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Buonasera e benvenuti alla lezione concerto di Quinte Parallele in collaborazione con gli Archi di

Sant’andrea della Valle. L’argomento preso in considerazione oggi si inserisce nella serie di incontri
che stiamo facendo qui al collegio di Sant’Anselmo sulla spiritualità in musica, ed è il celeberrimo
Stabat Mater di Giovan Battista Pergolesi. (pausa) La parabola di Pergolesi è molto interessante
sotto vari aspetti: uno dei più evidenti è rappresentato dalla sua scomparsa prematura, che tutt’ora lo
permea di quel fastidioso alone “maledetto” che molti autori non riescono a scrollarsi di dosso.
Infatti Pergolesi nasce a Jesi nel 1710 e muore intorno a Pozzuoli nel 1736, quindi 26 anni di vita.
cosa che lascia un percorso artistico molto breve, un’intensissima attività produttiva di 5 anni dal
1730/31 all’anno della sua morte, e che come con altri compositori scomparsi prematuramente
(schubert, Mozart, Mendelssohn e così via) ci lascia con la curiosità e il rammarico di cosa avrebbe
potuto fare in seguito. Quando provate a immaginarvi il compositore dello Stabat Mater provate a
immaginarvi un ragazzo più o meno come me. Forse un poco più brutto, ma comunque. Noi adesso
stiamo per commentarne la composizione più famosa, e tutt’ora più eseguita in tutta Europa se non
in tutto il mondo, e tale composizione è un’opera sacra. Eppure Pergolesi, mentre era in vita era più
noto per le sue composizioni “profane”. Scrisse infatti numerose opere liriche su libretto di
Metastasio, come l’Adriano in Siria, ma furono i suoi intermezzi a renderlo maggiormente famoso.
Vedete, all’epoca l’usanza era quella di rappresentare l’opera seria, il melodramma insomma, e
negli intervalli frapporre il cosiddetto “Intermezzo”: si trattava di brevi spettacoli, di carattere buffo
o comunque leggero, spesso mutuati dalla commedia dell’arte, ma comunque musicati e cantati.
Spesso però accadeva che gli intermezzi avessero molto più successo, per la loro brevità e facilità di
fruizione, dei pesanti e tediosi drammi storici di cui erano praticamente solo l’intervallo. Il successo
di Pergolesi fu determinato proprio dagli intermezzi all’interno dell’opera seria “il prigionier
superbo”, raccolti sotto il titolo hegeliano de “La serva padrona”. In seguito la serva padrona fu al
centro del dibattito francese “La Querelle des Bouffons”, la contesa dei buffoni; infatti nel 1752
venne rappresentata Acis et Galatée di Giovanni Battista Lulli, e come intermezzo si scelse proprio
la serva padrona, e fu la pietra dello scandalo per un contrasto fra i fautori della musica “dell’ancien
regime”, ossia l’opera accademica francese, e i fautori del teatro musicale italiano, fra cui vi erano
gli enciclopedisti (Diderot, D’alambert e Rousseau). Questa divagazione ci aiuta a capire che la
fama di Pergolesi era già notevole pur nella sua giovane età, e crebbe a dismisura col passare del
tempo, fino ad arrivare a fraintendimenti e a connotazioni romantiche che lo volevano artista
infelice ecc ecc. Per questa ragione ci giunsero addirittura numerosi apocrifi e false attribuzioni.
Comunque sia, l’altro elemento che possiamo desumere da questa introduzione è questo: Pergolesi è
un uomo di teatro, conosce benissimo i meccanismi di coinvolgimento in una narrazione musicale.
Questa cosa va tenuta a mente se si vuole cercare di comprendere le ragioni del successo così
grande e imperituro dello Stabat Mater.
Intanto parliamo del testo dell’opera. Lo Stabat Mater è una sequenza liturgica attribuita a Jacopone
Da Todi. La sequenza era un componimento poetico da cantare durante l’ecauristia, e si tratta in
generale della prima forma in Italia di testo con rima. Il concilio di Trento aveva abolito la prassi di
tropi e sequenze nella messa, perché si erano allontanate troppo dal canto gregoriano originale. Solo
quattro di esse vennero lasciate intatte, a cui si aggiunse, per opera di Benedetto Xiii nel 1727,
proprio lo Stabat Mater di Jacopone, da usare il venerdì santo. La figura di Jacopone è nota per
varie ragioni, per la sua conversione mistica, per un’indole intransigente e priva di compromessi, e
per la sua posizione nell’Ordine francescano dei Minori, dove si schiera a favore dei cosiddetti
“Spirituali”, ossia coloro che difendevano la purezza della regola, e per il suo grande contrasto con
Papa Bonifacio VIII, che rispose con la scomunica e un assedio, da cui ne risultò l’incarcerazione di
Jacopone fino al 1303. Scrisse numerose Laude, e proprio lo Stabat Mater non è di sicura
attribuzione, ma sicuramente ha dei tratti in comune con un altro testo celebre di Jacopone come
“Donna de Paradiso”, che mostrava sempre una Vergine Maria straziata davanti al figlio morente,
anche se la rappresentazione era più cruda e violenta, data l’ossessione e l’insistenza di Jacopone
suigli elementi corporali, sulle sofferenze fisiche, declinate spesso secondo la sua poetica del
contemptu mundi, il disprezzo del mondo e delle cose temporali. In questo caso, tratto che fa
dubitare dell’attribuzione al poeta francescano, l’invocazione alla sofferenza non è dettata da una
punizione corporale per espiare le colpe dell’uomo. No. In questo caso la richiesta di sofferenza è
data da un impulso di CONDIVISIONE del dolore, quindi COMPASSIONE. Ecco, sicuramente
compassione è il termine adatto per descrivere lo Stabat, e l’approccio che utilizza Pergolesi. Infatti
nella prima parte abbiamo una descrizione accuratissima, soprattutto a livello semantico, degli stadi
del dolore. Guardiamo ad esempio nelle prime due strofe:

Stabat Mater dolorósa


iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius.
Cuius ánimam geméntem,
contristátam et doléntem
pertransívit gládius.

La Madre addolorata stava


in lacrime presso la Croce
mentre pendeva il Figlio.
E il suo animo gemente,
contristato e dolente
era come trafitto da una spada.

Le parole in chiusa, quindi in sede di rima, sono le più esposte, e sono quasi tutti vocaboli che
esprimono la sofferenza della madre. Anche andando avanti, c’è un ricco sfoggio di termini legati a
quella dimensione (Afflicta, dolebat, fleret). Nella seconda parte alla descrizione del dolore però si
inizia a delineare un altro aspetto.

Eia Mater, fons amoris,


me sentire vim doloris
fac, ut tecum lugeam!
Fac, ut ardeat cor meum
in amando Christum deum,
ut sibi complaceam!
Sancta Mater, istud agas,
crucifixi fige plagas
cordi meo valide!
Tui nati vulnerati
tam dignati pro me pati
poenas mecum divide!
Oh, Madre, fonte d'amore,
fammi provare lo stesso dolore
perché possa piangere con te.
Fa' che il mio cuore arda
nell'amare Cristo Dio
per fare cosa a lui gradita.
Santa Madre, fai questo:
imprimi le piaghe del tuo Figlio crocifisso
fortemente nel mio cuore.
Del tuo figlio ferito
che si è degnato di patire per me,
dividi con me le pene.
C’è una invocazione dunque a chiedere di spartire le sofferenze di Maria e di Gesù, fino ad
addirittura chiedere di spartire le stesse piaghe, per arrivare alla condivisione dei dolori e quindi
all’espiazione dei peccati, come vuole la morale Pasquale.

