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Golem attuale nel "Presente".

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Sommario

Presentazione

Fine delle regole

Furio Colombo
Vivere senza regole

Conversazione con Gianni Mura


Fine del tackle da dietro

Roberto Maragliano
Videogiochi per analfabeti

Sylvie Coyaud
La scienza senza regole nè regoli

Aldo Grasso
Per un servizio pubblico perfetto

Paolo Palazzi
Economia, scienza divina

Carlo Boccadoro
Bach e la viabilità

Gianni Granata
Aristotele veleggia su Internet

Giuseppe Pontiggia
Decalogo della società letteraria

Forum: Regolatevi voi

Giochi politici

Stefano Bartezzaghi
Dal dado di Giulio Cesare al flipper di Fabio Mussi

Golem intervista Massimo D'Alema


"Mi piace molto far funzionare la capa"

Campus di tensioni

Domenico Fiormonte
L'Università, serva del paradosso

Forum: Campus di tensioni

Sala giochi

Umberto Eco
Esercizi tipografici

Forum: La stanza dei giochi

Soluzioni dell'Autogolem n. 15

In miniera

Guarda la fotografia:
Lo sguardo remoto del Prof. Di Bella
Marco Belpoliti

Oliviero Ponte di Pino


Perchè lo fai?

Liam Email
Se la gatta va al lardo

Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana

Forum: Piccola enciclopedia dei lettori

Walter Fontana
Battute fuori tempo

Forum: A voi la battuta

Cinzia Leone
Il diamante dell'Haganah

Colophon
Indici di Golem

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Italia Online stampa radio e televisione arte e cultura


Sommario

Presentazione

In ricordo di Silvio Ceccato

Perdono

Ugo Volli
Identità a confronto

Riccardo Di Segni
Sul perdono

Giampaolo Urso
Il concetto di purificazione nella polemica anticristiana
La nuova scuola

Franco Cardini
Su una commedia degli equivoci

Paolo Palazzi
Se 35 ore vi sembran poche

Claudia Winkler
Il Nuovo Rinascimento

Forum: Dalla periferia all'impero?

Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana

Forum: Piccola enciclopedia dei lettori

Francesco Siliato
Un medium saturo

Sala giochi

Forum: Giochiamo!

Rubriche

Arte:
Luca Beltrami e Milano
Carlo Bertelli
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Psiche:
Donne di potere o del potere
Roberta Ribali

Musica:
Spirito e Materia
Roberto Caselli

Science-links:
Il mago Leonardo, i conigli e i sospetti infondati
Sylvie Coyaud

Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone

Appuntamenti

Colophon

Indici di Golem

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Sommario

Presentazione

Barriere

Furio Colombo
Secessione

Valentina Pisanty
La negazione della Shoah

Massimo Ghirelli
Immigrati e malattie: epidemia di pregiudizi

David Meghnagi
Pluralità e diversità
Ugo Pirro
La "finzione" della Rai

Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana

Forum: Piccola enciclopedia dei lettori

Umberto Eco
Come salvare capra e tavoli

Forum: Giochiamo!

Oliviero Ponte di Pino


Le mie possibilità di salvezza filosofica nel XX secolo

Rubriche

Arte:
Protagonismi
Carlo Bertelli

Links:
E' possibile una biblioteca multimediale? (3)
Giulio Blasi

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Psiche:
Paure collettive
Roberta Ribali

Film:
Dall'idea al film (Tano da morire)
Rossana Di Fazio

Musica:
Strano come gira il mondo
Roberto Caselli

Science-links:
Che tempo fa?
Sylvie Coyaud

Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone

Appuntamenti

Colophon

Indici di Golem

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Sommario

Presentazione

Ugo Volli
Giustizia

Fabrizio Tenna
Caro Palazzi

Paolo Palazzi
Replica

Paolo Palazzi
Finanziamento pubblico della scuola privata
Ugo Pirro
Dopo Hitchcock

Beppe Severgnini
I rinonauti

Links d'estate
Redazione

"Love letter in the sand" ovvero ....

Forum: Archivio delle Vacanze

Rubriche

Arte:
L'Asso portante di Milano
Carlo Bertelli

Parlamento:
Dialogo tra un deputato e un collegio
Giovanna Grignaffini

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Psiche:
Andare dallo Psicoterapeuta
Roberta Ribali

Film:
Postazioni (Trees Lounge)
Rossana Di Fazio

Musica:
Omaggi
Roberto Caselli

Science-links:
Statistica
Sylvie Coyaud

Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone

Appuntamenti

Sala giochi

Forum: Giochiamo in rete

Colophon

Indici di Golem

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Sommario

Presentazione

Furio Colombo
Messaggi

Ugo Volli
Giusti Poteri

Carlo Donolo
Deformare le istituzioni

Orizzonti: Italia, Europa, Mondo

Beppe Severgnini
Un caso clinico-storico-comico-mistico-magico
Premessa

Sondaggio: Anche tu marziano?

Carlo De Benedetti
Questioni di budget

Antonio Martino
Ancora sull'occupazione

Paolo Palazzi
Welfare, domanda sociale e spesa sociale

Giornali e giornalisti

Maurizio Chierici
Decalogo

Il futuro delle telecomunicazioni

Piero De Chiara
Una rivoluzione senza contenuti

Dino Lorimer
Webgrafia ragionata

Ruggero Pierantoni
Passione e morte della terza dimensione

La nuova scuola

Domenico Parisi
Quali sono i veri problemi della scuola?

Peppino Ortoleva
Educazione e formazione continua nell'età digitale
Franco Recanatesi
Che giorno è?

Arnaldo Ferrari Nasi e Renato Mannheimer


Sondati

Arnaldo Ferrari Nasi e Renato Mannheimer


Analizzati

Rubriche

Arte:
I tesori del monte Athos
Carlo Bertelli

Links:
E' possibile una biblioteca multimediale? (2)
Giulio Blasi

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Psiche:
Media e tabù
Roberta Ribali

Film:
Perversioni femminili e non
Rossana Di Fazio

Musica:
Operazione nostalgia
Roberto Caselli

Science-links:
L'evoluzione
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone

Appuntamenti

Sala giochi

Forum: Giochiamo in rete

Colophon

Indici di Golem

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Sommario

Presentazione

Scienze, libertà, società

Sylvie Coyaud
Farsi capire

Renato Giannetti
Promemoria con divagazioni

Maria Grazia Ruggiano


Perchè non accada mai più

Giancarlo Scarpari
In nota a Ruggiano
Forum: Scienze, libertà, società

Globalizzazione e disoccupazione

Paolo Palazzi
La politica

Aldo Grasso
Immortalità della televisione

Forum: Altre vite?

Renato Mannheimer
Sondati

Per non dimenticare 3

David Meghnagi
Distinguere

Italia 1938
Le leggi razziali

Forum: Per non dimenticare

Università

Domenico Fiormonte
Italiano in campus

Rubriche

Arte:
Les Immortels
Carlo Bertelli

Links:
E’ possibile una Biblioteca Multimediale?
Giulio Blasi

Parlamento:
Per forza e per amore
Giovanna Grignaffini

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Psiche:
Sessualità dopo i 40
Roberta Ribali

Film:
Nuvole in viaggio
Rossana Di Fazio

Musica:
Jimi
Roberto Caselli

Science-links:
La complessità
Sylvie Coyaud

Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone

Appuntamenti

Sala giochi

Marco Sabatini
G.i.o.c.h.i.
Forum: Giochiamo in rete

Forum: Acrostici

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Sommario

Presentazione

Giornali e giornalisti

Umberto Eco
Non scrivete sui giornali: nessuno se ne accorge

Antonio Calabrò
Il "mestiere" del giornalista

Oliviero La Stella
Catena di montaggio

Anna Masera
La battuta pronta
Proposte di legge

Forum: La nuova informazione

Sondaggio a cura di Renato Mannheimer

Globalizzazione e disoccupazione

Paolo Palazzi
L'utopia

Antonio Martino
Ruspe, pale, cucchiaini

Università

Giovanni Bachelet
No, questa legge no!

Maurizio Bettini
I misteri di Eleusi

Aldo Schiavone
Le buone intenzioni

Ugo Pirro
Il tempo segmentato

Carlo Bertelli
Golem d'aprile

Ranieri Polese
L'Oscar, Sanremo e la democrazia

Rubriche

Arte:
Olfatto e conoscenza
Carlo Bertelli

Links:
Thesauri ad hoc...
Giulio Blasi

Parlamento:
Il nome della cosa
Giovanna Grignaffini

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Psiche:
Biotechfobia
Roberta Ribali

Film:
Una storia troppo semplice
Rossana Di Fazio

Musica:
Appendi lo scettro al chiodo
Roberto Caselli

Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone

Appuntamenti

Sala giochi

Forum: Nuovi giochi in rete

Forum: Giochiamo in rete


Colophon

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Sommario

Presentazione

Umberto Eco
L'Opus Dei smentisce che io sia l'Anticristo!

La riforma della scuola

La proposta Berlinguer

Franco Cardini
Alcuni ingenerosi e tendenziosi rilievi

Domenico Starnone
E il piacere?
Collettivo del Liceo Tasso, Roma
Contraddizioni e ambiguità

Giulio Blasi
Links: 1000 miliardi per le scuole.....

Il Governo della Cultura

Enzo Restagno
La musica all’ombra dell’Ulivo

Carlo Bertelli
Via col vento

Aldo Grasso
Considerazioni di un impolitico sulla Rai

Oliviero Ponte di Pino


Il governo del Teatro

Furio Colombo
Rappresentare i giovani

Ranieri Polese
Ricordo di Sanremo

Per non dimenticare 3

Danco Singer
Opinioni

Le risposte

Forum: Tam tam

Sala giochi

Marco Sabatini (con Umberto Eco)


Nuovi giochi
Forum: Nuovi giochi in rete

Forum: Giochiamo in rete

Rubriche

Parlamento:
Doppio Sogno
Giovanna Grignaffini

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Musica:
Tempo e denaro
Roberto Caselli

Film:
Premesse?
Rossana Di Fazio

Fumetti
a cura di Comix

Forum: Pollicino

Appuntamenti

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

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Sommario

Presentazione

Orizzonti: Italia, Europa, Mondo

Renato Ruggiero
"Paese miope..."
(Corriere della Sera 29/12/96)

Paolo Fulci
Prospettive

Piero Sansonetti
"Il giornalismo italiano è provinciale"
(intervista a cura di Mario Calabresi)

Lucio Caracciolo
Europa: un futuro che non c'è

Antonio Martino
Che succede in Europa?

Mario Deaglio
L’Europa necessaria

Alberto Flores
Il piccolo mondo dei media italiani

Beppe Servegnini
Il "sistema operativo" del mondo

Rocco Cotroneo
Tecnoglobali, ma non tutti uguali

Stefano Cingolani
Livelli di realtà

Oliviero Ponte di Pino


Milano/Mondo: un Piccolo grande Teatro

Aldo Grasso
Il sogno sognato di una televisione europea

Ranieri Polese
Rendersi invisibili: il cinema italiano in Francia

Furio Colombo
Globalizzazione?

Sondaggio a cura di Renato Mannheimer

Il futuro delle Telecomunicazioni 2

Intervista a
Francesco Chirichigno, Silvio Scaglia, Ernesto Pascale

Gianni Granata
La rete replica

Il futuro delle Telecomunicazioni 1

Per non dimenticare 1

Carlo De Benedetti
Radici

Maria Irmrgard Wuehl


A partire da un libro. Ombre della psicanalisi.

Giancarlo Bosetti
Goldhagen: gli Attori della Storia.

Rubriche

Arte:
Chimere: cronache sul mito del Museo Autonomo
Carlo Bertelli

Parlamento:
Domani accadrà
Giovanna Grignaffini

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Musica:
Per Luigi Tenco
Roberto Caselli

Film:
Paragoni
Rossana Di Fazio

Fumetti
a cura di Comix

Links:
Locale e globale su Internet
Giulio Blasi

Appuntamenti

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

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Sommario

Presentazione

Ricordo di Marcello Mastroianni

Golem e RAI International propongono:


Giostra di fine anno

Quale '97?

Umberto Eco
Gioco di famiglie (per tutti)
Forum: Giochiamo in rete

Osservatorio di Golem sul Capitalismo italiano


Nano Blob
Carosello
di Marco Giusti Antonio Martino
I termini della questione

Giulio Sapelli
Alto e Basso capitalismo

Edward Luttwak
La Sindrome della Banca Centrale

Aldo Grasso
Sciopero: volontà o rappresentazione?

Renato Mannheimer
Simboli e opinione pubblica

Furio Colombo
Riflessioni sul Forum

Forum: Giovani, carini e disoccupati

Rubriche

Arte:
Verdi, moderni o contemporanei
Carlo Bertelli

Parlamento:
Miseria e nobiltà
Giovanna Grignaffini

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Musica:
L’affare Beatles
Roberto Caselli

Film:
Libere associazioni
Rossana di Fazio

Fumetti
a cura di Comix

Links:
Un Capodanno digitale
Giulio Blasi

Appuntamenti

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Presentazione

Furio Colombo
Le Tribù giovani

Forum: Giovani, carini e disoccupati

Il futuro delle telecomunicazioni


intervista ad Elserino Piol
Umberto Eco
Giochi di società

Oylem Goylem Forum: Giochiamo in rete


di Moni Ovadia

Paolo Palazzi
Fame e Democrazia

Vittorio Gregotti
Lettera al Ministro per i Beni Culturali

Ranieri Polese
Le riscoperte di Liberal

Gianni Granata
Chi legge Golem (come e quando)

Aldo Grasso
Riflessioni per un libro. Anzi due, o forse tre.

Maurizio Costanzo
Ad Aldo Grasso

Aldo Grasso
Replica

Riccardo Bocca
Commento (05/12/96)

Rubriche

Arte:
Sacre uova
Carlo Bertelli

Parlamento:
Dieci incredibili giorni
Giovanna Grignaffini

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Musica:
L'anima del commercio
Roberto Caselli

Film:
Riflessi di un romanzo: Ritratto di signora
Rossana di Fazio

Turismo:
Sorprese dal Golfo
Silvana Rizzi

Fumetti
di Comix

Links:
Oltre il web
Giulio Blasi

Appuntamenti

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Sommario

Presentazione

Renato Mannheimer
Principi ricostituenti

Forum: Costituente o Bicamerale?

Mario Deaglio
Capitalismo italiano: crisi di sistema
Forum: Capitalismo Impossibile

Giuseppe Turani
Tangentopoli 2: la vendetta
Blob Gradara
di Marco Giusti
Raffaele Simone
Sei Sapienze

Ranieri Polese
Bell'Europa

Aldo Grasso
No comment

Adriano Sansa
Genova, la realtà irrilevante

Oylem Goylem Rubriche


di Moni Ovadia
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Giochi:
Rime esagerate
Umberto Eco

Parlamento:
Come le foglie
Giovanna Grignaffini

Film:
Un matriarcato piccolo piccolo
Rossana Di Fazio

Arte:
Per Antonio Cederna
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix

Links:
Atenei nella rete
Giulio Blasi

Musica:
Il prezzo, il valore, il diritto
Roberto Caselli

Fuori porta:
Ritorno al Frutteto
Caterina Zaina

Appuntamenti

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

Forum: Il giornale sincero

Come si legge Golem


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Sommario

Presentazione

Il giornale sincero

Danco Singer
Il dibattito continua
Il punto sul dibattito e tre nuovi interventi per Golem
di Vittorio Feltri, Ferdinando Adornato e Enzo Biagi.

Umberto Eco
Caro Sisifo
Furio Colombo
Fuga dalla rilevanza

Renato Mannheimer
Sondati

Estate

Ranieri Polese
Istruite Istruzioni

Aldo Grasso
A ciascuno il suo mezzo

Danco Singer
Progetto

Forum: Per non dimenticare

Rubriche

Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Parlamento:
Un tranquillo venerdì di paura
Giovanna Grignaffini

Film:
L’aria addosso
Rossana Di Fazio

Arte:
Fermo-immagine
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix

Links:
Internet e gli altri
Giulio Blasi

Musica:
Carillon Stars
Roberto Caselli

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

Forum: Il giornale sincero

Come si legge Golem


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Presentazione

Il giornale sincero

Gianni Riotta
Sisifo on-line

"I giornali dicono la verità?"


rispondono a Golem:
Montanelli, Mauro, Borrelli,
Anselmi, Rossella
(a cura di Mario Calabresi)

Come la pensi tu?


partecipa al sondaggio di Golem

Senza lavoro
Nano Blob
di Marco Giusti Antonio Martino
Perchè disoccupati?

Paolo Sylos Labini


Un'occasione perduta

Sacchi sì, Sacchi no

Aldo Grasso
Sacchi è un capro?

Giorgio Casadio
La rovina dei romagnoli

Le poesie
di Alda Merini

Vittorio Gregotti
Comunicare o proporre

Aldo Schiavone
Ancora sui concorsi

Ranieri Polese
Cine-estate

Duello

Carlo Bertelli
Musei a tre forchette?
Adriano Agnati
Perché no?

Oylem Goylem
di Moni Ovadia Rubriche

Giochi:
Addio my darling
Stefano Bartezzaghi

Parlamento:
Deputati e no
Giovanna Grignaffini

Film:
Sorrisi e crucci
Rossana Di Fazio

Arte:
Strade interrotte, strade aperte
Carlo Bertelli

Fumetti
di Comix

Links:
Informazione (personalizzata) sul WWW
Giulio Blasi

Appuntamenti

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

Forum: Il giornale sincero


Forum: Cattedra, o cara!

Come si legge Golem


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Italia Online
Sommario

Presentazione

Cattedra, o cara!

Raffaele Simone
Ricercatori e posto fisso

Umberto Eco
Posto fisso e ricercatori

I due Bossi
Furio Colombo
Caro Bossi ti scrivo

Renato Mannheimer
Le ragioni di Bossi

Nano Blob
di Marco Giusti
Aldo Grasso
Il silenzio di Pippo

Sandro Parenzo
Le affinità elettorali

Paolo Palazzi
I Tartassati

Vittorio Gregotti
Pull-it-down

Rubriche

La Poesia
Giochi:
di Nanni Balestrini
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Parlamento:
E se lo scambio fosse in sè delizioso?
Giovanna Grignaffini

Film:
Distanze ravvicinate
Rossana Di Fazio

Arte:
Buone notizie
Carlo Bertelli

Fumetti
di Comix
Links:
Il WWW generalista e tematico (con Java...)
Giulio Blasi

Appuntamenti

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

Come si legge Golem


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Presentazione

A destra o a manca?

Franco Cardini
Il profumo della pantera

Umberto Eco
Alle armi, o mansueti!

Renato Mannheimer
Destra, centro, sinistra

Gianni Riotta
Il futuro di Babbo Natale
La lettera

Vittorio Gregotti
La telefonata
Caro Di Pietro ti scrivo
di Renzo Arbore

Gli italiani

Mario Deaglio
Lo specchio vuoto

Giorgio Casadio
Pedalare (W Maenza)

Alessandro Baricco
Le Pagine Gialle

Pierluigi Cerri
Cosa divide i californiani

La televisione

Maurizio Costanzo
Contemplare lo shaker

Aldo Grasso
Lo spettro della tv

Rubriche

Giochi:
Dieci anagrammi in linea
Stefano Bartezzaghi

Parlamento:
Disposizioni transitorie
Giovanna Grignaffini

Film:
L'esercito delle 12 scimmie
Rossana di Fazio

Arte:
Beni culturali
Carlo Bertelli

Fumetti
A cura di Comix

Colophon

Forum: I commenti dei lettori

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Dopo una lunga pausa, dovuta a cambiamenti e nuovi corsi che hanno interessato l’editore Opera Multimedia,
esce il numero 16 della rivista Golem. Abbiamo introdotto delle piccole novità: altre - più cospicue -
arriveranno nei prossimi numeri.
La prima domanda che ci siamo posti riguarda le regole. Che fine stanno facendo? Viviamo in un Paese in cui le
regole vengono cambiate sempre molto volentieri; e viviamo in un momento storico in cui la nozione stessa di
"regola" sembra destinata a cambiare. Per questo Golem ha chiesto ai suoi collaboratori di parlarci della fine
(ma anche del fine) delle regole in vari settori: dal decalogo della convivenza civile (o meglio incivile) steso da
Furio Colombo alle convenzioni sull’altezza tonale del "La" con cui i musicisti cercano di ovviare
all’inquinamento acustico (come spiega il compositore Carlo Boccadoro in un articolo che trova un’inattesa
relazione fra Bach e la viabilità), passando per le regole nel gioco del calcio (con un’intervista al commentatore
Gianni Mura), le regole implicite nei videogiochi (Roberto Maragliano), le regole talvolta ben poco scientifiche
della ricerca scientifica (Sylvie Coyaud), le regole dell'economia (Paolo Palazzi), le regole di un’eventuale
"poetica" del Web (Gianni Granata), fino a uno sfiduciato decalogo del servizio pubblico televisivo (Aldo
Grasso). Le regole della società letteraria sono state enunciate tempo fa da Giuseppe Pontiggia: sono sempre in
vigore, per cui le riprendiamo (con il suo gentile permesso) dal libro Le sabbie immobili. Alla fine di questa
sezione apriamo un Forum a cui speriamo contribuirete intervenendo su uno o più temi toccati negli articoli o su
altre regole ancora ("Regolatevi voi").
Dalle regole si passa, come è naturale, ai giochi. Siamo andati a intervistare il presidente della Bicamerale
Massimo D’Alema, che ci ha parlato dei suoi giochi preferiti: dal solitario di carte nel computer a quel vasto
gioco di simulazione che è la politica italiana.
Gioca anche Umberto Eco: questa volta ha scelto di usare tutte le possibilità grafiche che il computer mette a
disposizione, e ha cercato di fare in modo che i caratteri con cui si scrive un nome vengano ad assomigliare al
carattere e al destino di chi quel nome porta. Tutti sono invitati a partecipare, come al solito; ma per problemi
tecnici che speriamo comprendiate non ci sarà un vero e proprio Forum e ognuno dovrà mandarci i propri
tentativi via e-mail. Li pubblicheremo in un’apposita pagina web.
In Italia è in corso un dibattito vivace sulla proposta di rilanciare i collegi universitari sul modello di college
come Oxford e Cambridge (la proposta è venuta da un gruppo di studenti italiani a Cambridge). A questa
proposta Domenico Fiormonte oppone un’analisi dei problemi dei sistemi universitari inglese e statunitense. E’
un tema su cui Golem apre uno dei suoi Forum.
Alla sezione delle rubriche, da questo numero si sostituisce una sezione per così dire "mineraria", in cui non si
vola nell’alto cielo dei concetti ma si spala il carbone, magari nella speranza della pepita. Marco Belpoliti
affronta, con le armi dell’analisi fotografica e fisiognomica, un’icona importante: l’immagine del professor
Luigi Di Bella. Walter Fontana spiega la mortalità delle battute (un dramma che colpisce gli autori comici) e ci
invita a partecipare. Proseguono sia la storia a fumetti di Cinzia Leone sia la Piccola enciclopedia televisiva
interattiva di Aldo Grasso. Oliviero Ponte di Pino ci racconta una curiosa inchiesta fra gli scienziati americani,
che forse sarebbe il caso di importare anche da noi. Liam Email ha messo in moto un motore di ricerca per
cercare di capire se è vero che la gatta che va al lardo poi ci lascia lo zampino. Oltre a questi contributi la
miniera di Golem presto proporrà un utile manuale (I servizi di Golem) e un omaggio multimediale a un artista
che ci manca assai.

Due link, per finire.


Il primo è al sito del Sole – 24 ore in cui è contenuto l’importante documento con cui la Commissione di Saggi
istituita dal ministero della Pubblica Istruzione ha indicato "I contenuti irrinunciabili per la formazione di base":
il sapere che è necessario venga trasmesso ai giovani nel corso dei dieci anni della futura scuola dell’obbligo.
Riteniamo che questo argomento sia cruciale, proprio nei termini del discorso sulle regole che abbiamo
condotto in questo numero.
Il secondo è un link non a un sito, ma a un libro: come dire che non basta un clic per collegarsi. E’ un libro di
Riccardo Bocca, già autore per Kaos Edizioni di un cattivissimo ritratto di Maurizio Costanzo (Maurizio
Costanzo shock; vedi dibattito in Golem 6). Si intitola La condanna (Feltrinelli) ma potrebbe chiamarsi
benissimo Silvia Baraldini shock: racconta in modo minuziosamente documentato la terribile storia dell’italiana
detenuta negli Stati Uniti e che secondo molti avrebbe ogni diritto di scontare la sua pena in Italia. Il governo
italiano ora si è deciso ad appellarsi agli organismi internazionali competenti: speriamo che molto presto
Riccardo Bocca debba aggiornare questo libro con un lieto capitolo finale.

Da questo numero al direttore responsabile Danco Singer si affianca in qualità di direttore editoriale Stefano
Bartezzaghi.
Vivere senza regole
Furio Colombo C’è chi reclama, nelle città italiane, il diritto di vivere senza regole. Si
considerano "ribelli", avanguardia, negazione. Dicono che non si vendono,
che sono estranei al sistema, che non accettano alcuna regola, che il mondo
è sbirro. "La sveglia è il tuo sbirro, la fabbrica è il tuo sbirro". Dicono
"Nessuna schiavitù". Dicono "Faccio quello che voglio, quando voglio, dove
voglio. Decido io".
Si sentono eroici perché sono temuti, appaiono cattivi, spaccano, rompono,
urlano, minacciano, vandalizzano.
Nelle città italiane forse si sentono minoranze assediate dagli "sbirri". Ma
nel secolo sono una enorme maggioranza. Come i soldati giapponesi rimasti
armati, nascosti, pronti a colpire nell’isola perché non si erano accorti che la
guerra era finita, vogliono continuare a fare ciò che si è sempre fatto da
parte di maggioranze violente, per decenni e decenni.
Sono conformisti che ripetono gesti già fatti con lo slancio di chi è persuaso
di fare cose nuove, e di stupire per la straordinaria diversità. Non si sono
accorti che in questo secolo la diversità è stata solo dei non-violenti. Dei
laboriosi, di coloro che fanno cose per altri. Di coloro che danno invece di
esigere, che amano invece di odiare, che tollerano invece di aggredire. Che
cercano di sapere e capire invece di urlare, che rispettano la dignità
dell’altra persona, il lavoro degli altri, le cose che appartengono a tutti.
Coloro che non mitizzano la propria unicità, volontà e diritto di ognuno.
Infatti

1. Niente è più conformista che invocare caos e provocare disordine.


2. Niente è più conformista che imporre la propria volontà con la forza.
3. Niente è più conformista della violenza.
4. Niente è più conformista che farsi notare incutendo paura.
5. Niente è più conformista del vandalismo e della distruzione.
6. Niente è più conformista dell’aggressione verbale o umiliante.
7. Niente è più conformista dell’autodichiararsi fuori ovvero sopra le
regole.
8. Niente è più conformista dell’uso fisico dell’età e dei muscoli.
9. Niente è più conformista del disprezzare il dialogo.
10. Niente è più conformista che far pagare agli altri il danno dei propri
gesti violenti.

Al confronto le persone che si alzano presto, dedicano ore e fatica a fare


qualcosa di utile, si occupano di altro e non distruggono nulla sono la novità
e l’avanguardia del secolo. "Mitezza significa essere in discordia profonda
con un mondo così violento. La mitezza è una parola conflittuale. La
mitezza mi pare del tutto estranea al mondo che ho di fronte. Il simbolo
incarnato di questo mondo è la violenza. La pistola è il principale mezzo di
comunicazione con l’altro. C’è intorno a noi un ordine violento e
selvaggio" (Dall’omelia del Cardinale Martini che cita Pietro Ingrao, 22
marzo 1998).
Pietà per i conformisti che credono di essere ribelli coltivando disprezzo,
distruzione, violenza e dicono di "non accettare le regole" senza sapere che
il loro comportamento, camuffato con tante uniformi, è stato la regola di
tutto il secolo.
Fine del tackle da dietro
Conversazione Un gioco, se poi è un gioco, che sta innovando le sue regole è il calcio. Sulle
con Gianni Mura intenzioni, buone o cattive, e sui risultati, buoni o cattivi, di queste novità
Golem ha chiesto l’opinione dell’inviato di Repubblica Gianni Mura.

- Intanto, c’era bisogno di nuove regole?


Mura: "In larghissima parte, no. Per più di un secolo il gioco del calcio non
ha subito modifiche, aggiornamenti. Negli ultimi dieci anni sta succedendo
di tutto, e forse non è ancora finita. Molte di queste regole sono state
introdotte per migliorare lo spettacolo e pochi hanno il coraggio di
ammettere che è stato peggiorato lo sport".

- Sono tutte da buttare?


Mura: "Non tutte: il divieto per il portiere di giocare il pallone con le mani
su retropassaggio del suo difensore in effetti ha ridotto le pause perditempo.
Non considerare in fuorigioco l’attaccante in linea col difensore ha un po’
semplificato il lavoro dei guardialinee. L’ammonizione (cartellino giallo)
per le tirate di maglia, le cinture, la condotta ostruzionistica anche se non
violenta può andar bene. Però è discriminante l’obbligo di espellere il
giocatore che in fase difensiva nella sua area interrompe con la mano
un’azione avversaria mentre chi in fase d’attacco segna con la mano è solo
ammonito. Le nuove regole mirano a penalizzare i difensori e a privilegiare
gli attaccanti, ma questo obiettivo si poteva già raggiungere senza
innovazioni, semplicemente applicando il regolamento".

- Per il prossimo mondiale in Francia sarà obbligatoria l’espulsione


anche per chi porta il tackle da dietro.
Mura: "Molti tecnici si sono già detti contrari e fra questi Cesare Maldini.
Non si capisce perché la FIFA scelga il campionato del mondo come cavia.
Il tackle da dietro può anche essere effettuato regolarmente, così come il
tackle frontale può essere decisamente scorretto. Penso che vedremo un
mondiale condizionato dalle espulsioni, non è facile per un calciatore in
meno di tre mesi cancellare dal suo bagaglio tecnico-agonistico un gesto che
fino alla seconda settimana di marzo era consentito, per quanto a rischio.
Stava all’arbitro valutare la gravità o la liceità dell’intervento".

- Ma perché proprio negli ultimi anni c’è stato tanto movimento?


Mura: "Perché lo spettacolo, da intendere come bellezza del gioco, dei gesti
tecnici, è progressivamente calato, mentre cresceva anche troppo il prezzo
dello stesso spettacolo venduto alle televisioni. Il calcio, come altri sport
(dal tennis allo sci) ha imboccato la via della muscolarizzazione, brutta
parola, allora diciamo che nel calcio la forza atletica viene prima della
tecnica di base. E’ per salvare i gesti tecnici che sono nate molte regole, ma
anche dal presupposto (non totalmente condivisibile) che va favorito il gioco
d’attacco, nella speranza di vedere più gol. Invece è una questione di
mentalità, non di regolamenti. La fantasia del gioco non si tutela così, ma
rivedendo, per quel che concerne l’Italia, la politica dei settori giovanili, dei
vivai, peraltro ampiamente messi in crisi dalla legge Bosman".

- Almeno sui 3 punti a chi vince è d’accordo?


Mura: "Sulle prime non lo ero, non mi sembrava giusto svilire un onesto,
cioè non concordato, pareggio. E lo penso tuttora. Però devo ammettere che
i 3 punti a vittoria rendono più interessante il campionato, più incerto, anche
se l’aumento della famosa e famigerata posta in palio aumentare in misura
direttamente proporzionale le polemiche".

- A quali delle innovazioni è decisamente contrario?


Mura: "A quelle che, di fatto, hanno aumentato il tasso di simulazione e,
dunque, di slealtà in campo. Nonostante l’avvocato Campana, a capo del
sindacato calciatori, continui ad appellarsi a una condotta improntata al fair-
play, si continuano a vedere scene vergognose, isteriche ma anche peggio,
premeditate. In particolare, abolendo il concetto di volontarietà del fallo in
area, un portiere è messo nella condizione di non provare nemmeno a uscire
basso. Nessuno lo salta, nessuno lo dribbla, tutti gli vanno addosso apposta
per ottenere il rigore. Allo stesso modo, per regolamento va espulso l’ultimo
difensore che blocca l’attaccante lanciato a rete con chiara occasione da gol.
Giusto, in teoria. Ma in pratica molti attaccanti cercano il contatto con
l’ultimo difensore e poi crollano a terra, cercando di ottenerne l’espulsione e
quindi il vantaggio di giocare con un uomo in più. Tutto questo è
antisportivo ed è diffuso su larga scala. Fino a una quindicina d’anni fa in
ogni squadra erano due-tre picchiatori e un simulatore abituale, adesso sono
molti di più".
Videogiochi per analfabeti
Roberto Maragliano E' il caso che lo dica subito.
Non appartengo all'accademia del videogioco. Ammesso che ce ne sia una.
Né sono un videogiocatore provetto. Un qualunque ragazzo e pure un
bambino mi mette in aperta difficoltà: talvolta nemmeno riesco ad iniziare la
competizione. Il senso di profonda inadeguatezza che ne ricavo non è
dissimile, suppongo, da ciò che quel bambino e quel ragazzo provano di
fronte ai giochi sofisticati della nostra cultura adulta, centrata sulla
verbalizzazione e sulla scrittura. Preferisco dunque rinunciare al quasi
impossibile confronto e interrogarmi sulle ragioni di questa mia (nostra)
incompetenza, così come mi piacerebbe che quel bambino e quel ragazzo
riuscissero a riflettere, ovviamente con gli strumenti linguistici e concettuali
di cui dispongono, sul significato dell'inadeguatezza che li riguarda (e che la
scuola non sempre riesce a compensare).
Non aspettatevi, comunque, impegnativi ragionamenti. Voglio sostenere
qui, a proposito del videogioco e della sua utenza, soltanto due cose
semplicissime, che hanno a che fare più con la pragmatica che con la
sintassi di questo medium. Dovendole nominare subito, queste due cose,
parlerei di analfabetismo e dentrismo. Per ora, bastino le parole. La
"spiegazione" a dopo, in situazione.
Muovo da un'esperienza personale. Ho preso parte, nei mesi scorsi, alla
realizzazione di WonderPark (Castelvecchi-Lynx, Roma, 1997): è una
raccolta di videogiochi in CD-ROM (per Windows); ma non solo, in quanto
il dischetto viaggia integrato con un tradizionale gioco da tavola su
cartoncino (con figurine da ritagliare e colorare), un libretto illustrato di
storie che richiamano e amplificano i personaggi dei giochi, un sito Internet
(http://www.wonderpark.com), e fornisce, oltre ai giochi e la loro
ambientazione narrativa, una serie di utilities per l'editing multimediale
(carta da lettera, bigliettino augurale, disegni da colorare, file audio con la
colonna sonora), nonché un laboratorio musicale per fare esperimenti
audiovisivi. Insomma, WonderPark è un multi-multi-multimediale, come
dice lo strillo pubblicitario. Il tutto ruota attorno al videogioco propriamente
detto. Ed è di questo che intendo parlare.
Nell'ideare e allestire gli otto ambienti ludici del parco, ciascuno articolato
in cinque livelli, abbiamo deciso di rinunciare al codice scritto. Intendevamo
rivolgerci ad un'utenza "senza età", piccolissimi e grandi disposti a farsi
piccoli, a coltivare appunto la loro parte analfabeta. Di conseguenza, stando
dentro al gioco, l'utente non incontra mai messaggi scritti, e nemmeno trova,
nel manualetto di istruzioni (che del resto nessun provetto videogiocatore
consulta), l'esplicitazione delle regole. Queste regole le dovrà contattare (e
scoprire) immergendosi dentro la situazione di gioco (dentrismo), attivando
soprattutto le sue risorse di intelligenza sensomotoria e concreta
(analfabetismo), assai di meno, quasi per nulla quelle che appartengono
all'intelligenza formale agita dall'alfabetismo.
Quando, disponendo della versione provvisoria del CD-ROM, ne ho voluto
fare una prima prova con mio figlio di dieci anni, è successa una cosa
interessante. Di fronte alle quaranta situazioni ludiche io facevo appello alla
mia memoria cercando di ricordare cosa ci avevamo messo dentro in termini
di regole di funzionamento, e non sempre ci riuscivo (per un vizio che
chiamerei di "presunzione epistemologica"). Lui, invece, agiva in
situazione, pensando - se mai sia possibile sostenerlo - con il mouse: e il
gioco, il più delle volte, gli riusciva meglio di quanto non riuscisse a me.
Insomma, le mie competenze "formali" fungevano da ostacolo nei confronti
delle mie limitate competenze "empiriche". Sapevo o presumevo di sapere
troppo, soprattutto cose troppo distanti dal contesto del gioco. Cose che
andavo a cercare sotto o dietro la situazione ludica, quando invece essa vive
del rapporto con chi le va a cercare dentro.
Io adulto, mi intestardivo, fallendo, sulle mie ideologie dietriste e sottiste.
Lui, bambino, metteva a frutto la sua pratica dentrista.
Io mi facevo ricattare dal peso dell'alfabetismo. Lui agiva felicemente da
analfabeta.
Prima ancora di questa imbarazzante esperienza, rispondendo ad un
giornalista che mi sollecitava a dire qualcosa a proposito dei videogiochi, e
certamente deludendolo, visto che si aspettava dal pedagogista un elenco
minuzioso di cautele e precauzioni, ebbi a sostenere che col videogioco è in
atto una rivoluzione epistemologica. L'intervistatore, correttamente, riportò
il parere. E questo mi attirò ironie e sarcasmi a non finire, da parte di
colleghi e amici.
Sapendo dunque quel che rischio, ribadisco qui che il modo migliore per
affrontare la questione delle "regole" (sarebbe più opportuno parlare di
"metaregole") del videogioco è quello (blandamente) epistemologico (chi
fosse interessato a considerazioni più articolate può comunque visitare il
mio sito "pedagogico": http://www.geocities.com/Athens/Forum/9897).
Uso dunque analfabetismo e dentrismo come concetti empirici per sostenere
che, nel gioco elettronico:

● agisce un'estetica immersiva, reticolare, connettiva, che trova


alimento ed energia soprattutto nelle dinamiche del suono e delle
immagini in movimento;
● tale estetica si sostanzia attraverso l'interattività, che a sua volta
andrebbe intesa non solo come risorsa operativa ma anche come
risorsa concettuale (all'interno della quale il soggetto si appropria di
un oggetto attraverso le trasformazioni che il suo intervento produce
su di esso);
● la conoscenza contestualizzata che ne deriva procede secondo
meccanismi diversi da quelli che sovrintendono alla conoscenza
decontestualizzata (fluidità vs. fisicità; condivisione vs.
appropriazione; globalità vs. analiticità; ecc.);
● si sviluppa, sul fronte dell'utenza, al di là di quanto superficialmente
si sostiene a proposito della funzione isolante del rapporto individuo-
macchina, un'intelligenza distribuita, di tipo collettivo e connettivo,
non centrata, che fa da collante della comunità dei videogiocatori
(scambi di informazioni sulle vie d'uscita dalle situazioni problema,
segnalazioni di trucchi, consigli per gli acquisti).

Sullo sfondo di queste considerazioni (vorrei ripeterlo, di epistemologia


ordinaria) sta un riferimento costante al computer inteso come ambiente di
esperienza e di conoscenza. Sta dunque l'azione di un medium
costituzionalmente ambiguo, almeno per come è praticato (e più raramente
interpretato) oggi.
Dove l'ambiguità ha a che fare con la sua immagine di strumento per il
calcolo (quindi per l'organizzazione e l'uso dei testi scritti visti come oggetti
su cui si esercita la logica del calcolo) e con l'altra immagine di uno spazio
opaco dentro il quale l'utente si situa in un rapporto di immersione e si
muove secondo la logica del dialogo (quindi come un contesto dove egli
agisce soprattutto tramite suoni ed immagini, proiettando immagini di sé ed
elaborando immaginazione).
In rapporto alla sua prima personalità il computer funge da strumento fisico,
da macchina in senso stretto; in rapporto a quest'altra identità, esso si
configura come un simil-"soggetto" con il quale condividere un'ampia
varietà di esperienze "ipertestuali" (comunicazione, gioco, sogno).
Fermo restando che il videogioco esalta questa seconda componente del
computer, spesso a discapito della prima, e che quindi per attivarla è
necessario accettare di dover sacrificare l'altra, viene da chiedersi (ed è
questo che dà tanto fastidio ai detrattori) se un tale tipo di esperienza non
possa assumere un valore paradigmatico, da recuperare e consolidare in
riferimento ad altre meno settoriali pratiche di conoscenza.
Insomma, mi chiedo e vi chiedo se non sia il caso di assumere il modello del
videogioco (stare dentro la situazione, agire in essa, lasciando che al di sotto
permangano elementi di opacità) per dar conto di pratiche epistemologiche
che con questo ambito sembrano aver poco a che fare, come quelle, per fare
solo gli esempi più evidenti, relative alle forme di produzione e ai modi
d'uso degli oggetti appartenenti alle aree delle arti sonore e visive, e
addirittura se non sia opportuno metterlo in campo per ripensare (e quindi
ricontestualizzare) comportamenti tradizionalmente intesi come appartenenti
ad un ambito diametralmente opposto: per esempio i comportamenti di
scrittura, almeno per come stanno metamorfizzandosi attraverso l'impiego
dei word e dei link processor.
Questo che ho appena sfiorato è l'approdo ultimo del presente ragionamento.
Siamo abituati a interpretare i fenomeni della reticolarizzazione e della
fluidità delle conoscenze secondo paradigmi testuali, e sovente usciamo
scornati e insoddisfatti da queste esperienze. Sarebbe il caso almeno di
tentare la via contraria: quella dell'interpretazione reticolare delle nostre più
diffuse pratiche testuali. Insomma, perché non proviamo a videogiocare con
i nostri patrimoni di conoscenze? Troveremmo, questo è certo, un valido
alleato nel bambino multimediale (ne ho parlato nel mio Esseri
multimediali. Immagini del bambino di fine millennio, Firenze, La Nuova
Italia, 1996) e nella parte infantile di noi stessi, sacrificata dall'esclusività
(sempre più asfittica) del paradigma testuale.
La scienza senza regole nè regoli
Sylvie Coyaud Primo assioma

Siccome le scienze si esprimono volentieri in matematica, l'osservatrice


esterna si aspetta da loro la coerenza o la logica, o insomma quella cosa là,
tipica della matematica. Una volta che ci si è messi d'accordo che la regola è
due più due fa quattro, non ci piove.

Secondo assioma

Siccome lo scienziato singolo o in ordine sparso è, sì, superiore al vulgum


pecus ma tuttavia umano, a lui è concessa una certa sregolatezza. Passi, per
esempio, se Stephen Hawkins scrive che il dio della Genesi è una
fluttuazione nel vuoto quantistico precedente al Big Bang. Se il suo collega
Fred Hoyle è convinto - con altri - che le comete hanno portato sulla Terra
non solo la vita ma addirittura le religioni e la civiltà, in seguito alla caduta
dalle nostre parti di frammenti come quelli che hanno butterato la faccia di
Giove. Se Fleischmann e Pons agitano due elettrodi in una bottiglia e
scoprono la fusione fredda, un'energia immensa da una quasi assenza di
materia. Se il chimico francese Benveniste vede in una molecola d'acqua la
memoria di un'altra molecola che l'ha sfiorata migliaia di diluizioni prima,
avvalorando la "dinamizzazione" omeopatica praticata dall'azienda che lo
finanzia.
Passi. Tanto prima o poi un concorrente prova a rifare l'esperimento o la
dimostrazione, scova i dati "aggiustati", gli elementi omessi, e li denuncia.
Non passa invece che un'assemblea di scienziati entri in combutta per tradire
le proprie regole. Non per il bene collettivo: esempio, nascondiamo i dati
dell'encefalopatia spongiforme bovina, se no creiamo allarmismo e crolla il
prezzo del manzo. Non per corruzione: ci paga l'industria delle sigarette,
delle auto, dei petroli e pubblichiamo soltanto i fattori di rischio inferiori a
1.
No, gratis. Per sbadataggine, spensieratezza, incoscienza? Non so, chiedo,
ma prima devo raccontare l'accaduto a chi fosse sfuggito.
All'Università di Goteborg, nella Svezia delle pari opportunità, Christine
Wennerås, microbiologa, e Agnes Wold, immunologa, si ritrovano un
giorno a commentare le ultime notizie di laboratorio.
"Lo sai che nemmeno questa volta la X ha ottenuto i fondi del Consiglio
della Ricerca Medica e invece quello là che non le arriva alla caviglia, sì?"
"Nooo! Secondo te, si tratta di coincidenze o c'è dell'altro?"
Wennerås e Wold decidono di indagare sui fondi distribuiti nel 1995. Ma il
Consiglio della Ricerca Medica rifiuta di consegnare gli atti delle delibere.
Si rivolgono al tribunale: secondo la legge - in Svezia, beate loro - i
documenti sono statali e quindi pubblici.
Una volta in possesso delle carte, Wennerås e Wold le analizzano con gli
strumenti statistici migliori che conoscano. Scoprono che il Consiglio aveva
violato le regole di misura neutrale obiettiva imparziale onesta, fate voi, che
ovunque fondano il giudizio e quindi la gerarchia meritocratica della
scienza.
Riassunto: per ottenere dei fondi pubblici, le ricercatrici dovevano avere un
punteggio medio 2,5 volte superiore a quello dei ricercatori nelle diverse
valutazioni di validità, originalità, impatto sulla comunità scientifica dei
lavori già pubblicati ecc… Per capirci, è come se il Consiglio avesse
misurato l'altezza dei maschi in centimetri e quella delle femmine in pollici:
170 di media i primi. 60 di media le seconde: tutte nane, poverette.
E' preoccupante perché le regole, il regolo con le tacche dei centimetri o dei
pollici è stato deciso di comune accordo proprio per evitare che i pregiudizi
del misurante cambino l'altezza del misurato. Chissà in quante occasioni si
pratica quel giochino di prestidigitazione, magari all'Organizzazione
Mondiale della Sanità sull'incidenza rispettiva della malaria e dell'Aids e
quindi sui fondi da dare alla prevenzione dell'una o dell'altra. O
all'Organizzazione Mondiale della Meteorologia sulla faccenda del
riscaldamento del clima. E ora chi si fida?
Philip Campbell è il neo direttore del settimanale inglese Nature (il più
potente dell'ambiente insieme all'americano Science), che nel maggio del
1997 ha pubblicato la ricerca di Wennerås e Wold con i suoi bravi grafici.
Dice che ha ottenuto dal resto della stampa scientifica quasi lo stesso
numero di citazioni dell'articolo di Ian Wilmut & C. che annunciava la
clonazione della pecora Dolly. Di solito, la ricerca veniva citata da
editorialisti prestigiosi che gridavano allo scandalo e si auguravano che il
metodo di analisi Wennerås e Wold venisse usato per studiare i meccanismi
di decisione in tutti gli enti erogatori di pubblici denari, soprattutto nei paesi
meno egualitari della Svezia.
Ipocriti.

- E sulla stampa normale, Wennerås e Wold sono state citate più o meno di
Dolly?
- Molto, molto di meno.

La ricerca di C. Wenneras e A. Wold vista a caldo dai circoli accademici


svedesi:
http://bric.postech.ac.kr/science/97now/97_5now/
970521a.htm

dal gruppo WIS, Women in Science and Engineering:


http://tweedledee.ucsb.edu/~kris/WIS/WIS.html

dal settimanale economico non troppo sessista The Economist (estratto):


http://utl1.library.utoronto.ca/www/wow/article2.htm

dalle femministe americane:


http://www.feminist.org/news/newsbyte/may97/
0522.html

dal direttore del British Medical Journal:


http://194.216.217.166/reg/archive/7094n2.htm

una ricerca più generale dal titolo "Clima freschino nell'accademia"


condotta da Jennifer Freyd sulla discriminazione sessista in ambiente
universitario americano, con un'ottima bibliografia:
http://darkwing.uoregon.edu/~jqj/inter-pub/css/
chillyclimate1.html
Per un servizio pubblico
perfetto
Aldo Grasso Cosa c'è dietro l'angolo? L'angolo del servizio pubblico, si intende. Da un
po' di tempo assistiamo a una curiosa rivendicazione del ruolo del servizio
pubblico. La Rai, quando deve commentare gli ultimi dati d'ascolto,
sottolinea la sua presenza sul mercato con frasi del tipo: "Ci sono almeno
dieci differenze sostanziali tra il servizio pubblico e la TV commerciale".

Quali siano queste differenze sostanziali nessuno lo dice, perciò nessuno le


sa. E allora Maurizio Costanzo, direttore di Canale 5, prende la palla al
balzo e si esercita in un'equazione quanto meno spregiudicata. Se Canale 5
trasmette programmi di interesse sociale anche Canale 5 può dirsi, a buon
diritto, servizio pubblico.

La tesi è fragile. E' più istruttivo, allora, interrogarsi sul perché Costanzo
abbia più volte sentito il bisogno di invocare il servizio pubblico,
espressione che fino a ieri era sinonimo di noia e di pedagogismo. Non
rottura del palinsesto ma più crudamente "rottura di palle".

Nella TV moderna, con l'ingresso in campo degli imprenditori privati, il


concetto di servizio pubblico si è molto scolorito. Se dovessimo, con tutta
franchezza, dire quali siano i programmi della Rai definibili come servizio
pubblico ci troveremmo in seria difficoltà. Anzi, proprio la Rai viene
accusata da più parti di aver smarrito il senso della sua missione pubblica.

Perché allora Costanzo rivendica a sé, a Mediaset, una quota di questo


servizio? La ragione è intuibile: non passerà molto tempo che le TV
commerciali - accusando la Rai di fare troppi programmi commerciali -
chiederanno una fetta di canone.

La Rai - è la loro tesi - deve vivere con il solo canone e lasciare alle TV
commerciali la pubblicità. Se invece gode ancora di introiti pubblicitari lasci
alle TV commerciali una porzione del tributo o la possibilità di stringere
rapporti di convenzione con alcuni ministeri o, ancora, l'opportunità di
produrre programmi per le singole regioni, fuori dal tetto pubblicitario.

Insomma il vecchio e frusto concetto di servizio pubblico, che nessuno sa


più bene cosa sia, viene tirato fuori per una disputa che di servizievole non
ha proprio nulla. Per questo tentiamo qui di definire alcuni aspetti - dieci,
per la precisione - del Servizio pubblico, le "dieci differenze sostanziali" di
cui sopra.

1. Personale di servizio pubblico: prestazione di lavoro domestico in case


private ovvero quando un dipendente Rai fa un secondo lavoro presso una
ditta fornitrice della Rai.

2. Porta di servizio pubblico: "Porta a porta" di Bruno Vespa, ovvero come


lasciare sempre una porta aperta al potente di turno.

3. Donna a mezzo servizio pubblico: giornalista televisiva che lavora solo


per metà giornata. La famosa altra metà...

4. Fuori servizio pubblico: locuzione riferita a giornalisti momentaneamente


liberi da obblighi d'ufficio, detti anche "posteggiati". In attesa che la ruota
della fortuna politica giri ancora.

5. Servizio pubblico particolare, detto anche "servizietto pubblico": love


affaire fra due dipendenti Rai.

6. Servizi pubblici deviati: settori della Rai che deviano dal compito
istituzionale e si rendono responsabili o complici di attività destabilizzanti
nei confronti dell'azienda.

7. Indennità di servizio pubblico: fare la cresta sui rimborsi spesa delle


trasferte.

8. Vai a fare quel servizio pubblico: invito con cui un direttore del Tg
permette a un redattore l'esplicazione dei bisogni corporali.

9. Abbandono di servizio pubblico: passare dalla Rai a Mediaset, per tornare


ancora in Rai, per spuntare, ogni volta, qualche miliardo in più.

10. Al vostro servizio pubblico: espressione che denota l'essere a completa


disposizione di qualcuno, possibilmente personaggio di rilevanza pubblica,
insomma un politico; l'unico modo per entrare in Rai.
Economia, scienza divina
Paolo Palazzi Nella scienza economica, come in tutte le scienze, i ricercatori si scontrano
con: "il problema che i saggi bisogna scriverli come se si fosse Dio e si
parlasse per l’eternità".¹

Quale miglior modo per gli economisti di avvicinarsi a Dio che quello di
individuare, spiegare, interpretare, diffondere "leggi economiche" naturali,
immutabili ed incontrollabili? Quindi sogno e pratica di molti economisti è
quella di presentare leggi, comportamenti, relazioni oggettive e naturali
attraverso le quali studiare e interpretare i fenomeni economici.
Il grosso problema per gli economisti è però, da sempre, che ciò che si
aspetta da loro è una spiegazione di quello che avviene nella realtà
economica, e anche la proposta di eventuali strumenti per modificare e
migliorare una realtà considerata non soddisfacente o non giusta.
La scienza economica, come tutte le scienze sociali, si interessa delle
relazioni tra gli uomini, e gli uomini, si sa, sono un po’ imprevedibili e
litigiosi, hanno comportamenti che non rientrano nei comodi schemi di
razionalità ipotizzati dagli economisti: in realtà spesso va per proprio conto
non rispettando la teoria economica. Insomma la realtà non rispetta le leggi.
Questo fenomeno porta a due conseguenze, di segno opposto, ma entrambe
gravi. La prima è relativa a un crescente distacco dell’analisi teorica
economica dalla realtà, il sistema economico di riferimento dell’analisi
diventa cioè sempre più astratto, e le ipotesi semplificatrici diventano uno
strumento che, invece di avere come fine quello di isolare da una situazione
complessa i problemi più importanti, hanno come fine a sé la possibilità di
applicazione degli strumenti analitici, con un ribaltamento della relazione
strumento-obbiettivo.
Il secondo fenomeno è che, mentre tali livelli di sofisticazione rimangono
ristretti al dibattito accademico, la società civile si trova ad affrontare
problemi e domande sul funzionamento di una economia reale. Si è quindi
sviluppata una tendenza, senza dubbio da parte dei mass-media e molto
spesso anche della classe politica, ad appropriarsi, divulgare e
malauguratamente e tramutare in interventi di politica economica alcuni dei
risultati provenienti da ricerche che si basavano sulla costruzione di sistemi
economici e di individuazioni di leggi comportamentali del tutto irrealistici.
I risultati così "volgarizzati", che spesso diventano luoghi comuni di massa e
di mass-media, sono strettamente dipendenti dalle ipotesi irrealistiche che
stanno alla base del modello utilizzato per ottenerli.
Siamo quindi in presenza di un fenomeno che da una parte vede una sempre
maggiore astrattezza ed estraneità ai problemi reali da parte della letteratura
economica accademica, e dall’altra una volgarizzazione di queste teorie e
leggi che, isolate dal proprio contesto, diventano inutili luoghi comuni o veri
e propri errori.
Le ragioni di ciò possono essere ritrovate, a mio avviso, in due ordini di
motivi:

a. il primo si potrebbe definire di carattere "utilitaristico-accademico":


occuparsi di modelli sempre più astratti e lontani dalla realtà
permette una elaborazione scientifica che si verifica solamente
all’interno del mercato accademico, senza che la capacità o meno di
spiegare la realtà sia un metro di giudizio. Nell’analisi teorica
economica si riesce a "essere Dio" solo se si ha come obiettivo
finale la coerenza interna. La matematicizzazione dell’economia ne
è un esempio. E’ difficile "essere Dio" quando si parla di cose reali.
b. Un altro ordine di motivi è quello di tipo ideologico: l’astrattezza
dei modelli e le relazioni puramente quantitative permettono di
trasmettere l’idea della oggettività delle leggi che governano i
processi economici e quindi della impossibilità o dell’inutilità di un
cambiamento che si ponga in contraddizione con tali leggi.

La via alternativa non è facile: la cosa migliore dovrebbe essere, per gli
economisti che non si riconoscono in questa tendenza, quella non tanto di
parlarne ma di praticarla; se un approccio alternativo è veramente efficace
avrà in sé la capacità di affermarsi.
Purtroppo un meccanismo del tipo: "le idee buone automaticamente
cacciano quelle cattive", non si adatta al mondo politico e al mondo
accademico. La possibilità in astratto di discernere ciò che è buono da ciò
che è cattivo è molto difficile se non impossibile: spesso in economia, come
in tutte le relazioni tra gli uomini, ciò che è per gli uni può essere male per
gli altri, le verità oggettive sono ben poche.
Sta di fatto che i meccanismi di selezione delle idee seguono percorsi
tortuosi, conflittuali e di potere ben diversi da un confronto ideale e aperto.
Forse ciò è inevitabile, basta però ricordare che le idee che vincono e
dominano in economia non rappresentano improbabili leggi oggettive e
immutabili, ma solamente quelle che meglio rispecchiano i rapporti di forza
istituzionali, politici e accademici.

1. Pirsig R. M., Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi, 1981, p.
171
Bach e la viabilità
Carlo Boccadoro Le nefaste conseguenze dell’inquinamento acustico che vengono
periodicamente ricordate su giornali, trasmissioni radiofoniche e televisioni
sono a tutti ben note. Raramente si pensa, però, al disastroso effetto
retroattivo che automobili, camion e motorini senza marmitta hanno avuto
sulla Storia della Musica. Che c’entra il traffico con il regno dei suoni, vi
chiederete (forse)? Apparentemente nulla. Chiunque si trovi bloccato in un
ingorgo automobilistico, magari costretto a una lunga attesa in coda,
difficilmente si metterà a pensare a Bach o a Vivaldi; semmai passerà il
tempo a imprecare contro gli altri automobilisti.

Eppure un pensierino al riguardo, se non altro per curiosità oziosa, vale la


pena di farlo.
Prima di arrivare al traffico, però, bisogna fare un esempio musicale.
Se avete mai assistito a un concerto di musica orchestrale vi sarete accorti
che, prima dell’entrata in scena del direttore, l’oboe suona una nota lunga. Il
primo violino la riprende e progressivamente tutti gli strumenti della
compagine orchestrale si uniscono a lui, cercando di bilanciare l’intonazione
del proprio strumento attorno a quella nota: si tratta della famosa
"accordatura" dell’orchestra (vi ricordate Fantasia di Walt Disney? c’era
anche lì). Orbene, il suono che dà vita a tutto questo procedimento è la nota
La. L’ascoltatore deve quindi presumere che questa nota, fungendo da
baricentro per l’accordatura di tutti gli strumenti, debba essere di una
intonazione infallibile, inattaccabile, definitiva. Niente affatto. Ogni
orchestra ha un La differente, seppure di una sfumatura, e quindi ci sono
sempre dei problemi per sostenere l’accordatura durante tutta la durata di un
concerto. La scienza acustica ci spiega che ogni nota è formata da un certo
numero di frequenze che vengono misurate in hertz. Per cercare di ovviare a
questi problemi di intonazione nel 1939 si tenne a Londra una convenzione
internazionale di musicisti, foniatri e specialisti di acustica, i quali
stabilirono che il La doveva avere una frequenza di 440 hertz al minuto
secondo. Prima di questa convenzione il La variava non solo da nazione a
nazione, ma anche a seconda del genere musicale (opera, concerto, musica
da chiesa, ecc.).
Sulla carta, dunque il problema era risolto. Nei fatti, molto meno. Sugli
hertz di ogni nota influiscono le caratteristiche ambientali del luogo in cui si
suona (acustica della sala, riverbero, ecc.) e persino le condizioni
atmosferiche. Non andate a sentire concerti in sale umide o in serate
particolarmente fredde e piovose, altrimenti potreste sentirne di tutti i colori,
specialmente tra gli strumenti a fiato. Nel 1971 il La a 440 hertz fu
ulteriormente ratificato da una delegazione del Consiglio d’Europa, che
aveva nuovamente consultato fior di luminari al riguardo. Eppure in molte
orchestre il La iniziale è a 442 hertz, talvolta è a 443, in altre 440 e in alcuni
teatri lirici arriviamo anche a 445 hertz. Recentemente ho assistito a un
concerto in cui uno strumento era accordato a 442 e l’altro a 446 hertz, con
risultati che vi lascio immaginare. Ebbene, possiamo ormai stabilire con
certezza che il principale imputato di questa Babele acustica è proprio il
rumore della vita quotidiana intorno a noi, particolarmente il famigerato
traffico.
Ai tempi di Bach, infatti, quando la vita scorreva più tranquilla e sotto le
finestre passavano al massimo le carrozze a cavalli, il La aveva una
frequenza molto più bassa: 415 hertz. Uno degli strumenti più in uso era il
clavicordo, che possiede un timbro così flebile da poter essere udito quasi
esclusivamente da chi lo suona. Questo ci dice essenzialmente due cose:
molta musica era destinata principalmente al diletto casalingo, e
quest’ultimo non era disturbato da rumori esterni. Quando la popolazione è
aumentata, e di conseguenza anche il rumore della vita cittadina, il nostro
orecchio ha avuto bisogno di un maggior numero di frequenze per essere in
grado di udire chiaramente la musica. Il clavicordo ha dunque lasciato il
passo al più sonoro clavicembalo. Tuttavia anche quest’ultimo, per essere
apprezzato appieno, necessita di assoluto silenzio e di poche persone
attorno. Il progresso bussa alle porte, arriva la rivoluzione industriale,
nascono la locomotiva a vapore, il tram; il rumore intorno a noi cresce
lentamente ma inesorabilmente. Ecco quindi il clavicembalo che viene
soppiantato dal ben più sonoro pianoforte, dotato di una robustissima
struttura in legno e metallo, e dal suono capace di farsi sentire anche in
ambienti rumorosi (non a caso esiste il piano-bar ma non il clavicembalo-
bar). Con il mostruoso crescere del caos (rumori industriali, martelli
pneumatici, colonne di automobili strombazzanti, televisioni, stereo e
apparecchi radio a tutto volume, ecc.) il povero La ha dovuto aumentare in
modo esponenziale le sue povere frequenze, giungendo agli attuali 440 e
oltre. Nel frattempo sono stati inventati strumenti elettrici utilizzati nella
musica rock, in grado di produrre suoni a volumi acustici allarmanti. I
sintetizzatori e le batterie elettroniche oltrepassano tranquillamente il limite
di pericolosità per le nostre orecchie, dato che molti concerti rock si
svolgono in campi di calcio e arene destinate ad ospitare decine di migliaia
di persone.
Torniamo dunque alla nostra vecchia equazione: molte persone = molto
rumore = molti più hertz necessari = La in vertiginosa ascesa.
Si potrebbe obiettare: a noi che ce ne importa se il La cresce di frequenza?
Ce ne importa eccome. Prima di tutto si tratta di un segnale d’allarme sulla
pericolosità acustica del nostro modo di vivere, e inoltre crea enormi
problemi a strumentisti e cantanti, dato che molte opere di musica classica
sono state pensate per note con hertz molto più bassi. Certe fioriture vocali
di Rossini, oppure certi passaggi sovracuti presenti nelle opere di Bellini
oggi risultano quasi ineseguibili e costano agli esecutori sforzi tremendi per
raggiungere note che ai loro tempi erano quasi un tono sotto di quelle
attuali. Se si va avanti di questo passo molte opere del bel canto saranno
irraggiungibili per le voci. (Non ve ne frega nulla? Potreste anche avere
ragione.)
Dal punto di vista teorico, invece, la cosa può anche avere un risvolto
divertente: il rumore quotidiano ha reso molte tonalità originali del tutto
inesistenti. Mi spiegherò meglio con un esempio, paradossale ma non
troppo: prendiamo la celeberrima Toccata e fuga in Re minore per organo di
Johann Sebastian Bach. La tonalità del brano è scritta a chiare lettere nel
titolo: ma se noi ascoltiamo questo pezzo così come Bach lo ha concepito a
suo tempo (su un organo antico accordato a 415 hertz) il risultato per le
nostre orecchie, abituate a 440 hertz e oltre, suonerà esattamente mezzo tono
sotto. Ecco quindi il brano trasformato come per magia nella Toccata e
Fuga in Do diesis minore. D’altro canto se Bach resuscitasse e volesse
andare a sentire come viene eseguita la sua musica su un organo moderno si
troverebbe davanti alla Toccata e Fuga in Re diesis minore dato che per lui
il nostro LA risulterebbe mezzo tono sopra.
Dunque, o Do diesis o Re diesis.
E il Re minore originale che fine ha fatto?
In realtà non è mai esistito in quanto tale, dato che si tratta di un parametro
variabile, ma certo il rombare delle automobili e delle moto, i videoclip di
MTV e le urla nei dibattiti televisivi hanno contribuito a relegare il suo
sapore originale nel limbo. Ogni tonalità, infatti ha un suo colore
particolare: nel caso di un autore come Mozart la corrispondenza
psicologica con le varie tonalità è fondamentale, ed è stata ampiamente
sviscerata da dotti studiosi. Sentire il Requiem eseguito in Mi bemolle
minore, come capita oggi, anziché nel Re minore in cui Mozart lo immaginò
non è proprio la stessa cosa.
Non crogioliamoci, però, in queste fisime minuscole da addetti ai lavori.
Suggerisco di inoltrare subito una formale protesta alla Motorizzazione
Civile perché la Pastorale di Beethoven ritorni in Fa Maggiore, e Per Elisa
sia restituita al suo La Minore originario. Propongo inoltre la costituzione
del CPICDH (Comitato Per Il Controllo Degli Hertz), organo dal nome
facilmente memorizzabile che si occupi di tenersi costantemente in contatto
con gli organi governativi di tutto il mondo per arginare la ormai quotidiana
ascesa di frequenze e garantire così un futuro ai nostri padiglioni auricolari.
Ricordate, Bach andava a piedi.
Aristotele veleggia su Internet
Gianni Granata E' possibile che la passione per la vela d'altura possa influenzare il giudizio.
Ma, in ogni caso, la Whitbread Race, regata intorno al mondo in nove tappe
per un totale di 32.000 miglia nautiche, è evento che esalta in modo
esemplare le caratteristiche tecnologiche e di fruizione della rete.
Il tema dell'evento su Internet è senz'altro stimolante, ma le sperimentazioni
svolte finora sono risultate per lo più deludenti: in particolare si rivelano
patetici quei tentativi di sfruttare spettacoli di grande richiamo per
aumentare l'"audience" dei siti: elezioni di Miss Italia, festival di S. Remo,
campionati di calcio, ecc. Tutti avvenimenti che si valorizzano e si
amplificano grazie all'immediatezza del broadcasting radiotelevisivo; al
contrario, le lunghe costanti di tempo di Internet li trasformano in non-
eventi. A nulla valgono gli approfondimenti, i dati aggiuntivi, i link, le
sequenze di immagini fisse o "en ralenti": quando si visita il sito l'evento è
già sparito, non ha più valore, è come la partita di calcio in differita.
Veniamo invece alla Whitbread: la regata dura otto mesi e, come è tipico
della vela d'altura, le tattiche e lo svolgimento della gara non si apprezzano
in tempo reale (il coverage televisivo è impensabile non solo per ovvi
problemi tecnici, ma anche per la noia mortale dello spettacolo) ma con
flash stroboscopici a distanza di ore o giorni, molto consoni ai "naturali"
ritmi di collegamento alla rete da parte degli utenti.
Ogni media ho un suo tempo: teniamone conto.
La localizzazione dell'evento è il secondo fattore rilevante: spedire
giornalisti e tecnici ha costi proporzionali alla distanza, di conseguenza fatti
ed accadimenti di casa nostra sono ampiamente trattati dai media
tradizionali; dall'estero giungono notizie di grande impatto, con limitati
approfondimenti. La globalità della rete consente invece di organizzare con
grande efficacia e cura dei dettagli la copertura di un fatto che si svolge da
Southampton a Cape Town, Freemantle, Sydney, Auckland, Sao Sebastiano,
Fort Lauderdale, Baltimore, La Rochelle. I collegamenti satellitari ci
portano sul passaggio a Cape Horn, con possibilità di zoomare sulle
quattrocento miglia nautiche che separano la barca di testa da quelle di coda,
apprezzando le tattiche di rotta a ridosso della costa come se fossimo sulle
Bocche di Bonifacio. Il tutto corredato da situazione meteo aggiornata e dati
delle maree.
Ogni media ha un suo luogo di elezione.
Veniamo all'azione. La rigorosa sequenzialità dei media radiotelevisivi e la
passività dello spettatore (lo zapping è un'arma di difesa, peraltro distruttiva
nei confronti dell'evento teletrasmesso) porta inevitabilmente a una logica di
rappresentazione che privilegia l'unità di azione. Anche nei casi di gare
ciclistiche o di Formula 1, dove alle vicende del leader si sovrappongono
quelle degli inseguitori, di queste ultime si dà una visione molto parziale e
frammentata, in ogni caso funzionale a meglio interpretare i comportamenti
del leader. Sul sito http://www.whitbread.org (spero che quanto esposto
stimoli la curiosità a visitarlo) si possono seguire in parallelo le avventure di
dieci barche (ora nove a causa del ritiro di America's Challange) e dei
relativi equipaggi: incidenti, successi, delusioni, scelte vincenti e situazioni
drammatiche. Le storie, grazie alla posta elettronica sempre attiva, sono
rigorosamente parallele anche se con ovvi condizionamenti reciproci (come
reagire alla scelta di rotta del leader della corsa all'approssimarsi di un
fronte da nord ovest?). Se si è interessati alle sorti dell'equipaggio femminile
di delle barca EF Education, lo si può seguire con lo stesso livello di
dettaglio di Paul Cayard, in testa alla regata. Il grande successo del sito
(oltre nove milioni di hit al giorno) non è da attribuire solo all'ottima
realizzazione, alla ricchezza di dettagli tecnici e alla grande professionalità
dei reporter, ma anche al perfetto accoppiamento con i nuovi paradigmi di
"unità di tempo, di luogo e di azione" che caratterizzano la rete.
In conclusione, c'è qualche volontario intenzionato a scrivere una nuova
"Poetica.htm"?
Decalogo della società letteraria¹
Giuseppe Pontiggia 1. Lo scrittore migliora con gli anni.
Il paragone più frequente è il vino. Anche se pochi vini migliorano
col tempo.
L’ascesa dello scrittore è invece inarrestabile e tocca il suo culmine
con la decrepitezza e la morte.
2. Lo scrittore morto è immortale.
3. Lo scrittore malato è migliore di quello sano.
C’è chi, in prossimità dei premi, si ammala.
Si consigliano gambe vacillanti e sguardo febbrile, tra infermità e
desiderio.
4. Lo scrittore isolato è migliore degli altri.
Ripeterlo, soprattutto per continuare a tenerlo nell’isolamento.
5. Lo scrittore poco fecondo è migliore di quello prolifico.
Chissà dove arriverebbe se non scrivesse mai.
6. Non negare mai l’obolo all’esordiente.
Aspettare, per pareggiare il conto, il secondo libro.
"Non dare la precedenza ai più capaci".
E’ un principio di Lao-tzu sull’arte del governo.
Può darsi che non lo si conosca, ma è certo che lo si pratica.
7. Per aiutare una persona cara, parlare esclusivamente di valore. E’
anche più morale.
Per annientare un concorrente non dire mai: "Lo detesto", ma
spalancare le braccia: "Peccato che non sia più lui!".
8. Per prevenire sdegni, indignarsi per primi.
Disorienta sempre.
9. Disprezzare il successo. Almeno quello degli altri.
10. Giudicare i libri senza leggerli.
Sembra una magia, mentre è solo un’abitudine.

