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BRUNO KARSENTI

IL LEGISLATORE,
O LA SOCIETÀ DEMOCRATICA NELLA STORIA

Il legislatore è una figura antica che è diventata, nella mo-


dernità, oggetto di una nuova interpretazione funzionale. È
questa nuova interpretazione funzionale che qui si vorrebbe
comprendere, indagando le ragioni del ritorno del passato nel
presente, ossia sforzandosi di descrivere ciò che si trasmette
dalla politica antica alla politica moderna proprio mentre, nel
corso di questa trasmissione, qualcosa si modifica nell’antico
per renderlo significativo nel moderno. Il punto fermo di que-
sta riflessione è noto: la figura del legislatore viene ripresa in
uno dei testi fondativi della modernità politica, il Contratto
sociale di Rousseau, attraverso l’evocazione di alcune figure
antiche e la ridefinizione del suo ruolo nella modernità.
Anche il problema specificamente moderno rappresentato
dal legislatore è ben noto: si tratta, in pratica, di far penetrare
la politica fondata sulla ragione nella realtà storica. Questa in-
scrizione – in forma di evocazione e di rielaborazione, ripetia-
molo – risponde dunque a un dilemma che si può cogliere a
livelli plurimi. Innanzitutto si comincia dalla risoluzione di
un’astrazione. Il contratto rischia di non essere altro che
un’astrazione, se non è resa possibile la sua realizzazione nel-
l’ambito di un popolo determinato, e di tutto il popolo deter-
minato. Esiste dunque uno iato tra il contratto come soluzione
filosofica al problema del diritto pubblico – trovare una forma
di associazione che difenda e protegga dalla forza collettiva la
persona e i beni di ogni associato; una forma in presenza nella
quale, unendosi ogni singolo individuo a tutti gli altri, egli non
obbedisca tuttavia che a se stesso e resti tanto libero quanto lo
era in precedenza – e la conseguenza storica relativa all’istitu-
zione di un popolo che vivrà in questa forma di associazione.
Esiste una differenza inseparabilmente temporale e concet-
tuale tra l’istituzione del popolo e l’istituzione del contratto: il
legislatore è l’istitutore, cioè l’agente istituente del popolo a li-

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vello del quale è possibile l’istituzione del contratto. Questi
porta dunque a osservare l’istituzione nel suo farsi, al livello
del collettivo politico da costituire. Ciò implica, come ha detto
Bruno Bernardi commentando Rousseau, una sorta di «pre-
cessione»1. E questa precessione si articola necessariamente
nella dimensione del tempo reale, che è il tempo storico. L’in-
tervento contingente del legislatore – non dominabile con gli
strumenti della teoria – e la sua interruzione evenemenziale
rendono possibile questo salto dentro il tempo, dove il corpo
politico precede se stesso nell’ordine delle fasi della sua istitu-
zione. Il legislatore si mantiene dunque per una parte essen-
ziale esterno rispetto alla filosofia. E lo è almeno per questo
aspetto, che è quello della sua interruzione. Tutto ciò che si
può dire, in filosofia, è che vi è un kairos legislatore e che que-
sto kairos è il solo vero criterio di identificazione, cioè di sma-
scheramento dell’usurpatore: «La scelta del momento è uno
dei fattori che consentono di distinguere l’opera del legislatore
da quella del tiranno con maggiore sicurezza»2. Qui è il legisla-
tore che sceglie: il filosofo è soltanto colui che valuta la perti-
nenza storica della scelta. Se il legislatore sceglie bene il suo
momento – tutto questo capitolo del Contratto Sociale mira a
caratterizzare che cosa sia un popolo “adatto alla legislazione”,
concludendo drasticamente che in Europa non esiste altro che
la Corsica – allora egli è un vero legislatore, dice il filosofo. Ciò
che rimane filosofico è dunque la valutazione della coincidenza
tra il momento adatto e la buona azione in vista del compi-
mento di uno “Stato ben costituito” che prevede l’attualizza-
zione dei due tratti fondamentali di una legislazione conforme
alle esigenze del contratto: l’eguaglianza e la libertà.
Da questo problema emerge un secondo livello di inda-
gine, più profondo. Lo iato non si verifica soltanto tra
l’astratto e il concreto, tra il generale e il particolare, tra il fi-
losofico e lo storico, ma tra due livelli della pratica filosofica

1
Cfr. B. Bernardi, La fabrique des concepts. Recherches sur l’invention
conceptuelle chez Rousseau, Paris, Champion, 2006, pp. 506-507.
2
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, trad. it., Torino, Einaudi, 2005, II, X,
p. 69.

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o della filosofia politica: da un lato, un livello in cui la filosofia
si pratica nella sua temporalità, che è quella della costruzione
dei principi del diritto pubblico universalmente validi; dall’al-
tro lato, un livello in cui la filosofia si pratica in una tempo-
ralità che non è la sua, ma che è determinata dal corso degli
eventi, con i suoi problemi, le sue sorprese, i suoi momenti
opportuni da cogliere, le sue occasioni mancate: il tempo
della fortuna. Il legislatore è dunque una soluzione di for-
tuna, il che non significa un espediente o un mezzo trovato in
mancanza di meglio, ma una soluzione che si attua nella for-
tuna della politica intesa come percorso storico tormentato
dei popoli e degli Stati. Ora, ciò che è moderno è proprio la
nuova tensione instaurata tra la fondazione di una politica
razionale e il tessuto della storia. Questa tensione può defi-
nirsi nel modo seguente. Dal momento che la società è giunta
al punto in cui è suscettibile di determinare i principi dalla
sua autoistituzione, visto che il carico del governo di tutti può
essere il risultato di una particolare attualizzazione di questi
“tutti” (ancora una volta, una «forma di associazione») e dal
momento che la democrazia – non in quanto regime partico-
lare, come gli antichi lo avevano pensato in contrapposizione
agli altri regimi, ma come istituzione di potere che in se stessa
prevede la sovranità del popolo – è diventata l’ideale politico
dei moderni, allora non è possibile affermare che le società si
inscrivono nella storia, che le società hanno la storia come
contesto esteriore o che le società cercano di inscrivere nella
storia i principi che avevano pensato per loro stesse, perché
occorre affermare che le società sono esse stesse la storia.
A queste condizioni, la storia diventa il nome di un tempo
politicamente qualificato, quello proprio delle società orien-
tate verso la loro autoistituzione. Da allora, la realtà storica
delle società concrete non è altro che la storia stessa. Gene-
rando e producendo le loro forme di vita, le società non fanno
altro che mantenersi come forme in un contesto, generando la
storia come loro tessitura. La tensione caratteristica dei mo-
derni non è tra un’astrazione formale e le costrizioni legate
alle sue circostanze di realizzazione, tra la purezza di una
forma e le variabili di aggiustamento contenute in una materia
storica, ma riguarda piuttosto il fatto che è questa pretesa

