padre.
«Lasciami uscire!» Il palmo di Elsie si abbatté nuovamente sul legno,
facendo tremare la porta sui cardini. A ogni colpo, una vibrazione nelle
costole le dava un dolore acutissimo, ma non smise. Non poteva. «Jolyon,
apri subito la porta!»
«Non posso.»
«Ti prego! Fammi uscire! Sono qui dentro da tutta la notte!» Le si spezzò
la voce. Isterica, impazzita. Sembrava la prova della sua diagnosi, perfino alle
sue stesse orecchie. «Jolyon!»
«Tu non stai bene. Avrei dovuto saperlo.» Sentì la spalla di lui sfiorare la
porta. «Avrei dovuto sospettarlo molto tempo fa.»
La mano di lei restò sospesa a un palmo dal legno. Si stava riempiendo di
fumo: gli occhi, la pancia, sotto la lingua. Era un fumo amaro e soffocante
che rappresentava il passato e il presente, e la strozzava con le sue spire acri.
«Ma di cosa stai parlando?» Che suono falso. Sembrava la battuta di
un’attrice teatrale.
«Dopo che la mamma…»
«No!»
«Ti ho visto, Elsie. Ti ho visto metterle il cuscino sulla faccia…»
«Non è andata così!» urlò lei, scrollando la maniglia. «Stammi a sentire,
posso spiegare…»
«Non posso credere a una tua sola parola!»
«Soffriva troppo. Aveva già un piede nella fossa, non ho commesso nessun
peccato.»
«Nessun peccato!» esplose lui. «Dio santo. Forse dopotutto la povera
mamma aveva ragione. Forse non era pazza. Le cose di cui ti accusava…»
«Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per te.»
Sentì un singhiozzo erompergli dal petto. «Non l’hai fatto in nome mio.
Non hai ucciso mia madre per il mio bene.»
«Jolyon, ascolta. Ci sono delle cose che non ti ho mai detto, cose…»
«Basta!» La mano di lui restituì il colpo, dall’altra parte. «Ti prego, non
costringermi a starti a sentire. Le tue parole potrebbero far impazzire anche
me. Ho chiesto aiuto. Devo solo tenerti al sicuro finché non arriveranno gli
uomini.»
«Gli uomini del St Joseph?»
«La signora Holt è andata a spedire il telegramma. È il posto migliore per
te. Forse riusciranno a…» E si interruppe.
Lei aveva il viso rigato di lacrime. Come poteva trovarsi in una situazione
del genere?
Ogni giorno l’impossibile diventava realtà, ma era più facile credere negli
assassini di legno che accettare che Jolyon, il suo Jolyon, fosse contro di lei.
Premette la fronte contro la porta. Sotto la vernice bianca intravedeva le
venature e i nodi del legno, come se fosse non solo una barriera che li
separava, ma una creatura vivente, dotata di arterie e cartilagini.
«Jolyon, ripensaci.» Faticava a respirare regolarmente, a sembrare una
persona sana di mente. «Sai bene che tutto questo non si confà al mio
carattere. Sei stato tu stesso a dire al signor Underwood che sulla forza dei
miei nervi potresti scommetterci la vita.»
«I tuoi nervi sono spezzati, e con loro anche il mio cuore.»
Lei allargò le dita, immaginando la testa di lui appoggiata al legno. Se
soltanto l’avesse guardata. Se soltanto l’avesse guardata negli occhi avrebbe
capito che diceva la verità. «Sei stato troppo affrettato. Chiedi a Sarah…»
«Ho mandato Sarah nella sua suite! Non posso permetterle di venire in
camera tua, di incoraggiarti nelle tue illusioni.»
Elsie scivolò sul tappeto e atterrò, con una fitta, sul ginocchio malconcio.
«Non puoi confinare Sarah» tentò ancora. «Non hai alcuna autorità su di lei.
Non puoi trattarci come prigioniere.»
«È per il tuo bene. So cos’è meglio per te.»
Ma se non la conosceva nemmeno.
Restò sul pavimento, svuotata e sfinita. In quel momento i passi di Jolyon
risuonarono in corridoio. La porta della biblioteca si aprì e poi si chiuse.
Le ombre degli alberi si allungavano sul tappeto vicino alla finestra, un
poco alla volta. Una parte di lei, quasi distaccata, si domandò chi l’avrebbe
raggiunta per primo: gli Amici o il manicomio. Forse ormai la signora Holt
aveva segnato il suo destino e aveva sillabato il suo fato grazie a dei fili su
cui viaggiavano punti e linee. Si sentiva già circondata dal gelo del
dormitorio dell’ospedale.
Se lo meritava? Forse. Non per gli Amici, ma per quell’altra cosa. Papà,
mamma. Poteva cercare di non pensarci ma loro non l’abbandonavano mai;
scorrevano, oscuri, nelle sue vene. E in Jolyon.
Era passata un’ora quando sentì il rumore: dapprima sottile, uno
scricchiolio simile a un ciocco di legno che crolli tra le fiamme. Lanciò
un’occhiata al caminetto ma il legno si era consumato. Poi di nuovo: un
raschio, un suono sussurrato. Proprio fuori dalla porta.
Elsie inclinò la testa per sentire meglio. Stavolta udì dei piccoli clic. E poi
una porta, che si apriva cigolando.
L’esclamazione inarticolata di Jolyon la fece trasalire. Magari era tornata
la signora Holt? Ma non c’erano stati né passi né voci. Solo quel fruscio
lontano, come di rametti spezzati. O di minuscole ossa.
Si stese indolenzita sul pavimento. La lama di luce sotto la porta rivelava
solo una distesa di tappeto color vino.
Jolyon urlò.
Elsie scattò in piedi, con una smorfia per la fitta di dolore che le trapassò le
costole. «Jo?» Provò la maniglia. Ancora chiusa. Gridò ancora, una parola
soffocata che somigliava al nome di lui. «Jolyon!»
Ora i suoni erano amplificati. Rumori di cose spezzate, viscide. Pensò a
degli animali che si aggiravano in un bosco, intrappolati tra i rami. Santo Dio,
ma cosa stava succedendo?
«Elsie!» Un grido angosciato, un gorgoglio liquido.
Si mise ad agitare furiosamente la maniglia e a martellare la porta. Non
riusciva a raggiungerlo. Non riusciva a uscire.
Non poteva esistere tortura più adatta a far uscire di senno: sentire e non
vedere; essere impotente mentre lui urlava. L’aria diventò soffocante,
impossibile da respirare, e la comprimeva tutt’intorno.
Elsie guardò in giro alla ricerca di un oggetto per abbattere la porta. I suoi
occhi caddero sulla toletta e dal cuore le uscì una preghiera di gratitudine.
Perché non ci aveva pensato prima?
Si precipitò, ignorando il dolore al ginocchio, e afferrò una manciata di
forcine. Con le mani sudate, piegò la prima e cercò di infilarla nella toppa.
Niente. Ci riprovò, e quella le sfuggì di nuovo. «Maledizione!» Le mani le
tremavano come se avesse la febbre malarica.
Un rumore di vetri infranti.
«Dài, dài.» Finalmente riuscì a inserire la forcina nel buco ma a vuoto, non
sentiva i cilindri. «Forza!»
Sss. La forcina le sfuggì dalle mani. Sss.
Un altro urlo e la voce di Jolyon si spense. Quel silenzio era assordante.
Prese una terza forcina, la piegò con i denti e la ficcò nella toppa. Con suo
grande sollievo i cilindri scattarono e si mossero, e la porta cedette alla
pressione della sua mano.
Nel corridoio tutto era immobile. Uscì zoppicando, digrignando i denti.
Alla sua sinistra, un rimbombo di passi. Quando si girò, vide Sarah che le
correva incontro a occhi sgranati, con Jasper alle calcagna.
«Elsie! Cos’è successo? Ho sentito urlare.»
«Jolyon» rispose boccheggiando. «Jolyon.»
Sarah spalancò di nuovo gli occhi. «Non saranno loro?»
Dalle labbra le esplose un suono, un lamento animalesco. Non aveva mai
provato un dolore del genere. «No! Dio ti prego, no.»
Senza dire altro, Sarah le infilò la spalla sotto l’ascella e la aiutò a
raggiungere la biblioteca.
Era un disastro. Il pavimento era disseminato di libri squadernati con le
pagine staccate. Il tappeto era un cimitero di carta, vetro e foglie avvizzite.
Mentre avanzavano barcollando, Elsie vide degli strappi nelle tende che
fluttuavano e danzavano al vento.
«Jolyon?» Quella non era la sua voce; quello non era il suo nome.
La scrivania era schizzata d’inchiostro e punteggiata di schegge di vetro
verde della lampada, ma la sedia era vuota.
«Elsie! Da questa parte!»
Si girò di scatto. Accanto al fuoco c’era lo zingarello con il suo vincastro.
Su quel viso piatto balenava qualcosa d’inumano. Gli occhi di Elsie
seguirono la direzione indicata dal vincastro.
La finestra centrale era sfondata e il vetro ridotto a una ragnatela. Le crepe
si irraggiavano dal frastagliato buco centrale. A una delle punte era rimasto
attaccato qualcosa. Dei capelli?
Le tende sbrindellate si agitavano frenetiche, come a intimarle di
andarsene. Ma i piedi si muovevano senza il suo permesso e si trascinarono
impotenti sul tappeto, facendo scricchiolare i vetri, fino al punto in cui il
vento poté schiaffeggiarle il viso.
Decine di Elsie la fissarono dalla finestra frantumata, tutte di forme
diverse. Allungate, schiacciate, senza bocca; con il viso che si scioglieva. E
vide che le crepe erano bordate di sangue.
Con un profondo respiro, guardò giù dal davanzale.
Il suo Jolyon, il suo ragazzo, giaceva a faccia in giù sulla ghiaia, il collo
piegato in maniera innaturale. Morto.
Le tende si gonfiarono intorno a lei e l’abbracciarono mentre urlava.