1. In Le sabbie immobili, Giuseppe Pontiggia, il Mulino, Bologna, 1991


Dal dado di Giulio Cesare al flipper di Fabio Mussi
Stefano Bartezzaghi Non si è ancora sentito di alcun politico italiano munito di pulcino virtuale
tascabile (eppure non ne dovrebbero mancare, anche solo per obblighi
paterni o materni): il più aggiornato pare il Fabio Mussi virtuoso di "Pinball
3D – Cadetto Spaziale", un flipper che si gioca al computer. Ma a parte la
lacuna del pulcino, sarebbe forse suggestivo ricostruire la storia italiana
attraverso i giochi dei suoi politici. Già l’inizio, con Giulio Cesare al
Rubicone che getta il dado, ha quel giusto sapore allegorico e tronfio che si
noterà poi negli ultimatum di altri comandanti, magari meno quotati. A
questo opporremo il Machiavelli, che si "ingaglioffava" a giocare a tric-trac
nelle osterie.
Gettare il dado o mischiarsi alla folla? Nel gioco c’è l’una cosa e l’altra, e
c’è anche lo sparire, il richiudersi, come già nel collezionismo: la
malinconica numismatica savoiarda e le allegre figurine di Veltroni, i segreti
caveau artistici romani e l’aitante garibaldinismo craxiano, la bibliofilia di
Dell’Utri e i soldatini di Cossiga.
Chi ricorda il film La stangata o Fantozzi avrà ben presente il fenomeno:
boss o capuffici, ci sono potenti che amano far passare i sottoposti per un
tavolo da poker o da biliardo. Il gioco, insomma, apre un canale di
comunicazione diretto e talvolta discreto: si insinua che persino le mitiche e
miti bocce di Nenni servirono da schermo per cauti contatti con ambienti
ostili all’allora nascente centrosinistra. Fra i capi democristiani, una
mitologia postuma attribuisce ad Aldo Moro una passione enigmistica, forse
per giustificare i tentativi di criptoanalisi anagrammatica delle lettere dal
carcere del popolo. Per quanto riguarda Giulio Andreotti (che a una
"sciarada" di Papa Mastai ha intitolato un suo libro), si parla di smazzate di
gin-rummy, in un suo giro romano di ramini e canaste. Per il resto le
passioni pubbliche andreottiane sono l’ippica e la Roma.
Sempre nella DC, in La sera andavamo in via Veneto, Eugenio Scalfari
raccontò gli esordi della sua amicizia con Ciriaco De Mita partendo da una
visita scalfariana a Nusco, con tavolo di amici impegnati nel tressette. Di lì a
poco lo stesso De Mita avrebbe imposto nella solfa politica nazionale il leit-
motiv delle "regole del gioco".
Guarda come gioco, insomma: capirai chi sono. Questo è il messaggio, e lo
si è capito quando tutta Italia ha percepito le immagini di un bizzarrissimo,
quasi onirico scopone presidenziale d’alta quota, con Sandro Pertini, Enzo
Bearzot, Dino Zoff e Franco Causio di ritorno dai vittoriosi mondiali
dell’82. Spadolini sventolava il Tricolore, i settimanali parlavano di
rinnovato sentimento patriottico, Silvio Berlusconi forse incominciava a
progettare l’acquisto del Milan.
Come già per Andreotti non possiamo però considerare la visita domenicale
allo stadio come un gioco vero e proprio. Spesso si tratta di curare il
collegio elettorale, altre volte sarà magari schietta ("prepolitica", la chiama
D’Alema) passione per il football. Ma il calcio praticato è forse ancora un
gioco, e allora su uno spartiacque fra Prima e Seconda Repubblica, chissà su
quale dei due versanti, poniamo quelle partite a calcetto al Circolo
Canottieri Lazio, in cui si scambiavano la palla Cesare Previti e il giudice
Squillante e di cui oggi si interessa la magistratura milanese. Erano partite
vere, anche faticose.
Sulle partite metaforiche il precedente è quello di Bettino Craxi. Sulla
pratica effettiva nessuno ha mai dato prove certe, ma il poker ricorre in due
momenti-cardine della carriera politica dell’ex-segretario del PSI. Agli
albori, Enrico Berlinguer lo definì appunto: "Un buon giocatore di poker".
Simmetricamente, quando la stella volgeva al tramonto, Rino Formica
dichiarò: "Bettino ha in mano un poker d’assi".
Siamo al finire della Prima Repubblica, quando l’Italia ha avuto in
Francesco Cossiga un presidente appassionato di gadget elettronici e, come
si diceva, di soldatini, bandierine e divise militari (sui soldatini c’è anche
una collezione di Mauro Bubbico, e la leggenda parla di un Franco
Evangelisti che cercava un negozio specializzato, ma proprio sotto l’albergo
che ospitava Sindona). Lo stesso presidente fra picconate all’impazzata
usava mandare regali beffardi: si ricorda una scatola di superCluedo (nonché
un succhiotto da bebè) al pm Cordova, che querelò. Per finire su giocattoli e
magistrati, al Di Pietro che dopo la requisitoria Cusani teatralmente si
spoglia dalla toga che mai più indosserà un amico regala un giocattolo. Lì
non era una beffa: si trattava di un modellino di quel "trattore rosso" che
allora veniva regolarmente indicato dallo stesso Di Pietro come il più
probabile fra i suoi futuri attrezzi di lavoro, sui campi di Montenero di
Bisaccia. Come ormai sappiamo, andò altrimenti.
"Mi piace molto far funzionare la capa"
Golem intervista Massimo Oggi non usano più le scrivanie con molti cassetti, e neppure quella di
D'Alema Massimo D'Alema, al secondo piano di Botteghe Oscure, ne ha. Prima dei
computer, i cassetti custodivano scartoffie e segreti, magari delicatissimi o
imbarazzanti, ma certo non tutti solenni. Anche le migliori scrivanie
potevano racchiudere segreti assai futili. Nel 1945 ai tempi in cui è stato
costruito il palazzo dove siamo ora, Palmiro Togliatti si preoccupava che la
sua scrivania fosse messa in un modo da poter aprire con discrezione un
certo cassetto, durante le riunioni della direzione del Partito (lo racconta
Massimo Caprara, nel recente Quando le Botteghe erano Oscure, Il
Saggiatore). Lì Togliatti teneva i cruciverba dell'Humanité, l'organo del
Partito Comunista Francese: fingendo di ascoltare gli interventi più noiosi,
risolveva gli amati mots croisés.

● "NON TROVO AVVERSARI"


● NAPOLEONE VINCE A WATERLOO
● SPADONI, CALCI, LOTTO E GOVERNO
● DAI TAOISTI AGLI ANTI-POLITICI
● "TU NON PUOI MORDERMI LA MANO"
● "UN PIACERE IN SE'"

"NON TROVO AVVERSARI"

- Dove tiene i suoi giochi, il successore di Togliatti?


D’Alema: "Non so che fine abbia fatto quella scrivania, ma quel computer
che vede contiene qualche gioco. Pochi, per la verità. Di questi tempi gioco
soprattutto a un solitario, che presenta una sua complessità: si tratta di
snodare delle catene di carte messe in colonna…"
qui si capisce che il segretario del PDS (o meglio, DS:
nell'atrio del palazzo il simbolo è già quello nuovo e
discusso, con la rosa sulla quercia) probabilmente sta
facendo il giro dei giochi che Bill Gates, bontà sua, regala
agli utenti di Windows. Il solitario assomiglia infatti a Free
Cell, che è uno di questi giochi; un altro è 3D Pinball ovvero
Cadetto Spaziale, un flipper su cui è stato detto che D'Alema
si accanisse. Ma ora smentisce, parzialmente:

D’Alema: "Il flipper è un gioco di prontezza di riflessi: Pinball lo faccio ma


il maestro è Fabio Mussi. Io sono portato al gioco logico-matematico,
districare una cosa complicata. Posseggo l'intera collana dei libri di Martin
Gardner [inventore di problemi per lo Scientific American nonché
commentatore di Lewis Carroll, ndr], che raccolgono tutti questi giochi
logici, logico-matematici, giochi di strategia, intrichi di intelligenza…
Conosce il gioco dell'Hex?"

- Fabio Mussi è noto: è il presidente dei deputati di Sinistra


Democratica. Martin Gardner è noto: è l’inventore di problemi per lo
Scientific American, nonché sommo commentatore di Lewis Carroll. Ma
che dire dell’Hex? Non sarà invece, e più maliziosamente, l’Ex? O
magari Lex? Più che un gioco questo sembra uno scherzo…
D’Alema: "Né Ex né Lex ma Hex, da Hexagon che è la forma delle caselle e
da X, il simbolo degli incroci. E' un gioco di posizionamento, andava di
moda qualche anno fa. E’ una losanga dove un giocatore deve costruire con
le pedine un percorso continuo da un lato all’altro, mentre l'avversario deve
provare a costruire un percorso continuo fra gli altri due lati. Ovviamente
uno dei due percorsi spezza l'altro. E' uno stupendo gioco di strategia, dove
difendersi e attaccare coincidono perfettamente, cioè nel momento in cui
uno riesce a bloccare la catena continua dell’avversario, costruisce la
propria. E’ molto divertente. Non trovo avversari."

- Dati i gusti, dovrebbe piacerle il go, l'antichissimo gioco cinese. Fra


l'altro è l'unico che il computer non riesca ancora a giocare per bene.
Bisogna circondare i territori dell'avversario con strategie sottili e
tenaci e inglobarseli. Ne parla appunto Martin Gardner…
D’Alema: "Non sono sicuro di conoscerlo, ma invece facevo quel bel gioco
africano, il Mancala, quello delle buchette nella sabbia in cui far cadere i
sassolini, a scalare… Ci vuole capacità di previsione sino a quattro o cinque
mosse, sono i giochi che piacciono a me."

arriva la dichiarazione di principio…

D’Alema: "Mi piace molto far funzionare la capa."

(Esempio:)
D’Alema: "C'è un quiz logico, uno classico per il quale elaborai una
soluzione diversa da quella consueta. E' uno di quei giochi di logica binaria,
in cui c'è un pellegrino che cerca la città della verità, arriva al bivio, da una
parte c'è la città della verità, dall'altra quella della menzogna, incontra uno
che viene e può fargli una sola domanda, senza sapere se l’interlocutore è
bugiardo o sincero. Normalmente in un gioco di questo tipo la soluzione
comporta una domanda, del tipo: "Se tu fossi bugiardo e io ti chiedessi…?"
eccetera. Io ne avevo escogitata una diversa, molto più elegante, in cui
l’elemento binario era implicito: il pellegrino diceva: "Scusami, buon uomo,
da che parte si va per andare alla tua città?"

- E resiste a ogni…
D’Alema: "Resiste a ogni! Se lui dice il falso, mente su quale sia la sua città
e dunque indica quella della verità. Se invece è sincero indica la città della
verità. Questa soluzione incorpora nel "tua" la binarietà, senza
quell’ineleganza del dire al pellegrino: "Ma se tu fossi…" eccetera."

- I logici le hanno dato l’imprimatur?


D’Alema: "Le dico che fu apprezzata, perché carina, elegante e poco
consueta."

Golem ha consultato il professor Achille Varzi, che insegna


logica e metafisica a New York. Risulta che la soluzione del
presidente della Bicamerale funziona, anche se si perde la
possibilità di formularla nel linguaggio della logica
proposizionale, che è uno dei pregi delle soluzioni
tradizionali

NAPOLEONE VINCE A WATERLOO

- Qui interviene per Golem Danco Singer: Ogni gioco ha un obiettivo:


arrivare a un traguardo, scoprire la soluzione dell'enigma, vincere un
premio. Nel gioco della politica qual è l'obiettivo?
D’Alema: "E’ dare scacco all’avversario. E' uno stupendo gioco di
simulazione, con gli alleati e gli avversari. Io facevo meravigliosi giochi di
simulazione. Il primissimo che venne in Italia era La battaglia di Waterloo,
mi pare che lo disegnò Crepax, per Linus. Parlo degli anni ’60. Poi ci fu "La
battaglia del lago ghiacciato", Alexander Nevskji alla testa dei contadini
contro i cavalieri teutonici. Era bellissimo. Tutto il problema era che i
cavalieri teutonici avevano una grande forza d’urto e vincevano se
riuscivano a dispiegarla. Però il lago ghiacciato si poteva rompere:
l'avversario collocava segretamente i punti di frattura, decidendo i pesi per
la rottura del ghiaccio. Era un problema di estrema raffinatezza, vincere con
i teutonici: come vincere con Napoleone nella battaglia di Waterloo, piacere
che del resto mi sono tolto più volte."

(il segretario ride sonoramente, e poi concede al Bonaparte il


giusto handicap):

D’Alema: "Bisogna dire che Napoleone nel gioco ha un grande vantaggio


rispetto al vero Napoleone: sa che a un certo punto i prussiani sbucheranno
su un lato del suo schieramento, quindi può prendere qualche contromisura,
che il vero Napoleone non prese, perché non lo sapeva, poveraccio."

- Nei giochi politici d'oggi siamo nelle condizioni del Napoleone


poveraccio?
D’Alema: "No, se uno ha una visione completa del campo e anche una
chiara idea di quello che vuole. Chi non ha obiettivi precisi, chi fluttua,
diventa una parte secondaria del gioco."

- Nel Risiko ogni giocatore pesca una carta dov'è scritto dove andare.
Quando lei parla di obiettivi politici precisi, intende qualcosa che si
potrebbe scrivere in due parole su una carta, la soluzione segreta
dell'enigma? Per fare un esempio, "Palazzo Chigi"?
D’Alema: "Questi sono aspetti importanti, ma ancora strumentali."

- Bisogna fare come i principianti degli scacchi, che sperano che


l'avversario non capisca la strategia?
D’Alema: "Una delle chiavi del successo è il consenso, che si costruisce
intorno a un progetto chiaro. E’ un’idea arcaica quella secondo cui bisogna
tenere nascoste le proprie finalità, nella politica democratica di questo
secolo le finalità vanno chiaramente enunciate… Tanto non sono credute
dagli avversari. Uno degli aspetti del gioco è sicuramente questo: se uno
dice con chiarezza quello che vuole ha la garanzia che il suo obiettivo
rimane segreto [ride]. Bisogna dire dove si vuole andare. Gli altri non ci
credono, dispongono le difese lungo tutti gli altri cammini, e così basta
procedere per la strada maestra, che a quel punto è spianata."

SPADONI, CALCI, LOTTO E GOVERNO

- Lei gioca con i videogiochi. Non è preoccupato, magari per i suoi figli,
da quelle cose che si sentono, la videodipendenza, la presunta epilessia
da videogioco…?
D’Alema: "Quello che è sgradevole è la violenza, la forte componente di
aggressività che almeno per i bambini dovrebbe essere ridotta. Mio figlio,
ha sette anni, è un appassionato di questi giochi e ce ne sono alcuni
francamente orribili: quest’idea del massacro… con spadoni… che
squartano… "
lo dice non voluttuosamente ma con un certo gusto, nel
disdegno

D’Alema: "… oltretutto credo che tanta violenza non sia affatto necessaria,
perché poi uno non si innamora della raffigurazione ma della dinamica del
gioco. Quello che viene raffigurato nella forma di un duello mortale, di
squartamenti, eccetera, in fondo potrebbe essere un normale incontro di
boxe, perché poi il gioco ha sempre quel meccanismo, devi muovere una
certa levetta per alzare un braccio, devi avere una certa destrezza."

- Il gioco, o lo pseudo-gioco, nazionale è il calcio. Mettiamo una


bandierina: è il Tricolore sventolato nel 1982 da Giovanni Spadolini dal
balcone di Palazzo Chigi, in seguito alla vittoria italiana ai Mondiali di
calcio. Questi rapporti della politica con il calcio, il politico in tribuna, il
gioco al calcetto, sono davvero un canale necessario per raggiungere la
gente?
D’Alema: "Sono tifoso della Roma da prima di fare questo mestiere, è una
cosa profondamente prepolitica: non è neanche molto conveniente essere
tifosi della Roma, visto che di questi tempi perde. Giocavo a pallone prima
di occuparmi di politica. Ora c'è la partita di beneficenza, i prezzi da pagare
alla società dell'immagine. Devi mostrarti vicino alla gente, chissà se poi è
così vero. Però è vero che il calcio è una grande passione nazionale.
Comunque non c’è il minimo dubbio che quando ho fatto gol alla squadra
dei Cantanti, davanti a sei-sette milioni di telespettatori, è stato un evento
assai maggiore che la partecipazione a un talk-show".

- Annunciando un importante restauro finanziato dall'estrazione del


mercoledì Walter Veltroni ha detto esplicitamente "il benedetto Lotto".
Una volta il movimento dei lavoratori era severo con questi giochi…
D’Alema: "Si, perché era visto come una forma di oppio dei popoli. Ma il
gioco esiste, e tanto vale tenerlo nella legalità perché l’aspetto socialmente
più preoccupante è la gestione criminale. Per il resto il mito, il miraggio
dell’arricchimento è una componente ineliminabile della vita, è legato al
meccanismo della società dei consumi. Ci viviamo dentro."

- Però poi ci sono il Super-Enalotto, il Gratta & Vinci, il Totogol che si


stanno diffondendo anche in zone geografiche e fasce sociali diverse da
quelle tradizionali… Giochi a cui peraltro il banco vince sempre.
D’Alema: "Cosa dobbiamo fare? Proibire i giochi mi sembrerebbe una
fesseria. L’importante è cercare di dare alle persone un minimo di
attrezzatura critica, elevare il livello di cultura: magari la passione del gioco
può essere sviluppata su piani più evoluti, umanamente più appaganti, no?"

- Lei non ha mai praticato il gioco d'azzardo?


D’Alema: "Forse da ragazzo ho giocato qualche volta a poker ma ho smesso
prestissimo. Eppure il gioco d'azzardo è divertente, come calcolo delle
probabilità, finzione, strategia: ma non mi piace l'elemento maniacale. A un
certo punto non hai più il governo di te stesso, a me piace il gioco in cui uno
non perde mai il controllo di sé, anzi assume il controllo del campo, e di
tutti gli attori in gioco. Questo, mi piace!"

DAI TAOISTI AGLI ANTI-POLITICI

D'Alema l'altro anno ha scritto un libro molto fortunato, fin


dal titolo: Un Paese normale. Normale, come (risonanza
freudiana?) la Scuola Normale di Pisa, gli studi filosofici
abbandonati per la politica. Ma anche come le norme quelle
famosissime "regole del gioco" che dalla segreteria De Mita
in poi hanno dato vita a dibattiti, commissioni bicamerali e
anche a terribili sarcasmi…

D’Alema: "Quel titolo veniva da una bellissima vignetta di Altan: "L'Italia è


un Paese straordinario" "Vorrei tanto che fosse un Paese normale". C’era
anche il gusto del paradosso. La Sinistra, che ha sempre avuto la dimensione
utopica del sognare lo Straordinario, le Mirabilia, dice: "vogliamo un Paese
normale, dove le cose funzionino normalmente". In Italia abbiamo tante
cose davvero straordinarie. Credo che siamo gli unici al mondo ad avere una
commissione parlamentare che si chiama "Stragi". Si può anche sorridere di
questo, diciamo, no? Le stragi come uno degli aspetti della vita civile e
politica… Una commissione costituita come fatto eccezionale e poi di strage
in strage… , insomma permane da vent’anni ed è diventata permanente
[risata]. E' uno degli aspetti singolari che dobbiamo eliminare per
raggiungere questo grande obiettivo di diventare un Paese normale."

- Ma un Paese normale ha più regole e va un po' da sé, senza bisogno di


tante regole?
D’Alema: "L’Italia ha una quantità enorme di regole anche molto severe,
temperata dall’abitudine a non rispettarle. Bisognerebbe averne meno e più
semplici."

- Singer: Che giocatori erano, i democristiani? Si può parlare di gioco


politico anche per un politico come Aldo Moro?
D’Alema: "Si, anche se aveva un’interpretazione del gioco molto statica.
Però quella era anche una fase diversa della politica italiana, in cui si
giocava molto sul lungo periodo. Moro aveva un'idea del non agire che per
me è orientale, taoista. Nella strategia democristiana c'è un elemento
acquatico: l'acqua non fa resistenza, si modella sulla forma dell'avversario e
lo ingloba. Straordinario. Noi eravamo i solidi, fra i molti che venivano
inglobati. L'elemento liquido, che poi entra in metafore come "la palude
democristiana" è molto importante per capire la DC."
Pausa con leggero sogghigno.

D’Alema: "Questo è un giudizio acuto, diciamo."

In questi frequenti elogi a se stesso di consueto c’è una


rincorsa fra l'autoironia, che è volenterosa, e l'orgoglio, che
però parte avvantaggiato.

- Nei giochi tradizionali in genere si gioca da soli ed è chiaro chi è


l'avversario, chi l'alleato. Il gioco politico non è più ambiguo, con
avversari che diventano alleati e viceversa?
D’Alema: "In politica uno sa benissimo chi è il suo avversario, e quindi
anche i suoi potenziali alleati. Poi un alleato può passare da potenziale a
effettivo, ma in realtà l'avversario vero non cambia mai. Può cambiare
semmai il terreno di sfida: io posso fare le riforme costituzionali con
Berlusconi non perché sono suo alleato, ma perché parto dall’idea che
condurre la Destra sul terreno del gioco democratico regolato è prima di
tutto utile al Paese, e in secondo luogo è anche un modo di preparare la
sconfitta dell’avversario, perché ritengo che la politica sia un’attività nella
quale noi siamo più forti. La forza di Berlusconi era proprio il venire meno
delle regole del gioco, lui rappresentava l’anti-politica, l’anti-gioco politico."

- E ora il suo avversario chi è?


D’Alema: "L’uomo più politico che c’è oggi nel campo avverso è
l’onorevole Fini. Però è stato interessante anche Berlusconi perché ha
portato un elemento di novità, con il suo tentativo di cambiare. Poi è
successa una cosa incredibile: è venuto in campo con l’idea di distruggere la
politica, e in poco tempo si è appassionato alla politica. Fantastico. Così ha
perduto quella carica eversiva, tra virgolette, che era la sua forza, che gli
aveva permesso di vincere: ha capito che la politica è un lavoro molto
difficile, a cui non basta affatto l’immagine, la televisione, il carisma. La
politica è stata più forte, ha vinto su Berlusconi: fin troppo. Adesso ogni
tanto ha proprio delle sortite da politique politicienne…"

D'Alema è soddisfatto di questo contagio di cui si sente


probabilmente corresponsabile.

- Un giocatore non liquido ma proteico, con le sue bistecche sempre


evocate, è invece Bossi, no?
D’Alema: "Sì, Bossi è un giocatore abbastanza irregolare, però non riesce a
uscire dal suo angolo, non ha la visione strategica che gli consente di venire
al centro del campo. La sua diversità andava messa in una combinazione
vincente, come Pujol che dalla Catalogna condiziona la vita politica
spagnola. Ma Bossi è un uomo tanto furbo quanto diffidente, e in politica
non bisogna essere diffidenti. A un certo punto ha temuto che si consumasse
la sua identità originale e non ha usato la sua forza, si è ritratto dal gioco.
Secondo me è un segno, proprio come giocatore, di immaturità."

"TU NON PUOI MORDEMI LA MANO", ovvero LE REGOLE

- C'è stato un momento in cui le regole e anche il fair play in Italia


sembravano andati per aria. C'è una sua dichiarazione con cui le
sembrò opportuno specificare: "le regole sono come gli scacchi, se io ti
mangio la regina tu non puoi mordermi la mano.
D’Alema: "Questa era la preoccupazione, bisognava ricondurre tutti sul
terreno della regola del gioco. Se tu perdi le elezioni, non puoi fare un colpo
di stato. Per questo ci siamo posti il problema di riscrivere le regole insieme
agli avversari: per il pericolo che nel nostro Paese le regole del gioco
democratico non fossero più condivise, e il gioco diventasse difficile."

- Nella teoria dei giochi è importante separare le regole che servono per
giocare da quelle che servono per vincere. In politica la distinzione è
sempre chiara?
D’Alema: "Noi abbiamo detto che il problema del Paese era duplice. Dopo
il crollo della Prima Repubblica era finito anche un tipo di gioco, erano
cambiate regole come la legge elettorale, erano cambiati i giocatori. Il primo
aspetto era impostare le nuove regole per giocare, ricostruire il campo di
gioco. Questo si fa insieme all’avversario e dirlo è stato un punto essenziale,
una grande intuizione strategica… "

Quel che segue è elencato con voce neutra, come fosse una
verità risaputa e indiscutibile, la ricetta per fare l’uovo sodo:

D’Alema: "… Poi ci vogliono le regole per vincere, e si sa che per


governare l’Italia la Sinistra deve creare una coalizione di centro-sinistra,
questa coalizione non si deve presentare come un assemblaggio di partiti ma
deve avere una configurazione innovativa… L'Ulivo, insomma."

- E i famosi valori?
D’Alema: "Questo modo di spiegare le cose può attirare delle tirate
moralistiche. Ma in realtà avere questa visione della struttura del gioco
politico, anche nei suoi aspetti persino logico-matematici e di teoria dei
giochi, non significa affatto non avere una forte tensione morale. Non
c’entra nulla. La tecnica esiste, e secondo me può essere interpretata in
modo giocoso e quindi appassionante. Ma poi è evidente che questa partita
ha un contenuto economico, sociale, etico, civile. E’ chiaro che ci sono le
motivazioni."
- Ma non restano un po' nascoste, dietro all'agire politico, al "teatrino
della politica", alle strategie e controstrategie?
D’Alema: "Secondo me occorre un equilibrio che consenta di non prendere
due direzioni opposte, tutte e due sbagliate: il pragmatismo o la retorica.
Quando i valori sono enunciati in un modo che è totalmente
decontestualizzato rispetto all’agire politico, quando la retorica delle
motivazioni soffoca il nucleo del gioco, allora diventa una retorica della
sconfitta. Gli italiani sono convinti che la retorica sia il sentimento,
l’idealità, invece non è vero. La retorica è il peggiore inganno: è la
simulazione dell’idealità."

- Singer: In una tavola rotonda con lei, alla Camera di Commercio di


Milano, l'anno scorso, Umberto Eco diceva che ci vogliono secoli di
democrazia…
D’Alema: "… Sì, e di Stato unitario, che da noi è assai recente rispetto agli
altri Paesi, e non è una storia interamente democratica, poiché abbiamo
avuto il fascismo: quando il qualunquismo degli italiani contro i partiti ha
prodotto il Partito Unico. Il nostro è un Paese dove c’è una democrazia
fragile, dove l’etica civile è piuttosto debole. Piano, piano diventeremo una
nazione europea, ci vuole del tempo."

- Manca molto?
D’Alema: "Abbiamo fatto molta strada, in relativamente poco tempo.
Abbiamo stabilità di governo, e questo dà molto fastidio a molti: però è
accaduto. Abbiamo conti pubblici in media con quelli europei, ed eravamo
alla bancarotta… Abbiamo dei soggetti politici che progressivamente
somigliano a quelli che ci sono in Europa… Tra un po’ avremo anche la
riforma costituzionale… E' un processo accelerato e noi siamo tra i
principali protagonisti. Ce ne renderanno merito: quando ci leveremo dalle
scatole. Cosa che accadrà non tardissimo: ci renderanno merito per avere
contribuito a dare una situazione più serena ai nostri figli."

- Oltre a tante strategie tanto raffinate, da questo ufficio è uscita,


secondo la leggenda, anche la parola inciucio, che in origine voleva dire
"pettegolezzo" e ora significa "accordo con retroscena infamanti".
D’Alema: "Inciucio stava scritto su una cartellina, in cui finivano pratiche
delicate, ma poi la parola si è compromessa. C’è dietro un aspetto di cultura
italiana profonda, la diffidenza verso la politica. I politici sono considerati
tutti sporchi, ma poi anche necessari perché gran parte di quelli che ne
pensano male chiede poi favori ai politici. Questi aspetti di ipocrisia sono
tipici della società italiana e testimoniano dell'arretratezza del costume
civile. Negli altri Paesi europei c'è molto rispetto verso i partiti, le
istituzioni, lo Stato. Poi non è che siano migliori di noi, io li conosco
abbastanza da vicino. La politica grosso modo è quel che è dappertutto, noi
abbiamo in più un tasso forte di qualunquismo antidemocratico, d’altro
canto come si diceva abbiamo avuto il fascismo…"
- La parola inciucio viene applicata agli accordi con Berlusconi: le si è
ritorta contro, come in Frankenstein?
D’Alema: "Berlusconi è un avversario con cui mi accordo sulle regole del
gioco. Soltanto lo sciocco dice "non fare il compromesso, l’inciucio".
Queste sono follie che portano alla rottura, alla divisione. Le dice chi non è
capace di giocare ma non bisogna mai farsi condizionare dagli stupidi. Se il
gioco è impostato bene bisogna andare avanti e avere il coraggio di sfidare
momenti di impopolarità."

"UN PIACERE IN SE'"

- Lei ci ha descritto i suoi giochi e la sua visione della politica anche


come gioco. E' un modo per rendere futile la politica o per rendere
nobili i giochi?
D’Alema: "Nessun uomo politico ammetterebbe questa dimensione perché
tutti tendono retoricamente a paludarsi, con grandi discorsi sui valori civili.
Il che è tutto vero naturalmente, però…"

c'è un però…

D’Alema: "… il nucleo del gioco, il piacere del gioco prescinde dalla posta.
La posta può essere il denaro, può essere il successo, può anche essere un
obiettivo di grande valore civile e morale ma il meccanismo profondo del
gioco è un piacere in sé."

Le parole "Un piacere", "in" e "sé", D'Alema le ha scandite


come fa al telegiornale.

- Oggi come oggi ci chiediamo tutti, l'un l'altro, "ti diverti?". Ce lo si


augura, anche, e non sempre ironicamente: "Vado a lavorare", "Bravo,
divertiti". Non lo si chiede mai ai politici, invece, che tutt'al più
dichiarano una "passione" per la politica stessa, che però è soprattutto
una faticaccia, un onere, un calice amaro. Ma da quel che dice, mi pare
che lei ogni tanto si diverta, anche…
D’Alema: "Io sì, e soprattutto quando la situazione si ingarbuglia. Io mi
diverto, confesso. Mi ricordo che se ne parlava una volta con Luciana
Castellina . La militanza politica era sempre raffigurata come sacrificio, e io
dicevo: "siamo persone fortunate, veniamo pagate per divertirci, per fare
quello che ci diverte". Oddio non è solo il politico che si diverte, ci sono
diverse altre attività umane paragonabili, ma non c’è dubbio che la politica
ha una dose di creatività, e quindi di affermazione della propria personalità.
Si paga in termini di stress, ma è sicuramente divertente. Infatti il problema
più delicato è organizzarsi per uscirne in un età ancora ragionevole. Bisogna
avere delle passioni altrettanto forti, altrimenti uscirne può essere
drammatico, può essere fortemente pregiudizievole per l’equilibrio psico-
fisico."

- Infatti non è riuscito a molti politici italiani.


D’Alema: "E’ difficile. Io coltivo la vela: grande gioco. Nella regata c’è
dentro la fisicità, il mezzo, la strategia. Fantastico… fare gli zigzag…
sembra una fesseria e invece… "
L'università, serva del paradosso
Nel dibattito sulla riforma dell’Università italiana ha avuto molta risonanza la proposta
di rilanciare i collegi universitari, proposta elaborata da un gruppo di studenti italiani
a Cambridge (Filippo de Vivo, Luca Einaudi, Manuela Magliocchetti, Carlo Ratti). Il
documento che ha lanciato tale proposta, gli interventi polemici che ne sono seguiti, le
adesioni degli illustri sostenitori e la rassegna stampa sull’argomento sono ora
disponibili al sito del Progetto Collegium. A questa proposta Domenico Fiormonte
oppone un’analisi dei problemi dei sistemi universitari anglosassone e statunitense. Nel
Regno Unito il polo Oxford – Cambridge (detto sinteticamente Oxbridge), mastodonte
che per mantenere la propria indiscutibile eccellenza assorbe un terzo delle risorse che
il governo destina all’università. Nei campus statunitensi sta arrivando al punto di crisi
la relazione fra la libertà di insegnamento e le leggi di mercato: crisi che è poi la crisi
dell’idea di università (istituzione a forte vocazione paradossale), e interessa anche
l’Italia rendendo quasi marginali quei problemi pur acutissimi (giochi di potere,
concorsi truccati, aule sovraffollate) che sono gli unici a venire trattati dai mass-media.
Golem apre un Forum su questo argomento, invitando innanzitutto il gruppo del
Progetto Collegium a intervenire.

L’UNIVERSITA’, SERVA DEL PARADOSSO


Domenico Fiormonte Nel mio precedente intervento su Golem, stimolato da una serie di articoli
sull’università italiana apparsi sulla stampa inglese, avevo raccontato la mia
esperienza in un campus americano e le riflessioni su quel sistema formativo
che ne erano seguite. Concludevo il mio articolo (in origine una e-mail alla
lista di Italianistica Let-it@caspur.it ) augurandomi (wishful thinking?) la
nascita di un modello europeo dell’istruzione superiore. Oggi vorrei tornare
su questi argomenti in parte con l’aiuto di tre libri usciti di recente (uno
italiano e due americani) dedicati all’università, in parte riferendo
sull’intenso dibattito che si sta svolgendo nel Regno Unito sul sistema
educativo.

1.
Gli ultimi sei mesi - dall’esternazione di Violante sull’università di massa
all’occupazione di alcune università tedesche fino alla decisione dei laburisti
del Regno Unito di far pagare parte del costo della matricola ("tuition fees")
agli studenti - sembrano confermare che la crisi dell’università è una crisi di
dimensioni europee. L’11 giugno scorso Keith Devlin riportava sul
Guardian on-line la discussione avvenuta alla riunione della confindustria
britannica (CBI), il cui direttore generale così si esprimeva: "Le università
devono mantenere alta la qualità, altrimenti gli imprenditori porteranno
altrove i propri affari." Almeno un’impresa, Unipart, ha già investito 4
milioni di sterline nella creazione di una università "interna" alla quale verrà
affidata la formazione del proprio staff. L’attacco dell’industria alle già
assediate ("beleaguered") università britanniche, ufficialmente giustificato
dalla preoccupazione "per la qualità", nasconde in realtà il terrore, diffuso in
genere nelle élite, di un’università di massa massicciamente finanziata dallo
stato. È chiaro allora che perfino la serie - a tutt’oggi ininterrotta - di articoli
inglesi sull’Italia acquista un sapore ben diverso. Difficile comprendere
altrimenti l’attenzione che il Times Higher Educational Supplement ha
dedicato a una notizia relegata in Italia alle pagine di cronaca: le elezioni del
rettore dell’ingovernabile per antonomasia mega-ateneo d’Europa: "La
Sapienza" (THES, 31 ottobre 1997, p. 10). Per quanto la cosa possa
sembrare comica il Times ha schiaffato un’enorme faccia di Tecce (a colori)
sopra l’ennesimo articolo di Pacitti (dopo il Guardian ora anche il Times:
"Italy in EU dock over ban"); il titolo suggeriva un plot sthendalian-
scespiriano: "Usurped rector loses ungracefully". Ma le pagine principali del
THES come del Guardian HES non dipingono una realtà interna priva di
drammi e narratives. L’annuncio del nuovo governo laburista di introdurre
le cosiddette tasse "di rabbocco" ("top-up fees") ha scatenato la reazione
delle associazioni studentesche e un dibattito a 360 gradi sui giornali e su
Internet. Punta avanzata della discussione è Nexus, il think-tank telematico
progressista, dove si possono leggere opinioni d’alto livello e dati scambiati
dalla mailing list "Hedu" (dedicata cioè alla higher education). Il panico e la
"passione" (da queste parti merce rara) che riflettono la maggioranza di
questi interventi è comprensibile: fino ad oggi in Gran Bretagna l’università
era completamente gratuita; persino a Cambridge e Oxford (Oxbridge), una
volta ammessi, non si pagano tasse. Ma oggi anche questo sistema è in crisi.
La prima doccia fredda è stata il rapporto Dearing (dal nome del presidente
della Commissione, Sir Ron Dearing), una inchiesta sul sistema
dell’istruzione ordinata dal precedente governo e conclusasi quest’estate con
la pubblicazione di un voluminoso dossier. Le conclusioni di Dearing non
sono certo riassumibili in poche parole, ma la parola d’ordine era già nota
prima di iniziare: "tagliare" - possibilmente facendo pagare agli studenti il
25% della loro istruzione. Il rapporto Dearing cade nelle braccia laburiste
come manna dal cielo. Il Labour Party, che aveva promesso di non toccare
ma anzi di aumentare i finanziamenti all’istruzione e alla formazione, si
trova in mano una formidabile scusa per calare la scure sulla pubblica
istruzione. Il governo ufficialmente vuole comunque (come la CBI) più
iscritti e più diplomati e intende spendere i soldi pagati annualmente alle
università (le "tuition fees") in maniera diversa: ad esempio introducendo un
sistema di prestiti d’onore per gli studenti o magari investendo di più a
monte, nella scuola. Agli studenti universitari - ma il governo assicura che
saranno solo quelli più abbienti - verrà richiesto perciò di versare una
somma contributiva che non copre l’intera tuition e che si aggirerà in media
sulle mille sterline all’anno. Le "top-up fees" hanno gettato nello sconforto
molti potenziali studenti che allibiscono di fronte all’eventualità di dover
pagare cifre che in alcuni casi (ad esempio per medicina) supererebbero le
duemila sterline annue. Si teme poi una "americanizzazione", cioè il
passaggio a un sistema di università di serie "B" (o "C") e di serie "A" che
produrrebbe discriminazioni (Oxford e Cambridge) ancora peggiori di
quelle presenti. Di conseguenza i sondaggi hanno segnalato un calo delle
domande di ammissione all’università - le cosiddette "applications" che gli
studenti inviano durante il corso dell’anno (si veda "Opportunities lost",
THES, 24 ottobre 1997, p. 1).

Ma qual è la realtà della situazione? Vediamo brevemente. Il sistema


britannico nasce da una riconosciuta e nutrita schizofrenia: una università
largamente (anche se non interamente) d’élite, cioè Oxbridge, e tutto il
resto. Oxbridge è a sua volta un complicatissimo sistema nel sistema, una
galassia di cittadelle medievali (i college) inespugnabili e indipendenti, con
le proprie (numerose e fornitissime) biblioteche, i propri "endowments" e
proprietà fondiarie, ma allo stesso tempo un mastodonte che succhia da solo
circa un terzo dei fondi-tuition che il governo versa nel complesso alle
università: 35 milioni di sterline solo quest’anno. Ma se fino ad oggi il
sistema ha tenuto, ora, dopo il panico scatenato da Dearing, le altre
università non ci stanno. Cambridge e Oxford si difendono dalle accuse di
élitismo e ingordigia principalmente attraverso due argomenti: primo, quei
soldi sono necessari per il mantenimento della "eccellenza" (universalmente
riconosciuta) nell’insegnamento e nella ricerca; secondo, l’accusa di
elitismo è ingiusta poiché le cifre dimostrano che l’accesso di studenti
provenienti da famiglie povere e da scuole statali è aumentato negli ultimi
anni fino a raggungere la quota del 48% degli iscritti (vedi i dati UCAS e il
rapporto annuale di Oxford ). Ma ciò che Oxbridge difende appare a molti
come la scandalosa conferma del perpetrarsi del sistema dell’educazione
classista. Il 50% degli studenti di Oxbridge proviene dal quel 9% del totale
degli studenti educato in scuole private e anche se le due istituzioni
investono ogni anno miliardi per "pubblicizzare" e spingere i buoni studenti
delle scuole statali a fare domanda, la proporzione dei pupilli delle "public
schools" rimane schiacciante.

Presi di mira oggi sono anche i mitici tutorial "one-to-one", le lezioni


"singole" dove il rapporto studente-insegnante è in media di 3 a 1. Un
miraggio per i nostri standard, ma anche un colossale spreco di risorse che
finisce per penalizzare il resto delle università. Cambridge e Oxford sono
università da 12-15.000 studenti che impiegano quasi altrettanto personale
(poco meno di diecimila a Oxford fra insegnanti, personale non docente,
giardinieri, bibliotecari, ecc.). Ma in tutto il Regno Unito ci sono ben
ottantanove università per un numero complessivo di 1.6 milioni di studenti
(dati del British Council) che seguono dignitose lezioni in aule non affollate
e il cui costo non potrebbe avvicinarsi, nemmeno sforzandosi, a quello di
Oxbridge. Il contributo medio dello stato versato per ogni studente educato
in una università britannica è di 3.800 sterline annue. A Cambridge è in
media di 6.170, con punte di 7.100 sterline per uno studente di ingegneria o
di altra facoltà scientifica. Ma ci si domanda: siamo sicuri che queste
università siano così eccellenti? e anche se lo fossero, vale la pena pagare un
prezzo così alto? Secondo Lewis Elton, professore alla UCL (Londra), la
risposta è no: "La presenza di Oxford e Cambridge distorce non soltanto il
sistema universitario, ma da una parte i curricula scolastici e dall’altra il
mercato del lavoro. Senza Oxbridge la scuola privata perderebbe molto della
sua ragion d’essere. Di fatto, non c’è probabilmente nessun aspetto della
società britannica che non sia influenzato - nella maggior parte dei casi in
maniera deleteria - dall’esistenza di Oxbridge. Questi seri handicap debbono
essere tenuti presenti allorché si valuti l’eccellenza, internazionalmente
riconosciuta, delle due università."
Le parole di Elton hanno destato in Nexus la reazione risentita dei "liberal"
di Cambridge, ma la cosa più interessante di quel dibattito è stato
l’intervento dei colleghi americani che hanno subito aperto un altro fronte
della discussione, l’eterno confronto (l’eterno - e reciproco - complesso) con
l’America. Va detto che i cugini d’oltre oceano si sono schierati in difesa del
sistema di Oxbridge, ritenendolo più genuinamente meritocratico. Le cifre
delle tuition di Oxford e Cambridge fanno d’altronde sorridere gli americani
delle Ivy League: la tuition annuale a Harvard e Yale costa circa 23.000
dollari e lo stipendio medio di un professore di ruolo si aggira intorno ai
100.000 dollari l’anno. Per non parlare della ricchezza dei college, dove il
60% dei fondi (privati e statali) è posseduto dalle 50 "top universities" (in
USA sono più di duemila). Ma è precisamente questo il dilemma britannico:
trasformare la gloria nazionale in una istituzione totalmente privata? I
partecipanti alla discussione di Nexus, nella stragrande maggioranza,
inorridiscono. Il che ci permette di fare un passo indietro. Perché, come
sempre, il vento di crisi arriva dagli Stati Uniti.

2.

Negli ultimi tre-quattro anni si sono susseguiti in USA una serie di studi e
pubblicazioni sulla crisi dello "higher educational system" - definizione
sotto la quale vengono compresi i college (che forniscono solo diplomi
quadriennali - 2125 istituzioni, di cui 1530 private) e le università (le quali
offrono anche Master e Dottorati). Molti sono gli studi seri, come quello
curato da Arthur Levine (Higher Learning in America, 1980-2000, Johns
Hopkins University Press, 1994), e i libri di inchiesta (Shameful Admissions:
The Losing Battle to Serve Everyone in Our Universities di Angela Browne
Miller, Jossey-Bass, 1996), ma innumerevoli sono le guide alla giungla dei
campus. Uno sguardo ai titoli in libreria dà un quadro efficace della
dimensione dei problemi (e del disagio): The Real Guide to Grad School:
What You Better Know Before You Choose Humanities & Social Sciences, a
cura di Robert E. Clark e John Palattella, Lingua Franca, 1997; The Gay,
Lesbian, and Bisexual Students' Guide to Colleges, Universities, and
Graduate Schools, di Jan-Mitchell Sherrill e Craig A. Hardesty, New York
University Press, 1994; The Black Student's Guide to Colleges (4a edizione),
a cura di Barry Beckham, Madison Books, 1997; ed infine l’imperdibile The
Truth About College: 50 Lessons for Parents Before They Start Writing
Checks, di Will S. Keim, Chalice Press, 1997.

Avevo appena citato la volta scorsa uno dei libri più discussi, Bright College
Years: Inside the American Campus Today (Simon & Schuster, 1997), della
giornalista Anne Matthews. Il taglio del libro della Matthews è quello
classico (e bisogna ammettere avvincente) della "spregiudicata denuncia".
In sette agili capitoli che riprendono le stagioni (i mitici "term") del campus
l’autrice, che è anche "figlia d’arte" (cioè di accademici), ci conduce
attraverso il mondo dell’università americana messa in ginocchio
dall’esplosione delle immatricolazioni e dai tagli (statali e federali) alla
spesa per l’istruzione. Le cifre fornite dalla Matthews sono poche, ma tutte
significative: il sistema universitario americano è una impresa da 200-300
miliardi di dollari ("it’s a little larger than the computer industry, a lot
smaller than the restaurant industry", p. 28) e impiega circa due milioni e
mezzo di persone, più personale che nel settore automobilistico, tessile e
siderurgico messi insieme. Nel 1970 solo un americano su quattro andava al
college, oggi sono quasi uno su due. In Francia e Giappone solo uno
studente di scuola secondaria su dieci arriva all’università. I dati a
disposizione per l’Italia sono di difficile comparazione, ma la percentuale di
iscritti sul totale della popolazione fra i 19 e i 23 anni era nell’anno 1991-92
del 32,6%, ma si scende al 26.9% se consideriamo il numero di laureati su
totale degli iscritti al primo anno (dati Istat). In America, nello stesso
periodo, si diplomava il 44,3% della popolazione di razza bianca e il 23,9%
di neri (fonte: William G. Bowen, "No limits", in Ronald G. Ehrenberg (a
cura di), The American University. National Treasure or Endangered
Species?, Cornell University Press, 1997, pp. 18-42).

Circa nove milioni sono gli studenti iscritti ai corsi di diploma quadriennale
("baccalaureato") in USA, ma la durata media degli studi reali è oggi più
vicina ai sei che ai quattro anni. Sempre più frequenti sono gli abbandoni e
sempre più studenti sono costretti a lavorare a tempo pieno con conseguenze
negative sulla frequenza e sul rendimento. Il linguaggio adottato dalle
università-impresa per attrarre questa massa di adolescenti è quello delle
shopping mall: patinate brochure avvertono che "nel nostro campus ogni
stanza è dotata di "free cable TV service" (Utica College), dove gli studenti
possono rilassarsi in "expanded personal fitness facilities" (p. 27); "nel
nostro college", avverte un altro depliant, "anche le lezioni di arte e
letteratura hanno un taglio da business-studies." Uno studente intervistato
assicura che a Santa Cruz (California) il vestirsi è un optional ("it is a
clothing-optional campus"). Ogni riga di questi pieghevoli è attentamente
soppesata, ogni aggettivo accuratamente selezionato: il college è (deve
essere) una strada in discesa, "fun, intimate, improving but nonthreatening",
dove parole come studio, lavoro e fatica sono bandite: "You will be
painlessly prepared for a high-paying career." L’Università della Florida è
anche più diretta: "Disney World e spiagge meravigliose ad un’ora di
macchina."

Ma se queste note vi sembrano deprimenti aspettate di arrivare al corpo


docente. La Matthews ci offre un florilegio di citazioni, frasi e pezzi di
interviste, rubate o concesse, spesso riunite a grappoli, altre volte raccolte
isolate, dalle quali l’accademia esce massacrata. Alcune di queste storie
raccontate fra un dato catastrofico e l’altro (nessun hotel del sud-est vuole
più ospitare la convention della gloriosa Modern Language Association
perché i suoi delegati "sono tirati con le mance") rasentano la paradossalità
dei racconti di David Lodge. Ma non sono fiction. Il dato dominante è la
mancanza di lavoro e la crescente minaccia della abolizione della "tenure",
l’assunzione a tempo indeterminato, che terrorizza tutte le discipline ma che
è già diventata una realtà per i laureati dell’area umanistica. Sulla "tenure"
parlano chiaro decani e presidenti di università: "L’aumento dell’età
pensionabile ha causato grossi problemi. E la libertà accademica non
c’entra. Le pare che voglia rendermi odioso a gente che è alla fine della
propria carriera? No di certo; ma per dirla tutta, un quarto del dipartimento
di fisica, un quarto di scienze politiche e un terzo di francese dovrebbero
essere fuori di qui. Non so che cosa fare. Secondo i nostri legali è persino
illegale parlargliene" così il presidente della Illinois Wesleyan University (p.
176). Il segretario della American Association of University Professor
scuote la testa: "Gli attacchi legislativi alla tenure stanno aumentando in un
modo che c’è da aver paura. Arizona, Pennsylvania e Minnesota stanno
cercando di eliminarla. L’ideologia del mercato impera." Su tutto sovrasta il
timore di perdere la libertà di esprimere le proprie idee: "Adottate contratti
quinquennali come quelli di qualsiasi manager dell’industria e i contrattati
perderanno la libertà di parola. Presidi e consigli di facoltà possono punire
oggi i titolari di cattedra (‘tenured’) con incarichi noiosi, non aumentargli lo
stipendio, affibbiargli compiti umilianti, ma non possono farli stare zitti. [...]
La ‘tenure’ sarà forse dispendiosa e crudele, osservano i suoi difensori, ma
protegge il patto con la società per preservare al suo interno un posto dove la
gente possa mettere il naso nelle questioni più strane, creando ancora più
strane connessioni, e per ragioni non immediatamente palesi." Insomma,
conclude la Matthews, "la ‘tenure’ protegge gli innovatori dagli accademici."

Se dalla lettura della Matthews si esce stremati ben diverso è l’effetto che fa
The American University (citato più sopra). La miscellanea curata da
Ehrenberg non è certo un’inchiesta: qui è la crema dell’establishment
universitario americano e il grande potere accademico - dal presidente del
MIT a quello di Princeton, da quello di Cornell al direttore del National
Science Foundation - a salire in cattedra e a discettare sui "tesori" nazionali
americani. Il tono è quello delle grandi occasioni, le conclusioni scontate:
siamo in difficoltà, ma ce la faremo; issate le vele, si parte per una nuova
battaglia, eccetera. Insomma, la classica retorica alla Amasa Delano che
sprizza ottimismo sul povero Benito Cereno ("But the past is passed; why
moralize upon it? [...] Forget it. See, your bright sun has forgotten it all, and
the blue sea, and the blue sky; these have turned over the new leaves.")
Eppure anche fra questa messe di proclami jeffersoniani non mancano le
pagliuzze d’oro della critica. Hanna H. Gray, presidente emerito e
professore di storia alla Chicago University, sfiora nel suo intervento
("Prospects for the Humanities", pp. 115-127) i temi dell’università di massa
e del futuro delle facoltà umanistiche. L’articolo di Gray è una lucida,
orgogliosa e allo stesso tempo pacata rivendicazione del valore degli studi
umanistici in un mondo dominato dalla visione "scientifica". "Le università
esistono in parte", scrive Gray, "per mantenere e nutrire campi e modi di
pensare che non saranno mai di moda ma che sono di fondamentale
importanza [...]. Allo stesso modo esse esistono per incoraggiare e rendere
possibile la libertà intellettuale e il rischio che ci si assume nello scoprire
nuovi problemi, nuove risposte, nuove discussioni - qualsiasi pena consegua
a questo risveglio." (p. 124). Infine, riprendendo una riflessione di
Tocqueville, l’autore si domanda se la discussione sul "controllo"
dell’istruzione superiore (e sull’allontanamento della società dalle
università) non sia legata a un classico dilemma: è possibile conciliare
l’ethos democratico con quello che possiamo definire "the fundamental
quest for knowledge", ovvero l’immersione in una vita contemplativa? Gray
risponde con le parole di Tocqueville (che diventeranno poi quelle di John
Dewey): "A forza di aderire alle mere applicazioni si perderebbero di vista i
principi, e quando i principi fossero persi, i metodi non potrebbero essere
inventati, e l’uomo continuerebbe senza intelligenza e senza arte ad
applicare processi imparati ma non più compresi."

3.

Ed è questa in fondo la domanda che si pone, anche se in forma indiretta, il


terzo e conclusivo libro della mia serie (Chi governa l’università? Il mondo
accademico tra conservazione e mutamento, a cura di Roberto Moscati,
Liguori, 1997), a dimostrare come ormai la crisi dei sistemi di istruzione
superiore tagli trasversalmente tutta la cultura occidentale. Lo studio
promosso dall’allora Ministro Ruberti traccia in 10 capitoli una radiografia
del sistema universitario italiano. A chi tutto sommato usciva risollevato
dalla lettura della Matthews e dei guai britannici, l’équipe di sociologi delle
università di Trento, Milano e Catania si incarica di dare l’ultima mazzata.
Discuterò qui solo le conclusioni di Moscati, rimandando al volume
chiunque voglia cercare risposte documentate al disastro dell’università
italiana.

L’analisi di Moscati, che è anche un comparatista dei sistemi universitari,


parte proprio dall’osservazione della crisi dell’"idea" di università; un’idea
che risale alla fondazione di queste istituzioni: l’indipendenza dalla società.
Indipendenza che è insieme, ricordiamolo, indipendenza materiale e degli
scopi conoscitivi. La crisi dunque non è più solo una crisi di prestigio e di
ruolo, ma una crisi di identità la cui origine risiede nell’avvicinamento
(apertura) dell’università a settori più ampi della società e nel successivo,
parallelo allontanamento (per delusione, difficoltà, incapacità reciproca,
ecc.) della società da essa. Ciò che allora noi stiamo sperimentando oggi è il
"disamoramento" fra società e università, paradossalmente l’uno ormai alla
ricerca di legittimazione dall’altra. Uno dei motivi di questo disamoramento
l’autore lo identifica assai bene (così come emerge dal libro della Matthews
e dal dibattito inglese): il mercato.

"Sottolineando la relazione tra istruzione e mercato del lavoro si dà spazio


all’acquisizione di capacità vendibili (richieste del mercato), ma anche - in
conseguenza - al sapere come prodotto (invece della conoscenza come
processo e valore in sé); [...] la professionalità del docente si identifica con
la produzione del valore economico. (p. 290)"

Moscati non sembra tuttavia voler difendere i docenti, colpevoli di


arroccamento su posizioni di inutile e controproducente difesa a oltranza
dello status quo. Uno dei nodi centrali del suo discorso - centrali anche per
noi - è quello della "responsabilità" dell’insegnante. Il passo dove l’autore
conduce questo ragionamento merita di essere citato per esteso:

"Naturalmente, questa tendenza evolutiva (la trasformazione dello studente


in "consumatore" e del docente in "facilitatore di esperienze di
apprendimento" [un’orrenda espressione, non me ne voglia Moscati, che
nasconde la parola "commesso"]) [...] finisce per trasformare profondamente
il ruolo professionale dei docenti [...]. Così A. H. Halsey parla di
proletarizzazione per una classe accademica che perde progressivamente il
controllo delle proprie forme di produzione e riproduzione. [...] Ma il
moltiplicarsi delle forme di controllo, di valutazione e di responsabilità nei
riguardi degli studenti-consumatori la priva di alcune caratteristiche
fondamentali per essere considerata una reale professione. Le cause di
questa trasformazione sono da riscontrare sia nelle pressioni esterne appena
segnalate, sia nella incapacità del mondo accademico di definire
compiutamente la propria professionalità, in termini generali di ruoli e
responsabilità nei confronti della società e, in termini specifici, nel campo
delle funzioni didattiche." (p. 291)

Insomma, conclude Moscati, uno dei motivi della crisi di fiducia


nell’università e della conseguente perdita di controllo dell’accademia
risiede - e qui si spiegano benissimo anche il ritardo e le resistenze italiane -
"nel non essersi definiti quali professionisti con riferimento alla didattica" e
"nel non avere chiarito l’importanza della didattica per la società." È proprio
su quest’ultimo, delicatissimo punto, che si innestano le mie perplessità.
Prescindendo un momento dalla spinosa questione della valutazione del
processo didattico (che di per sé meriterebbe un capitolo, vedi le mie
osservazioni in "Italiano in Campus", Golem, 11 07.05.97.), mi pare che
Moscati non tragga le conseguenze dalla sua osservazione del nesso fra
mercato e didattica. In definitiva, Moscati non si pone il problema di quali
forze guidino la società: pur indicando nel mercato una delle forze che
premono per la trasformazione (in positivo o in negativo) dell’istruzione non
stabilisce il nesso fra questa e la società nei termini - più che corretti, viste le
sue stesse premesse - di un conflitto. Ed infatti più avanti (p. 292) parlerà di
dialettica "non risolta" fra università e società, ma senza mai porre la
questione nei termini di una divergenza di interessi - come faceva
timidamente Gray richiamandosi a Tocqueville.
Ecco perché poi egli confonde due piani: l’esigenza di autonomia
dell’università - minacciata in tutto l’occidente - e il problema del distacco
della classe intellettuale dalla società. Prendere a pretesto il pur sacrosanto
problema della didattica per spiegare il ritardo dell’accademia italiana (e
non solo italiana) sulla società mi pare per lo meno un vistoso
understatement. Nessuna riforma presente o futura potrà incidere sul
costume intellettuale (e questo d’altronde lo dicono gli stessi autori parlando
dei tentativi di riforma di Ruberti, pp. 2-6). Il problema allora è un altro. E
cioè se una società profondamente influenzata (come alla fine tutti
candidamente ammettono) dal mercato vada considerata intrinsecamente
buona e portatrice di novità positive. È per questo che credo che il livello
dello scontro sui sistemi universitari vada alzato, spostando il fuoco dai temi
ai quali si riferiscono costantemente i giornali (giochi di potere, concorsi
truccati, fondi del MURST e aule sovraffollate). Certo è necessario risolvere
questi problemi, ma è falso e mistificatorio sostenere che le urgenze vere
siano queste. La questione vera è sapere quale sistema di formazione e
istruzione vogliamo per il futuro e quali legami esso debba avere con il
paradigma humboldtiano dell’autonomia della conoscenza e della libertà di
docenza. Autonomia che, è bene ribadirlo, è soprattutto e innanzi tutto
indipendenza e autonomia dalla società. Se da un lato il rischio è quello
dell’emarginazione e dell’isolamento del sistema (come accade negli USA
dove le piccole e medie università vengono affamate dagli stati
conservatori), dall’altro la prospettiva è quella di una uniformazione alla
società che schiaccerebbe la conoscenza e l’apprendimento sulle esigenze
dell’attimo (Disney World e "clothing optional" campus inclusi). Non mi
pare questo un tipo di "legame con la società" che funzioni. A chi si lamenta
(anche giustamente) che l’università si è allontanata sempre di più dalla
realtà bisogna chiedere di avere il coraggio di contemplarla, quella realtà.
Lo scenario che avrà di fronte allora sarà quello di un mondo occidentale
intento a smantellare ciò che rimane dei movimenti organizzati (e dunque
degli ultimi residui di "società"). Prima il sindacato e i partiti, poi la sanità e
le pensioni e finalmente l’università (di élite o di massa che sia): "il luogo
dei paradossi" dove vengono o dovrebbero venire elaborate visioni
alternative a quella stessa società che essa è chiamata a servire.
Esercizi tipografici
Eco ha inventato un nuovo gioco: si tratta di usare lettere e simboli per
dire, di una persona, non soltanto come si chiama, ma anche chi è.

Questi si chiamano…

A. … Esercizi tipografici
B. Esercizi tipografici si chiamavano quelli che Massin fece per l’edizione
illustrata degli Exercices de style di Raymond Queneau,
C. il libro di Queneau è stato tradotto da Eco,
D. Eco oggi dedica a Queneau uno dei suoi primi…

[ricomincia da A. ad libitum].

Umberto Eco
Lo sguardo remoto del Prof. Di Bella
Marco Belpoliti La faccia di Luigi Di Bella è diventata rapidamente nota alla maggior parte
degli italiani. Il suo viso e la sua testa, coronati dai capelli bianchi, sono un
simbolo inequivocabile per tutti coloro che in questi anni hanno
sperimentato su se stessi o sugli altri l'esperienza della malattia e della morte
per tumore. Tra questa esperienza e il volto del professor Di Bella c'è una
forte omologia che aiuta ancor di più l'identificazione tra il fisiologo
modenese e il dolore. Nelle fotografie che lo ritraggono sui giornali Di Bella
non sorride quasi mai. L'unica immagine ridente è quella che lo ritrae con
l'oncologo Umberto Veronesi, celebre luminare della lotta contro il cancro,
che invece ride sollevando il labbro superiore e socchiudendo leggermente
gli occhi, le braccia conserte e lo sguardo rivolto all'obiettivo, come a dire:
"Tutto va bene". Di Bella no, il suo sorriso è quasi una smorfia, la testa
reclinata e le mani in tasca (un altro dettaglio di questa foto colpisce: mentre
Veronesi ha infilato nel taschino della giacca un fazzoletto di seta dello
stesso tessuto dell'elegante cravatta, Di Bella reca nel taschino un fazzoletto
bianco e soprattutto delle penne, mentre la cravatta è annodata in modo
tradizionale, come si usava prima della guerra). L'idea che la persona di Di
Bella suggerisce è certamente quella di un uomo antico - ha più di
ottant'anni - ma anche di un uomo perplesso, non a proprio agio nei contesti
pubblici. In un certo senso Di Bella è, almeno nel campo dei media, un
"dinosauro", un essere appartenente ad altre ere geologiche. Basta guardare
come si comporta davanti all'obiettivo delle macchine fotografiche e delle
telecamere: la testa reclinata, lo sguardo tra il sorpreso e il perplesso, ma
soprattutto non guarda mai dritto verso l'obiettivo: traguarda. E' come se
abbassasse lentamente lo sguardo e poi lo alzasse di colpo verso chi lo
ritrae. Si direbbe che il professor Di Bella ci guardi di sottecchi, ci spii; il
suo è uno sguardo sospeso. Ci guarda, ma lo fa passando attraverso
qualcosa. Dire cosa sia questo qualcosa non è facile; forse è una distanza: è
uno sguardo remoto, di chi, da un'era trapassata, getta uno sguardo perplesso
sul presente; o forse è una forma di saggezza che si comunica con gli occhi
(sempre appannati come da un umor vitreo, ma anche stranamente vitali), o
meglio: uno sguardo di perplessità (la testa è sovente piegata, di poco, in
avanti o indietro). L'espressione degli occhi è accompagnata da una leggera
smorfia delle labbra, del labbro inferiore, perché quello superiore è nascosto
da un baffo bianco, tagliato secondo una consuetudine anche questa desueta,
per cui si rade la parte superiore e si lascia solo quella inferiore, quasi a
coronare la bocca. Nelle foto in bianco e nero dei giornali la folta
capigliatura bianca diventa come un alone, una criniera, alta sulla fronte,
quasi un'aureola che avvalora ancor di più il senso di estraneità che la figura
di Di Bella suggerisce nel lettore dei fogli quotidiani. In alcune istantanee è
colto nell'atto di parlare, ma la sua bocca non è mai aperta: si capisce che sta
quasi sussurrando, come se stesse parlando vicino al nostro orecchio,
dandoci l'impressione di una confidenza; più spesso i fotografi, che
sembrano in questo interpretare un desiderata del professore, lo immortalano
accanto a chi sta parlando, ad esempio il Ministro della Sanità, Rosy Bindi,
fotografata mentre accompagna la parola con un gesto: una mano aperta con
il palmo rivolto verso l'alto e il braccio sospeso in aria. Di Bella è
assolutamente composto; solo in una fotografia ha la mano destra alzata, ma
il palmo è rivolto verso il basso come a suggerire una moderazione, e
soprattutto indossa il camice bianco, segno che qui è investito dell'autorità
di medico. Che sia un uomo antico ce lo dice anche il modo in cui indossa i
calzoni; in una immagine che lo coglie con la giacca slacciata si vede
chiaramente che il taglio dei pantaloni è fuori moda, anni Cinquanta, con i
calzoni alti all'altezza della cintola, tutto il contrario dei calzoni moderni
indossati dai suoi interlocutori (l'abito fa il monaco, si dovrebbe dire
vedendolo accanto al professor Veronesi, elegante, spigliato, sicuro di sé).
La sicurezza che emana questo "omino bianco", come è stato subito definito
dai giornalisti e dai commentatori, è molto diversa da quella che siamo soliti
leggere nella persona fisica degli uomini pubblici; in una certa misura
assomiglia a quella della passata classe dirigente democristiana, così
inelegante nel suo abbigliamento anni Cinquanta (solo Andreotti, l'ex
ministro, è rimasto a ricordarci come vestivano quegli uomini grigi che ci
hanno governato per un quarantennio, ma anche lui si è aggiornato e il taglio
dei suoi abiti, quasi sempre in doppio petto, si è fatto più moderno). Forse
l'unico a cui si può paragonare lo sguardo di Di Bella - ma si tratta di una
casualità suggerita da un triste anniversario - è Aldo Moro nella prima foto
diffusa dalla Brigate Rosse, a tre giorni dal sequestro; anche Moro ci
traguarda, perplesso, con la testa reclinata, la camicia aperta e la canottiera
bianca ben visibile. Posseggono entrambi - il professore anticancro e lo
statista sequestrato - qualcosa che ci inquieta. Forse quel qualcosa è uno
sguardo incerto, non una insicurezza o un dubbio, ma una perplessità. Moro
ha lo sguardo di chi sta sospeso in una dimensione che non è più quella del
prima e non sarà mai quella del dopo: è già altrove. Ecco, probabilmente
anche Di Bella ha il medesimo sguardo dell'altrove. Egli sembra infatti
appartenere a una dimensione diversa, che non sappiamo bene quale sia, ma
che per questo possiamo interpretare come attinente al dolore o alla morte.
Forse, più semplicemente, il suo sguardo è quello di un uomo che si è
trovato, contro la sua volontà, al centro di un gioco più grande di lui,
costretto a confrontarsi con poteri e sistemi che gli sono estranei (per questo
si sottrae), o forse è solo a disagio davanti agli obiettivi delle macchine
fotografiche; la sua è una timidezza ritrosa di chi si rassegna a diventare,
nonostante tutto, una icona pubblica, ma in fondo non lo vuole; dice:
"Eccomi qui, ma non è questo che desidero per me". Nonostante tutte queste
ragioni a chi lo guarda può sembrare che Di Bella rechi nel suo sguardo il
segno di un passaggio, di una soglia che sembra aver attraversato; ma al
tempo stesso porge questo sguardo senza alcuna allegria o sicurezza, non
ostenta la forza e l'ottimismo di chi ha percorso il regno del dolore, non ha
la sicurezza di chi afferma: "Vi libererò dal male". Insomma, egli è profeta
triste, proprio come questi tempi di perplessità e stentato ottimismo
richiedono a chi sembra detenere le chiavi di una salvezza che non
contempla la possibilità di un miracolo.
Perchè lo fai?
Oliviero Ponte di Pino Per spiegare che cosa sia il World Question Center, bisogna innanzitutto
presentare il suo inventore. Ma non è facile etichettare John Brockman. Per
chi lavora nell'editoria è soprattutto un agente letterario - o meglio, l'agente
di molti tra i migliori scienziati oggi in attività, che progetta
instancabilmente potenziali bestseller sulla teoria dell'evoluzione, sulla
fisica della particelle, sulla nascita del linguaggio, sull'ingegneria genetica,
sul rapporto mente-corpo... Chi avesse incontrato Brockman negli anni
Sessanta, invece, avrebbe conosciuto un artista-organizzatore che gravitava
intorno ad Andy Warhol e a quelli che allora venivano definiti "mixed
media" (che secondo alcuni rappresenterebbero un'anticipazione profetica -
e senza computer - dell'attuale multimedialità). Per chi invece spulcia i
cataloghi delle biblioteche, Brockman è autore di una serie di saggi e libri-
intervista: tra i più recenti, La terza cultura, una serie di conversazioni con
scienziati, partendo dal presupposto che i recenti sviluppi in diversi settori
della scienza stiano cambiando - e cambieranno - i nostri paradigmi
"filosofici" ed esistenziali; e Digerati, una panoramica di interviste con la
nomenclatura della nuova cyber-frontiera sul futuro di Internet (per la
cronaca, Digerati è stato il primo libro pubblicato da Hard Wired, la casa
editrice della rivista Wired).
In tutto questo, l'attivissimo Brockman non poteva non avere uno sbocco in
rete, al sito Edge (http://wwvv.edge.org). E su questo sito, qualche tempo fa,
ha aperto una rubrica di notevole fascino ed effetto: partendo dal
presupposto che l'importante non è tanto quel che si trova, quanto quello che
si cerca, e riprendendo un'idea di un suo amico (James Lee Byars, alla cui
memoria è dedicata l’iniziativa), ha infatti chiesto ad alcune personalità che
lavorano ai confini più avanzati della ricerca di sintetizzare il senso del loro
lavoro in una domanda.
L'idea originale di Byars (nel 1971) era questa: raccogliere le 100 menti più
brillanti del pianeta, chiuderle in una stanza e fare in modo che i partecipanti
ponessero anche agli altri le domande che ponevano a se stessi. In teoria,
quello che avrebbe dovuto uscire da quella mega-discussione sarebbe stata
la sintesi del pensiero umano.

Il World Question Center riprende e rilancia l'idea, con tutte le sue generose
ingenuità, ma superando tutte le difficoltà logistiche grazie alla potenza di
Internet.
Dice Brockman citando un suo testo del '69, "il nostro tipo di innovazione
non consiste nelle risposte, ma nell'autentica novità delle domande; nel
porre i problemi, non nelle soluzioni... La sintesi della totalità del sapere
umano non consisterà in un incredibile ammasso di dati, o in enormi librerie
sovraccariche di libri. Non hanno più valore la quantità, la spiegazione. Per
una sintesi totale del sapere umano, usate l'interrogativo. Chiedete alle più
sottili sensibilità del mondo le domande che stanno facendo a se stesse".
Insomma, al World Question Center non si trovano risposte, ma solo
domande. Ma a farsi queste domande sono - per l'appunto - alcune tra le
menti più interessanti che circolano nel cyberspazio. Scienziati, ricercatori,
filosofi, pensatori, critici, saggi...
Un piano del progetto e un primo risultato di questo inedito sondaggio via
Internet è apparso sul numero 31 di The Edge.
Qualche esempio?