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astrazione a essere concreta, che non può essere che concreta.
Il contratto vuole la storia, non ha senso che nella storia per-
ché presuppone il fatto che le società siano realtà storiche.
Quando si incontra la teoria del legislatore non si è nell’am-
bito dell’applicazione del contratto (con le sue costrizioni di
luogo e di tempo, i suoi aggiustamenti inevitabili, le sue limi-
tazioni empiriche ecc.) ma nell’ambito del reale del contratto.
E si è, allo stesso modo, nel reale della filosofia politica, in cui
si prende posto in una storia che tuttavia non è stata forgiata
dalla sua propria presa pensando un’autocostituzione politica
del popolo, ossia pensando il contratto. In che cosa consiste
esattamente la teoria del legislatore? Tale teoria si presenta
nella seconda parte del Contratto sociale, una volta definita la
sovranità della volontà generale, la sola abilitata a fare le leggi
(che sono le dichiarazioni di tale volontà).
A questo livello la necessità del legislatore, cioè di un per-
sonaggio eccedente rispetto alla volontà generale e in sovran-
numero rispetto al popolo, la necessità di una guida o di un
istitutore del popolo, è avanzata come funzione nodale, come
forma di connessione tra la volontà generale e la possibilità di
comprensione da parte del corpo politico. Poiché, afferma
Rousseau, «i singoli vedono il bene che non vogliono: la col-
lettività vuole il bene che non vede»3. Manca dunque una
fonte di illuminazione per il pubblico, dotato di una volontà,
e manca una volontà ai singoli, che hanno tuttavia qualche
barlume di chiarezza riguardo il bene comune. Il legislatore
risolve il chiasmo e ne fa una corrispondenza: egli trasporta
la luce disseminata tra gli individui al livello del popolo da
essi formato, tanto che tutti insieme essi si orientano verso
un “interesse comune” e desiderano che questo interesse si
rappresenti nel corpo politico. Il legislatore è una figura prov-
videnziale, non nel senso che è inviato dalla provvidenza ma
nel senso che questa densità storica – oltre a implicare una so-
cietà che si costituisce da sé – deve trovare nella storia un
punto di passaggio o un messaggio, che essa suscita da se

3
Ibidem, II, VI, p. 55.

150
stessa ma di cui occorre appropriarsi qualora si profili e nel
momento esatto in cui esso si profila. In una parola: la storia
deve farsi con la storia. La storia della società politica, la so-
cietà politica come storia, deve farsi con l’altra storia, che non
è la sua, ma che la diventa, che la inonda, che la precede e che
forse le succederà. Ciò che vi è qui di provvidenziale, in un
senso deteologizzato, è che un uomo (non può che essere un
uomo, perché non può essere il popolo stesso) emerge dal
nulla e rende effettiva questa ricomposizione. “Emerge dal
nulla” perché il suo luogo di provenienza non è chiaro. Non
è chiaro, per l’esattezza, perché la sua appartenenza al popolo
deve essere scartata; egli deve essere altro dal popolo, perché
il popolo storico deve entrare nella storia da una porta che
non conosce, nello stato nascente in cui si trova e quindi deve
lasciarsi condurre.
È facile comprendere quanto sia pericolosa la figura del le-
gislatore. Un’esigenza dei moderni sembra portare a ciò che la
modernità ha respinto con tutte le sue forze: una funzione po-
litica attribuita a una sola persona, a un essere superiore, solo
contro tutti, la cui individualità all’occorrenza lo oppone al po-
polo – non come suo nemico, certo, ma come sua controparte.
Guardiamo dunque tale pericolosità al suo punto apicale e po-
niamo direttamente la domanda: il legislatore non è un essere
onnipotente che farebbe curiosamente dipendere l’emergere
di una democrazia da un atto dittatoriale? Cioè al livello più
alto della legge delle leggi, al livello dell’ordine giuridico che gli
atti della volontà generale – le leggi, in senso stretto – sono in
procinto di sostituire? Carl Schmitt ha attirato l’attenzione
sulla figura del legislatore e, senza confonderla con quella del
dittatore, ha tuttavia rivelato una certa parentela tra le due:
«Tanto il legislatore che il dittatore sono qualcosa di straordi-
nario. Ma per Rousseau il legislatore è fuori e prima della co-
stituzione, mentre la dittatura è semplicemente una sospen-
sione del diritto vigente prevista dalla costituzione»4.
Il perno della distinzione e della relazione tra le due figure

4
C. Schmitt, La dittatura, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 137-
138.

151
è, qui, la costituzione. Non è dunque scontato il fatto che il
legislatore debba essere preso in considerazione in relazione
alla costituzione, come se si trattasse del suo oggetto proprio.
Il legislatore è colui che «comanda sulle leggi»5. Comandare
assume qui un significato molto particolare: è l’antonimo di
“comandamento agli uomini”. In quanto istitutore, il legisla-
tore è un preparatore alla ricezione della legge che il popolo
darà a se stesso. Egli permette dunque la visione: la sua fun-
zione è cognitiva, ma non esclusivamente cognitiva nella mi-
sura in cui la visione è tenuta ad articolarsi in rapporto alla
volontà ordinata a un bene sperimentato. Ma è veramente
prerogativa della costituzione esprimere normativamente
questa preparazione? O, piuttosto, non è forse necessario ri-
conoscere una normatività particolare a questo ingresso nel-
l’elemento della norma, cioè l’orientamento riguardante
questa preparazione, e sforzarsi di specificarla? Il legislatore
di Rousseau ha un’attività riposta nel segreto, in cui si occupa
delle usanze, delle opinioni e dei costumi. Questa occupa-
zione segreta ha un aspetto sociologico che viene raramente
sottolineato. È un lavoro sull’habitus, un lavoro che non è di
sradicamento, benché si tratti di una trasformazione. Un po-
polo dai pregiudizi radicati in modo troppo profondo6 non è
un popolo adatto alla legislazione. Ma un popolo senza que-
sta regolazione dell’habitus non è un popolo. Il kairos, che
dal punto di vista giuridico è certamente anticostituzionale,
è dunque qualificabile solo sociologicamente, non giuridica-
mente. Da ciò risulta chiaro il limite della posizione di
Schmitt.
Stando così le cose, emerge subito un enigma. Si tratta
semplicemente del fatto che il legislatore ha un nome “ingan-
nevole”: egli non ha potere legislativo. L’origine della com-
plessità è sicuramente in questo passaggio: il legislatore non
fa la legge. Il legislatore precede la costituzione e dunque si
tiene fuori dalla distinzione tra legislativo ed esecutivo, tra

5
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., II, VII, p. 57.
6
Cfr. ibidem, II, VIII, p. 61.