Una volta, quand’era molto piccola, il papà le aveva fatto scoppiare un


timpano. Questo aveva creato un rumore, un rumore così intenso che era
qualcosa di più di un suono, e soffocava tutto, tranne il proprio stesso
tintinnio insistente.
Dopo il rumore era arrivato un dolore fortissimo, che le scavava la testa e
le faceva venire le vertigini, che le deformava il viso. Sentiva tutto e niente.
Doveva essere accaduto di nuovo, perché non sentiva né vedeva più. Il
tempo le passava accanto come se lei non fosse più lì.
A un tratto tornò di colpo in sé e si ritrovò dietro la scrivania, seduta su ciò
che restava della poltrona di cuoio. Il crine che sbucava dal tessuto le
pungeva la pelle delicata.
Alla sua sinistra c’era Sarah che le agitava sotto il naso una boccetta di
sali. Alla sua destra c’era la signora Holt.
«Un altro terribile incidente?» stava dicendo. «Per Diana! È lei, sciocca.
Non ha tutte le rotelle a posto. Io chiamo la polizia.»
«Sono stati gli Amici, signora Holt! Elsie era appena uscita dalla sua
camera, ho visto la porta aprirsi. Non è possibile che sia entrata e…» Sarah
vide Elsie riprendere i sensi e mise giù i sali.
«Immagino che il signor Livingstone abbia trascurato qualcosa, quando ha
scritto quel telegramma» borbottò la signora Holt. «Avrebbe dovuto farvi
internare tutte e due.»
Bastò il suo nome ad attorcigliarle lo stomaco. Ora non esisteva più nessun
signor Livingstone, e da tutto il suo dolore non sarebbe nato nulla di buono:
c’era soltanto il relitto di un bellissimo giovanotto spiaccicato sulla ghiaia
come un uccello caduto. «Il mio bambino» dissero le sue labbra intorpidite.
«Il mio ragazzo.»
«Visto?» La signora Holt inclinò la testa. «Mentecatte.» Si chinò vicino a
Elsie, che riuscì a vedere le reti di rughe intorno agli occhi e a sentire l’odore
stantio e pepato del suo fiato. «Lei avrà perso anche un bambino, signora, ma
questo non è nulla rispetto a perdere una figlia adulta, la speranza di tutta la
tua vita. Vederla impalata come un pezzo di carne su uno spiedo!» Aveva
un’espressione spaventosa, distorta dalle lacrime. «Dio sa che dovrei avere
pietà di lei per la sua malattia, ma non ce la faccio. Non posso. Posso solo
pregare di vederla appesa a un cappio, per quello che le ha fatto.»
In un altro momento la sua mente avrebbe potuto mettere insieme i pezzi.
Ma Elsie si mise a fissare la signora Holt con la stessa confusione che velava
la fronte di Sarah. «Ma di cosa sta parlando? Quale figlia?»
La signora Holt si passò una mano sul viso devastato. «Immagino che
ormai non abbia più senso mantenere il segreto. C’è un motivo per cui il
signor Bainbridge diceva che ero il suo angelo. C’è anche un motivo per cui
sono venuta a stare qui, in mezzo al nulla.»
«Oh!» ansimò Sarah. «Portava in grembo sua figlia.»
Lei chiuse gli occhi e annuì. «È vero. Vede, la mia padrona stava tanto
male e lui aveva bisogno… Non era un cattivo uomo. Voleva fare la cosa
giusta per tutti e due.»
«Così l’ha promossa. Le ha dato una casa dove sarebbe stata lontana dai
pettegolezzi.»
«Dapprima ho nascosto la bambina. Poi, più tardi, le ho insegnato a
lavorare in casa al mio fianco. Non ero una sciocca, non mi ero mai aspettata
che Helen venisse cresciuta insieme a padron Rupert.»
«Helen. Helen era sua figlia? E così…» Sarah si mise una mano sul petto.
«Mia cugina?»
«Sì. Quella donna abietta seduta davanti a noi ha portato via qualcuno
anche a lei, signorina Sarah. Deve lasciarmi chiamare la polizia.»
Elsie non aveva paura dell’odio della signora Holt. Voleva aggrapparsi a
lei perché aveva vissuto lo stesso dolore ed era sopravvissuta. O no? La
donna che stava parlando con Sarah non era la stessa signora Holt che lei
aveva conosciuto quella prima sera. Ne era una versione indurita, ferrea,
profondamente amareggiata.
«Vada» disse Elsie. «La prego. Vada a chiamare la polizia.»
La signora Holt sbatté gli occhi pieni di lacrime.
«No» gridò Sarah. «No, Elsie, lei non sta ragionando. Deve andarsene di
qui prima che vengano quelli del manicomio e…»
«Lascia che vengano. Tanto ormai non ha più importanza.»
«Ha importanza per me! Io ho bisogno di lei!»
Elsie appoggiò la testa allo schienale. «Non voglio lasciare Jolyon. Non
voglio che mani sconosciute lo lavino e lo preparino. Sarò presente alla sua
sepoltura come sono stata presente alla sua nascita.»
Sarah sospirò e le sue spalle si abbassarono. «Allora immagino… che la
signora Holt abbia ragione. Dobbiamo chiamare la polizia, altrimenti lo
faranno quelli del manicomio appena arrivano. Se succede, daremo
un’impressione peggiore.»
«Tre cadaveri in casa» disse la signora Holt. «Tre.»
«Uno è fuori. Forza, portiamolo dentro prima che io vada ad avvisare il
conestabile.»
«Lei?» sbottò la signora Holt. «E perché dovrei fidarmi e credere che andrà
davvero alla polizia? Ieri sera ha cercato di liberarla!»
Sarah mise una mano sulla spalla della signora Holt e la distolse da Elsie,
costringendola a guardare il caminetto. «La strada per Torbury St Jude è
molto lunga. Lei ha già fatto avanti e indietro una volta, oggi.»
«Ma crede sul serio…» La frase si concluse bruscamente. Nella sua
espressione qualcosa stava cambiando, si stava spostando. «È stata lei?»
sibilò.
«A fare cosa?»
«Quello!» Il braccio della signora Holt puntò verso il focolare. «Chi è
stata, di voi due?»
«Non la capisco.»
Ma Elsie capiva. Aveva visto il cambiamento che si era verificato quando
avevano voltato le spalle al fuoco. Le venne la pelle d’oca.
«Quando sono entrata qui dentro non era così. Guardi!»
Sul legno erano incisi solchi bianchi tracciati con fretta folle. Squarci
profondi e pieni di rabbia.
Gli occhi dello zingarello erano stati grattati via.
Oltre la porta aperta cadevano aghi di pioggia. L’aria pomeridiana aveva
un odore strano, denso di torba. Elsie cercò di mettere a fuoco quell’odore, di
perdercisi dentro: tutto, pur di allontanarsi dalla scena terribile che si
svolgeva davanti ai suoi occhi.
Né la signora Holt né Sarah erano forti. Un po’ spingevano e un po’
trascinavano il corpo di Jolyon oltre la soglia. La sua testa ciondolava,
grottesca. Frammenti di ghiaia gli erano rimasti appiccicati alle guance e alle
ciglia che gli incorniciavano gli occhi nocciola.
Aveva sempre cercato di salvarlo. Dio, se ci aveva provato.
Lo stesero come una marionetta spezzata sullo stesso tappeto orientale
dov’era stata la bara di Rupert. La signora Holt gli ripiegò le braccia
spalancate in modo che avesse le mani sovrapposte sulla pancia. Poi si
accigliò. «Ha delle schegge nelle dita.»
Elsie sbatté le palpebre.
«Ne avevano anche Rupert e il bambino» aggiunse Sarah.
Le labbra della governante si contrassero. Elsie capì che stava combattendo
con una verità inaccettabile, che non voleva credere, che cercava di
dimostrare a se stessa di avere torto.
«Mabel o Helen avevano le schegge?» domandò Sarah.
«Non ho visto. Non ho controllato.» La signora Holt fece un passo avanti e
si fermò. «Potrei… andare a vedere.» E lanciò un’altra occhiata a Elsie.
Elsie capì. La governante voleva odiarla. Avrebbe preferito trovare le sue
impronte insanguinate intorno al collo di Helen, piuttosto che una manciata di
schegge di legno.
Povera signora Holt. È molto meglio credere che tua figlia sia stata
assassinata rapidamente, invece che inseguita, e abbia vissuto i suoi ultimi
istanti in un parossismo di paura. Vide l’anziana donna scomparire dietro la
porta di panno verde e le si strinse il cuore per lei.
«Non capisco.» Sarah si mordicchiava una ciocca di capelli, agitata. «Ma
cosa vuole questa cosa? Cosa non è riuscita a trovare in Rupert, o nel
bambino? Di cosa ha bisogno, esattamente?»
Le girava la testa. «Non lo so, Sarah, e non lo voglio sapere. Sono grata
soltanto che Jolyon ormai ne sia libero. Non voglio darle un’altra possibilità.
Ti prego, portami dell’acqua. Voglio lavarlo.»
Sarah esitò. «Non credo che possa farlo. Se viene la polizia a fare delle
indagini, vorrà vederlo… com’era.»
«Com’era!» Le uscì un singhiozzo senza lacrime. «Santo Dio, sarebbe così
bello.»
Sarah chinò il capo. «Vuole… vuole sempre che vada a chiamare la
polizia?»
«Sì! Qualcuno ci deve aiutare. Non possiamo affrontare tutto ciò da sole.»
«Ma non crederanno mai agli Amici! E se ci arrestano?»
La prigione, il manicomio. Senza Jolyon, non faceva differenza. «Lascia
che ci arrestino. Almeno saremo fuori da questa maledetta casa.»
Sarah andò a prendere la cuffietta e si legò in fretta i nastri sotto il mento.
Mentre si infilava le manopole, Elsie lanciò un’occhiata alla porta di panno
verde. Da quand’era uscita, la signora Holt non aveva emesso un suono.
«Non si preoccupi, signora Bainbridge. Supereremo questa cosa, lei e io.