"Qual è la differenza cruciale tra la materia inanimata e una entità che può
agire come un ‘agente’, manipolando il mondo a proprio vantaggio? E come
avviene questo cambiamento?".
PHILIP ANDERSON, Premio Nobel per la fisica, Princeton.

"Qual è l’esatta quota di natura che possiamo buttar via e bruciare facendola
franca?".
NATALIE ANGIER, giornalista scientifica del New York Times, autrice di
Natural Obsessions, The Beauty of the Beastly.

"Un giorno riusciremo a raggiungere un'ampiezza di banda sufficiente per


trasmettere il ‘prana’?".
JOHN PERRY BARLOW, co-fondatore della Electronic Frontier
Foundation, ex paroliere dei Grateful Dead.

"Come possiamo costruire una nuova etica del rispetto della vita che vada
oltre la sopravvivenza individuale per includere la necessità della morte, la
conservazione dell'ambiente e le attuali e future conoscenze scientifiche?".
MARY CATHERINE BATESON, antropologa, George Mason University,
autrice di Composing a Life e Peripheral Visions.

"Come evolverà la mente, nel momento in cui sapremo come il cervello crea
la mente?".
WILLIAM H. CALVIN, neurofisiologo teorico, University of Washington,
autore di The Cerebral Code e How Brains Think.
"Che aspetto potrebbe avere un secondo esemplare del fenomeno che
chiamiamo vita?".
RICHARD DAWKINS, biologo evoluzionista, Oxford, autore di Il gene
egoista, River Out of Eden e Climbing Mount Improbable.

"I1 crollo delle grandi civiltà del passato ha qualcosa da insegnarci sul
nosko futuro?".
JARED DIAMOND, biologo, UCLA Medical School, autore di The third
Chimpanzee e di Guns, Germs and Steel.

"Come possiamo conciliare il nostro desiderio di equità e eguaglianza con il


bruto fatto che non siamo tutti uguali?".
JUDITH RICH HARRIS, psicologa dello sviluppo, autrice di The Child: A
Contemporary View of Development.

"Qual è la frontiera?".
W. DANIEL HILLIS, computer scientist, vice-presidente ricerca e sviluppo
alla Walt Disney Company e autore di How Computers Think.

"Perchè‚ la musica ci dà un tale piacere?".


NICHOLAS HUMPHREY, psicologo, New School for Social Research,
autore di Consciousness Regained; A History of the Mind e Leaps of Faith.

"Che cosa vuole la tecnologia?".


KEVIN KELLY, direttore esecutivo di Wired, autore di Fuori controllo.

"Perchè‚ le religioni sono ancora vitali?".


ELAINE PAGELS; storica delle religioni a Princeton, autrice de I vangeli
gnostici, Le origini di Satana.

"Esiste un gene della felicità? Ed è dominante?".


LOUIS ROSSETTO, fondatore di Wired.

"Come dovrò insegnare ai miei figli?".


CLIFF STOLL, astronomo, autore di Miracoli virtuali.

Questa è solo una piccola selezione delle domande raccolte al World


Question Center. La mia preferita, finora, è questa (e non a caso ha un vago
sottofondo zen):

"Perché‚ no?".
LINDA STONE, direttrice del Virtual World Group alla Advanced
Technology and Research Division della Microsoft.

Per quanto mi riguarda, ho provato (immodestamente, vista l'eccelsa


compagnia) a cercare una domanda intorno alla quale ruotassero le mie
ossessioni. Per ora ne ho trovato una, che è legata alla mia attività di
studioso di teatro ma che forse affonda le sue radici più in profondità. Suona
più o meno cosi:
"Qual è la differenza tra un evento reale e un evento teatrale?".

O meglio:

"Come faccio a sapere che è finto, e al tempo stesso crederci?".


E mi rendo conto che, in un'epoca così ironica, quando trionfa il virtuale, la
domanda può avere sottofondi più maliziosi di quanto non sospettassi.
Ovviamente so anche di non avere una riposta alla mia domanda, ma che più
o meno consapevolmente ho provato a rispondere in numerose occasioni.

A questo punto, credo di aver giocato la mia carta sul tavolo del World
Question Center. Ma sono convinto che molti altri possano avvertire il
desiderio di giocarsi, anche loro, con la domanda che li ossessiona.
Se la gatta va al lardo
Liam Email Uno dice "Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino". Bene, ma se
uno lo chiede al Web che succede? Se uno butta dentro, alla rinfusa (rin/
fusa), gatta, lardo e zampino in un motore di ricerca, cosa gli torna indietro?
E se uno li butta tutti e tre? Internet e la gatta che va al lardo, insomma,
hanno un senso comune, una storia da raccontare?
La risposta è no. Ma non è il caso di scoraggiarsi. Perché se Internet rifiuta
il senso della gatta che va al lardo e ci lascia lo zampino è colpa della sua
natura, se uno crede in Internet vuol dire che non crede che andando al lardo
ci si debba lasciare lo zampino per forza. Vuol dire che comunque ci va,
zampino o non zampino. Se lo fa, in questo caso, viene anche premiato. A
un certo punto, l'enorme Altavista, il motore di ricerca che tutto comprende,
concede una piccola soddisfazione finale. E dice: "Perché non dai
un'occhiata al capitolo XI dei Promessi Sposi?" Uno va a leggere, e legge:
"Ci ha messo uno ZAMPINO quel frate in quest'affare, - disse il cugino, dopo
aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello
così balzano. - Quel frate, - continuò, - con quel suo fare di GATTA morta, e
con quelle sue proposizioni sciocche...".
Lo zampino, in tutta questa storia, ce l'ha messo il Manzoni tra Don Rodrigo
e il conte Attilio.
Si naviga, comunque, a vista. Si naviga per andare al largo invece che al
lardo, come in celebri rifacimenti popolari del famoso detto. Zampino, per
esempio, comunque terminologia animale: sul sito http://www.sofit.it c'è
un notevole triplo salto interpretativo a riguardo dei cani di razza: "La
corporatura massiccia gli deriva dal Blood hound, l'incrocio con il Fox
hound ha contribuito a migliorare l'ossatura e a rialzare la spalla e
sicuramente anche il Boxer ci ha messo lo zampino". Che il Boxer, in questo
caso, ci abbia messo lo zampino è opinione dell'estensore, che per di più sia
proprio il Boxer è malizia che perfino lo spregiudicato Web fatica ad
accettare.
Zampino, si diceva. Il guaio è che Internet ha archiviato una quantità
spropositata di articoli di stampa che raccontano le partite di calcio.
Effimero purissimo, a meno che non sia opera di grandissime firme. Quindi
quasi mai. Sono centinaia le segnalazioni di Altavista al proposito: zampino,
nel senso di metterci lo zampino, ormai lo usano soltanto più i giornalisti
sportivi, per dire che Collocurta ha messo lo zampino nell'azione decisiva
della partita o che nel risultato finale c'è lo zampino del portiere Pagliuzzi
autore di straordinarie parate.
Nomi, pochi i rilevanti: l'architetto Giuseppe Zampino, soprintendente ai
beni ambientali e architettonici di Napoli, tale David Zampino che lavora in
una società americana di informatica, ma soprattutto un notevole Philip
Zampino, vescovo della Church of the Resurrection di Hollywood,
California.

Lardo, si diceva. Buttatevi nel Web a caccia di lardo (Caccia al lardo


potrebbe essere un remake ben visto dal vescovo Zampino) e ne uscirete
grassi e bisunti, ma felici. Un sito interamente alimentare ci ricorda che il
lardo, a Napoli, è la Sugna. E viene in mente come i casertani Avion Travel
del festival di Sanremo avrebbero potuto cantare un altrettanto bella e oleosa
"Dormi e sugna". Sul Web ci sono richiami a un celebre "Lardo's Cafè"
americano, ma manca quello che avremmo invece voluto trovare, ossia un
sito interamente dedicato al Lardo. Sparso qui e là, si trova di tutto, dalla
composizione chimica (http://www.sameint.it/all/alimenta/al_banca/
12001901.htm ) a decine di ricette dell'Artusi, agli appelli per salvare il
lardo di Colonnata (in http://www.food.iol.it), che è una brutta storia di
piastrelle che sostituiscono a norma di legge la roccia naturale delle Apuane
dove il suddetto lardo viene conservato.
Ma se uno non abbina al lardo qualcosa di morboso, che fa in alternativa?
Eccoci qui, http://www.cweb.it/mangiarebene/altro/
afrodisiaca/scamponi.html. Gli scamponi vanno avvolti in una buonissima
fetta di lardo, possibilmente valdostano di Arnad, successo garantito come
da ricetta completa: "Un raffinatissimo stuzzichino che farà ritornare sempre
più volentieri il vostro amato bene... non solo perché affamato dei vostri
baci ma anche goloso di questa squisita ricetta che preparate apposta per lui".

6 scamponi, puliti, privati del guscio e delle teste 6 fette di lardo di Arnad o
della migliore qualità timo tritato pizzico di sale aceto balsamico. Accendete
il forno a 180 gradi. Avvolgete ogni scampone in una fetta di lardo e
deponetelo su una pirofila leggermente unta di olio e cospargete sopra il
timo e un pizzico di sale. Infornate per circa 8/10 minuti fino a quando lo
scampone si sarà cotto nel grasso del lardo disciolto.
Quando cotti, bagnateli con qualche goccia di aceto balsamico e mangiateli
ancora caldi.

Vale anche per coppie un po' attempate che si attardano nel ricordare i
momenti di fuoco ormai lontani (Vecchio scampone, quanto tempo è
passato).
Ma quello che conta, qui, è l'universalità del lardo. Confermata anche
dall'esperanto: vedi il sito http://www.esperanto.mv.ru, che riporta la
seguente frase: Kiel la koridoro, tiel ankam la tuta ambro estis frotita per
lardo.
In effetti chi l'avrebbe mai detto.
La gatta, si diceva. E' chiaro che un vocabolo di uso così comune, si porta
ovunque nel Web. Volendo, gatta lo si ritrova in una mezza dozzina di siti a
leggero sfondo pornografico, come sinonimo secco, allusione,
caratterizzazione precisa. Con parecchia fatica lo si potrà trovare - ne siamo
certi - anche come felino, e qui ci si ferma. Abbiamo scelto quindi due cose
che si discostano nettamente dalle altre: su tutti, la presentazione in http://
www.fanzine.net dell'ultimo album del gruppo: Tonio Scatigna e la gatta
da pelare. Sono toscani, vagamente demenziali, ma il loro album ci consente
un abbinamento insperato con il lardo. L'album si chiama infatti Fronte del
porco. L'album contiene una cover di Paranoid dei Black Sabbath che in
italiano diventa una strepitosa Alvaro il metallaro. E ancora, non fosse altro
che per la presenza ossessiva nelle segnalazioni di Altavista. l'industria di
materiali per l'aeronautica La gatta S.r.l., di Pomigliano d'Arco, 65 anni di
attività, 20 anni in collaborazione con l'industria aeronautica.
D'accordo, troppo materialista. E quindi si approda su http://www.tqs.it, e la
gatta, animale simbolo della filosofia Zen, trova la sua consacrazione in una
poesia di Dilys Laing. Che recita così

Poso il mio libro


Il Significato dello Zen
E vedo la gatta che sorride nella sua pelliccia mentre la pettina
delicatamente con la ruvida lingua rosa.
"Gatta, ti presterei questo libro da studiare ma pare che tu lo abbia già letto".
Lei alza gli occhi e mi lancia il suo sguardo pieno.
"Non essere ridicolo" dice facendo le fusa. "Quel libro l'ho scritto io".

La poesia, invece, se conoscete un picchiatore affidabile, l'ha scritta Dilys


Laing.
Insomma, è tempo di ricondurre le unità al tutto. Gatta, lardo, zampino
insieme. Un motore di ricerca come si deve non potrà fare altro che
presentarvi, nei primi cinquanta siti, cinquanta riferimenti al proverbio.
E' quasi meglio una poesia Zen. Ma comunque, qualcosa si trova. Sta nei siti
regionali, dove persone di buona volontà archiviano tradizioni locali,
linguaggi, modi di dire. Due su tutti. http://www.planetbox.com/proverbi.
htm ne riporta una buona versione siciliana.

Tantu truzza a quartara 'nto muru finu a quannu si rumpi.


Tanto il vaso cozza col muro, fin quando si riduce in frantumi.
Corrisponde all'italiano: tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino.

Ma vince decisamente Aldo Onorati, che sta ad Albano Laziale e ivi


raccoglie il meglio della tradizione orale del luogo. (risalire da http://www.
pcg.it/home/poesia). Tutti i proverbi italiani hanno un corrispondente ad
Albano Laziale, e in tema di gatte, lardo e zampini, il proverbio che fa al
caso nostro inizia così: " A chi tanti pali zzompa..." e finisce in un modo che
non è elegante scrivere, nemmeno con l'alibi dell'antropologia linguistica,
nemmeno con tutta la capacità virtuale di cui siamo in possesso.
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Aldo Grasso Si cambia canale. E' l'unica cosa che cambia.

Avvertenze per la consultazione.


Lamentarsi non è chic, parlare male della TV ancor meno: tuttavia la vita
sociale è interamente organizzata attorno al televisore. La TV funziona
come una specie di orologio pubblico e di calendario elettronico: scandisce
le ore con appuntamenti fissi, stabilisce impegni, incontri, avvenimenti.
Nessuno strumento di comunicazione è mai riuscito a fare appello a una così
grande solidarietà nazionale, ad avere a disposizione gli arnesi di una
lusinga così universale, a cadenzare i comportamenti su una scala così vasta.
La TV è insieme vita sociale e modello di condotta: attraverso la pubblicità,
mostra come ci si deve comportare, esibisce buona creanza, dispensa regole
di bon ton.
Ma la TV è sovente intemperante, caciarona, avara di buone maniere.
Questo elenco è insieme dizionario e galateo e ha la modesta intenzione,
come suggerisce Monsignor Della Casa, di "sporre quali cose abbiano a
fuggirsi, perché spiacevoli all’intelletto".

Applausi
Baudo Non fare ...
Chiusura Odori
Darsi del tu Pagina
Emblematico Quantità
Fanciullino Rai
Gente Saucissonnage
Hamburger Telecamera
Immagini Una volta
Linea Virgolette
Microfono Zoccolo
Pubblichiamo la terza e ultima parte dell'Enciclopedia di Aldo Grasso.
Vi chiediamo ancora di integrarla con le vostre voci. Raccoglieremo tutto e ne faremo un'unica
enciclopedia che sarà disponibile su Golem. Promesso.

Forum: Piccola enciclopedia dei lettori


Battute fuori tempo
Walter Fontana Chiamiamolo gioco per comodità. Consiste nel raccogliere frasi, battute, gag
che UN CERTO NUMERO DI ANNI FA (non troppi) sono state usate per far
ridere e oggi non potrebbero esserlo più.
Per esempio: in Bananas (mi pare 1971), Woody Allen dice a proposito del
sarto che ha confezionato le divise dei ribelli "Che razza di sarto, i calzoni
con i polsini!" (e tutto il cinema a ridere). Qualche mese fa su Vogue ho
letto sotto una foto Calzoni con i polsini. Quella battuta è diventata una
didascalia di moda. Così com'è stata formulata non può più far ridere,
appartiene troppo alla realtà. Sarebbe indietro.
Altro esempio, sempre Woody Allen: in Manhattan, quindi 1979, c'è la
battuta: "Mia moglie mi ha lasciato per un'altra donna" (altre risate). Oggi
donna preferisce donna è un argomento, a volte l'argomento, di cui parlano
instancabilmente i quotidiani, i supplementi, i mensili, le facce dei talk-
show, col loro tono speciale fatto di soli risvolti, il risvolto sociologico, il
risvolto fashion, il risvolto cura del sé e così via. Si può ancora (volendo)
fare dello spirito sulla cosa, ma bisognerebbe partire da presupposti diversi,
più elaborati, consapevoli che "i costumi sono cambiati". Comunque la
battuta, quella battuta, da fulminante che era è diventata inutilizzabile.
Passiamo alle gag visive. Metà anni ottanta, trio Marchesini - Lopez -
Solenghi, Adamo ed Eva. Adamo entra in scena con l'autoradio in mano
perché non si fida a lasciarla in macchina. Risata enorme, giustificatissima,
del pubblico che riconosceva all'istante la sfiga dell'uomo con sottobraccio il
quadratone nero con maniglia cromata. Ora quel tipo di autoradio non esiste
più. Riderebbe un ventenne cresciuto a frontalini estraibili? No. Eccetera.
Se vi vengono in mente degli esempi analoghi, cari lettori, fateceli avere.
Meglio se con qualche indicazione di autore e di data più precise di quelle
che vi ho dato io (chiedo scusa ma sto andando a memoria).
Il meccanismo funziona anche al contrario. Cioè: raccogliere cose che
accadono davvero oggi e che diventano battute se trasportate qualche anno
fa. Il gioco può consistere nel domandarsi: in che film, in che libro, quale
autore, quale comico avrebbe potuto usare questa gag? Chi avrebbe potuto
inventare il presidente degli Stati Uniti (Il Presidente Degli Stati Uniti) che
convoca conferenze stampa per parlare alla Nazione di Pompini?
Peter Sellers in film pre-demenziali tipo Magic Christian (credo 1969)?
L'eterno Allen in un qualunque punto della prima fase della carriera?
Bramieri nel suo repertorio "per adulti"?
E cosa poteva essere l'espressione "utero in affitto" che oggi gli speaker dei
Tg dicono con la faccia compunta?
Una canzone di Gaber negli anni di "Libertà obbligatoria"? Una
provocazione di Luca Goldoni nella terza pagina del Corriere anni settanta?
Un'invenzione linguistica della Sora Cecioni al telefono? Eccetera.
Lo chiamiamo gioco per comodità, in realtà nasconde la disperazione del
comico che oltre al consueto incubo del "questa è già stata usata quindi non
la posso più usare io" vive anche quello del "questa fino a stamattina era mia
ma me l'ha appena rubata la realtà". Comunque il gioco adesso è aperto, a
voi la battuta.
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer

Direttore responsabile:
Danco Singer

Hanno collaborato:

Gianni Granata, Mario Calabresi, Furio Colombo, Roberto Maragliano, Sylvie Coyaud, Aldo Grasso,
Paolo Palazzi, Carlo Boccadoro, Giuseppe Pontiggia, Domenico Fiormonte, Umberto Eco, Marco Belpoliti,
Oliviero Ponte di Pino, Liam Email, Walter Fontana, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Silvia Cristin, Emilia Audino,
Massimo Amato, Stefano Mazza, Elisa Mazzini e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo Italia Online


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Salve a tutti!
Siamo a dicembre e abbiamo saltato un mese, lo sappiamo. Una decina di numeri fa avevamo giurato che non
sarebbe successo più e ora ci vediamo costretti a chiedervi nuovamente scusa. Se vi diciamo che abbiamo avuto
un complicato trasloco ci perdonate? Ci piace pensare di sì.

Vi offriamo questa volta un numero molto vario; la parte più sostanziosa è nata dalle riflessioni intorno al
concetto di perdono nell'Ebraismo e nel Cristianesimo: Di Segni e Urso ce ne spiegano i principi fondamentali,
anche nella prospettiva storica. La questione è legata alle recenti esternazioni del papa, al Mea Culpa:
provocherà crisi di identità? Ne parla Ugo Volli.
Nel frattempo, Cardini discute di scuola e Palazzi della riduzione dell'orario di lavoro. Claudia Winkler ci offre
un nuovo spunto: data l'importanza sempre maggiore dell'Information Technology, è ancora attuale la pretesa
superiorità della cultura umanistica ed è questa in grado di adeguarsi alla necessità di una Nuova Cultura?
Siamo curiosi di sapere cosa ne pensate voi, infatti abbiamo aperto un forum.
Infine, un po' di televisione: Siliato cerca di fare luce intorno all'argomento ascolti TV mentre con la seconda
parte dell'Enciclopedia della Televisione di Aldo Grasso rinnoviamo l'invito a inserire le vostre "voci", per
crearne una che sia di tutti (voi e noi).

Un ultimo sguardo al sommario....Ah, come al solito, le nostre rubriche!

Fatevi sentire presto, ci siete mancati.


Grazie, "Maestro inverosimile"
Francesco Ranci Il 2 dicembre 1997 è morto Silvio Ceccato. I suoi originali contributi di
studioso dell’attività mentale sono stati poco scrupolosamente considerati
dalla comunità scientifica. Negli anni che vanno dal 1947, quando propone
di considerare operazioni di "paradigmazione" come caratterizzanti il
metodo scientifico e fonda, con Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino, la
Scuola Operativa Italiana (S.O.I.), al 1990, in cui pubblica delle "Lezioni di
linguistica applicata", si compie un itinerario di ricerca che, curiosamente,
non assurge mai agli onori della critica ben argomentata. Eppure, da 1949 al
1965 la rivista internazionale "Methodos", fondata e diretta da Ceccato,
Somenzi e Vaccarini, con l’apporto redazionale di Ferruccio Rossi-Landi,
oltre ad ospitare contributi di autori come Jean Piaget e Charles Morris,
Norbert Wiener e Alan Turing, ancora sconosciuti al pubblico italiano,
presentava i cospicui risultati del lavoro della S.O.I., dalla critica radicale
della filosofia, definita, come ambito, dall’assunzione di un significato
irriducibilmente metaforico del verbo "conoscere", alla proposta di una
"metodologia operativa" che per "conoscere" intende la ripetizione di un
operare e per "mente" un collettivo di operazioni. Eppure, per riprendere il
concetto dello "strano silenzio", dal 1957 alla seconda metà degli anni ’60,
dirige il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche dell’università di
Milano, dove viene elaborata come soluzione al problema della traduzione
automatica quella "grammatica correlazionale" che la comunità scientifica
internazionale tuttora utilizza, e che è poi servita, negli anni ’70, ad Ernst
Von Glasersfeld per progettare un linguaggio con cui comunicare, tramite
computer, con la scimpanzè Lana. Già nel 1956, peraltro, con Enrico
Maretti, presentava un modellino meccanico delle operazioni mentali, un
"frammento del cervello di Adamo II". La formulazione di una teoria
generale dell’attività mentale e del pensiero considerati come funzioni di un
organo (provvisoriamente chiamato "attenzionale", riprendendo forse
un’intuizione di Paul Valéry), e del suo rapporto con il linguaggio, può
essere collocata all’inizio degli anni ’60. Nel 1969, dopo alcuni anni di
lezione all’Università di Milano, viene pubblicato il "Corso di linguistica
operativa". Subito dopo iniziano le applicazioni alla didattica elementare, i
cui risultati, che ha continuato a discutere con migliaia di insegnanti, sono
raccolti nei due volumi del "Maestro inverosimile" (1972). Al posto di una
didattica basata su assiomi e definizioni tautologiche, metaforiche, o in
negativo, come quella di "punto" come "ente senza dimensioni", viene
proposta una didattica basata su una costante ricerca di consapevolezza delle
proprie operazioni mentali.
Certo, non è questa la sede per svolgere una biografia scientifica completa
di un autore così geniale, versatile e creativo; doti, queste, ampiamente
riconosciutegli – anche nei necrologi gravemente inadeguati pubblicati dai
giornali, compresi quelli cui aveva prestato ampia collaborazione (come "Il
Corriere della Sera", "Il Giorno" e "Il Giornale nuovo"). Abbiamo trascurato
i suoi studi sulla percezione e sull’estetica, per esempio. Ma, almeno,
vorremmo sottoporre al lettore l’ipotesi – che per chi scrive è una certezza –
che si renderà necessario, da parte della comunità scientifica, rendere
giustizia a Silvio Ceccato.

Riferimenti bibliografici essenziali.


Accame Felice, "L’individuazione e la designazione dell’attività mentale",
Espansione, Roma, 1994.
Ceccato Silvio, "Un tecnico tra I filosofi", Marsilio, Padova, 1964-1966.
Somenzi Vittorio, "Tra fisica e filosofia", Abano Terme, Piovan, 1989.
Vaccarino Giuseppe, "Prolegomeni, vol. I", Società Stampa Sportiva –
Divisione Cultura e Scienze, Roma, 1997.
Von Glasersfeld Ernst, " Linguaggio e comunicazione nel costruttivismo
radicale", Cittastudi, Milano, 1989.
Identità a confronto
Ugo Volli Di Ebraismo si continua a discutere. Anche su Golem. Situazione
imbarazzante per chi, come ebreo, è insieme soggetto e oggetto della
discussione. Non sarebbe forse meglio parlarne un po' meno, lasciare alle
sue giuste dimensioni di estrema minoranza (trentamila persone, più o meno
lo 0,05 per cento) il fenomeno ebraico in Italia? Non vi è qualcosa di
sospetto in tutta questa attenzione? Un protagonismo eccessivo da parte
ebraica? Un qualche sospetto o coda di paglia dalla parte dei non ebrei che
se ne occupano? Si aprono qui questioni numerose e imbarazzanti.

Per esempio che cos'è oggi essere ebrei? La legge religiosa è al proposito
molto precisa e - alla maniera di certe definizioni matematiche - ricorsiva: è
ebreo chi è figlio di madre ebrea. I padri non contano qui: pratica della
diffidenza. Si va dai figli alla madre, su per le generazioni, fino a Sara,
moglie di Abramo. Che naturalmente non era ebrea di nascita. Come le
mogli di tutti i patriarchi e anche di Mosé, e quella Tamar, moglie di Jehuda,
da cui discende il re Davide e deve venire il Messia: paradossi del
patriarcato.

Questa definizione giuridica riguarda però solo i soggetti interessati. Ma che


cosa abbiano essi in comune, quale sia la loro identità collettiva, oggi è un
problema. L'ascendenza comune, l'etnia? Pochi accetterebbero di
autodefinirsi in quel modo. Oltretutto ebrei si può diventare. E' difficile,
l'Ebraismo non ama i proseliti, ma non impossibile. Allora, forse, la
credenza. E' una religione, essere ebrei? Si tratta di essere, come si diceva
un tempo, italiani (tedeschi, francesi, greci ecc.) "di fede mosaica"? Né
Einstein, né Freud, né Primo Levi rientrerebbero in questi limiti. E allora:
una tradizione? Un destino? Un'identità? Tautologie. D'altro canto i sospetti
di "internazionale ebraica" che ancora trovano ascolto (critico sì, ma non
scettico) nel libro di Sergio Romano, lasciano l'ebreo sconcertato e magari
indignato, col senso di una violenza subita.
Meglio sarebbe certamente pensare a quel senso di passaggio che c'è
nell'etimologia della parola ivrì (da cui ebreo) o a quella zoppia non solo
simbolica con cui Giacobbe paga, dopo la lotta notturna con l'Angelo, il
nuovo nome di Israel, "chi lotta con Dio": figure dello spaesamento,
dell'handicap, della debolezza...
Difficile riconoscere in queste immagini archetipiche di esilio e di ferita le
congiure antinazionali della propaganda antisemita (fin dai tempi del
Faraone: Es. I, 8-9) o la politica di potenza di uno stato. Vi appartiene anche
la coscienza, chiarissima nella tradizione ebraica anche se oggi spesso
lasciata in ombra, di non essere autoctoni in una terra che, proprio per essere
promessa, non è mai un possesso acquisito. Anche qui colpisce una
coazione a ripetere e una generale rimozione.

Il problema dell'identità ebraica non è estraneo ai discorsi intorno


all'Ebraismo che si fanno, perché su di esso e sulle sue ambiguità si radica la
differenza fra l'immagine interna e quella esterna dell'Ebraismo: come non
leggere senza dolore il titolo di un settimanale che proclama il nostro
"secolo dell'Ebraismo"? Il secolo di Auschwitz e della distruzione della
tradizione yiddish? Se gli ebrei hanno avuto accesso alla cultura occidentale,
influenzandola in maniera importante, questo è avvenuto al prezzo di una
strage culturale, oltre che fisica. L'assimilazione, la trasformazione
dell'Ebraismo in uno stato particolare e in una religione vaga e disinnescata
(che sono la ricetta di Sergio Romano) non era l'utopia dominante fra gli
ebrei tedeschi sterminati dal nazismo anche per questa loro indistinguibilità?

Nel dibattito corrente sull'Ebraismo non rientra solo un pamphlet come


quello di Romano, che sotto una indubbia lucidità politica lascia trasparire
una fondamentale incomprensione della tradizione culturale ebraica. Vi è un
evento molto più significativo e coinvolgente per l'identità ebraica come per
quella cattolica: il gesto di scusa del papa. Non vi è in esso semplicemente
la presa d'atto della viltà politica del Cattolicesimo di fronte all'Olocausto.
Debitamente compiuto (come ancora non è stato del tutto), la scusa sarebbe
un atto importante: per decenni la Chiesa ha negato la propria complicità
pratica e morale nello sterminio nazista. Si pensi alle polemiche degli anni
Settanta sul Vicario, dramma in cui si esponeva la responsabilità di Pio XII.
Oggi è facile riconoscere che questa complicità c'è stata, anche se magari
non maggiore di quella di altre spettabili istituzioni umanitarie, dalla Croce
Rossa alle chiese protestanti, dal governo britannico a quello americano,
almeno fino a una certa fase della guerra. E naturalmente anche a fianco di
qualche generoso atto individuale. Quasi sempre la complicità è stata
silenzio e accettazione passiva; talvolta, come in Slovacchia e in Croazia, è
stata attiva collaborazione. Parlarne francamente è già un passo importante.

Nelle scelte del papa vi è però molto di più: il tentativo di analizzare e di


superare le radici dell'odio antiebraico che ha caratterizzato così
profondamente la tradizione cattolica, fin dall'origine, dai Vangeli e dalle
Lettere di San Paolo, e che spesso si è tradotto in atti, dalle piccole
vessazioni alle discriminazioni giuridiche alle grandi persecuzioni e alle
stragi di massa. Non si tratta semplicemente di eliminare dalla liturgia le
espressioni antiebraiche ("i perfidi Giudei" del Venerdì Santo, che è stato
cassato non molto tempo fa) o di lasciar cadere l'assurda accusa collettiva di
"deicidio" - scelte importanti, doverose, ma impensabili prima del Concilio
Vaticano. La Chiesa si impegna qui a qualcosa di molto più difficile, cioè a
ripensare la propria identità. E' abbastanza evidente, a chi consideri il testo
evangelico e i fatti storici noti, che la predicazione di Gesù era un tentativo
riformatore interno all'Ebraismo. Anche la proclamazione come messia, che
avviene solo alla vigilia del supplizio, non esce affatto dal quadro ebraico.
Gesti del genere sono stati parecchi nella storia di Israele. In un contesto
storico non troppo lontano da quello di Gesù, uno dei più grandi maestri del
Talmud, rabbi Aquiva, credette a un'altra proclamazione, quella del leader
nazionalista Bar Kochbà, e fu torturato a morte dai romani.

Il Cristianesimo originario fu una corrente riformista del multiforme


panorama religioso ebraico, o al massimo un'"eresia" (ammesso che il
termine abbia senso in un contesto non dogmatico come l'Ebraismo). La
rottura avvenne dopo, quando Paolo di Tarso diventò l'Apostolo dei Gentili,
cioè pretese di fare quello che Gesù non aveva assolutamente cercato:
l'emancipazione del Cristianesimo dall'Ebraismo, la sua diffusione al mondo
pagano (Cattolicesimo, da kath' olos, l'universalismo dell'erga omnes), fino
all'abolizione della Legge "antica" in favore della "nuova" fede. Non è
possibile discutere in una sede come questa delle enormi implicazioni e
delle motivazioni di tale scelta. Certo che essa fu traumatica, comportò una
lotta nell'ambito delle prime comunità cristiane (di cui si trova chiara traccia
negli Atti degli Apostoli) ed ebbe conseguenze pesantissime per gli ebrei.
Solo con un Cristianesimo esterno all'Ebraismo, infatti, ebbe senso dar colpa
agli ebrei della morte di Cristo; solo dopo che questa esternità fu stabilita si
rese necessaria la scelta fra Ebraismo e Cristianesimo; solo così si verificò
lo "scandalo" della mancata conversione degli ebrei, certamente
delegittimante, rispetto alla pretesa della Chiesa di essere "erede" della
tradizione biblica e dei suoi patti. Da questa catena di eventi teologici derivò
la necessità di svalutare doppiamente l'Ebraismo, come religione "antica", in
quanto "superata" dal nuovo messaggio cristiano, e come popolo peccatore e
"ostinato" nel non redimersi attraverso l'unica via possibile, quella di
convertirsi confondendo la propria identità con quella generale cattolica e
confermando così la sua pretesa all'eredità di Abramo e Mosè.
Nel giro di pochi decenni tutti questi passaggi dall'appartenenza
all'estraneità alla condanna furono bruciati e consegnati definitivamente alla
tradizione cristiana dall'apostolato di Paolo. La posizione degli ebrei nel
mondo cristiano - testimoni che non si possono distruggere, ma che si
rifiutano di compiere la loro testimonianza, "antichi" avi da conservare ma
da discriminare, popolo di Gesù e degli apostoli, ma deicida: tutto questo fu
fissato definitivamente e con esso le paradossali conseguenze di una
persecuzione che ha mirato a piegare, a umiliare, a deprimere la cultura, non
direttamente a distruggere le persone.
Se il papa è deciso a rivedere questo nodo oggi, si trova dunque a dover
rifare i conti con elementi centrali dell'identità cristiana, a dover riconoscere
per esempio che molti riti e simboli e concetti e gesti cristiani sono ebraici,
non solo perché provengono dall'"Antico" Testamento, ma dalla viva pratica
del popolo di Israele; a dover capire che è sbagliata la contrapposizione fra
"antico" e "nuovo" nella storia religiosa del Cristianesimo e dell'Ebraismo,
ad ammettere che cioè l'Ebraismo ha continuato ha essere vivo e creativo
teologicamente e filosoficamente negli ultimi duemila anni; a eliminare per
esempio quel pensiero che informa anche il pamphlet di Sergio Romano
sulla religione ebraica "retriva e chiusa" - per non parlare dell'intollerabile
pretesa della conversione contenuta nell'idea che da Gesù in poi la Chiesa
sia il "vero Israele" e che gli ebrei dovrebbero finalmente riconoscere che il
messia che attendono è arrivato.
Non è dato sapere fino a che punto questa svolta di pensiero sia davvero in
corso in Vaticano, perché la riflessione non è pubblica se non in minima
parte. Certo che essa, per essere significativa, deve spingersi molto al di là
di ogni colpa e di ogni perdono, deve cioè collocarsi sul piano teologico e
filosofico. Se davvero ciò sta accadendo, come in parte sembra, allora si
tratta di una straordinaria occasione di riflessione, che dovrebbe essere
accolta con attenzione e speranza non solo da cattolici ed ebrei, ma anche da
coloro che si trovano a pensare in dialogo o in opposizione con queste
tradizioni. Allora sarà certamente valsa la pena di tutto questo parlare, a
proposito e a sproposito, di Ebraismo.
Sul perdono *
Riccardo Di Segni In questi giorni la Chiesa Cattolica, sia ai livelli locali (come nell'episcopato
francese) che in Vaticano, ha sollevato con clamorose iniziative il tema della
responsabilità cristiana nella persecuzione degli ebrei, e con ciò la necessità
di rivedere i comportamenti del passato. In tali occasioni si è ripetutamente
parlato di una richiesta di perdono dei cattolici agli ebrei. Davanti a questi
problemi è importante valutare quale possa essere la reazione ebraica, e in
particolare quali siano le riflessioni religiose e teologiche che possano
indirizzare il comportamento degli ebrei in dette circostanze.
Sul tema del perdono nell'Ebraismo e sulla capacità ebraica di perdonare,
ciò che in generale si conosce è una serie di informazioni distorte e
calunniose che sono proprio la conseguenza diretta di una campagna antica
e sistematica contro l'Ebraismo, condotta fin dalle origini dalle Chiese.
Secondo questa immagine distorta, l'Ebraismo sarebbe una religione basata
unicamente sulla giustizia, a differenza del Cristianesimo basato tutto
sull'amore. In realtà, entrambe le religioni, sia pure con determinate
differenze, hanno una concezione teologica nella quale tutt’e due gli aspetti,
quello della giustizia e quello dell'amore, sono presenti e praticamente
indissociabili. Secondo l'Ebraismo, l'umanità non potrebbe sopravvivere
senza la clemenza e la misericordia divina, che riconosce le debolezze
dell'uomo, ne cancella le colpe e gli concede la possibilità di ritornare sui
passi sbagliati per costruire una nuova esistenza. Dio non desidera la morte
del malvagio ma il suo pentimento, affinché viva in modo migliore. Da
queste premesse deriva un'intera costruzione teologica che esamina i
molteplici aspetti del problema. Le azioni dell'uomo hanno implicazioni su
Dio, sugli altri uomini, sulla natura. Quando si commette un'azione scorretta
bisogna ripararla, cercando di eliminare le conseguenze negative in tutte le
direzioni. Ad esempio, nel calendario ebraico esiste, come è noto, un giorno
speciale, il Kippur, che è destinato all'espiazione delle colpe commesse nei
confronti di Dio. Ma i reati commessi ai danni di altri uomini non sono
perdonati a Kippur, devono essere perdonati dagli offesi, e proprio per
questo motivo è obbligo, nei giorni che precedono il Kippur, recarsi a
chiedere scusa a chi è stato danneggiato e offeso. E, d'altra parte, l'offeso ha
un preciso obbligo di perdonare, così come viene insegnato che Dio perdona
le colpe commesse nei suoi confronti. Il ragionamento su questi principi
mette in evidenza alcuni concetti che, per quanto ovvii ed essenziali, nella
prassi comune rischiano di essere dimenticati. Ne possiamo considerare
almeno tre. Il primo riguarda lo stretto rapporto esistente tra chi commette
un reato e chi è stato offeso. E' il colpevole che deve chiedere scusa e
l'offeso che deve scusare; nessuno può assumersi il compito di chiedere
scusa o di perdonare per altri. Il secondo principio è che la richiesta di scusa
non ha senso se non c'è una coscienza della gravità del reato e un'intenzione
precisa da parte del colpevole di non commetterlo più; il pentimento vero si
riconosce quando il colpevole, messo un'altra volta nelle circostanze
identiche a quelle che avevano prodotto il reato, riesce a trattenersi e a non
ripeterlo. Il terzo principio è che ogni azione ha diverse conseguenze, sia sul
piano morale che su quello penale, quello civile o economico, e che ognuna
di queste conseguenze deve avere la sua riparazione: chi diffama una
persona non solo deve chiedergli scusa, ma deve riparare con azioni opposte
e conseguenze efficaci il danno provocato; chi ruba non solo deve ristabilire
un rapporto psicologico positivo con chi ha danneggiato, ma deve restituire
il maltolto. Per molti altri reati la riparazione non è possibile e la legge
indica la sanzione necessaria per sanare, su piani di equità, il danno inferto
al singolo e alla società, e per impedire ad altri, con il timore della sanzione,
la ripetizione del reato.
Trasferendo questi concetti generali al problema del perdono della Chiesa
agli ebrei, emergono alcune problematiche. Per quanto riguarda il passato,
c'è da rilevare l'assenza di coloro che sono stati maggiormente offesi, tutti
coloro che nel corso dei secoli sono stati umiliati, torturati, uccisi,
perseguitati anche dopo la morte. Nessuno oggi, anche se discendente
diretto, ha il diritto di cancellare con il perdono ciò che è stato fatto ad altri.
E anche dalla parte di chi ha offeso, i persecutori dei secoli scorsi non ci
sono più e coloro che oggi presiedono le stesse istituzioni non possono
parlare a nome dei predecessori. Il passato non si può cancellare, ciò che è
stato è stato e deve servire a monito per il futuro.
Per quanto riguarda questo secolo, bisogna fare un'ulteriore distinzione: non
si può dimenticare che non pochi dei "persecutori", coloro che condividono
e trasmettono le tradizionali dottrine di opposizione cristiana all'Ebraismo,
sono ancora vivi e attivi. E non è la loro voce che si ascolta in questi giorni,
quanto quella di altri, innocenti o pentiti, che condividono la loro fede e che
giustamente si vergognano di loro. In questi termini parlare di perdono è
fuorviante. Non si possono confondere due diverse realtà. Una è l'intenzione
viva e sincera di costruire un nuovo rapporto con l'Ebraismo, eliminando o
rivedendo nella tradizione cristiana tutti gli insegnamenti aggressivi
antiebraici (ed è un dato estremamente positivo, che merita tutta l'attenzione
e il sostegno). L'altra è la pretesa di chiamare tutto questo con il nome di
"perdono", come se ciò potesse essere chiesto o concesso, con il rischio di
nascondere con un velo pietoso l'enormità dei delitti compiuti per secoli,
con determinazione perversa e recidiva; questa del "perdono" sarebbe solo
un’ipocrita liturgia, offensiva per tutti. La richiesta di "perdono" può partire
solo da responsabili viventi, pentiti, ed essere diretta a coloro che sono stati
da loro offesi; le possibilità che questo si verifichi sono estremamente
ridotte. Una volta chiarito che non di perdono bisogna parlare, se non in casi
del tutto particolari, bisogna anche indicare gli altri aspetti del problema che
rischiano di restare insoluti sotto la cortina liturgica delle cerimonie di
perdono.
Il processo di revisione oggi avviato con notevole fervore va condotto con
rigore e obiettività: anche se c'è molta autocritica, questo può portare
all'autoassoluzione o alla banalizzazione e alla relativizzazione delle azioni
commesse che, come ha sottolineato il rabbino Bahbout (nell'intervista
all'Unità dell'8.10.97) vanno riconosciute nella loro realtà, che non è quella
di incidenti di percorso, quanto quella di crimini contro l'umanità. Il
riconoscimento delle responsabilità non può essere generico, ma deve
coinvolgere caso per caso, dalla responsabilità precisa dei singoli leader
(santi, pontefici, dottori della Chiesa), alla individuazione delle vittime
(battesimi forzati, famiglie distrutte, beni confiscati ecc.). Dal punto di vista
teologico inoltre, la dottrina cristiana sull'Ebraismo attende ancora una
revisione radicale, che gli riconosca un ruolo indipendente e autonomo nella
salvezza e in tal modo lo ponga al riparo da qualsiasi tentativo di
evangelizzazione. E, infine, tutto questo rischia di restare lettera morta se
non viene accompagnato da una informazione sistematica e diffusa, in grado
di rieducare milioni di fedeli ad un rapporto nuovo e costruttivo con
l'Ebraismo che continua ad essere presentato, anche ai nostri giorni, con i
caratteri negativi (di religione antica e superata, imperfetta perché senza
Cristo, formalista ecc.) che la tradizione cristiana gli ha attribuito per secoli.

Di imminente pubblicazione sulla rivista Triangolo Rosso dell'ANED


Il concetto di purificazione nella polemica anticristiana
Giampaolo Urso Le attestazioni più famose della polemica anticristiana sul concetto di
katharsis (purificazione) si trovano nelle fonti pagane sulla conversione di
Costantino. L’esempio più antico è contenuto nei Cesari di Giuliano
l’Apostata. L’opera, composta nel 362-63, descrive un banchetto offerto da
Quirino agli dei e agli imperatori, durante il quale viene organizzata una
gara tra Alessandro Magno, Cesare, Augusto, Marco Aurelio, Traiano e
Costantino, per determinare chi sia stato il più grande. Alla fine della gara,
Zeus invita gli imperatori a scegliersi un dio come protettore e guida;
Costantino, però, non si affida alle divinità olimpiche, ma avendo scorto
poco distante la Mollezza le va incontro; essa lo accoglie con un abbraccio,
lo adorna con vestiti multicolori e lo porta alla Dissolutezza, presso cui si
trova anche Gesù, che sta predicando e dice "Chi è corruttore, chi è omicida,
chi è maledetto e infame, stia tranquillo; avendolo lavato con quest’acqua lo
renderò subito puro (katharos) e qualora ricada di nuovo nelle stesse colpe
gli concederò di ritornare puro se si batterà il petto e si percuoterà la testa";
Costantino decide allora di seguirlo (Caes. 336). Giuliano stabilisce qui un
rapporto tra l’immoralità di Costantino e la sua conversione al
Cristianesimo, infatti, promette la purificazione (katharsis) ai peggiori
malfattori, per mezzo del battesimo (l’acqua) e della Penitenza (il battersi
petto e testa).
La versione pagana della conversione di Costantino è attestata anche da due
storici del IV e V secolo, Sozomeno (che è cristiano e la cita per poi
confutarla) e Zosimo. Secondo Sozomeno (HIST. I 5, 1) i pagani
raccontavano che Costantino, dopo aver fatto uccidere il figlio Crispo, se ne
pentì ed entrò in contatto per purificarsi (perì kathamou) con Sopatro, capo
delle scuola di Plotino; Sopatro però gli disse che non esiste purificazione
(katharmos) per tali crimini; l’imperatore incontrò allora dei vescovi, che gli
promisero di purificarlo (katairein) da ogni colpa, attraverso il battesimo, e
l’indussero a divenire cristiano. Secondo Zosimo (II 29), Costantino, avendo
sulla coscienza la morte del figlio Crispo e della moglie Fausta, chiese ai
sacerdoti pagani sacrifici espiatori (katharsia) per le sue colpe; ma avendo
questi risposto che non esiste purificazione (katharmos) per colpe simili, un
egiziano, che frequentava le donne del Palazzo, rivelò a Costantino che la
dottrina dei cristiani prometteva agli empi di eliminare ogni colpa;
Costantino si convertì, allora, al Cristianesimo. Anche in questo caso il
Cristianesimo è presentato polemicamente come l’unica religione che
garantisca la katharsis da tutte le colpe più gravi.
Indipendentemente dalla tradizione sulla conversione di Costantino, la
polemica contro la katharsis cristiana si ritrova in un’altra opera di Giuliano,
il Contro i Galilei (anch’esso, come i Cesari, composto nel 362-63). Qui
Giuliano affronta il tema della volgarità dei cristiani, accusati di aver
conformato la loro vita a persone della più modesta estrazione: bottegai,
esattori, ballerini, ruffiani (Gal. 238 DE). Sul piano più propriamente
morale, Giuliano afferma che precise colpe erano proprie già del
Cristianesimo delle origini, come dimostrerebbe un passo della prima lettera
di S. Paolo ai Corinzi (6, 9-11), di cui fornisce una citazione quasi testuale:
"Non illudetevi: né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri,
né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapinatori erediteranno il Regno di
Dio. E voi non ignorate queste cose, fratelli, perché anche voi eravate così.
Ma siete stati lavati, siete stati santificati nel nome di Gesù Cristo". Per
Giuliano sono parole irragionevoli: Paolo parla di un’acqua che ha la virtù
di purificare (diakathairein) da ogni bruttura e di penetrare nel fondo
dell’anima; ebbene, il battesimo non guarisce malattie del corpo come la
lebbra, la scabbia, i foruncoli, i porri, la gotta, la dissenteria, gli edemi
sottocutanei, le infiammazioni alle dita e quant’altro; è mai possibile che
esso possa guarire le malattie dell’anima? (Gal. 245)
Questa polemica è attestata anche nell’Apocritico di Macario di Magnesia
(inizio del V secolo), che cita un non meglio precisato testo pagano,
probabilmente il Contro i Cristiani di Porfirio di Tiro, composto nell’ultimo
quarto del III secolo e bruciato nel 448 per ordine di Teodosio II e
Valentiniano III. Nella sua accusa Porfirio (fr. 88) cita la prima lettera ai
Corinzi: "E tali eravate alcuni di voi, ma siete stati lavati, siete stati
santificati, siete stati giustificati nel nome del signore Gesù Cristo e nello
Spirito del nostro Dio" (è lo stesso testo citato da Giuliano, ma in questo
caso è fedele alla lettera dell’originale). Si dichiara quindi sorpreso che un
uomo possa lavarsi in questo modo da tante macchie e diventare puro
(katharos), che cioè, eliminando con il battesimo le proprie debolezze -
fornicazione, adulterio, ubriachezza, furto, pederastia, veneficio e infinite
cose basse e disgustose - venga facilmente liberato dalle sue colpe, come un
serpente depone le vecchie squame. A questo punto, continua Porfirio, ci si
chiede chi non vorrebbe commettere ogni sorta di nefandezza, sapendo che
otterrà attraverso il battesimo il perdono dei suoi crimini. E conclude che
affermazioni del genere incitano all’illegalità e tolgono efficacia alla legge e
alla giustizia stessa; esse introducono una forma di convivenza illegale e
insegnano agli uomini a non avere timore dell’empietà. Analogamente, in un
altro frammento, Porfirio afferma che nel Cristianesimo "chi è onesto non
viene chiamato" (fr. 87).
Le fonti finora esaminate forniscono attestazioni tarde di una polemica la
cui origine sembra però assai più antica. Se ne trovano infatti diverse tracce
nel Discorso vero di Celso, del 178 ca., in cui viene stabilito un paragone tra
iniziazione cristiana e quella pagana: quanti invitano ad altri tipi di
iniziazione (telete) mirante alla purificazione (katharsia) impongono come
condizione preliminare di non conoscere il male e di vivere secondo
giustizia ("Chi ha mano pura e parola assennata… chi è immune da ogni
infamia e ha l’anima incapace di ogni male ed è vissuto in modo buono e
onesto…"): ecco invece che cosa dicono i cristiani: "Chi è peccatore, chi è
ottuso, chi è puerile e, per farla breve, chi è un disgraziato, il Regno di Dio
lo accoglierà"; commenta Celso: "Per 'peccatore' non intendete forse, voi
cristiani, l’ingiusto, il ladro, lo scassinatore, l’avvelenatore, il
saccheggiatore di templi o il violatore di tombe? Un pirata non potrebbe
accogliere persone diverse?" (III 59).
Celso sviluppava ampiamente questa polemica. Il dio dei cristiani, dice il
nostro autore, è stato inviato ai peccatori; perché non agli innocenti? Che
male c’è a non avere colpe? Perché questa preferenza per i peccatori? I
cristiani dicono queste cose per esortare i peccatori, poiché non sono capaci
di attirare chi è veramente onesto e giusto. Per questo spalancano le loro
porte agli uomini più empi e abominevoli. Il loro dio, schiavo della pietà per
chi si lamenta, consola i malvagi e respinge coloro che non fanno niente di
male. Questo è il colmo dell’ingiustizia (III 62, 64, 65, 71).
I punti di contatto tra Celso e le fonti pagane più tarde sono evidenti. La
polemica è incentrata sul concetto di katharsis e l’associazione (a III 59)
nello stesso contesto del termine katharsis (purificazione) e del termine
telete (iniziazione) richiama senz’altro il battesimo. Celso, poi, sembra
conoscere il passo dei Corinzi in seguito citato da Porfirio e da Giuliano,
con cui ha in comune non solo l’elenco di peccatori, ma anche l’accenno al
Regno di Dio (il termine "Regno di Dio", già piuttosto raro nel Nuovo
Testamento al di fuori dei Vangeli sinottici, è utilizzato, nel II secolo, solo
da Celso e dai cristiani Giustino e Atenagora). Infine si può cogliere un
preciso legame tra la terminologia impiegata da Celso "Chi è peccatore, chi
è ottuso, chi è puerile e, per farla breve, chi è un disgraziato…", che, tra
l’altro, è un chiaro richiamo al formulario dei misteri eleusini, è riecheggiata
nelle parole che Giuliano mette in bocca a Gesù ("Chi è corruttore, che è
omicida, chi è sia maledetto e infame…").
La polemica sulla katharsis cristiana non è attestata prima di Celso e nasce,
dunque, verso la fine del II secolo. Non è casuale che proprio nella seconda
metà del II secolo l’accesso al battesimo sia stato regolato attraverso
l’istituzione del catecumenato, attestata nel De Baptismo di Tertulliano (203
ca.), e, in forma più compiuta, nella Tradizione Apostolica di Ippolito (215
ca.). E’ probabile che proprio il catecumenato in un primo tempo abbia
contribuito ad attirare l’attenzione dei pagani sul battesimo e quindi a far
nascere la polemica (inizialmente era stata piuttosto l’eucarestia ad essere
oggetto del loro interesse, determinando l’accusa di cannibalismo…); d’altra
parte il tirocinio imposto ai battezzandi dimostrò ben presto che, con buona
pace di Celso e dei suoi epigoni, anche l’iniziazione cristiana imponeva una
disciplina severa e precisi requisiti morali.
Su una commedia degli equivoci
Franco Cardini Ovvero, sullo scandalo d’una scuola pubblica difesa tatticamente e rovinata
strategicamente.

Sarò molto franco a rischio di parere grossolano. E non dirò cose tutte e
sempre piacevoli per alcuni: me ne dispiace e me ne scuso, ma ogni tanto
parlare chiaro non fa male.
Credo anzitutto che il problema della scuola e dell’insegnamento non vada
disgiunto da altri due, più vasti, che enumero in senso crescente di ampiezza
e di importanza, correndo per intero - conscio di farlo - il rischio di cadere
nella discussione dei Principi Primi laddove si dovrebbe restare aderenti a
una discussione importante, sì, ma in fondo circoscritta.

Primo. La questione della scuola non può essere trattata indipendentemente


dalle future prospettive di lavoro degli studenti: come insegnante, sono
conscio purtroppo di stare laureando da qualche lustro futuri disoccupati; e
del fatto che i miei colleghi docenti di scuola media, da più lustri di me,
diplomano dei futuri disoccupati. Di tutto questo mi vergogno e mi sento
stanco.
Secondo. Sono profondamente d’accordo con gli studenti che stanno
scendendo in piazza - poco e male, purtroppo - per la difesa della scuola
pubblica. Peccato che essi siano già da ora dei perdenti, insieme con me e
con tutti coloro che nella scuola pubblica credono. Perché il domani (magari
solo il domani immediato), in questo mondo che corre impazzito dietro al
vecchiume liberal-liberistico come se fosse non un ferrovecchio
ottocentesco, bensì l’ultimo strillo della moda, sta ohimé nella barbarica
logica del mercato. Nel mondo della globalizzazione, non stiamo solo
correndo verso una definitiva mercificazione di tutto, cultura compresa:
stiamo andando a gran passi - parallelamente al processo di polverizzazione
degli stati, ormai divenuti fastidiosi "corpi intermedi" che si frappongono al
totale sfruttamento del singolo da parte delle centrali ipercapitalistiche e
imprenditoriali che lavorano a livello mondiale - verso società nelle quali il
vecchio principio dell’istruzione come diritto-dovere del cittadino sarà un
lusso desueto. I ceti dirigenti avranno le loro scuole e i loro master che
consentiranno loro di perpetuare generazionalmente la loro egemonia; e chi
a tali ceti non appartiene, dovrà rassegnarsi a perpetuare generazionalmente
la sua subalternità.
È d’altro canto contraddittorio che, in una società nella quale la classe
politica - di centrodestra non meno che di centrosinistra - sembra di buon
grado disposta ad assecondare questo itinerario, solo nel caso della scuola si
continui (a parole) a difendere il pubblico contro il privato. E penso -
facendo forza al mio statalismo démodé - che se c’è un campo nel quale
invece i principi di libertà individuale vanno difesi a ogni costo, contro tutto
e contro tutti, esso sia proprio il campo della scuola. E non dico ciò soltanto
perché cattolico.
Per questo aderisco - sia pure con qualche dubbio tecnico - alla proposta del
Polo delle Libertà relativa al bonus per la scuola da attribuirsi alle famiglie,
in modo da consentire ad esse di spenderlo sul tipo di scuola che ritengono
più opportuno. Credo tuttavia che il "mercato della scuola" in questi casi si
complicherebbe di parecchio, e che sarebbe giocoforza accettare un
generalizzato meccanismo di numerus clausus istituto per istituto. Il che
includerebbe l’accettazione franca di un rigoroso metodo meritocratico per
stabilire le precedenze nella scelta dell’utilizzazione del bonus. Al tempo
stesso, credo che la correzione più giusta e plausibile all’instaurarsi di un
sistema che è comunque in marcia, e che sottintende sempre maggiori
privilegi ai ceti più forti sul piano del censo, sarebbe un massiccio impegno
pubblico in una politica di borse di studio e al tempo stesso un controllo
qualitativo (attenzione: non ideologico) da parte dello stato sulla qualità
dell’insegnamento nella scuola pubblica di gestione privata (impropriamente
definita tout court "scuola privata") e sui metodi di reclutamento del
personale insegnante all’interno di essa. Insomma: chiedo libertà di
insegnamento sul serio, diritto di reclutare insegnanti nelle scuole pubbliche
di gestione privata sulla base anche di scelte concettuali (ad esempio: siano
insegnanti sul serio cattolici a insegnare nelle scuole cattoliche), ma al
tempo stesso controllo pubblico rigoroso sui livelli qualitativi e quindi
instaurazione di un piano equo e paritario di concorrenza tra diplomati e
laureati provenienti da scuole e università diverse.
Non so e mi interessa poco se la sinistra, opponendosi al "buono-scuola",
intenda difendere l’acquisita egemonia culturale nel e sul paese, dal
momento che diffido delle dietrologie e delle "teorie del complotto" e dal
momento che in questo nostro paese l’egemonia culturale non ce l’ha
genericamente la "sinistra" bensì, molto concretamente, il PDS ex-PCI
grazie al suo ottimo apparato accademico, scolastico, editoriale,
pubblicistico, sindacale e massmediale che controlla anche parte della
pubblica funzione (per esempio il meccanismo dei pubblici concorsi
universitari e scolastici nonché la burocrazia ministeriale e scolastica
pubblica).
Ciò premesso è del tutto logico che la sinistra, fedele alla sua vocazione
statalista - che era rimasta sullo sfondo solo prima che il PDS entrasse nel
governo - ed egemonizzata dal partito di Via delle Botteghe Oscure, si
opponga a una proposta come quella del "buono scuola", che toglierebbe
fondi alle gestioni scolastiche - meglio controllabili - per affidarli alle
famiglie.
Il paradosso è che il "buono-scuola" andrebbe una volta tanto proprio nella
direzione delle liberalizzazioni che a me piacciono poco ma su cui, a parole,
c’è oggi almeno in linea di massima una convergenza piuttosto ampia delle
destre e delle sinistre.
Il punto è quindi la libertà. Lo stato retto da un governo egemonizzato dal
PDS non può mandare giù un passo liberalizzatore nella scuola perché
questo rafforzerebbe la libertà di insegnamento e di apprendimento e
nuocerebbe quindi alle egemonie consolidate.
Il punto sta prima di tutto nel chiarire che oggi in Italia la scelta di fondo per
le famiglie non è tra scuola pubblica e scuola privata, bensì tra scuola
pubblica gestita dallo stato e scuola pubblica gestita da privati: e che, se da
una parte è giusto mantenere un controllo pubblico sul reclutamento degli
insegnanti e sulla verifica del loro livello professionale (irrinunziabile nella
"scuola dell’obbligo", che va portata al più presto allo standard europeo dei
sedici anni), dall’altra non sono tanto le leggi del mercato quanto quelle
della libertà a imporre che non vi sia discriminazione tra famiglie che
scelgono una via piuttosto che un’altra. La proposta del "buono-scuola" va
in questa direzione, anche se va composta con l’esigenza primaria della
funzionalità della scuola dell’obbligo e con la necessità di elaborare mezzi
adatti alla verifica del livello degli insegnanti. Il traguardo - che mi trova
personalmente contrario - dell’assunzione degli insegnanti sulla pura base
dell’arbitrio dei datori di lavoro e delle esigenze di mercato potrebbe essere
raggiunto solo sulla base dell’abolizione del valore pubblico dei titoli di
studio. Ecco perché da una parte difendo il diritto a una scuola libera, ma
dall’altra non mi va per nulla l’eclisse della scuola di stato. Una volta
ancora, non mi interessa per nulla se questa possa venire giudicata una
posizione "di destra" o "di sinistra".

Vedi anche: La riforma della scuola


Se 35 ore vi sembran poche
Paolo Palazzi Nella discussione relativa agli effetti di una riduzione dell'orario di lavoro si
sono dette molte cose, forse troppe, e quando un argomento serio diventa di
moda è molto facile che la discussione si faccia confusa e superficiale.
In economia poche cose sono certe e una valutazione degli effetti della
riduzione dell'orario di lavoro non è esente da un elevato grado di
indeterminatezza. Una cosa però, è, a mio avviso, sicuramente certa: per
fare una discussione sensata su un argomento di questo tipo vanno evitati
ragionamenti statici. Chiarisco con due esempi come ragionamenti statici
possano portare a conclusioni errate:

a. è noto che algebricamente l'occupazione è data dal numero totale di


ore lavorate diviso per il numero medio di ore lavorate da ogni
singolo lavoratore; ma dedurre da ciò che riducendo il numero
medio di ore lavorate aumentino automaticamente il numero degli
occupati è sbagliato. Questo semplicemente perché ogni intervento
sul numero medio di ore lavorate (il denominatore) può
accompagnarsi (attraverso un effetto sulla produzione e sulla
produttività oraria) a una diminuzione del numero totale di ore
lavorate, cioè il numeratore del rapporto. Il risultato finale potrebbe
quindi essere una occupazione costante o minore.
b. Il costo orario del lavoro è definito dal salario settimanale diviso il
numero di ore lavorate nella settimana; ma pensare che se
diminuiscono le ore lavorate, a parità di salario, aumenta
necessariamente il costo del lavoro è sbagliato. Infatti, il costo del
lavoro che interessa il processo produttivo è quello per unità di
prodotto, non quello orario. Una variazione del costo del lavoro
orario potrebbe essere più che compensata con una spinta
all'aumento della produttività oraria, in modo tale che il risultato
finale potesse portare ad una diminuzione o costanza del costo per
unità di prodotto.
Il problema è che in economia non si può fare quasi mai un discorso "a
bocce ferme". Tutto varia nel tempo e tutte le variabili sono tra loro legate
con relazioni spesso difficilmente individuabili e quasi mai prevedibili. Il
caso della riduzione dell'orario di lavoro è uno di quelli in cui le previsioni
degli effetti sono vaghe e inattendibili. Allora, rimangono le due posizioni
contrapposte alle quali è ben difficile obiettare:

● per i lavoratori è meglio, a parità di paga, lavorare il meno a lungo


possibile;
● per gli industriali è meglio, a parità di paga, far lavorare il più a
lungo possibile i lavoratori.

Come uscire da questa contrapposizione tutt'altro che nuova? L'unica via


d'uscita è quella di fare un ragionamento dinamico, partendo dalla
considerazione che una riduzione dell'orario di lavoro è simile ad un
aumento del salario orario. Se l'Italia soltanto fosse interessata a questo
processo si avrebbero seri problemi dal punto di vista della competitività.

Gli aumenti di salario orario possono essere riassorbiti dalle imprese in due
modi: attraverso l'aumento dei prezzi o attraverso l'aumento di produttività
oraria. Un incremento dei prezzi sicuramente diminuirebbe la competitività,
rimane quindi come strategia possibile l'aumento di produttività. A questo
proposito si possono fare due ipotesi:

a. la diminuzione di orario non incentiva un aumento della produttività


del lavoro: allora, gli unici modi di riassorbire l'aumento di costo
orario sono quelli di una diminuzione di profitti, un rallentamento
degli aumenti salariali già contrattati o una combinazione dei due;
b. la diminuzione di orario incentiva un aumento della produttività, il
che compensa l'aumento del costo orario: in questo caso la riduzione
di orario sarebbe non solo indolore, ma porterebbe ad un aumento
degli investimenti.

Quale delle due ipotesi si avvererà non è possibile prevedere,


probabilmente, una combinazione fra le due. Giocheranno un ruolo decisivo
l'iniziativa dei lavoratori e quella del governo sulle politiche industriali e sul
mercato del lavoro.
Alla domanda "quali saranno gli effetti sull'occupazione?" è ancora più
difficile rispondere: essa può aumentare, diminuire o restare costante.
Dipende da un gran numero di fattori, alcuni dei quali sono stati accennati in
precedenza. Esiste però una condizione necessaria, anche se non sufficiente,
affinché una riduzione dell'orario di lavoro possa avere un effetto positivo
sull'occupazione: alla riduzione contrattuale dell'orario di lavoro deve
corrispondere una riduzione delle ore di lavoro di fatto lavorate in media da
ogni lavoratore. Che cioè i lavoratori preferiscano un aumento del tempo
libero ad un aumento di reddito, ad esempio attraverso un aumento dello
straordinario o del lavoro nero. Ma questo si scontra contro due grossi
ostacoli: l'interesse degli industriali ad utilizzare lo straordinario invece
delle assunzioni (costa di meno) e la spinta delle famiglie ad un maggior
reddito e ad un maggior consumo. Ma questo è un altro discorso.
Il Nuovo Rinascimento
Claudia Winkler Con l'inizio degli anni ’80 e cioè da quando siamo entrati nell'età della
"Information Technology" basata sul trinomio silicio/microprocessore -
software - Internet, si è aperta una nuova epoca di straordinaria innovazione
tecnologica e sociale che viene definita e percepita dai suoi attori principali
come Nuovo Rinascimento. La culla di questo sviluppo ha due poli: lo stato
di Washington, dove ha sede la Microsoft, il gigante del software, e la
California, dove si trovano le più importanti università scientifiche degli
USA e numerosissime aziende di software tra cui la Netscape, che ha
introdotto il mondo extra accademico alla nuova frontiera dal World Wide
Web, interfaccia utente su Internet.
L'accoppiata di questi tre fattori (microprocessori, software e Internet)
associati alla disponibilità di capitali (Venture Capital) sta generando una
vera esplosione di idee, prodotti e innovazioni che stanno modificando le
abitudini in tutte le espressioni della vita di ciascuno: scuola, casa, lavoro,
scambi internazionali, giochi di potere sul pianeta intero. Tanto per dare
un'idea, Cisco (che produce circuiti abilitanti il traffico di Internet) e Intel
(che detiene il monopolio del mercato dei microprocessori) hanno
complessivamente una capitalizzazione di mercato (pari a $206 miliardi)
superiore a quella complessiva di Ford, Chrysler e General Motors (pari a
$133 miliardi). Qualche anno fa nessuno si sarebbe immaginato una cosa del
genere, e siamo ancora agli inizi: sono tutti concordi nel ritenere che i
cambiamenti verificatisi in questi ultimi 20 anni non sono nulla rispetto a
quanto avverrà nei prossimi.
Viene da chiedersi che ruolo potrà avere l'Italia, protagonista del
Rinascimento, in tutto ciò: dato per scontato che il cambiamento avverrà in
ogni caso dobbiamo chiederci se potremo avere un ruolo attivo o se invece
lo potremo solamente subire, destinati ad essere provincia di un impero la
cui capitale è a molte migliaia di chilometri da noi. L'Italia e a tutt'oggi
dominata da una cultura prevalentemente e profondamente umanista
(passaggio chiave di ciò è stata la Riforma Gentile degli anni ’20), essa
viene ritenuta superiore alla cultura scientifica. Fa miglior figura nei salotti
chi sa di letteratura, teatro, arte, filosofia e storia di chi invece sa di scienze
e di tecnologia. Gli ingegneri e gli scienziati sono spesso non considerati
uomini/donne di vera cultura, talvolta provengono da scuole meno "distinte"
dei licei classici, in cui invece viene tramandata la cultura classica, ritenuta
l'unica che valga la pena imparare. Eppure gli italiani hanno contribuito a
livello mondiale con le loro scoperte scientifiche. Anche il primo
microprocessore è stato inventato (negli Stati Uniti) da un italiano, Federico
Faggin; alla Cisco uno dei maggiori tre Executive Vice Presidents è Mario
Mazzola, anch’egli italiano.
In un misto di sottovalutazione dei veri motori del mondo odierno (legati
appunto all’Information Technology) associata alla convinzione che basti la
cultura umanistica per risolvere tutti i problemi, siamo uno dei pochi paesi
del G7 a non avere intrapreso almeno degli studi su questa materia per
cercare di capire dove ci si voglia trovare tra qualche anno e come fare ad
arrivarci. Inoltre, manca totalmente oggi in Italia un leader carismatico della
portata di Adriano Olivetti, che sia in grado di "avere una visione" di come
può essere il nuovo futuro, che aiuti la nazione a interpretare, visualizzare e
accettare senza paure il nuovo corso e l'aiuti a traghettarsi sulla nuova
sponda. I rappresentanti locali delle società IT USA hanno puramente la
missione di consoli o prefetti delle case madri, con scopi prevalentemente di
profitto e di predominio in una logica di mercato, non in quella di fare
cultura nel nostro paese. Con "fare cultura" intendo segnare la strada del
nuovo cambiamento in modo che sia comprensibile anche secondo gli
schemi degli umanisti.
Vi sono dei casi singoli, soprattutto a livello delle università, di persone di
grande intelligenza e con grandi capacità di interpretazione del futuro; ma
queste realtà non hanno la forza sufficiente per proporre la diffusione di una
nuova cultura. Il problema è serio, perché rischiamo di venire travolti non
solo dai nuovi giochi di potere economico (siamo solo terra di conquista per
le nuove tecnologie) ma anche dai paesi che invece hanno fatto politiche
aggressive di riconversione al nuovo mondo e che hanno capito che quando
si presentano delle discontinuità nei sistemi produttivi ci si può riproporre al
mondo come nuovi leader. Si accettano proposte su come poter affrontare
questo delicato problema.

Forum: Dalla periferia all'impero?


Piccola enciclopedia della televisione italiana
Aldo Grasso Si cambia canale. E' l'unica cosa che cambia.

Avvertenze per la consultazione.


Lamentarsi non è chic, parlare male della TV ancor meno: tuttavia la vita
sociale è interamente organizzata attorno al televisore. La TV funziona
come una specie di orologio pubblico e di calendario elettronico: scandisce
le ore con appuntamenti fissi, stabilisce impegni, incontri, avvenimenti.
Nessuno strumento di comunicazione è mai riuscito a fare appello a una così
grande solidarietà nazionale, ad avere a disposizione gli arnesi di una
lusinga così universale, a cadenzare i comportamenti su una scala così vasta.
La TV è insieme vita sociale e modello di condotta: attraverso la pubblicità,
mostra come ci si deve comportare, esibisce buona creanza, dispensa regole
di bon ton.
Ma la TV è sovente intemperante, caciarona, avara di buone maniere.
Questo elenco è insieme dizionario e galateo e ha la modesta intenzione,
come suggerisce Monsignor Della Casa, di "sporre quali cose abbiano a
fuggirsi, perché spiacevoli all’intelletto".