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sovranità e governo, così marcatamente distinte da Rousseau.
Per di più, se ha un’occupazione secretata, è certo che egli
avrà anche un’occupazione manifesta: anche se il suo com-
pito non è quello di formare una costituzione concepita come
norma fondamentale, egli avrà certamente qualche rapporto
con la legislazione nascente, che viene formulata e si mostra
al di là della sua occupazione segreta, che resta a qualificare
l’occupazione manifesta. Il patto, il contratto, precede la le-
gislazione. Ma la volontà della legislazione precede il patto.
Formare la visione legata al volere, dare o volere un bene che
possa avere interesse comune, deve indubbiamente manife-
starsi attraverso un certo tipo d’azione. Schmitt propone la
seguente lettura: il legislatore non ha un potere legislativo,
ma un’«iniziativa legislativa», con la precisazione che non si
tratta di un diritto formale di proposta allestito dalla legge. In
effetti il legislatore è una figura che riguarda un “popolo na-
scente”7, non un popolo che è già costituito politicamente.
Schmitt sottolinea allora che è opportuno rispondere a ciò
che Rousseau riconosce come una “difficoltà”, una specie di
cerchio logico da cui non sarebbe riuscito a uscire: è neces-
sario che il popolo possa ordinarsi secondo la propria legge
senza che questa esista, che il popolo acceda al diritto politico
mentre è ancora estraneo allo Stato, che ne affermi il conte-
nuto senza essere stato educato a individuarlo. Ritroviamo
qui l’argomento della “precessione”. Un popolo “nascente”
è composto di individui che, in quanto individui, vedono i
loro interessi particolari; come potrebbero dunque vedere
l’interesse comune, se non fossero già entrati nelle disposi-
zioni che una società, secondo il Contratto, espone loro?
È a questo punto che Schmitt muove la sua obiezione: una
legge “saggia”, una legge “buona” per il popolo, non può es-
sere vista direttamente dal popolo se non è già un popolo. Per
aggirare questo scoglio, Rousseau sarebbe allora stato obbli-
gato ad adottare uno stile affabulatorio, celebrando il genio
di un uomo che sarebbe più di un semplice cittadino, un in-

7
Cfr. ibidem, II, VII, pp. 56-57.

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dividuo sicuramente lungimirante e saggio: “il miracolo di una
grande anima”. Per riassumere, il nome ingannevole del legi-
slatore deriverebbe da qui: egli non fa la legge, perché la legge
si fa a partire dal popolo, ma partecipa tuttavia al suo “farsi”,
a causa di ciò che in sua assenza non potrebbe essere fatto
della legge. Nella società istituita è il popolo ad essere legisla-
tore, se vogliamo essere realmente rigorosi nell’uso dei ter-
mini. Del resto, è riferita al popolo la parola “legislatore”
impiegata nel capitolo IV del libro III, consacrato alla demo-
crazia. Si vede dunque che, trascurandone l’aspetto storico, e
più precisamente storico-sociologico, Schmitt trascina il legi-
slatore dalla parte della decisione, intesa come ultimo limite al
concetto di sovranità. Dunque non può essere questo il pro-
blema: se il legislatore è veramente estraneo all’atto sovrano –
e per di più se lo è doppiamente a causa della sua provenienza
storica: sia dal punto di vista della storia di un popolo che non
ha esperienza della sovranità (il popolo atto alla legislazione
«non ha ancora portato il vero giogo delle leggi»)8, sia dal
punto di vista filosofico, poiché l’economia stessa del con-
tratto non entra mai nell’istanza legittima del potere – allora
ne resta irrimediabilmente escluso. Ancora: se il legislatore ri-
guarda il popolo allo stato nascente, o in procinto di nascere,
allora è naturale porre la domanda “come viene alla luce un
corpo politico”? Come entra una società necessariamente par-
ticolare – con le sue usanze, i suoi costumi, le sue opinioni, le
sue caratteristiche inscritte nelle forme delle relazioni sociali
– nella dinamica della vera politica, dei principi del diritto po-
litico così come il Contratto li espone? Per farla breve: in che
modo il Contratto sociale passa attraverso la storia umana per
riappropriarsene, per rifarla?
Per rispondere osserviamo il legislatore nella sua azione
primaria. Alla maniera degli etnologi, siamo portati a leggervi
una sorta di mito fondativo dello Stato democratico. Innan-
zitutto poniamo questa domanda pregiudiziale. Questo mito
fondativo è esattamente un mito d’origine? Il legislatore è ri-