Ora sembra impossibile, ma… in qualche modo ci ricostruiremo una vita.
Insieme.» Sarah le strinse la spalla. «Credo che a Rupert avrebbe fatto
piacere.»
Senza dubbio Sarah l’aveva detto con intenzioni gentili, ma Elsie non
sopportava quei discorsi zuccherosi e si scansò.
Sarah aprì di nuovo la porta, lasciando entrare un getto di pioggia sottile. I
giardini erano infradiciati. Le siepi gocciolavano e dalle fauci del cane di
pietra usciva una cascata d’acqua che sembrava bava. Sarah mise un piede
fuori dalla porta.
«Aspetta!» Elsie infilò una mano in tasca e le diede il suo borsellino.
«Prendi questo, nel caso tu abbia dei guai. Potrai pagarti un alloggio o un
passaggio a casa.»
Lanciandole un’ultima occhiata, Sarah si avventurò sotto la pioggia. Elsie
la guardò allontanarsi: una figuretta ingobbita e grigia che avanzava sulla
ghiaia scricchiolante e diventava sempre più scura mentre le ombre della casa
la inghiottivano. Superò le colline e scomparve alla vista.
Meno di dieci minuti dopo, calò la nebbia.
Elsie si accasciò davanti al caminetto e sedette con le gambe stese vicino a
Jolyon. O a quello che doveva essere Jolyon: in realtà era una sua parodia
crudele e bluastra. Non voleva ricordare quell’immagine del suo ragazzo:
cerea e gonfia, i lineamenti distorti dall’orrore, i tagli spaventosi nella cara
pelle. Ma sapeva che avrebbe subdolamente inglobato e trasformato tutti i
momenti più felici. Una volta concepita, la morte è rapace e porta via tutto
con sé.
Ogni rintocco della pendola echeggiava nel salone. La pioggia
tamburellava, come a farle da contrappunto. Elsie sentiva le nuvole che
premevano e oscuravano il sole. Si prese la testa tra le mani fasciate e attese.
Non osò chiudere gli occhi. Vegliò con la schiena appoggiata alla parete.
Gli Amici si erano presi la vita di Jolyon, ma a nessun costo avrebbe
permesso che ne profanassero il corpo con altre schegge. Sapeva cosa si
provava: a essere invasi, contro la propria volontà. Non avrebbe mai, mai
lasciato che questo accadesse a lui.
Il tempo avanzava lentissimo. Niente si muoveva. Vedeva soltanto
un’immobilità grigia; sentiva soltanto il ticchettio costante sui vetri delle
finestre. Era una specie di tortura.
La sua mente vagò per i sentieri nebbiosi fino a Torbury St Jude; vide
Sarah perduta, caduta nel fiume, trascinata dalla corrente per la gonna
inzuppata come la zingarella del diario di Anne. Si schiaffeggiò le guance e
cercò di orientare i pensieri in una direzione migliore. Quelli vorticarono per
un attimo e poi, storditi, si diressero verso Jolyon. No.
Quando furono passate due ore, le parve di perdere la ragione. Con le
giunture irrigidite, si rimise in piedi con un lamento. Pioveva ancora, una
pioggia leggera ma insistente. Tutto era uguale a com’era stato quella
mattina. Sentiva di avere vissuto dieci vite, da allora.
L’aria stava cambiando. Gli odori si levavano lentamente, come un rossore
dal cadavere di Jolyon, offuscando il profumo di foglie d’alloro e lime che
l’avevano sempre contraddistinto. Aveva un’aria così sporca e trascurata:
aveva le mani rigate di fango, frammenti di vetro scintillavano tra i capelli
aggrovigliati. La polizia poteva anche andare a quel paese: lei doveva lavare
il suo ragazzo.
Zoppicando, infilò la porta di panno verde che portava alle stanze della
servitù, che si chiuse cigolando alle sue spalle racchiudendola nella pietra
fredda.
L’ultima volta che c’era entrata aveva avuto cinque persone al suo servizio.
Ora i corridoi avevano un’aria di abbandono. I suoni della cucina e il
profumo di sapone erano scomparsi. Non brillava nessuna lampada a petrolio.
Mentre si dirigeva in cucina per andare a prendere dell’acqua passò davanti
alla camera della governante. La porta era chiusa. La signora Holt era forse
rimasta seduta là dentro al buio per tutto quel tempo?
La sua mano restò sospesa sul legno, insicura. Se la signora Holt voleva
stare sola, non aveva diritto di disturbarla. Si era appena convinta ad
allontanarsi quando da dentro udì un rumore.
Non un singhiozzo, come si sarebbe aspettata. Qualcosa di più basso e
prolungato. Un gemito o un cigolio, come di vecchie ossa.
Afferrò la maniglia ma non la girò. Il sangue le pulsava forte in gola.
Ancora quel cigolio. Una corrente d’aria passò sotto la soglia e le sfiorò le
caviglie. Doveva tornare da Jolyon, doveva…
Proprio mentre si girava sentì il miagolio di Jasper.
Si irrigidì. Quel suono stridulo e patetico, come il pianto di un neonato.
Cercò di non pensarci e di indurire il cuore, ma lo risentì, stavolta più forte.
Penetrante. E poi lo stesso cigolio.
«Maledizione, Jasper.» Rimproverandosi, girò la maniglia e spinse.
Lentamente comparve la stanza. Elsie strinse le dita ferite intorno allo
stipite, conficcando le unghie nel legno.
Tutti i cassetti della scrivania della signora Holt erano aperti. Il tavolino
con la tovaglia a fiori era ricoperto di fogli di carta. Sopra c’era seduto Jasper,
che miagolava, mentre sotto di lui frusciavano ricevute e ricette. La pelliccia
nera era punteggiata di diamanti di pioggia. La finestra era spalancata.
«Cosa…?» Mancava una sedia. «Jasper, dov’è la signora…»
Ecco di nuovo il cigolio, stavolta vicinissimo al suo orecchio. Si girò di
scatto. L’aria le si bloccò in gola.
Prima vide il movimento: dolce, come di un albero che oscilli al vento.
Soltanto dopo iniziò a dargli un senso: quel cigolio non era di legno, ma di
canapa; i piedi che dondolavano. Con lo sguardo risalì il vestito nero fino alle
spalle flosce e a una faccia che non apparteneva a nessuno: rosso-bluastra,
con gli occhi strabuzzati e la lingua penzoloni. La governante aveva fissato
un cappio a un gancio nel soffitto. Là era appeso ciò che un tempo era stata la
signora Holt, come un sacco di grano.
La nausea le invase lo stomaco. Mentre la gonna oscillava qui e là, dietro
colse l’immagine di un viso di legno, il viso di una cameriera reso terribile
dalla paura. Helen.
Allungò una mano e strappò Jasper al tavolino.
La paura dominava il suo dolore intanto che si precipitava fuori dalla porta,
imboccava i corridoi e faceva irruzione in cucina. Sss, sss. Oh, sì, stavano
arrivando. Avevano solo atteso che potesse assistere all’incubo della signora
Holt, prima di dare inizio al suo.
Cercò di aprire la porta del cortile. «Dài, dài.»
Jasper grattava con lei.
La porta gemeva e cigolava, ma non si muoveva. Era chiusa a chiave.
Sss.
La camera della governante: il mazzo di chiavi ce l’aveva la signora Holt.
Doveva solo tornarci e… no, maledizione, non aveva bisogno di derubare un
cadavere, poteva uscire dalla finestra aperta. Perché non ci aveva pensato
prima?
Sss, sss. Era nel suo cervello, e ronzava insieme ai suoi pensieri. Sss.
«Basta!» urlò. «Smettila, per Dio!»
Fu costretta a chinarsi e a mettere a terra Jasper. Il dolore bruciava: aghi
roventi nella gamba, fiamme che le ardevano in petto. Poi dentro la testa
quella sensazione mentre il sibilo ricominciava, come un fuoco d’artificio che
sta per scoppiare.
Jasper miagolò e trotterellò via, voltandosi per vedere se lei l’avrebbe
seguito. Con grande difficoltà, gli andò dietro zoppicando.
Sss, sss. Era diverso dal suono che l’aveva ossessionata nei sogni: ora
dentro ci sentiva il vapore della fabbrica. E anche una sega, ma non per
tagliare il legno. Stava segando un’altra sostanza, che spruzzava liquido.
«No.»
Le comparvero davanti le lettere di vernice bianca della parola
“governante”. Erano state tracciate sulla porta: ma non l’aveva lasciata
aperta?
Sss.
Chiusa a chiave. Un’altra porta chiusa a chiave. Diede una spallata al
legno, piangendo di dolore e frustrazione. I suoi pugni martellavano inutili i
pannelli.
Sss, sss.
Jasper sibilò a sua volta e si avventurò nel corridoio di pietra. In caccia.
«Aspetta.»
Lo rincorse incespicando. Il dolore si acuiva e le proiettava delle forme
nere davanti agli occhi. Doveva ignorarlo, non poteva cedere ora.
Quell’agonia non era nulla a confronto con…
Sss.
Lo shock fu un pugno allo stomaco, e poi al petto. Riconobbe quel suono.
Era in lei, faceva parte di lei, eppure il suo cervello cercava di soffocarlo e si
rifiutava di lasciar emergere il ricordo.
Sss.
Oggetti che cadevano nella vasca. Non erano bastoncelli. Erano più molli,
più umidi.
Arrivarono alla porta di panno.
Jasper prese la rincorsa e saltò. La porta si spalancò, amplificando il
rumore e l’odore: stavolta non erano rose ma fosforo, legno che brucia e
metallo rovente. E sopra a tutto quanto si levava un che di pungente e
nauseabondo. Sangue.
Entrò barcollando nel salone. Il vento ululava e soffiava gioiosamente la
pioggia contro le finestre.
La luce svaniva rapidamente. Il fuoco morente sfiorava il viso di Jolyon
con nastri arancioni e accanto a lui…
«No!» Quella parola le fu strappata da dentro e le lacerò le interiora.