Applausi Hamburger
Baudo Immagini
Chiusura Linea
Darsi del tu Microfono
Emblematico Non fare ...
Fanciullino Odori
Gente Pagina
Pubblichiamo la seconda parte dell'Enciclopedia di Aldo Grasso. La terza e ultima, nel
prossimo numero.
Vi chiediamo ancora di integrarla con le vostre voci. Alla fine raccoglieremo tutto e ne faremo
un'unica enciclopedia che sarà disponibile su Golem. Promesso.

Forum: Piccola enciclopedia dei lettori


Un medium saturo
Francesco Siliato Il calo degli ascolti è già terminato e il Varietà non è affatto in crisi.
Consumare televisione è tornata ad essere una delle attività predilette di
gran parte della popolazione italiana. Dopo l’allontanamento molti figlioli
prodighi sono tornati di fronte al piccolo schermo.
Per comprendere bene i dati elaborati da Auditel occorre sapere come
funziona la rilevazione degli ascolti, quali sono i parametri e come viene
effettuato il calcolo dell’audience. Altrimenti si finisce con il fare una
grande confusione, e tanta se ne è vista sulla stampa in queste ultime
settimane. Inoltre il criterio del "fa notizia" di cui sono più vittime che
protagonisti molti mezzi di comunicazione di massa, spinge a presentare ai
lettori grandi titoli sul "calo degli ascolti" o sul "crollo della televisione",
titoli che non vengono poi corretti da: "ascolti sempre più in alto" quando il
calo cessa; così l’idea che rimane al lettore è quella di una televisione in
perenne calo d’ascolto. Nelle ultime due settimane invece l’ascolto nel
"giorno medio" è risultato superiore a quello prodotto nello stesso periodo
del ’96. Nella settimana appena trascorsa il consumo di televisione ha
superato quello della corrispondente settimana dello scorso anno anche nella
fascia oraria di prima serata, fra le venti e trenta e le ventidue e trenta. E non
si tratta di cifre da poco: un milione in più in prima serata e seicentomila nel
giorno medio. Ma, e questo è molto importante, non si tratta di persone. La
misurazione dell’ascolto avviene infatti contando tutte le persone presenti
nei singoli minuti (e questi sono i contatti) divise per il numero di minuti (il
risultato è l’audience).
Un calo dell’ascolto non significa dunque necessariamente un calo delle
persone che hanno seguito i programmi televisivi ma una diminuzione del
tempo che le singole persone hanno dedicato al consumo di televisione. In
sostanza le persone potrebbero essere sempre le stesse e l’ascolto medio
cambiare a seconda che il tempo da esse trascorso a guardare la TV sia, ad
esempio, di dieci o di venti minuti. Elaborando i dati in modo un po’ più
sofisticato, come si dovrebbe fare e come si fa ad esempio nelle agenzie e
nelle concessionarie di pubblicità, per le quali è nato ed esiste Auditel, si
può andare a verificare se il calo o l’aumento di audience dipenda dal tempo
relativo trascorso a consumare TV o dall’aumento, o diminuzione, del
numero di persone che hanno passato almeno un minuto a guardarla. I dati
recenti ci dicono che il numero di persone è sostanzialmente invariato e che
l’aumento di consumo di televisione oggi è dovuto all’incremento di tempo
dedicato alla TV nelle ultime settimane. I dati ci dicono anche che ad
incrementare il tempo di consumo sono state soprattutto le donne, che in
ottobre hanno dedicato alla TV in media 310 minuti al giorno. Valore
superiore non solo a quello dell’ottobre ’96 ma anche a quello dello stesso
mese del ’95.
Il consumo di televisione è insomma ormai stabilmente altalenante e le
variabili che lo determinano sono tante, come svariate sono le concause del
suo incremento o della sua diminuzione: una partita della nazionale di
calcio, un film famoso, un "evento". In sostanza si tratta di un medium che
ha saturato le proprie possibilità di consumo. Di un medium cioè che opera
in un mercato "maturo" e le cui variazioni di consumo dipendono non più
dallo sviluppo del mercato ma dall’intensità qualitativa dell’offerta. Dove il
temine "qualitativa" va letto come significante di una corrispondenza fra le
attese dei consumatori marginali e l’offerta. La saturazione del mercato
implica infatti non già il suo crollo ma la sua stabilità. La stabilità della
televisione è formata da oltre venticinque milioni di italiani che in media la
consumano per almeno due ore fra le venti e trenta e le ventidue e trenta e
da oltre l’85% della popolazione italiana (55 milioni di persone) che
consuma televisione per "almeno un minuto" ed il cui consumo poi varia a
seconda se uomini, donne, bambini, adulti, ecc. Non esiste infatti un
pubblico della televisione; esistono tanti pubblici.
Determinata la soglia dei consumatori stabili di TV, le variazioni anche di
un milione di persone nelle due ore della prima serata rappresentano
comunque una quota inferiore al 5%. Se dunque l’entità complessiva è
consistente, non lo è per il medium. Se il Corriere della Sera perdesse un
milione di lettori, avrebbe perduto tutto ed anche di più. Se Rai Uno o
Canale 5 dovessero perdere un milione di telespettatori, ne avrebbero perso
il 5%.
La diminuzione del consumo di TV in Italia dimostra infine che il calo è
dovuto proprio al raggiunto limite nello sviluppo del mezzo e non
all’avvento dei cosiddetti "nuovi media", televisioni via cavo, pay per view,
video on demand, near video on demand, Internet, ecc. Nei paesi in cui le
imprese televisive sono capaci di elaborare strategie di lungo periodo, i
nuovi media sono serviti a riassorbire quel pubblico che, inevitabilmente, la
TV generalista avrebbe perduto. In Italia è un pubblico rimasto libero ed è
un pubblico che una volta "libero" non ha scelto la stampa come consumo
alternativo alla TV.
In realtà la crisi è quella dei quotidiani. Ammessa la loro incapacità di
trattenere il pubblico attraverso la qualità del loro contenuto lanciando
videocassette, enciclopedie, profumi e cappellini, i quotidiani hanno finito
con il sancire la perdita dell’unica loro vera risorsa: la credibilità.
Luca Beltrami e Milano
Carlo Bertelli E se, a Milano, la modernità si fosse chiamata Enrico Sommaruga,
Sebastiano Locati, Angelo Bonomi, Angelo Cattaneo o Giacomo
Santamaria, Ernesto Pirovano, Dino Castelli e Ulisse Stacchini; se insomma
la scuola di Camillo Boito avesse prevalso, che città più gradevole, elegante
e ariosa avremmo oggi! Vinse invece il grande accentratore Luca Beltrami
(1854-1933), l’uomo d’ordine e di equilibrio, che ci dette la triste piazza
della Scala, la bizzarra torre attribuita al Filarete, la banale piazza Cordusio
e l’ultimo completamento in stile del Duomo. La sua architettura esprime
buon senso sorretto dall’erudizione, la quale tuttavia non diventa mai quella
cultura che l’avrebbe dovuto trattenere dalla furia demolitrice. Demolite le
"case rotte", ultimo ricordo dei Torriani, demolite al Castello tutte le parti,
pur nobili, dovute alle trasformazioni del Cinquecento e del Seicento,
imposto dovunque uno stile neutro e accademico, per nulla lombardo: il
senatore Beltrami ha "rimodernato" la città sordo alle sue pulsioni
commerciali, alla sua apertura europea, alla sua grande potenza industriale.
Luca Beltrami è stato l’uomo giusto per una borghesia salvata da Bava
Beccaris e per un socialismo trasformista. Con lui si spegne la promessa di
modernità delle architetture di Luigi Broggi (l’autore delle Cucine
Economiche all’inizio di via Melchiorre Gioia); il suo lavoro non offre
tipologie di nessun genere, assolutamente nulla che possa diventare modello
per tutta la città. Il ritardo culturale di Luca Beltrami è impressionante. La
sua idea di città riproduce in modo meschino quella che Hausmann aveva
avuto su ben più ampia scala molti decenni prima, mentre i suoi ripristini
sono al livello di un Rubbiani, l’altro romantico in ritardo di Bologna.
Entrambi reazionari.
E’ a questo architetto nefasto per Milano, a questo esempio di erudizione
ingombrante, che la Triennale, già tempio della modernità, dedica ora una
mostra. Sarebbe stata una grande occasione per rimettere in discussione la
forma urbis ed esaminare criticamente le posizioni opposte a quelle
dell’irresistibile Beltrami che pure vi furono. Invece siamo alla pura esegesi.
Che altro aspettarsi in questi tempi di caute prudenze?
Come cronista debbo però registrare la conferenza d’inaugurazione della
mostra come un momento esilarante nella vita cittadina. Dopo il presidente
della Triennale, Alfredo de Marzio, che ha ricordato i meriti dell’istituzione,
che fioriva quando il senatore Beltrami era ancora in vita e che aveva
ospitato Walter Gropius dopo che il Bauhaus era stato messo al bando,
l’assessore regionale alla cultura, Marzio Tremaglia (AN) ha visto in Luca
Beltrami un precursore dell’autonomia regionale, dato che era stato a capo
dell’Ufficio Regionale dei Monumenti. Sennonché gli uffici regionali
furono i precursori delle soprintendenze. Erano uffici dello Stato, affidati,
quando ancora non si era formato un corpo di funzionari, a professionisti di
chiara fama. Tanto che fino a non molto tempo fa tutte le soprintendenze
erano a base regionale, ma non per questo erano autonome dallo Stato.
Più spassosa la presentazione della curatrice della mostra, l’architetto
Luciana Baldrighi, di recente laureata all’Istituto Universitario di
Architettura di Venezia. Sarà stata emozionata, ma l’abbiamo sentita dire
che Luca Beltrami si sarebbe occupato della cupola del Brunelleschi a Roma
(!), che la sua architettura era neoclassica (sic), che sapeva disegnare mentre
oggi gli architetti non lo sanno fare più, che le raccolte civiche d’arte,
presenti in forze alla mostra con prestiti importanti, ma stranamente escluse
dal comitato scientifico, erano state fra gli "sponsors" dell’iniziativa.
Insomma, c’è sempre di che consolarsi.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

L'Autogolem di questo mese è in verba singula. L'ottava strofa contiene sia


l'ultima parola del lucchetto, sia il totale (ottenuto unendo la prima parte
della parola di 1. e la seconda parte della parola di 8.).

1. FORUM TELEMATICO

Ti consente di discuter
digitando sul xxxxyyyy.

2. FAMIGLIA MODERNA

Siam piccine siam carine,


siamo nate ad Alfonsine
da una mamma molto fine.
Una ha il babbo oltre confine,
l'altra ha il babbo che fa il cine.
Siam sorelle yyyyxxx.

3. HA ESAGERATO CON LA DIETA

Se non è una gran commedia


(in tal caso, si rimedia)
sta cadendo dalla sedia
consumato dall'xxxyyy.
4. INCUBO DANTESCO DOPO UNA CENA IMPEGNATIVA

Paperino, Sergio Zavoli


Little Tony e i suoi bisavoli
bruciavano come tavoli
fra orrende grida di yyyxxxx
(saranno stati quei cavoli).

5. ORNITOLOGIA MONDANA

Molta gente c'è stasera:


il dottore e la mogliera
che cinguetta alla leggera
con quell'orrida megera
che starnazza salottiera.
"Cip cip" fa l'ereditiera.
"Quack quack quack" la romanziera.
Pare d'essere in xxxxyyy.

6. DISTINZIONI FRA GLI UMANISTI

Posso esser buon amico


di Ficino oppur di Pico,
ma allegria ed entusiasmo
me li dà soltanto Yyyxxx.

7. L'INQUINAMENTO

Etcì, ehm ehm, cough cough


non sopporto questo xxxy.

8. e totale. CONSIGLI AL CERCATORE D'ORO

Se apri gli occhi e stai attento


tu ne trovi un yxxxxxxxxx.
Sarai ricco e ben contento:
proverai xxxxxxxxxxxxx.

Soluzioni

1. COMPuter
2. uterINE
3. INEdia
4. diaVOLI
5. VOLIera
6. EraSMO
7. SMOg
8. gIACIMENTO

=COMPIACIMENTO
Donne di potere o del potere
Roberta Ribali Un intrigante quesito che passa per la mente di tutti quanti leggano il testo
del Riccardo III è: come può l’orrido Gloucester, assassino del giovane re,
marito della buona Lady Anna, convincere in pochi minuti quest'ultima,
distrutta dal dolore e dal furore, a sposarlo? Come può, con poche frasi,
indurla davanti al cadavere dell’amato sposo a capovolgere i suoi sentimenti
e a neutralizzare le sue maledizioni?
Certamente Riccardo è diabolicamente intelligente ed abile a manovrare le
persone che lui bene conosce, attivando meccanismi automatici che fanno
leva sulle nevrosi, i bisogni e le debolezze degli interlocutori per asservirli
inesorabilmente al suo volere. E certamente Anna è donna di spessore
d’animo e di sentimenti intensi, una vera regina. È proprio ciò che lei è, che
ci può dare una chiave di lettura: Anna è donna del potere, appartiene
pienamente ad esso, non esiste al di fuori del suo ruolo di regina. È sì una
buona persona, sensibile e capace di relazionarsi, così come viene descritta
nello svolgersi della sua tragedia, ma è altrettanto consapevole del suo
destino: capisce che verrà usata finché servirà all’immagine di Riccardo e
poi sarà eliminata. Ma appartiene al Potere, il suo ruolo è già scritto; al di
fuori di esso non esiste una sua identità e non è possibile per lei alcuna
ribellione. Verrà uccisa.
Quante Lady Anna conosciamo? Alcune le individuiamo facilmente nella
cronaca, le loro dinamiche psicologiche ci appaiono simili, ed evocano in
noi una moltitudine di sentimenti complessi: possono chiamarsi Dimitra
Papandreu, Jaqueline Kennedy Onassis, Stefania Ariosto ecc., ma possono
essere anche donne del nostro mondo, magari a noi molto vicine. Il Potere,
seducente padrone, utilizza queste donne in modo a volte sottile: esse
credono infatti di cavalcare la tigre, potendo spendere molto denaro,
suscitando invidia ed ammirazione, usando la loro influenza sui veri Potenti
per ottenere piccoli privilegi, raccomandazioni per gli amici, interviste in
TV. In scala minore, le conosciamo altrettanto bene: la moglie o la sorella
dell’uomo politico, la segretaria del grande medico, ma anche la compagna
del vicino di casa arricchito o la donna del bullo del quartiere.
Essere una donna del Potere significa in realtà essere una vittima ed esistere
in relazione non a quello che si è ma per il ruolo che si ha. Certamente non
tutte le donne che si muovono nell’ambito di un Potere, massimo o minimo
che sia, sono da identificarsi così: da Cherie Blair, a Carla Voltolina, la
moglie di Pertini, vivono ed hanno vissuto la loro identità, al pari, oggi, di
moltissime altre donne che portano avanti, magari con tanta fatica, un loro
percorso dignitoso e libero.
Ho assistito, come psicoterapeuta che opera a Milano, al dopo Mani Pulite.
Adesso, a distanza di anni, ritrovo ancora alcune donne svuotate, attonite,
che non hanno capito: credono di avere perso tutto, denaro e prestigio
sociale. Si sentono come bambole buttate via. Per loro è stato difficilissimo
reinventarsi un’identità, delle relazioni, un lavoro, e sono persone
sostanzialmente innocenti, perché non capivano e non hanno mai capito,
appunto.
In contrapposizione, mi capita di osservare molte donne che hanno seguito
un percorso diverso e forse speculare. Entrate in contatto con delle
dinamiche di potere, se ne sono appropriate, riuscendo qualche volta a
manovrare le leve di sé e degli altri in modo tale da dare l’impressione di
possedere qualcosa di prezioso: denaro, prestigio, successo, ai vertici di
un’azienda o gestendo un negozio o un’attività benefica o culturale. Sono le
donne di potere. Muovono soldi, persone, imprese. In famiglia sono viste
come degli importanti riferimenti, non solo per il fatto che gestiscono loro il
denaro: a capo di un’azienda o di uno stato sono efficaci, hanno imparato
benissimo la lezione impartita nei secoli dal Potere maschile e lo
riproducono, aggiungendo finezza d’intuito e seduttività. Alcune di loro
(molto poche…) vengono nello studio dello psicoterapeuta perché sono
logorate, non dormono, hanno tanta rabbia, rancore e insoddisfazione.
Esattamente come per un personaggio shakespeariano, ci si può porre la
domanda se, anche nel loro caso, il Potere sia davvero addomesticato e
asservito a loro o se, in definitiva, sia comunque lui il perverso padrone.
Naturalmente qui non ci interessano i giudizi morali sul loro operato, che a
volte può essere splendido e ammirevole. La mia è la modesta prospettiva
dello psicoterapeuta, che si interroga soltanto sulla quantità di sofferenza
umana che si accompagna a queste due posizioni del femminile: la
sofferenza c’è, ed è sempre inversamente proporzionale alla consapevolezza.
Spirito e Materia
Roberto Caselli I Pink Floyd, o meglio, quello che rimane del celebre gruppo inglese,
compie trent’anni. Tre decadi tonde tonde per insegnare al proprio pubblico
cosa vuol dire rock, psichedelia, cultura lisergica e chissà cos’altro ancora.
Tormentati fin dal primo apparire sulla scena della Swinging London, hanno
incarnato nel corso del tempo tutte le follie, le contraddizioni, le maledizioni
e le catarsi di cui è capace il rock’n’roll. Persa, subito dopo il loro primo
album, la mente creativa della band, il chitarrista Syd Barrett, preda di un
uso sempre più massiccio di LSD e di altre sostanze bruciacervello che lo
portarono ad un’irreversibile catotenia, i Floyd corsero ai ripari ingaggiando
David Gilmour che risultò fondamentale per la loro ascesa irresistibile
culminata con il celebrato Dark side of the Moon (quasi venticinque milioni
di copie vendute). Ma i travagli non finirono certo lì. La personalità sempre
più introversa ed egocentrica di Roger Waters creò ulteriori problemi che
portarono alla defezione di Rick Wright e agli scontri furibondi con
Gilmour. Dopo battaglie legali senza esclusione di colpi, Waters fu
estromesso e i restanti tre membri si rimpossessarono del nome Pink Floyd,
unico vero baluardo in grado di resistere tutt’oggi all’usura delle circostanze.
A testimonianza di questi trent’anni di vita intensa e travagliata esce un libro
che trasforma in immagini il segreto della loro musica. Spirito e Materia –
L’Arte Visionaria dei Pink Floyd, edito da Arcana, è un elegante book che
propone duecento immagini a colori tra disegni, fotografie ed elaborazioni
al computer che dal 1967 in poi hanno rappresentato la veste grafica della
loro musica. Le immagini, che originariamente hanno costituito copertine,
poster e materiale promozionale, sono corredate da un testo redatto da Storm
Thorgerson, noto designer, scrittore e regista che fece capo al mitico studio
Hipgnosis, di cui i Floyd si servirono fin dall’inizio della loro carriera e le
cui opere hanno ricevuto ben sette nomination ai Grammy.
Arricchito da una prefazione di David Gilmour, Spirito e Materia è
un’occasione formidabile per rileggere la storia del gruppo partendo da un
aspetto parallelo alla musica, da quell’angolatura intrigante e forse un po’
trascurata della multimedialità a cui i Pink Floyd ci avevano argutamente
indirizzati già tanto tempo fa.
Il mago Leonardo, i conigli e i sospetti infondati
Sylvie Coyaud http://www.mcs.surrey.ac.uk/Personal/
R.Knott/Fibonacci/fib.html

C’è un ritorno di fiamma nei confronti del caro vecchio Leonardo Fibonacci,
l’uomo che ha trasformato il calcolo in un gioco da ragazzi quando ha
introdotto in Italia le cifre arabe e, insieme, il sistema decimale indiano.
Sospettavamo un anniversario, a torto: è nato di sicuro a Pisa, ma attorno al
1170-1175 ed è morto attorno al 1250.
In libreria, comunque, sono uscite tre nuove dichiarazioni d’amore. La
prima sta all’inizio di Concetti fluidi e analogie creative (Adelphi) di
Douglas Hofstadter. La seconda compare di sfuggita in L’ultimo teorema di
Fermat (Rizzoli) di Simon Singh, perché senza Fibonacci non ci sarebbe
stato Fermat. La terza, più inattesa, è Il mago dei numeri (Einaudi), un libro
per bambini scritto da Hans Magnus Enzensberger in cui Fibonacci è
doppiamente presente, nella veste del mago protagonista e in quella del
professor Bonaccione.
Sono libri affascinanti per motivi diversi - meno riuscito l’Enzensberger, la
sua fantasia non pare all’altezza, forse gli sarebbe venuto meglio in versi? -
bisognerebbe poterli leggere incrociandoli e rimontandoli seguendo i propri
umori. Ma con i testi di carta l’operazione non viene bene.
Con Internet sì, e così si può sperimentare di persona la magia dei numeri di
Fibonacci.
Fra i tanti siti che se ne occupano, questo qui suscita un senso di meraviglia.
Un professore dell’Università del Surrey, Ron Knott (sospettavamo uno
pseudonimo, dato che il knot, o nodo, è un tema caro ai matematici, invece
no), l’ha concepito per tutta la gente che ha bisticciato con la matematica da
piccola. Niente è dato per scontato, la progressione è semplice per cui si
riesce a non perdere il filo nonostante sbuchino da ogni parte personaggi,
fiori, architetture, sezioni auree, puzzles e tasselli, conigli e consigli utili per
farseli da sé. Le spiegazioni sono in inglese, ma le cifre non hanno bisogno
di traduzione. Saltano agli occhi le simmetrie e le successioni e le loro
strabilianti assenze. Anche i più impermeabili all’improvviso dovrebbero
riuscire a vedere perché certi numeri sono chiamati "buoni" e certe formule
"eleganti".
"Il mondo matematico ci rende felici perché è fatto di libertà, di verità e di
bellezze a prova di tempo" dice Imre Toth che in quel mondo è sempre
vissuto, e forse sopravvissuto, nelle carceri dove l’avevano rinchiuso i
fascisti rumeni come nelle ovattate stanze di Princeton.
Se vi viene il sospetto che Imre Toth esageri, andate da Ron Knott e ve lo
farà passare.
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Guttuso e il Teatro Musicale

Presentazione e programma

Trash. Quando i rifiuti diventano arte

Presentazione e programma
Wassily Kandinsky

Informazioni

L'Espressionismo tedesco

Informazioni

Matisse - La Rivelazione mi è venuta dall'Oriente

Informazioni
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer

Direttore responsabile:
Danco Singer

Hanno collaborato:

Giampaolo Urso, Gianni Granata, Mario Calabresi, Ugo Volli, Paolo Palazzi, Aldo Grasso, Francesco Siliato,
Francesco Ranci, Claudia Winkler, Franco Cardini, Riccardo Di Segni, Carlo Bertelli, Roberto Caselli, Sylvie
Coyaud, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Valentina Pisanty, Massimo
Amato, Stefano Mazza, Elisa Mazzini e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo Italia Online


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E-Mail alla redazione di Golem


Cari lettori,
passate le "leggerezze" estive, siamo qui (in ritardo, è vero, scusateci!), per riproporvi argomenti un po’ più
profondi. Per lo meno ci proviamo.
La prima parte, Barriere, ci suggerisce di riflettere sui meccanismi di formazione-deformazione delle identità e
di contrapposizione e difesa dall’"altro". Furio Colombo approfondisce la questione delle spinte
secessionistiche, Massimo Ghirelli riprende il recente dibattito su immigrazione e malattia, mentre Valentina
Pisanty ci presenta una singolare revisione di certe vicende legate alla seconda guerra mondiale. Il tema sarà
ripreso nella rubrica dedicata alla Psiche: è la paura a creare unione?
Nella seconda parte Ugo Pirro e Aldo Grasso parlano di televisione, quella italiana, s’intende. Attenzione, c’è
un nuovo forum, aspettiamo i vostri contributi per poi regalarvi una sorpresa finale!
Non può mancare l’angolo del dilettevole, con Umberto Eco che ci propone un nuovo gioco: ne avevamo
bisogno.

Che altro? Da parte nostra, nulla. Ora tocca a voi nutrire Golem. Vi passiamo il testimone.

Buona lettura, e buona scrittura.


Secessione
Furio Colombo Attenzione. Queste righe sono una denuncia. E’ la denuncia di un atto grave
e di una grave omissione.
L’atto grave, perché preannuncia delitti, è il reclamo di secessione. E’
avvenuta in Italia negli ultimi mesi e la parola viene pronunciata ora con
accento di minaccia ora con bonomia, ora con l’aria che si parli di un
argomento "trattabile". La gravità italiana consiste in questo. Non esiste in
Italia alcuna linea di demarcazione storica, geografica, culturale, linguistica,
etnica che possa essere invocata come radice o come motivazione.
La secessione inventata è un atto arbitrario di pura violenza anche quando è
ancora dichiarazione verbale. Si basa infatti sulla stessa arbitrarietà delle
gang criminali che reclamano il controllo di un territorio, non perché vi sia
alcun ragionevole legame con quel territorio ma semplicemente perché così
è stato deciso con atto di prepotenza unilaterale. Si fonda sulla cultura
mafiosa che erige, per i propri interessi, un modo di agire diverso da quello
dello Stato per poter proclamare "doppia legalità". Tale dichiarazione
permette di compiere atti arbitrari sempre più vicini alla violenza fisica e
fatalmente diretti verso di essa.
La mancanza di ogni fondamento garantisce la violenza. Infatti, ogni
definizione inventata richiede di essere confermata perché nessuno la vede e
la riconosce. Dopo la prima strategia, che è fatta di frasi progressivamente
più minacciose e di annunci privi di riscontro nella realtà (o di affermazioni
costantemente inventate) diventa necessario dimostrare sul territorio le
proprie "ragioni", organizzando una mobilitazione fisica contro le persone.
Questa è la grande differenza. Se io sono scozzese, so di esserlo e so dove il
mio territorio e la mia storia sono diversi dal territorio e dalla storia di altri.
Il tentare di impiantare una atmosfera di secessione senza fondamento
richiede non solo che alcuni si assumano una identità inventata. Richiede
anche di negare ad altri la loro vera identità.
Poiché gli altri, mancando ogni fondamento o ragione storica e di cultura,
non possono riconoscere l’identità inventata, che appare priva di senso,
bisogna affermare ciò che non esiste attraverso atti fisici di imposizione
violenta. E’ il meccanismo operativo delle gang che infatti reclamano
territori che non esistono e pretendono diritti che si definiscono solo con
l’atto di forza. Quando abbastanza persone hanno capito attraverso il sangue
che da una certa strada non si passa, smetteranno di tentare quel percorso.
Questa è l’aspirazione della gang, che infatti punisce anche chi "sbaglia" in
buona fede. Perché le gang colpiscono anche i non nemici? Perché si
fondano su un diritto inventato e non esiste al mondo altro modo di mostrare
tale diritto che, senza la dimostrazione della violenza, non esiste.
Tutto ciò dimostra che chi annuncia arbitrariamente la separazione di un
territorio non identificabile ad opera di un popolo non identificato, annuncia
una azione inevitabilmente violenta. Deve diventare violenta per non
accettare la realtà di apparire ridicola.
E’ per questo che chi ascolta questi annunci di azione violenta senza reagire,
senza indicare con fermezza il punto di non ritorno che separa il ridicolo dal
delittuoso, commette un grave atto di omissione, abbandona i cittadini senza
un criterio di giudizio, senza l’indicazione autorevole dello Stato. E’ come
se la polizia di una città dove le gang avanzano pretese sui quartieri
rifiutasse di intervenire ritenendo irrilevante tale pretesa persino quando è
già iniziato il presidio di miliziani in divisa in quei quartieri, persino quando
i cittadini cercano, e non trovano, una linea guida, una direttiva di difesa
dalla preannunciata aggressione.
Tutti sanno che il separatismo è quasi sempre tragico, persino quando
fondato su antichi e radicati reclami storici, un evento traumatico ad alto
rischio di morte. Un tale reclamo, quando è fondato, richiede fermezza,
prudenza e grande saggezza costituzionale e politica. Il separatismo
inventato però è sempre portatore di esito tragico ed è omissione grave
classificarlo alla stregua di un evento di carnevale, di una parata di
maschere. E’ ciò che accade in Italia in questi giorni. Eppure è evidente la
serietà di organizzazione e di intenti del gruppo che proclama il separatismo
inventato. E’ clamorosamente chiaro che il separatismo inventato può essere
affermato solo con la violenza, perché tutta la buona volontà del migliore
tentativo di mediazione (se ci fosse) non potrebbe riconoscere e constatare i
termini del problema, perché essi non esistono. Si tratta infatti della
trasformazione in fatto fisico di tensioni, scontentezze e pensieri che non
hanno e non possono avere alcun legame fisico col territorio. Appartengono
invece alla sfera, non fisicamente tangibile della politica. La profonda
incapacità espressiva dei leader che hanno raccolto questo scontento - o una
parte di esso - li costringe a trasformare l’argomento politico in fatto fisico e
dunque in violenza.
La minaccia è seria perché serie, e anche impenetrabili e ottuse, sono le
persone che alzano questa tetra bandiera. Occorre denunciare sia il delitto
annunciato che il silenzio o le dichiarazioni di risposta bonarie e marginali
dovute a un tragico equivoco. La mancanza di fondamento del reclamo
separatista viene scambiato per mancanza di determinazione. Come se gli
atti di violenza dovessero essere sempre motivati da ragioni ferree e
scrupolosamente logiche.
Qui siamo in presenza del caso più comune di violenza, la arbitrarietà. E di
un caso eccezionalmente grave di sordità e cecità di fronte a ciò che è grave
e imminente.
La negazione della Shoah
Valentina Pisanty Di tanto in tanto, la stampa ci ragguaglia sulle attività di un gruppo di
presunti storici che si sforzano di convincere il mondo che la Shoah sia la
"grande impostura del XX secolo". Secondo questi autori, Auschwitz e le
camere a gas naziste non sarebbero altro che un'invenzione della
propaganda alleata, di matrice sionista, per estorcere ingenti riparazioni di
guerra alla Germania sconfitta, allo scopo di finanziare lo stato di Israele.
Solitamente ci si riferisce ad essi con l'etichetta di "revisionisti" (appellativo
con cui essi stessi amano autodefinirsi), ma la storiografia ufficiale
preferisce chiamarli "negazionisti". Il motivo è semplice: mentre ogni
storico che si rispetti è revisionista, nel senso che è disposto a rimettere
costantemente in gioco le proprie conoscenze acquisite qualora l'evidenza
documentaria lo induca a rivedere le sue posizioni, il negazionista è colui
che nega l'evidenza storica stessa. Per il negazionista, l'inesistenza delle
camere a gas è un dato posto come inconfutabile, a partire dal quale
riscrivere radicalmente la storia della seconda guerra mondiale, rifiutando
aprioristicamente qualunque documento o testimonianza che attesti
l'esistenza dello sterminio.
Il fenomeno non è nuovo: fin dall'immediato dopoguerra vi furono degli
autori isolati (come Maurice Bardèche e Paul Rassinier) che tentarono di
riabilitare il nazismo, cancellando quello che - agli occhi della coscienza
comune - è il crimine più grave commesso dal regime hitleriano, e cioè lo
sterminio programmato di milioni di ebrei nei campi della morte. Ma è solo
a partire dalla fine degli anni Settanta che il negazionismo ha cominciato a
ricevere un'udienza allargata e a ritagliarsi uno spazio crescente nell'agenda
collettiva. Qual è il motivo di questo cambiamento?
Innanzi tutto, è proprio verso la metà degli anni Settanta che lo sparuto
gruppuscolo di negazionisti di tutto il mondo inizia a elaborare nuove
strategie comunicative, più efficaci di quelle precedentemente adottate.
Mentre gli scritti dei primi negatori della Shoah rivelavano esplicitamente le
proprie ascendenze ideologiche (antisioniste), e dunque rientravano
agevolmente nella categoria del pamphlet politico, i nuovi negazionisti (con
Robert Faurisson in testa) fanno di tutto per conferire alle proprie
pubblicazioni un'apparenza di neutralità ideologica e di rigore scientifico.
Lo scopo dichiarato da simili autori (che rifiutano l'etichetta di antisemiti) è
di ristabilire la Verità storica, indipendentemente da qualunque movente
politico ulteriore. A tale scopo, essi prendono in prestito l'apparato retorico
tipico delle pubblicazioni accademiche e scientifiche, con tanto di
bibliografia, indice analitico, fotografie, riferimenti a documenti e ad atti
processuali, ecc.
A questa maggiore consapevolezza circa la necessità di occultare la propria
matrice razzista, si aggiunge una fortunata (per i negazionisti) convergenza
delle proprie strategie con un clima di scetticismo generalizzato che permea
l'odierno universo delle comunicazioni di massa. In un'epoca di grandi
rivisitazioni del passato (oltre che di dietrologia spicciola) come è la nostra,
siamo sempre più aperti al fascino dello scandalo epistemico, della notizia-
bomba che scuote alla base tutte le nostre certezze. Nessun dato storico è al
riparo dalla contestazione, dai viaggi di Marco Polo ai massacri di Pol Pot,
fino alla morte di Lady Diana. Si badi bene che, di per sé, la tendenza a
dubitare dell'apparenza sensibile e ad assumere un contegno scettico nei
confronti dei dati accettati non è nociva (talvolta è semplicemente poco
produttiva): tutte le rivoluzioni scientifiche traggono origine dal dubbio
circa l'adeguatezza dei modelli cognitivi ufficialmente riconosciuti.
L'aberrazione interpretativa interviene solo nel momento in cui lo
scetticismo generalizzato viene piegato alle esigenze di un movente
ideologico ben preciso.
Sfruttando il clima di relativismo diffuso, i negazionisti fanno di tutto per
gettare dubbi nella mente del lettore sprovveduto circa la realtà dello
sterminio. Si osservi, infatti, che il loro obiettivo principale non è tanto di
convincere il mondo che la Shoah non sia mai avvenuta, quanto, più
modestamente, di creare l'impressione del tutto fittizia che sia in corso un
serio dibattito tra due scuole storiche di pari legittimità scientifica: quella
"sterminazionista" e quella "revisionista".
L'operazione del diniego storico è di una facilità sconcertante: si prende una
qualunque testimonianza che attesti l'esistenza delle camere a gas, la si isola
dal suo contesto immediato, e si va alla ricerca spasmodica di tutte le
increspature esegetiche, le minime inesattezze fattuali e le piccole
contraddizioni di cui essa è portatrice (quante persone venivano stipate nelle
camere a gas? Quanto era alto l'edificio? Che giorno della settimana era
quando Himmler visitò il lager di Auschwitz?, ecc.). Quando la
testimonianza resiste all'attacco frontale, si inventano delle anomalie che
essa non contiene: ad esempio, si può sfruttare un'ambiguità terminologica
per fare dire al testo ciò che esso non dice. Il lettore, che solitamente non è
sufficientemente informato per rispondere a ciascuna di queste obiezioni
locali - e i negazionisti si guardano bene dal fornirgli le indicazioni
bibliografiche necessarie per colmare le sue lacune -, viene gettato in uno
stato di disorientamento e di paralisi interpretativa. A questo punto, la
situazione è matura per sferrare l'attacco finale: attraverso la tecnica
dell'insinuazione, si fa intendere al lettore che le "sbavature" appena
riscontrate nei documenti non sono casuali, ma fanno capo a una precisa
volontà di manipolazione a opera di "certi ambienti del sionismo
internazionale". Di lì alla logora teoria della cospirazione giudaica per la
conquista del mondo il passo è breve.
Immigrati e malattie: epidemia di pregiudizi
Massimo Ghirelli Questa volta, l’allarme parte dall’Ordine nazionale dei biologi italiani: "Il
flusso incontrollato di emigrazione verso l’Europa può diffondere malattie
infettive". Inutile la retromarcia del portavoce dell’Associazione, che
ridimensiona l’affermazione riducendola alla (piuttosto banale)
constatazione che gli spostamenti - anche quelli turistici, o per studio -
facilitano la trasmissione di malattie. Ormai la palla è lanciata; La Stampa di
Torino la riprende con un bel titolo di prima su cinque colonne: Con gli
immigrati più rischio-infezioni. Sarebbe appropriato parlare di "colonne
infami": subito, infatti, c’è chi propone di "vaccinare tutti gli stranieri" -
anche contro la malaria, per la quale non c’è vaccino, o contro la
thalassemia mediterranea, che è una malattia genetica non infettiva.
"I mass media sono ammalati di peste", ha scritto il medico Aldo Fari; e in
effetti è un’epidemia di pregiudizi quella che si diffonde in casi come questi,
o come quelli, indimenticabili ma rapidamente dimenticati, del virus Ebola o
del ritorno della suddetta peste in India. Oggi si sa molto di più sulle
malattie e sulle vie di diffusione del contagio: ma quando non si sa, o non si
sa spiegare, le vie di diffusione del panico sono molto più veloci che in
passato, proprio grazie ai mezzi di comunicazione di massa. In questo
contesto, l’immigrato portatore di virus è un’immagine di sicuro successo,
perché corrisponde sia alla necessità di trovare un capro espiatorio, sia
all’esigenza di ridefinire in termini meno rozzi il buon razzismo del tempo
andato.
In realtà, recenti ricerche della Società di medicina delle migrazioni
dimostrano che l’immigrazione in Italia non ha modificato in modo
significativo il rischio di salute pubblica. E’ l’immigrato, invece, ad essere a
rischio, per le condizioni di emarginazione che spesso finisce per trovare nel
nostro paese. Tubercolosi, infezioni alle vie respiratorie o all’apparato
digerente se le prendono qui, per la scarsa qualità delle abitazioni o la
cattiva alimentazione, non le portano con se’ dal paese di provenienza.
D’altra parte è facilmente comprensibile: lo straniero che emigra è in genere
giovane e sano - rappresentando un cospicuo investimento per i familiari
che l’anno messo in grado di partire e confidano nelle sue rimesse.
Lo confermano le cifre dell’ultimo Dossier della Caritas (1996) che,
basandosi su statistiche ufficiali, dicono che il 99,9 per cento degli
immigrati arriva sano e si ammala dopo sei mesi o un anno di permanenza
nel bel paese. Dicono anche, a conferma di questo dato, che il quoziente di
mortalità dei cittadini stranieri è molto inferiore a quello medio degli
italiani. Dicono infine - nello specifico - che le patologie infettive
rappresentano solo l’8 per cento delle malattie diagnosticate fra gli
immigrati.
Dunque, nessun allarme: anche se questo non vuol dire, naturalmente, che
tutti - italiani e stranieri - non si debbano sottoporre alle stesse regole
sanitarie (comprese le vaccinazioni, che peraltro sono già obbligatorie nella
maggior parte dei paesi di provenienza della nostra immigrazione). La
strada, come sostiene lo stesso Ministero della Sanità, è quella di garantire a
tutti gli stessi doveri e diritti: e l’assistenza sanitaria, lo ha ricordato Rosy
Bindi, è già prevista da ben tre ordinanze anche per gli "irregolari".
Nel diffondere questo ennesimo luogo comune, che identifica
nell’immigrato-untore un pericoloso veicolo di infezioni - sintetizza
Giovanni Berlinguer - si corrono tre rischi insieme. Prima di tutto, quello di
alimentare il razzismo o quanto meno la diffidenza verso lo straniero; poi
quello di trascurare, con questa scusa, le attività di controllo e di assistenza
ai malati, a prescindere dal loro status giuridico; infine, il più grave: quello
di credere che la lotta contro le malattie infettive si possa condurre erigendo
barriere e cordoni sanitari, invece che impegnandosi per risanare il mondo,
tutto intero, da tanti mali ormai controllabili e prevenibili - come peraltro è
stato già possibile fare per il vaiolo o la poliomielite.
Insomma, la salute è un bene indivisibile, anche se non tutti sembrano
averlo capito. In Russia, tre anni fa, hanno reso obbligatorio (almeno in via
di principio) il test dell’AIDS per tutti gli stranieri in arrivo, proclamando
comicamente "il diritto del popolo russo a restare sano"; ma non hanno fatto
nulla, e poco continuano a fare, per combattere l’AIDS nel loro stesso paese,
che è tra gli ultimi, per esempio, nell’uso dei preservativi.
La peste del Duemila, la contaminazione dell’"altro". Il fatto è che un
fenomeno epocale come la grande migrazione de popoli di quest’ultimo
squarcio di secolo non è facile da affrontare. Occorre far appello a valori
desueti come l’uguaglianza, o un po’ astratti come la società aperta, nello
stesso momento in cui è messa in discussione proprio la nostra cultura, e -
cancellati i confini, crollate le pareti divisorie - siamo chiamati a
condividere non soltanto le nostre ricchezze, ma anche la nostra buona
salute.
Non sorprende - come scriveva uno spaventato commentatore sulla stessa
Stampa - che le barriere immunitarie e i cordoni sanitari si rivelino
altrettanto fragili quanto quelle pareti che una volta (nemmeno troppo tempo
fa) definivano un’Europa molto più sicura di sé e della propria identità.
Non meraviglia che l’insorgere di nuove malattie, o la recrudescenza di
antiche infezioni che si credevano debellate, in paesi anche assai lontani,
possa prefigurare nel nostro spaventato immaginario lo spettro di una grande
invasione, che può passare perfino attraverso un microscopico bacillo.
Il nostro Occidente, che per tanto tempo si è attribuito un ruolo di guida, di
modello, di magistero dei valori, non può rinunciare a confrontarsi con gli
altri, anche se ora, nel momento dell’apparente trionfo, scopre tutta la sua
debolezza. Deve comprendere che per la salute è come per la democrazia,
come per la libertà: non si può vincere soltanto per se stessi, perché la
sconfitta anche di uno solo è un fallimento per tutti.
Pluralità e diversità
David Meghnagi Uno degli aspetti che più caratterizzano la società moderna è il suo
dinamismo, l’accelerazione di tempi fra loro diversi che non sempre si
integrano. Ci si rende conto di questo non appena si mette piede a New
York, una città che non a caso è assurta a metafora del moderno. La
serialità, la frammentazione della vita è l’aspetto doloroso di questa logica
che ha come contraltare un riconoscimento, unico nel suo genere, che gli
essere umani sono fatti di molte parti con cui devono imparare a convivere.
Chi non ce la fa a convivere con questa pluralità di appartenenze, che è la
vera sfida del mondo di oggi, può essere tentato di rifugiarsi nell’immagine
arcaica di una comunità incontaminata a sviluppare odio contro chi si è
"separato" o appare come l’immagine stessa della "separazione". La
xenofobia verso gli immigrati presenta non pochi aspetti di questa logica. Il
discorso antisemita ne è invece una versione storicamente collaudata, che
può essere sempre riutilizzata in tempi di crisi. Nella società odierna vi è
una fascia, che copre il dieci per cento della popolazione, che
"strutturalmente" appare incapace di convivere con i rapidi cambiamenti del
mondo odierno. Si tratta di un problema non indifferente che può assumere
caratteri esplosivi quando le istituzioni non reggono più o si mostrano
inadeguate a rispondere ai problemi vitali della gente.
L’ostilità verso gli immigrati nasce e si struttura, qui da noi, per l’incapacità
dei governi di orientare un processo complesso e variegato e dalle molteplici
sfaccettature che si vedrà moltiplicato negli effetti nel prossimo futuro. Dal
non aver fatto tesoro delle esperienze storiche accumulatesi in questi
decenni; dal ritardo con cui anche i più elementari problemi di integrazione
vengono affrontati, a partire dalla tutela del basilare diritto alla dignità di chi
viene da lontano per offrire un lavoro che nessun altro qui ormai vorrebbe
più svolgere; avendo presente che vi sono tempi culturali diversi che entrano
fra loro in contatto e talvolta possono non incontrarsi; sapendo purtroppo
che le stesse esplosioni di ostilità e di rifiuto sono talvolta "le prime forme
di comunicazione", proprie di una dinamica psicotica qual è quella che si
crea nei rapporti fra gruppi umani quando entrano in contatto per la prima
volta da posizioni asimmetriche. Ogni rapporto fra gruppi umani con
caratteristiche proprie e ben definite, anche nelle situazioni più felicemente
riuscite, è segnato da un’ambivalenza, che può essere considerata
costitutiva. In queste situazioni vi è comunque e sempre un tipo di ostilità,
che deriva non solo dalle differenze chiaramente percepibili, quali si
riscontrano nel contatto tra persone e gruppi che parlano una lingua diversa
e hanno una storia diversa, ma anche dal fatto che tali differenze risultino
appena percepibili e le persone verso cui è diretta l’ostilità parlino la stessa
lingua e risultino globalmente immerse nella stessa cultura. "Nella palese
avversione e ripugnanza provata per l’esterno con cui siamo in contatto, -
sottolinea Freud, - è avvertibile l’espressione ‘di un narcisismo che tende
all’autoaffermazione’ e si comporta come se ‘la mera presenza di uno
scostamento dalla propria linea di sviluppo implicasse una critica di questa e
un invito a modificarla’, un’aggressività che affonda le sue radici nel
dinamismo più arcaico della psiche e di cui non può sfuggire ‘il carattere
elementare’" (1). Nell’intolleranza verso che è più simile è in ballo un
narcisismo che gioca sulle "piccole differenze" (2) e le dilata arbitrariamente
per fondare un’identità carente. Si tratta di una logica che in particolari
contesti di crisi sociale, quando vengono meno riferimenti e valori comuni,
può stravolgere la percezione stessa della realtà. In tali situazioni la
nostalgia di una comunità immaginaria arcaica e incontaminata può tornare
ad esercitare un potente e pericoloso fascino, a dispetto del fatto che i dati su
cui si fonda siano puramente immaginari e non fondati storicamente. Come
dunque affrontare il problema? In primo luogo non negandolo,
riconoscendone un’origine nella logica stessa del dinamismo della società
moderna, nella necessità di governare i processi anziché subirli, di
anticiparne le conseguenze.
Valori come la multi appartenenza, il multilinguismo, possono diventare
veramente tali solo se si riesce a gestire e governare l’altro polo del
discorso, quello della frammentazione della vita insita nel dinamismo della
società moderna. Del resto non più di mezzo secolo fa la condizione stessa
di "multiappartenenza" era generalmente guardata con sospetto e
considerata una fonte di disturbi psicologici, o peggio di nevrosi.
L’apprendimento precoce di una seconda o terza lingua veniva al più
considerato come un’acquisizione di potere, un conoscere di più sull’altro e
non in primo luogo su noi stessi. L’idea che un tale apprendimento fosse
connaturato con la normalità stessa di funzionamento dell’apparato psichico
veniva a mala pena accolta (3). La possibilità che in una stessa famiglia i
genitori potessero essere portatori di più lingue senza che ciò dovesse
necessariamente implicare un conflitto, non era considerato oggetto di
studio, indipendentemente dal fatto che storicamente una tale situazione
potesse essere all’origine di una grande stagione di scoperte scientifiche nel
mondo contemporaneo. La connessione profonda che le culture nazionali
istituivano fra lingua madre e appartenenza gruppale era così forte (e lo è
tuttora, se si pensa che la definizione di popolo più comunemente accettata
include tra gli elementi costitutivi il territorio e la lingua insieme alla storia)
che l’idea di una seconda "lingua madre", veniva considerata per se stessa
un problema, se non un danno da evitare tramite la rimozione di una delle
due lingue, in genere quella socialmente "più svalutata" o meno
significativa. In tal modo, quello che era di fatto un conflitto socialmente
dato, che poteva drammaticamente attraversare dall’interno una singola
famiglia (nei casi dei cosiddetti "matrimoni misti"), era ridotto a problema
"linguistico". La scelta della lingua da insegnare finiva col sanzionare la
norma relativa a ciò che era buono conservare e ciò che andava invece
rigettato per realizzare l’aspirazione di essere membri a pieno titolo della
nazione "ospitante". Il conflitto era così trasmesso ai figli in quanto conflitto
di lingue prestigiose e lingue svalutate, con tutta la carica di ambivalenza
che ciò implica, per il fatto stesso che le lingue parlate dai genitori non sono
soltanto uno strumento di comunicazione, ma parte integrante della loro
identità; che la svalutazione di tali lingue, la loro cancellazione dalla
memoria del bambino e dal suo bagaglio culturale può coinvolgere in questa
spirale del rifiuto la persona fisica dei genitori e il Sé. Quella che
indubbiamente è una ricchezza da conservare e sviluppare per i benefici
effetti sulle modalità stesse di attività di pensiero, dei percorsi associativi e
di connessione fra pensieri e emozioni, per la possibilità che offre di uno
sguardo binoculare (4), diventa paradossalmente una stimma da occultare e
mascherare, indipendentemente dal fatto che l'intera storia psicologica dei
singoli e dei gruppi sia in realtà la storia delle molte "lingue umane" che non
si incontrano e dialogano solo parzialmente, di codici che non comunicano
fra loro se non grazie alla presenza di un traduttore, che getti un ponte fra
lingue, saperi e confini.
La necessità di governare i rapidi cambiamenti impone oggi ai singoli un
bagaglio culturale, una mentalità che è l'opposto di quella dominante nei
tempi in cui tutto sembrava immutabile; una mentalità capace di interrogare
i fondamenti costitutivi dell'identità nel suo farsi quando appare messa in
crisi da mutate e inattese condizioni di vita, o da profondi rivolgimenti
interni, per dare un senso nuovo all'appartenenza contro la tentazione di
fissarla in modelli dati una volta per sempre; non per tornare a essere
qualcosa che non è più, ma per spostare in avanti i confini del nostro mondo
interno, allargarlo anziché restringerlo, continuare nonostante tutto a sentirsi
parte di un mondo più grande, anche se all'esterno esso continua ad apparire
diviso e frantumato, o peggio sezionato da confini e steccati irriducibili.
Si tratta dunque, almeno sul piano personale, di non cadere vittima del più
arcaico dei meccanismi psichici, quello che spinge a identificarsi col proprio
aggressore, reale o immaginario che sia, interno o esterno al proprio gruppo
di appartenenza, nella vana ricerca di una soluzione personale ai problemi
della vita. Si tratta di un passaggio interno obbligatorio, sicuramente il più
doloroso da affrontare perché mette in gioco l'immagine che il persecutore
conserva negli strati più reconditi della vita interna di ognuno, che può
risultare talvolta paralizzante per la forza che esercitano nella vita più
interna le fissazioni inconsce, per il terrore che esse evocano e l'angoscia di
una ritorsione.
Posto di fronte a una debolezza, che rimanda a quella sperimentata nella
primissima infanzia, chi non ha mai provato l'impulso arcaico di fondersi e
annullarsi con chi lo domina e lo sovrasta nella tacita speranza di acquisire
quella stessa forza, o almeno di proteggersi da essa? Gli esempi di persone
che, avendo vissuto sotto sequestro, alla loro liberazione risultano ancora
come magnetizzate dal potere esercitato su di loro dai loro aguzzini e ne
parlano con riverenza e timore, se non identificazione, dimostra con quanta
intensità possa operare questo richiamo, la sua presenza in ambito di
socializzazione, nei riti di iniziazione e nei processi di integrazione fra
gruppi umani e singoli, anche di quelli più felicemente riusciti. Si tratta di
un meccanismo che può restare nell'ambito della norma quando
l'integrazione e l'osmosi fra culture, genti e persone all'interno di una stessa
famiglia, di un gruppo e di una società, si realizzano in maniera
relativamente "dolce" e indolore grazie alla presenza di forti valori comuni
che conservano intatto il sentimento della dignità dei singoli e riconoscono
come data la possibilità di un arricchimento reciproco, anche in presenza di
una relazione chiaramente asimmetrica; che può al contrario essere
all'origine di devastanti sviluppi per le menti più fragili laddove tale
"richiesta" avviene nel segno di una svalutazione totale, dove i messaggi
sono fra loro contraddittori: "devi essere come dico, ma se sei tale per ciò
stesso sei da svalutare perché non hai dignità né carattere, sei un nulla".
Oppure, il che è l'altra faccia del discorso, "se riesci così bene vuol dire che
menti e col tuo ‘mimetismo’ segretamente alberghi sentimenti ostili contro
la collettività di cui solo in apparenza fai parte". In situazioni storiche del
genere anche l'adattamento del proprio cognome alla pronuncia dei luoghi di
immigrazione può caricarsi di significati conflittuali e rappresentare un
indizio di colpevolizzazione estrema. In tali casi la rivendicazione della
propria differenza può assurgere a necessità per conservare il sentimento
della dignità e dell'integrità psichica.
Ma il passaggio all'affermazione più che legittima della propria diversità
quale espressione di un bisogno di riscatto non esaurisce il problema, né il
processo di emancipazione può dirsi concluso con l'indipendenza. Vi è
infatti un livello interno, ancor prima che esterno e culturale, rispetto al
quale possiamo non dirci interamente liberi anche laddove crediamo di
avere conquistata questa libertà: l'esempio degli adolescenti che si
contrappongono ai genitori credendo con ciò di affermare una loro distinta
identità, mentre in realtà non se ne sono inconsciamente separati, può essere
considerato paradigmatico. Laddove un singolo o un gruppo sociale o
nazionale precedentemente oppresso crede di essersi positivamente
differenziato per opposizione, può non rendersi conto di essere tutt'ora
inconsciamente fissato a quell'immagine che esternamente combatte.
Appunto perché fissato ancora a quell'immagine, gli può risultare difficile,
se non impossibile, guardare il mondo con occhi nuovi. La storia della
colonizzazione è tragicamente piena di esempi di questo tipo, sia all’interno
delle nazioni che hanno duramente lottato per l'indipendenza che in quelle
che hanno esercitato un dominio. La storia di questi intrecci potenzialmente
esplosivi è ancora tutta da scrivere e da valutare nelle sue implicazioni
politiche.
L'oppressore può essere considerato veramente vinto se ha cessato di
esercitare un dominio sulla capacità di mantenere aperti i confini interni
dell'identità e il dialogo fra le diverse province psichiche, quando si è
appunto acquisita una distanza interiore che, per quanto relativa, può
tollerare la frustrazione che deriva dal mettere in discussione, se se ne
ripresenta la necessità, le convinzioni intime e più care.
Visti da questa angolatura di pensiero, i confini apparentemente immobili e
dati una volta per tutte delle identità singole e collettive appaiono per quel
che sono: fragili e insieme necessarie costruzioni che, nelle situazioni più
riuscite, fungono da soluzioni mobili e di compromesso di bisogni opposti e
complementari: del bisogno di aprirsi al mondo, di cambiare e di
trasformarsi in funzione delle nuove esigenze e dell'aspirazione a radicarsi e
continuare a percepirsi tali. Il richiamo nazionalistico a una identità
ancestrale arcaica e incontaminata si rivela al contrario come l’esito
catastrofico di una rivolta regressiva contro il cambiamento imposto dalla
realtà dei mutamenti in atto nel mondo, l’espressione buia di una atavica
paura contro l’ignoto e il vuoto, la cui pretesa di immobilizzare entro confini
rigidamente chiusi il flusso mutevole dell’esistenza può arrivare a estendere
a un passato immaginario una costruzione fantasmatica e delirante del
presente. Il bisogno di individuarsi diventa una colpa quando a dominare è
una visione integralista della vita sociale e politica che non permette altra
espressione culturale che quella rappresentata da codici e regole rigidamente
stabiliti. In tali casi la pratica dell’occultamento e dello sdoppiamento
interiore, come la storia tragica del marranesimo in Spagna e quella più
recente degli Ebrei in Germania, può diventare una pratica che permea ogni
aspetto della vita, una necessità per sopravvivere.
In un contesto democratico e pluralistico la tensione che nasce dal contatto
fra gruppi e culture differenti assume diverse forme a seconda che vi siano o
meno valori comuni a cui richiamarsi e che siano percepiti come tali se non
da tutti, almeno dalla maggioranza della popolazione. L’assenza di tali
riferimenti, che sono il vero grande mito su cui poggia la forza aggregativa
di una società e di una cultura data, il venire meno del loro decisivo
richiamo, in conseguenza di cambiamenti improvvisi e incontrollabili, può
liberare forze distruttive letali, indipendentemente dal fatto che i pericoli
richiamati siano reali o immaginari e che, alla fine, a perdere possano essere
tutti. In questa logica infernale, che nelle sue forme estreme e razziste
ricorda per analogia il negativismo degli psicotici e la lucidità dei paranoici
(5), l’esterno può essere a tal punto identificato col principio del male da
rendere possibile la tentazione di una radicale espulsione o distruzione. In
simili situazioni l’appartenenza nazionale e linguistica, il fatto di essere
membri di un gruppo e di una religione, anziché essere considerati come il
frutto di un composito processo storico dalle molteplici sfaccettature e
dissonanze fra loro non riducibili, diventano un feticcio che non tollera
devianze. Quello che fa la ricchezza della vita di ognuno e delle nazioni, la
capacità di trasformarsi e di evolvere nell’incontro con l’Altro, può
diventare una colpa, punibile quanto più intensa è la fascinazione segreta
che il diverso esercita nei luoghi più riposti della coscienza. In queste
situazioni, l’invidia e la gelosia possono trovare una loro razionalizzazione
ideologica nell’accusa della doppia fedeltà, indipendentemente dal fatto che
la vita di ognuno sia costitutivamente fondata su molteplici fedeltà fra loro
non riducibili e non necessariamente in contrasto: la solidarietà verso i
parenti prossimi e le persone che si amano; quelle che nascono
dall’appartenenza ad una medesima associazione di cui si condividono
ideali e aspirazioni scientifiche o politiche e sociali; quelle che nascono sul
luogo di lavoro e dall’esercizio della stessa professione indipendentemente
dal fatto che questi appartengono alla stessa confessione religiosa o alla
stessa nazione, che si parlino le stesse lingue, si coltivino gli stessi interessi
e si amino gli stessi scrittori senza con ciò vivere o risiedere nello stesso
luogo. Respinta nell’inconscio l’aspirazione ad una vita pienamente
realizzata, essa riappare nella coscienza individuale e collettiva nella forma
del rifiuto svalutante verso chi, con la sua concreta esistenza quotidiana, sta
a ricordare una possibilità di vita negata, segno evidente che in determinati
strati della vita psichica, l’appello all’individuazione è sempre internamente
percepito come una aspirazione "colpevole" che ingenera angoscia. Certe
forme di fascinazione positiva e di ostilità verso gli ebrei trovano qui una
loro radice psicologica. In quanto "distinto" e "separato" dal resto della
popolazione in conseguenza di una specifica identità, l’ebreo può assurgere
a metafora di questa possibilità costituendone un paradigma.
C’è da chiedersi a questo punto se esista un modello di funzionamento
psichico che possa rappresentare, almeno in via teorica, la possibilità di una
vera accettazione del diverso. Una tale possibilità si verifica nell’amara e
insieme liberatoria saggezza di cui si fa veicolo l’umorismo nei suoi esiti più
riusciti, quando per esempio l’intero processo che va dalla creazione del
messaggio alla sua fruizione, viene scandito all’interno della stessa persona,
che può essere il singolo individuo o la collettività di appartenenza. In
questa logica si possono prendere di mira i valori più cari della propria
esistenza, ma con l’obiettivo di sconvolgere le opposte simmetrie delle
accuse e delle controaccuse a cui soggiace la vita dei gruppi, con lo scopo di
fare emergere una verità più alta che rende inoffensive le accuse inserendole
in un registro che libera significati nuovo per tutti. Si ha qui un’apoteosi di
narcisismo che trionfa sulle paure più recondite umanizzando il persecutore
più interno, vincendo la paranoia. In certe situazioni la sottile ironia, che
non è dato a tutti cogliere, può essere fraintesa radicalmente se uno degli
elementi dell’intero processo viene modificato: per esempio se il contesto in
cui viene raccontata una battuta cambia e il destinatore reale non è
chiaramente identificato con la persona del motto, se i destinatari cessano di
essere tali.
Del discorso conscio, l’umorista conserva l’attributo importante della
comunicabilità, la presenza di una funzione destinatario che dialoga, a cui si
rivolge e con cui si interagisce. Dell’inconscio egli utilizza la logica
paradossale e la forma, la capacità di condensazione e di spostamento. Nel
discorso umoristico si verifica una situazione unica nel suo genere: il Super-
Io interviene come padre consolatore e non come accusatore (6). Si tratta di
una sospensione momentanea e parziale delle costrizioni a cui soggiace in
genere la vita psichica più interna, di una emancipazione parziale dal giogo
costrittivo delle pulsioni di morte incardinate nel Super-Io, che libera
conoscenza e restituisce un senso di gioia alla vita. L’umorismo non dà
risposte definitive, non ha soluzioni palingenetiche da offrire, ma possiamo
stabilire chiaramente che la sua assenza in una data società e cultura è indice
di gravi pericoli che si addensano nella vita dei singoli.

NOTE:

1)S. Freud (1920), Psicologia delle masse e analisi dell’Io, OSF 9, p. 290.
2)Su questi aspetti cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, OSF, 10 p. 602.
3)Per un’introduzione a questi temi cfr. J. Amati, S. Argentieri, J. Canestri,
La babele dell’inconscio (lingua madre e lingue straniere nella dimensione
psicoanalitica), Milano, Cortina 1990, prefazione di O. Kernberg,
introduzione di T. De Mauro; D. Meghnagi, Il padre e la legge (Freud e
l’ebraismo), pp. 83-86.
4)Cfr. W. R. Bion, Trasformazioni, Armando, Roma, 1973.
5)Cfr. S. Freud (1925), La negazione, OSF, 10; id. (1910), Osservazioni
psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto
autobiograficamente. (Caso clinico del presidente Schreber), OSF, 10.
6)Cfr. S. Freud, (1927), L’Umorismo, OSF, 10, pp. 507-508.
La "finzione" della Rai
Ugo Pirro Fra le intenzioni, tante volte illustrate, degli attuali dirigenti della Rai e la
pratica quotidiana c'è una contraddizione vistosa che pure nessuno sembra
scorgere. Da una parte, assistiamo al recupero del repertorio dei film italiani,
ai tentativi della dirigenza Rai di partecipare a ogni iniziativa tesa alla
rinascita del nostro cinema; dall'altra, alla conservazione, se non
all'esaltazione, di modelli narrativi di elementare fattura e concezione.
Esiste una zona d'ombra in cui ogni proposito di rinnovamento è ignorato e
di fatto tacitamente contraddetto. Mi riferisco ai programmi di "finzione"
che la Rai produce o fa produrre: i telefilm, le miniserie, vanno assumendo
sempre più la struttura narrativa delle telenovelas, anche nei casi in cui la
tematica che si propone intende essere alta ed edificante. Lasciamo pure
stare l'ovvia considerazione che un tema alto pretende una struttura in grado
di cogliere il senso e andiamo avanti. Come spiegare l'accettazione acritica
di un modello tanto arretrato sia tecnicamente che culturalmente?
Incredibile ma vero: la Rai ha istituito una vera e propria scuola in cui alcuni
tecnici americani e australiani, affiancati da sceneggiatori di scarsa
esperienza, insegnano a giovani sceneggiatori come ripetere all'infinito il
modello strutturale della telenovela, basato sulla ripetizione delle
informazioni, nella convinzione che lo spettatore televisivo abbia bisogno
della sublimazione dell'ovvio per legarsi appassionatamente alla vicenda,
per annoiarsi a sua insaputa. Ma non è tutto: affinchè nessuno osi
trasgredire, a tali corsi partecipano funzionari Rai i quali avranno poi il
compito di leggere, criticare, scegliere le sceneggiature che meritano il
finanziamento e la realizzazione, con la ovvia conseguenza che molti
produttori, pur di non perdere l'appalto, si adeguano. Quando fra i funzionari
Rai capitano delle persone intelligenti e disobbedienti si riesce a sfuggire a
quelle regole ferree, ma capita anche l'inverso, di trovarsi cioè, al cospetto di
persone la cui obbedienza è spesso causata dalla povertà immaginativa.
La conclusione è che si corre, nel silenzio, anche delle associazioni autori,
verso l'omologazione del gusto, all'ingabbiamento della creatività a favore
di un unico modello narrativo palesemente estraneo al nostro cinema, ma
anche a ogni ricerca di linguaggio, a un qualsiasi tentativo innovativo.
Questi insegnanti di telenovelas e affini, secondo quanto si sa, dividono il
film in tre atti che codificano la scansione degli eventi; così, la divisione in
atti, abbandonata persino dal teatro di parole, viene assunta dalla "finzione"
televisiva quale modello insostituibile. Non basta: la programmazione delle
riprese, dei tempi, dei fabbisogni produttivi determina, il più delle volte, lo
svolgimento del racconto e non viceversa. L'ovvia conseguenza è che la
produzione televisiva, finisce coll'assumere le forme proprie del lavoro in
serie, della "catena". Perfetto: la lavorazione seriale, superata nelle grandi e
piccole industrie, rispunta nell'industria dello spettacolo, nella fabbrica Rai.
Ciò che più inquieta, è constatare che nessuno sembra accorgersi dei
mutamenti del linguaggio, della celerità dei cambiamenti che si sviluppano
non solo nel cinema americano, ma anche nelle cinematografie orientali,
inglese, danese, ecc.
Ma c'è un altro paradosso che riguarda proprio il cinema hollywoodiano:
basta osservare con attenzione i film dei migliori registi americani per
scoprire che essi con un occhio seguono la macchina da presa e con l'altro
spiano il cinema italiano degli anni ‘60.
Non sono nostalgico del cosiddetto "cinema di papà", nè del neorealismo
che, in un certo senso è divenuto un ostacolo al rinnovamento del
linguaggio. Ciò che, infatti, manca al cinema italiano, del resto condizionato
dal modello televisivo oggi in auge, è proprio uno stile all'altezza dei tempi
che aiuti a penetrare e rappresentare una realtà così sfuggente e a ricercarne
il senso attraverso immagini significanti.
Qualcuno, infine, dovrebbe avvertire la dirigenza Rai che frequentare corsi
di sceneggiatura, quale che siano gli insegnanti, non significa acquisire
all'istante la capacità infallibile di giudizio sui copioni che sono chiamati a
leggere e giudicare. Ho sentito funzionari parlare con disinvoltura
imbarazzante di "linea narrativa" e imporre delle sciocchezze che, una volta
realizzate, restano sepolte negli archivi, a futura memoria. Non si tratta di
essere contro i corsi di formazione, ma di valutarne l'indirizzo, la validità e
il metodo; di sceglierne i maestri e gli allievi con un criterio serio e
trasparente. Modelli da studiare, da smontare, rinnovare, esistono: sono la
commedia all'italiana, il film di impegno civile. Se, poi, abbiamo bisogno di
guardare lontano dal nostro cinema, un corso su Hitchcock, su Wilder o su
Bergman e Renoir, pur se affiancato all'analisi comparata dell'opera omnia
Del Boca e di altri noti autori di telenovelas, potrebbe essere di qualche
utilità.
Il modello americano, o brasiliano, di cinema e televisione non c'è bisogno
di insegnarlo; è stato già introiettato, giorno per giorno, da milioni di
spettatori. Un compito arduo, ma indispensabile, consisterebbe, semmai, nel
disintossicare il telespettatore, passivamente costretto a ingoiare una
pietanza che non cambia mai.
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Aldo Grasso Si cambia canale. E' l'unica cosa che cambia.

Avvertenze per la consultazione.


Lamentarsi non è chic, parlare male della TV ancor meno: tuttavia la vita
sociale è interamente organizzata attorno al televisore. La TV funziona
come una specie di orologio pubblico e di calendario elettronico: scandisce
le ore con appuntamenti fissi, stabilisce impegni, incontri, avvenimenti.
Nessuno strumento di comunicazione è mai riuscito a fare appello a una così
grande solidarietà nazionale, ad avere a disposizione gli arnesi di una
lusinga così universale, a cadenzare i comportamenti su una scala così vasta.
La TV è insieme vita sociale e modello di condotta: attraverso la pubblicità,
mostra come ci si deve comportare, esibisce buona creanza, dispensa regole
di bon ton.
Ma la TV è sovente intemperante, caciarona, avara di buone maniere.
Questo elenco è insieme dizionario e galateo e ha la modesta intenzione,
come suggerisce Monsignor Della Casa, di "sporre quali cose abbiano a
fuggirsi, perché spiacevoli all’intelletto".

Applausi Hamburger
Baudo Immagini
Chiusura Linea
Darsi del tu Microfono
Emblematico Non fare ...
Fanciullino Odori
Gente Pagina

Pubblichiamo la seconda parte dell'Enciclopedia di Aldo Grasso. La terza e ultima, nel


prossimo numero.
Vi chiediamo ancora di integrarla con le vostre voci. Alla fine raccoglieremo tutto e ne faremo
un'unica enciclopedia che sarà disponibile su Golem. Promesso.

Forum: Piccola enciclopedia dei lettori


Come salvare capra e tavoli
Umberto Eco Questo gioco è così stupido che più stupido non si può. Inoltre ricalca
spudoratamente una trovata di Campanile. Ma lasciamoci divertire.