8
Ibidem, II, X, p. 69.

154
conducibile a un personaggio originario, di cui solo il ricordo
sarebbe sufficiente a motivare l’invocazione? Tutto dipende
da ciò che conviene riconoscere, in politica, come ricordo. Se
è vero che la prerogativa delle società democratiche è quella
di essere società storiche, allora sarà altresì necessario am-
mettere che esse lo sono in ogni momento del loro sviluppo,
per quanto ciascuno di questi momenti sia vissuto come
messa in gioco delle relative essenze. Tuttavia, ora è necessa-
rio essere più precisi sul significato che si è attribuito alla no-
zione di “società storica”. La storia, per le società
democratiche, non è la risorsa statica da cui si dovrebbero
attingere ricordi edificanti, ma una forza attiva che spinge i ri-
cordi, tramite la quale si manifesta in modo costante ciò che
essi significano nel momento presente. Anche il legislatore di
Rousseau non si annulla completamente una volta che la na-
scita della società politica ha avuto luogo: egli rappresenta
un’istanza critica sempre convertibile – intendendo qui con
“critica” il senso, più saint-simoniano che kantiano, di colui
che in periodo di crisi è chiamato ad agire di nuovo, poten-
dosi limitare nei periodi di funzionamento ordinario (che un
saint-simoniano direbbe “organico”) al gioco istituzionale
della volontà generale dichiarata dalla legge. Le società demo-
cratiche sono dunque storiche nel senso che sanno vivere la
loro crisi come un rilancio dei loro principi e come una ripe-
tizione della loro nascita, se e quando ritorna in primo piano
il legame che esse stringono con la propria origine. Le società
democratiche non confinano dunque il legislatore nel pas-
sato, perché chiedono la sua possibile ricomparsa. Resta da
capire, però, sotto quale forma. Dove rimane il legislatore
moderno, in quale luogo si apparta quando non parla, come
lo si chiama e come gli si parla quando lo si deve fare?
A mio avviso il merito di Leo Strauss consiste nell’aver
esposto questi interrogativi all’interno di un quadro interpre-
tativo complessivo della figura di Rousseau. Ma solo per
scongiurarla immediatamente. Strauss insiste proprio sul
punto storico che l’ottica schmittiana tiene nell’ombra: es-
sendo ormai chiarita la natura di una società costituita se-
condo i termini del contratto, è possibile comprendere come
lo “spirito sociale” abbia prodotto ciò che doveva produrre

155
e, pertanto, è evidente che non ha più ragione di esistere la
capacità persuasiva del legislatore, con il suo riferimento al
soprannaturale e ai suoi argomenti “di dubbia validità”. Di ri-
mando, si può comprendere quanto sarebbe necessario di-
sfarsi di ogni evocazione relativa all’«origine sovrumana del
codice», che non conviene a un popolo capace di autogover-
narsi (se possiamo utilizzare in anticipo sui tempi la termino-
logia dell’Aufklärung). Per quanto istituito come sovrano, il
popolo non avrebbe, secondo Rousseau, una forma di matu-
rità che lo esoneri del tutto dal ruolo che il legislatore aveva
avuto in un primo momento:

Il vivo rispetto per le vecchie leggi, “il pregiudizio dell’antichità”,


che è indispensabile alla salute della società, difficilmente può so-
pravvivere a una pubblica contestazione di ciò che si racconta circa
la sua origine. In altre parole, la trasformazione dell’uomo naturale
in cittadino è in ogni tempo un problema per la società, e questa ha
continuo bisogno di almeno un equivalente dell’azione, velata di mi-
stero e di terrore sacro, del legislatore. Perché la società non può es-
sere sana se le opinioni e i sentimenti che essa genera non soverchia-
no e quasi annullano i sentimenti naturali. Insomma, la società deve
fare quanto è in suo potere perché i cittadini dimentichino quegli
stessi fatti che la filosofia politica pone al centro della loro attenzione
come fondamenta della società stessa. Per la società libera è que-
stione di vita o di morte sottostare a un offuscamento contro il quale
la filosofia necessariamente si ribella. Se la soluzione cui la filosofia
politica conduce deve essere operante, il problema posto dalla filo-
sofia politica deve essere dimenticato9.

Da questo commento di Strauss emerge il tema problema-


tico di una società democratica illuminata dalla filosofia.
L’aspetto problematico consiste nel fatto che questa illumina-
zione implica la produzione di una parte di oscurità. La luce
del contratto produce un’ombra, che non è identica a quella
che vi sarebbe qualora il contratto non fosse stato formulato;
e, dunque, qualora si fosse ancora al di qua della soglia della

9
L. Strauss, Diritto naturale e storia, trad. it., Genova, il Melangolo,
1990, pp. 309-310.

156
modernità politica. I “fondamenti” della società, con il con-
tratto, sono fondamenti politico-giuridici, sono “principi di di-
ritto politico”. Tuttavia i principi di diritto politico, per
sussistere e per essere supportati e promossi da una società
particolare cosciente dei propri fondamenti, devono elaborare
una forma di oblio rispetto a questi stessi fondamenti. Preci-
siamo: è necessario produrre un nuovo genere di oblio, che
non è riconducibile all’incoscienza delle forme sociali prece-
denti. Nelle società democratiche ne consegue, secondo
Strauss, una tensione tra la filosofia e l’opinione comune. Ten-
sione che non è dovuta a un’opinione che non sarebbe ancora
stata illuminata sui fondamenti, ma a un’opinione che sa e che
pertanto, a un certo punto, deve anche saper dimenticare ciò
che sa. Si tratta dunque di un oblio di secondo livello, funzio-
nale all’andamento della macchina giuridico-politica moderna.
Cerchiamo di approfondire questo aspetto: una società,
la società politica del contratto, ha già una storia, anche se
non è da intendersi come la storia di cui sarà soggetto produt-
tore cosciente. Tale storia è quella, sostanzialmente ambiva-
lente, in cui a partire dal legame sociale si costruisce
laboriosamente, internamente allo stesso rapporto di domina-
zione, ciò che Rousseau chiama la sua “miseria”. Non si tratta
della “miseria” di un corpo politico ma di quella di un corpo
sociale, tanto che caratterizza storicamente società civili che
non sono state penetrate dall’intenzione del contratto, dal
vettore moderno. Proprio questa “miseria” permette tuttavia
che queste società possano essere considerate tali. Questa co-
struzione ambivalente si esprime nei costumi, determinando
necessariamente le opinioni. Sulla base di questa condizione,
la società non si istituisce realmente: essa non esce dalla sua
natura per via istituzionale ma traspone questa stessa natura
al livello storico di una società che continua a esistere nel
tempo, nonostante tutto. Il «vivo rispetto per le vecchie
leggi» di cui parla Strauss vuole precisamente designare un li-
vello che si può dire legale solo in un senso molto particolare,
infraistituzionale. Le vecchie leggi non sono certo leggi nel
senso inteso dal Contratto, nel senso cioè delle dichiarazioni
della volontà generale: esse sono leggi in cui si esprimono i
«pregiudizi dell’antichità» che affondano nella notte dei