Jasper soffiò e incurvò la schiena.
Un altro Amico: quello che si era portata dietro fin troppo a lungo. La
faccia lasciva, i muscoli gonfi e brutali.
Papà.
Sss.
Non sentiva più il dolore alle costole. Altre sensazioni avevano preso il
sopravvento. Era molto peggio di come ricordava: non solo il terrore ma la
rabbia, l’impotenza e il disgusto.
Sss.
«Non puoi prendertelo! Vattene!»
Fece per muoversi ma la gamba ferita le cedette e finì in ginocchio,
sull’orlo del vomito.
«Stanne lontano!»
Sss.
Si guardò le mani, le dita allargate sulle lastre grigie e nere. Le bende si
stavano staccando. Sotto le ferite recenti c’erano le vecchie cicatrici: il
peccato impresso nella sua stessa carne.
Sss.
La diga cedette. Ricordò tutto.
E non se ne pentì.
Era là in fabbrica, aveva dodici anni ed era accovacciata con la sua
scatoletta di fiammiferi e il cuore che le pompava fortissimo il sangue nelle
vene. Stava accendendo un fuoco ma troppo in fretta, tutta dita e pollici.
Ancora una volta sentì che quel calore vendicativo rispondeva alla rabbia che
le infuriava dentro. E non le importava che le avesse bruciato le mani, poiché
lei era diventata la fiamma, il rogo, l’esca perché suo padre si precipitasse e
cercasse come un pazzo di spegnerlo.
L’aveva vista? Sperava di sì, come l’aveva vista la mamma, in quel
frammento di secondo prima che lui cadesse. La bambina a cui aveva usato
violenza che gli si avventava contro la gamba e lo spingeva dritto dentro la
sega circolare.
Sss, sss. La macchina faticava a funzionare, le lame erano incrostate. Il
sangue si riversava nella vasca. Un sibilo mentre schizzava sul pavimento,
facendo urlare le operaie. Poi il rumore si era trasformato in un fischio e una
serie di tonfi mentre le ossa incagliavano la ruota dentata. La macchina
sbuffava vapore. La sega mandò uno sferragliamento di morte. Tutto si fece
immobile, e Jolyon era salvo.
Fino a quel momento.
«Non… puoi… averlo!»
Jasper balzò in avanti prima di lei, gli artigli lampeggiarono per via delle
braci. L’Amico che raffigurava il padre cadde, sempre con quell’aria lasciva,
sul fuoco.
Uno sbuffo di fumo, uno schianto. Poi fu avvolto dalle fiamme.
Jasper arretrò. Il fuoco bruciava troppo in fretta; aveva smangiato il bordo
dell’Amico, sputando scintille che sembravano pulci luminose. Un fuoco
normale non avrebbe bruciato così.
Il fumo le faceva pizzicare gli occhi. Prese Jasper e si rimise in piedi, a
fatica.
Un pezzo di legno generò un piccolo scoppio e il tappeto orientale si
incendiò.
«Jolyon!»
Ma ormai era nelle sue fauci. Lingue arancioni guizzavano e si
contorcevano, riflettendosi nelle spade appese alla parete. Le guardò danzare
affascinata, orripilata, fino a quando non cominciò a tossire.
Si girò e vide le sagome indistinte di Amici ovunque: sulle scale, che
guardavano giù dalla galleria, in piedi su ogni porta. A sbarrarle la strada.
Faceva caldo. Tanto caldo. La pelliccia di Jasper le faceva sudare le
braccia.
Nell’aria fluttuavano frammenti di cenere simili a fiocchi di neve. Ormai
non era più in grado di distinguere un Amico dall’altro; non riusciva
nemmeno a vedere il portone d’ingresso.
C’erano soltanto le fiamme.
Una finestra. Sputacchiando, si fece strada verso un rettangolo che
scintillava attraverso il fumo. La finestra dava sul vialetto. Era lì che si
trovavano Hetta e lo zingarello, quando la guardavano. Sapevano che tutto
questo sarebbe accaduto.
Cullò Jasper con un braccio, con l’altro colpì il vetro. Era caldo, in maniera
insopportabile.
«Dài!»
Quel vecchio, familiare bruciore alle mani. Era stato così che aveva vinto,
l’altra volta: superando il dolore. Poteva farcela. Poteva chiedere qualsiasi
cosa al suo corpo. L’aveva imparato a sue spese.
Colpì di nuovo il vetro. E ancora. Le nocche urlavano di dolore e se le
guardò, grondavano sangue. Ancora. Il vetro si incrinò.
Alle sue spalle il fuoco ruggiva. Ne sentiva il respiro, che le faceva colare
il sudore dalla nuca. Aveva lasciato entrare dell’aria e aveva peggiorato le
cose.
«Presto, Jasper, presto!»
Il gatto era un groviglio di zampe e artigli mulinanti: cercò di puntellarsi ai
due lati del buco per impedirle di infilarcelo dentro. Ma lei fu dura,
implacabile. Il vetro si incrinò di più e lei spinse fuori Jasper, che miagolava
furioso.
Una ventata di calore le investì la schiena. Sentì la pelle sollevarsi e
tendersi. Il dolore. Il dolore, che le frugava sotto i vestiti con le sue mani
roventi.
Non pensò. Non c’era tempo di pensare: fece qualche passo indietro e si
lanciò di corsa, come doveva avere fatto anche Jolyon, contro il vetro.
Proteggendosi il viso con le braccia, sfondò la finestra e la mandò in mille
pezzi.
Fu inseguita da una lingua forcuta di fuoco, ma era già a terra a scrollarsi il
vestito, a rotolarsi sulla ghiaia per soffocare le fiamme. Cadeva la pioggia e
spense ciò che ne restava. Troppo tardi. Il danno era fatto: sentì la pelle
gonfiarsi e formare vesciche nell’aria spietata.
Jasper si era arrampicato di corsa sull’albero più vicino. I suoi occhi verdi
la seguivano mentre strisciava, fumante e mezzo morta, nei giardini umidi.
Doveva allontanarsi dal fuoco. Dalla casa.
I suoi muscoli urlavano di dolore. Macchie nere le danzavano nel campo
visivo e minacciavano di prendere il sopravvento. Ecco il limite: la fontana. Il
suo corpo non poteva spingersi oltre. Si accasciò sul bordo, le braccia rosse e
scorticate che penzolavano dentro la vasca.
Dalle colline giunse una folata di vento. Ne inspirò il profumo: rose e timo,
che punteggiavano il fumo. Tossì.
«Signora Bainbridge!»
Sarah?
Socchiuse gli occhi per vedere meglio il giardino scintillante e appannato
dal calore. Ma non vide Sarah. Vicino alla siepe potata c’era un Amico.
Quello che aveva dato inizio a tutto: Hetta.
«Signora Bainbridge! Per l’amor di Dio!»
Sembrava la voce di Sarah, proveniente dall’altro capo del giardino, ma
non ne era certa. Udiva due voci al tempo stesso, che si sovrapponevano.
Mentre fissava Hetta una forma scura, più alta, attraversò di corsa il
giardino e venne verso di lei. Era una forma umana. Ma non riuscì a capire se
era maschio o femmina. Aveva l’impressione che fossero in due, a muoversi,
non uno solo. Che le tendessero entrambi le mani.
«Signora Bainbridge!»
Quando rinvenne qualcun altro la chiamava per nome, un’infermiera con
una faccia da ratto. Era in un ambiente bianco e sterile. Sentì odore di sapone
al fenolo. Di urina. Il dolore era cucito nella sua pelle.
Aprì la bocca screpolata per parlare, ma soltanto un gemito roco riuscì a
superare incerto le sue labbra. La sua voce era scomparsa, insieme ai ricordi e
al fumo.
Ospedale di St Joseph

Quando finì di leggere, restò chino sulla scrivania, a fissare l’ultima parola.
Poi si raddrizzò e appoggiò la schiena, emettendo un suono basso, gutturale.
Elsie ebbe l’impressione che quel suono le cadesse dentro, come una
monetina in un pozzo, e mandasse echi mentre rimbalzava sui lati e atterrava
con un tonfo sordo nelle profondità del suo stomaco.
Fallimento. Tutto quel lavoro, quel rivangare ricordi ed emozioni fino a
farne semi sulla superficie del terreno, perché i corvi potessero becchettarli, e
poi… il fallimento.
Non era forse così? Lo osservava con enorme attenzione, pronta a cogliere
il minimo mutamento di espressione. I suoi occhi verdi non si erano mossi,
erano incollati al foglio. Erano passati almeno tre minuti. Lo spazio tra loro si
addensava, carico di aspettativa.
Immaginò la sua mente come una macchina gigantesca, dai pistoni che
pompavano, che assemblava il suo passato in… che cosa? Voleva davvero
saperlo?
«Bene» sospirò lui. «Bene. Quello che ha sentito, che la chiamava,
dev’essere stato il signor Underwood. È stato lui a trovarla.»
Era soltanto una briciola d’informazione, ma lei si piegò in avanti, avida di
coglierla.
«Però» continuò lui, assestandosi sulla poltrona, «era molto più tardi di
quanto ha scritto qui. Era notte fonda. Ha visto all’orizzonte il bagliore
proveniente da casa sua e ha lanciato l’allarme.»
Non gliel’aveva detto nessuno. Nessuno le aveva detto nulla.
Qualche ricordo, come lampi dolorosi: non semplici fotografie seppia di
persone, ma voci, odori, sentimenti a loro legati. Il signor Underwood, Sarah,
Jasper. Che ne era stato di loro?
Aveva considerato quella storia il suo segreto. Adesso lo vedeva davanti a
sé sulla scrivania, pagine e pagine ricoperte della sua calligrafia larga e
squadrata, e si rendeva conto che era incompleta. La fine non era in suo
potere. L’ultimo atto spettava al dottor Shepherd, era chiuso dentro di lui.
Esitante, prese la matita e in fondo all’ultimo foglio scrisse una parola.
SARAH?