La Confraternita laica dei Cavalieri della Vergine dei dolori di San Luigi Palazzo aveva
commissionato nel 1724 al grande compositore Alessandro Scarlatti (da non confondere con il figlio
Domenico, quello delle sonate) uno Stabat Mater, da celebrare annualmente nel Venerdì Santo. Data
la grande considerazione per il musicista palermitano, si può comprendere il grande onore che
ricevette Pergolesi quando gli fu commissionato dieci anni dopo, dalla stessa confraternita, uno
Stabat Mater che sostituisse proprio quello di Scarlatti. Scarlatti aveva sempre vissuto con lo spettro
della malattia, essendo venuto da una famiglia di tubercolotici, ma non si sa esattamente in che
stadio fosse la sua malattia quando compose lo Stabat. Molte dicerie vogliono che il compositore
abbia finito l’ultima pagina addirittura il giorno della sua morte, mentre era da qualche tempo
chiuso in un convento vicino a Pozzuoli, in isolamento voluto. Dicerie difficili da verificare e molto
probabilmente romanzate. Una cosa certa è però la fretta con cui il compositore finì la trascrizione
dell’opera, con varie parti di viola mancanti, e in generale quasi scritte sotto il segno della fretta. Sul
manoscritto rimane alla fine la scritta “Finis Laus Deo”. Cioè, fine, Lode a Dio. Come un
ringraziamento della possibilità di consegnare quest’ultima opera, che insieme al Salve Regina
rappresenterà il suo testamento spirituale.
Ritornando a quello che si diceva in precedenza, abbiamo detto che Pergolesi è un uomo di teatro,
ma cosa si intende dire esattamente con ciò? Che la sua conoscenza dei meccanismi retorici e
stilistici della musica gli consentono di coinvolgere lo spettatore grazie a metodi ben consolidati,
utilizzati però al massimo del loro potenziale. Infatti è frequente l’utilizzo di “Madrigalismi”, ossia
un’aderenza della musica al testo poetico, dal punto di vista musicale (e in molti casi visivo, come
le onde vengono rappresentate da note che rappresentino graficamente tale fenomeno) Non è certo
una cosa nuova l’artificio retorico in musica, è dalla teoria degli affetti dei tempi di Monteverdi che
si teorizza uno stile musicale per accompagnare ogni stato d’animo; però l’utilizzo di questi artifici
così “teatrali” in un contesto di musica sacra hanno un significato ben preciso: si riallacciano al
bisogno sopra espresso di veicolare la COMPASSIONE espressa nel testo, quella richiesta di
condivisione del dolore. L’unico modo di condividere le sofferenze di Cristo sulla Croce è di
riviverle, e l’unico modo di riviverle è esprimerle musicalmente per coinvolgere l’ascoltatore in
quelle stesse sofferenze, e dipingere realisticamente quasi un quadro, una pala d’altare, per
catapultare l’ascoltatore sulla stessa collina dove Cristo ha sofferto. Infatti la struttura delle strofe
dell’opera di Pergolesi hanno quasi una struttura da Aria d’opera, con una sorta di ritornello che si
ripete. L’importante per Pergolesi è una chiarezza assoluta sotto tutti i punti di vista: perciò decide
di ripetere molte volte all’interno dell’opera gli elementi strutturali, affinché alla fine il loro
significato sia chiaro a tutti.
Il primo brano è quello che forse contiene in nuce quasi tutta l’opera, per l’utilizzo di questi artifici:
infatti abbiamo subito un’introduzione strumentale, in cui i violini suonano il tema che poi verrà
cantato dalle due voci femminili, contralto e soprano. Si può sentire subito che le due voci fanno dei
piccoli urti, degli scontri, ossia, si avvicinano molto e poi si allontanano, per poi scontrarsi di
nuovo, in un alternanza di seconde e terze, dove le seconde sono dissonanti secondo l’armonia
musicale, e le terze no. Ovviamente le note dissonanti non sono mai percosse insieme, però l’effetto
è senz’altro quello di uno scontro, un dolore che si esprime con gli “urti” delle passioni.
Quando cantano con questa specie di inseguimento, con una voce che imita l’altra intersecandosi, le
parole sono difficili da discernere, ma Pergolesi sa quando è importante farle capire, quando è
giusto isolarle. Infatti si soffermerà, dopo le ripetizioni necessarie, sulle parole “Dolorosa” e
“Lacrymosa”, quelle parole appartenenti alla sfera semantica del dolore e del pianto, facendole
cantare prima al soprano e poi al contralto, con lo stesso disegno melodico (cantare). Le isola
perché deve sottolineare per l’ascoltatore quanto quello sia un momento importante, e quello stesso
disegno verrà replicato,(cantare) seppure con molte variazioni, in tutta l’opera. Ciò che anche
ribadisce l’importanza di quel momento è la sospensione della risoluzione data dalla cosiddetta
“Cadenza D’inganno”. La cadenza perfetta in musica è quando una successione di accordi conferma
una tonalità; per esempio sarebbe paragonabile a una frase con un punto, volendoci allargare con le
metafore. La cadenza cosiddetta di inganno fa parte del gruppo più generale delle cadenze evitate;
ossia, la frase sembra stare per concludersi, ma… si ferma su un punto e virgola. É di fatto una
sospensione di una risoluzione, qualcosa che fa stare in attesa. É stata chiamata d’inganno perché le
attese dell’ascoltatore sono tese ad una risoluzione, che invece viene ritardata. L’attesa è la stessa
condizione in cui Maria vive, quello “Stabat” è una condizione di attesa, perciò si capisce
l’importanza “teatrale” di tale artificio nell’opera di Pergolesi, che infatti mutua da alcune sue opere
serie. L’utilizzo delle pause infatti anche sarà essenziale in tutta l’opera, e la generale dilatazione
dello spazio ritmico nei momenti più raccolti.
A tale proposito è una buona idea vedere un altro artificio che utilizza Pergolesi in ben tre brani
dello Stabat: il basso cromatico discendente: si tratta del basso che scende per grado contiguo di
semitono in semitono, fino a fare una quarta di distanza. Spiegandoci meglio, è come fare una scala
(Una qualsiasi, del vostro palazzo) scendendo invece che due gradini alla volta un gradino dopo
l’altro. Questa tecnica dà l’effetto di un incedere desolato, di un ripiegarsi del dolore su sé stesso
diciamo. Infatti lo utilizza nel brano numero 5, quando si invoca la partecipazione emotiza
dell’auditorio (Quis est homo qui non fleret, quale uomo non piangerebbe a vedere la Madre di
Cristo così afflitta?) e nella strofa numero 6.