Dunque, si prende un proverbio, un titolo, una frase celebre, e si cerca di


deformarlo, possibilmente con una variazione minima come una
sostituzione di vocale, ma in modo che potrebbe avere un significato, anche
se non sappiamo ancora quale. Poi si costruisce una storia di cui la frase
corretta potrebbe essere il titolo e la morale, acquistando una sublime
pienezza di senso.
Per esempio, se mi propongo di dar senso a "salvare capra e tavoli", debbo
immaginare la storia di un mobiliere, che tiene una capra come animale
domestico, e che nel corso di un incendio deve decidere se salvare l'animale
o i propri mobili, e poi ha una idea geniale grazie alla quale riesce a salvare
entrambi. Negli esempi che seguono, per ragioni retoriche, inverto le fasi, e
prima racconto la storia, poi ne fornisco la definizione.
In un film di Hitchcock, Cary Grant si trova sul lago Maggiore, inseguito da
una spia russa. In una drammatica sequenza raggiunge la statua del San
Carlone e sale sino alla testa, dove però la spia lo raggiunge. Segue una
feroce collutazione, e Cary Grant riesce a spingere l'avversario nel vasto
foro dell'occhio del santo e a farlo precipitare al suolo, dove muore
sfracellato. Sangue e Arona.
Racconta Anaïs Nin che un nativo di Bilbao, di gusti perversi, si reca a un
congresso sessuale dove cosparge una donna bellissima con una salsa
americana a base di aceto di grano e peperoni piccanti. Un bonzo, che
assiste alla scena, ne viene così atrocemente scosso che, per denunciare al
mondo la perversione di colui, si dà pubblicamente fuoco sulla pubblica
piazza. Basco, Tabasco e Venere, riducon l'uomo in cenere.
Il Murtola, notoriamente nemico di Giovan Battista Marino, invidioso del
suo bel giardino vicino a Torino, pianta davanti alla propria casa un pino, e
per anni lo cura in modo da farlo crescere alto, vigoroso e splendente. Un
giorno il Marino, mentre cavalca accanto al Duca di Savoia, passa davanti
alla casa del Murtola e prorompe in una esclamazione di ammirazione ed
incredulità per la bellezza della pianta. E' del poeta il pin la meraviglia.
Giosuè Carducci, alle fonti del Clitunno, si sente poeticamente attorniato da
driadi, fauni e ninfe boschive, e comprende che l'unica vera religione è
quella del mondo pagano. T'amo pio Giove.
Mario Calpurnio, ricco patrizio, costituisce a proprie spese una coorte di
uomini coraggiosi e la presenta al console Manilio Torquato, sollecitandone
il comando per la imminente guerra contro i Volsci. Il console gli fa notare
che la coorte non è ancora in pieno assetto di guerra e l'esorta a perfezionare
l'opera invero meritoria. Chi la fa l'assetti.
Durante un banchetto di nozze Maria, ricordando un precedente miracolo,
avverte Gesù che è finito il vino. Gesù fa riempire degli otri d'acqua, fa un
gesto, e poi mesce ai convitati un liquido che sembra Brunello di
Montalcino. Tutti bevono a garganella, ma poi prorompono in atroci
bestemmie. Si trattava di una soluzione di aceto e sale inglese. "Biricchino,
dice Maria a Gesù, una ne fai e cento ne pensi!". La Cana delle beffe.
Bossi si presenta al professor Miglio e gli espone il suo progetto di liberare
la Lombardia da tutti i meridionali, per difendere la purezza della razza. Il
professore trova il suo progetto troppo estremista e gli spiega che la
ricchezza culturale ed economica della Lombardia deriva anche da una
equilibrata mescolanza di apporti etnici. Critica della region pura.
Montale riscrive Vecchi versi per il suo amico Ismaele, nel corso di un
viaggio insensato da Bedford ai mari del sud. La falena bianca.
Il figlio dello zio del noto industriale tedesco Krupp vuole costruire
anch’egli per il Kaiser un nuovo cannone, più potente di quello che il
parente aveva intitolato alla moglie, ma intende anch’egli rendere omaggio
alla signora in questione. La cugina Berta.
Noto uomo politico sudafricano propone a un amico di giocarsi a poker tutta
la sua fortuna: se vince l’uomo politico gli darà la propria moglie. Ma lo
sfidato rifiuta. Il gioco non vale la Mandela.
Il governo inglese previene i suoi cittadini che, a causa delle mucche pazze,
per un certo periodo dovranno consumare solo cibi vegetariani. Cave
carnem.
Nazarinho Haroldo Coelho de Costa e Silva, detto "Pussy", è un viado che
pratica sui navigli a Milano, ma, di rigida educazione cattolica, consente ai
clienti ogni perversione salvo la penetrazione. Lo zoccolo puro.
Due americani, in visita nel Monferrato, decidono di sfidarsi a chi consuma
una maggiore quantità di bagna cauda, preparata con una quantità
insostenibile di aglio. De bello garlico.
Un poeta dell’Ulivo decide di scrivere un poema epico in lode del noto
produttore di caffè sindaco di Trieste. Illyade.
Anacleta Zandron, prostituta triestina settantenne, vuole sposare ricco
commerciante che cerca partner illibata. Informata dei miracoli della
chirurgia plastica si rivolge a noto professionista perché le reintegri l’imene.
Il chirurgo studia la situazione a lungo, ma decide che gli organi sessuali
della vecchia passeggiatrice sono irrimediabilmente deteriorati a causa di 55
anni di uso continuato. Mona lisa.
Tra i generali di Napoleone, Louis-Bertrand Dupont de Dupond fu il più
sfortunato. Non vi fu azione militare da cui non uscisse sconfitto, tanto che
le truppe avversarie non poterono vederlo che di schiena. Rotta continua.
Le mie possibilità di salvezza filosofica nel XX secolo - Un
teatrino dell’Io
Oliviero Ponte di Pino 0. Ludwig Wittgenstein, Kurt Gödel, Jorge Luis Borges, Raymond
Queneau...

1. essere un filosofo; voler essere un filosofo.

2. non essere un filosofo.

3. fare una lista delle mie possibilità di salvezza filosofica (questo elenco).

4. abbandonarmi all’élan vital, pur non sapendo dove mi può portare.

5. coltivare il nucleo più profondo e autentico del mio Io; resistere.

6. "autocoscienza critica"; realizzarmi.

7. Tahiti; essere altrove.

8. scoprire l’essenziale nell’inessenziale; negare l’esistenza per raggiungere


la vita.

9. sperare in un ritorno della tragedia; fare l’esperienza del limite.

10. l’"Orrore".

11. la civiltà Occidentale.

12. lo Stato etico.


13. rinunciare all’intuizione, credere nell’oggettività degli enti matematici,
creare sistemi assiomatici non contraddittori, individuare antinomie,
costruire metamatematiche di ordine superiore.

14. la prova diagonale di Cantor, il paradosso del mentitore, il principio di


indeterminazione di Heisenberg, la prova di Gödel, il test di Turing.

15. sorprendere il senso comune; riscoprire il senso comune.

16. fare a meno delle nozioni di spazio e tempo assoluti.

17. immaginare altri mondi possibili.

18 ...

19. ...

20. ...

21. il ritorno del rimosso.

22. gli archetipi collettivi; produrre miti.

23. avere coscienza di classe.

24. "che fare?"; l’estremismo malattia infantile...

25. ...

26. ...

27. ...

28. essere un Idiota (filosofico).

29. ...

30. essere un homo seriosus o un homo dramaticus? Essere una donna?

31. l’immortalità.

32. diventare un animale (un sasso, un’ombra, un computer).


33. dubitare di tutto; dubitare di dubitare; eccetera; sospendere il giudizio.

34. "il mio amore cammina preciso".

35. ...

36. ...

37. ...

38. capire perché la sequenza è incompleta; scusarsi perché la sequenza è


incompleta; offrirsi di completarla (scoprire le condizioni necessarie e
sufficienti per completarla).

39. ...

40. ...

41. ...

42. dada.

43. non-Io; la non violenza.

44. il grido primordiale.

45. ...

46. ...

47. ...

48. l’autenticità.

49. ...

50. ...

51. ...

52. costruire logicamente il mondo.


53. distruggere logicamente il mondo.

54. purificare il linguaggio; tacere su ciò di cui non si può parlare.

55. ...

...
...
...

150. adeguarmi allo spirito dei tempi; precederlo; scansarlo.

151. contare il tempo; sbagliarsi.

152. contare con esattezza tutte le mie possibilità di salvezza filosofica;


andare in ordine cronologico; stilare una graduatoria.

153. ...

154. esiste davvero una possibilità di salvezza filosofica? Più di una?

155. le mie possibilità di salvezza filosofica coincidono con le tue possibilità


di salvezza filosofica?

...
...
...

166. dimenticare; odiarmi.

...
...
...

170. vita activa.

...
...
...

189. morire nel ghetto; morire ad Auschwitz.

190. fare filosofia dopo Auschwitz; scoprire perché il più grande filosofo del
secolo era nazista.
191. Hiroshima; fare filosofia dopo Hiroshima.

192. dichiararsi colpevole pur sapendosi innocente; sentirsi colpevole pur


essendo innocente; viceversa.

193. tu, l’Altro.

194. "Non avrai altro...".

195. avere o essere? Essere ciò che sono, essere ciò che devo, avere più
dimensioni, eccetera.

196. l’engagement.

...
...
...

360. essere un dilettante.

361. indignarsi; entusiasmarsi.

...
...
...

371. essere un ladro, un pederasta, un assassino, un terrorista, un poeta,


eccetera.

372. sperimentare tutte le droghe, tutti gli stati alterati della coscienza.

373. no future; diventare punk

...
...
...

399. il significato del significato.

...
...
...
419. l’apocalisse; la società dello spettacolo.

420. ribellarsi è giusto, fare l’amore non fare la guerra, l’immaginazione al


potere, dopo marx aprile.

421. la condizione post-moderna, il pensiero debole, credere di credere.

...
...
...

448. dimostrare che Dio non gioca a dadi; dimostrare perché Dio non gioca
a dadi; studiare il caos per vincere ai dadi.

449. scoprire la Grande Teoria Unificata.

450. trasferire tutti i miei stati mentali in un computer.

...
...
...

500. fare tutte queste cose insieme; farne una sola (cambiandola di tanto in
tanto); non farne nessuna.

501. sorteggiare una possibilità di salvezza filosofica; metterla in pratica.

...
...
...

700. accorgermi di aver commesso un errore (filosofico); insistere finché


non smette di essere un errore.

...
...
...

66. sbagliare la numerazione delle mie possibilità di salvezza filosofica.

...
...
...
1000. perché?

1001. perché.

1002. ...

...
...
...

1.000.000. vivere.

...
...
...

n + 1. trovare un’altra possibilità di salvezza filosofica.

n + 2. eliminare tutte le possibilità di salvezza filosofica meno una (questa?).

n + 3. trovare una possibilità di salvezza filosofica migliore di questa.

n + 4. perché trovare altre possibilità di salvezza filosofica?

...
...
...

z. l’ultima possibilità di salvezza filosofica per il XX secolo (31 dicembre


1999, ore 23 59’ 59"...).

z + 1. un’altra.

...
...
...

nn-1. chiedere agli altri di cancellare alcune possibilità di salvezza filosofica


(quante?).

nn-1 + 1. scrivere a mail-golem@iol.it; specificare "All’attenzione di


Oliviero Ponte di Pino".
nn. chiedere agli altri di contribuire alla mia lista di possibilità di salvezza
filosofica.

nn+ 1. l’indirizzo di posta elettronica è lo stesso.

nn+1. mettere democraticamente ai voti le varie possibilità di salvezza


filosofica.

...
...
...

∞. esistono infinite possibilità di salvezza filosofica?

...
...
...
Protagonismi
Carlo Bertelli Forse non c’è mai stato terremoto senza sciacallaggio. Forse non vi è mai
stata disavventura collettiva senza protagonismi. Qualcuno in un caffè sul
molo, leggendo del Titanic, avrà probabilmente dichiarato agli astanti che se
l’era sempre aspettato e spiegato a tutti perché quella nave non potesse
galleggiare. Un terremoto come quello che ha colpito Assisi non poteva non
sollecitare i pruriti dei protagonisti di sempre. Sgarbi doveva essere il primo
a entrare nella basilica, dopo essere sicuro di essere seguito dalle televisioni.
A fare che? Per dirci che la perdita di Cimabue era come se si fossero
perduti due canti della Divina Commedia? Avrebbe fatto meglio a dirci
subito quanta parte di Cimabue era perduto, dato che le notizie che
circolavano parlavano di perdita totale. E poi si sa bene che nessun canto
della Divina Commedia può essere perduto, neanche adesso che, nelle
scuole, si studia Dante con meno rapimento e reverenza d’un tempo. Vi è
infatti una insormontabile differenza fra la parola, che può essere trasmessa
anche oralmente, e la concretezza d’un dipinto antico.

Vero e autentico sciacallaggio quello del "Giornale" di Vittorio Feltri.


Abbiamo visto in televisione due minuscoli frammenti d’intonaco affrescato
esibiti come se provenissero dall’affresco rovinato di Cimabue, a riprova
dell’inadeguatezza di quanto i restauratori stanno facendo. Nessuna prova,
per ora, che quei due pezzettini d’intonaco vengano veramente
dall’Evangelista dipinto da Cimabue e non, invece, da uno dei tanti muri
affrescati compromessi dal sisma. In ogni caso, chi li ha raccolti e li ha
portati alla redazione del quotidiano andava subito denunciato, e non
coperto con una sbandierata omertà. Da Antonio Paolucci, ex ministro e ora
alto commissario per la basilica, ci saremmo aspettati una reazione molto
più energica della smentita.

La tentazione di farsi vedere là dove tutti i riflettori sono puntati è


irresistibile. Il modo migliore per farlo è lanciare accuse agli untori. La
prima bordata è stata di Federico Zeri, di cui non si può non ammirare la
pronta reattività. La causa di quanto è successo è che circa trent’anni or sono
le travi in legno furono sostituite con travi in cemento armato. Seguirono a
ruota l’immancabile James Beck e Bruno Zanardi, del quale si rivela in
questo caso la stretta alleanza con Zeri che può comportare anche l’abiura
della fedeltà a Brandi e a Urbani di cui nei precedenti interventi pubblici
questo restauratore e articolista si era inorgoglito.

E’ rilevante che né Zeri, né Beck né Zanardi siano strutturisti. Non sanno


nulla delle interferenze delle onde sismiche, non sanno nulla dell’elasticità
che anche un giunto di calcestruzzo, a seconda della composizione e della
forma, può avere. Dalle fotografie pubblicate, che costituiscono una specie
di autopsia della basilica, risulta che il trave di cemento al colmo del tetto è
ancora al suo posto, mentre la struttura delle volte, come era inevitabile, è
indipendente dal tetto. Ciò significa che le sollecitazioni che ha ricevuto
sono state laterali e solo un’approfondita analisi, domani, sarà in grado di
dirci se la trave di calcestruzzo ha avuto un ruolo nella dinamica del crollo e
quale. In quanto a Beck, promotore d’un appello perché le opere d’arte siano
lasciate al decorso naturale, fino alla scomparsa, una morte da terremoto
dovrebbe essere celebrata da lui come un invito a nozze.

Poiché l’attenzione, sollecitata da un clamoroso volume di Zeri e Zanardi, si


è concentrata tutta sul problema Giotto-non Giotto, la stampa e i media si
sono consolati perché sembra che la leggenda di san Francesco, dipinta sulle
pareti, non abbia subito danni. In quanto alle vele con i dottori della Chiesa,
visto che tanto non si tratta di Giotto, la perdita di una è stata registrata a
occhi asciutti. Purtroppo è proprio Giotto, e nel momento folgorante in cui si
annuncia nella sua piena solarità, che è stato vittima del disastro. L’arco che
chiude e rinforza internamente la facciata della basilica è decorato con un
partito di finte nicchie che ospitano figure di santi in piedi. E’ la prima volta
che un motivo, che avrà grande importanza nella pittura italiana fino al
rinascimento, appare dispiegato e inteso razionalmente. Rispetto alle
decorazioni di un maestro inglese e di Cimabue nelle logge del transetto,
dove la pittura accompagna l’architettura, qui la pittura vi si sostituisce
creando un’autonoma architettura immaginaria, assai più plastica e nuova di
quella, di ascendenza romana, delle storie di san Francesco. Qui è Giotto
con un gruppo di collaboratori. Giotto che, ritengo, entra nel cantiere di
Assisi con il disegno (non con l’esecuzione) dell’asinello nella scena del
Presepio di Greccio e quindi prosegue affermandosi come il maestro a capo
dell’impresa nelle scene francescane successive e, soprattutto, nella facciata
interna. Ora sono alcuni di quei santi - non saprei dire quali né quanti - che
dalle fotografie pubblicate risultano crollati.
E' possibile una biblioteca multimediale? (3)
Giulio Blasi Tra le reazioni ricevute ai miei pezzi dedicati alle Biblioteche Multimediali (su Golem
11 e Golem 12) ce n’è una serie che ho deciso di pubblicare. Si tratta di uno scambio di
mail con Riccardo Ridi, bibliotecario presso la biblioteca della Scuola Normale
Superiore di Pisa e coordinatore dell’AIB-WEB, il sito dell’Associazione Italiana
Biblioteche.

Li ho lasciati nella forma originale senza alcuna forma di editing (ivi inclusi i refusi
dovuti all’uso di caratteri non facenti parte del set base dei caratteri ASCII nel corpo del
messaggio). Il tema credo meriti riflessioni ulteriori e mi pare utile fare una pausa per
dar conto del dibattito che si è sviluppato.

Oltre ai due pezzi di passati su Golem di cui sopra vi invito a rileggere il rapporto
strategico della Task Force on Archiving of Digital Information. Questo documento
costituisce ancora (almeno per lo stato del dibattito italiano) un punto di riferimento
importante per cogliere lo stato del problema. Altra fonte interessante di link
sull’argomento è la pagina della Library of Congress dedicata alle Digital Libraries.

Per i lettori su carta di questo articolo ricordo che possono contribuire al dibattito
spedendo i loro messaggi all’indirizzo arcade@horizons.it

From: Riccardo Ridi


To: Giulio Blasi

"chi ci assicura che una societa' dell’informazione globale e digitale conservi la


medesima cultura di conservazione dei testi che h oggi incarnata nelle biblioteche? Non
si dar` il caso che una cultura di testi digitali sia una cultura in cui i testi hanno una
maggiore volatilit` e deperibilit`, al pari (ad esempio) della comunicazione orale? Fino a
che punto una cultura ha bisogno di conservare la "totalit`" dei suoi testi?" (G. Blasi, E'
possibile una biblioteca multimediale? (2), Golem 12)

Ma neanche la vecchia societa' dell'informazione analogica e cartacea ha mai conservato


davvero TUTTI i propri testi. Volantini, opuscoli, manifesti (per rimanere nell'ambito
delle "pubblicazioni") sono allegramente scomparsi dalla faccia della terra, cosi' come
persino veri e propri capolavori (Sofocle, Aristotele, i presocratici, ecc.).

Riccardo Ridi

From: Giulio Blasi


To: Riccardo Ridi

Vero ma quella cultura considererebbe il ritrovamento di un papiro recante una


traduzione di un'opera aristotelica scomparsa un evento straordinario e di enorme valore
(pensi allo stele di Rosetta...).
Se i presocratici fossero documentabili direttamente e non attraverso fonti indirette
questo sarebbe considerato fantastico dai nostri storici della filosofia.
E allo stesso modo le biblioteche odierne conservano straordinarie varieta' di documenti
scritti compresi manifesti, opuscoli (soprattutto scientifici) e cose di ogni genere e penso
in particolare al mondo della biblioteconomia anglosassone.

Io non ho detto che di fatto la cultura analogica e cartacea abbia conservato TUTTI i
suoi documenti. Sostengo invece che quella cultura ci fa oggi considerare ogni
documento scritto del passato una fonte preziosa per la sua comprensione. Sostengo in
breve che la nostra cultura assegna un VALORE particolare alla conservazione dei
documenti scritti.

Cambiera' questo in futuro o avremo forme di "storicismo digitale" ad ogni modo?


Lei cosa ne pensa?

G Blasi

From: Riccardo Ridi


To: Giulio Blasi

OK, sia la nostra cultura passata che quella presente che quella (presumo) futura,
attribuiranno un grande valore ai "documenti" e alla loro conservazione (fra l'altro lo
spero anche dal punto di vista "occupazionale", facendo di mestiere il bibliotecario).

Il primo punto e': cosa considerare "documento" e cosa no. A rigore potremmo
considerare "documento" (anche se non "pubblicazione") anche ogni appunto privato,
ogni lista della spesa, ogni post-it, ogni registrazione in segreteria telefonica (e volendo
potremmo anche registrare per intero OGNI conversazione telefonica), ogni e-mail
privato, ogni videoregistrazione amatoriale, ecc. Ovviamente conservare tutte queste
cose e' non solo impossibile pragmaticamente (lo e' sempre stato ma lo sara' sempre di
piu', vista la produzione crescente geometricamente) ma anche controproducente
informativamente (finiremmo per non trovare piu' nulla).

Si tratta di stabilire un discrimine fra cosa conservare e cosa no. Prima era piu' facile per
tanti motivi. Per esempio era piu' netta la differenza fra "ricchi/potenti" che potevano
eternare i propri archivi e "poveri/deboli", che magari non sapevano neanche scrivere,
producevano pochi documenti (testuali o grafici) e difficilmente riuscivano a proteggerli
e trasmetterli. Per esempio, con la stampa tipografica era piu' chiaro il confine fra
"documento pubblicato" e "documento non pubblicato" (il primo era manoscritto e il
secondo stampato). Adesso, una homepage personale sul Web a quale categoria
appartiene?

Il secondo punto riguarda il privilegio culturale accordato per secoli alla scrittura, al
testo, rispetto a documenti grafici, sonori, oggettuali, ecc.
Le immagini, ad esempio, si conservavano solo se belle e preziose, mentre per gli
stampati c'e' sempre stata una tendenza (ardua) alla completezza.
Per il suono poi per secoli non c'e' stato modo di conservare niente. Ora che i documenti
"non-testuali" hanno migliorato il loro status culturale, andranno conservati anch'essi
con la stessa attenzione dedicata in passato a quelli testuali (era questo, mi pare, uno dei
focus del suo articolo).

Allora, visti i punti 1 e 2 e visto che siamo tutti d'accordo che sarebbe bello conservare
(e, aggiungo - da bibliotecario - catalogare, altrimenti poi non si ritrova nulla) tutto, sara'
mai possibile farlo davvero? Questa, mi pare, la sua domanda.

In tutta franchezza le rispondo che a me, personalmente, il sogno dello Xanadu di


Nelson (una rete ipertestuale mondiale di TUTTI i documenti esistenti) ha sempre
affascinato e mi piacerebbe pure che si realizzasse (il WWW sta facendo qualcosa, ma
in confronto e' un balocco), ma temo che:
A) sia impossibile tecnicamente
B) per la maggioranza degli umani si tratterebbe di un INCUBO e non di un sogno

Saluti, Riccardo Ridi

From: Giulio Blasi


To: Riccardo Ridi

Grazie per la risposta ulteriore. Ma allora rilancio ancora in cerca di stimoli: cosa pensa
del punto centrale del mio (primo) pezzo dedicato alle biblioteche multimediali e cioe' al
problema dei tempi di obsolescenza dei documenti digitali (almeno di parte di essi)?
Non si tratta qui di una differenza cruciale rispetto al passato? O si tratta di una
semplice illusione di prospettiva dovuta alla nostra posizione di osservatori di un
processo in corso ancora non ben definito?

Il punto per me davvero cruciale e' questo: l'idea di Nelson e' autocontraddittoria
esattamente perche' non include la freccia temporale dell'obsolescenza dei formati
digitali. In pratica presuppone un sistema informatico stabile (almeno) come il libro a
stampa nel suo rapporto con gli scaffali di una biblioteca. Io considero questo un grave
errore concettuale di Nelson a prescindere dal fatto che lo "spirito" di Xanadu ci piaccia
o meno.

Sarei davvero curioso di conoscere la sua opinione su questo.

Saluti
Giulio Blasi

From: Riccardo Ridi


To: Giulio Blasi
Contro l'obsolescenza dei media elettronici una prima mossa puo' essere quella di
privilegiare standard "de jure", non proprietari (HTML, SGML, ecc.) contro quelli "de
facto", proprietari (PDF, ecc.).

Cosi' si potrebbe combattere l'obsolescenza del software, mentre contro quella


dell'hardware bisognerebbe che le biblioteche elettroniche che si prenderanno in carico i
documenti elettronici si assumano anche la responsabilita' di riversarli periodicamente
sui nuovi tipi di supporti man mano disponibili.

Anche la sua (o tua, passiamo al tu?) ipotesi degli emulatori potra' aiutare, ma si trattera'
comunque di investire costantemente tempo e energie (quindi denaro) per mantenere
realmente accessibili i documenti.
Questa e' in effetti una grossa differenza rispetto all'era cartacea, in cui "bastava"
mantenere i libri lontani da luce, calore e umidita' per riutilizzarli anche solo una volta
al secolo.

Non sono invece d'accordo sulla tua critica a Nelson , perche' l'editoria elettronica in
rete (perche' in fondo di questo si tratta con Xanadu) e' radicalmente diversa da quella
su supporto portatile (in fondo piu' simile a quella tradizionale per tanti versi:
distribuzione, pagamento, copyright, ecc..) anche dal punto di vista della compatibilita'
dei formati. Per leggere un documento remoto in rete ho bisogno sempre dello stesso
modem, disinteressandomi se e' memorizzato su un hard-disk, un nastro, una cartuccia,
un cd o altro. Pensa poi a quanto ha fatto internet per lo scambio dei dati fra ambienti
operativi diversi.... Una volta che ho messo un documento html in rete, non e' piu' ne'
dos ne' mac ne unix...
Quindi il problema dell'obsolescenza digitale tocca molto di piu' i cd-rom che non
Xanadu o Internet (che comunque ha i suoi bei problemi).

Riccardo Ridi

From: Giulio Blasi


To: Riccardo Ridi

Una volta che ho messoun documento html in rete, non e' piu' ne' dos ne' mac ne unix...
Quindi il problema dell'obsolescenza digitale tocca molto di piu' i cd-rom che non
Xanadu o Internet (che comunque ha i suoi bei problemi).
Riccardo Ridi

Questo in principio. Ma de facto: le versioni "standard" di HTML si sono evolute e i


metadescrittori non sono ancora diffusi, i documenti HTML contengono extensions
proprietarie, contengono codice non HTML di vario genere con problemi suoi propri di
versioning (Javascript, VBscript), rimandano a codice compilato (applet) che prevede
l'esistenza di software determinati sulla piattaforma client (anche nel caso di Java e'
necessaria una "virtual machine" che non e' necessariamente pre-installata sulla
macchina dell'utente e che gia' adesso esiste in due versioni tra loro incompatibili), ecc.
ecc. Gli standard di programmazione cross-platform di Microsoft sono completamente
diversi da quelli di Netscape. Insomma se, come dicono alla Sun, "the network is the
computer" perche' dovremmo attenderci dalla rete esiti diversi in termini di
standardizzazione rispetto a quelli che si sono evoluti per il PC? Tutto sommato anche il
mondo desktop e' abbastanza standard: l'80% dei PC usa sistemi operativi Windows...In
termini puramente numerici si potrebbe (dovrebbe) dire che esiste maggiore
standardizzazione e interoperabilità nei PC che nei sistemi di rete. Inoltre non ho toccato
il problema piu' grave l'upgrade dei protocolli di base su Internet: la migrazione a IPng
e' (per il momento) solo una possibilita' teorica e comunque una cosa di cui bisognera'
ben esaminare gli esiti.

In sintesi: anch'io assegno (per varie ragioni) un privilegio alla rete rispetto al PC isolato
per cio' che riguarda la "durata" nel tempo degli standard. Pero' mi pare che a parte un
lieve privilegio non cambi molto la sostanza del problema che sollevavo a proposito
delle biblioteche multimediali. I documenti oggi disponibili in rete avranno seri
problemi di obsolescenza nel giro di qualche anno. Xanadu era pensata come una rete di
documenti "puri" ma la cosa e' resa piu' complicata dal fatto che quello che oggi evolve
e' il concetto di un ipertesto di documenti e applicazioni.

Ciao
Giulio Blasi

From: Riccardo Ridi


To: Giulio Blasi

"i documenti HTML contengono extensions proprietarie, contengono codice non HTML
di vario genere [...] gli standard di programmazione cross-platform di Microsoft sono
completamente diversi da quelli di Netscape" [Giulio Blasi, 97-08-26]

Perche' tutti corrono in avanti per conto proprio, sperando di imporre de facto i propri
standard, invece di aspettare quelli de jure del W3C.
Padroni di farlo, ovviamente, perche' "il mercato e' il mercato" e perche' - come
giustamente dici - "perche' dovremmo attenderci dalla rete esiti diversi in termini di
standardizzazione rispetto a quelli che si sono evoluti per il PC?" ma spero che almeno
chi produce documenti "seri", che hanno pretese di durata, si attenga il piu' possibile
agli standard ufficiali, e per gli altri "speriamo bene".

"In sintesi: anch'io assegno (per varie ragioni) un privilegio alla rete rispetto al PC
isolato per cio' che riguarda la "durata" nel tempo degli standard. Pero' mi pare che a
parte un lieve privilegio non cambi molto la sostanza del problema che sollevavo a
proposito delle biblioteche multimediali. I documenti oggi disponibili in rete avranno
seri problemi di obsolescenza nel giro di qualche anno" [Giulio Blasi, 97-08-26] OK. Si
riaffaccia cioe' per i documenti elettronici (in rete e su supporti portatili) tutta quella
vasta serie di problemi tipici dei documenti cartacei (manoscritti e a stampa) e su altri
supporti non elettronici (microfilms, microfiches, ecc.) a cui i bibliotecari cercano
(senza mai riuscirci completamente) da secoli di opporsi realizzando due grandi utopie:
il "controllo bibliografico universale" (sapere esattamente cosa e' stato pubblicato nel
mondo) e la "disponibilita' universale delle pubblicazioni" (rendere accessibili a tutti -
copyright permettendo - tutti i documenti pubblicati in qualsiasi luogo, tempo e forma).

I documenti elettronici hanno proprie specificita' rispetto agli altri (ad esempio
l'obsolescenza delle tecnologie da cui siamo partiti) ma anche tante affinita'. Almeno dal
punto di vista concettuale credo convenga partire dalle affinita' per poi individuare le
differenze. Ad esempio, il concetto di biblioteca nazionale (un posto dove, per legge,
debba essere depositato TUTTO cio' che viene pubblicato in un determinato paese) non
scompare nel nuovo ambiente elettronico, ma va aggiornato ed adattato in modo
flessibile. La "biblioteca nazionale digitale italiana" potrebbe non essere collocata
fisicamente in un sol luogo ma essere decentrata (fra le varie universita? fra gli editori?)
e dovrebbe occuparsi fin da subito anche del problema dell'obsolescenza delle
tecnologie (con gli emulatori di cui parlavi, collegandosi a eventuali "musei delle
vecchie tecnologie", travasando periodicamente i dati dai vecchi supporti ai nuovi, ecc.).

Saremo in grado di affrontare questa sfida in un paese che non e' mai riuscito a gestire
decentemente neanche il proprio patrimonio bibliografico "tradizionale"? Ho dei forti
dubbi, ma dobbiamo assolutamente provare, per non uscire a priori dal novero dei paesi
civili.

Ciao, Riccardo
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

L’Autogolem di questo mese è duplice: un primo lucchetto in quattro strofe


è segnato con numeri arabi; un secondo lucchetto in cinque strofe è segnato
con numeri romani.

PRIMO LUCCHETTO (8/10/8=6)

PRELIMINARI

Con rasoio e gillette


mi sbarbo nella toilette.
Poi mi bevo il fernet
ed entro in Xxxxxyyy.

2. NINNA NANNA DI CITTÀ

Dormon le mamme, con i bambini.


Dormono le case, con i casini.
Dormono i ghetti, con i ghettini.
Dormon le giarde, con i giardini.
Dormono i bus, con i busini.
Dormono i tram, con i tramini.
Dorme il sindaco, coi sindachini.
Son svegli solo i yyyxxxxxxx.

3. LA PAZZA FOLLA
Dalla metrò ne esce un fottìo
intorno a me è tutto un vocio.
Confondo ormai l’io con il non-io,
vertigine, vortice, xxxxxxxy

totale: PARLANDO DI LATTE

Quello di soia non è quello vero.


Il pastorizzato vale zero.
Con quello scremato vedo nero.
A me piace solo quello xxxxxy.

SECONDO LUCCHETTO (2-3/10/1, 5, 2/7 = 6)

I. IL GENTILUOMO HI-TECH

Sto perdendo il mio aplomb:


non funziona il XY-YYY!

II. ZOOLOGIA PER BAMBINI

Orsù aprite il sussidiario:


c’è di bestie un inventario,
meglio di un documentario:
ha una gobba? È un yyyyxxxxxx!

III. PALAZZINA LIBERTY

Ho assistito a uno show


(molto arguto, ti dirò)
in padano e grammelot,
della Rame x Xxxxx Yy.

IV. NATURA

Che bellezza! Che gran festa!


La gazzella, lesta lesta,
corre dentro alla Yyxxxxx.
(se ne incontra il re, ci resta).

totale: PREGI E VIRTU’ DI FANTESCA


Vi racconto le sue gesta:
è simpatica e modesta,
senza grilli per la testa,
fa i mestieri e non protesta.
Nel complesso pare onesta,
ma alla spesa fa la Xxxxxx.

Soluzioni

PRIMO LUCCHETTO:
1. InterNET;
2. NETturbini;
3. Turbini
O = InterO.

SECONDO LUCCHETTO:
1. CD-ROM;
2. DROMedario;
3. è Dario Fo;
4. foRESTA = CRESTA.
Paure collettive
Roberta Ribali Poco per volta ci sentiamo come circondati. Sono messaggi a volte sottili a
volte molto espliciti che ci trasmettono i media, con toni apparentemente
neutri o francamente allarmistici, a seconda dei contenuti.
Le ondate di paura iniziano come increspature insignificanti nel mare delle
informazioni. Possono riguardare sostanze di uso comune che
improvvisamente si scoprono "pericolose", per un avvenimento di cronaca o
per una scoperta scientifica, oppure si può trattare di un particolare gruppo
di diversi cui vengono attribuite potenzialità criminali o destabilizzanti. A
volte si tratta di abitudini antiche, cui non si fa caso per anni, e che si
ritrovano repentinamente demonizzate. Si legge che la fenolftaleina
contenuta in alcuni lassativi è cancerogena, quindi questi non si debbono più
usare. La moquette permette il proliferare degli acari, il bicarbonato nel
dentifricio corrode lo smalto dei denti, e così via. Lo sappiamo tutti. Ma per
alcuni, l’esistenza quotidiana diventa pian piano una specie di percorso ad
ostacoli, una gimcana fra paure, leggende metropolitane, rituali e divieti.
Certamente, un grandissimo meteorite può centrare la terra in ogni
momento, l’hamburger mangiato tre anni fa a Londra può provenire da una
mucca pazza, l’extracomunitario che ci segue ai giardinetti per venderci un
accendino potrebbe essere uno psicopatico sessuale.
All’interno di un flusso di informazioni veicolate da notizie-slogan in TV
l’elaborazione cognitiva è minima o assente: la notizia serve solo a
alimentare la quantità d’ansia e il livello di allarme. Un ragionamento critico
pacato non è né compatibile né possibile con la sostanziale irrazionalità di
una "leggenda metropolitana", ad esempio. Queste e altre paure ci
colpiscono a ondate, come delle formazioni reattive che giustificano ansie
collettive e comportamenti stereotipi ritualizzati.
Il malessere c’è ma è altrove: è la fatica di vivere, di relazionarsi con l’altro,
di venire a contatto con un mondo esterno percepito come ostile. Le paure
permettono di unirsi, di creare la tribù degli ansiosi, ci si riconosce e
rafforza reciprocamente, trovando nella paura un rifugio solidale. Se ne
parla per strada, sul tram, con i vicini: poche parole che permettono al
popolo dell’ansia di riconoscersi e rapidamente di rafforzare, attraverso
luoghi comuni e slogan veloci, lo stato di allarme. L’onda si allarga e si
intensifica: i media lo sanno, le audiences aumentano, ma in questo stato di
sofferenza collettiva forse ci sentiamo meno soli.
Dall'idea al film (Tano da morire)
Rossana Di Fazio Prima di tutto, una confessione: sono uscita prima della fine del film; è una
cosa che ho fatto, in vita mia, solo in un'altra occasione. Per Tano da Morire
sono uscita dopo il numero di canto, danza e verdura alla Vucciria,
riproposto spessissimo nei trailers.
Credo che non mancassero che una ventina di minuti alla fine, ma ero a
disagio, e molto stanca e, come me, il mio compagno di sala: ci siamo
trovati in corridoio, e ci siamo risolti per l'abbandono della sala.
Se ho deciso di scriverne lo stesso è perché credo che molti di voi abbiano
visto Tano da morire e, a parte i favori unanimi della critica che ho
verificato successivamente, sono veramente curiosa di conoscere il vostro
giudizio e le vostre impressioni.
Riconosco alla regista il coraggio e l'originalità dell'associazione fra il tema
e il genere, rispettivamente mafia e musical. E' un'associazione che una
volta innescata genera idee decisamente spettacolari e anche divertenti. E a
parte molto gusto "Almodovar", ho riscontrato, specie nella prima parte del
film, una spiccata attenzione per inquadrature peculiari e movimenti di
macchina interessanti, o soluzioni curiose, come quella dell'altare a forma di
Monte Calvario dedicato ad ogni morto che passa dal film.

E' vero del resto che è proprio del musical affrontare questo genere di
questioni e trovare, e inventare, soluzioni per mettere in forma il racconto
coniugando testo, musica, danza e immagine. Il musical è uno spettacolo
che deve anche sorprendere gli occhi, e questo spinge il linguaggio
cinematografico a inventarsi, a immaginare soluzioni meno "realistiche" o
prevedibili: a misurarsi, insomma.
Ero curiosa di vedere come il genere musical fosse messo al servizio di un
tema greve e serio come la mafia, quasi un tabù nella nostra cultura. Mi sto
facendo l'idea che a questo genere si stia guardando con grande interesse da
parte di registi molto diversi. Il ricorso alla musica (e alla danza) come
elemento strutturante esplicito, sembra favorire una distanza che consente di
mantenere un livello più teorico e meno diretto, di stabilire una non totale
coincidenza fra il racconto del film e il discorso del film, valga per tutti
Everyone says I love You, di Woody Allen, che organizza grazie, e
attraverso il genere, discorsi sull'amore fra le persone, sull'amore per il
cinema, e sull'amore per un cinema che non si potrà mai più rifare. Ma
questa è un'altra storia.

Non sono certo le idee di allestimento che mancano in Tano da morire; anzi,
forse ce ne sono troppe. Troppe canzoni, troppi balletti, troppi movimenti di
macchina, troppe trovate ammiccanti, troppo grotteschi i personaggi, i loro
volti e i loro vestiti. Invece che mostrare, semplicemente, la loro specialità,
vengono mascherati e coinvolti in performances che dopo i primi venti
minuti del film divengono del tutto prevedibili. Facce come le loro non
avrebbero bisogno di forzature (gli occhiali, i vestiti, le mossette) che,
piuttosto che caratterizzarli, li uniformano.
Una latitanza di sceneggiatura e di ritmo pesa inesorabilmente sul film,
nonostante un soggetto "forte". Alcune finezze registiche (il combattimento
nel teatro della Vucciria fra Tano e gli ammiratori della sorella) si diradano,
tanto che si direbbe che il film non sia finito, non sia rifinito. Da un certo
momento si accumulano senza ritmo danze, flash-back, canzoni e ritmi alla
moda e i personaggi vengono soffocati dalle maschere in cui sono costretti.

Un'altra sensazione deriva da quest'organico così ruspante: sembra che nella


scelta degli attori - e, ripeto, nel loro mascherarli - si sia voluto compensare
la scelta di fondo del film. La bruttezza ostentata, la forzata mancanza di
grazia dei personaggi satura il clima, confonde e ricopre lo spettatore: si dirà
che questo è un effetto voluto, e che a questa aria irrespirabile il film vuole
dare corpo, per mettere in scena, ad un livello meno direttamente politico o
sociologico, i meccanismi e le dinamiche pesanti della famiglia, nell'ambito
più generale della struttura patriarcale mafiosa.
Trovo però che il fatto che siano tutti, con pochissime eccezioni,
rappresentati in una ostentata e grottesca bruttezza, finisca per uniformare
tutto e per costituire un alibi per il film, piuttosto che una provocazione. La
mafia diviene insopportabile perché è brutta, sgradevole, mentre i suoi
meccanismi, benché assurdi, risultano semplici e semplificati. Mi sembra
che il film rinunci a percorrere una strada più articolata e preferisca
percorrere la strada più paradossale e folcloristica, rinunciando inoltre anche
a salvaguardare una certa autonomia, un certo impianto del film. Un
esempio di questo meccanismo è il duetto fra Tano e la figlia (ai limiti
dell'obesità, e in più coi capelli in piedi, una buffa collana, insomma non più
un personaggio con una sua dignità, ma una macchietta, peraltro uguale a
tutte le altre donne dal parrucchiere, dunque pressoché inesistente come
personaggio)e che invece conclude una parte importante e significativa del
racconto, quella dove si rivela una specie di inconsapevole complicità fra il
killer e la figlia della vittima.
Questo grottesco improvvisato e facile è un insulto anche agli attori, che
avrebbero potuto per esempio essere bravi ballerini, o rivelare qualche
grazia, smentendo questo impianto piattamente grottesco. Vi propongo di
osservare invece come i ritratti meno "truccati" (gli anziani, le figure della
famiglia di Tano nei flashback) siano anche i più credibili, quelli che danno
da pensare di più e che si integrano con la struttura del film in modo più
interessante. Perché non tentare questa strada meno enfatica e più credibile e
mettere in scena teatralità dei riti della famiglia e dei media, con mezzi
meno alla moda? Certo il risultato sarebbe stato meno prevedibile, ma anche
più contraddittorio, il che non è mai male.
Non so, mi dispiace, è come se la Torre avesse sprecato una bella occasione,
una gran bella idea: vien voglia di chiederle di riprendere tutto in mano, di
rigirare delle scene, di togliere qualche cosa, di rimontare il film; insomma
di riprovarci.

Vedi Anche:

cinema.it
Strano come gira il mondo
Roberto Caselli Uno scrive una canzone per onorare un mito giovanile, una donna bella e
fragile, un sex symbol massacrato dal successo e dalle ingerenze esterne di
mariti e amanti potenti e poi, quasi venticinque anni dopo, si ritrova a
reinterpretarla in una chiesa, cambiando appena qualche frase e qualche
nome, per commemorare un’altra persona, un’amica, un’ex principessa
dagli affetti altrettanto tribolati, morta in un modo assurdo. Nonostante il
consenso generale e il successo della nuova versione di Candle in the Wind
che ha portato la sola città di Londra a esaurire in pochi minuti le prime
duecentocinquantamila copie stampate, non si può dire che quella di Elton
John sia stata una dimostrazione di grande sensibilità. A parte le ovvie
differenze fra Marilyn Monroe e Diana Spencer, accomunate forse solo
dalle sfortunate vicissitudini amorose (ma quante altre donne hanno vissuto
e stanno condividendo la stessa sorte), non è carino dedicare davanti al
feretro di un’amica una canzone pensata e costruita originariamente per
un’altra persona. Passi il plagio di un ragazzino che a corto di creatività
dedichi all’amichetta, per stupirla, una poesia presa chissà dove, ma per un
autore celebrato e prolifico come Elton John, per una volta a corto di piglio
compositivo, sarebbe stato meglio un dignitoso silenzio, se non altro per non
dare adito a maliziose considerazioni commerciali. E’ vero che tutti i
proventi della vendita del singolo, a parte le spese di produzione della casa
discografica che verranno recuperate, saranno devoluti alle organizzazioni
benefiche a cui Lady Diana era ufficialmente legata, ma è anche vero che la
pubblicità ricavata è enorme e che insieme a Candle in the Wind, guarda
caso, finirà sul singolo anche Something About the Way You Look Tonight, il
pezzo di punta del nuovo album appena uscito. Una promozione eccellente
che la casa discografica certamente non ha sottovalutato. Con questo non si
vuole naturalmente puntare l’indice su Elton John che finisce per diventare
uno strumento come un altro del business, ma magari fare riflettere che tutte
le operazioni di questo tipo, benefit e Aid vari, se da un lato funzionano, con
la passerella delle grandi star, da encomiabili serbatoi di ossigeno per gente
bisognosa, dall’altra sono un impareggiabile veicolo di promozione, a costo
bassissimo, attraverso il mondo intero che nessun altro mezzo di
comunicazione potrebbe altrimenti garantire.
Che tempo fa?
Sylvie Coyaud http://www.globe.gov

E’ difficile che vi sia sfuggita la discussione franca e cordiale, come dicono


i diplomatici quando s’insultano, sulla prognosi del clima. Si riscalda o no?
Il buco dell’ozono s’allarga ancora o il bando dei CFC fa effetto? E cos’è
accaduto al fettone (25%) di polo Sud scomparso fra gli anni 50 e 70?
Se non si mettono d’accordo gli scienziati che analizzano gli stessi dati ma
ne traggono modelli di sviluppi futuri completamente diversi, figurarsi i
politici che si vedranno a Kyoto a dicembre per decidere come limitare i
danni.

Che dramma.

Inutile tirar fuori il fazzoletto, meglio rimboccarsi le maniche e unirsi a


Globe, un’iniziativa lanciata l’anno scorso dall’amministrazione americana
che già raggruppa 4.000 scuole in 55 paesi, con una folta presenza cinese.
Globe chiama al volontariato climatologico scolari, insegnanti, scienziati,
genitori, amici. Da settembre, dovrebbero essere arrivati alla riscossa pure
gli italiani, coordinati da Antonio Augenti, direttore generale degli scambi
culturali al Ministero della Pubblica Istruzione, tel. 06/5839-6197, fax:
06/5849-5836 (ma non ce l’ha l’e-mail?).

Anche senza coordinamento ministeriale, sul web di Globe s’impara la


pratica - cosa misurare e come - e le novità di un bel po’ di scienza
contemporanea: biologia, chimica, geologia, idrologia, analisi di dati
satellitari, modellizzazione ecc.

Nota tecnica: veloce, concepito per essere usato da bambini impazienti in


tutto il mondo, il design è senza fronzoli e l’interattività alla portata di
qualunque genitore. Sostanziose spiegazioni in francese e in spagnolo.
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Il Salone della Musica di Torino

Informazioni

Trash. Quando i rifiuti diventano arte

Presentazione e programma
Wassily Kandinsky

Informazioni

L'Espressionismo tedesco

Informazioni

Warhol: viaggio in Italia

Informazioni

Matisse - La Rivelazione mi è venuta dall'Oriente

Informazioni
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer

Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:

Furio Colombo, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Valentina Pisanty, Massimo Ghirelli, Ugo Pirro,
Umberto Eco, David Meghnagi, Oliviero Ponte di Pino, Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Giulio Blasi, Rossana Di
Fazio, Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo Italia Online


Home Page Home Page Home Page
Cari lettori,
cominciavate a disperare? Siamo solo un po' in ritardo, ma siamo sempre qui.
Siete in vacanza? Lo speriamo per voi. Comunque e dovunque voi siate, speriamo che vi sentiate liberi, sereni e
padroni del vostro tempo.
Golem 13, da parte sua, vi propone, come sempre, argomenti di riflessione: la giustizia, i tagli alla spesa
pubblica, le privatizzazioni e i finanziamenti alle scuole private. Ma una parte consistente del numero è dedicata
alla vacanza. Beppe Severgnini vi invita a viaggiare col naso e la redazione propone una riflessione sul mito, la
storia, i nodi tematici della vacanza, in una specie di viaggio attraverso i "topoi" della letteratura, del cinema,
delle canzoni e di quant'altro passi per la mente, lavorando insieme alla costruzione di un vero e proprio
archivio. Facciamo questo gioco?
All'insegna del puro divertimento abbiamo messo insieme anche un po' di link per proporvi una passeggiata
libera e distesa attraverso la rete.

State bene.
Giustizia
Ugo Volli E' importante cercare di riflettere ancora sulla questione giustizia al di là
delle scaramucce politico-giudiziarie che occupano le prime pagine dei
quotidiani giorno dopo giorno. Si tratta infatti di una questione unitaria che
ovviamente ha grande importanza e che è soggetta a numerosi tentativi di
confusione e disinformazione.
I dati di fatto sono questi. La lotta contro il terrorismo, avvenuta per via
giudiziaria più che politica o militare, ha determinato la crescita di una
nuova generazione di magistrati di grande esperienza e professionalità.
Questo gruppo di magistrati e la successiva generazione che ha preso da
loro, hanno dimostrato nel corso degli ultimi cinque anni che è possibile
vincere per via giudiziaria pure la mafia e combattere efficacemente la
corruzione, anche quando essa occupa il vertice istituzionale dello Stato. Ma
tutto il personale politico sopravvissuto a Mani Pulite, tanto quello
direttamente impegnato a difendersi da accuse di illegalità e corruzione,
quanto quello non colpito da queste accuse, cerca ora di ridimensionare
l'indipendenza e la capacità di azione della magistratura, in particolare di
quella inquirente. Lo fa in parte per motivi personali, come è evidente per
Berlusconi e suoi; in parte perché - così dice - la magistratura ha "esorbitato
dai propri limiti" e perché "bisogna assicurare la parità fra accusa e difesa".
Entrambi questi argomenti vanno letti con molto senso critico. Una
magistratura decisa a reprimere la corruzione e la criminalità organizzata
non intende con ciò affatto prendere il posto del potere legislativo ed
esecutivo. Li può costringere però a stare alle leggi (che essi stessi hanno
scritto), per esempio a non finanziarsi in maniera scorretta e a evitare
contatti ambigui con la criminalità organizzata. Queste forme di controllo
sono però intollerabili al potere politico e amministrativo, che ha cercato
spesso nel corso dell'ultimo anno di affrancarsene; per esempio, con la
"riforma" che ha praticamente eliminato il reato di abuso d'ufficio, con i
ripetuti tentativi di depenalizzare il reato di finanziamento illegittimo, con il
testo della Bicamerale, tutto organizzato per rafforzare il controllo politico
sul Consiglio Superiore della Magistratura; da ultimo con la famosa riforma
dell'articolo 513, che renderà molto difficile l'uso dei pentiti nei processi di
mafia. La ragione di fondo di queste mosse è ovvia: tutto il Parlamento
intende evitare che possa ripetersi un fenomeno come Mani Pulite il che,
significa che prevede un certo grado di inquinamento "fisiologico" del
sistema, tanto con la corruzione che con la mafia, e che intende evitare che
esso sia combattuto.
Anche la famosa "parità" di accusa e difesa è uno slogan che va letto
criticamente. Non esiste nessuna parità logica fra chi rappresenta l'intera
società e il singolo cittadino accusato di un reato. In caso contrario l'accusa
non sarebbe pubblica e il diritto penale sarebbe solo una sezione di quello
civile, come nelle società senza stato, regolate da faide ordalie e duelli. C'è
un bisogno di garanzie, naturalmente, e per questo procuratori della
Repubblica accusano e non condannano né rinviano a giudizio, i gradi di
giudizio sono tre, eccetera eccetera. Ma non vi è nessuna ragione per cui un
magistrato inquirente, il cui scopo è la difesa della legge, debba essere
"pari" all'avvocato del mafioso, il cui legittimo scopo è quello di evitare, con
qualunque cavillo, la condanna del suo assistito. Semmai potrebbero essere
pari difesa e accusa privata (parte civile). Dunque chiedere questa parità
significa semplicemente volere una pubblica accusa che indaghi di meno,
magari che stia sotto il controllo di parte del governo, riducendosi quindi a
un ruolo privatistico.
E i cittadini? Non avranno anch'essi interesse innanzitutto a questa parità,
essendo potenziali futuri accusati? Intanto va detto che, se leggiamo le
statistiche, essi sono più probabili future vittime di un reato. Ma il punto
principale è un altro. I cittadini hanno un interesse primario e personale per
la giustizia, anche se non sono né vittime né accusati. Per capirlo, basta
guardare l'impressionante sovrapposizione fra le regioni del Sud
abbandonate alla criminalità organizzata (Sicilia, Calabria, Campania, in
parte Puglia) con la parte del paese più economicamente depressa. Vi è un
Mezzogiorno capace di decollo economico, ma è esattamente quello in cui
non ci sono la Mafia e la Camorra.
Per quanto riguarda la corruzione, essa colpisce un interesse comune
fondamentale: l'imparzialità dell'Amministrazione Pubblica. Questa è un
bene molto raro nel paese delle raccomandazioni. E' anche difficile
distinguere la corruzione vera e propria da più o meno innocenti
raccomandazioni, quelle su cui si è costruito il potere di tanti notabili della
politica; e questo spiega in parte il rancore della corporazione dei politici.
Ma è interesse generale che queste pratiche siano limitate e represse, in
particolare quando alimentino il gioco politico. E' necessario che la vita
politica democratica sia attentamente controllata da check and balances
(controlli e contrappesi) perché non degeneri nell'oligarchia e nella
tirannide, come spesso è accaduto. Opponendosi con un referendum al
finanziamento pubblico dei partiti, negando più di recente il loro appoggio
alla legge del 4 per mille che aggirava quel referendum, appoggiando con
entusiasmo Mani Pulite, i cittadini hanno espresso una diffidenza per il
sistema politico che dovrebbe far riflettere.
Mentre il Polo era dall'inizio dalla parte degli imputati di corruzione e reati
analoghi (semplicemente perché era stato fondato dal più ricco e potente di
tali imputati), l'Ulivo aveva raccolto le speranze di chi voleva la legalità, la
repressione della criminalità organizzata e della corruzione, l'imparzialità
dell'amministrazione, una giustizia efficiente e combattiva. Ora è evidente
che restano delle differenze fra Polo e Ulivo, ma un accordo sulla
limitazione dell'attivismo della Magistratura è stato raggiunto, proprio sulla
base degli interessi corporativi del ceto politico cui ho accennato e delle
convinzioni che gli corrispondono. Insomma, dietro la posizione della
sinistra non vi è solo il costo dell'inciucio con Berlusconi: vi si aggiungono
una cultura giacobina del comando assoluto della politica, una cattolica
dell'indulgenza nei confronti del peccatore, specie se è "uno di noi",
un'antica abitudine a rispettare i poteri reali, anche se magari criminosi.
Questa posizione così radicata danneggia profondamente il paese (cioè tutti
noi), perché ridà spazio e possibilità di difesa alla Mafia e alla corruzione.
Combatterla è importante. Soprattutto in seno all'Ulivo, che vive una
contraddizione importante fra i suoi interessi di gruppo dirigente e
governante (cui convengono le mani libere) e quelli del suo elettorato, che
ha bisogno della legalità. Queste contraddizioni spiegano le oscillazioni e le
contraddizioni dell'Ulivo. E' essenziale continuare a fare pressione su di
esso, almeno per limitare i danni.
Caro Palazzi
Fabrizio Tenna Sono tre i temi centrali da approfondire, anche se in parte Palazzi li ha
toccati nei suoi articoli precedenti.

1. Perché si vuole ridurre la spesa sociale in Italia


2. Chi sono i principali beneficiari (qualsiasi tipo di riforma si faccia,
anche per classi di reddito)
3. E' veramente necessario ridurre la spesa sociale oppure è necessario
rimodernarla rendendola più efficiente nei riguardi dei vecchi
(salute, istruzione, protezione sociale) e dei nuovi (protezione
dell'ambiente) interessi della collettività.

Ecco le mie riflessioni, su cui vorrei aprire la discussione.

Ho consultato i dati fino al 1992 dei conti economici delle Amministrazioni


Pubbliche: già nel 1991 vi è una inversione di tendenza per quanto riguarda
il saldo delle operazioni correnti ed in conto capitale. Per tutti gli anni ‘80
tale saldo è stato negativo, nel 1991 è pari a +9.196 miliardi che diventano
+38.000 nel 1992. Il disavanzo di bilancio rimane tuttavia ancora alto dal
momento che il saldo è al netto della spesa per interessi. La spesa per
interessi ed i consumi collettivi continuano a crescere dai primi anni ‘80 fino
al 1992 (sarebbe interessante vedere cosa succede almeno fino al 1996 e
calcolare i relativi ritmi di crescita). Allora il punto in cui va ad inserirsi la
riforma del welfare è quello di limitare la spesa pubblica in servizi collettivi.
Il linguaggio diventa importante: usare la parola riformare la spesa pubblica
oppure ridisegnare la spesa sociale sono dei sinonimi per indicare che
verranno fatti inevitabilmente dei tagli. E' un po' quello che è accaduto negli
ultimi governi Amato-Ciampi-Berlusconi-Dini-Prodi. Tagli e
privatizzazioni: tagli che hanno colpito la scuola, la sanità e le pensioni e
privatizzazioni che hanno interessato e stanno interessando alcuni tra i
settori economici più in espansione (le telecomunicazioni).
E' qui che ci si potrebbe ricollegare al punto 2, chi sono i beneficiari.
Guardiamo alle privatizzazioni: vengono privatizzati quei settori a cui i
privati sono interessati perché sono settori in rapida espansione. Le
privatizzazioni, da un lato, permettono la raccolta di danaro dalla vendita del
capitale azionario pubblico, dall'altro scaricano dalle spalle pubbliche
aziende che hanno seri problemi di gestione della variabile occupazione al
loro interno, per consegnarle nelle mani dei privati pronti con i loro bei piani
di ristrutturazione aziendale. In questi ultimi anni alle privatizzazioni si sono
accompagnate le dismissioni in complessi industriali grandi quali Taranto,
Marghera e Bagnoli. D’altro canto le privatizzazioni cercano di portare
all’interno dell’ottica del mercato quei servizi, a parere mio ad alto
contenuto di creatività e di valore d'uso, che Palazzi descriveva nel suo
penultimo articolo, correndo il rischio di smantellare istituzioni come la
sanità e l'istruzione pubblica. La parola privatizzare vuol dire due cose:

● dare ai privati
● contiene al suo interno anche il tema della privazione, qualcosa che
prima era della collettività diventa privato

Riuscirà il privato a gestire gli interessi della collettività senza sottometterli


ai suoi? Allora, chi sono i beneficiari?
Se passiamo a considerare i tagli, i tagli alla spesa sociale possono avere un
effetto immediato sulla riduzione delle imposte e quindi su una riduzione
del costo del lavoro.
Mi sembra pertanto: a) che comunque si ragioni Palazzi parte dal
presupposto che la spesa pubblica (in base anche alle proiezioni
demografiche e su questo vorrei un chiarimento), dal momento che non è
più in grado di essere sorretta dal sistema economico, debba essere ridotta b)
intervenendo con dei tagli o delle privatizzazioni; c) che non è prevista
alcuna operazione per limitare la spesa per interessi se non attraverso una
politica di rigore economico che favorisca l'abbassamento del tasso ufficiale
di sconto. Tutto questo secondo me, andrà a beneficio solo delle imprese
(che stanno richiedendo questa politica di tagli unitamente alla flessibilità
del mercato del lavoro). Arrivando al punto 3, mi chiedo se sia necessario
allora partire dal presupposto che i servizi collettivi devono essere ridotti
comunque. In questo momento in cui si sta cercando pericolosamente di
importare il modello economico nordamericano per trovare una soluzione
alla crisi dettata dalla nuova organizzazione dei rapporti sociali di
produzione, è davvero necessario pensare di dover ridurre le spese per il
benessere collettivo, quando questo benessere sta diventando sempre più
malessere sotto il peso degli oltre 20 milioni di disoccupati nella CEE?
Replica
Paolo Palazzi Provo a rispondere schematicamente ad alcune osservazioni di Fabrizio
Tenna, che scrive:
"che comunque si ragioni Palazzi parte dal presupposto che la spesa
pubblica (in base anche alle proiezioni demografiche e su questo vorrei un
chiarimento) dal momento che non è più in grado di essere sorretta dal
sistema economico debba essere ridotta."
Ciò che tende ad aumentare, sia per motivi demografici che per motivi di
carattere sociale è il bisogno di servizi collettivi alla persona (salute,
educazione, socialità, divertimento, aria pura, ambiente rispettato, ecc.).
Molti di questi servizi sono in Italia soddisfatti dallo Stato. Le risorse
utilizzate per tale soddisfazione sono state solo parzialmente le tasse, negli
anni '80 si è scelto di finanziarle attraverso l'indebitamento pubblico e
quindi spostando il finanziamento a carico delle generazioni future. Per
motivi di carattere economico e politico (globalizzazione e Europa) questo
sistema non può continuare. Allora le alternative sono due:

● Aumento della tassazione tale da poter finanziare la tendenza della


spesa ad aumentare e finanziare la necessità di riduzione del debito e
il pagamento degli interessi.
● Riduzione della dinamica della spesa pubblica attraverso una
diminuzione della soddisfazione pubblica dei bisogni collettivi.

La scelta della seconda alternativa è dovuta ad un fenomeno ormai


generalizzato: il quasi unanime senso comune della impossibilità di un
aumento, anche piccolo, del livello di tassazione. Che possa piacere o no,
questa credo sia la situazione le cui colpe non secondarie vanno ricercate a
carico della gestione pubblica passata e corrente sia politica che
amministrativa.

b)"Intervenendo con dei tagli o delle privatizzazioni."


Tagli: ci sono due tipi di tagli che credo che la sinistra possa accettare:
● Quelli che portino ad una facile sostituibilità (e possibilmente
migliore efficienza) attraverso l'attivazione del settore privato
(penso in particolare al non-profit, cioè assistenza agli anziani,
handicappati, malati di mente, drogati, ex-carcerati, ecc.)
● Quelli che portino ad una gestione più efficiente del settore
pubblico, anche attraverso una responsabilizzazione dei lavoratori e
ad una maggior partecipazione al costo da parte degli utenti (scuola,
ospedali, ecc.).

Quanto alle pensioni il discorso è più complesso e rimando agli articoli di


Pizzuti che consiglio a tutti.
Privatizzazioni: credo che vadano fatte nella maggior parte dei casi. Oggi in
Italia una gestione pubblica di attività produttive, anche importanti, ha poco
senso. Basta una legislazione seria anti-trust e una buona politica industriale.

c)"Che non è prevista alcuna operazione per limitare la spesa per interessi
se non attraverso una politica di rigore economico che favorisca
l'abbassamento del tasso ufficiale di sconto."
Non è prevista perché non credo esista. Le frontiere sono aperte (ai capitali)
e non c'è nulla da fare.

"Tutto questo a parer mio andrà a beneficio solo delle imprese (che stanno
richiedendo questa politica di tagli unitamente alla flessibilità del mercato
del lavoro)."
Probabilmente è vero nel breve periodo. Nel lungo la scommessa è che
questa politica della spesa pubblica possa stimolare l'occupazione senza
passare attraverso una flessibilizzazione selvaggia del mercato del lavoro.
Non è detto che ciò avvenga in quanto l'occupazione non si inventa (ma su
questo ho scritto le mie opinioni su due interventi su Golem).

"Arrivando al punto 3, mi chiedo se sia necessario allora partire dal


presupposto che i servizi collettivi devono essere ridotti comunque. In
questo momento in cui si sta cercando pericolosamente di importare il
modello economico nordamericano per trovare una soluzione alla crisi
dettata dalla nuova riorganizzazione dei rapporti sociali di produzione, è
davvero necessario pensare di dover ridurre le spese per il benessere
collettivo quando questo benessere sta diventando sempre più malessere
sotto il peso degli oltre 20 milioni di disoccupati nella CEE?"
Il benessere collettivo non verrebbe ridotto se il reddito aumenta, sarebbe
cambiato il modo di usufruire dei servizi collettivi, più responsabile e più
cosciente del loro valore e del loro costo. Rimane insoluto il problema della
distribuzione di questi costi tra le famiglie: quali sono i criteri di equità,
quali sono gli strumenti per attuarli? Sono problemi a mio parere decisivi e
sui quali fondare la riforma dal welfare, ma questo è un altro discorso.
Finanziamento pubblico della scuola privata: due problemi
Paolo Palazzi 1. Il problema dell'aumento di spesa pubblica

Il provvedimento del governo a favore delle scuole private comporterà


sicuramente un contributo a carico dello Stato ed è quindi in netto contrasto
con la Costituzione.
Penso però che non sia questo il vero problema (si potrebbe sempre
cambiare la Costituzione), quanto se e come questa spesa pubblica a favore
delle scuole private tenderà a migliorare o peggiorare nel suo complesso il
sistema educativo in Italia. Le previsioni di miglioramento si basano su due
ipotesi:

a) La spesa deve essere aggiuntiva rispetto a quella destinata alla scuola


pubblica.
Un aumento di spesa per avere effetti positivi sul sistema educativo deve
essere tale da portare ad un aumento o miglioramento netto del servizio
scolastico e non ad una semplice diminuzione di spesa per le famiglie che
usano la scuola privata. Ho molti dubbi che questo possa avvenire: la mia
impressione è che chi usufruirà delle agevolazioni molto probabilmente
utilizzerà l'aumento del reddito per fini extra-scolastici e quindi di fatto si
tratterà non di spesa per educazione, ma di trasferimenti a favore delle
famiglie che utilizzano la scuola privata (in genere più benestanti della
media).
Un'alternativa potrebbe essere quella di un possibile aumento del numero di
famiglie che utilizzano la scuola privata, in questo caso si potrebbe avere un
aumento di spesa privata per il servizio scolastico dovuto al fatto che il
servizio educativo privato costerà comunque somme aggiuntive alle
famiglie; nell'ipotesi, non sempre vera, di una migliore efficienza e qualità
delle scuole private rispetto a quelle pubbliche, si avrebbe un miglioramento
del sistema educativo.
Rimane il problema di dove reperire le risorse pubbliche che, specialmente
nel caso di un aumento di ricorso delle famiglie alla scuola privata,
sarebbero difficilmente prevedibili nel loro ammontare e nella loro dinamica
temporale.
In un periodo come quello attuale è indubbiamente legittimo il sospetto di
un ricorso allo spostamento di risorse dalla scuola pubblica verso la scuola
privata, con conseguenze che aggraverebbero qualitativamente e
qualitativamente la già disastrosa situazione del sistema educativo pubblico
e che molto difficilmente potrebbe essere compensato da un ampliamento
della scuola privata. In questo caso avremmo quindi un peggioramento netto
del sistema educativo italiano.

b) La concorrenza fra scuola pubblica e privata.


I provvedimenti in esame potrebbero introdurre un meccanismo di
competizione più concorrenziale fra scuola pubblica e privata. Un
meccanismo di competizione che potrebbe portare ad un complessivo
miglioramento del servizio scolastico. Perché ciò possa avvenire
bisognerebbe che la parità fosse non solo e non tanto nel costo e quindi nelle
risorse disponibili, quanto nelle normative relative alla gestione. Chiunque
abbia avuto un contatto con la scuola pubblica sa che una non secondaria
parte della sua inefficienza è dovuta a regole e regolamenti burocratici
disastrosi, con autonomia di gestione e possibilità di intervento sulle
strutture, sul personale e sulla possibilità di reperimento di risorse
aggiuntive praticamente nulle. I meccanismi di funzionamento della scuola
pubblica sono vincolati in modo centralistico e burocratico e nella maggior
parte dei casi senza la possibilità di trovare un interlocutore attendibile.
Basti pensare che su una singola scuola hanno contemporaneamente varie e
spesso imprecisate e sovrapposte competenze: il Ministero, la Regione, la
Provincia, il Comune, il Provveditorato e i Distretti scolastici!
Una effettiva possibilità di concorrenza può avere senso soltanto se si
affronta seriamente e complessivamente una riforma scolastica basata
sull'autonomia di gestione e sulla responsabilizzazione normativa ed
economica delle singole scuole.

2. Il problema del pluralismo.

Il secondo problema è più complesso e riguarda l'impostazione culturale del


sistema educativo. Con il servizio pubblico è possibile (almeno
teoricamente) costruire un sistema educativo pluralistico, nel senso che la
notevole limitazione nella scelta del tipo di scuola e degli insegnanti da
parte delle famiglie ha portato ad una aggregazione di studenti e docenti
abbastanza casuale e pluralistica, sia dal punto di vista sociale che di
impostazione culturale.
La scuola privata, così come è nata, e come è in tutto il mondo, si basa
invece sul criterio opposto di omogeneizzazione tra struttura familiare e
struttura educativa, e il pluralismo si verifica soltanto nella possibilità di
scelta tra il ventaglio delle varie aggregazioni omogenee.
Sono due concezioni totalmente opposte: la prima si basa sulla prevalenza
dei valori di eguaglianza, tolleranza, confronto, scontro critico e
nell'accettazione delle diversità culturali rispetto a predefiniti valori
familiari; la seconda al contrario si basa sulla prevalenza della tradizione
familiare e l'istituzionalizzazione della separazione dei valori, delle culture,
delle etnie e dei ceti sociali, indipendentemente dal fatto che tale
separazione avvenga realmente.
La cosa a mio avviso è molto pericolosa sia dal punto di vista culturale che
da quello politico-sociale. Anche se è difficile che un semplice
finanziamento pubblico possa stravolgere completamente la natura del
nostro sistema educativo, aver presente quali pericoli si corrono è di
importanza vitale.
Dopo Hitchcock
Ugo Pirro Il cinema italiano sembra che invecchi senza accorgersene, costruendo alibi
per ogni crisi che lo investe. La spiegazione di queste crisi perenni non è,
sostanzialmente, mai cambiata nel corso degli anni, i colpevoli sono sempre
e soltanto gli esercenti, i distributori e, soprattutto, l'invadenza del cinema
americano e della televisione. Più recentemente è stata indicata fra le cause
dello scarso interesse del pubblico per i film italiani la loro esclusione da
una programmazione competitiva.
La concentrazione cioè, di produzione, distribuzione, esercizio
cinematografico, sfruttamento televisivo e homevideo in un solo soggetto
penalizza i film italiani che non possono competere, oltre tutto, con la
spettacolarità miliardaria dei film americani, né opporsi alle condizioni di
favore che le imprese monopolistiche possono garantire ai loro listini. Da
tale stato di fatto non si può evadere esclusivamente con una politica di
finanziamenti statali generosi alla produzione italiana; occorre un
rinnovamento del linguaggio che sia all'altezza dei tempi, delle ricerche
espressive che alcune cinematografie indipendenti già conducono.
A mio avviso rinnovare il linguaggio significa ricercare, in parallelo,
un'altra politica per il cinema. Vale a dire, i film americani hanno imposto
un modello narrativo che è vano inseguire. Non è che manchino autori
italiani che conducano una loro ricerca di stile, ma spesso si tratta di
tentativi isolati, a volte aristocratici, che non provocano una aspettativa di
cambiamento generalizzato.
Bisogna fare un passo indietro, ripensare alle condizioni in cui nacque il
neorealismo. Nessuno capì, a suo tempo, che lo "stile" neorealista era la
sciatteria. Tutto in quegli anni era sciatto, non in senso dispregiativo, sciatto
perché povero, sciatta era la vita per la provvisorietà in cui si viveva nella
quotidianità. Il neorealismo nacque dalla necessità, ma vi fu chi seppe
interpretare quella necessità, farne ricerca di stile. Non si tentò di adeguarsi
ai modelli hollywoodiani. Durante le riprese di Roma città aperta,
l'operatore Ubaldo Arata si rifiutava di girare scene d'interno data la scarsa
quantità di luce di cui disponeva per illuminare il set. Rossellini rispose che
lui desiderava una fotografia "sporca", capace di restituire, attraverso
l'immagine, la verità di quel momento.
La ricerca di stile proseguì con Ladri di biciclette, nella necessità il cinema
scoprì l'aria, le strade, la luce naturale, uscì dai teatri di posa. Gli attori,
cosiddetti, presi dalla strada, imposero scene brevi, dialoghi stringati e veri.
Erano persone chiamate cioè, non a recitare, ma ad essere quello che erano
nella vita. Cambiarono, in altri termini, le strutture narrative, al punto che
tutti i film ne furono influenzati indipendentemente dalle intenzioni e dalle
scelte degli autori. I film neorealisti non rincorsero il modello americano che
pure era vincente in quegli anni, dopo l'ostracismo che i film di Hollywood
avevano subito dal fascismo.
Oggi il problema del cinema italiano si pone, sia pure in condizioni
profondamente diverse, apparentemente rovesciate, negli stessi termini, nel
senso che la ricerca di un linguaggio è un'altra necessità, è il primo atto
politico che il nostro cinema deve compiere. Nessuna politica, nessuna
forma di finanziamento al cinema nazionale vale se lo stile "telenovelas e
televisivo", l'imitazione dei generi, continuerà a condizionare la produzione.
Si tratta di despettacolarizzare il cinema, di ripartire dal tempo reale, di
abolire gli effetti facili, le sviolinate di rinforzo alle scene deboli, di
rimettere in discussione la suspense considerando, se non altro, che
Hitchcock l'ha sperimentata fino all'esaurimento. Ma non solo: anche le
strutture lineari non sembrano in grado di cogliere, per così dire, la sciatteria
del presente, il disordine quotidiano, il moltiplicarsi dei bisogni,
l'accavallarsi dei significati, la gratuità degli avvenimenti. Le strutture
narrative diventano caotiche, atemporali, mentre l'assenza di qualsiasi
background sembra codificare il rifiuto della storia, la cancellazione del
passato.
I rinonauti
Beppe Severgnini Ci sono molti modi di viaggiare: con i piedi, con la testa, con gli occhi, con
la bocca e con il naso. Con i piedi ci si muove per città e montagne; con la
testa, su libri e riviste; con gli occhi, dovunque (anche in televisione). Il
gusto è il mezzo di trasporto dei buongustai: loro non vanno dove li porta il
cuore, ma dove li conduce lo stomaco. Il viaggio olfattivo, tra tutti, è il più
sofisticato e coraggioso: occorre riconoscere gli odori del mondo, che non
sempre sono profumi.
E’ una lezione di anatomia turistica che conosciamo, ma alla quale
dedichiamo scarsa attenzione. Provate a pensarci: tutti, almeno una volta,
siamo stati rinonauti - viaggiatori con il naso. Tutti conosciamo la forza
evocativa di un profumo. La vacanza in Sardegna, per molti, comincia sul
ponte del traghetto, il mattino presto, quando la terra manda l’odore di
rosmarino e timo. Non c’è filmato, libro o rivista che possa restituire questa
emozione (e speriamo non ci sia mai; chi lo vuole, un catalogo con i
profumi dell’India?). Venticinque anni fa Gregory Corso - che non era un
calciatore dell’Inter, ma un poeta americano - scrisse una poesia dal titolo
Qual è l’odore di Berlino?, che recitava così:

"Ogni città ha il suo odore.