«Questo è il problema. Cos’è accaduto a Sarah Bainbridge?»
Lei inclinò la testa, cercando di incrociare il suo sguardo, ma la luce era
sbagliata. Le lenti dei suoi occhiali erano opache e glielo nascondevano.
«Quello che ha scritto… penso, forse, di poterlo usare. Ma probabilmente
non nella maniera che lei aveva sperato. Non dimostra la sua innocenza, non
dimostra nulla tranne forse una grande capacità d’invenzione. E se
l’immaginazione fosse una malattia, il signor Dickens sarebbe un nostro
paziente fisso.»
Immaginazione! Almeno nella parola “follia” c’era della forza. Non la
faceva sembrare puerile, una ragazzina che sogna fate e unicorni.
SARAH? Sottolineò quella parola, premendo sulla carta.
«Sì. È l’unica persona in grado di corroborare la sua storia. Se quello che
lei scrive è vero, può confermare dove si trovava nel momento della morte di
Jolyon Livingstone.»
Nel sentir nominare Jolyon una lacrima le bagnò la guancia.
«E qui sorgono le difficoltà, signora Bainbridge. Da quando lei ha iniziato
a scrivere, ho consultato documenti su documenti alla ricerca di Sarah
Bainbridge. Riesce a indovinare cos’ho trovato?» Tese le mani, facendole
vedere che erano vuote. «Niente. Né dati anagrafici né certificati di morte:
niente di niente. Ho perfino messo un annuncio per raccogliere informazioni.
Sarah Bainbridge è svanita.»
Un’altra lacrima, che cadde e si unì alla prima. La povera Sarah non era
mai arrivata alla polizia. Non avevano trovato il suo cadavere. Forse giaceva
in qualche fosso, ormai decomposta, con le mosche che le ronzavano dentro e
fuori le labbra. Oh, Sarah. Avrebbe meritato molto di più.
Il dottor Shepherd tossì: non un vero colpo di tosse, ma un modesto
schiarirsi la voce. Un preludio. Eccola in arrivo: la sua teoria.
«Dal suo scritto una cosa mi è chiara, signora Bainbridge. Lei ha la
tendenza a reprimere le emozioni sgradevoli. È la sua maniera di difendersi,
la sua strategia per resistere. Gli episodi… con suo padre, per esempio. E poi
i momenti mancanti della storia. Elsie, cioè, la Elsie di queste pagine, sviene
in parecchie occasioni. Non posso fare a meno di pensare che ciascuna di
esse rappresenti un pezzetto di passato che lei si rifiuta di ricordare.»
In corridoio squillò un campanello.
«Proviamo a pensare, per un istante, che lei stia volutamente soffocando i
suoi ricordi più dolorosi. La rabbia verso i suoi genitori, il senso di colpa che
prova per la loro morte: arrivati a questo punto, non sono in grado di dire se
sono giustificati o meno. Tutte quelle emozioni negative devono finire da
qualche parte. Ho letto che può capitare che si rivoltino contro il corpo di un
paziente e lo facciano star male. Ma ci sono anche casi in cui si biforcano, per
così dire, in quella che possiamo definire “doppia coscienza”.
«Mi faccia una cortesia, signora Bainbridge: vuole considerare un’ipotesi?
Sicuramente la troverà spaventosa, ma vorrei pregarla di aprirsi alla
possibilità che Sarah Bainbridge non esista affatto. Che in realtà sia un lato di
lei stessa.»
Elsie afferrò la matita e cercò di tenere salda la mano. C’È GENTE CHE
L’HA VISTA. CHE CI HA PARLATO.
«Questo lo crede lei.» La sua voce era dolce, ma non gentile.
Quell’insinuazione le stuzzicò l’orecchio. «Ma non abbiamo modo di
verificarlo. Gli interpreti della sua storia se ne sono andati. Le uniche persone
in grado di attestare l’esistenza di Sarah Bainbridge ora sono morte e
sepolte.»
IL SIGNOR UNDERWOOD.
«Ah.» Accavallò le gambe. «Mi dispiace doverla informare che anche il
signor Underwood è deceduto.»
Le sue dita si mossero ma sentiva soltanto le vibrazioni della matita.
COME?
«Nell’incendio. Pare che quando sono arrivati i soccorsi da Fayford, il
signor Underwood abbia mandato alcuni abitanti del paese a Torbury St Jude,
a cercare aiuto. Ma poi non ha atteso il loro ritorno. Alcuni testimoni
raccontano che ha parlato di altre persone intrappolate nell’edificio. Questo
coincide con la sua storia: non era possibile che fosse al corrente della morte
del signor Livingstone o della signora Holt e quindi immaginava che fossero
ancora dentro. Si è precipitato in casa per cercare di salvarli ma ahimè…
Poveretto.»
JASPER?
Sul viso del dottore si aprì un sorriso di sollievo. «Almeno qui ci sono
buone notizie. Il piccolino non l’ha abbandonata. Ha montato fedelmente la
guardia. Al sorgere del sole, sono arrivati i nostri in risposta al telegramma
del signor Livingstone. Date le sue condizioni, la polizia ci ha permesso di
trasferirla alla nostra infermeria e il gattino ha cercato di seguirla. Uno dei
portantini si è impietosito e l’ha portato qui. Da allora vive con il nostro capo
sorvegliante. L’ho visto. È molto grasso e sembra anche molto felice.»
SETTE, scrisse lei.
«Prego?»
SETTE VITE.
«Ah! Sì, più o meno.» Il dottor Shepherd sciolse l’intreccio delle gambe e
si protese posando le mani sulla scrivania. Aveva unghie corte e regolari. Dei
peli biondi sulle nocche. Accanto a lui, la mano ustionata di Elsie sembrava
la zampa di un mostro. «Per fortuna, noi non abbiamo avuto sette vittime.
Soltanto due. Il signor Livingstone e la signora Holt.»
Finalmente la guardò negli occhi.
«Signora Bainbridge, io non credo che li abbia uccisi lei. Non l’ho mai
creduto. E mentre non posso credere nemmeno a tutti gli aspetti del suo
racconto, credo però nell’amore che nutriva per il signor Livingstone. Non gli
avrebbe mai fatto del male. Ho l’impressione che l’incendio sia stato un
incidente, come accade in molti casi. Ha consumato due vite e ha quasi
consumato anche la sua, fino a quando la Provvidenza non le ha permesso la
fuga. Ma lei deve comprendere che questa mia convinzione è immateriale.
Quando la esaminerà una giuria, vedranno una donna il cui padre è morto in
circostanze sospette e il cui marito è deceduto a pochi mesi dal matrimonio,
recandole considerevoli vantaggi. Due domestiche uccise in circostanze
misteriose. E poi, proprio il giorno in cui al manicomio arriva un telegramma
secondo il quale lei è ingestibile e va frenata… Si renderà conto anche lei di
quale immagine ne esce.»
Assassina. Quel nome non corrispondeva all’Elsie della storia, ma adesso
ne aveva la faccia: la carne rosata e lustra; i capelli rapati; occhi che
sembravano avvitati nelle orbite. Un mostro, dato in pasto al pubblico.
L’avrebbero divorata, ne avrebbero scritto, si sarebbero lanciati in affettati
gridolini di piacere nel vederla barcollare verso e dal banco degli imputati.
«Ho pochissime opzioni, signora Bainbridge. Devo scrivere la mia
relazione, e presto.» Gli tremavano le dita. Avrebbero scritto le parole
successive, quelle che avrebbero deciso il suo destino. Guardò quelle dita
sottili e affusolate, incerta. Avrebbero davvero potuto salvarle la vita?
«A mio parere, ho soltanto due modi per tenerla fuori dal carcere. Il primo
è che lei aderisca alla mia teoria. Accetti di essere una persona disturbata,
segnata da due genitori crudeli e insensibili. Mi permetta di dire che Sarah è
una parte ben distinta del suo inconscio, che forse può avere ucciso ma che
non può accettare di averlo fatto, e quindi si è inventata questi fantasmi,
questi Amici, a cui addossare le sue colpe. Il verdetto sarà senza dubbio di
colpevolezza, ma almeno avremo la possibilità di chiedere l’infermità
mentale. Questo significa Broadmoor, e non Newgate.»
Lasciare che tutti credessero che Jolyon l’aveva ucciso lei? Finire su tutti i
documenti come distruttrice della sua vita? Scosse la testa con veemenza.
«Ci rifletta su, signora Bainbridge. Mi prometta che lo farà. Potrà non
essere tutta la verità ma… è la nostra migliore speranza.»
La matita le scivolò nella mano sudata. QUAL È L’ALTRA STRADA?
Lui fece una smorfia. «Be’, ce n’è una, ma temo che non sia praticabile.»
SÌ.
«Mia cara signora Bainbridge, l’altra strada è pregare che Sarah
Bainbridge entri da quella porta, pronta a giurare sulla sua innocenza.»
Quella notte sognò Sarah. Abito color lavanda, mantello grigio che fluttuava
nella pioggia. Dei rami si contorcevano sopra la sua testa, tentando di
afferrarla con una richiesta muta. I suoi stivaletti scalpicciavano nelle
pozzanghere che ribollivano sul terreno.
Davanti a lei si estendeva il paesaggio: rigagnoli, collinette nere e la massa
aggrovigliata delle siepi. Dietro c’era il paese di Fayford in sfumature di
argento e grigio, un dagherrotipo del posto che Elsie aveva conosciuto. Non
c’era luce.
Sarah inciampò. Aveva l’orlo della gonna incrostato di fango, le caviglie
bagnate e il vestito fradicio, che le si appiccicava alle gambe. Sembrava
completamente perduta, completamente sola. Annegava.
Un cigolio lungo e basso, come un gemito di dolore nel buio. Due colpi
pesanti: tump, tump. E poi di nuovo il cigolio.
Elsie sbatté le palpebre. Quel suono proveniva dal suo sogno? Oppure era
nella stanza? Vedeva ancora Sarah, impaurita dagli aghi di pioggia argentea
che le cadevano addosso, ma non sentiva odore di terriccio bagnato, né il
tintinnio metallico delle gocce; le sue narici si erano riempite di un profumo
più dolce e intenso. Rose.