Vidit suum dulcem natum


morientem desolatum
dum emisit spiritum

Vide il suo dolce figlio


mentre moriva abbandonato
finche non emise lo spirito

In questo brano c’è forse l’esempio maggiore del gioco delle attese di Pergolesi. Infatti nel primo
verso il ritmo è ancora regolare, rispetta più o meno il ritmo poetico, ma man mano vediamo il
discorso frantumarsi. Su morientem desolatum la parola si allarga proprio sul basso cromatico
discendente, che dà quel senso di sconsolata rassegnazione, per poi frantumarsi definitivamente su
“Dum emisit spiritum”, finché lo spirito non lo abbandonò. Qui la voce del soprano è quasi un
bisbiglio, dice una sillaba e poi pausa, una sillaba e poi pausa, tanta è l’ineffabilità del dolore che
prova nel dire che Cristo è spirato. Alla fine del brano ritornerà questa frantumazione del discorso,
ancora più rallentata ed esasperata, che si concluderà con la cadenza di inganno, ormai nota
all’ascoltatore, ma colto quasi di sprovvista, quasi come con un colpo di scena a teatro. Purtroppo
non posso fermarmi ad analizzare tutti i brani dello Stabat, le due fughe sono pure bellissime, Fac ut
ardeat cor meum, fa’ che il cuore mio arda, in cui la condivisione del dolore, la compassione è data
proprio da queste linee che si imitano a vicenda, condividendo la linea melodica. Però ora lascio la
parola alla musica vera, con gli archi di sant’andrea della valle, diretti da Pietro Gallucci. Grazie per
l’attenzione, Buon Ascolto.

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