157
tempi, in una memoria confusa, oscura e tuttavia attiva, poi-
ché un rispetto continuo le è connaturato. Il contratto non
può interrompere quel tempo, perché ciò significherebbe ri-
condurre la società a una rinascita a partire dal nulla, a una
nascita ex nihilo, irrealizzabile. Rousseau – è qui la sua forza
– ha confutato filosoficamente i pregiudizi politici, fino in
fondo. Ma non fino all’annientamento, bensì fino al punto
della loro riqualificazione, della loro integrazione in un’au-
tocoscienza politica. Esiste una duttilità dei costumi di un po-
polo propenso alla legislazione che per il legislatore
costituisce un buon piano di lavoro storico. Da questo punto
di vista sarà necessario distruggere meno cose in vista della ri-
costruzione. Pur riconoscendo che distruggere è il compito
più difficile – più difficile di quello dell’istituzione, afferma
Rousseau10 – non si tratta mai di una distruzione integrale.
Sentirsi in condizione «per così dire di cambiare la natura
dell’uomo» significa un atto di alterazione, non di sostitu-
zione completa. Del resto in Rousseau il «per così dire» –
come ha visto Althusser con perspicacia11 – è sempre l’indice
del fatto che il problema trattato si abbassa a un secondo li-
vello in relazione a quello al quale lo si consideri. Su una base
reale, e realmente favorevole, si tratta di far emergere una co-
scienza politica di sé, che ha per Rousseau il nome preciso di
«spirito sociale», nettamente distinto da una coscienza che
non sarebbe che l’effetto di una socializzazione non politiciz-
zata. Lo spirito sociale «prodotto dall’istituzione» implica ne-
cessariamente una nuova forma di incoscienza: ecco ciò di
cui il legislatore è in definitiva il rivelatore. In altro modo: le
società sono esseri storici, sia che esse divengano entità di di-
ritto, sia che i «principi di diritto politico» siano loro incor-
porati. È dunque necessario pensare anche questa incor-
porazione come un fenomeno storico. Inoltre, è necessario che
la filosofia sia in grado di pensarlo, e di accettarlo in sé, a ri-
schio di acconsentire alla condizione di problematicità nel

10
Cfr. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., II, X
11
Cfr. L. Althusser, L’impensato di J.-J. Rousseau, trad. it., Milano, Mi-
mesis, 2003, p. 37.

158
quale è immerso. Occorre accettare il fatto che proprio ciò
che la filosofia combatte, ciò contro cui si rivolta, deve essere
recuperato socialmente, socialmente riqualificato, cioè accet-
tato una seconda volta dalla società che essa ha illuminato.
Poiché ciò a cui è chiamata la società non è soltanto un atto
di rinascita, bensì un atto di rinascita a se stessa, a partire da
se stessa. Ancora una volta è da riconoscere la sua volontà ge-
nerale come afflitta da un certo contenuto. E questo conte-
nuto è necessariamente stratificato, precluso, in un comune
che è già visto da quella, poiché quella è già una società, per
quanto miserabile e alienata essa possa essere. Ma cosa signi-
fica «già visto»?
Qui il punto fondamentale è che questo «già visto» non
può significare un «già presente». L’atto del legislatore non si
risolve nella rivelazione di una socialità già all’opera. Per dirlo
con Dumont (la cui lettura di Rousseau è su questo punto ine-
satta, precisamente perché non interroga affatto il legislatore
ma mira a sottolineare l’insistenza di un olismo all’interno
dell’individualismo dei moderni)12, la volontà generale non
può dissolversi, riguardo le sue condizioni di produzione, in
un’«appercezione sociologica». In tal caso sarebbe necessario
comprendere la sociologia del tutto diversamente da Dumont:
come un’anticamera della politica. Poiché la mira del legisla-
tore, per quanto sociologo egli sia, è politica: è quella dell’isti-
tuzione di sé attraverso sé. Le usanze, le regole sociali e le
abitudini non riguardano l’istituzione in questo senso sogget-
tivo, cioè politico. Vi è uno scarto tra la volontà sociale e la
volontà politica, uno scarto che si riassesta nella dinamica con-
cettuale della volontà generale. E tutto il lavoro del legislatore
si esercita in questo scarto, che è lo scarto di un intento, la va-
lutazione di una distanza, la misura di un’elevazione, la fab-
brica di un «cambiamento». Il paradosso del legislatore è di
costruire un’incoscienza politica a partire da un’incoscienza
sociale, incoscienza politica che permette di fare un tale salto

12
Cfr. L. Dumont, Homo Hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue im-
plicazioni, trad. it., Milano, Adelphi, 1991, pp. 83 ss.

159
nel tempo, che si verifica quando una società precede se stessa
nell’atto fondativo. Perché è necessario essere incoscienti, in
effetti, per fare come se si esistesse politicamente.
Allora – ecco il punto esatto toccato da Strauss – il filosofo
deve cedere il passo; deve ammettere che questo impegno a ri-
nascere sostanzialmente è responsabilità che non gli può essere
attribuita: il suo ruolo torna ad essere quello di lottare contro
i pregiudizi e contro le giustificazioni mitiche delle leggi. È a
questo punto che emerge il legislatore: si tratta del personaggio
che il filosofo considera come suo avversario filosofico, ma che
percepisce anche come suo alleato politico, o socio-politico. Il
legislatore sostituisce il filosofo in una missione che il filosofo
non può compiere. Il legislatore è un nemico del filosofo per-
ché è un nuovo fattore mitico, genera un nuovo oblio e viene
a dare alla realizzazione pratica della società del contratto un
substrato non democratico, almeno per la ragione che egli con-
duce il gioco dell’opinione, agisce nell’opinione, lavora al li-
vello dei costumi e dei pregiudizi che le opinioni condizionano,
riprende un tessuto di “rispetto vivente” avendo ben cura di
non demitizzarlo. Tuttavia, il legislatore è anche un alleato og-
gettivo, a tal punto che il filosofo sa a cosa deve rinunciare per-
ché il diritto politico non resti una forma vuota ma si traduca
effettivamente nella realtà. La lotta complice del filosofo e del
legislatore, il loro scambio di ruoli laddove non scompaia il
loro scontro, non vale tuttavia che per un nuovo legislatore.
Poiché, dopo tutto, le antiche leggi che non erano strutturate
avevano anch’esse i loro legislatori.
Quale senso ha allora, per Rousseau, il richiamo al legi-
slatore classico per parlare di un personaggio che deve assol-
vere una funzione nuova? Il lavoro sulla e nell’opinione, sui
costumi e sulle usanze è sempre stato l’occupazione segreta
del legislatore13 o lo è soltanto dopo Rousseau? Su questo
punto Strauss è piuttosto indeciso: egli esclude, in ragione
della tensione tra filosofia politica moderna e politica mo-
derna, che il legislatore abbia veramente rappresentato una