Si svegliò di soprassalto e mosse istintivamente le braccia. Erano
inchiodate ai lati del corpo, appesantite dalle lenzuola rimboccate. Cercò di
guardarsi intorno ma vide soltanto tenebre.
Le assi del pavimento scricchiolarono. Elsie sentì un brivido lungo la spina
dorsale. Dei colpetti simili ai passi delle zampe di un animale.
Jasper?
No; Jasper non c’era. Lei non si trovava a The Bridge. Esalò un sospiro,
sollevata da quel pensiero: non era laggiù.
Toc, toc. Sobbalzò. Qualcuno alla porta.
Non risponderò, pensò agitatissima, non potevano costringerla a farlo.
Cercò di nascondersi sotto le coperte ma erano strette, così strette. Sentì di
nuovo bussare.
Chi poteva essere? Infermiere, sorveglianti, dottori: nessuno di loro
bussava per avere il permesso di entrare.
La paura le strozzava la gola. Non riusciva a parlare né a gridare; poteva
soltanto agitare le gambe in fondo al letto, mentre il cigolio si avvicinava
sempre più. Le lenzuola si rifiutavano di allentarsi e faceva caldo; un caldo
tremendo, come un alito d’inferno.
Le venne la nausea. Avrebbe voluto mettersi a piangere. Con la forza della
disperazione, riuscì a svincolare le braccia dalle lenzuola e a tastare sotto il
cuscino. Ti prego, fa’ che ci siano ancora. Ma no, quello era il passato. Là
dentro non le permettevano di tenere dei fiammiferi.
Qualcosa le sfiorò un piede.
Bruciava come un ferro rovente. Frecce ardenti le bucarono la pelle e le si
infilarono nelle vene. Le penetrarono la gola bloccata e liberarono un urlo.
Fuori, dei passi pesanti. Voci, gente vera, che veniva in suo aiuto. Tenne
gli occhi ben chiusi e urlò più forte. Non vedeva l’ora che arrivassero.
Li udì agitare la catena, far scorrere il chiavistello nella guida. Ma perché
ci mettevano tanto?
Un altro ferro rovente sulla gamba. Stavolta vicino allo stinco.
Bang. La porta andò a sbattere contro la parete. Nel corridoio erano accese
delle lampade a gas, il cui bagliore rimbalzò nella stanza.
Fu soltanto un’immagine fugace, tra le ombre rapidissime, ma Elsie la
vide: Sarah. Di legno dipinto.
Urlò di nuovo.
«Fate attenzione.» La voce bassa di un sorvegliante.
Qualcosa sibilò, poi il suo campo visivo fu attraversato da uno squarcio di
luce. Chiuse gli occhi, accecata. Era la lampada della sua stanza: l’avevano
accesa. Molto lentamente, riuscì ad aprire gli occhi. Sarah non c’era più. Al
suo posto c’erano due sorveglianti robusti e un uomo con dei polsini di carta.
«Adesso!»
Con un balzo, le afferrarono la carne tenera dei polsi. Altri due sorveglianti
le strinsero le caviglie. Ora le lenzuola ricaddero facilmente, non più tese e
soffocanti.
Lei scalciò e si dimenò, ma loro non cedettero. Erano insensibili ai suoi
colpi, sordi alle sue urla. Cercò di mordere. La sua bocca si riempì di un
sapore acre e asciutto mentre gliela tappavano con uno straccio. Imbavagliata,
tentò di sputarlo, ma qualcosa le copriva la faccia, bloccandole la visione
laterale; qualcosa di ruvido e rigido, che puzzava di terrore.
Sentì le costole comprimersi. Le sue mani frenetiche furono infilate dentro
a maniche infinite. Per un attimo diventò una figura spettrale con lunghe
braccia penzoloni e priva di mani. Poi le maniche le furono incrociate sul
petto e strettamente assicurate dietro la schiena. Un cadavere: l’avevano
legata nella posizione del cadavere.
L’uomo con i polsini di carta le rivolse un sorriso orribile. Aveva i denti
marci. «Meglio chiamare il dottore. Diavolo, bisogna dirgli che qui è
successo un miracolo. L’assassina parla.»
Lei ci provò. Le parole erano tutte lì, in fila nella sua gola, che si
affannavano per uscire: “Corri”, “Sarah”, “Amici”, “vengono”. Ma la sua
lingua gonfia e inaridita si rifiutava di muoversi.
Emise una specie di fischio e fu tutto. La patetica eco del sibilo degli
Amici.
«Non mi sembra proprio che riesca a parlare» disse un sorvegliante.
L’uomo la guardò e il suo sorriso diventò un sogghigno. «Be’, perlomeno
sa urlare.»

Di nuovo la stanza imbottita. Doveva essere quella, sentiva l’odore della


paglia sotto la tela lurida che rivestiva le pareti. Paglia, odori corporali e
paura: un puzzo penetrante che non era facile dimenticare.
Il pavimento era ricoperto di tela cerata e cigolava sotto i suoi piedi nudi
che camminavano avanti e indietro, avanti e indietro. Lo sentiva; sentiva le
fibbie del corsetto che le grattavano il torace. Era accaduto lo stesso anche
alla madre di Rupert? No, no, no. Desiderava soltanto tornare a quel tempo in
cui il mondo era immobile e sicuro. Ma perché aveva iniziato a scrivere?
Da qualche parte dentro l’ospedale suonò una campanella. Troppo sonora,
troppo reale, anche attraverso la paglia.
Doveva vedere il dottor Shepherd. Se l’aveva svegliata, forse era anche in
grado di farla dormire. Così non avrebbe fatto quegli incubi orribili su Sarah,
non sarebbe stata costretta a sopportare le fasi successive del procedimento.
Un’inchiesta? Un processo? Sarebbe salito su una pedana a parlare di lei
come se fosse una pianta rara, mettendo in luce tutto ciò che si nascondeva
sottoterra. Uomini come quel potenziale investitore nella fabbrica, il signor
Greenleaf, grasso, privilegiato e irto di peli, sarebbero rimasti lì ad ascoltare e
insieme avrebbero deciso il suo destino.
E di quale destino si trattava? Il dottor Shepherd aveva detto che il meglio
che poteva sperare era Broadmoor: una fortezza per i pazzi criminali. Aveva
la sensazione che al confronto il St Joseph avrebbe fatto la figura dell’hotel
Claridge.
Forse se il farmaco fosse stato abbastanza forte, come prima, sarebbe
riuscita a sopportarlo. Ma sopravvivere come ora, sveglia, presente, in grado
di ricordare? Impossibile.
Il clic di una serratura. Il dottor Shepherd si precipitò nella stanza.
Gli era successo qualcosa. Non portava né giacca né panciotto, era in
maniche di camicia e aveva solo delle bretelle beige in bella vista. Era
spettinato. Elsie notò che aveva l’impronta di un pollice su una lente degli
occhiali e alcune macchie d’inchiostro sulla punta delle dita.
«Signora Bainbridge, mi perdoni. Sarei dovuto venire molto prima, quando
ho saputo della sua piccola crisi, ma sono stato ostaggio degli eventi.» La
squadrò ben bene, vedendola veramente per la prima volta. «La camicia di
forza? Non mi ero reso conto che avessero fatto una cosa del genere. Le
porgo le mie scuse, signora Bainbridge, chiederò che gliela tolgano e che la
rimettano in una stanza appropriata. Perché avranno pensato che tutto questo
fosse necessario? Io credevo che lei avesse fatto solo un brutto sogno.»
La guardò. Lei fece altrettanto.
«Oh, ma certo, non può scrivere… le sue braccia. La prego di perdonarmi.
Non sto ragionando.»
Quasi per un ripensamento, si chiuse la porta alle spalle. Aveva gli occhi
iniettati di sangue, come se non avesse dormito. Ma in fondo non poteva
essere sicura dello scorrere del tempo, in quella cella senza finestre. Poteva
anche essere notte fonda.
«Stavo scrivendo la mia relazione» disse il dottor Shepherd. Si accorse di
avere le dita sporche d’inchiostro e le asciugò distrattamente sulla parete.
«Vede, ecco la prova! Stavo elaborando la teoria di cui abbiamo discusso, sui
suoi genitori e la signorina Bainbridge, quando… be’, dovrò rifare tutto.
Oppure non scriverla affatto, non so. Questa è una situazione estremamente
anomala.»
Non aveva mai sentito così tanto la mancanza della propria voce. La sera
prima aveva urlato, ma le era sembrato di non riuscire a fare altro. Ricordava
il diario di Anne, il demonio che tratteneva la lingua di Hetta. Era così che si
sentiva: con una camicia di forza sulla lingua senza che nessuno potesse
sciogliere i lacci.
Il dottor Shepherd si tolse gli occhiali e se li pulì sulla camicia. «Devo dire
che per il mio orgoglio è stato un brutto colpo. Credevo di avere capito tutto e
la relazione era scritta molto bene. Ma in questi casi uno può dirsi felice di
essere stato smentito. Lei mi guarda. Ma certo, non ho ancora cominciato a
spiegarmi.» Si rimise gli occhiali, ma erano ancora macchiati. «Le chiederei
di sedersi ma sembra proprio che i miei sbadati colleghi non abbiano
procurato sedie. Non ha importanza. Devo solo domandarle, signora
Bainbridge, di prepararsi a qualcosa di favolosamente bizzarro.»
Ma parlava sul serio? Favolosamente bizzarro? Aveva letto la sua storia?
«Ieri sera tardi, o meglio, questa mattina presto, ho ricevuto un
telegramma. Riguardava l’annuncio che ho fatto pubblicare, la richiesta di
informazioni sul conto di Sarah Bainbridge.»
La stanza parve dilatarsi. Elsie trattenne il fiato.
«Lei non mi crederà, dopo tutto questo tempo, ma era firmato da Sarah.