New York sa di scarpe nuove
Parigi sa di cinematografo
Londra sa di carcere correzionale
Stoccolma di biancheria lavata
Atene di terra battuta
Barcellona di rosso
Amsterdam di budino di mele
Venezia di umanità
E Berlino?
Non conosco l’odore di Berlino."

Non è necessario condividere queste impressioni. Gregory Corso, poeta


beat, trovava che Londra avesse l’odore del carcere correzionale; per me,
invece, sa di mouquette umida, di birra e di vernice. New York sa di vento e
di McDonald’s. Parigi, di vino e di carta. Stoccolma ha l’odore dell’acqua
fredda. Atene sa di gas di scarico. Barcellona, di mare e di roba da
mangiare. Amsterdam di velluto. Su Venezia sono d’accordo con Gregory
Corso. Su Berlino, come lui, mi astengo.
Ognuno può divertirsi in questo gioco, iniziando dalle città più facili.
Mosca, ad esempio, ha un odore inconfondibile: rancido-ipnotico, e dopo
qualche tempo non dispiace. Pechino sa invece di folla cinese, un odore
diverso da ogni altro al mondo. Anche i cinesi, com’è noto, pensano che noi
bianchi ci portiamo addosso un odore forte e strano (per questo ogni
incontro, laggiù, somiglia a un raduno di cani da caccia). Difficili da
riconoscere, invece, sono gli americani, forse a causa delle troppe docce.
Negli Stati Uniti molti sono convinti che l’odore del corpo umano sia uguale
a quello del bagnoschiuma. Finché la fidanzata, un giorno, non decide di
cambiare prodotto, e loro non la riconoscono più.
Questo non vuol dire che gli USA non siano un luogo interessante per i
rinonauti. Alcuni odori americani sono straordinariamente evocativi. Negli
aeroporti - da Boston a San Diego, da Miami a Seattle - devono usare lo
stesso detergente, perché un aeroporto americano sa di aeroporto americano,
e di nient’altro. Lo stesso vale per le automobili e i cinema. Dev’essere una
questione di fodere e di pop-corn, oppure uno speciale deodorante prodotto
dall’FBI, per diffondere il patriottismo olfattivo. Personalmente, sono
affascinato dal profumo di salsa barbecue, che mi riporta in America più in
fretta del Concorde (e costa meno).
Gli italiani, in genere, sono scadenti rinonauti. Quando viaggiamo, abbiamo
naso, ma solo in senso figurato. Sappiamo trovare il negozio con l’offerta
speciale - in questo siamo imbattibili - ma l’aspetto olfattivo dei luoghi
spesso ci sfugge. Siamo troppo impegnati a commentare e a fotografare, per
cogliere qualcosa di tanto effimero come un profumo. Non è mai troppo
tardi, tuttavia, per mettersi sulla buona strada; l’estate anzi, è il momento
ideale. Se impareremo a viaggiare con il naso (oltre che con gli occhi e il
cervello), verremo premiati. Potremo riconoscere un luogo ad occhi chiusi, e
non ci arrabbieremo se ci negano la camera con vista.
Links d'estate
Redazione Estate, vacanza, tempo libero, sollazzo. Un dovere, quasi.
Fra i divertimenti più in voga, incontrare. Chi? Il compagno/a della vita
magari, per gli eterni romantici sempre un po’ sconsolati, o la scappatella,
ma con metodo: per i flirtaioli incalliti ecco un bel luogo di viaggio
(virtuale). Ma anche coloro che della seduzione fanno un’arte sono
contemplati, a loro consigli e spunti, per uomini e donne. Ma perché non
andare a ripescare quello della prima B che ci piaceva tanto alle superiori?
Forse è libero, e non sa cosa fare. Se siete un po’ impacciati, se amate o
vorreste amare, ma non avete le parole per dirlo, non disperate, c’è chi vi
aiuta.
Se invece, per una ragione o per un’altra, partite con un bel messaggio di via
in saccoccia, valgono i consigli precedenti se non vi date per vinti, ma
alcuni, più solitari e meditabondi, preferiranno magari farsi accompagnare
da simpatici animali domestici, ce n’è per entrambi gli schieramenti, cinofili
e gattofili. Potete anche intraprendere nuove attività di svago, distillatevi
una birra (certo se avete sete subito, non è molto funzionale) o collezionate
scatole, sempre di cereali si tratta. Se siete idealisti e combattivi potete
sempre schierarvi con i nani da giardino o le mucche in lotta per
l’emancipazione. O datevi allo sport sfrenato.
Per tutti, un avvertimento: badate alle stravaganze. Certi contatti, tipo con
gli extraterrestri, di moda ai tempi dello sbarco su Marte, potrebbero
costarvi cari, fino a 5000 dollari.
C’è anche chi è già tornato dalle ferie. Voi che ogni mattina dovete alzarvi,
perché, ahimè, il dovere vi chiama di nuovo, fatevi almeno distrarre da un
bel buongiorno con barzelletta incorporata. Concedetevelo, iniziare la
giornata col sorriso dicono faccia un gran bene alla salute.
E intanto, preparatevi all’autunno. Quest’anno pare faranno tendenza gli
anni ’80. Eh sì, sarà una bella svolta, i '70 sono un po’, come dire, triti e
ritriti... Non vorrete fare la figura degli sprovveduti!?

E se poi di tutto ciò ve ne infischiate e anzi vi sottoponete di malavoglia a


queste vacanze frenetiche "dovute", beh, potete sempre cambiare ritmi e
scadenze, adeguandovi ad altre convenzioni.

Non trascurate le letture, mi raccomando!


"Love letter in the sand"
ovvero: Le vacanze? Al lavoro!
Redazione Delle tante date che scandiscono lo svolgersi dell’anno, le vacanze
costituiscono il rito più recente, il più laico e il più lungo. Pasqua, natale,
carnevale o la fine dell’anno si possono facilmente ricondurre a miti ed
espressioni molto più arcaici della loro istituzionalizzazione cristiana, che
comunque conta un bel cumulino di anni.
Che noi si fuggano o si onorino gli attributi di queste occasioni (l’uovo di
pasqua, il presepe, le mutande rosse) resta il fatto che ciascuno di questi
oggetti conserva e perpetua aspetti e significati remoti. Sulle vacanze c’è
ancora tanto lavoro da fare.
Questo spostamento di masse umane attraverso i treni, i traghetti, le
autostrade, gli aeroporti, passando per le agenzie, le cartine, i bermuda e le
creme abbronzanti sembra invece interessare solo aspetti esteriori, di
organizzazione, di immaginazione spiccia e di ordine pubblico e privato,
insomma la cronaca dei telegiornali e il sommario dei settimanali femminili.
Anche questo è rispetto del rito (non si comincia a maggio con il tormentone
della cellulite, e non sono tutti uguali i tg di ferragosto?), ma c’è dell’altro
da cercare.
Ecco, cerchiamo, entriamo nel merito e affondiamo mani e memoria
nell’indice delle nostre letture, delle nostre visioni, e dei nostri ascolti:
racconti e romanzi, film, canzoni diventeranno le nostre fonti mitografiche.
A ordinarle e incrociarle (magari per titoli, o argomenti) ci penseremo qui in
redazione.
Dovrebbe emergerne, ad archivio nutrito, non solo un bell’elenco di titoli,
ma anche un ampio repertorio di oggetti e situazioni, dal quale ciascuno
potrà evincere significati e allegorie che, non è escluso, potrebbero avere
favorevoli ripercussioni sull’analisi della realtà vacanziera di ciascuno e
sull’orientamento futuro di questo nucleo di vita che pulsa nell’uniformità
del calendario.
Facciamo una piccola e non troppo impegnativa mente locale sulla sabbia,
ad esempio, ed ecco concentrarsi alcune attività umane fondamentali e
accumularsi alla nostra presenza oggetti pronti a trasformarsi in simboli da
interrogare: paletta, secchiello, rastrello, costruzioni ontologicamente
effimere di torri e castelli; e poi decine di monumenti all’amore e alla sua
fragilità. Potremmo non vedere in queste azioni la replica del gesto
primordiale del Grande costruttore di massonica o babelica memoria, o la
tentazione del simulacro, che appartiene alla scultura, quanto alla tecnologia
o la vanità dello scrivere d’amore? Questa specie di associazioni, che
ciascuno potrà sviluppare a suo piacere, non sono che il primo e acerbo
frutto di un primo elenco mentale che vado ad illustrare:
Franco Primo e Franco Quarto "Ho scritto t’amo sulla sabbia"; Pat Boone,
"Love letter in the sand"; Ivano Fossati "La costruzione di un amore"; Ernst
Theodor Amadeus Hoffmann, "L’uomo della sabbia"; per non parlare delle
numerose fonti del Golem.
C’è poi un’altra associazione, anzi un’opposizione che propongo ai lettori:
vi ricordate Brivido Caldo, di Laurence Kasdan? E’ una bella specie di
ossimoro quella del titolo, che esprime qualità opposte e complementari: il
caldo sembra un tratto ricorrente dei generi noir e giallo, quelli che danno i
brividi e gelano il sangue, insomma; come se il caldo garantisse una certa
inibizione delle resistenze e delle mediazioni che la ragione può opporre al
desiderio della trasgressione o del delitto. Era bella, pesante e potente l’aria
calda che passava da quel film e l’intera città e lo spazio risentiva di questa
atmosfera. Per contrappunto penso a Shining, alla consueta specialità di
Kubrick e alla stanza dei frigoriferi dell’Overlook Hotel: erano pur sempre
vacanze quelle di Jack Torrance e famiglia.
Se come i Torrance vi trovate con un po’ troppo tempo libero, concorrete
alla costruzione dell’Archivio. Romanzi, film, canzoni (possibilmente con
testo) e, perché no?, oggetti. Commentati e scommentati, tutti i titoli saranno
osservati, ordinati e archiviati.

Forum: Archivio delle Vacanze


L’Asso portante di Milano
Carlo Bertelli Con l’insediamento della giunta Albertini molti problemi che
l’amministrazione leghista di Milano aveva rinviato tornano sul tappeto e vi
è l’espressa volontà di risolverli in modo rapido in una visione aziendale
della città. Chiunque avesse vinto, fra i due schieramenti, sappiamo che il
referente sarebbe stato in ogni caso l’Assolombarda ed è a questi poteri forti
che la città affida i propri dubbi, le irresolutezze, talvolta le angosce e le
paure. Agli uomini dell’Assolombarda sono affidati i problemi della cultura.
In parte lo erano già, vista l’irruzione degli sponsor, che in un primo tempo
avevano avuto la mediazione culturale socialista e ora non cercano più filtri
se non quelli stabiliti all’origine delle erogazioni. Chi aveva ancora
collaborato con la giunta Borghini dicendo che questa era di sinistra, va ora
da De Carolis apprezzandone il senso pratico.
Fra i grandi problemi sul tappeto vi sono, certamente, i grossi complessi
culturali che gestisce il Comune, come il Castello Sforzesco, la villa Reale,
il palazzo Dugnani, il palazzo Reale. Per il momento l’efficienza è in questi
casi più proclamata che vissuta. Incominciamo dalla villa Reale. Da molti
anni quella che è ancora la cultura milanese preoccupata dell’avvenire della
città (non quella che spara un’idea "brillante" di cui si parla quindici giorni e
tutto finisce lì) ritiene che un museo che espone opere fondamentali di
Segantini, Pelizza da Volpedo, Morbelli e una collezione come quella Grassi
debba essere liberato da altre funzioni, prima di tutte quella di sede dei
matrimoni civili. E’ questa, soprattutto, la ragione per cui da molti anni è
stato allestito il progetto di restauro del salone affrescato da Tiepolo nel
palazzo Dugnani, indicato come il luogo ideale per la celebrazione dei riti
civici, dai matrimoni alle feste e cerimonie. Come tante altre buone cose, il
restauro fu silurato dalla vecchia giunta, sarà ora, almeno si spera, messo in
cantiere e, intanto, si usa la villa Reale come sempre: matrimoni e feste. Per
mancanza di personale in molte di queste occasioni la collezione Grassi
resta chiusa.
La villa Reale ha assoluto bisogno di restauri. Questi stanno andando avanti
a spese del museo, senza nessuno stanziamento straordinario. Non sarebbe
male che, per il momento, finchè nella villa si danno feste, gli ospiti fossero
invitati a contribuire ai restauri. Mi sembra che vi sia addirittura una tariffa
per questo scopo. Invece con l’ultima festa data in onore di Emilio Fede si è
fatto, si dice, addirittura un sensibile sconto.
Da questi brevi appunti credo emerga il quadro della Milano attuale. E’ una
città senza partecipazione, dove soltanto i gruppi economicamente forti, i
grandi professionisti, i finanziatori di gruppi che si definiscono "società
civile" hanno voce in capitolo e posseggono la stragrande maggioranza della
produzione a stampa e le televisioni. Direi che anche lo spettacolo che ha
offerto il duomo per il suffragio di Gianni Versace faccia parte di un
desiderio di autocelebrazione di quanti contano, per i quali anche i sermoni
del cardinale sono poco più che spruzzi di acqua benedetta (nel Moralista
’68 un editore di sinistra pubblicò i tremendi discorsi di san Carlo ai
Milanesi, ma non si vorrebbe tornare a quelli). Il declino di Milano, che
soltanto pochi interessati contestano, è così divenuto inevitabile perché va al
di là delle volontà e si è fatto strutturale.
E’ giusto chiedersi se l’applicazione della legge Bassanini, che prevede il
passaggio dei beni culturali alla gestione regionale aggraverà o migliorerà la
situazione milanese. Se Milano dovrà essere dominata dalle burocrazie
comunale e regionale, che vadano o no d’accordo, il peggioramento sarà
sicuro. Occorre che Milano rompa il cerchio in cui sta per essere chiusa con
un’iniziativa nuova. Questa deve essere, ritengo, la ripresa di un voto
formulato in un convegno regionale in un momento di vuoto politico, nel
1994. Il voto chiedeva l’istituzione di un organo elettivo tecnico regionale,
un consiglio dei beni culturali analogo a quello che siede a Roma nel
Ministero per i Beni Culturali. Un consiglio tecnico capace di esaminare
problemi concreti, dare valutazioni, suggerire indirizzi. Un consiglio capace
di mettere in movimento quelle energie intellettuali che sono oggi
ghettizzate nelle università, nei musei e in altri luoghi della cultura che
ormai vivono sempre più appartati, timorosi di venire allo scoperto. Non
voglio qui tessere un elogio delle università. La nuvola dello sparo partito da
una stanza dell’università di Roma trasporta fumi di precariato, di baronie,
di omertà e piccoli ricatti che la dice lunga sulla vita accademica. Ma anche
questa vita sommersa avrebbe tutti i vantaggi se uscisse allo scoperto, se un
sistema elettivo rompesse i ruoli e costringesse gli eletti a pronunciarsi
responsabilmente sui problemi di organizzazione della cultura. Finora, però,
mi sembra che quel voto del 1994 sia rimasto soltanto nella memoria di chi
aveva partecipato al convegno. L’ho ricordato in questi giorni all’assessore
regionale alla cultura, il dottor Tremaglia, che mi ha detto che nessuno
gliene aveva mai parlato.
Dialogo tra un deputato e un collegio
Giovanna Grignaffini Da una parte la delusione. Senza rimproveri ma delusione. Dall'altra un
leggero fastidio.
Loro dicono che noi siamo cambiati, che ormai capita sempre meno di
condividere le sere, le discussioni, i progetti e le azioni.
Noi diciamo che loro sono rimasti immobili.
Loro sono i nostri compagni di studio, di lavoro, di politica e di tempo
libero, facce incontrate e gesti scambiati da qualche parte, antiche amicizie,
semplici elettori.
Noi siamo deputati di collegio, figli di una legge minore che ci consegna a
una terra sciogliendoci contemporaneamente dal suo nome.
Dicono che non è solo per quel tempo di noi che a loro viene sottratto,
oppure per quel necessario realismo che sembra aver smorzato la nettezza e
il radicalismo di antiche comuni passioni. Anche loro lo sanno che "ora
siamo al governo".
Dicono che è soprattutto per quel nostro cedimento - ora palese ora
sotterraneo, sempre inspiegabile ma talvolta imbarazzante - alle ragioni
dell'altro.
Calde sere di Roma, terrazze e buvette, grande famiglia della politica,
palazzo chiuso ai respiri del mondo e in cui si diffonde una complicità da
carcerati: di tutto questo non parlano apertamente per rispetto di una storia e
pudore, ma puoi sentirne l'eco tra le parole, sempre disposte ad esaltare una
politica che può restare viva quando più sa mantenersi vicina al taglio netto
del luogo d'origine e lontana da quella confusione che cancella memorie e
confonde confini.
Inutile dire che il senso della comunità di appartenenza può non essere
perduto ma appartenerti un po’ meno. Rivendicando magari il carattere
positivo di una distanza fisica e mentale che ti consente di vivere con un
sentimento senza esserne totalmente preda.
Inutile anche fare appello al "nuovo spirito del maggioritario" che
necessariamente fa esplodere il cerchio della tua comunità politica di
riferimento, consegnando la tua rappresentanza a un territorio composto di
molte parti.
Del tutto improvvido sarebbe poi evocare i limiti di quelle culture
comunitarie del tutto chiuse, nella loro autoreferenzialità, ad ogni discorso
dell'altro: siano esse le comunità tribali ancorate allo spirito del luogo; siano
esse le nomadi comunità virtuali che si cercano e prendono forma nel vuoto
pneumatico della grande rete.
Il dialogo potrebbe farsi impossibile se non fosse per quel sapere tutti, noi e
loro, che in esso si consuma molto di più di qualche ossessione, fastidio e
delusione privata.
Molto di più: qualcosa che attiene al nostro presente, e cioè l'individuazione
dei modi attraverso cui si definisce un mondo aperto di relazione e di
scambi senza far tacere le molteplici voci del luogo. Un mondo in cui il
convivere fianco a fianco delle molte differenze non esime dalla ricerca di
un "senso in più" condiviso.
Molto di più: qualcosa che attiene alla società politica italiana, il cui
percorso verso un comune senso delle istituzioni resta in larga parte
incompiuto; così come la capacità di mantenere aperto il conflitto tra
modelli di governo differenti e tra differenti rappresentazioni di società
future.
Molto di più: loro lo sanno, noi lo sappiamo e il dialogo può ricominciare.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

Le lettere nascoste delle due ics iniziali di questo Autogolem sono uguali
alle lettere nascoste dalle due ipsilon finali: assieme compongono un
accorciativo che si usa per alcuni nomi maschili (se fossero M,I,- e non lo
sono - il risultato sarebbe Mimì, cinematografico metallurgico; se fossero T,
O, e continuano a non esserlo - il risultato sarebbe Totò). Le altre sequenze
di x o di y si ripetono, di strofa in strofa.

1. "E ALL’IMPROVVISO, ECCOLA QUA"

L’automobile è a rate
In ufficio non andate
perché al sole vi scottate.
Questa dunque è x’xyyyyy

2. CHI LI HA VISTI?

"Son scappato con Irene,


di cercarci non conviene,
non facciamo troppe scene
Veniamo a voi. Yyyyy xxxx?"

3. TECNOGALANTERIA BELGA

Il mio E-mail è un billet doux:


ti amerò nel Xxxxyyy
4. MARITO ANTICONFORMISTA

La morale non lo guida


e gli ipocriti lui sfida,
Se lo vedi par che rida:
è così y’yyxxxxxxx

5. TRESETTE

Se di coppe non ne ha
e finì le spade già,
o bastoni scarterà
oppur xxx xx xxyy

6. POLITICO CONCILIANTE

Di ragione non sei privo,


ma ti trovo un po’ agressivo.
Voglio esser positivo:
ti porgo un YYxx x’xxxxx.

7. LA BUROCRAZIA SI FA PIU’ AEREA

Compilare fogli, e tanti,


con fatiche anche frustranti...
Basta là. D’ora in avanti,
solo xxxxxx xxyyyyy

8. VOGLIA DI ESSERE UN PATRIZIO

Son stressato, sono in coma,


mi par d’essere un automa:
troppo onusta è la mia soma.
Andrei ne y’yyyyxx Xxxx.

9. POLEMICHE MISTERIOSE E RISPOSTACCE NEL CICIDI’

"Buon Casini, minor iella


è la brace o la padella?"
"Ti fo il gesto dell’ombrella
prendi su, xxxx Xxyyyyyy".

10. NEW AGE E FITNESS

E’ l’annata meno lieta


te lo dice il gran profeta
ed aggiunge. "Sta’ un po’ a dieta:
passa una yyyyyy xxxxxx".

11.DEVI AVERE FIDUCIA IN CHI LAVORA PER TE

"Ma ti piace, allor, la Vale?


A me pare niente male
Sono, in fondo, il tuo sensale.
Te lo chiedo xxxx xxyy".

Soluzioni

1. L’Estate;
2. state BENE;
3. BENElux;
4. l’uxORICIDA;
5. ORI CI DARà;
6. raMO D’ULIVO
7. MODULI Volanti;
8. l’antiCA ROMA;
9. CARO MAstella;
10. stella COMETA;
11. COME TAle
(=Lele)
Andare dallo Psicoterapeuta
Roberta Ribali E’ una decisione fondamentale: si tratta di investire tempo, fatica, emozioni
e denaro su ciò che di più importante abbiamo, noi stessi. Eppure, anche
quando ne sentiamo la necessità - a volte preferiamo mascherarla da
curiosità - manifestiamo resistenze di ogni genere, che vanno dalla
banalizzazione del nostro malessere alla rimozione, dall’adozione di rimedi
ingenui e semplicisti, come spendere in nuovi abiti, auto o computer, alle
decisioni drastiche e violente, come abbandonare una persona amata o un
corso di studi. Ma lo star male aumenta ad ondate: sotto forma di ansia
sottile che pervade ogni momento della giornata, o di crisi di panico e di
fobie, o di depressione del tono dell’umore, di malinconia che ottunde ogni
entusiasmo e gioia di vivere e che spegne anche il corpo e i suoi piaceri.
Trovare uno psicoterapeuta adatto con cui focalizzare correttamente i
problemi e cercare le soluzioni è certamente la via più ragionevole: ma un
malinteso senso del "fai da te" porta a perdere tempo e a impaludarci sempre
più in noi stessi. I più fortunati possiedono un amico - o un’amica - con cui
si può parlare, ed è già un bene prezioso. Ma questi dialoghi si risolvono in
genere con una serie di consigli affettuosi che lasciano il tempo che trovano.
A volte, è proprio l’amico che suggerisce di rivolgersi a uno che lui stesso
conosce, con cui ha avuto una buona esperienza, diretta o indiretta.
Questa è una valida strada, perché già si parte con un atteggiamento di
fiducia indotto, che aiuta a maturare una decisione e a compiere il passo di
telefonare per un appuntamento. A volte si preferisce fare tutto da soli,
magari guardando le Pagine Gialle o telefonando a caso a qualche
Associazione. In questo caso è opportuno prendere delle precauzioni,
chiedendo ampie informazioni, che è dovere di un serio psicoterapeuta
fornire: che tipo di laurea ha, se cioè è psicologo, psicologo medico o
psichiatra, che tipo di lavoro svolge, se opera privatamente o in qualche
struttura. Il lavoro in uno studio privato è naturalmente più costoso di quello
offerto da un Consultorio Pubblico. Nel pubblico si viene a contatto con
psicoterapeuti qualificati, che però lavorano inquadrati nelle maglie di un
servizio che necessariamente prevede priorità, orari prestabiliti e rigidi, turn-
over degli operatori: disponibilità insomma in qualche modo limitate, che
vanno prese per ciò che possono dare. Il fattore di importanza reale è
comunque la persona dello psicoterapeuta: che operi nel pubblico o nel
privato, deve comunque darci la sensazione di poter lavorare bene insieme.
Non dobbiamo stupirci se, a volte, è necessario girare alcuni studi prima di
trovare la persona che fa per noi: qualcuno che magari ha tutte le carte in
regola e ci è stato ben introdotto può non ispirarci quella sensazione di poter
collaborare reciprocamente che è alla base del successo terapeutico. Non sto
assolutamente parlando di simpatia o antipatia: il senso del lavorare bene
insieme è tutt’altra cosa. A volte un terapeuta che va bene per noi può essere
taciturno, o di aspetto modesto, o di modi un po’ ruvidi; ma la domanda che
ci dobbiamo porre, dopo il primo colloquio, è solo una. Cioè: con uno -o
una- così io me la sento di aprirmi e di procedere nel mio mondo interiore?
Anche il fatto che il terapeuta possa essere uomo o donna è sostanzialmente
irrilevante, salvo casi particolarissimi; l’importante è che si tratti di una
persona esperta e sostanzialmente per noi positiva, che permetta l’incontro
intellettuale ed empatico, al di là di inevitabili discrepanze culturali e
ambientali. Decidere di consultare uno psicoterapeuta è qualcosa che, a
volte, già basta a far stare meglio; la prospettiva di essere ascoltati a
trecentosessanta gradi senza essere oggetto di giudizio o rimprovero è un
pensiero che dà speranza e rassicurazione.
Oggi questa prospettiva capita un po’ a tutti, almeno una volta nella vita:
difficoltà con l’ambiente o con la scuola, problemi di coppia o di identità
sessuale, depressione, paura ad affrontare un’esistenza sempre più
complicata. Ed infine i disturbi e le malattie psicosomatiche, che sono un
complesso linguaggio attraverso il quale il nostro corpo traduce i nostri
disagi profondi. Tutti questi segnali di malessere ci sono amici,
paradossalmente, e dobbiamo dare loro retta. Crisi d’ansia o di depressione
sono importantissimi e utili campanelli d’allarme che dicono che c’è
qualcosa di molto importante che non va in noi stessi, e che ce ne dobbiamo
occupare al più presto, senza nascondere la testa sotto la sabbia
trangugiando tranquillanti e lasciando che tutto vada avanti. Un
cambiamento a volte è indispensabile per ritrovare la propria armonia
interiore perduta ma è spesso così difficile che è necessario un sostegno
qualificato e amico per smantellare resistenze e retaggi conservatori.
Investire in noi stessi, sempre, ma tanto più quando occorre, fermarsi a
riflettere, ridare spazio alle priorità fondamentali: possiamo anche servirci di
un buon psicoterapeuta, senza pregiudizi e con un po’ di pragmatismo.
Postazioni (Trees Lounge)
Rossana Di Fazio A me piace l'estate; mi sembra che, nonostante tutti gli sforzi per ridurla ad
una parentesi sempre più esigua di vacanza forzata e di malata iperattività
alternativa, luci, colori e temperature, espressioni di una Natura contaminata
finché si vuole, impongano al corpo andature diverse, ritmi adatti a
sopravvivere, un certo armonioso torpore.
Non sto venendo meno ai miei compiti, perché è soprattutto di un modo di
rappresentare e vivere il Tempo che intendo scrivere.
Me ne offre l'occasione il film ben diretto e molto ben interpretato da Steve
Buscemi, Trees Lounge (in italiano Mosche da bar : ogni commento mi
sembra superfluo), presentato lo scorso anno e in programmazione da
qualche settimana in Italia.
Ha l'aspetto di un film leggero nelle forme, benché decisamente
drammatico, come sanno essere certi film indipendenti, la cui freschezza
sembra inversamente proporzionale alla dovizia di mezzi e denari.
Il film è ambientato in una piccola città americana; si prende, nel corso del
film, una certa confidenza topografica con questo posto e questa è una
sensazione curiosa, perché è difficile che questa familiarità con lo spazio
percorso dai personaggi sia rilevante in un racconto; ma il giro che Tommy
compie fra i meccanici e il bar, e poi quello che ripercorre con il furgone dei
gelati mostra sempre le stesse strade e villette, e prospettive sempre uguali
che fanno di un luogo una provincia, un posto finito, concluso, facile da
conoscere. Non c'è nessuna avventura nello spazio, né direzione da
esplorare.
Mi è venuto in mente un film che ormai ha più di vent'anni, bellissimo,
L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, molto diverso, ma ambientato in
una analoga cittadina, circoscritta, un'isola di spazio e di persone , senza
folle, senza persone da scoprire e senza Tempo.
Nel suo ritratto di provincia Bogdanovich delegava ad un bianco e nero
rigorosissimo (e allora niente affatto inflazionato) la restituzione di un
effetto anni cinquanta molto accentuato nel quale il Cinema e il Racconto
combaciavano perfettamente, trovando una loro unità drammatica e
narrativa straordinaria. Sembrava una specie di incantesimo.
In Trees Lounge sono pochi gli elementi che consentono di datare
perfettamente il racconto, come se questo non fosse molto importante. C'è
piuttosto un certo gusto nel mischiare le carte, nell'introdurre musiche molto
datate (il juke box alimentato dal vecchio Billy manda solo vecchie canzoni)
o certi abbigliamenti eccessivi delle avventrici del bar, o nel sottolineare
l'assenza, nel bar, di uno straccio di videogioco. Lo stesso furgone dei gelati
di Zio Hal, che Tommy prenderà in consegna, sembra un mezzo di altri
tempi, quelli che la giovane Debbie rievoca ricordando Il mago di Oz, e che
i bambini in attesa del gelato agli angoli della strada non devono sentire
come troppo diversi dai propri.
Non è solo l'eclettismo ammiccante e citazionista a cui siamo molto abituati:
credo che questa ricerca di varietà e identità temporali sia fondamentale per
una specie di poetica, che esprime una spiccata sensibilità per una
dimensione ampia del Tempo, una specie di disponibilità a sentirne, nel qui
e ora, l’espansione, la compresenza di passato e futuro. E' un effetto fin
troppo evidente nella simmetria e coincidenza dei volti del vecchio Billy e
del giovane Tommy, ritratti che insistono sullo schermo rispettivamente
all'inizio e alla fine del film, e rimarcato da una specie di identità
fisiognomica fra i due personaggi che può disorientare lo spettatore.
Ma sarebbe un errore non cercare nell'alcool, e soprattutto nel bar come suo
sacrario, il centro di questo discorso sull’esperienza del Tempo.
Alcool, fumo, eroina: Trees Lounge, Smoke, Trainspotting sono tutti film
indipendenti e piuttosto importanti di quest'ultimo anno. In forme, e a gradi
molto diversi, hanno proposto in primo luogo una situazione, una postazione
da cui guardare il mondo: il negozio, il bar, la stanza dove ci si fa, dalla
quale si prendono o si accorciano le distanze con tutt’altre accellerazioni.
Bene, a me pare che tutte queste prospettive abbiano anche saputo proporre
senza moralismi una visione asciutta e dialettica, e non solo nichilista di
queste tre dimensioni esistenziali.
In Smoke, Trees Lounge, Trainspotting a variare è il grado drammatico del
racconto, non la centralità del rito e la conoscenza che esso custodisce.
Questi paradisi artificiali che divengono oggetti e organizzatori del racconto
servono anche in quanto metafore del Tempo vissuto, di cui il cinema si
appropria.
"Scegliete di marcire o scegliete la vita", propone il narratore di
Trainspotting, ma in quel marcio sembra esserci molta verità e nell'alcool la
tentazione sublime di non cedere all'azione, saggia o stupida che sia. Quella
sensazione del tempo ampia, multipla, che ho provato a descrivere, sembra
avere come condizione una certa immobilità. Ma movimento e inazione
sono anche qualità del discorso cinematografico. Questo cinema, anche
produttivamente diverso, impone altri ritmi alla narrazione, dettati da regole
diverse dall'azione rutilante e incalzante della grande produzione
commerciale, che teme la stasi come la morte e deve descrivere un Tempo
sempre pieno, e muoversi continuamente per trasformare ogni vuoto in
soluzione spettacolare, dando vita ad un’ unica e sfaccettata dimensione di
un Presente interminabile: anche questo è un modo di esorcizzare il niente,
il pericolo, l'horror vacui; forse per questo quando deve mettere in scena il
Tempo che passa ricorre volentieri, e con una certa commovente ingenuità,
alla maschera della vecchiaia, che appare sempre posticcia e inverosimile.
Come se il sentimento del Tempo fosse questione di trucco.

Vedi Anche:

http://www.treeslounge.com/ontap.html
Omaggi
Roberto Caselli Pochi mesi fa lo davano per spacciato, ora esce addirittura il primo disco
della sua nuova etichetta: la Egyptian Records. Dylan, come al solito,
spiazza tutti perché nessuno pensava che il progetto fosse così prossimo a
realizzarsi. Sorprende anche la scelta, un vero atto di umiltà, che affida
l’inaugurazione della label ad un disco-tributo dedicato a Jimmy Rodgers, il
padre della country music, piuttosto che a un proprio lavoro. Certo Rodgers
non è un personaggio qualsiasi, da lui comincia a evolversi quella musica
che passando attraverso la Carter Family e soprattutto Woody Guthrie,
segue un filo diretto che porta agli anni sessanta e in particolare al giovane
Dylan, allora folksinger poco più che ventenne e di belle speranze, che dal
Greenwich Village newyorkese, parte alla conquista del mondo.
Jimmy Rodgers nacque a Meridian, nel Mississippi, nel 1897, il suo lavoro
era quello di frenare e deviare i treni sulla strada ferrata della sua città,
mestiere che lo mise in contatto con una vasta schiera di hoboes, quei
vagabondi alla continua ricerca di lavori avventizi che si spostavano da nord
a sud dell’America viaggiando in modo clandestino sui vagoni merci. Fu
grazie a loro che venne a contatto con i blues, i work songs e le tecniche
espressive della musica del Sud; imparò a suonare il banjo e la chitarra e fu
presto in grado di elaborare uno stile musicale molto particolare che aveva
in sé i germi della musica nera, ma anche il fascino avvolgente della musica
hawaiana, spesso tanto dolce da apparire mieloso, ma anche ricco di
struggimento o nostalgia. I testi delle sue canzoni non erano particolarmente
significativi per il periodo storico in cui furono scritti, infatti, nonostante i
guai della Grande Depressione, Rodgers preferì sempre centrare la sua
attenzione sugli aspetti più retorici e patetici che ne derivavano, dando
un’idea piuttosto grossolana della realtà. Ben presto si ammalò di
tubercolosi e l’inizio della carriera discografica gli risparmiò fatiche
insostenibili. Incise il suo primo disco nel 1927 e, nonostante la scomparsa
prematura avvenuta nel ’33, riuscì a effettuare parecchie registrazioni di
successo che eseguì spesso con il classico uso dello yodel. Jimmy Rodgers
ha avuto un’influenza determinante nello sviluppo successivo della musica
country e gli artisti delle generazioni successive gli hanno sempre conferito i
giusti onori che sono culminati nella deposizione di una lapide nella
Country Music Hall Of Fame di Nashville. Più recentemente, con la
raffigurazione della sua effige su un francobollo emesso dalle poste
americane, c’è stato anche il riconoscimento ufficiale della sua opera. Ora a
settant’anni dalla nascita, Bob Dylan dà il suo contributo personale al
ricordo del grande maestro concependo questo tributo in cui figurano
quattordici musicisti che interpretano altrettante canzoni del repertorio più
famoso di Rodgers. Hanno dato il loro assenso a questo progetto anche
personaggi del tutto impensabili come Bono degli U2 che per l’occasione
ritorna all’acustico per una splendida ballata, Dreaming With Tears in My
Eyes, e Jerry Garcia che ha registrato insieme a David Gisman il suo pezzo
poco prima di morire. Scontata invece la partecipazione degli artisti del
nuovo country come Steve Earl, Dwight Yoakam e Mary Chapin Carpenter
o di quello tradizionale come Willie Nelson. Tra i molti altri figurano anche
Van Morrison, John Mellencamp, Aaron Neville e naturalmente lo stesso
Dylan che si mette in evidenza con My Blue Eyed Jane.
Le anime delle nuove generazioni cercano e spesso trovano corrispondenza
con quella del vecchio Jimmie, un’operazione mediata da un evento
commerciale, ma dettato sicuramente anche da tanto affetto.
Statistica
Sylvie Coyaud http://nilesonline.com/stats/index.shtml

Giugno 1997. E’ a Milano per il convegno Futuro del sapere, futuro del
lavoro, organizzato dall’agenzia Hypothesis, Burton Richter, un fisico molto
simpatico che ho conosciuto cinque anni fa. Ha scoperto una nuova
particella e ha ricevuto il premio Nobel per la Fisica nel 1976, quando aveva
45 anni. Dal 1984 dirige lo Stanford Linear Accelerator Center in
California. In questo momento è felice perché sta costruendo una grandiosa
macchina per produrre degli anti-mesoni B, una "fabbrica di anti-materia"
che dovrebbe funzionare a regime nell’estate del 1998.
Dopo che mi sono informata del suo lavoro si informa lui del mio e siccome
è gentile, fa di più. Suggerisce dei temi da trattare, dei libri da leggere, dei
suoi colleghi da interpellare, e raccomanda:
— Cerca di familiarizzare i tuoi ascoltatori con il ragionamento statistico. Se
vogliono agire da cittadini pensanti, devono capire quello che le statistiche
dicono e non lasciare che siano gli altri, i politici ma anche gli scienziati, a
interpretarle al posto loro.
— Eh sì, lo so.
Lo so davvero. La statistica si trova nella cassetta degli attrezzi di qualsiasi
scienziato. Esiste in tante versioni, dal semplice cacciavite di cui parla
Burton Richter al Black & Decker multiuso, più difficile da montare
dell’intera missione Pathfinder.
— Devi fare qualcosa.
— Ci proverò.
Per radio, ancora non so come farò. Per Golem, no problem.
Un sito web spiega in un inglese terra terra la media, la mediana, la
percentuale, la deviazione standard, il margine d’errore - sottotitolo "come
non farsi fregare dai sondaggi" - l’analisi dei dati, la rappresentatività di un
campione. C’è una biografia di Robert Niles, giornalista scientifico che va
congratulato per questa sua iniziativa di salubrità pubblica. E una
bibliografia concisa ma eccellente, alla quale io aggiungerei soltanto un
saggio emozionante: Stephen Jay Gould, The Median Isn’t the Message.
Gould racconta che, malato di cancro, gli avevano dato ancora otto mesi da
vivere, la mediana del suo caso. Sapere di statistica gli ha letteralmente
salvato la vita. In italiano La mediana non è il messaggio è nella raccolta
Risplendi grande lucciola pubblicata da Feltrinelli, Milano 1994, 45.000 lire.
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Gradara Ludens Festival

Presentazione e programma

54. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica


Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer

Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:

Paolo Palazzi, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Beppe Severgnini, Ugo Volli, Carlo Bertelli,
Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio, Cinzia Leone, Fabrizio Tenna, Ugo Pirro,
Altan

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo Italia Online


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Buon compleanno, Golem!

Cari lettori, lo sappiamo (e ce lo ricorda anche uno dei nostri collaboratori in questo stesso numero) che i
tentativi dell’uomo di dare una scansione al tempo riposano su assunti assolutamente relativi. Tuttavia ci
sentiamo di festeggiare questo primo compleanno di Golem da una parte perché siamo consapevoli che tutto il
mondo riposa su assunti relativi, dall’altra perché sentiamo questo Golem come una creatura vivente, nostra e
vostra, frutto del pensiero e dell’opera dei collaboratori, dei lettori, della redazione.
Al piccolo Golem (e ai nostri lettori), come è d’uso, abbiamo fatto due regali. Il primo è uno strumento di
conoscenza: un sistema di indici che permette di individuare agevolmente tutto ciò che su Golem è stato
pubblicato su un certo argomento o da un certo autore. Il secondo è più un regalo a chi ancora non naviga in
Internet: questo numero di Golem, infatti, sarà presto disponibile anche su carta, nelle librerie Feltrinelli.
Giustizia, educazione, telecomunicazioni, giornalismo, occupazione, welfare, riflessioni sul nuovo millennio
sono solo alcuni degli argomenti che Golem 12 propone.
Augurandovi ogni bene, attendiamo vostre notizie.
Messaggi
Furio Colombo Qualcosa cambia, ma cosa? E’ la troppa velocità o la troppa lentezza del
cambiamento che ci stordisce? Che senso ha una giornata, la durata di una
giornata, la scansione di una giornata, di un minuto, di un’ora o la sequenza
degli anni?
Per esempio, il calcolatore non vede il 2000 e tutti i computer del mondo
dovranno essere riprogrammati a un costo immenso, altrimenti rifiutano di
entrare nel nuovo millennio. Non sarà un segnale? E se tutti fossimo intenti
a guardare dalla parte sbagliata? Se il lavoro fosse venuto improvvisamente
a mancare come manca il latte alla madre quando non è più necessario per
sopravvivere?
Siamo sicuri di dover essere pagati per un lavoro - probabilmente sempre lo
stesso - che deve durare fino a che siamo stanchi e andiamo in pensione?
Non è una notizia curiosa questa che dice: non si va più in pensione alla tale
età, si va alla tal altra, come se fosse l’ora per andare a dormire dentro una
istituzione? Se la vita sociale avesse cominciato a darci segnali che non
comprendiamo, come ha fatto invano per secoli la vita della natura, lo
sguardo degli animali, l’incupirsi e lo schiarirsi dei cieli, l’alzarsi e
l’abbassarsi dei mari?
Che senso ha una giornata quando comincia? Serve a muovere altri passi di
un lungo cammino? Quale? Per andare dove? E’ ragionevole sospettare che
lo scopo di quella giornata (andare, tornare, trovare, incontrare, imparare,
dire, far sapere, comunicare) non sia che un falso scopo, come una busta
chiusa da aprire in volo, secondo la disciplina imposta ai piloti del B 52
durante la guerra fredda, in modo che nessuno possa sapere e dire prima del
tempo quale è il vero obiettivo? Mi stanno mandando messaggi? Chi? Gli
schizofrenici sostengono di riceverli, i mistici sentono le voci, entrambi
sacrificano la propria vita e quella degli altri per rispondere alle voci. Noi
(molti di noi) li consideriamo pazzi. Lo sono davvero o hanno dei terminali
più affinati dei nostri e sentono ciò che noi non sentiamo (o facciamo finta
di non sentire)?
Quanti di noi considerano imperfetta e inadeguata la vita di coloro che sono
altrimenti dotati ovvero portatori di handicap? Lo sono davvero? Che cosa
sappiamo della normalità noi che veniamo da un mondo persuaso che la
forza sia la chiave di tutte le soluzioni? Quale forza? C’è forza in un
pensiero, forza che muove le cose e le cambia, le piega, le trasforma? Un
pensiero d’amore? Una ossessione, una ripicca, una vendetta, un amor
proprio negato? Dov’è che si coordinano tutti i miei nervi fino a diventare
un sistema perfetto di comunicazione che però a me sembra vuoto, pronto
per funzionare ma senza una ragione per farlo?
E’ salute fisica, salute mentale, oppure un misterioso liquido detto "spirito"
che mette in movimento una macchina pronta e passiva che non ha suoi
progetti ma può solo riceverne? Da chi? C’è qualcuno o qualcosa che a mia
insaputa mi comunica perché amare, come organizzare il flusso dei miei
pensieri e verso che cosa? La fantasia è una distrazione, una febbre, un
gioco fine a se stesso o una macchina di rivelazione che non posso mettere
in moto e non posso fermare a costo di restare per giorni davanti a pagine
bianche, per notti inseguito da immagini che rifiutano di fermarsi? Quando
immagino, vedo? In che senso ciò che immagino non esiste, perché non
esiste, chi lo dice? Non saremo in mano a ingegneri un po’ aridi che ci
parlano continuamente di fini concreti perché hanno paura di ciò che non si
tocca con le mani?
Ma ciò che si tocca con le mani esiste? Se esiste, che cosa dimostra? Che mi
posso fidare solo di ciò che le meni constatano? Non è troppo poco? Perché
qualcosa mi fa pensare che accanto a qualcosa di grande ci sia qualcosa di
ancora più grande e mi impedisce di credere che sia tutto qui?
Si chiama fede oppure è la memoria passata e semisepolta di sequenze
naturali la cui traccia è andata smarrita? Che cosa è la salute, uno stato
normale (normale come?) o un semplice stato d’attesa fra alterazioni e
cambiamenti che sono messaggi, linguaggi, di fronte a cui siamo ciechi?
E di cosa mi avverte il dolore? Perché uso la stessa parola per raccontare
l’avvertimento che ricevo dai terminali nervosi e per dire il senso di
squilibrio, disorientamento, pena, che non hanno alcuna sede nel corpo, non
sono nessun male ma sono male, tanto da farmi sentire immensamente
infelice? Da dove viene una infelicità tanto sproporzionata da farmi sentire
indifeso perciò disperato? Perché un punto, un luogo, un ente
immensamente più forte dovrebbe esercitare tutta la sua potenza sulla
evidente inadeguatezza di chi riceve il messaggio di disperazione? Se c’è un
senso, un segnale, perché va perduto? Chi ha perduto, quando, la lista dei
codici?
Perché alcuni ricevono ordini, come far il bene o fare il male, e altri no?
Oppure tutti li ricevono ma molti non ubbidiscono? Chi fra i due gruppi
produce la confusione nella quale abbiamo l’impressione di vivere? Ci
manca il coraggio di ubbidire o ci serve l’audacia di trasgredire gli ordini,
sfidando la punizione? La persona che improvvisamente ha posto fine alla
sua vita, senza un messaggio o, come fanno i ragazzi, mostrando un broncio
o un pretesto ridicolo tipo un destino di un eroe del rock, a chi sta dando con
fedeltà disperata il suo assenso? Ha visto una rivelazione o ha capito che
non ci sarà mai alcuna rivelazione, che il messaggio sarà sempre atteso e
l’attesa sarà sempre negata?
Controllare, gestire, ordinare, definire, recintare, immagazzinare, fabbricare,
è una serie di fatti veri, di cose che accadono? O il frutto di una nevrosi che
costringe ad agire per non prendere atto del vuoto intorno? Perché,
nonostante quel vuoto e quella nevrosi, continuo a sospettare che ci sia
un’altra strada, un’altra ragione, un altro messaggio? Se c’è, perché non
riesco a leggerlo? Sono più lontano o più vicino quando mi astengo dal fare
e mi siedo al margine della strada, indebolito, invecchiato, senza risorse? Le
risorse, poi, che cosa sono? Il denaro che scambio, il talento che presto, il
pensiero geniale che mi è venuto e che mi porta a dire che ho trovato la
"soluzione"?
Perché non è mai la soluzione, o mi è impedito di crederlo?
Giusti Poteri
Ugo Volli Esiste in Italia un problema reale intorno alla giustizia. Come sa chiunque si
sia trovato coinvolto in qualunque causa civile o penale, per lo più i tempi
sono lunghissimi, le procedure eccessivamente complicate, i risultati
aleatori. Insomma, è difficilissimo ottenere quel servizio elementare dello
Stato che è la giurisdizione.
Ed esiste poi un problema inventato della giustizia. Ci sarebbero alcuni
procuratori della Repubblica (guarda un po', quelli che lavorano bene e
ottengono risultati, per esempio a Milano e a Palermo) che avrebbero troppo
potere, invaderebbero campi altrui, non si accontenterebbero di stare alla
pari con la difesa.
Questa seconda falsa questione sulla giustizia è stata sollevata inizialmente
da alcuni politici e da alcuni organi di stampa (legati prima al vecchio PSI e
poi a Berlusconi), ma ormai è patrimonio comune delle forze politiche. Con
qualche abuso formale rispetto al mandato ricevuto, un'intera sezione di
lavoro della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali si è
occupata di questo problema, che ha affaticato anche il Parlamento in seduta
normale (con la riscrittura dell'art. 513 bis del Codice di Procedura Penale),
il Ministro della Giustizia e tutta la stampa.
Secondo una linea molto significativa, la Bicamerale è intervenuta non sui
principi processuali, ma sull'organizzazione dell'ordine giudiziario, tentando
nei limiti del possibile di stabilire (o di ristabilire) un controllo politico su di
essa: in particolare si è tentato (riuscendoci parzialmente) di separare i ruoli
dei giudici da quelli dei pubblici ministeri, di aumentare la quota dei politici
nel CSM (organo di controllo della magistratura), di stabilire poteri di
indirizzo del Parlamento sul lavoro dei giudici, eccetera.
Da questo elenco di temi si vede che la questione è politica: non il
funzionamento della giustizia, ma il suo controllo, non lo svolgimento del
processo, ma le nomine e il potere disciplinare. Una domanda a questo
punto è ovvia: perché‚ questa volontà dell'intero universo parlamentare di
stabilire un controllo sulla magistratura e, in particolare, sul potere dei
pubblici ministeri (che indagano, accusano, ma non possono condannare)?
Dopotutto, almeno tre storici successi dello stato sono dovuti a questi
magistrati (spesso le stesse persone): la sconfitta del terrorismo di vent'anni
fa, lo smascheramento della corruzione ai vertici dello stato (Mani pulite) e
le gravi sconfitte subite dalla mafia negli ultimi dieci anni. Perché dunque,
voler colpire e controllare una magistratura così più efficiente degli altri
organi dello stato?
Una risposta appare probabile: proprio perché‚ è così efficiente. Una buona
parte del sistema politico e del potere economico è stata coinvolta (e forse lo
è ancora) in pratiche ai limiti della legalità. Alcuni di questi potenti sono
stati condannati (come tanti uomini politici, dirigenti pubblici e anche
manager privati come il presidente della Fiat, Cesare Romiti). Altri sono
sotto processo (come Berlusconi e Dell'Utri); moltissimi altri ancora
indagati a vario grado e titolo. Per la prima volta nella storia del nostro
paese, la magistratura ha preso sul serio il motto che appare in tutte le aule
giudiziarie ("la giustizia è uguale per tutti") e ha violato le tradizionali zone
di impunità del potere. Questo appare intollerabile, oggi e per il futuro, ai
detentori del potere politico ed economico. Si tratta a questo punto di
ristabilire un sistema di impunità. Per farlo è necessario riprendere in mano
il controllo della magistratura, se serve agitando lo spettro di abusi di potere
e idealizzando l'uguaglianza di accusa e difesa nel processo. Ma soprattutto
incidendo sui rapporti di potere reali nel luogo in cui la magistratura è
controllata, il CSM.
Di fronte a questo progetto o necessità del mondo politico, conta poco il pur
probabile gioco di scambi, di favori e di ricatti che si è intrecciato su questo
tema fra Polo e Ulivo. E' il mondo politico nel suo complesso che vuole
fortemente rimettere le mani sulla giustizia, per riaffermare il craxiano
"primato della politica" - che in questo caso vuol dire impunità - dei politici.
E' un disegno estremamente pericoloso. Perché destabilizza uno dei rari
luoghi identificati dall'opinione pubblica di effettiva esistenza e
indipendenza dello stato, e propaganda anzi l'idea di uno stato - parte. Il
conflitto di interessi, che è la vera malattia del nostro sistema politico, viene
teorizzato come ideologia positiva. E' pericoloso anche perché questo
disegno viene perseguito dalla sinistra (non dalla destra che vi avrebbe un
interesse più immediato). Realizzandolo, la sinistra sacrifica quegli strati
(illuministi o azionisti) del suo elettorato che hanno minore connotazione di
classe e più importante radice di opinione. Ma soprattutto dimostra la sua
incapacità di rifondare per davvero lo stato, non con grotteschi teatrini
istituzionali, ma rispettando la neutralità dell'amministrazione.
Io credo che a questo disegno bisogna opporsi con tutte le forze. Penso che
tutti gli elettori dell'Ulivo dovrebbero opporsi a questi disegni sul terreno
politico, visto che quello dell'opinione è insufficiente: fondando movimenti,
preparandosi a votare no al referendum sulle riforme, perfino boicottando i
partiti che appoggiano questa politica sulla giustizia.
Perché penso che la giustizia, la giustizia uguale per tutti, sia il primo
requisito della convivenza civile e il luogo di fondazione dello stato.
Perché considero che la svendita del principio di moralità alla Realpolitik
sia l'inizio di tutti i totalitarismi.
Perché mi pare che il disegno di restaurare il dominio dei partiti con la forza
delle riforma costituzionale vada verso l’instaurazione di un consolato.
Perché credo che questa sia una battaglia essenziale per la democrazia.
Deformare le istituzioni
Carlo Donolo 1. In Italia sono in corso lavori di riforma istituzionale. Questo lo sanno
tutti, almeno da quando è all’opera la Commissione Bicamerale del
Parlamento che deve elaborare proposte e progetti entro stretti limiti di
tempo. Siamo forse alla fase finale di un processo iniziato negli anni Ottanta
con la Commissione Bozzi e proseguito con vicende alterne per venti anni.
Il ceto politico si è reso conto che riforme erano necessarie, ma in pratica è
risultato sempre difficile, e lo è ancora oggi, trovare per le riforme una base
di consenso sufficientemente ampia e convinta. Si è dovuti arrivare alla
caduta del Muro di Berlino, a Tangentopoli, al disfacimento di DC e PSI e
alla metamorfosi del PCI, alla Lega, per mettere all’ordine del giorno
riforme istituzionali e costituzionali di ampio respiro. Un fattore di
accelerazione anche più imperativo è costituito però dal vincolo esterno,
cioè dal processo di unificazione (monetaria) europea, con tutte le sue
implicazioni per il rigore nelle politiche di bilancio, la stabilità degli
esecutivi e il miglioramento delle performance amministrative ed
istituzionali. Ormai non c’è scampo: riforme istituzionali, anzi
costituzionali, sono necessarie. Anche perché, dopo tanto discutere, la
Costituzione del ’48 appare delegittimata o svilita in molte delle sue parti.

2. Perché riformare? Apparentemente le ragioni sono intuitive: le patologie


della politica e le miserie dell’amministrazione vanno curate alla radice, a
partire da modifiche della forma di governo. Questa deve essere resa più
coerente con la legge elettorale quasi maggioritaria, la quale, a sua volta
deve essere rivista in funzione della forma di governo che verrà disegnata.
Attraverso le riforme istituzionali la politica cerca in primo luogo di curare
se stessa: dalle deviazioni corrotte, dall’abuso dei poteri,
dall’irresponsabilità ed inaffidabilità delle sue azioni. La cura dovrebbe
anche permettere - nel corso del tempo - una migliore selezione del ceto
politico: più competente, più autorevole, meno provinciale, più capace di
gestire il bene pubblico. Occorre sottolineare un punto: le riforme
istituzionali sono un tentativo (quasi in extremis) della politica di
autoriformarsi non mettendosi alla prova sui problemi del paese e cercando
un nuovo rapporto di comunicazione con i cittadini - un’autoriforma dal
basso - ma intervenendo con gli strumenti di cui ha il monopolio
(produzione di leggi) e quindi con una terapia autarchica. E’ vero che
l’articolo 138 della Costituzione prevede il referendum e quindi il giudizio
finale popolare su leggi di revisione costituzionale. Ma a quel punto i giochi
sono fatti e un diniego popolare dei riformatori costituzionali sarebbe una
catastrofe.

3. Al punto cui siamo giunti, riforme sono necessarie. Esse devono


riguardare la forma del governo, il rapporto centro-periferia (la questione
del federalismo e della fiscalità), i rapporti tra i poteri dello stato in termini
di checks and balances. Che questi siano i temi lo dicono tutti. Ma nel
braccio di ferro tra forze politiche per precostituirsi posizioni di forza o
garantite nel nuovo assetto istituzionale, si è eccitata una corsa al rialzo:

● verso un presidenzialismo pseudocarismatico che prefigura una


democrazia con tratti autoritari e populistici;
● verso uno pseudofederalismo secessionistico che maschera e premia
la rivolta fiscale degli evasori;
● verso una resa dei conti con la Magistratura, la cui autonomia deve
cedere al primato della politica.

Inoltre, molte voci chiedono interventi anche sulla prima parte della
Costituzione, quella relativa ai principi e ai diritti-doveri. Nel quadro di un
attacco allo stato sociale e del culto idolatrico del mercato come panacea per
tutti i mali e fonte di tutti i beni, è chiaro che sono a rischio acquisizioni
storiche in termini di diritti di cittadinanza.

4. Date queste tendenze e tentazioni, sono evidenti i rischi di un’operazione


di riforma costituzionale a largo raggio i cui esiti nessuno è in grado di
controllare. Sarebbe stato più ragionevole - e meno rischioso per la nostra
democrazia - procedere a revisioni incrementali seguendo le procedure
previste dalla Costituzione e investendo di più casomai sulla correzione del
sistema elettorale. Ma ormai è troppo tardi, si è perso prima troppo tempo,
ora si deve decidere, secondo una classica tradizione italiana, sotto
emergenza. Supponendo che le riforme diano gli effetti desiderati, resta da
tener conto che alcuni si dispiegano solo nel medio periodo (migliore
selezione del ceto di governo) altri esigono di essere accompagnati da
incisive riforme amministrative. Infatti la stabilità degli esecutivi non è di
per sé indice di governabilità, dato che essa deve coniugarsi con incrementi
di efficacia nella formulazione ed implementazione delle politiche
pubbliche. In definitiva i cittadini questo si aspettano, perché gran parte del
malessere sociale deriva da un cattivo funzionamento dello stato
amministrativo.
In definitiva le riforme costituzionali incidono sulle premesse della
governabilità, di per sé non la producono, se non con la cooperazione di
molti altri fattori e attori. Inoltre, in democrazia, abbiamo bisogno di una
governabilità qualificata, capace di equilibrare diritti e doveri, imperativi
economici e domande collettive, crescita economica e sviluppo sociale. Gli
sbilanciamenti attuali verso la primazia del mercato, del presidenzialismo
populistico e della comunicazione asimmetrica tra politica e cittadini tramite
un uso (forse più paternalistico che manipolatorio) dei media fanno sorgere
qualche preoccupazione circa il senso dell’intera operazione di riforma
istituzionale.

5. Sarebbe stato opportuno che le proposte di riforma fossero collegate più


direttamente all’analisi dei mali sociali ed istituzionali che intendono curare.
Malgrado i tanti dibattiti, invece, proprio questa relazione resta oscura o al
massimo si delinea una relazione unilineare tra stabilità-governabilità-
benessere sociale altamente problematica e discutibile. I mali italiani
consistono certo nelle degenerazioni della politica, nell’inefficenza dello
stato amministrativo, negli squilibri della fiscalità. Meglio: nelle connessioni
funzionali che si sono stabilite nel tempo tra una politica abusiva,
un’amministrazione inefficiente e una società e un mercato abituati e
mitridatizzati da sregolazioni di ogni genere (dal traffico urbano
all’abusivismo edilizio, dall’evasione fiscale, all’economia sommersa). E’ la
modernizzazione dimezzata e precaria dell’Italia che va corretta: "per restare
in Europa" o anche semplicementeper poter tornare ad essere un paese civile
e in cui è possibile vivere civilmente. La politica ha scelto di arrampicarsi
sui rami più alti dello stato e di intervenire su di essi per poter fornire ai
cittadini nuove prospettive di sviluppo. Forse li ha scambiati - con
consapevole narcisismo - per le radici della democrazia. La cura di queste
ultime resta perciò affidata alle mani dei cittadini, tutti i giorni banalmente,
con o contro o anche senza, le riforme istituzionali.
Un caso clinico-storico-comico-mistico-magico
Beppe Severgnini Per studiare l'europeismo degli italiani occorrono uno psichiatra, uno
storico, un economista, un indovino, un pagliaccio e un consulente
matrimoniale. Vedremo più avanti qual è la funzione del pagliaccio e
dell'indovino; per ora, spieghiamo la presenza del consulente matrimoniale.
Noi italiani vogliamo l'Europa in modo passionale, senza sottilizzare troppo
sull'oggetto del nostro desiderio (politica agraria, serpente monetario,
mercato unico, moneta comune). Siamo come giovanotti innamorati che
intendono accasarsi a tutti i costi: prima ci dichiariamo e stabiliamo la data
delle nozze. Solo in un secondo tempo guardiamo se abbiamo i soldi, se
troveremo un appartamento, se i parenti (tedeschi?) sono d'accordo. Gli
inglesi sono molto diversi da noi: ragionano sui costi e sui vantaggi del
matrimonio, cercano casa, si informano sulla dote. Poi, se tutto va bene, si
sposano.
Qual è l'atteggiamento più sensato? Il consulente matrimoniale - ecco che ci
torna utile - dirà che noi italiani siamo troppo romantici e gli inglesi non lo
sono abbastanza. Il guaio è che l'euro-romanticismo pressappochista - siamo
tanti Romeo che corrono al balcone e dimenticano la scala - non è
un'esclusiva dell'uomo della strada; i nostri rappresentanti ci somigliano (se
no, che rappresentanti sarebbero?).
Anch'essi, spesso, mostrano d'amare più la retorica che l'homework: quel
lavoro preparatorio (metodico, approfondito, poco appariscente) senza il
quale i propositi restano chiacchiere, i progetti diventano utopie e
l'europeismo diventa uno slogan.
La storia delle comunità europee è segnata, purtroppo, da questa
schizofrenia italiana (ecco spiegata la presenza dello psichiatra). Quando fu
il momento di negoziare i Trattati di Roma (1957), mettemmo in campo
ottime menti (da Alcide De Gasperi a Gaetano Martino). Ottenuto lo scopo,
abbiamo rallentato il passo. Per decenni, insieme a qualche personaggio
capace, abbiamo spedito alla Commissione di Bruxelles e al Parlamento di
Strasburgo i cascami della politica italiana. Lo storico, spero, vorrà
confermare. I risultati sono stati talvolta comici, più spesso tragici. Di alcuni
errori, subiamo ancora le conseguenze. Tristemente celebre - come
l'economista ricorda - fu il negoziato sulle quote-latte (1984). La
delegazione italiana si presentò con i dati di produzione che risalivano agli
anni trenta. Incerta se difendere i prodotti settentrionali (latte e formaggio) o
quelli meridionali (olio e vino), ripiegò sui sussidi per l'acciaio. Da un
giorno all'altro, l'Italia diventò il più grande importatore di latte del mondo;
lo è tuttora.
Altri esempi di questa splendida contraddizione tra euro-entusiasmo ed euro-
comportamenti? Il record delle infrazioni alle normative comunitarie, la
lentezza nell'attuazione delle direttive, le frodi. Nonché la spettacolare
incapacità di utilizzare i fondi strutturali europei: nel periodo 1994-1999
sono stati assegnati all'Italia 44 mila miliardi; ne abbiamo impegnati il 23%
e spesi il 14%; la regione Campania ha investito lo 0,17% della sua quota.
Con gli stessi denari, Irlanda e Portogallo hanno finanziato il boom
economico.
Ecco perché siamo comici, come sottolinea il pagliaccio (che se ne intende).
Il nostro europeismo romantico ci porta ad accettare una tassa denominata
«eurotassa» (altrove avrebbe provocato rivoluzioni), ma ci impedisce di
valutare fino in fondo l'impegno, le difficoltà (e le conseguenze) della
partecipazione all'Unione Europea e alla moneta unica. Può darsi che questa
incoscienza sia la nostra salvezza (c'è chi sostiene che non bisogna ragionare
troppo sugli ideali); ma potrebbe anche essere la nostra rovina. Per sapere
come andrà a finire, occorre un indovino. Abbiamo convocato anche quello,
come sapete. E' ora che si metta a lavorare.
Premessa

4 luglio 1997: la missione Pathfinder fa scendere sul suolo marziano un piccolo robot esploratore, il rover
Sojourner.

14 luglio 2027 (virtuale, nella realtà 10 giorni dopo) su Popolare Network, una rete di radio italiane, avverrà la
cronaca in diretta del primo ammartaggio di astronauti su Marte.

Richiesta di aiuto:

Vogliamo chiedere a voi che siete già nella Rete e quindi cittadini del XXI secolo, di partecipare a un
sondaggio. Breve, e scherzoso.

Diteci la vostra.
Sylvie Coyaud
Sondaggio, a cura di Renato Mannheimer e Arnaldo Ferrari Nasi, in collaborazione con Radio Popolare

1) Riguardo alla discesa del primo uomo su Marte che avverrà il prossimo 14 luglio 1997, alcuni intervistati ci hanno riferito che non
è giusto "spendere tanti soldi per andare in quel postaccio dal quale non si ricava una lira". Altri ci hanno riferito che invece è meglio
fare tutti gli sforzi necessari per essere i primi a scendere su Marte, potenze aliene potrebbero soffiarci nuovi territori che sono nostri
di diritto.

Lei a quale di queste posizioni si sente più vicino?

non è giusto spendere tanti soldi per andare in quel postaccio...


è meglio fare tutti gli sforzi necessari per essere i primi a scendere su Marte...
non so

2) Come lei sicuramente saprà, esiste una proposta degli abitanti e delle autorità cittadine del paese di Cerro Maggiore, secondo i
quali Marte sarebbe il luogo ideale su cui spostare, ampliandola, la discarica comunale. Questo, secondo i relatori della proposta,
contribuirebbe in forte misura allo smaltimento dell'enorme quantità di rifiuti urbani provenienti da Milano.

Esprima per favore il suo grado di accordo con questa proposta :

molto d'accordo
abbastanza d'accordo
poco d'accordo
per nulla d'accordo
non so
3) Recentemente hanno aperto agenzie di viaggi specializzate in voli interplanetari. Alcune persone hanno espresso il desiderio di
passare le ferie di Agosto su Marte. Altre preferiscono in ogni caso passare il loro mese di vacanza a Rimini.

Lei a chi si sente più vicino?

a chi ha espresso il desiderio il desiderio di passare le ferie di Agosto su Marte


a chi preferisce, in ogni caso, passare il suo mese di vacanza a Rimini
non so

4) Al convegno mondiale degli otto paesi più industrializzati, è stato proposto dall'amministrazione americana in accordo con gli
alleati della NATO, di ridipingere Marte. Essendo rosso il pianeta, si rischierebbe di sbilanciare le nuove probabili alleanze con
eventuali nativi, verso la sfera d'influenza russa.

Può esprimere il suo grado di accordo con questa proposta?

molto d'accordo
abbastanza d'accordo
poco d'accordo
per nulla d'accordo
non so

Infine, alcune domande personali che ci servono per le nostre elaborazioni statistiche.

Sesso

Maschio
Femmina

Età: 0

Istruzione

Nessun titolo/Licenza elementare

Professione

altro
Ampiezza stimata del centro abitato

meno di 5000 abitanti

Provincia:

(due lettere, sempre maiuscole, con il codice della targa automobilistica, Roma=RM)

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I risultati verranno commentati su Golem e il 14 luglio 1997 su Radio Popolare.


Questioni di budget
Carlo De Benedetti Mentre la politica italiana è impegnata nella discussione, dentro e fuori la
Commissione Bicamerale, di nuovi assetti istituzionali che tengano conto
della mutata realtà di un paese che ha subito negli ultimi cinquant’anni
trasformazioni radicali sul piano economico, sociale, demografico e delle
libertà civili, è forse utile - pur nel limite di un confronto che non può
considerarsi un paragone - fare alcune considerazioni sugli ultimi
accadimenti politici americani. Ed è utile farlo proprio su un tema, quello
delle politiche di budget e fiscali, che a sua volta è al centro in Italia e in
Europa (Francia docet) di grandi scelte e cambiamenti trainati da una
occasione storica che l’Europa rischia di mancare: quella di trasformarsi da
una entità geografica, in un continente politico ed economico.