13
Cfr. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., II, XII, p. 75.

160
soluzione al problema. E ciò, per l’esattezza, perché parlare
del legislatore significa evocare una figura che non ha più ra-
gione d’essere, pur essendo sostanzialmente riformulata. Leg-
giamo il seguito del commento:

Senza dubbio è vero che la dottrina roussoviana del legislatore


vuole chiarire il problema fondamentale della società civile, più che
non voglia proporre una soluzione pratica, salvo nella misura in cui
essa allude alla parte stessa che Rousseau si attribuiva. La ragione
precisa per cui egli dovette abbandonare la concezione classica del
legislatore fu che questa concezione è responsabile di mettere in
ombra la sovranità del popolo, cioè contribuisce a sostituire a tutti
i fini pratici la supremazia della legge alla piena sovranità popolare.
La nozione classica del legislatore è inconciliabile con la concezione
che Rousseau aveva della libertà, la quale conduce periodicamente
a esigere un ricorso alla volontà sovrana del popolo contro tutto
l’ordine stabilito, o alla volontà della generazione attuale contro
tutte le generazioni passate. Rousseau doveva dunque trovare un
surrogato all’azione del legislatore. Secondo la sua ultima posizione,
il ruolo originariamente affidato al legislatore doveva essere deman-
dato a una religione civile descritta sotto punti di vista alquanto
differenti nel Contratto sociale e nell’Emilio14.

Strauss comprende perfettamente i limiti della concezione


classica della questione. Il legislatore non può essere un reale
alleato del filosofo, poiché oscura la sovranità popolare. Inol-
tre inibisce di riversare l’azione che produce un amore delle
leggi su un dispositivo impersonale, tale che la religione civile
abbia almeno il vantaggio di non fare concorrenza diretta alle
motivazioni filosofiche sul piano delle fonti delle leggi. In
altro modo: impedisce di situarsi su un terreno religioso che
non interferisca in nessun punto con l’ordine giuridico ma
che rappresenti una sorta di aggiunta, di complemento ne-
cessario. È certo che, tra i due capitoli del Contratto sul legi-
slatore e sulla religione civile, le linee di spostamento sono
numerose e fanno effettivamente pensare a uno slittamento

14
L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., p. 310.

161
dal primo al secondo. Senza soffermarsi su questa necessità
esegetica, è chiaro che nell’interpretazione di Strauss è pre-
sente una formulazione discutibile: il legislatore «contribui-
sce a sostituire a tutti i fini pratici la supremazia della legge
alla piena sovranità popolare». Ciò significa fare del legisla-
tore un agente legale concorrente del potere legislativo. Per
dirla in altro modo, utilizzando l’espressione di Schmitt, si-
gnifica rifiutare l’idea che il nome ingannevole sia veramente
tale, che si tratti di qualcosa di diverso da un’azione conna-
turata al legislatore, al livello della legge, per conferirgli la sua
grandezza e la sua supremazia. «A tutti i fini pratici» significa
dire inoltre che Strauss non consente di accettare la proposta
in questi termini. La legge per il legislatore, o almeno per il
legislatore fittizio che la modernità richiede, è quella del po-
polo; e per questo motivo il problema del legislatore non è
tanto la legge quanto la volontà generale, in quanto sarà in
grado di vedere il bene che essa vuole e di formulare la legge
su questa base. Per questo motivo il legislatore è uno scriba,
un redattore, una voce modificata o rifratta. Ora resta un’al-
tra questione aperta: sapere se, nel momento in cui ci rimet-
tiamo al dispositivo della religione civile, si possa fare a meno
di tale funzione di rifrazione e di scrittura, vocale e scrittoria.
Il legislatore classico – è un dato di fatto – riceve il suo mes-
saggio da un’autorità trascendente. Il problema risiede nella
necessità di comprendere come il legislatore potesse far inter-
venire tale autorità a livello del popolo, ossia sapere in quale
maniera la trascendenza operasse. Il legislatore moderno, se
esiste, eredita questa esigenza di produrre una “supremazia”.
Ma qui è presente uno slittamento illegittimo che passa dalla
supremazia della volontà generale alla supremazia della legge.
Il suo problema, in quanto e ancora prima di essere problema
di legge, è un problema di volontà, resa lucida, intelligente,
tesa coscientemente verso ciò che vuole attraverso un pro-
cesso di generalizzazione. Riprendiamo il problema prece-
dente. Il contratto sociale mostra come si formi una
associazione in cui il popolo non si impegna che con se stesso,
in cui ciascun individuo non obbedisce che a sé, in cui il sog-
getto e l’oggetto della politica, il sovrano e il suddito, sono
due facce della stessa medaglia. Da questo punto di partenza,

162
una tale associazione si trova calata in una storia che è la sua
storia, quella che essa fa nel prodursi. La difficoltà deriva da
questo primo slancio, da ciò che abbiamo definito come il
tema storico delle società moderne. Quale garanzia si può
avere del fatto che la storia, nella persona del legislatore, com-
prenderà ciò che vuole la società del contratto? Quale garan-
zia si ha del fatto che il richiamo alla storia soggettiva – al
fatto, per una società, di fare la sua storia, di entrarvi per la
prima volta come soggetto politico e dunque di approcciare
la parola “storia” con un nuovo significato – sarà ben com-
presa e troverà la sua possibilità di realizzazione nella storia
oggettiva, quella da cui in passato sorsero individui percorsi
da visioni politiche, talvolta perfino abitati da voci che arri-
vavano da più in alto? Sembra che, incontrando la storia, la
società politica si esponga a una contingenza difficilmente so-
stenibile: sperare che qualcuno la salvi. La speranza è un sen-
timento religioso. Il legislatore sarà di fatto avvolto da un
alone di religiosità. Del resto sappiamo che, nell’economia
argomentativa del Contratto sociale, il legislatore fa coppia
con la religione civile, punto di compimento dell’intera strut-
tura. Il problema filosofico si risolve quindi esternamente alla
filosofia: nella realtà storica, produttrice potenziale di legi-
slatori visionari.
Nella lettura che fornisce di Rousseau, Althusser si è te-
nuto più vicino a questo punto. A proposito del legislatore e
del suo pendant, la religione civile, parla di «fuga in avanti
nell’ideologia»15. La forza della sua lettura consiste nel mo-
strare come questa fuga fosse inevitabile, perché in qualche
modo preparata da una sequenza di errori e di inadeguatezze
dei concetti di Rousseau in se stessi, la cui origine si colloca
nello stesso concetto di contratto, internamente sbilanciato
sin dalla sua prima formulazione. Perché – proprio come nel
caso del legislatore dal nome ingannevole, ma più grave-
mente, visto che il legislatore aspira a una formulazione stret-
tamente filosofica – quello di Rousseau non è per l’esattezza