Esiste ed è viva.»
Viva. Quante possibilità in una parola sola: una porta della sua cella, della
sua cripta che si apriva.
Doveva essere impallidita, perché lui le afferrò saldamente la spalla. «Sì,
capisco cosa prova. È un miracolo. Mi fa tanto, tanto piacere per lei, signora
Bainbridge. Congratulazioni.»
Sarah avrebbe giurato che la morte di Jolyon era stata un incidente. E
sebbene non fosse stata presente al suicidio della signora Holt, avrebbe
potuto testimoniare del suo stato d’animo in quei momenti, della rabbia e
della delusione che aveva manifestato in seguito alla perdita della sua unica
figlia.
Dopo tutto questo, nessuno avrebbe potuto dire che Elsie era una pazza
criminale. Non era un’assassina. O almeno, non in quel senso. Il dottor
Shepherd avrebbe rivelato la sua strana storia e la confessione riguardante la
morte dei genitori? Elsie non credeva che l’avrebbe fatto. Lui aveva un
sorriso da un orecchio all’altro e l’aria di credere di averla appena salvata
personalmente dal patibolo.
«Naturalmente, le comunicazioni via telegramma in genere sono molto
asciutte. Non ho potuto rivolgere a Sarah molte domande, ma potrò farlo di
persona. Viene dopodomani. L’ospedale le ha concesso un incontro con noi
due. Mi ha detto che ha intenzione di presentarsi alla polizia, ma che prima
desiderava vedere lei.»
Sarah. Non più un semplice personaggio della sua storia, ma una persona
in carne e ossa che le voleva bene. Quel pensiero le strinse la gola per la
gioia.
Cos’aveva detto prima di partire per Torbury St Jude? Qualcosa a
proposito di ricostruire le loro vite insieme. Sì, potevano davvero farcela.
Con la testimonianza di Sarah, Elsie poteva riacquistare la libertà. Qualcuno
avrebbe badato a lei, avrebbe avuto qualcuno per cui vivere. Non avrebbe
trattato Sarah come aveva fatto la signora Crabbly, come una semplice
compagnia a pagamento. Avrebbero ricominciato insieme, da pari.
«Bene» disse il dottor Shepherd. «Meglio che mi renda presentabile prima
che inizi il mio giro. Stia qui tranquilla, signora Bainbridge, manderò
qualcuno a slegarla. Il personale non ha più scuse ormai, non può più trattarla
come una criminale.»
Non si preoccupò quando lui chiuse la porta, facendola ripiombare
nell’oscurità. Non si preoccupò nemmeno della camicia di forza che le
bloccava la circolazione nelle braccia. A quel punto poteva sopportare tutto.
Era una situazione temporanea.

Le avevano fatto il bagno. Il dottor Shepherd aveva perfino convinto le


infermiere a metterle un camice nuovo, non ancora scolorito dai troppi
lavaggi. Aveva un fazzoletto azzurro legato intorno al collo: per avere un’aria
rispettabile, per quanto possibile tra i pazzi. Ma Elsie non riusciva a
contenere la propria ansia paralizzante. Come avrebbe reagito Sarah quando
fosse arrivata?
Con quel pavimento di piastrelle e la sua luce acquatica, quella lunga
stanza a Elsie ricordava un obitorio. Al centro era stato posizionato un tavolo
di metallo. Da un lato erano seduti lei e il dottor Shepherd; dall’altro era stata
preparata una sedia per Sarah. Elsie riusciva a vedere la porta nell’angolo a
sinistra della camera e, davanti, uno specchio rotondo appeso appena sotto il
soffitto. Era inclinato, in modo che entrando un medico o un sorvegliante
potesse osservare i punti più lontani; insomma, perché potesse controllare se
un pazzo era sul punto di aggredirli.
Lo specchio non rifletteva distintamente il viso di Elsie. Riproduceva solo
il colore della pelle, che somigliava al ripieno delle salsicce. Sembrava
rimpicciolita, un relitto della donna che Sarah aveva conosciuto. Sulla testa
aveva una cuffietta bianca che nascondeva i capelli ridotti a ciuffetti
frastagliati.
Avevano preparato Sarah allo shock che avrebbe subìto vedendola?
Il dottor Shepherd la toccò. «Coraggio, signora Bainbridge. Sarà qui tra un
momento.»
Aveva lo stomaco contratto per il nervoso. Un po’ aveva paura che Sarah
la guardasse e si mettesse a urlare. Ma in fondo era sempre Sarah, che si era
presa cura di signore anziane, che aveva perfino provato pietà per Hetta.
Sarah era gentile. Avrebbe guardato oltre il suo aspetto sfigurato. Quando
fosse passato lo stupore iniziale, avrebbero ricominciato da dove si erano
lasciate, ma stavolta libere dalla paura.
Cos’aveva detto Sarah, una volta? Il fuoco li rende più forti. Non era vero.
The Bridge era finita in fumo, e il male con essa. Tra le macerie non erano
stati trovati Amici, gliel’aveva confermato il dottor Shepherd. Solo ossa e
cenere.
I cardini cigolarono. Il dottor Shepherd balzò in piedi. Elsie non si fidò
delle proprie gambe: non si alzò e si limitò ad aggrapparsi al bordo del
tavolo.
«La signorina Bainbridge per lei, dottore» disse un sorvegliante.
Elsie era così preoccupata della propria immagine che non si era fermata a
immaginare quale aspetto avrebbe avuto Sarah. Si aspettava la stessa
fanciulla scialba e malvestita che aveva salutato quella notte. Ma la signora
che entrò nella stanza indossava un abito di seta verde arsenico, abbottonato
fino al collo, con dietro un sellino frangiato, che frusciava. I capelli color
topo che prima continuavano a sfuggire alle forcine erano ben pettinati
all’indietro e acconciati in un cumulo di rigidi ricci a cascata. Inclinato sulla
testa portava un cappellino nero con una piuma verde e una veletta sul viso.
Un’impostora.
Eppure… no, la faccia era la stessa. Magari un pochino più rotonda e
migliorata con i cosmetici, ma gli zigomi erano sempre troppo alti e la bocca,
che sorrideva al dottor Shepherd, era sempre troppo larga.
«Oh! Signora Bainbridge!» Si precipitò a stringere le mani di Elsie. Le sue
erano morbide, racchiuse in aderentissimi guanti di capretto. «Santo cielo,
non avevo idea che stesse così male. Il suo povero viso! Che cosa deve avere
passato.»
Nella sua voce c’era una nota che Elsie non aveva mai colto prima, più
femminile e flautata. Ma forse non si ricordava bene.
Ricambiò la stretta di Sarah, cercando di mettere in quella pressione tutte
le sue emozioni. Non riuscì a guardarla dritto negli occhi, però, non ancora.
Non voleva leggervi disgusto e pietà.
«Credo di averle spiegato, signorina Bainbridge, che dal giorno
dell’incidente la mia paziente incontra delle difficoltà a parlare. Io le farò da
interprete, se la cosa non le dispiace.»
«Ma certo.» Sarah ritirò le mani e prese la sedia offertale dal dottor
Shepherd. Le stecche del vestito le facevano assumere una posizione rigida.
«Non c’è da stupirsene, dopo tutto quello che è successo.»
Il dottor Shepherd tornò alla sua sedia. Elsie lanciò un’occhiata al viso di
Sarah, che però stava guardando il dottore.
«In realtà capita spesso, quando un paziente ha subìto un trauma» disse il
dottor Shepherd. «Ma in questo caso si è dimostrato un problema ancora più
grave. La polizia non è stata in grado di interrogare la signora Bainbridge e
riguardo alle indagini ha assunto una posizione difensiva. Le ipotesi su ciò
che è accaduto a The Bridge hanno raggiunto il parossismo.»
«È per questo che sono qui. Per dire quello che so.» Sarah gli rivolse un
sorriso. Fu un istante piuttosto strano.
«E proprio al momento giusto! Ormai stanno per istruire l’inchiesta. Posso
chiederle, signorina Bainbridge, e mi perdoni l’impertinenza, cos’è stato a
trattenerla dal farsi avanti per così tanto tempo?»
«Credevo fosse ovvio, dottore. Avevo paura.»
«Paura? E di cosa?»
«Oh, senza dubbio un uomo intelligente come lei lo giudicherà stupido.» Si
gettò un ricciolo dietro una spalla. «Ma a The Bridge c’erano state così tante
morti! E poi il signor Livingstone ha deciso di mettere la sorella in
manicomio, e mi è sembrato opportuno andarmene da quel posto.»
Un attimo di immobilità. Cosa… cos’aveva detto?
Il dottor Shepherd esitò un istante, a bocca aperta. «Ma quindi… lei è
fuggita? Non si è smarrita, non si è ferita nel tentativo di chiamare la
polizia?»
«So cosa deve pensare di me, dottore. Sono stata una vigliacca terribile.
Ma adesso voglio essere coraggiosa. Dopo tutti questi anni, finalmente ho
trovato la mia voce.»
Elsie la fissò. Il profilo di Sarah divenne indistinto, ondeggiò sotto un velo
di lacrime.
Sarah l’aveva abbandonata? Di proposito? Le aveva mentito, aveva preso
il suo borsellino ed era scappata lasciandola in pasto agli Amici? Proprio lei,
Sarah?
Quel tradimento era così intenso e oscuro che riusciva quasi a sentirne il
sapore. Ripensò alle proprie parole. A me succede sempre, Jo. Mi fido della
gente e loro se ne approfittano.
Il dottor Shepherd stava scartabellando tra i suoi appunti, tutto rosso. «Ma
lei… insomma… non ha pensato che fosse suo dovere farsi avanti, dopo
l’incendio? Quando la polizia cercava informazioni?»
«In quella fase non era chiaro se la signora Bainbridge sarebbe
sopravvissuta. Ho letto che aveva riportato ferite terribili.»