Per leggere nella giusta luce qualche considerazione sugli ultimi sviluppi a
Washington è forse bene ricordare che le elezioni americane dell’8
novembre 1994 hanno determinato il più grande spostamento a destra del
baricentro politico del paese, con la conquista della maggioranza
repubblicana sia all Camera sia al Senato per la prima volta in quasi mezzo
secolo; una coabitazione americana fra presidente democratico e
maggioranza parlamentare repubblicana che è utile avere in mente quando
in Italia si discute di riequilibrio dei poteri tra esecutivo e legislativo.
Con l’accordo bipartitico raggiunto questo mese per eliminare il deficit del
budget federale entro il 2002, per la prima volta in dieci anni quello che era
il tema più scottante della politica statunitense non è più al primo posto in
agenda. Anche se l’accordo sul budget non verrà ricordato come atto di
coraggio, esso è riuscito a superare la prova più immediata, quella dei
mercati finanziari, a far guadagnare qualche anno e a consolidare la
posizione del presidente Clinton.
Può sembrare eccessivo tanto rumore per un accordo che riduce il deficit
americano di solo l’uno per cento del PNL. Ma si tratta di molto di più di
quanto esprimano i semplici numeri. Il Congresso Repubblicano, che aveva
messo il pareggio del budget al centro del proprio programma legislativo,
voleva ridurre il ruolo del governo tagliando le imposte e le spese. Il
presidente Clinton, che aveva cambiato la propria posizione e accettato nel
1995 il principio del pareggio del budget, voleva raggiungere tale obiettivo
senza sacrificare l’impegno dei Democratici a mantenere un ruolo attivo del
governo in alcuni settori chiave.
Il fattore decisivo che ha reso possibile il compromesso è stato la pura forza
dell’economia americana. Le trattative sul budget erano sull’orlo del
collasso quando nuove previsioni di crescita hanno introdotto una novità:
ulteriori 225 miliardi di dollari di entrate fiscali. Questo inatteso sviluppo ha
consentito da una parte, un aumento dei tagli alle imposte voluti da
repubblicani e, dall’altra, un incremento delle spese nelle aree indirizzate dai
programmi Democratici permettendo comunque di eliminare il deficit
nell’arco di cinque anni. Le nuove entrate hanno inoltre permesso a tutte e
due le parti di evitare decisioni veramente dolorose nei settori sanità e
previdenza per contenere il deficit nel lungo termine.
Il compromesso, che sembra solido e stabile, ha rafforzato la posizione del
presidente sotto tre aspetti fondamentali:

● L’accordo sul budget rappresenta innanzitutto la maggiore


realizzazione politica della presidenza Clinton. In un momento in
cui molti ritenevano che Clinton sarebbe stato immobilizzato dagli
scandali, l’accordo lo conferma come un costruttore centrista del
consenso nazionale che si è tolto di dosso l’etichetta tassare o
spendere attribuita tradizionalmente al Partito Democratico.
Evidentemente, il colpo vincente di Clinton è stato quello di
guadagnare un vantaggio sufficiente nelle trattative per tenere con sé
il proprio partito. E’ riuscito ad isolare il principale avversario
Democratico, Richard Gephardt, il capo della minoranza alla
Camera, e aumentare la propria popolarità nel paese al 60%, un
livello senza precedenti.
● L’accordo ha migliorato le prospettive economiche degli Stati Uniti.
Clinton ha sempre considerato l’eliminazione del deficit, più che
fine a se stessa, come un mezzo per tenere bassi i tassi d’interesse e
sostenere la crescita economica. E’ ormai a portata di mano la vera
eredità che egli vuole lasciare - otto anni consecutivi di sviluppo e di
creazione di posti di lavoro - un record unico tra i presidenti
americani dell’epoca moderna.
● Clinton adesso può rivolgere l’attenzione altrove. Invece di puntare
sulla diplomazia ad alto profilo, come vuole la tradizione, si
focalizzerà sugli aspetti politici interni di questioni internazionali,
dove l’ultima parola spetta al Congresso: l’ampliamento della
NATO, i rapporti economici con la Cina, l’autorità della Casa
Bianca per negoziare un’ulteriore espansione di rapporti
commerciali. Saranno queste le principali prove nuove per la
strategia centrista di Clinton. La tattica adottata è quella utilizzata
per la riduzione del deficit: costruire un consenso.
I capi Repubblicani al Congresso sottolineano che il successo di Clinton non
è stato ottenuto a loro spese. Anzi, considerano l’accordo sul budget come
una pietra miliare della leadership economica Repubblicana. Tale accordo
realizza l’impegno chiave dei Repubblicani a pareggiare il budget nei tempi
da loro stabiliti, tiene fede alla promessa Repubblicana di ridurre il deficit
contestualmente alla riduzione anziché la crescita delle imposte, impone un
limite più stretto che mai sulla crescita reale della spesa pubblica annuale.
Queste svolte, dicono i Repubblicani, premetteranno al partito di recuperare
credibilità, di guadagnare nuovo impeto e di consolidare il controllo del
Congresso del 1998.
In privato, però, gli strateghi repubblicani hanno qualche riserva.
Per prima cosa, riconoscono che il merito della prosperità economica
americana verrà attribuita in gran parte a Clinton. Un’economia forte non
sarà forse decisiva nelle elezioni congressuali del 1998, che si svolgono
prevalentemente a livello locale, ma potrà dare una spinta molto rilevante
alla campagna Democratica a livello nazionale nel 2000.
Secondariamente, gli addetti ai lavori Repubblicani ammettono di essere
andati cauti nelle trattative con la Casa Bianca sul budget. Dopo essersi
scottati l’anno scorso cercando di imporre una linea dura, questa volta si
sono accontentati di limitare la crescita della spesa federale invece che
cercare di ridurre il ruolo del governo. Inoltre, quello che hanno accettato è
un rimedio veloce, non una soluzione strutturale al problema del deficit. I
veri risultati, infatti, mancano di molto gli obiettivi Repubblicani.
In terzo luogo, il Congresso Repubblicano è privo di coesione e della
leadership per sfidare la casa Bianca per quanto riguarda l’impostazione
dell’agenda nazionale. L’assenza di visione non sarà colmata da un Newt
Gingrich ridimensionato o dal dealmaker al Senato Trent Lott. Guardando
oltre il tema della disciplina fiscale, i repubblicani sono divisi sulle questioni
sociali, sulla riforma fiscale, sul commercio e sulla politica estera. I
Repubblicani, quindi, caratterizzeranno la loro azione più come opposizione
alla Casa Bianca che come elaborazione di una leadership politica
alternativa.
L’accordo sul budget conferma che Washington continua a funzionare nel
modo antico. Chi detta legge non è nessuna delle due linee di governo, ma
un equilibrio politico pragmatico fra i poteri.

Intervento pubblicato sul Messaggero del 6 giugno 1997


Ancora sull'occupazione
Antonio Martino In un precedente articolo ho sottolineato come l’intervento pubblico non
possa creare occupazione produttiva; vorrei ora illustrare come esso possa,
invece, distruggere, anche se non intenzionalmente, posti di lavoro.
Fra le cause che determinano la scarsa creazione di nuovi posti di lavoro,
una è ben nota: dato il livello degli oneri fiscali e parafiscali che gravano
sull’occupazione, perché un datore di lavoro possa assumere un dipendente
deve pagare una "multa" di oltre un milione per ogni milione di
remunerazione che corrisponde al lavoratore. Questa "multa" enorme, com’è
ovvio, scoraggia le assunzioni ed ha conseguenze particolarmente devastanti
nelle regioni meno prospere, che non possono permettersi livelli di fiscalità
così elevati. Inutile aggiungere che questa "penale sul lavoro" ha anche
l’effetto di far prosperare il lavoro nero, l’economia sommersa, perché è
interesse sia del datore di lavoro che del lavoratore cercare di evadere questo
insostenibile balzello.
Un altro fattore che determina una scarsa creazione di nuovi posto di lavoro
è rappresentato dai vincoli ai licenziamenti e alle assunzioni. Quando deve
decidere se assumere un certo numero di dipendenti o uno maggiore,
l’imprenditore opera in condizioni di incertezza: non sa se la sua decisione
di espandere si rivelerà saggia o meno. Se, quindi, lo Stato gli impedisce di
correggere un eventuale errore, adotterà una strategia prudente: sapendo che
non potrà poi licenziare, preferisce non assumere. Abbiamo così
un’occupazione forse più stabile, ma certamente minore di quanto avremmo
se assunzioni e licenziamenti fossero liberalizzanti. Inoltre, data questa
sclerosi del mercato del lavoro, se è forse vero che l’occupazione è più
stabile, diventa tristemente vero che la disoccupazione dura più a lungo. In
Italia, i disoccupati cronici, che restano in questa condizione per più di 12
mesi, sono il 70%, contro il 15% del Giappone e l’11% degli Stati Uniti.

Una terza causa importante di disoccupazione, specie giovanile, è da


individuarsi nelle norme che, per nobili ragioni, hanno inteso imporre le
stesse condizioni di lavoro s tutto il territorio nazionale. Presentata in questi
termini, sembra una decisione saggia, ma basta un attimo di riflessione per
rendersi conto della sua insensatezza. Se fosse possibile, senza conseguenze
negative, imporre alle regioni più povere le stesse condizioni di lavoro che
quelle più ricche possono permettersi, la povertà sarebbe immediatamente
debellata. Purtroppo, non è così. Alle nobili intenzioni hanno fatto seguito
conseguenze devastanti: il tasso di disoccupazione nelle regioni del sud è
enormemente maggiore che non nelle regioni prospere del nord. In
compenso, i disoccupati meridionali hanno la (magra) consolazione di
sapere che, se avessero un lavoro, sarebbero remunerati come i loro
connazionali del settentrione. Ha senso tutto ciò?

I salari reali elevati sono la conseguenza della prosperità, non la sua causa:
quando i paesi diventano ricchi possono permettersi salari elevati, non il
contrario. Imporre a regioni povere salari elevati significa condannare i
lavoratori di quelle regioni alla disoccupazione. Lungi dall’aiutarli, la
decisione li rovina: preclude loro la possibilità di trovare lavoro.

Cosa dovremmo fare? Se invece di perseguitare ferocemente l’occupazione


tassandola in misura che non ha eguali nel mondo industriale, la Stato
consentisse ai datori di assumere senza penali di sorta; se, invece di
soffocare sotto una montagna di adempimenti amministrativi le iniziative
imprenditoriali, lo si incoraggiasse; se, ogni qual volta si deve dar vita ad un
insediamento industriale, si rinunziasse a mettergli i bastoni fra le ruote in
mille modi; se, invece di punire il successo, tassandolo e premiare i
fallimenti con le mille forme di aiuti, si consentisse alle imprese di operare
in condizioni di piena responsabilità; se si facessero tutte queste cose,
l’economia italiana creerebbe in un batter d’occhio molte centinaia di
migliaia di nuovi posti di lavoro. Se non si fanno, la colpa è delle sinistre dei
sindacati, cioè proprio dei "marciatori" per il lavoro che, dopo avere
determinato il dramma della disoccupazione con la loro demagogia, hanno
anche l’imprudenza di mostrarsene preoccupati.
Welfare, domanda sociale e spesa sociale
Paolo Palazzi Gran parte delle stime di dinamica della spesa sociale si basano su
proiezioni "oggettive" essenzialmente demografiche e sociali; ne consegue
che si tratta di vere e proprie proiezioni di domanda potenziale di servizi. È
prevalente inoltre l'assunzione che non sia politicamente ed
economicamente perseguibile la possibilità di una soddisfazione pubblica di
tale domanda in quanto comporterebbe un aumento notevole di tassazione.
In questo quadro si colloca il nodo della ristrutturazione del welfare, ma non
è assolutamente chiaro chi pagherà e quali conseguenze di breve medio e
lungo periodo si potranno avere.
Fra tanta confusione una cosa è comunque certa: contrariamente a quanto si
vuol far credere la ristrutturazione del welfare costerà e quindi gli eventuali
benefici andranno commisurati ai costi.

L'obiettivo di base di intervento sul welfare è quello di ristrutturare la spesa


pubblica in modo da renderla autonoma rispetto la dinamica della domanda
sociale stessa. Ci troveremo quindi davanti alla tendenziale costanza o
riduzione dell'offerta pubblica di servizi di fronte ad una innegabile
tendenza ad un aumento di domanda di tali servizi.
Le alternative che le famiglie hanno di fronte sono due:

a) repressione di segmenti di domanda potenziale di servizi sociali


b) soddisfazione privata della domanda.

a) Riduzione della domanda potenziale di servizi sociali.


Considerando il fatto che la stragrande maggioranza di domanda di quei
segmenti di welfare scaturisce da bisogni effettivi primari e non di lusso
(sanità e pensioni), un'ipotesi di compressione della domanda, che non
ricorra all'eutanasia oltre una certa età, ha il significato di peggiorare la
qualità della vita (fra l'altro in situazioni delicate quali la malattia e la
vecchiaia) di un numero imprecisato ma comunque notevole di popolazione;
anzi, tendenzialmente di gran parte della popolazione se pensiamo che
prima o poi quasi tutti si trovano nel corso della vita in una situazione di
bisogno di interventi di welfare di quel tipo. Naturalmente non tutti si
troveranno ad essere colpiti nella stessa misura, quindi la prima questione
che il governo dovrebbe rendere esplicita è l'analisi per fasce e tipo di
reddito, per identificare i soggetti che saranno più costretti ad una riduzione
di domanda.

b) Soddisfazione privata della domanda di servizi.


Visto che si tratta di bisogni primari, è presumibile che una conseguenza dei
tagli sia quella per le famiglie di tentare di soddisfare privatamente la
domanda sociale precedentemente soddisfatta dallo stato.
Non essendo prevista, né possibile, una diminuzione sensibile della
tassazione, è altamente improbabile che con il risparmio di tasse sia
possibile supplire in maniera significativa al taglio dei servizi pubblici
ricorrendo ai privati. È praticamente sicuro che il mantenimento di un livello
simile di servizi comporterà un notevole onere finanziario aggiuntivo alle
famiglie. Conoscere quale possa essere il livello di tale onere e quali le
conseguenze in relazione alla struttura del consumo, alle reazioni del
mercato del lavoro interno ed esterno alle imprese, è indispensabile per
cercare di avere un quadro dei costi sociali di una tale ristrutturazione.

Non disponendo di dati e informazioni su come si interverrà sul welfare si


possono elencare gli elementi a favore rispettivamente di una
privatizzazione della soddisfazione di servizi sociali e una soluzione
tradizionale della soddisfazione pubblica, con conseguente necessità di
aumento di tasse.

1. Elementi a favore della soluzione privatistica:

a) un aumento della tassazione è considerato economicamente dannoso,


essenzialmente perché esso sarebbe in parte a carico delle imprese (con
conseguenti meno investimenti e meno occupazione), mentre i tagli
sarebbero solo pagati dalle famiglie;

b) il privato può produrre più efficientemente e quindi a costi minori e/o


migliore qualità rispetto al settore pubblico;

c) ci potrebbe essere una più ampia possibilità e libertà di scelta delle


famiglie nel modo di soddisfare i bisogni sociali (maggiore flessibilità
dell'offerta);

d) ci sarebbe una tendenza ad una migliore educazione delle famiglia ad una


struttura della spesa familiare a più elevati contenuti di consumo sociale
(fine dello "stato mamma" e maggiore responsabilizzazione individuale).

2. Elementi a favore di un aumento della tassazione:


a) possibilità di predeterminazione di chi paga i costi dei servizi (tasse o
prezzi dei servizi) e quindi, presumibilmente, maggiore equità;

b) possibilità di rilevanti economie di scala nell'erogazione dei servizi (ad


esempio le assicurazioni private sarebbero più costose);

c) aumento notevole di un dualismo di prestazioni, quelle pubbliche più


scadenti e rivolte a strati marginali di popolazione, quelle private fortemente
differenziate e difficilmente controllabili;

d) non ricadrebbero sulla responsabilità individuale scelte che coinvolgono


terzi (figli) o un lontano futuro (vecchiaia) o avvenimenti incerti (malattia);

Ognuno di questi punti andrebbe discusso vagliandone la sua attendibilità, i


costi e i benefici. Purtroppo questo non è ancora stato fatto e il Rapporto
della Commissione sulla Spesa Sociale è molto carente su questi temi.

La speranza è che le decisioni che a breve termine verranno prese tengano


conto di una seria e trasparente analisi dei costi e dei benefici, indicando
chiaramente la quantità dei costi e dei benefici e soprattutto individuando i
soggetti sociali che questi costi e benefici subiranno o godranno.
Decalogo
Maurizio Chierici Noi vecchi del pedale riceviamo da trent’anni lettere che si somigliano.
Come si fa a diventare giornalisti che viaggiano? Adesso le lettere crescono.
Un po’ per mitologia TV, soprattutto per le lauree che restano a secco, senza
posti, senza paga. E i giovani si danno daffare. Pretendono ricette precise,
mai romanticismi. Ecco perchè butto giù una specie di decalogo pret-à-
porter.

1. Vietato frequentare università dove giornalismo e comunicazione


diventano bibbia del mestiere. Si finisce nel calderone di psicologi,
sociologi e laureati in scienze politiche: da anni ciabattano come camerieri o
postini part-time per tirar su qualcosa. All’università distribuiscono
un’eccellente teoria. Che fa sognare, ma non pesta mai il fango delle piccole
realtà e non fortifica la volontà del non mollare fino all’ultima riga, la
curiosità civile di sapere e raccontare proprio tutto. L’università sta
diventando utile a professori che anni fa si erano incantati nella stessa
illusione. Bisogna capirli. Peccato per gli insegnanti del vecchio Luigi
Einaudi: "le ferrovie devono servire ai viaggiatori e non ai ferrovieri".

2. Garantirsi - ma subito - con la tessera di un partito. Anche il parcheggio


in un’area influente va bene. Fino a qualche anno fa era indispensabile. Poi
il disastro di tangentopoli. Si stanno riorganizzando e la moda ritorna alla
grande. Un giornalista con tessera gode infiniti vantaggi. Non solo i partiti
invocano nelle redazioni uomini di fiducia quando devono far sapere certe
cose, ma sono le stesse TV, gli stessi giornali a scegliere redattori unti della
doppia stima: professionale e di partito. In caso di vittoria elettorale, il buon
posto alla Rai non lo leva nessuno. Mettiamo che il Polo riperde: è possibile
rifugiarsi fra le braccia di Mediaset. Senza contare che se sei comunista o
fascista, democristiano (non importa le famigliole) o forzista, con tessera o
simpatico al potente, la chance del pentimento spalanca fantastiche
prospettive. Nel nostro mondo ex, l’Ex viene coccolato dalla definizione di
giornalista onesto. Quando il suo cassetto è colmo di memoriali che
rivelano i segreti degli antichi protettori, soldi a gogò. Come per i
maggiordomi di lady Diana. Si può resistere alla tentazione di dettare le
memorie? Tra i più apprezzati, i transfughi decisi: da cronisti comunisti alla
corte di Berlusconi. Sono loro candidati all’Oscar.

3. Consigliabile l’iscrizione alla massoneria. Meglio ancora se la loggia è


coperta o in odore di P2. Prova del nove: aprendo la TV o sfogliando i
giornali, quanti vecchi piduisti incontrate ogni mattina? Controprova: fra i
mille giornalisti disoccupati che intristiscono davanti a computer vuoti,
riuscite a scovare un piduista senza lavoro?

4. Chi non sopporta di allacciare il grembiule dello spiritualismo massonico,


o di finire nei bisbigli segreti dell’Opus Dei, deve almeno iscriversi a
Rotary, Lions, Soroptimist. Vanno bene anche Fornelle e Moica,
associazione casalinghe. L’importante è l’aggancio con comunità
organizzate. In caso di bisogno, soccorre sempre.

5. Passaggio delicato: come diventare simpatici ai capi. Prima di tutto


l’abito fa il monaco. Quando i direttori passeggiano in redazione in blu, le
redazioni devono aver l’aria di un matrimonio o di un funerale. Se le cupole
vestono sportivo, bisogna diventare un campo da golf. E quando il capo
fuma la pipa non resta che adattarsi e far domande sulla mistura del tabacco.
Consigliabili alle ragazze gridolini di piacere appena la nuvola profumata le
avvolge fino alla tosse. Meglio far capire: se non fosse sconveniente ci
proverei anch’io.

6. Scrivere non è difficile dopo i primi allenamenti. Ma l’obbedienza cieca,


pronta e assoluta a volte riesce complicata. Comunque richiede allenamento.
Non mancano maestri. E poi, cari ragazzi, lasciate perdere il romanticismo
dei viaggi. Internet, agenzie, telefonate: insomma, il giro del mondo attorno
al tavolo viene meglio ed ha il pregio di somigliare - il mattino dopo - a tutti
i giri del mondo di tutti gli altri giornali o TV. Titoli compresi. Per allargare
lo scheletro della notizia in arrivo sempre dalla stessa fonte, frugare gli
archivi. I vecchi inviati, dinosauri in estinzione, avevano il vizio di andare a
guardare da vicino e convivere con i protagonisti di ogni avvenimento.
Mangiare, dormire, spaventarsi assieme a loro. Hanno lasciato qualche
brivido negli articoli sepolti in fondo agli schedari. Si possono
tranquillamente copiare. Nessuno li ricorda più.

7. Se proprio dovete andare in un posto agitato, non perdetevi nella


sciocchezza del raccontare cosa sta succedendo (agli altri). Siete voi i
protagonisti che i lettori conoscono. Devono assolutamente sapere come
avete dormito, se mangiate giusto oppure no. Freddo e caldo torrido, senza
stufe o condizionatore. Insomma, vita insopportabile con gli odori
voltastomaco delle città che bruciano. Lasciate, ormai, perdere fischi di
granate e pallottole che sfiorano il taccuino. Troppo sfruttate. L’ultima botta
l’hanno presa nei racconti scritti sotto i cannoni di Sarajevo. Mille volumi,
milioni di pezzi, chissà quanti special TV. Protagonisti sempre loro, grandi
inviati che a casa si commuovono nel ricordare come sono riusciti a tornare
vivi. Se in certi posti non andassero i giornalisti, migliaia di presone
morirebbero senza una foto. Ecco perché con un po’ di fortuna i morituri
diventano profughi, mentre il reporter si becca doverosamente premio e
medaglia mentre l’orchestra suona nell’Italia delle vacanze.

8. Appena la brina gela le redazioni - cambio di editore o direttore - non


bisogna innervosirsi. Mantenere la calma ma esplorare fino alla paranoia la
geografia delle amicizie dei nuovi che arrivano. Politiche economiche:
meglio se rosa-salotto.

9. Quando il gelo continua, scrivere un libro. Ricordi di viaggio, una


persona che non dimenticherò mai, un po’ di porci con le ali. Se raccogliete
le vostre spiate di traditore che ha girato bandiera, torna il discorso del
comandamento numero due: la carriera vola. Dedicare alla stesura del libro
non più di due mesi. Purtroppo bisogna anche scriverlo, ma in fretta. Dopo
comincia l’impegno delicato: le presentazioni. Giri nei Rotary, nei Lions e
fra le dame della provincia Italia. Soprattutto giri TV a partire del mitico
Costanzo Show. Quale fortuna se nella sedia accanto Bevilacqua confida la
sua ricetta per far durare il matrimonio.

10. I soldi. La busta paga sintetizza le virtù sopra indicate. Ogni volta che
trasgredite, spariscono bigliettoni. Fate bene i conti.

Questo il possibile breviario del successo. Lo scrivo con rimpianto: peccato


aver impiegato troppi anni per scoprire le regole d’oro. Adesso so come si fa
ma non faccio in tempo a farlo. Provate voi. Con un’avvertenza. Controllare
con attenzione se gli obbedienti sono proprio felici.
Una rivoluzione senza contenuti
Piero De Chiara Dove arriveremo nessuno lo sa; ma siamo partiti.
Persino l'Italia si è dotata in tempo utile di una legge sulle comunicazioni a
distanza, analoga a quelle della Francia e della Germania, a loro volta
derivate dalla legge americana approvata dal Congresso appena cinquecento
giorni fa.
C'è da sorprendersi della velocità di reazione degli europei.
Stet, France e Deutsche Telecom erano state per decenni i fiori all'occhiello
dei caratteristici monopoli pubblici europei: profitti annui complessivi
superiori ai diecimila miliardi e una grande capacità di distribuire favori ai
partiti di governo.
Improvvisamente questi gioielli rischiavano di divenire dei pesanti
dinosauri, inadatti alla evoluzione.
In pochi mesi gli americani e gli inglesi, che in questo campo beneficiavano
della più riuscita riforma tatcheriana, hanno acquisito un consistente
vantaggio, spettacolarizzato da clamorose fusioni societarie.
Lo stesso apparato istituzionale europeo appariva inadatto, imperniato su
ministeri che erano in realtà alle dipendenze dei rispettivi monopoli
pubblici. La nuova situazione richiede invece arbitri imparziali, a tutela
della concorrenza e degli utenti.
Senza arbitro, niente investimenti. Sei out.
Stavolta francesi e tedeschi non hanno scelto l'arroccamento continentale.
Dapprima hanno rafforzato l'alleanza tra i loro monopoli, poi hanno
acquistato una media compagnia telefonica americana, infine si sono dati
una legge in linea con quella americana e hanno iniziato la privatizzazione
delle loro aziende.
A qualcuno può sembrare strano, ma in Italia è successa la stessa cosa, sia
pure con qualche mese di ritardo. Vista da vicino, sembra quasi che sia
successa per caso. Il processo che ha portato alla nuova legge è infatti
paradossale.
Per un anno le commissioni parlamentari sono rimaste impaludate sulla
questione televisiva, alle prese con domande quali: quando Retequattro va
su satellite? La Rai deve fare una rete federale? Quanti minuti di pubblicità
per ogni ora di trasmissione? Domande paralizzanti, stante la forza politica
degli interessi conservatori in campo, Rai e Mediaset soprattutto.
Il Senato si apprestava a votare la più classica delle leggi fotografia
dell'esistente, quando il ministro Maccanico ha raccolto un suggerimento del
senatore Carlo Rognoni: approfittiamo di questo noioso pareggio televisivo
e infiliamo nella legge le norme sui telefoni e sulle reti. Panico. Le domande
venivano formulate in una lingua sconosciuta ai parlamentari: concessioni o
licenze? Chi stabilisce il prezzo quando due reti si interconnettono? Come si
finanzia il servizio universale?

C'era solo una settimana di tempo; non c'è stato quasi dibattito, nè in
commissione, nè in aula. La legge è stata scritta dai consulenti del ministero,
pressati da vicino dalle imprese. Stavolta, e qui sta la novità, non dalla sola
Stet che dettava i suoi calcoli, ma da tutte le imprese potenzialmente
interessate a investire in Italia.
Per fortuna non c'era tanto da sbagliare; nel dubbio si poteva dare
un'occhiata alle freschissime leggi tedesca e francese, e copiare.

Non bisogna credere che a fronte di politici frastornati siedano lucidi poteri
aziendali. Anche le imprese, viste da vicino, appaiono lacerate da culture
interne che fanno fatica a comunicare. Gli ingegneri sostengono di potere
servire messaggi comunque impacchettati su differenti bande di frequenza
via etere, oppure su cavi diversi, in vari modi compressi. Wired o wireless,
le alternative tecnologiche sono molteplici, anche troppe; qualcuna resterà
teorica.
Il marketing segnala che i prezzi ai quali si vende la capacità trasmissiva
stanno crollando. Occorre sviluppare servizi, che trovino un pubblico
disposto a pagare. Che non è facile, in un momento nel quale la piattaforma
più dinamica, le reti che accettano il protocollo Tcp-Ip, è caratterizzata dalla
comunicazione gratuita.
Gli uomini delle relazioni esterne dichiarano trionfanti: tutti i mercati sono
simultaneamente aperti, Europa e Cina compresi. Troppo, per i gestori dei
fondi di investimento, ai quali spettano le decisioni finali: dove investire,
vendendo che cosa e puntando su quale tecnologia?
Negli ultimi anni le principali multinazionali del settore hanno spedito in
Italia i loro lobbisti e hanno costruito società di carta con qualche decina di
miliardi di lire. Nelle prossime settimane chi vorrà giocare seriamente dovrà
investire migliaia di miliardi in società vere.
Intanto già a Natale compreremo ai nostri figli un telefonino da trecentomila
lire e ci abboneremo a qualche decina di canali satellitari. Poi arriveranno
servizi più sofisticati, meno strettamente derivati dai tradizionali servizi
televisivi e telefonici. C'è anzi da scommettere che il vero motore di questa
offerta deriverà da altre industrie, quella del cinema e, soprattutto, quella
dell'informatica.

L'Europa ha accettato la legge americana e si appresta a mettere in vendita e


in concorrenza le sue aziende. Una scelta saggia, a condizione che si
cominci a ragionare sulla industria del software.
La rivoluzione delle regole, per caso o per necessità, è stata impostata.
E' ora il momento della politica industriale o comunque la si voglia
chiamare.
Per la politica europea, che in questo campo si era ridotta a marchingegni
quali la rottamazione, è la sfida più difficile.

Webgrafia a cura di Dino Lorimer


Webgrafia ragionata
Dino Lorimer Innanzi tutto una avvertenza: in questi ultimi mesi linkare non è più
considerata un’attività "safe" per cui secondo alcuni è opportuno adottare
delle precauzioni, cosa che probabilmente non aveva fatto Total news che si
è trovata in poco tempo nei guai, per la storia e per alcune considerazioni
sensate si veda qui.

La ricerca di materiale in rete non è sempre semplicissima, soprattutto se


non si conosce il gergo legislativo o le modalità di messa a disposizione. Ad
esempio non appaiono link alla legge tedesca perché non conoscendo il
tedesco la ricerca della legge diventa esercizio difficile anche se ftp://info2.
rus.uni-stuttgart.de/ potrebbe nascondere qualche cosa di interessante.

Ma andiamo per gradi, iniziando dalla legge italiana: al 28-5-97 l'unico


riferimento per ora reperibile è presso il web del Senato.

Portava ancora il titolo dell'atto parlamentare perché non ancora pubblicato


sulla Gazzetta Ufficiale. Non so se rimarrà accessibile anche dopo la
pubblicazione e se manterrà la URL suindicata.

E' interessante notare che almeno fino a qualche tempo fa NON esisteva
nessun sito pubblico che riportasse in modo sistematico le leggi vigenti. Vi è
un sito privato che riporta la Gazzetta Ufficiale così come vi sono banche
dati a pagamento che riportano la legislazione vigente.

E' possibile che in futuro l'autorithy metta a disposizione il testo della legge
sulla falsa riga di quanto fa già l’autorità garante della concorrenza e del
mercato. Per adesso però è interessante notare come ad esempio il servizio
editoria della presidenza del consiglio non si prenda la briga di mettere in
rete le leggi amministrative .
Per un confronto è utile sottolineare che in Francia il Ministero
dell'Informazione ha un web-site ben fornito della documentazione
necessaria . Il raffronto purtroppo non si può fare con il Ministero delle
Poste e Telecomunicazioni perché questo ministero è fra quelli che ancora
non hanno attivato un Web http://poste.quandomai.it ....

Ma dei siti visitati il più interessante è forse quello della FCC, la Federal
Communcation Commission, non solo per la quantità di materiale messa a
disposizione, ma anche per i link ad altri siti governativi dove è possibile
reperire altro materiale sul Communication Act, fra questi da segnalare
http://www.state.wi.us/agencies/ per la ricca serie di rimandi, tra cui, in gran
quantità, i documenti relativi alla nota vicenda del Decency Act.

Per chi ritiene che l'utilizzo della rete è possibile non solo per la
pubblicazione delle leggi ma anche per la messa a disposizione del materiale
preparatorio, sarà senza dubbio affascinato dalla ponderosa relazione
preparata da una commissione del senato francese per l'esame delle
prospettive di France Telecom .

Un altro esempio lo si può trovare http://wn.apc.org/opengov/ dove sono


disponibili tutti i documenti preparatori alla discussione sul nuovo assetto
delle telecomunicazioni Sudafricane.

Ma cosa sarebbe un articolo oggi senza un accenno all'Europa? E allora


perché non guardare cosa ha detto la Commissione sulle questioni delle
telecomunicazioni?

Per chi volesse un punto di vista ancora più ampio ecco la International
Telecommunication Union . Il rischio però è che si legga sempre e solo il
giudizio dei potenti del mondo, e allora un salto nell'emisfero australe può
offrire dei buoni punti di partenza .

Infine alcune home page delle Telecom europee:

Italia
Francia
Germania
Inghilterra
Passione e morte della terza dimensione
Ruggero Pierantoni Una storia assai singolare è quella delle molteplici ma infelici, e a volte
catastrofiche, battaglie condotte dal cinema per impossessarsi della terza
dimensione. Lungo circa un secolo si sono succeduti tentativi spesso assai
intelligenti, quasi sempre immensamente costosi, di proporre al pubblico
immagini che potessero avere anche una evocativa parvenza di pretendere di
essere tridimensionali. I sistemi escogitati, per quanto ingegnosi, sono quasi
sempre naufragati sulla estrema sensibilità che il nostro occhio (o, meglio, il
sistema visivo nel suo complesso) ha per piccolissimi disallineamenti
spaziali, discontinuità temporali, sfasamenti acustico-visivi e instabilità
della percezione cromatica. Anche nelle soluzioni più sofisticate si doveva
contare sull’utilizzo della proiezione simultanea con almeno due proiettori e
mediante due o tre pellicole scorrenti indipendentemente le une dalle altre.
E’ immediato individuare tutta una serie di quasi inevitabili "scollamenti"
percettivi tra le tre immagini che si sarebbero dovute sovrapporre l’un l’altra
assolutamente in registro sia temporale che spaziale. Il cinema sembra aver
ormai rinunciato alla sua terza dimensione per puntare su di una spazialità di
tipo acustico o "ambientale" piuttosto che su di una illusione di profondità
visiva ottenuta con questi mezzi.
E’ questa una storia assai complessa perché in qualche modo essa coinvolge
quella curiosa creatura tecnologica ma anche filosofico percettiva (e forse
anche esteticamente feconda) che è, o forse solo era, l’olografia. Come è
ben noto l’olografia ha avuto una storia assai infelice e il marchingegno non
è riuscito a conquistare i mercati anche se gli apparati ottici per produrre
straordinarie illusioni spaziali siano estremamente economici e quasi
elementari mentre la visione di oggetti quasi completi nella loro
tridimensionalità non è operazione né costosa né troppo impegnativa
tecnologicamente. Ogni possessore di "gioielli olografici", che ebbero la
loro voga circa dieci anni fa, sa come le immagini che essi custodiscano,
vascelli, conchiglie, visi umani, sculture siano enormemente evocative e non
abbiano nessun competitore derivante da altre modalità di rappresentazione.
La televisione sta definitivamente enfatizzando la propria bidimensionalità
ampliando lo schermo con il renderlo enfaticamente piatto, espandendolo
sulla parete sino ad occuparla completamente. Lo schermo a grande
superficie che sarà o di già è a cristalli liquidi, e quindi a controllo digitale,
ha anche rinunciato alla parvenza di rotondità che caratterizzava i "vecchi"
schermi e si presenta assolutamente planare in ottemperanza morfologica gli
schermi dei PC portatili. Inoltre, la peculiare qualità della luce emessa dai
cristalli liquidi che non si distribuisce nello spazio con la omogenea
diffusione della luce "naturale" impone una stazione di osservazione assai
centrale e una progressiva drastica riduzione della qualità di osservazione
sotto angoli anche di poco lontani dalla normale allo schermo. Questo
effetto è ben noto a chi cerchi di seguire cosa appare sullo schermo a
cristalli liquidi operato da un’altra persona.
Con una straordinaria e parallela corsa alla imitazione la cartellonistica
pubblicitaria ha adottato i rapporti proporzionali degli schermi televisivi e
ampliato al massimo la conquista della parete. Ogni forma di pubblicità
"tridimensionale" è praticamente scomparsa o resa impensabile, non
esistono, detto in breve, forme pubblicitarie tridimensionali perché le grandi
e grandissime scritte luminose hanno una decisa tendenza alla
bidimensionalità e ogni effetto spaziale viene accuratamente evitato. Se per
opportunità architettonica una torre può portare in alto un messaggio che
deve essere visibile dai "quattro orizzonti" allora la ditta progetta e
costruisce quattro schermi piatti ognuno fronteggiante un punto cardinale.
Ma non verrà in mente di progettare e costruire un cubo luminoso con scritta
tridimensionale. E’ ben nota l’antipatia che la scrittura ha per la terza
dimensione. Quasi immediatamente dopo "l’invenzione" delle "bullae" di
terracotta del primo periodo di Ur che registravano nello spazio fisico della
"bulla" la distribuzione reale di oggetti tridimensionali l’appiattimento che
determina la pagina bifronte delle tavolette mesopotamiche. E da allora,
quale che sia stata la procedura di scrittura, i simboli si sono andati
allineando su superfici planari. Una scrittura tridimensionale non ha senso e,
quando si hanno monumenti o altri oggetti a grande scala che mostrano una
consistente terza dimensione in realtà portano il messaggio scritto
chiaramente sulla "facciata". Il necessario abbinamento tra parola e
immagine che caratterizza ogni forma di propaganda ha, come dire,
trascinato l’immagine entro lo spazio "scrivibile" e l’ha asservita alla
disposizione dello spazio piatto ad essere sottodiviso in stringhe quasi
monodimensionali.
Vorrei per brevissimi cenni alludere a questa interessante perdita della terza
dimensione che ha caratterizzato la cultura umana e il suo sviluppo storico.
Non è il caso, né il luogo naturalmente, per una indagine accurata e una
disanima storica ricca di esempi. Basteranno pochi accenni perché il
semplice assunto sembri presentato: la terza dimensione è una variabile
perdente nella storia della cultura umana.
Quasi fosse una sorta di estrema sintesi a questa semplice osservazione
vorrei notare che questo scritto non solo, naturalmente, non occupa terza
dimensione, ma non lo fa neppure virtualmente. Non esisterà infatti neppure
il sottilissimo supporto di carta che lo sostenga e che, assieme ad altre
"pagine" può finire per costituire un vero e proprio "volume"
tridimensionale. Il fatto che la direzione di Golem preveda una stampa dei
testi è solo un fenomeno secondario e del tutto irrilevante dinanzi alla
qualità assolutamente primaria di questi testi di essere stati concepiti, scritti
e immessi in rete solo su supporto informatico.
Se questo scritto per Golem dovesse, infatti, restare filologicamente corretto
secondo le intenzioni e le modalità di questa forma di comunicazione esso,
letteralmente parlando, esisterebbe solo come fluttuazione di luminanza su
di un certo numero di schermi di vetro. Fuggevole e immediatamente
eliminabile. Quasi istantaneamente trashabile senza i fumi e le urla e le
fiamme dei falò di qualsivoglia religione o ideologia. La perdita della terza
dimensione, la occupabilità dello spazio da parte di un supporto reale e
fisico, il suo deposito direi quasi anatomico e massivo in luoghi dedicati
rende questi "scritti" estremamente fragili .Ma allo stesso tempo
invincibilmente indistruttibili, così pare almeno a primo sguardo. Infatti se è
facile bruciare il Mein Kampf per esempio o l’Opera Completa di Alberoni o
le Pagine Gialle di Chicago, Illinois, non dovrebbe essere altrettanto facile
fare lo stesso con la distribuita e liquida qualità degli scritti su Golem che
dovrebbero diffondersi istantaneamente nella "rete" divenendo isotropi con
il pianeta. Allo stesso tempo la diffusività assoluta dello scritto che assicura
loro una perfetta "solubilità" spaziale mentre li distribuisce omogeneamente
sulla "rete" li nasconde alla vista immettendoli in una immensa discarica di
idee il cui ordine e architettura non sembra essere regolabile e che si
sviluppa cresce o collassa secondo strategie temporali ancora non
prevedibili. Discarica immensa e dalla quale le procedure di "retrival"
possono essere estremamente costose in termini di tempo e di energia.
Comunque vorrei ritornare alla questione iniziale concernente il difficile
cammino che la terza dimensione sembra seguire accanto allo sviluppo della
cultura umana. Non è quantificabile per nulla il tempo trascorso ad
osservare una immagine bidimensionale da un individuo umano in varie
tappe della civiltà e una valutazione anche estremamente imprecisa in
termini quantitativi sarebbe solo un falso ideologico. Ma proviamo ad
immaginare alcuni casi ricostruibili con una certa ragionevole
approssimazione.
Un uomo del Neolitico ha occasioni assai rare di osservare una immagine
bidimensionale, dovrebbe essere proprio il creatore di queste immagini per
stabilire una significativa percentuale del proprio tempo destinato alla
osservazione (e alla produzione) di tali immagini. Tutto il tempo andrà
invece speso nella terza dimensione ma non in modo "sportivo" o
"turistico". Ogni atto nello spazio diviene un atto di sopravvivenza, la
precisione di un lancio, la valutazione di una distanza, il calcolo mentale di
una profondità, di una velocità o di una accelerazione può essere fatale se
errato o salvare la vita se corretto. Quindi non solo le due dimensioni
occupano un ruolo infinitamente ristretto, quanto ad esposizione temporale,
ma l’abitare la terza dimensione ha una importanza primaria come dialogo
diretto con essa e non puro esercizio formale.
Un greco colto del quinto secolo avanti Cristo con molta probabilità
spenderà un tempo assai più elevato nel leggere un papiro, nel guardare le
immagini dipinte sulla superficie di un vaso, nell’esplorare un affresco o una
serie di bassorilievi. Ma certamente il dialogo con la terza dimensione deve
essere ancora assolutamente prevaricante come esperienza sia quotidiana
che di vita. Al medesimo tempo il rapporto di diretta sopravvivenza dovuto
alla corretta o incorretta soluzione di infiniti problemi sulla terza dimensione
continuerà ad interessare strettamente il guerriero, il navigante, il pastore, il
costruttore ma sempre meno il legislatore, il poeta, il pittore, l’avvocato, il
pediatra, il decoratore eccetera.
Questo gioco di valutazione episodica e aneddotica del "tempo trascorso
nella terza dimensione" può essere continuato ma non è qui il luogo per
farlo se non accennando a certi passaggi assai critici. A me sembra assai
interessante la transizione tra vetrate dipinte medievali e pareti affrescate. In
entrambi i casi si tratta dell’esposizione a vastissime superfici
bidimensionali colorate e quindi entrambe riconducibili entro la qualità della
bidimensionalità. Ma si consideri la vetrata. Essa in realtà impone al suo
osservatore di camminare nella sua luce colorata, i santi, i martiri, i re
saranno ben piatti e bidimensionali ma la luce colorata si presenta come
volume tridimensionale entro cui fisicamente camminare. La
contemplazione di un vastissimo affresco non solo concentra l’attenzione su
di una superficie piatta ma la rende remota, irraggiungibile, veramente e
solennemente ottica. E’ un fatto ben noto, ma ancora non ben compreso, il
meccanismo della scomparsa delle vetrate alla fine del Gotico. Non si
comprende bene come una tecnologia così sofisticata, una serie di soluzioni
tecniche ed estetiche di estrema eleganza, un sapere così sottile e diffuso
sulla lavorazione e colorazione del vetro venga così improvvisamente
obliterato lasciando solo alla parete il compito di narrare le Storie della
Chiesa o dei vari altri Poteri.
Si potrebbe assai facilmente ricostruire una giornata "fiorentina" o "senese"
o in Utrecht in cui un mercante o legale o religioso potrebbe passare una
notevole parte del suo tempo in contatto con documenti (quindi oggetti
rigorosamente bidimensionali), mentre una porzione sempre più ridotta dei
suoi concittadini, sellai, orefici, muratori, mulattieri, mercanti, questuanti
continuano ad avere rapporti stretti ma non vitali con la terza dimensione.
L’avventura della prospettiva occuperebbe, di natura e d’imperio, una
porzione centrale in questa storia della perdita della terza dimensione.
L’aver codificato la sua morte reale ed averla sostituita con un algoritmo
illusorio di enorme potenza e precisione evocativa rappresenta un punto
assai critico in questa strana storia. Ma vorrei che la velocità della storia
andasse accelerando assai per giungere al momento, quasi attuale, della
assoluta vittoria della coppia X-Y e la quasi scomparsa dell’imbarazzante Z.
Il cinema ha rappresentato una frazione non trascurabile di tempo sociale
inteso a osservare oggetti strettamente bidimensionali. E non si deve
dimenticare che il teatro che, strutturalmente, rappresenterebbe un’arte dello
spazio in realtà, con il costringere gli attori a muoversi entro una ben
limitata frazione illuminabile del palcoscenico, aveva di già predisposto una
potente anticipazione della perdita della terza dimensione. In un certo senso
il nascente cinema delle origini non fa altro che certificare la morte dello
spazio teatrale con il drappo bianco e piatto sul quale vanno a proiettarsi i
vari treni in arrivo. In arrivo più che in partenza.
L’esplosione sociale della televisione viene a concludere la storia portando
il tempo fisico, espresso in minuti e ore (in questo caso siamo certo ben
serviti da infiniti dati statistici di ogni tipo) destinato alla visione di oggetti
tridimensionali a livelli mai esperimentati prima nella nostra storia. A
questo dato si accompagnano altri fenomeni che sono stati molto spesso
analizzati e con grande acutezza: la bidimensionalità della visione di
paesaggi, luoghi, città, strade eccetera dovuta ai mezzi di trasporto che
fanno vedere benissimo l’esterno, ma attraverso un diaframma trasparente
infrangibile e inattraversabile. La perdita di competenza spaziale di noi
attuali umani è enorme. Basti pensare alla continua, ma assolutamente
giustificata, lamentazione di genitori e di insegnanti su bambini e giovani
che non manifestano nessuna capacità, non solo alla resistenza fisica del
camminare, ma neppure alla orientazione, alla soluzione di anche
semplicissimi problemi spaziali. Non ultimo caso da analizzare è l’enorme
incidenza degli incidente stradali la cui natura è assai spesso derivata da
gravissimi errori di valutazione nelle distanze, nelle velocità e nelle
accelerazioni.
Ma un dato diviene ulteriormente interessante e certo allarmante. Non solo il
tempo destinato alla contemplazione passiva di immagini bidimensionali
colorate e mobili è aumentato in modo straordinario, ed è caduta nel
contempo la competenza spaziale di adulti e bambini, ma la superficie piatta
si è ristretta in modo estremo. Un apparecchio televisivo viene osservato
sotto un angolo visivo di circa 30 gradi o poco più. Tutto il resto diviene
"background" e perde valore, significato, nome e funzione. Una ulteriore
frustrazione ne deriva al nostro accuratissimo sistema visivo costruito sulla
estrema precisione delle valutazioni spaziali e che ha permesso per molti
millenni a poche decine di umani di abbattere un mammut a mani nude, di
catturare sott’acqua i pesci senza attrezzi, di colpire una gazzella in fuga con
una lancia (o un nemico in corsa), di centrare un piccolo disco di pietra
perforato come ben possiamo ricostruire dai "campi di gioco "della civiltà
azteca, ma anche di risolvere interessanti problemi spaziali come nella
"giostra del Saracino" o altre prove spaziali che adesso impongono
lunghissime prove, esercizi e spesso amare sconfitte a pochissimi e
superallenati campioni locali. La frustrazione deriva dal fatto che la nostra
complessa attrezzatura biologica per vedere la terza dimensione viene
completamente bypassata e non ne utilizziamo più che alcune potenze
vestigiali.
Si può aggiungere, in fase di chiusura, che si è anche stabilita una ulteriore
diciamo pure perversione percettiva: l’abbinamento del suono alla immagine
piatta. Come si sa, l’apparecchio televisivo contiene in sé la propria sorgente
di rumore e quindi la direzione lungo la quale ci proviene l’immagine
coincide, spesso del tutto assurdamente, con quella lungo la quale ci
perviene il suono da essa generato, o ad essa arbitrariamente associato.
Questo interessante, ma piuttosto fatale, cocktail percettivo fa si che noi, di
anno in anno e sempre di più, consideriamo solo i rumori che "vengono da
davanti" trascurando tutte le altre ecologie sonore che ci avvolgono e che ci
inviano una infinità di segnali assai utili, anche per la nostra sopravvivenza.
Pare che solo due categorie di umani continuino pervicacemente a fare uso
della terza dimensione: i boy scouts e i criminali.
Quali sono i veri problemi della scuola?
Domenico Parisi 1. La società cambia, la scuola no.
2. Quali sono i veri problemi della scuola.
2a. Le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione
2b. Immagini contro parole
2c. La scuola e la globalizzazione
2d. La scuola e la cultura di massa
3. Conclusioni

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1. La società cambia, la scuola no

La scuola crea oggi molto disagio in tutti coloro che hanno a che fare con
essa: studenti, insegnanti, famiglie, amministratori, politici, la società nel suo
complesso. La scuola è vista come una istituzione in crisi, piena di problemi,
bisognosa di riforme e cambiamenti. Mentre è difficile non consentire con
valutazioni di questo tipo, individuare quali sono i "veri" problemi della
scuola non è facile. In questo articolo vogliamo sostenere che i problemi che
oggi sono oggetto di discussione pubblica (ad esempio sui giornali) e di
decisione politica (ad esempio i recenti interventi del ministro Luigi
Berlinguer), ma anche quelli indicati e discussi da studiosi e pedagogisti non
sono i veri problemi della scuola. Se anche immaginassimo che tutti questi
problemi venissero risolti, l'istituzione "scuola" continuerebbe a trovarsi in
uno stato di crisi e a produrre disagio.
I "veri" problemi della scuola sono più radicali di quelli attualmente discussi
in quanto sono connessi con le grandi trasformazioni che stanno avvenendo
nelle società industrialmente avanzate e di conseguenza, data l'influenza che
queste società hanno sul resto del mondo, in tutto il mondo. Per sua natura
l'istituzione "scuola" è in presa diretta con la società in quanto prepara a
vivere nella società. Perciò ogni tipo particolare di società richiede il suo tipo
particolare di educazione e di scuola. Se la scuola non cambia mentre la
società cambia, è inevitabile che la scuola entri in una crisi radicale. Essa
prepara i ragazzi a una società che non c’è più. Il limite degli sforzi attuali per
cambiare la scuola è che essi per lo più sono diretti a colmare ritardi e
inadeguatezze della scuola rispetto alla società che esisteva fino a ieri. Questi
sforzi sono meritori ma nella sostanza inutili. Il problema, specie per
un’istituzione che verifica i suoi "prodotti" a distanza di anni, cioè quando gli
attuali "ragazzi" saranno adulti inseriti nel mondo sociale, culturale e del
lavoro dei prossimi decenni, è che oggi la società pone problemi
completamente nuovi alla scuola, e li porrebbe anche a una scuola che non
avesse antichi ritardi e inadeguatezze.

I cambiamenti più importanti della società dal punto di vista della scuola sono
(a) i cambiamenti nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione,
cruciali per la scuola in quanto essa è un meccanismo fondamentale di
trasmissione culturale e quindi lavora proprio sull’informazione e sulla
comunicazione (b) i cambiamenti legati all’emergere per la prima volta di una
società globale al livello dell’intero pianeta e al diffondersi capillare
dell’economia di mercato e della cultura di massa, cambiamenti fondamentali
per la scuola perché richiedono una revisione radicale degli stessi contenuti di
ciò che è insegnato.

Se guardiamo alla scuola, non troviamo nessun cambiamento, realizzato o


proposto, che veramente rifletta questi cambiamenti della società. La scuola
oggi è ancora quella che andava bene per una società precedente a queste
trasformazioni, una società con le tecnologie di informazione e
comunicazione del secolo scorso, con una struttura organizzativa e di
interazioni fondamentalmente chiusa nei confini degli stati nazionali, con un
economia in cui la produzione di tipo industriale e il mercato in senso
moderno riguardavano solo una parte di ciò che veniva prodotto e consumato,
e con una cultura in cui le élite avevano ancora un ruolo decisivo nel decidere
cosa era cultura e cosa era degno di essere trasmesso da una generazione
all'altra. E' per questo che la scuola oggi prepara a una società che esisteva
prima di quella attuale, ma che ora non esiste più. Dato questo radicale
scollamento tra scuola e società, non c'è da sorprendersi che la scuola sia in
uno stato di confusione e di crisi.

Questa confusione e crisi si riflettono tra l'altro proprio nel fatto che i
problemi della scuola che oggi si discutono e che si cerca di risolvere non
sfiorano neppure le ragioni profonde della crisi della scuola. La radicalità
della crisi è mostrata dal fatto che la scuola non riconosce neppure quali siano
i suoi problemi.

Per fare degli esempi concreti, questo è un elenco di problemi che oggi sono
oggetto di discussione e decisione politica (elenco tratto dal quotidiano La
Repubblica del 4 ottobre 1996):

● anticipo dell'inizio della scuola elementare a 5 anni


● allungamento di due anni della scuola dell'obbligo
● passaggio dai giudizi ai voti
● autonomia didattica delle scuole.

Altri problemi discussi sui giornali sono la formazione, la selezione e


l’aggiornamento degli insegnanti, o i loro stipendi, oppure quanto tempo
dedicare a insegnare la storia del novecento o a celebrare la nascita/morte di
personaggi illustri.

I nostri migliori studiosi propongono elenchi come il seguente (De Mauro,


1995):

● effettiva estensione dell'obbligo scolastico alla totalità della


popolazione
● generalizzazione dell'istruzione infantile prescolare
● innalzamento dell'obbligo scolastico a 16 anni
● sostituzione di un ciclo unitario per la scuola dell'obbligo
● introduzione di un sistema di valutazione oggettivo, unico e nazionale
● piano nazionale di incentivazione della produttività delle scuole
● piano nazionale di incentivazione della studio per tutti i "capaci e
meritevoli" a partire dalla scuola elementare
● piani sistematici di aggiornamento e riqualificazione degli insegnanti
e degli addetti ai servizi
● riforma delle strutture, contenuti e metodi della secondaria superiore
● realizzazione della legge del 1990 per la formazione universitaria
degli insegnanti.

Riteniamo veramente che si possa trarre la scuola fuori da quella che ha tutte
le caratteristiche di una crisi storica affrontando e risolvendo questi problemi?
Ma se non è così, allora quali sono i veri problemi della scuola?
2. Quali sono i veri problemi della scuola?

I quattro problemi che la scuola deve affrontare se vuole rientrare in sincronia


con la società sono i seguenti:

A. La necessità non solo e non tanto di fare entrare in massa le nuove


tecnologie dell'informazione e della comunicazione nella scuola, ma di capire
quali sono le implicazioni profonde di queste tecnologie per la trasmissione
del sapere.

B. La trasformazione della comunicazione educativa da comunicazione


prevalentemente linguistica, come è tradizionalmente, a comunicazione in cui
la visualità abbia un ruolo altrettanto centrale del linguaggio.

C. I cambiamenti che la globalizzazione economica, comunicativa e culturale


richiede a una educazione fondata tradizionalmente sulla trasmissione della
cultura locale.

D. Le trasformazioni che una società dominata dalla cultura di massa richiede


a una scuola tradizionalmente trasmettitrice della cultura delle élite.

A. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione

La scuola è l’ultimo "enclave" di arretratezza tecnologica in una società in cui


le tecnologie sono ovunque. Ma il vero problema non è l’ingresso in massa
della nuove tecnologie digitali nella scuola, che pure rappresenta un
passaggio inevitabile. II vero problema è la comprensione di quali siano i
cambiamenti radicali che queste tecnologie impongono nei modi stessi della
trasmissione del sapere e nell’organizzazione sociale della trasmissione.
Finché la scuola non avrà assorbito nella sua "cultura" e nella sua
organizzazione le nuove tecnologie, essa sarà una "estranea" nella società.

Per orientarsi riguardo a questo problema c’è una storia passata che dovrebbe
insegnarci qualcosa. La mente umana non è qualcosa di universale, unico,
fisso, astorico. La "forma" che di volta in volta essa assume dipende
dall'ambiente in cui si sviluppa. Siccome questo ambiente cambia, in buona
misura perché l'ambiente in cui vivono gli esseri umani è creato e
incessantemente cambiato da loro stessi, di conseguenza cambia la mente
delle persone che ci vivono dentro. Ora, se vogliamo capire gli effetti
dell’ambiente sulla mente dobbiamo guardare soprattutto alle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione, cioè alle tecnologie con le quali
registriamo su supporti fisici esterni e conserviamo, modifichiamo,
recuperiamo e comunichiamo le nostre conoscenze e le nostre idee, sotto
forma di linguaggio verbale o di immagini. Queste tecnologie cambiano
storicamente e i loro cambiamenti influenzano non solo il funzionamento
della mente individuale, cioè che cosa ognuno di noi pensa, come pensa,
come si comporta e come interagisce con gli altri, ma anche l'organizzazione
sociale e politica della società.

Vi sono stati momenti nella storia delle società umane in cui le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione sono cambiate più velocemente e gli
studiosi (Mithen, Havelock, Goody, Ong, Eisenstadt, Donald) hanno mostrato
che sempre a questi cambiamenti hanno corrisposto fondamentali
cambiamenti nella mente e nella società. Alcuni momenti importanti di questa
storia di mutazioni tecnologiche sano stati i sistemi preistorici di registrazione
di immagini su pareti di roccia e su oggetti, i primi sistemi di scrittura,
l'alfabeto, la stampa, le tecnologie visive novecentesche (cinema, televisione).
Questi cambiamenti delle tecnologie comunicative e culturali hanno avuto un
ruolo importante o addirittura decisivo nell’emergere dell’arte, della filosofia,
della scienza, dello stato e della democrazia, delle società/culture di massa.

Oggi ci troviamo nel bel mezzo di una nuova e radicale trasformazione delle
tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Si tratta dell'introduzione
di quelle che vengono chiamate le nuove tecnologie dell'informazione e della
comunicazione, cioè le tecnologie basate sul computer quale potente
strumento di conservazione e di manipolazione nel formato universale del
codice digitale di ogni sorta di informazione. I nomi che indicano le nuove
tecnologie sono noti: basi di dati, sistemi di recupero delle informazioni,
ipertesti, grafica computazionale, multimedialità, reti telematiche, realtà
virtuale, modelli di simulazione. Queste nuove tecnologie sono in uno stato di
flusso, di trasformazione e innovazione continua - in effetti sono uno dei
settori in cui meglio si esprime oggi la creatività degli esseri umani. Ma esse
hanno già un impatto, che cresce letteralmente ogni giorno, su ogni aspetto
dell’attività umana, individuale e sociale. E basta un minimo di riflessione e
di analisi per capire che esse avranno conseguenze importanti per il
funzionamento della mente e della società, forse più importanti di quelle che
hanno avuto le tecnologie precedenti.

La scuola, come sistema fondamentale di trasmissione culturale di una


società, è o dovrebbe essere coinvolta direttamente e in prima persona con le
tecnologie dell'informazione e della comunicazione della società. La scuola
forma la mente dei futuri membri adulti della società conservando,
trasmettendo e comunicando conoscenze, abilità, atteggiamenti e valori. Essa
è forse il luogo più importante in cui le particolari tecnologie
dell'informazione e della comunicazione di una società hanno modo di dare
forma alle menti degli individui che costituiscono la società. Inoltre la scuola
prepara alla società, alla vita adulta nella società. Se questa vita adulta
comporta una interazione costante con certe tecnologie, la scuola è coinvolta
nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione non soltanto in
quanto esse sono un potente strumento per formare la mente nel modo che è
richiesto in una data società, ma più semplicemente perché gli individui che
escono dalla scuola non possono non avere piena familiarità con le tecnologie
che saranno una costante della loro vita adulta.
Ma il problema cruciale non è un aumento quantitativo di tecnologia nella
scuola - anche se questo, come si è detto, è un passaggio inevitabile - bensì
capire come deve cambiare la scuola, tutta la scuola, con le nuove tecnologie.
Non si può pensare che il significato di queste tecnologie è che esse
permettono di fare meglio quello che già si faceva prima, ad esempio di
insegnare meglio le lingue straniere. La scuola futura non può essere la
vecchia scuola più le tecnologie. Le nuove tecnologie digitali hanno la
potenzialità di creare sistemi di trasmissione del sapere e di educazione
radicalmente diversi dalla scuola così come la conosciamo, letteralmente, da
millenni.

Qui ci limitiamo a considerare tre punti: (a) le nuove tecnologie permettono


di "apprendere in qualunque modo", (b) il computer può fungere da
laboratorio didattico virtuale per quasi ogni "materia", (c) con le nuove
tecnologie la comunicazione via immagini può competere con quella
linguistica come medium di trasmissione del sapere. (Siccome il terzo punto è
particolarmente importante, lo trattiamo separatamente nella sezione
seguente.)

Apprendere in qualunque modo

La scuola così come la conosciamo è prima di tutto un edificio, le aule, le


classi di alunni, le lezioni, gli insegnanti, i libri, le interrogazioni, gli esami,
ecc. Tutta questa struttura che organizza tradizionalmente l'educazione è
messa in questione dalle nuove tecnologie. Le nuove tecnologie non possono
essere concepite come "aggiunte" alla scuola perché se esse entrano dentro la
scuola, esse hanno la tendenza a fare "esplodere" la struttura organizzativa
tradizionale della scuola. Le nuove tecnologie rendono possibile "apprendere
in qualunque modo", cioè apprendere qualunque cosa, in qualunque
momento, in qualunque luogo, da parte di chiunque, seguendo qualunque
"metodo". Questo contrasta con la estrema rigidità organizzativa della scuola,
una rigidità che aveva un senso quando le uniche tecnologie disponibili erano
la comunicazione faccia a faccia con esseri umani, i libri, la lavagna e poco
altro. Le caratteristiche del computer, il "cuore" delle nuove tecnologie, le sue
enormi capacità di conservare informazioni, di elaborarle velocemente, di
tradurle da un formato all’altro, di trasformarle, di comunicarle da un punto
all’altro - oggi amplificate dall’emergere delle reti telematiche - rendono
questa rigidità obsoleta. Accesso a un computer vuol dire letteralmente che
chiunque (cioè quali che siano le sue caratteristiche e la sua età) può imparare
su qualunque argomento in qualunque luogo si trovi (dove sia accessibile un
computer), in qualunque momento della giornata, e soprattutto seguendo
qualunque metodo pedagogico, dalla lezione ascoltata alla pagina di libro
letta, dalla navigazione solitaria in una rete di nuclei di informazione
seguendo un percorso scelto da chi apprende all’apprendimento cooperativo
realizzato interagendo a distanza con altri studenti o con tutor o con esperti,
dall’apprendere attraverso il linguaggio, immagini, suoni, ecc. all’apprendere
manipolando modelli simulati dei fenomeni su cui si vuole apprendere (vedi
avanti).

Se le nuove tecnologie realizzano le loro potenzialità di fare apprendere "in


qualunque modo", almeno due elementi portanti della vecchia struttura della
scuola sono esposti a una trasformazione radicale: da un lato, l’edificio stesso
della scuola con la sua struttura (ad esempio le aule) e il suo modo di
funzionare (classi, corsi, lezioni); dall’altro, gli insegnanti. La scuola come
struttura anche fisica potrebbe essere sostituita da "case della tecnologia e
dell’apprendimento flessibile", luoghi aperti aventi due funzioni, quella di
permettere a tutti i cittadini di vedere in azione con i propri occhi, conoscere e
imparare a usare le nuove tecnologie (con il loro tasso di innovazione così
rapido), e quella di permettere a tutti gli "studenti" di apprendere su
qualunque argomento e seguendo qualunque metodo attraverso le nuove
tecnologie. Per quanto riguarda gli insegnanti, forse dobbiamo smettere di
pensare che il problema sia quello che essi siano formati, selezionati,
aggiornati e pagati meglio. La nuova configurazione dei sistemi educativi che
si va profilando richiede prima di tutto una radicale revisione della figura
dell’insegnante, anzi, in sostanza, una sostituzione della tradizionale figura
dell’insegnante con una varietà di figure professionali anche molto diverse tra
loro come sono quelle richieste dai nuovi sistemi educativi, dagli esperti che
sanno disegnare e realizzare i nuovi sistemi tecnologici con funzione
educativa (non necessariamente molto diversi da quelli che li disegnano e li
realizzano per altre funzioni) all’"insegnante" come tutor individuale e di
gruppo che regola le interazioni tra studenti e tecnologia, dai gestori/
amministratori delle nuove strutture/organizzazioni dell’educazione,
all’"insegnante" (non necessarimente la stessa persona del tutor) come guida
dello sviluppo psico-sociale degli studenti. E’ evidente che la estrema rigidità
attuale della destinazione dei soldi per l’educazione pubblica, che vanno oggi
nella loro quasi totalità agli stipendi per gli insegnanti, dovrebbe essere
sostitutita da politiche completamente nuove di investimenti e finanziamenti.

Il computer come laboratorio didattico virtuale

L’educazione tradizionale è passiva nel senso che a scuola si impara


essenzialmente sulla base di descrizioni o di immagini delle cose piuttosto
che interagendo direttamente con le cose. L’unica eccezione è il laboratorio
in cui si fanno esperimenti didattici di fisica o di chimica. Nel laboratorio
didattico si impara manipolando attivamente e direttamente la realtà e
osservando le conseguenze delle proprie manipolazioni. Ma il laboratorio
tradizionale per sua natura permette di studiare e di capire solo alcuni aspetti
limitati della realtà. In laboratorio non si possono portare aspetti della realtà
troppo grandi o lontani nel tempo, o complessi come i comportamenti e le
società umane. Inoltre il laboratorio difficilmente può disporre di
apparecchiature costose ed è complicato da gestire organizzativamente, per
cui di fatto il suo ruolo è marginale e l’educazione scolastica resta
essenzialmente passiva.
Le nuove tecnologie digitali rendono possibile un ruolo più attivo dello
studente. Gli ipertesti multimediali sono un modo per realizzare questo ruolo
più attivo. Con gli ipetertesti lo studente è libero di scegliersi un suo
cammino attraverso la struttura a rete di nuclei di informazione invece di
vedersi assegnato un cammino da un insegnante o da un libro. Tuttavia, gli
ipertesti hanno la limitazione che, per ogni nucleo di informazione che visita,
lo studente continua ad avere il ruolo puramente passivo di dover
semplicemente leggere un pezzo di testo o di guardare un’immagine.
(Naturalmente si può leggere o guardare un’immagine in modo attivo, ma
non c'è nessuna garanzia che ciò avvenga realmente.)

Un altro modo, più interessante, di imparare in modo attivo è usare il


computer come un laboratorio didattico virtuale. Nel laboratorio sperimentale
reale si impara agendo sulla realtà e osservando le conseguenze delle proprie
azioni. Lo stesso può avvenire se la realtà è simulata con opportuni modelli e
visualizzata nel computer. Le simulazioni con il computer sono usate oggi
sempre più frequentemente nella scienza e nella tecnologia per visualizzare,
modellare e comprendere fenomeni complessi. Ma esse hanno un enorme
potenziale proprio per scopi educativi. Lo studente manipola il modello
simulato nel computer, ne cambia parametri e condizioni, e il computer
"computa" e fa vedere allo studente le conseguenze di queste manipolazioni.
In questo modo il computer può avere i vantaggi del laboratorio didattico
tradizionale senza però averne le limitazioni. Infatti, diversamente dal
laboratorio reale, il laboratorio virtuale del computer permette di imparare su
qualunque fenomeno, senza limiti di tempo, spazio e complessità. Inoltre, non
solo i fenomeni direttamente visibili possono essere modellati e visualizzati
ma anche quelli astratti. Infine, il computer come laboratorio didattico può
avere maggiore flessibilità, capacità di tenere dietro ai progressi della
conoscenza fuori della scuola e, in prospettiva, anche maggiore economicità
del laboratorio reale. Ma quella che potrebbe essere la conseguenza più
importante del computer come laboratorio didattico virtuale è che essa
potrebbe cambiare radicalmente non tanto l’educazione nelle discipline
tecnico-scientifiche ma quella nella materie umanistiche, ad esempio nella
storia e in genere nelle scienze dell’uomo.

avanti
Educazione e formazione continua nell'età digitale *
Peppino Ortoleva Già nel titolo stesso di questo incontro si trovano sollevati, insieme, due
ordini di problemi, che forse è utile discutere separatamente, per poi
renderci conto che sono in realtà intimamente connessi.

Il primo è se e quanto, le tecnologie "nuove", che per amor di sintesi


possiamo ricomprendere sotto l'etichetta della digitalizzazione, si prestino a
quel particolare tipo di formazione che definiamo educativa e se l'avvento di
queste tecnologie abbia o possa avere qualche incidenza sui contesti e sugli
ambienti formativi. Una questione, come sappiamo, molto discussa ma
tutt'altro che pacificamente risolta.

Un secondo problema, di carattere solo apparentemente più astratto, è quali


siano i modelli di formazione più adeguati in un'epoca di intensa
innovazione tecnologica, nella quale il sapere che l'individuo apprende
nell'età detta "formativa" può diventare obsoleto in pochi anni e mostrarsi
nel corso di una vita individuale bisognoso non di uno, ma di molteplici
aggiornamenti. Un'epoca per di più caratterizzata dall'erosione evidente di
quel modello "testuale" di cultura e di educazione, basato cioè soprattutto
sul paradigma comunicativo del libro, a cui si sono per secoli conformati
non solo i contenuti ma l'organizzazione stessa delle istituzioni educative.