15
Cfr. L. Althusser, L’impensato di J.-J. Rousseau, cit., p. 62.

163
un contratto in senso stretto, nel senso giuridico del termine.
Le due parti coinvolte nel contratto non lo sono allo stesso ti-
tolo, essendo l’una l’individuo, già dato, e l’altra la comunità,
da costruire con il contratto. Nel contratto sociale è presente
un atto di costituzione del popolo che permette l’esistenza
del contratto tra gli individui e il popolo stesso; ma questo
atto non è contrattuale. Per questo motivo Rousseau è por-
tato, a ogni tappa del ragionamento, a presupporre fittizia-
mente ciò che la sua teoria esige al livello della realtà. Il suo
pensiero politico rincorre la realtà senza raggiungerla e
l’unica soluzione è di rinviare la sua dedizione a un livello su-
periore di integrazione della teoria, presupponendola fittizia-
mente per continuare a progredire. Questo presupposto
fittizio ha molteplici nomi, a seconda della fase specifica della
sequenza, una successione di cambiamenti in cui il problema,
anziché risolto, è portato avanti: è il popolo del contratto, è
l’alienazione totale conosciuta paradossalmente come scam-
bio vantaggioso, è infine l’interesse generale o la volontà ge-
nerale che giace nel cuore di ogni individuo.
Ciò a cui porta questa lettura, differente da quella di
Schmitt e Strauss, è l’individuazione di un punto esatto a cui
i cambiamenti approdano, nel senso fisico del termine: l’ideo-
logia, e più precisamente la versione particolarmente efficace
e lampante dell’ideologia che è la religione, luogo per eccel-
lenza di formazione delle finzioni. Althusser si pone tuttavia
la domanda: è veramente il solo luogo concepibile? Sì, se ci si
attiene all’esigenza di trattare il problema della realizzazione
pratica della teoria del contratto, della sua inscrizione storica
in uno spazio politico-istituzionale. Esiste tuttavia un’altra
soluzione: rompere questo filo e operare un trasferimento,
non cercare più di mettere in pratica la teoria del contratto –
irrealizzabile senza l’intervento della storia reale collocata
fuori dalla teoria, sotto la categoria dell’agente politico-reli-
gioso e dunque ideologico – ma piuttosto trasferire il pro-
blema in un luogo che non sia più una soglia tra la teoria e la
pratica. Questo locus risolutorio, per Althusser, è la scrittura,
la scrittura in quanto tale e non la scrittura concettuale che è
piuttosto la concettualità che scrive se stessa. In una parola,
la letteratura:

164
Se non c’è più Scarto possibile – visto che non servirebbe più a
niente nell’ordine teorico, che non ha fatto che vivere di questi
scarti, spingendo innanzi a sé i suoi problemi nella loro soluzione
fino all’incontro con il problema reale, insolubile – resta tuttavia
un rimedio, ma di un’altra natura: un trasferimento, questa volta, il
trasferimento dell’impossibile soluzione teorica nell’altro dalla teo-
ria, la letteratura. Il “trionfo fittizio”, mirabile, di una scrittura
senza precedenti: la Nuova Eloisa, l’Emilio, le Confessioni. Che essa
sia senza precedenti non può essere senza rapporto con lo ‘scacco’,
mirabile, di una teoria senza precedenti: il Contratto sociale16.

Nelle varianti del testo Althusser è più ambiguo: mette


sullo stesso piano ideologico, come un commento ideologico
del cambiamento, tanto la teologia della professione di fede
(quella del vicario come quella civile, si può immaginare)
quanto la letteratura. Per finire, sempre nelle varianti del
testo, Althusser ritiene che la grande scoperta di Rousseau,
che in pratica non fa altro che accusare il proprio insuccesso
a garanzia del fatto che in teoria la modernità democratica si
istituisce politicamente, sia legata al suo concetto di storia.
La storia considerata nella sua precarietà costitutiva, cioè
anche nel suo eccesso costitutivo di teoria, dal punto di vista
stesso delle società che si danno e si pensano come società
storiche. Si capisce a cosa miri la lettura althusseriana: Rous-
seau scopre – o riscopre, perché per Althusser anche la soli-
tudine di Machiavelli nel suo tempo è consistita in ciò – il
concetto di storia, di cui la scienza con i suoi strumenti non
può fare a meno. La scienza della storia come scienza della
società che si fa da sé e riempie la storia della propria mate-
rialità: il marxismo. Ma Rousseau fa nondimeno qualcosa di
inaudito: egli commenta il suo fallimento, prende coscienza e
affila la coscienza dei contemporanei a proposito di cosa si-
gnifichi vivere nella storia. Da qui la formula finale di Althus-
ser: «la sua ideologia della politica è temperata dal suo
concetto di storia»17.