Un altro colpo. Lo sapeva. E anche se sui giornali aveva letto che The
Bridge era stata rasa al suolo e degli Amici non esisteva più traccia, non si era
preoccupata di andarla a trovare. Elsie aveva combattuto per sopravvivere e
Sarah non aveva alzato un dito.
Quella era la donna con cui solo il giorno prima Elsie aveva sperato di
condividere la vita, per la quale aveva sperato di vivere! Come aveva potuto
sbagliarsi tanto?
«Be’, sì, ma questo non… cioè, indipendentemente dalla sopravvivenza
della signora Bainbridge, lei aveva delle informazioni. Informazioni sulla
morte del signor Livingstone.»
«Sì, che Dio mi assista.» Sarah tirò fuori un fazzoletto e si tamponò gli
occhi. La tinta del suo vestito era così intensa che le si rifletteva nelle iridi,
dando al nocciola una sfumatura verde. «Non volevo dirlo, a meno che non ci
fossi stata costretta. Ma adesso è mio dovere, e lo capisco. Altre persone
potrebbero trovarsi in pericolo.»
«In pericolo di…?»
Sarah guardò Elsie e fece una smorfia. «Oh, mi perdoni! Lo sa che devo
dirlo!»
Dirlo? Si riferiva forse agli Amici? Scambiò un’occhiata stupefatta con il
dottor Shepherd, le cui guance si arrossavano sempre più.
«Ho l’impressione che stiamo parlando con scopi diversi in mente,
signorina Bainbridge. Io non vi ho attribuito molta importanza, ma la signora
Bainbridge mi ha parlato di un elemento del mobilio del quale sembra che
abbiate avuto paura entrambe, qualcosa che lei chiamava “Amico”. È questo
a cui sta alludendo?»
«Poverina» sussurrò lei, «poverina.»
«Signorina Bainbridge?»
«Ecco perché il signor Livingstone le ha scritto presso il suo ospedale,
dottore. Continuava a vedere quegli Amici ovunque, ma li vedeva soltanto
lei.»
Il dottor Shepherd inclinò la testa. «Io credevo… ma non ha scritto che li
vedeva anche lei?»
«Forse l’ho un po’ assecondata, per tranquillizzarla, dottore.» Sarah torse il
fazzoletto. «Non sapevo cos’altro fare. Avevo tanta paura che se l’avessi
contrariata la prossima sarei stata io.»
«La prossima?»
«Quegli… incidenti. Era molto chiaro ciò che stava accadendo, ma
nessuno voleva ammetterlo. La vacca, il piccolo Edgar, Helen. Il signor
Livingstone non è riuscito ad affrontare la verità fino a quando per lui non è
stato troppo tardi.»
«Lei… lei…» Il dottor Shepherd cominciò a balbettare. Elsie gli lesse in
faccia tutta la sua confusione e il suo sgomento. «Mi sta dicendo…»
«L’ho vista. L’ho vista spingerlo da quella finestra con le sue stesse mani.
E non ho alcun dubbio che abbia ucciso anche la povera signora Holt, prima
di appiccare l’incendio.»
No. Come potevano non sentirla, come faceva la sua lingua a non dirlo?
Quella parola le rimbombava così forte nella testa che avrebbe dovuto
echeggiare tra le pareti e rimbalzare nei corridoi. No!
Non era vero, non avrebbe mai fatto del male a Jolyon! Non era
un’assassina!
Ma allora perché Sarah la fissava così?
Vide le certezze del dottor Shepherd crollare, il suo coraggio scivolare via.
«Oh! Oh, capisco…»
Erano ancora seduti dallo stesso lato del tavolo, ma ormai non erano più
una squadra. Lo spazio tra le loro spalle vibrava come elettricità statica. Nella
mente dovevano sfrecciargli i pensieri che stava facendo anche Elsie: Perché
mi sono fidato di lei? Come ho potuto essere così stupido? Perché mi ha
tradito così?
«Ora capisce perché ho esitato» disse Sarah. «Volevo bene alla signora
Bainbridge, davvero, e sono rimasta sconvolta quando… non volevo dire
cose che le avrebbero nuociuto, se avessi potuto evitarlo. Ma ora è giunto il
momento.»
«Sì.» Il dottor Shepherd si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi. Non
guardò Elsie. «Sì, credo che l’inchiesta inizierà la settimana prossima.
Dobbiamo consultare la polizia. Lei…»
«Sono pronta a testimoniare. Devo mettere da parte i miei sentimenti
personali in nome della giustizia.» Si lasciò sfuggire un lieve sospiro. «Anche
se questo significa vedere impiccata la vedova del mio povero cugino.»
«Impiccata!» ripeté il dottor Shepherd.
Elsie se lo sentì intorno al collo, il cappio che stringeva. Il legno, sempre il
legno, sotto i piedi fino a quando non avessero spostato una leva e la botola
non si sarebbe spalancata.
«È una possibilità, no, dottore? Sono morte quattro persone.»
«Be’… sì, in teoria potrebbero comminarle la sentenza capitale. Ma lei
stessa ha detto che non è a posto con la testa. Sicuramente la giuria la
dichiarerà non colpevole per infermità mentale.»
«Questo è il mio più fervido desiderio.» Sarah osservò Elsie e il suo
sguardo di disprezzo la raggelò. «Ma immagino che dipenda da quello che
verrà detto durante il processo.»
Niente di tutto ciò era reale. Quelli erano attori che agitavano le mani, che
recitavano delle battute che restavano sospese nell’aria. Il cigolio delle gambe
della sedia contro le piastrelle; la frase affannosa di Sarah, «Che Dio la salvi,
cara signora Bainbridge!»: tutto quello non poteva essere accaduto. Non lì.
Non a lei.
Guardò lo specchio nell’angolo della stanza. Una donna smagrita e con la
pelle ricoperta di macchie sedeva ingobbita a quel tavolo, sola. Le sue mani
sembravano zoccoli. Aveva tutta l’aria di un’assassina.
Jolyon. Anche nella più folle delle crisi, sotto l’effetto della più forte delle
droghe, sapeva che non avrebbe mai potuto fargli del male. La signora Holt,
Mabel… be’, forse sì. In extremis. Ma Jolyon mai, mai.
Il dottor Shepherd e Sarah si erano avvicinati alla porta, dove si fermarono
a parlare.
«Posso accompagnarla alla stazione, dopo aver finito il giro qui. Sono
sicura che non desidera tornarci da sola.»
«Molto gentile da parte sua. Apprezzo davvero che mi abbia dedicato il
suo tempo, dottor Shepherd.»
«Ma s’immagini. E poi forse avrà bisogno di sostegno quando la
interrogheranno. Gli ispettori possono essere elementi difficili. Potrebbero
diventare un po’ bruschi quando le chiederanno dov’è stata tutto questo
tempo.»
«Domanda legittima. Posso biasimare soltanto me stessa.» Sarah si infilò
un dito sotto il colletto. Là sotto, qualcosa luccicava.
«Comprensibile, date le circostanze.»
«Spero che la tratterà con gentilezza, dottore. Per quanto ne sarà capace.
So che ha fatto cose orribili, ma… non mi piace pensare che debba soffrire
inutilmente.»
Diamanti. Sarah portava al collo dei diamanti.
«Farò tutto il possibile. Non posso garantire per Broadmoor o Newgate, o
dove la manderanno in seguito.»
Sarah si voltò. «Addio, signora Bainbridge. Dio le conceda la pace.
Pregherò che con il tempo giunga a comprendere ciò che ho fatto. Non
potevo tacere per sempre. Devo essere libera.» Sospirò. «Non vuole almeno
salutarmi con un cenno, mia cara?»
Ma Elsie non stava guardando Sarah. I suoi occhi erano fissi sullo specchio
e sulle due figure sulla soglia.
Era tutto capovolto. Il vestito verde arsenico, il sellino, il cappellino. Ma il
viso che faceva capolino sotto il velo non era l’immagine speculare di Sarah.
Il naso era più corto, le guance più piene.
I ricci color topo di Sarah erano stati sostituiti da capelli d’oro rosso.
Non somigliava affatto a Sarah. Sembrava…
«Be’, addio, signora Bainbridge. Grazie per tutto ciò che ha fatto per me.»
E mentre si girava e chiudeva la porta, a Elsie tornò in mente dove aveva
già visto quel volto.
Hetta.
Ringraziamenti

Ci sono molti “Amici silenziosi” nascosti dietro il mio nome sulla copertina
di questo libro e vorrei cogliere l’opportunità per rivolgere a tutti loro i miei
più sentiti ringraziamenti.
A Juliet Mushens, la mia meravigliosa agente, a cui il libro è dedicato. Hai
creduto nella mia idea fin dall’inizio. Non sarei mai potuta arrivare così
lontano senza i tuoi consigli e i tuoi incoraggiamenti. Grazie, grazie, grazie.
Allo staff di Raven Books, e soprattutto ai miei editor Alison Hennessey e
Imogen Denny. Siete le persone più intelligenti e adorabili con cui potessi
mai sperare di lavorare. Il vostro entusiasmo per la storia mi ha tenuto a galla
e ha reso un piacere l’esperienza della pubblicazione. A David Mann, per
quella copertina. Ti sarò sempre grata della bellissima veste che hai dato alla
mia scrittura.
Grazie a Hannah Renowden per avermi informato dell’esistenza di quelle
inquietanti figure di legno e per aver messo in moto le mie rotelline. Ai miei
primi lettori Anna Drizen, Laura Terry, Sarah Hiorns e Jonathan Clark: i
vostri giudizi sono stati preziosissimi.
Sono grata a Mimi Matthews e a Past Mastery per i loro esaurientissimi
blog, che hanno corroborato le mie più ampie ricerche. Grazie anche allo staff
di Harris & Hoole di Colchester, per avermi fornito ogni giorno la mia dose
di caffeina!
Infine il grazie più importante, a mio marito Kevin. Mi hai aiutato con gli
snodi nella trama, hai contribuito al brainstorming di idee e mi hai sostenuto
in parecchie crisi legate a questo libro. Ti amo con tutto il mio cuore.

Potrebbero piacerti anche