16
Ibidem, pp. 65-66.
17
Ibidem., p. 66.

165
Il problema che stiamo affrontando non consiste nel sapere
se la teoria del legislatore sia o meno il segno di un fallimento,
ma piuttosto nel capire in relazione a cosa si abbiano fallimenti
o successi. Vi è fallimento, secondo Althusser, perché a pensare
l’istituzione politica moderna della democrazia nei termini di
un contratto si è forzatamente condotti a modificare il con-
tratto in rapporto a se stesso, quindi a riportare l’effetto di que-
sto cambiamento a tutti i livelli della teoria, senza raggiungere
la pratica se non tramite un salto in ciò che lui chiama ideolo-
gia, ossia la religione, che ha almeno la franchezza di ricorrere
a finzioni senza dissimularle come dispositivi istituzionali ap-
parentemente razionali. In modo più conciso: una democrazia
reale non può esistere senza la finzione della sua istituzione a
partire da qualcos’altro, al punto da pensarla come democrazia
di individui destinati a unirsi in popolo. Comunque sia, è ine-
vitabile interrogarsi su questo elogio del «commento» di un
impossibile; cioè, in pratica, su questo elogio del discorso, re-
ligioso o laico, ripreso nella sua essenza propriamente discor-
siva. Se prendiamo questa ipotesi sul serio, giungiamo alla
seguente conclusione: religione e letteratura, alla fine dei conti,
condivideranno una certa alterità rispetto alla teoria. Un’alte-
rità che non è quella della pratica, ma che è di ordine “discor-
sivo” (il “commento” dell’impossibile, innanzitutto del
discorso), a partire dalla quale un altro rapporto con la pratica
sarebbe suscettibile di essere intessuto come quello della rea-
lizzazione della teoria nella pratica, marchiato dal sigillo del-
l’impossibile. Dall’interno stesso della religione, nel suo
nocciolo teologico, prenderebbe così forma un discorso che
interessa da vicino il problema politico. Questo discorso, al-
meno nel ragionamento di Rousseau, verrebbe a farsi carico, a
margine di una filosofia in disarmo, della questione della for-
mazione di un popolo e della sua esistenza democratica e li-
bera. In proposito la teologia della professione di fede, che sia
quella del vicario oppure quella del buon cittadino, si porrebbe
allo stesso modo di un certo primato sulla letteratura, sempli-
cemente per il fatto che sarebbe un commento socio-politico
modificato di cui ogni uomo è capace, che egli sia o meno in
grado di scrivere, che egli sia o meno in grado di leggere. Sarà
diverso, invece, se il giudizio non deve essere contorto dalla

166
congiuntura specificamente moderna: al centro, al livello del-
l’esistenza del popolo e del discorso che si tiene in sé a propo-
sito di se stesso, non avremo più una teologia pertinente, ma
una letteratura. In questo caso la letteratura, nella modernità,
non sarebbe già divenuta la nostra teologia, una teologia di so-
stituzione per popoli secolarizzati? Non ci sono più profeti, i
teologi escono di scena, nell’incarico che qui viene loro asse-
gnato di dire in un altro linguaggio rispetto a quello della teoria
la distanza apparente implicita nella configurazione della teoria
e della pratica. Di rimando abbiamo degli scrittori. La lettera-
tura, sfuggente al campo della costituzione del problema poli-
tico dei moderni, può parlarci di politica più di quanto possa
fare la filosofia politica stessa. Questa rileva, in un mondo in
cui gli dèi sono assenti, la funzione della teologia.
Se la grandezza di Rousseau è stata quella di offrire il com-
mento lucido del proprio insuccesso sul doppio registro del
religioso e del letterario, il fatto è – suggerisce Althusser – che
egli fu spinto dalla scoperta della storia (come processo mate-
riale la cui precarietà e contingenza non si lasci cogliere dalla
teoria, se non per trasformare quest’ultima da cima a fondo,
rendendola essa stessa storica) a fare di quella una voce ma-
terna della storia, un atto partecipante alla trasformazione del
divenire storico che essa non contempla a distanza, ma di cui
è parte coinvolta. L’undicesima tesi di Marx su Feuerbach,
prolungata nell’Ideologia tedesca e portata a compimento nella
nuova concettualità materialistica del Capitale, compongono
il testo stesso di questa trasformazione. Tuttavia, nel caso di
Rousseau, non si tratterebbe proprio di questo visto che si
prenderebbe in considerazione lo sforzo di pensare nella sua
radicalità la reversibilità assoluta del sovrano e del popolo? Il
pensiero politico è veramente “temperato” dal concetto di
storia, o piuttosto costituito dal concetto di storia, come con-
dizione precisa che è presupposto di una società democratica?
Certamente un lettore marxista direbbe che il solo concetto di
democrazia invocabile nella fattispecie è quello di una demo-
crazia formale, rinforzata sui diritti soggettivi individuali, che
la Questione ebraica ha ridotto in frantumi. Tuttavia, parlando
qui di società democratica, ci manteniamo al di qua della que-
stione giuridico-politica che si fa carico della critica della de-

167
mocrazia formale. È invece possibile parlare di una società
che fa penetrare in se stessa l’esigenza di farsi “dentro” la sto-
ria, di entrare in una temporalità che non sarebbe di altri che
sua, che prenderebbe corpo solo a partire da se stessa. Seb-
bene sia una concezione sbilanciata e sfasata in Rousseau (la
lettura di Althusser è in proposito illuminante), il contratto
porta in sé un’intenzione storica, una volontà di storicità so-
ciale che non avevano le società premoderne. Da questo punto
di vista, Marx è un erede di Rousseau, e per di più un mo-
derno. A questo punto, se accordiamo l’esistenza di una tale
intenzione della storia alla stessa origine della problematica di
Rousseau, intesa come problematica tipicamente moderna, al-
lora la figura del legislatore apparirebbe come null’altro che
un espediente, un mezzo di fortuna, una soluzione di ripiego.
Si è detto infatti che era una “soluzione di fortuna”, a condi-
zione di riorientare un po’ il sintagma e di dare alla fortuna
tutto il carico di storicità che la modernità gli attribuisce, in re-
lazione invece al concetto classico (da un’alterazione che co-
mincia precisamente con Machiavelli). A questo proposito si
potrebbe dire che il legislatore non è tanto dalla parte del-
l’ideologia della teoria politica, quanto dalla parte di questo
concetto di storia destinato a temperarla.
Se lo si ammette, tuttavia, si rende necessario un altro passo
avanti ed è quello che Althusser si rifiuta di compiere: consi-
derare che il discorso, nella sua impronta religiosa, supporti
qualcosa di questa “intenzione storica”, di questo lavoro della
storia nella teoria. La questione è dunque: come si sviluppa
questo processo? Con quali mezzi opera? Per dare un senso a
questioni di questa natura, e per svilupparle in modo effettivo,
è allora necessario resistere alla tentazione di riversare il reli-
gioso nell’ideologia. È necessario essere disposti ad aspettare e
guardare più da vicino. È necessario impegnarsi, a dispetto di
tutti i preconcetti, in un’indagine sul legislatore, per quanto
religiosa possa essere la sua connotazione. Tutto ciò per meglio
comprendere le società democratiche come società che si svi-
luppano materialmente nella storia, suscettibili di esprimere
politicamente e di affrontare il proprio sviluppo concreto.

(traduzione di Luca Baraldi)

168

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