1. Dell'applicazione delle nuove tecnologie nella formazione si parla,


ricordavamo, molto e da molto tempo. Eppure, la loro presenza nella
quotidianità dell'educazione è limitata e sporadica. A tal punto, che viene da
chiedersi se non sia ora di smetterla con i proclami e le dichiarazioni di
buone intenzioni per cercare piuttosto di capire se non ci siano dei motivi
strutturali (e quindi indipendenti dalla volontà dei singoli, fossero pure
ministri) per cui questa presenza è così limitata, anche al di là delle
resistenze culturali diffuse nel corpo sociale e tra gli insegnanti in
particolare.
In realtà, la comunicazione educativa presenta caratteristiche proprie che la
rendono differente da quasi tutti gli altri tipi di comunicazione. E'
contraddistinta dall'esistenza di un soggetto (il docente) che ha funzione
privilegiata, ma non unica, di emittente, e di un gruppo limitato di soggetti
(gli allievi) che costituiscono l'uditorio: a questi non è richiesta solo
attenzione ma anche una serie di momenti di feedback. Tra gli allievi inoltre
esistono importanti e insopprimibili modi di interazione informale, che
l'istituzione educativa realmente efficace conosce e usa, in maniera però non
intrusiva. E', per dirla con una formula, un modello di comunicazione uno-a-
molti, con forti elementi di interattività in parte programmata e in parte
spontanea, ma altrettanto indispensabile.
Se analizziamo con attenzione i campi nei quali le tecnologie del
comunicare si sono sviluppate in questi secoli di storia, ci rendiamo
facilmente conto che la situazione uno a molti appena schematizzata non vi
rientra. I media, il cui sviluppo ha caratterizzato la contemporaneità, sono da
un lato, mezzi "di massa" - che portano messaggi da un’emittente a un
pubblico per sua natura indefinito e potenzialmente illimitato, il quale ha
possibilità di interazioni limitatissime e generalmente non indispensabili al
funzionamento della comunicazione, dall'altro, mezzi punto-a-punto - che
cioè collegano tra loro due interlocutori in funzione dialogica; lo sviluppo
recente delle macchine dette "interattive" tende, sia detto per inciso, a
simulare proprio questo modello comunicativo.
Fino a tempi molto recenti, lo sviluppo tecnico della comunicazione non ha
dato luogo a media strutturati al fine di sorreggere situazioni comunicative
del tipo proprio dell'educazione, causa non ultima del carattere altamente
labor intensive dell'istituzione scolastica. E, in effetti, molte delle proposte
correnti di applicazione alla scuola delle nuove tecnologie scavalcano, di
fatto, il problema: contemplano, o la pura e semplice riproposizione nella
classe di forme di comunicazione di massa, oppure un rapporto individuale
allievo-rete, allievo-macchina. In questo modo, però, ci troviamo di fronte a
un'alternativa secca e ancora insuperata:

a) l'applicazione delle tecnologie rivoluziona di fatto l'intero modello


comunicativo, riducendo a quasi nullo non solo il ruolo dell'insegnante (cosa
che comunque sviluppa ulteriori resistenze) ma lo stesso sistema di
interazioni articolate uno-a-molti: non a caso in molti esperimenti di
"insegnamento a distanza", dalla Open University in poi, si ritrovano
ossessivamente riproposti da un lato lezioni "di massa", rivolte cioè a uditori
indifferenziati e dall'altro, forme di interazione strettamente individualizzate;

b) l'applicazione delle tecnologie rimane relegata a momenti relativamente


marginali della comunicazione educativa, mentre al centro resta saldamente
il rapporto diretto, "fisico", tra l'insegnante e gli allievi: un rapporto che ha
peraltro perso parte della sua credibilità proprio per la concorrenza oggettiva
che subisce da parte di altri modelli di comunicazione e di altri processi di
socializzazione.
La sfida più interessante sollevata dall'attuale congiuntura tecnologica sta
forse proprio qui, nella possibilità di individuare strumenti direttamente
funzionali a forme di comunicazione uno-a-molti, capaci cioè di collegare
un emittente con un numero limitato e mirato di destinatari e di definire,
anche al di fuori degli ambienti fisicamente chiusi delle aule scolastiche, dei
contesti di interazione complessi, tra il singolo membro dell'uditorio e il
docente ma anche tra i diversi sottogruppi all'interno dell'uditorio. Vanno in
questa direzione le applicazioni educative di alcuni programmi di
groupware, cioè del software per gruppi di lavoro, pensati appunto per
favorire e rafforzare diversi livelli di interazione all'interno di una comunità.

Ma viene da chiedersi se, più in generale, la diffusione stessa dell'ipertesto


come modello di organizzazione dei messaggi non possa aprire strade nuove
in questa direzione. Secondo l'americano Edward Barrett, l'istituzione
educativa che funziona è "un ipercontesto..., un grandioso meccanismo che
permette diverse forme di interazione". Ma, aggiungiamo noi, una varietà di
forme di interazioni non tutte eguali sul piano dei rapporti di potere.
Analogamente, l'ipertestualità prevede alcuni percorsi di base comuni, di cui
l'emittente (l'autore) si assume piena responsabilità e una serie di possibilità
combinatorie costruibili dal singolo individuo, ma a loro volta suscettibili di
essere memorizzate, fatte circolare, discusse. L'ipertesto, insomma, per certi
versi simula un modello comunicativo non dissimile da quello scolastico,
per altri si presta a integrarvisi, stabilendo uno scambio dialettico con il
lavoro del docente.

Quanto spazio da dare al primo aspetto, cioè agli usi sostitutivi di queste
tecnologie rispetto alle istituzioni scolastiche tradizionali, e quanto al
secondo, cioè agli usi complementari, è oggi uno dei problemi di fondo della
politica della scuola: certo è che l'ipertesto, più di altri modelli tecnologici,
sembra prestarsi a un equilibrio fra i due aspetti.

2. Finora abbiamo parlato di "istituzioni educative" avendo di fatto in mente


la Scuola nella sua forma tradizionale, che del resto è tuttora uno dei
maggiori canali comunicativi delle società occidentali e non solo. Ma il
titolo stesso Educazione e formazione continua nell'età digitale sembra
invitarci a ridiscutere la centralità di questo tipo di istituzione nei processi
educativi.

Nell'epoca digitale infatti, la funzione della scuola appare problematica per


almeno due motivi, come si ricordava all'inizio. Prima di tutto, il sapere che
si trasmette si presenta fin da subito come provvisorio, destinato ad apparire
superato molto rapidamente: questo rende l'investimento nella formazione
(un investimento che in termini almeno di tempo continua a salire) assai più
incerto negli esiti di quanto non fosse una generazione fa. In secondo luogo,
come ha dimostrato bene Joshua Meyrowitz, la struttura "classica" delle
istituzioni scolastiche in occidente sembra riprodurre sistematicamente i
caratteri di ordinata sequenzialità, di stabilità nel tempo, di separatezza dal
mondo, che sono propri della forma-libro. Tutta la seconda metà del secolo
che finisce è stata segnata da una crisi di questo modello, in quanto
l'esposizione stessa del ragazzo a modelli comunicativi di flusso, quelli
propri in particolare della televisione tolgono sia credibilità sociale, sia
efficacia formativa alla comunicazione scolastica. Oggi, lo sviluppo delle
tecnologie interattive potrebbe (nonostante le osservazioni fatte in
precedenza) rafforzare questa tendenza: l'interpretazione prevalente di
queste tecnologie esalta infatti l'apprendimento individuale e la relativa
arbitrarietà dei percorsi più che le possibilità di cooperazione articolata che
pure esse portano con sé.
Per tutti e due i motivi ricordati (la rapida obsolescenza dei saperi trasmessi
e la crisi della forma comunicativa testuale tradizionale) può sembrare
un'ovvia soluzione affiancare, quanto meno, all'istituzione scolastica
classica un sistema educativo fondato su basi diverse:

a) il ritorno diffuso a forme di apprendimento basato sulla diretta


acquisizione di competenze operative, sul modello classico
dell'apprendistato, a svantaggio dell'apprendimento fondato su canali
formali di trasmissione di messaggi verbali

b) una formazione continua che tenga continuamente aggiornati gli individui


anche al fine di non ridurre le loro chance sul mercato del lavoro.

Entrambe queste tendenze, oltre a essere comunque abbastanza ineluttabili,


segnalano esigenze reali. E' bene però avere chiaro che sono accompagnate
da rischi seri.

Il declino della tradizione della bottega e dell'apprendistato artigiano,


nonostante i frutti straordinari che questo modello educativo può dare (è
inutile ricordarlo proprio nel paese delle botteghe d'arte rinascimentali), è
stato irreversibilmente connesso con un processo fondamentale della
democrazia, quello che ha svincolato la carriera della persona dalla
collocazione sociale della sua famiglia. La trasmissione formalizzata del
sapere propria della scuola, nonostante la sua astrattezza, o forse proprio
grazie a essa, resta probabilmente il modello educativo più egualitario che ci
sia. L'idea di tornare a forme di istruzione "di bottega", care anche a grandi
socialisti come Morris, può avere un senso solo a patto di fornire precise
garanzie contro il ritorno a pratiche corporative finora sempre legate a
questo modello.

Contro la formazione continua in sé, non ci sarebbe nulla da dire. Quello


che però va evitato è la tendenza diffusa a considerarla un rimedio per i mali
della scuola: se il ragazzo nell'età formativa impara poco e male, molti
pensano, in fondo non è grave, visto che quello che avrebbe imparato
comunque gli sarebbe servito a poco, e visto che le cose utili le apprenderà
man mano.
Probabilmente è vero esattamente il contrario. Il momento propriamente
educativo della vita della persona è quello nel quale si prepara a entrare nel
mondo: allora riceve una serie di strumenti essenziali che dovranno servirgli
non solo per leggere la realtà ma anche per sapersi, man mano, rieducare. La
formazione continua, in altri termini, funziona solo se si innesta sul tronco
di una solida educazione di base nel momento decisivo. Ha scritto Hannah
Arendt: "In fondo noi educhiamo sempre i nostri figli in vista di un mondo
che è già, o sta per diventare, fuori sesto... Il mondo si logora perché è opera
di mortali; e rischia di diventare mortale come loro... occorre rimetterlo in
sesto sempre daccapo. Il problema è educare in modo che il rimetterlo in
sesto resti di fatto possibile, seppure non possa mai essere garantito.
L'educazione deve essere conservatrice proprio per amore di quanto c'è di
nuovo e di rivoluzionario in ogni bambino: deve custodire la novità e
introdurla come cosa nuova in un mondo vecchio, che per quanto possa
comportarsi da rivoluzionario, di fronte alla generazione che sopraggiunge è
sempre sorpassato e prossimo alla distruzione".

Quello che non si può eludere, parlando di educazione, è comunque il


problema dell'autorevolezza dell'azione educativa: un'autorevolezza che le
tecnologie non possono creare e neppure supplire, ma cui possono
consentire, se bene usate, di dispiegarsi pienamente. Un'autorevolezza che
non può essere sostituita dalla pura e semplice ripetizione delle esperienze
di aggiornamento, ma che è ingrediente essenziale del momento educativo.
Un'autorevolezza che, è bene ricordarlo, rimane un'essenziale protezione
contro ogni forma di autoritarismo.

Intervento di Peppino Ortoleva al convegno "Educazione formazione continua nella società


digitale", Salone del libro, Torino, 26 maggio 1997.
Che giorno è?
Franco Recanatesi Alt, fermi tutti: guardate il calendario e l’orologio. Che giorno è? Che ora è?
Siete sicuri? Male. Neanche sulle date v’è più certezza. E questo mentre
stiamo contando i giorni, le ore e i soldi che ci separano dai festeggiamenti
per il fine millennio, può anche gettare qualcuno di noi nello sconforto o
nell’angoscia. Rassegnamoci, il tempo non è una scienza esatta, il tempo è
una delle tante convenzioni che lastricano il sentiero della nostra vita.
Nel premere contro quella elettrizzante soglia che fra circa mille giorni si
spalancherà sul terzo millennio, sappiate che nel varcarla potreste comunque
sbagliare l’attimo (o addirittura l’anno). Quando comincia il Duemila, a
mezzogiorno di sabato 31 dicembre 1999 oppure alla mezzanotte di
domenica primo dicembre? Gli astronomi, che in materia non sono
testimoni trascurabili, usano per esempio cambiare le date alle 12 e non alle
24. Sono precisi loro, attenti e ponderosi, tant’è che il calendario
astronomico contempla anche l’anno 0 tra l’1 avanti Cristo e l’1 dopo
Cristo. L’era Giuliana, cui gli astronomi si attengono, comincia per
l’appunto alle ore 12 del 1° gennaio del 4713 avanti Cristo.
Altri sostengono invece che a mezzogiorno non parte un bel niente, che
l’ora divisoria dev’essere ed è soltanto la mezzanotte. Quasi tutti, oramai.
Un po’ per studio e convinzione, un po’ per comodità. Sarebbe in realtà un
problema doversi mettere in ghingheri e stappare lo champagne a
mezzogiorno. Poi cosa si fa, si va a lavorare?
Ma mica soltanto sull’ora si è discusso nei secoli. Potreste giurare che il 31
dicembre sia davvero il 31 dicembre? Non lo fate. I calendari sono come le
formule di governo o la Nazionale di calcio: ognuno crede di avere la
formula giusta, ma in realtà una formula giusta, provata, non esiste. Ogni
popolo del passato aveva un suo metodo per contare gli anni. Nell’antico
Egitto la datazione partiva dall’inizio di ciascuna dinastia. Nella Grecia
classica venivano usate le ere quadriennali delle Olimpiadi. Nell’antica
Roma si conteggiavano gli anni ab urbe condita oppure, dal 45 a.C., con il
calendario giuliano introdotto da Giulio Cesare. E ancora: sotto il regno di
Bisanzio le date partivano dal 21 marzo del 5508. Il calendario ebraico
conta 353 o 354 o 355 giorni e parte dal 3761. Quello arabo risale all’era di
Maometto a far data dal 622 d.C. Quello musulmano ha 10 o 12 giorni in
meno rispetto al gregoriano con il quale coincide ogni 30 anni.
Insomma, una vera babele, nella quale nel 1582 - gli anni in cui Galilei
rivoluzionava le teorie scientifiche, Cervantes lasciava le armi per la
letteratura, il pirata Francis Drake infestava i mari con la benedizione della
sua regina - papa Gregorio XIII tentò di mettere ordine con la bolla Inter
gravissimas, attraverso la quale promulgava la riforma del calendario
giuliano secondo il disegno elaborato da una commissione di insigni
matematici: anno di 365 giorni raccolti in 12 mesi e 52 settimane con l’uso
dell’anno bisestile. Allora, per rimettere le cose a posto e uniformare
definitivamente le date, furono stracciate undici pagine del calendario
saltando con indubbia disinvoltura da giovedì 2 a venerdì 15 ottobre. Da
quel 15 ottobre 1582, l’umanità - perlomeno gran parte di essa - procede con
la gregoriana scansione temporale, ma più che altro per comodità se non
addirittura per sfinimento. Con tanti dubbi, tante imprecisioni e una sola
certezza: gli spazi temporali storici e fisici che studiamo e che viviamo sono
certamente inesatti. E’ probabilmente inesatto quel punto fermo al quale
rapportiamo ogni avvenimento storico e cioè la nascita di Gesù: recenti
computi hanno smentito Dionigi il Piccolo, il monaco che nel Sesto secolo
l’aveva fissata e dal parere del quale dipendono l’anagrafe di ciascuno di noi
e ogni altra data della nostra vita. Il calcolo di Dionigi sembrerebbe errato
quanto meno di quattro anni, tanti, cioè, quanti ne passano tra un’Olimpiade
e l’altra: il figlio di Dio avrebbe visto in realtà la luce nella grotta di
Betlemme nel 4 (naturalmente avanti Cristo) se non addirittura due o tre
anni prima, nel 6 o nel 7: ciò spiegherebbe il fatto che egli, avendo più di
due anni, fosse scampato alla strage degli innocenti voluta da Erode.
Tutto questo per dire che i fermenti già in atto in vista del passaggio dal
secondo al terzo millennio poggiano su basi assai fragili. Pensate un po’, c’è
qualcuno - il solito pignolo impegnato a rovinare le feste! - che pone un
altro imbarazzante interrogativo: il millennio si compie alla fine del 1999
oppure alla fine del 2000? Sicuramente il quesito non avrà risposta:
l’industria del consumismo sarà ben felice di raddoppiare gli incassi e noi
ben felici di raddoppiare le spese. Tanto, siamo uomini senza tempo......
Sondati
Arnaldo Ferrari Nasi e Renato Il sondaggio apparso su Golem 10 entrava nel merito di una questione che,
Mannheimer tra l’altro, è da tempo un punto fermo nella battaglia politica di Marco
Pannella e dei Riformatori: l’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti.
Il tema è in ogni caso attuale visto che, grazie proprio alla promozione dei
Club Pannella, verrà affrontato dagli elettori nella prossima tornata
referendaria.
Il testo esatto della domanda recitava: "Quali delle seguenti affermazioni si
avvicina di più alla tua opinione sull’abolizione dell’Ordine dei
Giornalisti?" (Sono favorevole all’abolizione, Sono contrario all’abolizione,
Non ho ancora un’idea precisa al riguardo).

Tabella 1: Opinione dei rispondenti riguardo l’abolizione dell’Ordine


dei Giornalisti.

48
Sono favorevole all’abolizione

26
Sono contrario all’abolizione

26
Non ho ancora un’idea precisa al riguardo

Totale

125
Base (casi)
La metà di chi ha risposto al sondaggio è d’accordo con l’abolizione
dell’Ordine dei Giornalisti, mentre il rimanente sottoinsieme, cioè l’altra
metà, si divide in parti uguali tra chi non ha un’opinione e chi è contrario
all’abolizione.
Confrontando le diverse categorie degli intervistati si può cercare di
comprendere chi è maggiormente bendisposto verso la soppressione
dell’Ordine dei Giornalisti.
Innanzi tutto il 50% degli uomini, contro il 37% delle donne, esprime
un’opinione in favore dell’abolizione.
Per l’età una leggera accentuazione si trova nella categoria dei 26-35enni
(55%) così come nel titolo di studio tra i laureati (54%) e nel Nord come
regione di residenza (53%).
La professione ottiene una percentuale molto alta tra gli imprenditori e liberi
professionisti (63%), mentre chi si pone al centrosinistra nello schieramento
politico ritorna su una quota del 53%.
Ne emerge una figura del tutto simile a quella che abbiamo prima definito
come rispondente ai nostri sondaggi. O meglio, sono presenti le stesse
caratterizzazioni ma, se possibile, in maniera ancora più accentuata tra i 25-
34enni, laureati, imprenditori o liberi professionisti residenti al Nord e con
un’opinione politica di "centrosinistra".
Analizzati
Arnaldo Ferrari Nasi e Renato Ecco, sembra che ci siamo.
Mannheimer Pare che la nostra area dei sondaggi on-line sia visitata da una serie di
"autointervistandi" che comincia ad assestarsi attorno a delle quote
omogenee, sia in quantità che in qualità.
Il primo passo è stato fatto un po’ per caso, ma il metodo di porre alcune
domande nel sondaggio di Golem 8 è stato lo stesso utilizzato per quello di
Golem 10, per cui i risultati sono confrontabili. E’ metodologicamente
corretto!
Mi sto riferendo ai dati "strutturali" dei lettori di Golem che rispondono
all’intervista interattiva, cioè a quelle variabili sociodemografiche che per
prime ci aiutano a capire con che tipo di campione ci dobbiamo confrontare.
Innanzi tutto, un dato che oserei definire positivo: al sondaggio di Golem 10
(pubblicato con data 3/4/97) hanno risposto 126 persone. A quello di Golem
8, pubblicato all’inizio dell’anno, 116.
La cifra è abbastanza simile, sebbene non sia molto elevata, e può già essere
visto come un primo segnale di omogeneità. Un "plus" è dato dal fatto che
la seconda rilevazione conti 10 casi più della prima, è poco, ma su un
numero totale di 116, i rispondenti sono aumentati di circa il 9% (al primo
sondaggio, pubblicato su Golem 1 nel maggio ’96, risposero 51
"navigatori").

Tabella 1: Rispondenti ad entrambe le rilevazioni per genere

GOLEM
GOLEM 10
8

% %
88 85
Maschio

12 15
Femmina

Totale

116 126
Base (casi)

Guardando la tabella del genere si nota l’enorme scostamento dalla realtà


nazionale, i maschi sono più del quintuplo delle femmine, e questa quota
cambia poco nei due sondaggi, anche se nel secondo fortunatamente risulta
esserci qualche "ragazza" in più.
Sull’età degli intervistati si può dire che in entrambi i sondaggi l’80% dei
casi ricade nella categoria dei 25-54enni, anche se con piccoli spostamenti
nelle sottocategorie, nettamente gli anni in cui una persona è
professionalmente attiva.

Tabella 2: Rispondenti ad entrambe le rilevazioni per età

GOLEM
GOLEM 10
8

% %

6 6
meno di 20 anni

7 7
20-24 anni

27 03
25-34 anni

31 35
35-44 anni

22 22
45-54 anni
7 7
55 anni e più

Totale

116 126
Base (casi)

Il titolo di studio non è stato rilevato in GOLEM 8, ma il dato del sondaggio


successivo è molto interessante.
La rivista telematica è decisamente fruita da "intellettuali", e se andiamo a
vedere il dato dell’autocollocazione politica potremmo dire "intellettuali di
sinistra".

Tabella 3: Rispondenti ad entrambe le rilevazioni per titolo di studio

GOLEM 10

56
laurea/post laurea

37
maturità

4
licenza media

3
nessun titolo/licenza elem.

Totale

126
Base (casi)

Tabella 4: Rispondenti ad entrambe le rilevazioni per autocollocazione


politica
GOLEM 8 GOLEM 10

% %

43 48
Sinistra

28 24
Centro-Sinistra

2 3
Centro-Centro

5 3
Centro-Destra

3 3
Destra

19 19
Non so/Nessuna di queste categorie

Totale

116 126
Base (casi)

Per quanto riguarda l’area geografica le quote sono sconsolanti: sebbene


Internet abbia la possibilità reale di annullare le distanze, il dato sembra una
qualsiasi statistica ISTAT, in cui il Nord è sempre primo, il Sud è sempre
ultimo ed il Centro è a metà.

Tabella 5: Rispondenti ad entrambe le rilevazioni per area geografica di


residenza

GOLEM 8 GOLEM 10

% %
56 58
Nord

33 33
Centro

11 9
Sud e Isole

Totale

116 126
Base (casi)

In conclusione si può dire, cercando di tracciare un profilo di chi ha risposto


agli ultimi due sondaggi, che in maggioranza si tratta di

● individui maschi
● tra i 25ed i 54 anni di età
● con titolo di studio elevato o molto elevato
● residenti in maggioranza al Nord ed in parte minore al Centro Italia
● politicamente collocati su posizioni di sinistra o centro-sinistra

Certamente un risultato del genere non stupisce, visto il taglio della rivista.
Eppoi bisogna considerare che Inernet in Italia è ancora uno strumento
d’élite , soprattutto in alcune sue funzioni.
Sarebbe certamente interessante se ci fosse una maggiore rispondenza dal
Sud Italia ed un più grande equilibrio sulla scala del posizionamento politico.
I tesori del monte Athos
Carlo Bertelli Incurvato, scuro come si conviene all’uomo di affari o al professionista che
deve comunicare a tutti che, se ora prende l’aereo Roma-Milano, non è
perché sia stato al Sud a divertirsi, il mio amico salì con me la scaletta. Il
destino computeristico mi aveva affidato il posto dietro al suo. A lui era
toccato un tre posti vuoti. Uno dei tre fu occupato, prima della partenza, da
una hostess. Era un fiore di ragazza, e subito i colori tornarono sulle guance
del professionista o uomo d’affari o giornalista. Purtroppo la ragazza era
americana e sembrava che avesse introitato la formula NO SEX
HERASSMENT.
Sulla rampa di Milano il mio amico cercava di essere disinvolto. "Che
mostre ci sono in giro?" Mi chiese, con l’aria del celebre diplomatico che, a
Giava, chiede all’accompagnatore, per evitare un simile imbarazzo, "Quand
avez vous les elections?" Per sentirsi rispondere: "Toujouls, toujouls".
Bene, dico. Ci sarà presto un’occasione straordinaria: i tesori del monte
Athos esposti a Salonicco.
Vidi la delusione sul volto non più roseo. Cercai di dirgli che era un evento
culturale, per la prima volta occhi femminili avrebbero visto ciò che era
stato loro interdetto e che sarebbe tornato nell’oscurità vigilata da monaci
maschi subito dopo. La risposta fu quasi volgare: E che mi frega? Io tanto
sono un uomo.
Non pensai tanto alla mancanza di sensibilità verso l’altra metà del genere
umano quanto al fatto che se avessi detto che a Salonicco ci sarebbe stata
una grande mostra di Alberto Savinio con i mobili delle stanze borghesi
collocati su zattere fluttuanti, una grande rivisitazione della Grecia con gli
occhi dei fratelli De Chirico, l’avrei sollevato dalla passeggera frustrazione.
C’è un’avversione perdurante nella nostra coscienza italica verso il mondo
bizantino. Ai Bizantini si rimprovera veramente tutto. Di non essere greci
classici, per prima cosa. E poi di avere fatto tante storie per non inserire nel
credo la formula filioque, che del resto, il papa, a Roma, non accettò se non
nel XI secolo, su pressione dell’imperatore Enrico II. Così accade che la
concezione ortodossa dell’umanità di Cristo non si scuote attraverso un
estremo romanzo greco, ma per via di un film di Martin Scorsese.
Non so prevedere se la mostra di Salonicco avrà successo. Spero di sì.
Salonicco è Macedonia e visitarla significa sgombrarsi la testa di molte idee
convenzionali sulla Grecia. Davanti a questa grande città moderna
ricostruita dopo l’incendio che la devastò nel secondo decennio del nostro
secolo, stazionerà una corazzata della marina ellenica per garantire lo Stato
del Monte Athos, che è una repubblica monastica indipendente, della
protezione dei tesori prestati. Architetti di tutto il mondo hanno progettato i
nuovi debarcaderi che consentiranno trasporti rapidi via acqua, come a
Istanbul e a Venezia.
Io stesso non sono mai salito al Monte Athos. Per mille e una ragioni, non
ultima l’esperienza di quanto tempo sia richiesto per ottenere di vedere i
manoscritti che interessano; guardare le icone più venerate e farlo più di una
volta; aprire gli scrigni dei tesori.
Avevo però il sospetto che una placca con il Redentore, che in tutte le
pubblicazioni era descritta come uno smalto renano, capitato laggiù chissà
come, fosse in realtà una pittura sotto vetro, veneziana, del Duecento.
Scrissi all’archimandrita del convento di San Paolo e ne ebbi la risposta. Sì,
ad un’attenta ispezione, non vi erano dubbi che la placca fosse di vetro. La
cosa che, dopo la conferma, più mi colpì, fu però la firma della lettera. Il
capo della lavra, l’archimandrita di cui purtroppo non ricordo il nome, si era
firmato syn adelphois emou, con i miei fratelli.
E' possibile una biblioteca multimediale? (2)
Giulio Blasi Il pezzo dello scorso numero sulle biblioteche multimediali e sulla
preservazione dei materiali digitali ha suscitato reazioni interessanti da parte
dei lettori (che possono continuare ad inviarmi suggerimenti e commenti).
Val la pena insistere ancora un po’ sull’argomento, dunque.
Mi risparmio un abstract del pezzo precedente supponendo che il mio lettore
ipertestuale faccia poco sforzo a rileggerlo.
Fatto? Bene.

Anzitutto un’osservazione. Molti lettori confondono due tipi di problemi che


vanno tenuti distinti: la fragilità dei supporti e l’obsolescenza delle
tecnologie. Rapidamente: la fragilità è un problema (relativamente) facile da
risolvere mentre l’obsolescenza è un problema complesso.
La fragilità dei supporti dei media digitali (nastri, floppy disk, cd rom, hard
disk, ecc.), infatti, non è molto diversa dalla fragilità dei supporti di molti
media analogici (pellicole cinematografiche, nastri audio, fotografie a
stampa, ecc.). La fragilità dei supporti si risolve con il refreshing degli
stessi: i contenuti vanno riversati da un vecchio supporto a un nuovo
supporto (da floppy a CD ROM, da CD ROM a DVD, ecc.). Certo, il
problema quantitativo non è indifferente. La RAI, ad esempio, ha oggi il
problema di riversare su nuovi supporti 180.000 vecchi nastri.
Il patrimonio video accumulato dalla RAI (al 1996) è di 248.000 ore video.
Il problema del refreshing acquisterà caratteri esponenziali nel giro di pochi
decenni. Il progetto Teche della RAI sta iniziando ad affrontare questo
problema anche dal punto di vista della digitalizzazione di tali risorse.

Il problema dell’obsolescenza tecnologica è invece del tutto diverso. Qui


non è in gioco il puro e semplice supporto ma il modo di codificazione del
contenuto. I documenti digitali vengono prodotti con sistemi che dipendono
in vario modo dalle piattaforme software/hardware originarie. A ciò bisogna
aggiungere la difficoltà di garantire una piena (e continua) compatibilità
"all’indietro" delle piattaforme software. Ciò richiede (idealmente) un
continuo upgrade dei documenti o l’elaborazione di sistemi di emulazione
che garantiscano (a partire da qualunque nuova piattaforma) la leggibilità di
qualsiasi documento realizzato su piattaforme divenute obsolete.

La "Task Force on Archiving of Digital Information" ha elaborato negli


USA un primo rapporto strategico su questi temi proponendo una visione
integrata del tema della fragilità e dell’obsolescenza tecnica. Il termine
"migrazione" riassume una visione più organica e complessa della faccenda.

Migration is the periodic transfer of digital materials from one hardware/software


configuration to another, or from one generation of computer technology to a
subsequent generation. The purpose of migration is to preserve the integrity of digital
objects and to retain the ability for clients to retrieve, display, and otherwise use them in
the face of constantly changing technology. Migration includes refreshing as a means of
digital preservation but differs from it in the sense that it is not always possible to make
an exact digital copy or replica of a database or other information object as hardware
and software change and still maintain the compatibility of the object with the new
generation of technology.
(Report of the Task Force on Archiving of Digital Information)

Questo documento è molto utile anche per noi qui in Italia e ne consiglio a
tutti la lettura. Il problema della progettazione di Biblioteche Multimediali
coincide con il problema di elaborare complesse strategie di "migrazione"
per differenti tipologie di documenti digitali.

In un mail di commento al pezzo dello scorso Golem, Massimo Politi mi ha


scritto sostenendo che il problema della conservazione potrebbe rivelarsi un
vantaggio perché ci libererà "di quei blocchi mentali che impediscono di
mandare al macero una enciclopedia stampata". In altri termini: forse il
problema che sto ponendo è un problema per noi ma non per le generazioni
future.
Si tratta di un’affermazione molto radicale ma che pone in primo piano un
problema molto semplice: chi ci assicura che una società dell’informazione
globale e digitale conservi la medesima cultura di conservazione dei testi
che è oggi incarnata nelle biblioteche? Non si darà il caso che una cultura di
testi digitali sia una cultura in cui i testi hanno una maggiore volatilità e
deperibilità, al pari (ad esempio) della comunicazione orale? Fino a che
punto una cultura ha bisogno di conservare la "totalità" dei suoi testi?
Sono domande a cui è molto difficile dare risposte operative. Qui le lancio
per tener viva la discussione.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

L’autogolem di questo mese ha carattere augurale. Soprattutto nella prima


parola della catena delle ics e delle ipsilon.

1. DEDUZIONE

Se gli auguri te li fanno


e i regali te li danno,
con la torta e senza inganno
certo è il tuo xxxxyyyyyy

2. PERSONE DI TUTTI I TIPI

Ci sono quelle scalmanate


che alle feste fan bravate
fra schiamazzi e gran risate.
Poi ci sono yy yyyyxxxx

3. BLOCCHI LINGUISTICI

A dir "sì" io non ci riesco;


il mio "oui" è assai grottesco;
e lo "yes"? Oh sì, stai fresco.
Resta sol lo "xx" xxyyyyy

4. TEORIA PEDAGOGICA RIVOLUZIONARIA


Per la Pubblica Istruzione
è una gran provocazione
che comporta soppressione
di maestrine e maestrone,
d’ogni aula e lezione:
la yyyyyxxxxxxxxxxxx.

5. INSINUAZIONI SUL LEADER DELLA UIL

Sarà un buon sindacalista


ma ha un approccio familista:
pei congiunti lui conquista
ogni posto che c’è in vista:
Xxxxxxx, xxx xxyyyyyyy.

6. AL VIGNAIOLO NEGHITTOSO

Le tue scuse son finite:


i tralci, senza smentite,
han bisogno di sfoltite.
Quand’è che yyyy ‘yyy xxxx.

7. DESTINI COMUNI DI DUE PITTORACCI

Sono due imbrattatele


che dipingon pere e mele
e lumini di candele
per ristrette clientele.
Fra tristezze e lamentele
fanno xxx yyyyyyyyy.

8. VARIETA’ DELLA NATURA

La proboscide è eccitante:
così yyy yyy’yyyxxxxx.

9. ULTRA’ SHAKESPEARIANO

Non ha proprio alcun riguardo:


pur essendo assai in ritardo
pagherebbe un miliardo
per raggiungere il traguardo.
Vuol l’autografo del bardo:
E’ davvero un xxx xxyyyyyy.

10. SUCCESSO MERITATO

Quando canta è intonata


e non balla da patata.
Ha virtù illimitata:
certo è una yyyy yyxxxx.

11. SERATA IN SOCIETA’

Bla bli? Bla bla!


E tatatì, e xxxxyy.

12. AMLETO IN CANOTTIERA

Voglio comprarmi una maglia,


però non so di che yyxxxx.

13. ANSIE DI DIVORZIATO

"Passo dei brutti momenti,


vivo davvero di stenti.
Fra mezzucci ed espedienti,
non pagherò xxx xyyyyyyy.

Unendo le X iniziali della strofa 1 e le Y finali della strofa 14


[xxxxyyyyyyy] si ottiene il premio per aver risolto tutto.
Media e tabù
Roberta Ribali I mass-media costruiscono e rafforzano tabù e miti che i media specializzati,
invece, tendono a distruggere: è un flusso continuo di informazioni latenti o
esplicite di segno contrario.
Il pubblico ne è l'indifeso bersaglio, ciò contribuisce a drammatizzare le
contraddizioni e le ansie profonde. Ne deriva un rafforzamento della
conflittualità psicologica all'interno dell’individuo, che paradossalmente più
informazioni riceve più prova angoscia, specie se decide di approfondire e
farsi un'opinione più chiara dei grandi temi di attualità.
Possiamo riflettere su molti esempi: prendiamo l'AIDS e i tabù ad esso
correlati, che vengono quotidianamente alimentati da tutti i mass-media,
nell’intento di rassicurare il pubblico (e di aumentare audience e vendite).
L'orrore profondo e invincibile della morte, anzi, della morte da giovani,
viene allontanato, e così tenuto a bada, dall'immagine del malato di AIDS
drogato marcio, omosessuale promiscuo e depravato, straniero di pelle nera
dai costumi etnici animaleschi e incontrollati, eccetera eccetera. Alcuni
mass-media sono più sofisticati, includono fotomodelle (straniere) e
fotografi di moda; ce n'è pochi e sono comunque invidiatissimi dal vasto
pubblico, che li immagina puniti dal privilegio attraverso l'alto rischio di
contagio. Ancora più sottile è il pregiudizio contro l'eterosessuale promiscuo,
altro oggetto di gelosia da parte di chi vorrebbe ma non può. Il tabù della
castità come valore supremo è salvo: ciò sembra rassicurante, confortante.
Ma l'angoscia è pronta a ripresentarsi: sulle riviste mediche sono numerose
le ricerche vere sull'epidemiologia dell'AIDS, che non conosce colpevoli o
innocenti: neonati, professionisti della sanità, partner casti e fedeli, fuori da
ogni iconografia rafforzata dai mass-media. Questi, se riprendono il caso del
buon infermiere infettato senza rendersene conto, lo esibiscono come
l'eccezione, il caso paradossale, lo scoop insomma, che aumenta sempre e
comunque audience e vendite. Il tabù è salvo, ne esce rafforzato. Sulle
riviste specializzate il caso non viene nemmeno riportato, perché si sa che
invece non è affatto eccezionale. L'AIDS può essere contratto da chiunque.
Il pubblico riceve, suo malgrado, messaggi a un tempo rassicuranti dai mass-
media, che fanno filtrare, anche soltanto tramite l'aggettivo giusto, o il luogo
di origine, o il particolare coerente con il pregiudizio, il rafforzamento del
tabù. La trasmissione televisiva specializzata o l'articolo difficile, per pochi,
critica e corrode la certezza: chi viene bersagliato dall'uno e dall'altro
messaggio inconsciamente è portato a credere nel mito di massa,
rassicurante, che allontana e nega la morte. Ma poi deve fare i conti con l'io
razionale, che non può ignorare il dato di ricerca e di verità sgradevole.
L’insicurezza aumenta, con essa la solitudine, in mezzo a milioni di
navigatori di Internet, videospettatori, lettori, tutti come noi.
-

Perversioni femminili e non


Rossana Di Fazio Una anziana megera alla quale sarebbe bene affezionarsi, una bambina e
altre donne in mezzo. Sono probabilmente gli unici punti di contatto fra i
due film che ho voluto associare in questa occasione. Però non sono
coincidenze di poco conto perché queste generazioni femminili finiscono, in
un caso e nell'altro, per costituire l'ossatura "morale" del racconto.

Perversioni femminili di Susan Streitfeld è un caso singolare di un film che


nasce da un saggio e rimanendo omonimo (dunque non avanzando una
generica ispirazione) ne modifica radicalmente il genere, poiché si presenta
come racconto; propone così due livelli di trasferimento: quello dalla
scrittura al cinema, e quello dal saggio alla narrazione.

L'operazione è sicuramente interessante: un saggio fortunato e complesso, di


una autrice apprezzata anche da un pubblico non specialistico (la
psicanalista Louise J. Kaplan) si trasforma in un affresco molto articolato di
personalità femminili.
Le premesse della Kaplan sono fondanti: l'idea che la perversione esprima la
necessità di aderire a modelli esterni, a messe in scena della femminilità (e
mascolinità), e che dunque la maggior parte dei comportamenti delle donne
corrisponda a questa esigenza, che direi tragica quanto comune, di adesione
rassicurante a stereotipi acquisiti, consente di trattare delle identità
femminili senza retorica e da una prospettiva inedita, nella quale c'è spazio
anche per sentimenti cattivi e meccanismi di comportamento (l'invidia,
l'ambizione, la competizione, il masochismo) che sembrano esclusi da molti
discorsi femministi o che si considerano tali.
Moltissimi dettagli "clinici" trovano una loro traduzione molto efficace sul
piano drammatico: penso ad esempio alle aggressioni che la protagonista
sente su di sé o al modo in cui mangia quando è sola o alla moltiplicazione
dei manichini-spose nella casa della romantica Helen.
Per questo mi è molto dispiaciuto che il clima splendidamente asciutto nel
quale si muovono i personaggi nel primo tempo abbia ceduto alla tentazione
di trovare una direzione, una spiegazione, lo scioglimento dei conflitti; che
la Streitfeld abbia insomma ricercato un finale e abbia voluto riunire e
conciliare i conflitti all'insegna del matriarcato. Non ce n'era bisogno di
questo tirar le fila, di questa risoluzione più ideologica. Ci sono sogni, e
racconti, che hanno il potere di rivelare più e meglio delle loro spiegazioni.
La Kaplan non commette questo errore, che rischia di semplificare in un
certo senso un film per molti aspetti raro.

Anche nel film di Silvio Soldini, Le acrobate, una generazione femminile:


una donna-strega anziana, una bambina e le due protagoniste, una donna più
giovane e una meno. Vorrei spiegare perché ho trovato questi personaggi
perversi, molto più di quelli descritti dalla Streitfeld. Non è colpa loro, e
nemmeno di chi le interpreta (Valeria Golino e Lucia Maglietta), ma di chi
le ha scritte. Credo che il livello più problematico del film stia nella
concezione dei dialoghi. Non nella vicenda, non nel voler ritrarre una storia
di amicizia femminile (magari un po' forzata nella sua articolazione), non
nella musica melensa e ricercata, semmai nelle lacrime decisamente troppo
copiose che scorrono sui volti delle protagoniste.
Questo film è osceno, proprio nel senso originario del termine che indica un
eccesso di esibizione, una misura superata: dice tutto, pecca di una
verosimiglianza stereotipata che finisce per non rivelare nulla; non opera
alcuna selezione nelle parole delle sue protagoniste, nell'espressione delle
emozioni, nel desiderio di maternità che finisce sempre per aleggiare come
la soluzione di tutti i conflitti. Ma i sentimenti non coincidono sempre con le
parole con cui ci sforziamo di esprimerli nella vita quotidiana. Soldini ha
scelto la strada più semplice, pensando che bastasse mettere lì dei modi
"tipicamente femminili" (vale a dire, in questo caso, sensibilità, melanconia,
sentimento del tempo), di imitarli, senza reinventarli come effetti di senso
complessi che scaturiscono dal complesso del linguaggio cinematografico.
Fuori dalla sala non ho potuto non pensare a Eric Rohmer, alla sua
ricostruzione della superficie, al suo autentico rispetto per la superficie dei
discorsi e i loro vuoti, e per la costruzione di situazioni (drammaturgiche e
spazio temporali) che indicano, delle sue protagoniste, l'intero universo di
attese, di comportamenti, e che possono comprendere l'ironia e il ridicolo
per un meraviglioso senso della misura e del pudore. In quella ricostruzione
della superficie rimangono, di ciascun personaggio, ampie aree di non detto
e di imprevedibilità, che ne garantiscono vivacità e ricchezza. Della Elena e
Maria di Soldini, così limpidamente inserite fra una nonna e una bambina in
una sacrosanta quanto prevedibile genealogia femminile, e così
perversamente verosimili, non avanza nulla e scivolano via, malgrado non
siano neanche antipatiche.

Vedi Anche:

cinema.it
Operazione nostalgia
Roberto Caselli La prima notizia è arrivata improvvisa e insinuante: Bob Dylan è stato
ricoverato in ospedale, in condizioni di salute precarie per problemi di
cuore. Robert Zimmerman, nato a Duiuh, Minnesota, nel 1941, cinquantasei
anni appena compiuti, dice il bollettino medico, soffre di pericardite e
quindi deve abbandonare per un po’ di tempo il palcoscenico, il suo Never
Ending Tour deve segnare il passo, il grande maestro deve assolutamente
riposare. La notizia viene ovviamente ripresa dai media e rimbalza in fretta
in tutto il mondo. I giornali importanti, che hanno da anni nei loro cassetti i
necrologi di tutti i grandi nomi della cultura, dello spettacolo e di chissà che
altro, spulciano l’archivio della lettera D e in breve pubblicano stralci di
biografie, commenti critici sulla sua opera, poesie e canzoni. L’operazione
nostalgia prende il via in pompa magna, ma si spegne in breve tempo perché
il vecchio Bob via via si riprende fino a lasciare l’ospedale. Il carrozzone
dell’informazione nel giro di una settimana lascia cadere tutto nell’oblio: le
belle parole spese, gli elogi della sua sensibilità e del ruolo fondamentale
nella controcultura si smontano in attesa di ritrovare forma alla prossima
occasione. Dylan del resto, non è nuovo a far parlare di sé come artista
maledetto, l’incidente motociclistico del 1966 lo diede per spacciato, ma se
la cavò con qualche giorno di commozione cerebrale; molto peggio andò ad
alcuni suoi giovani colleghi del Greenwich Village, come Richard Farina,
Phil Ochs, Paul Clayton e Peter La Farge che non ressero a droghe e
depressioni.
Quei cinque o sei anni degli inizi, che elessero Dylan a mito, sono in realtà
ancora oggi ciò che rimane di davvero importante della sua opera e anche se
tutto il resto non è certamente da sottovalutare, non ha comunque mai più
raggiunto l’intensità lirica di quegli album che arrivano fino a Blonde on
Blonde, probabilmente il suo ultimo momento di genialità. Profeta
annunciato dei tempi che stavano cambiando, Dylan, dopo avere detto le
cose giuste al momento giusto, ha dovuto vedersela con i problemi destinati
ad essere patrimonio dei comuni mortali: gestione sempre più difficile della
popolarità, mantenimento di una creatività che gli permettesse di essere
all’altezza della sua fama e soprattutto crisi esistenziali che non erano
risparmiate nemmeno a chi aveva saputo sviscerare il problema
generazionale nella sua ampiezza. Il personaggio Dylan, più che nell’ovatta
del suo mito, va proprio considerato in questa dimensione molto umana che
ci fa comprendere la sua scontrosità e ce lo rende più simpatico e
abbordabile, dietro quegli occhiali neri che nascondono occhiaie e
stanchezze dovute a una perenne corsa on the road, alla ricerca di nuove
piazze e emozioni sempre più difficili da trovare. Nel prossimo necrologio,
giusto per evitare banalità e qualche sottile ipocrisia che non gli rendono
giustizia, sarebbe bene sviscerare un po’ meglio l’uomo e spiegare come, al
contrario di tanti altri, la grandezza della sua opera sia solo un’ovvia
conseguenza della sua consapevolezza della sua fragilità.
L'evoluzione
Sylvie Coyaud http://alife.fusebox.com/

Come la complessità, e forse a maggior ragione, l’evoluzione è un concetto


scientifico potente. Da Darwin in poi si declina in mille rivoli che non
avremo la presunzione di illustrare visto che lo fanno egregiamente, con
storie e avventure irresistibili, due scienziati-narratori irresistibili. Il primo
(in ordine di preferenza personale) è il paleontologo di Harvard Stephen Jay
Gould: molti suoi libri si trovano nei tascabili Feltrinelli, sono tutti belli e
La vita meravigliosa è un capolavoro. Il secondo è Richard Dawkins,
genetista inglese provocatorio: imperdibili almeno Il gene egoista e Il
fenotipo esteso, dal punto di vista dei concetti. Nell’Orologiaio cieco, del
1986, Dawkins suggeriva un programma per computer che avrebbe dato la
possibilità di evolvere a dei "biomorfi", una parola coniata da Desmond
Morris per descrivere le strutture ad albero che rappresentano un insieme di
geni. Oggi i biomorfi sono in rete e fanno vedere l’evoluzione all’opera. Si
riproducono, si adattano o si estinguono illustrando le leggi darwiniane in
modo semplificato ma chiaro. Inizialmente sono comparsi come piccoli
disegni lineari e goffi; il tempo, le ibridazioni e le mutazioni - che
modificano pure la vita dei Web - li hanno trasformati poco a poco in figure
che hanno la grazia simmetrica dei fiocchi di neve e che ora somigliano
sempre più a delle creature viventi. I biomorfi prosperano su molti Web,
sono dei "memi" di successo direbbe loro padre. Questo qui, americano, ci
sembra il migliore per debuttare:

http://alife.fusebox.com/

Nota tecnica: le nuove generazioni di biomorfi si sono adattate e abbellite,


grazie alla mutazione genetica causata sui Web dalle "applets" di Java. Sono
usate con talento su quest’altro sito, inglese:
http://www.cs.man.ac.uk/

Esiste un programma scritto secondo le istruzioni di Dawkins stesso. Per i


privati, costa 25 sterline più IVA, per ora è a colori solo nella versione
Macintosh. Provatelo e se vi piace ordinatelo a:

http://www.spasoft.demon.co.uk/blindwatch.html
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Stefano Bartezzaghi, Umberto Eco, Aldo Grasso, Danco Singer

parlano di

Golem: una rivista nella rete

moderatore
Antonio Calabrò, vicedirettore del Sole 24 Ore

Golem coglie l’occasione per festeggiare il suo primo anno di vita


e il primo numero su carta

mercoledì 2 luglio 1997


ore 18.30
Libreria Feltrinelli,
via Manzoni 12, Milano
CONDIVIDERE GERUSALEMME
SHARING JERUSALEM

un’iniziativa di

JERUSALEM LINK
Israeli Palestinan Women’s Joint Venture for Peace

Una città "Due Capitali per Due Stati"

JERUSALEM LINK organizza a Gerusalemme, dal 17 al 21 giugno 1997, 30 anni dopo l’annessione di
Gerusalemme Est da parte di Israele, un fine settimana denso di eventi culturali, politici e sociali in entrambe le
parti della città con lo slogan:
"Condividere Gerusalemme: le donne rivendicano Due Capitali per Due Stati"

MYSTFEST

Festival Internazionale del Giallo e del Mistero


International Mystery Film Festival

Ente gestore
Comune di Cattolica

Direzione
piazza Nettuno 1
47033 Cattolica (RN)

http://www.cattolica.net

e-mail: mystfest@cattolica.net

La Biennale di Venezia
Il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
e
l’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea

presentano

Incontro
V Programma Quadro di R&ST dell’Unione Europea (1998-2002)

Creare una società dell’informazione a misura d’uomo

Firenze, 3 luglio 1997


Auditorium Banca Toscana
via Panciatichi, 85
e-mail:apre-cesvit@fi.nettuno.it
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer

Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:

Paolo Palazzi, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Domenico Parisi, Maurizio Chierici, Piero De
Chiara, Peppino Ortoleva, Dino Lorimer, Beppe Severgnini, Franco Recanatesi, Furio Colombo, Ruggero
Pierantoni, Ugo Volli, Carlo De Benedetti, Antonio Martino, Carlo Donolo, Arnaldo Ferrari Nasi, Renato
Mannheimer, Carlo Bertelli, Giulio Blasi, Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio,
Cinzia Leone, Altan

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi

Software:
Opera Multimedia Stylo Italia Online
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Un caro benvenuto a tutti.
Il numero 11 di Golem apre una nuova sezione: Scienze, libertà, società dedicata al tema del controllo
democratico delle scienze. Attraverso la consapevolezza, la conoscenza dei problemi e dei linguaggi, da una
parte (come sottolinea Sylvie Coyaud), ma sicuramente anche attraverso differenti regole e strutture istituzionali
(come drammaticamente evidenzia la testimonianza di Maria Grazia Ruggiano), la scienza e le sue applicazioni
devono diventare un patrimonio comune, un bene condivisibile e condiviso. Renato Giannetti amplifica la
riflessione alle scienze economiche e sociali, regalandoci un’analisi del concetto di rete.
La sezione Per non dimenticare si arricchisce di un intervento chiarificatore di David Meghnagi, e di un
contributo documentario: le leggi antirazziali promulgate nel 1938 di cui si è tanto sentito parlare in questi
giorni. Per non dimenticare, appunto, e per non sminuire, tra l’altro.
Aldo Grasso pone la questione dell’immortalità televisiva e chiama i lettori a scatenarsi in ardite classificazioni,
Renato Mannheimer analizza l’ultimo golemiano sondaggio, Paolo Palazzi prosegue la sua riflessione sulla
globalizzazione; la sezione rubriche, infine, si arricchisce del contributo di Sylvie Coyaud, che ci condurrà alla
scoperta dei siti scientifici della grande rete.

State bene!
Farsi capire
Sylvie Coyaud Ci sono voluti anni di trasmissioni settimanali perché gli ascoltatori di Radio
Popolare facessero domande in diretta agli scienziati. Pensare che,
normalmente, si tuffano in onda a discutere di qualunque argomento, per
niente inibiti dalla presenza dell’esperto. Ma la scienza...
Non riuscivo a renderla discutibile e questo mi preoccupava. Un po’,
immagino, per gli stessi motivi che hanno spinto Golem a riflettere sul tema
"scienza in una società libera": continuiamo a essere intimoriti dalla
comunità scientifica, casta sacerdotale protetta dai propri formalismi. Che
libertà abbiamo mai, se proprio ora che ci scombussola di continuo le
certezze, la vita e i pensieri, ci fa pure ammutolire?

Scrive il fisico francese Jean-Marc Lévy-Leblond: «Se la divulgazione


attuale delle scienze è così poco efficace, non sarà perché risponde a
domande che non sono mai state formulate dal ‘pubblico’ invece di
coglierne gli interrogativi reali - poco espliciti, certo, e spesso confusi?» (La
pierre de touche, Gallimard, Parigi, 1996)

La confusione si può superare. Alla radio, ci sono riusciti degli stranieri:


Richard Lewontin, Antonio Damasio, gente così. Non ci credevo troppo:
parlavano inglese, una barriera in più. La genetica molecolare, la
neurobiologia, viste dall’angolatura della ricerca fondamentale e non dalle
promesse di applicazioni mediche, non sembravano troppo allettanti (i
detriti spaziali e le strategie per catturarli hanno solleticato invece l’animo
netturbino e prodotto sacrosante riflessioni sul metodo). Ma gli ospiti erano
ansiosi di farsi capire, spolveravano le loro risposte con parole pseudo-
italiane, goffi, entusiasti, attenti. Il contrario della comunicazione levigata e
seriosa, perentoria e sicura della verità che si aspettava da loro. E molto
seducenti.

Da quando si sono abituati a dibattere, anche tra di loro, gli ascoltatori non
solo fanno felici i ricercatori che li vengono a trovare per interposto studio,
ma sono anche capaci di dare una mano alla scienza, per esempio sposando
la campagna degli astronomi per abbassare l’inquinamento luminoso e
innescando un movimento nazionale in occasione del passaggio di Hale-
Bopp.

Sulla critica, sono ancora un po' debolucci. Probabilmente servono degli


intermediari molto, ma molto più bravi di me.
Jean-Marc Lévy-Leblond: «Che la critica sia diventata a pieno titolo una
delle forme della cultura, un’attività specifica e perfino una professione
onorata, è uno dei segni della modernità. E’ giocoforza constatare che se i
critici d’arte, e letterari e musicali e cinematografici (addirittura televisivi)
hanno diritto di cittadinanza, non ci sono "critici scientifici" riconosciuti
come tali» (ibid.).
Altro che riconosciuti: la critica della scienza è solitamente disprezzata dagli
scienziati, un’attività minore alla quale dedicarsi quando si è ormai
prosciugati e fuori gioco.
Con Feyerabend, che piace tanto a Jean-Marc Lévy-Leblond, si finisce nei
guai con quasi tutti gli altri scienziati che l’hanno letto, o solo sentito
nominare. Il suo Anything goes - tutto fa brodo - è spesso usato per
sostenere che la scienza è una narrazione, un costrutto sociale che dipende
dalla cultura in cui è nato. Per riassumere in modo caricaturale, astronomia e
astrologia avrebbero la stessa legittimità. Ai suoi critici feyerabendiani,
"social-costruttivisti" e "postmoderni" vari, il fisico Steven Weinberg
risponde: "La teoria dell’elettricità e del magnetismo di Maxwell risale a più
di cento anni fa ed è rimasta più o meno com’era all’inizio del secolo. Oggi
capiamo meglio perché è vera, sappiamo meglio fino a che punto è soltanto
un’approssimazione, ma la teoria di Maxwell non è cambiata e non
cambierà. Le influenze culturali di cui era compenetrato il lavoro di
Maxwell, sicuramente reali e molto interessanti, sono state filtrate via,
lasciando una teoria che è quella che è perché così è la natura." (Milano,
dicembre 1996).

Ma cos’è la teoria di Maxwell o dell’elettrodinamica quantistica o della


2
relatività con quella formuletta che tutti abbiamo memorizzato, e=mc , un
rapporto fra tre cose familiari come l’energia, la massa e la velocità?

Jean-Marc Lévy-Leblond: «Criterio di prestigio agli occhi dei produttori,


garanzia di serietà a quelli dei consumatori, la scientificità rimane uno dei
migliori argomenti pubblicitari sul mercato dei beni materiali e quindi
spesso, come stupirsene? su quello dei prodotti intellettuali» (da Aux
contraires, Gallimard, Parigi 1996, come le citazioni seguenti).
Un argomento pubblicitario, cioè ingannevole. Infatti:
«In un certo senso la scienza non pensa ed è questo addirittura il segreto
della sua efficacia. La scienza fa uno sforzo enorme per non pensare, e
mette a punto notevoli macchine simboliche e formali che si fanno carico
delle difficoltà e delle fatiche del pensiero.»
C’è un malinteso di fondo.
Quando parliamo di scienza tra di noi, ci mettiamo dentro l’encefalite
spongiforme bovina e la chiamiamo "mucca pazza", anche se è una storia di
animali allevati in un modo che più tradizionale non si può, ai quali s’è dato
del cibo avariato.
Stranamente, chiamiamo "soja pazza" una pianta modificata geneticamente
nel modo più razionale che uno scienziato possa immaginare, tanto più se è
un verde. Dice: così si risparmiano le sostanze chimiche che fanno male a
tutti. E aggiunge: comunque è un’applicazione, non è scienza.
Dal punto di vista della discussione e della critica quotidiana, però la
scienza, diversamente dalla tecnica derivata da qualche principio o legge di
natura, è piuttosto deludente.
«Ciò che distingue la scienza nel concerto delle modalità umane della
conoscenza è che, al contrario delle idee ricevute, rinuncia a raggiungere la
verità, o più esattamente fa della verità un concetto puramente relativo,
sempre subordinato a quello di validità.»
Di validità, per di più, solo all’interno di un sistema di riferimento
concordato e ben definito, un piccolo particolare che tendiamo a trascurare.
Possiamo goderci Mozart senza sapere leggere le note, ma l’equazione di
Maxwell senza la matematica?
O ci impadroniamo del linguaggio con il quale si può descrivere un sistema
di riferimento, o stiamo zitti.
Faticoso, ma la libertà non è mica un pranzo di gala.
Renato Giannetti Promemoria con divagazioni

INTRODUZIONE

1 RETE ED EFFETTI DI RETE 2 LE RETI DI ATTORI SOCIALI 3 RETI SPAZIALI E RETI


ISTITUZIONALI
1.1 Beni combinati 2.1 Interpretazione sociologica
1.2 Esternalità di rete 2.2 Interpretazione antropologica
1.3 Problemi 2.3 Formazione ed evoluzione di una rete
di attori
1.4 Riflessioni
1.5 Politica Economica

CONCLUSIONI

Introduzione
Lo scopo di questo articolo è di fornire una rassegna ragionata delle
riflessioni sulla nozione di rete condotte da economisti e sociologi nel
terreno di confine tra le due discipline. Tale rassegna intende essere uno
strumento agile cui far riferimento per chiarire la terminologia ed i concetti
utilizzati nelle varie proposte operative che possono così essere ricondotte a
linee teoriche riconoscibili.
L’opportunità di una rassegna di questo tipo è altresì dettata dalla
considerazione che una crescente letteratura segnala la riorganizzazione di
molti processi economici e sociali secondo logiche di rete. Ciò comporta la
messa a punto di strumenti di analisi diversi da quelli tradizionalmente
utilizzati dall’economia e dalla sociologia; non a caso la riflessione sui
rapporti tra queste due discipline ha avuto proprio nei problemi relativi alle
reti e alla loro analisi uno dei punti critici più importanti.
La rassegna è organizzata in tre parti. Nella prima parte si considera
l’introduzione in economia della nozione di rete e di effetti di rete; nella
seconda parte si considera la letteratura sull’innovazione, specie di impronta
sociologica, che ha utilizzato la nozione di rete nella prospettiva
costruttivista; nella terza infine si considerano le recenti applicazioni della
nozione di rete all’ambito territoriale ed istituzionale indagando come la
letteratura ha trattato il problema della dualità tra forme statali e reticolari di
organizzazione istituzionale.

1.Rete ed effetti di rete.


La nozione di rete ed effetti di rete in economia può essere derivata da una
generalizzazione del fatto, comunemente osservabile, che si attribuisce
valore a molti prodotti solo se combinati con altri. Il sistema più semplice da
immaginare è quello delle viti e dei bulloni la cui utilità ovviamente dipende
dal loro uso congiunto. Per arrivare a vere e proprie interazioni di rete si
devono considerare però beni più complessi come l’insieme corpo-obiettivi
per macchine fotografiche, videoregistratore-films in cassetta, fax-protocolli
di comunicazione, computer-sistemi operativi. Ciascuno di questi insiemi di
beni può essere ricondotto alla metafora hardware/software (H/S): in ogni
insieme l’hardware non può essere utilizzato senza l’opportuno software;
inoltre si pongono questioni di compatibilità tra sistemi H/S diversi.
L’analisi di beni di questo tipo pone problemi complessi perché le scelte di
produzione e consumo devono tener conto di quelle che sono chiamate
esternalità di rete: con tale espressione ci si riferisce al fatto che la scelta di
acquisto di un bene o di un servizio dipende dal numero di altri agenti che
hanno già operato quella scelta, perché ciò garantisce una migliore
utilizzazione del bene o servizio stesso. In termini più precisi: la domanda di
un bene è funzione non solo del suo prezzo, ma anche della dimensione
attesa della rete di cui quel bene è parte. L’acquisto di un fax, per esempio, è
influenzato dal numero di coloro che sono già dotati di quel tipo di
meccanismo di comunicazione (esternalità di adozione). La posta elettronica
è il mezzo più economico di trasmissione di informazioni, ma se tutte le
famiglie non hanno un computer ed una casella presso un centro di calcolo,
non serve a nulla.
Questo tipo di beni pone problemi rilevanti per quanto riguarda:
(i) il coordinamento tra imprese
(ii) il coordinamento tra consumatori
(iii) la compatibilità.

• Per il primo punto: la strategia di un’impresa produttrice di hardware


(software) deve tener conto dei vincoli imposti alla sua tecnologia e alla sua
produzione potenziale dalle possibili risposte dei produttori di software. Ad
esempio, i produttori di hardware come la Hewlett-Packard e la Digital
tentarono di stabilire una struttura di comunicazione dei dati di LAN (Local
Area Network) basati strettamente sulle loro apparecchiature. Ma i
produttori di questi protocolli non accettarono di subordinare il loro lavoro
alle indicazioni delle due imprese produttrici di computer e lanciarono un
altro tipo di protocollo, in accordo, questa volta, con gli utenti delle stesse
LAN che non volevano dipendere dalle imprese che fornivano loro le
apparecchiature.
• Per quanto riguarda il secondo punto: le necessità di coordinamento tra
consumatori, un esempio significativo è quello dei network di
comunicazione, la scelta di uno tra più sistemi di comunicazione dipende
anche dal numero di contatti che si riescono a instaurare all’interno di quel
sistema, ed è quindi proporzionale al numero degli appartenenti a quella rete
di telecomunicazione e al numero degli appartenenti potenziali a quella rete.
Ma la necessità di coordinamento tra consumatori emerge anche in tutte
quelle comunicazioni in cui si debba acquistare un hardware durevole - un
computer, un videoregistratore, un registratore di cassette audio -, che può
essere utilizzato solo se è disponibile il relativo software. Per illustrare in
maniera sintetica questo punto può essere utile ricordare l’esempio della
tastiera QWERTY. Nell'ottobre 1867 un certo signor Sholes brevettò a
Milwaukee, nel Wisconsin, una macchina per scrivere. La macchina
presentava diversi problemi tanto da non poter essere messa in commercio.
Dopo ben sette anni di perfezionamenti, Sholes riuscì a piazzare il brevetto a
dei fabbricanti d'armi, la società E. Remington & sons. E' a questo punto che
comincia la storia del QWERTY. Il problema principale di funzionamento
della macchina era l'accavallarsi continuo dei martelletti su cui sono fissate
le lettere. Ben presto alla Remington si scoprì che, sistemando a sinistra
sulla fila superiore della tastiera la sequenza QWERTY, si evitavano gli
accavallamenti. Non appena le prime macchine Remington furono
disponibili sul mercato iniziarono a svilupparsi le scuole di dattilografia. E
alle dattilografe si insegnò a scrivere su macchine QWERTY. Si innescò
così un circolo virtuoso: l'acquirente di una macchina per scrivere che
sceglieva una QWERTY si garantiva la possibilità di trovare una segretaria
che sapesse scrivere a macchina; e, a sua volta, l'aspirante segretaria, se
avesse imparato a scrivere su tastiera QWERTY, avrebbe visto aumentare le
possibilità di trovare un posto di lavoro. Ben presto, in base a questo
meccanismo virtuoso, il QWERTY divenne la tastiera standard.
La struttura di questa spiegazione è interessante. Si hanno infatti: (i) due
tecnologie in concorrenza; (ii) una esternalità: le scuole di dattilografia - non
controllate dagli acquirenti di macchine per scrivere- generavano economie
non indifferenti per gli acquirenti di macchine da scrivere - diminuzione dei
costi di formazione del personale impiegatizio da parte dell'azienda che
acquistava una macchina QWERTY-; (iii) quasi irreversibilità
dell'investimento in capitale umano - costi proibitivi di insegnamento di
sistemi di scrittura alternativi a segretarie che già conoscevano il QWERTY-.
• Il terzo punto è relativo alla compatibilità: può un componente disegnato
per lavorare all’interno di un sistema essere utilizzato all’interno di un altro?
La scelta di costruire componenti compatibili ha certamente dei vantaggi,
ma il mantenimento ad ogni costo della compatibilità determina spesso
sacrifici in termini di varietà di prodotto e vincoli per l’innovazione.
Ciascuno di questi punti ha dato luogo a importanti spunti di riflessione per
la teoria economica, ai nostri fini è sufficiente ricordare due aspetti.
Il primo può essere illustrato riprendendo il caso della tastiera QWERTY
che, nata per evitare gli accavallamenti dei martelletti è la tastiera standard
tutt’oggi sui calcolatori che -notoriamente- non hanno alcun problema di
martelletti. Ciò significa che il sistema adottato in un certo momento del
tempo per rispondere a particolare esigenze può perdurare nel tempo anche
quando tali esigenze siano venute a cadere: l’esistenza di meccanismi reali
non significa che quei meccanismi abbiamo senso nella configurazione
attuale del sistema.
Il secondo riguarda l’ottimalità delle scelte in presenza di esternalità di rete
e anche questo può essere illustrato in relazione al caso della QWERTY.
Secondo alcuni studi risulta infatti che la tastiera QWERTY non sia la
migliore possibile dal punto di vista ergonomico, ovvero dal punto di vista
della velocità di scrittura. La presenza di esternalità di rete può provocare la
selezione di sistemi sub-ottimali: ciò significa che non sempre il mercato
individua il prodotto migliore o la tecnologia migliore. Si pensi ancora al
sistema H/S dei videoregistratori: sembra ormai appurato che il sistema
SONY Betamax sia superiore dal punto di vista tecnologico al VHS, ma
ormai il sistema migliore ha perso la battaglia con il concorrente peggiore.
Niente quindi garantisce che il sistema vincente sia il migliore possibile. In
più, come è stato osservato, l’emergere di uno standard di fatto in un
processo dinamico trainato dal mercato porta ad un trattamento degli utenti
che è sostanzialmente ingiusto. Si pensi, ad esempio, che gli utenti del
sistema Betamax erano, nel 1983, quando apparvero le cassette pre -
registrate, un terzo del totale degli apparecchi.
Dal punto di vista della politica economica questo sembra indicare
l’opportunità dell’intervento di forze esterne al mercato che possano definire
ex ante criteri di standardizzazione e comunicazione tra network, in modo
tale da evitare o limitare la subottimalità delle scelte del mercato. In questa
direzione possono rivelarsi utili le tecniche di interfacciamento tra reti
differenti che assicurano la compatibilità ex post che permette di usufruire
delle esternalità positive della domanda nonostante la varietà delle reti, sia
pure a prezzo di certi costi di conversione. Negli anni ’90 del XIX secolo, ad
esempio, il convertitore permise alle reti elettriche funzionanti a corrente
continua o a corrente alternata di comunicare tra di loro allargando l’insieme
della domanda di utilizzazione della nuova forma di energia. Un punto
chiave è chi partecipa alla definizione degli standard. Si è visto sopra, ad
esempio, come il carattere proprietario dello standard VHS abbia
danneggiato coloro che avevano puntato su quello Sony. Più indietro nel
tempo, nel corso degli anni ’20, la presenza di più standard di trasmissione
telefonica segmentarono di fatto il mercato internazionale tra quattro sistemi
diversi: Siemens, Standard, Ericsson, Autelco diminuendo il tasso di crescita
della domanda di telefonia. Una cosa simile è accaduta nel campo della
televisione rispetto ai tre standard, quello americano, quello tedesco PAL, e
quello francese SECAM. Il confronto tra questi ultimi due ha notoriamente
ritardato la diffusione della televisione a colori in Europa negli anni ’70.Allo
scopo di ovviare a queste difficoltà furono creati fin dalla fine del secolo
scorso degli organismi nazionali ed internazionali di standardizzazione
basati sulla rappresentanza degli interessi della maggior parte possibile delle
istituzioni interessate ad uno standard, il primo dei quali fu la International
Electrotechnical Commission alla quale aderirono organizzazioni nazionali
come l’italiana AEI (Associazione elettrotecnica italiana). In linea generale,
sembra che la pluralità degli interessi rappresentati nelle istituzioni
regolative sia un fattore di successo come nel caso dello svedese SIS
(Swedish Standard Institution) al quale partecipano esperti provenienti
dall’industria, dal commercio, dalle autorità governative, dagli enti di
ricerca, dai sindacati e dalle organizzazioni dei consumatori. In prospettiva
storica, d’altra parte, non mancano esempi di inconcludenza e quindi di
ritardo nella definizione di standard adeguati, come nel caso della
esperienza italiana di attività di questi organismi, specialmente nel corso
degli anni ’20.

avanti
Perchè non accada mai più
Maria Grazia Ruggiano A mio figlio
per ricordo e per amore
17 marzo 1997

Sono stata travolta da una storia di affidamento e fiducia totale tradita, da


menzogne (pietose?) che mi hanno impedito di sapere l'urgenza
irrimediabile del mio male (gliobastoma: mediana di sopravvivenza 10/12
mesi) e di prendere decisioni terapeutiche diverse da quelle imposte dal
medico curante.

In Italia non c'è una legge che stabilisca per il medico il dovere
all'informazione e un suo preciso comportamento - graduale e senza
brutalità - nell'avvicinare alla verità il malato che lo chiede.(I)

Una volta c'era la comunità del piccolo paese che piangendo e senza
parole ...., il prete confessore che man mano....

Finché avrò lucidità lavorerò anche per questo.

Sono un magistrato di Cassazione di cinquantaquattro anni, vistosamente


sana fino al luglio 1996 - Ho sempre curato il mio corpo in maniera
precisissima sia esteticamente che nei piccoli malanni.

Abituata al controllo accurato delle movenze fin dall'età di cinque anni da


suore aristocratiche, arrivata con il femminismo ad una conoscenza
profonda delle proprie reazioni corporee, aiutata da un istinto di libertà
fisicamente animalesco mai sopito, due crampi (clonìe) al piede e gamba
sinistra (avuti improvvisamente in vacanza per pochi minuti) mi hanno fatto
tornare d'urgenza a Bologna per chiedere al neurochirurgo - amico tac e
accertamenti.
Il mio corpo ha "sentito".
Un amico, venendomi a prendere alla stazione per compagnia, mi disse
ridendo "Ma possibile, non c'era il medico condotto lì a Casalbuono?".
Dopo 7 giorni ero operata al cervello per tumore.
Durante la fase degli accertamenti il chirurgo aveva cominciato a farmi
sapere che forse non era meningioma ma tumore maligno: in ogni caso
bisognava asportare e - solo dopo l'esame istologico - comprendere la
diagnosi esatta.
Ho abbracciato forte mio figlio tra i singhiozzi. Poi comunque sono rimasta
sostanzialmente calma tanto che, la sera prima dell'intervento, con l'amica
fidata abbiamo fatto le treccine per non far sciupare i miei lunghi capelli con
un taglio da chirurgo. C'è una graziosa foto dove sembra mi aiutino per
prepararmi ad un gioco strano.
In questa lucidità d'animo e mente ho fatto giurare e promettere all'amico
chirurgo, a mio marito, alla grande amica da 20 anni venuta da Napoli per
aiutarci moralmente e materialmente, all'amico / pilastro di 30 anni fa al
confidente di ogni giorno per 8 anni, di dirmi sempre tutta, tutta la verità.
Ho ricordato (loro, magistrati come me, sanno il peso del lavoro) che nella
mia vita professionale avevo deciso la vita degli altri, a volte incidendo
pesantemente come pretore penale e assumendomi grandi responsabilità sui
minori e gli handicappati come giudice tutelare. Mai come ora avevo il
diritto e il dovere di decidere per l'unica vita tagliata: la mia.

L'operazione del 5 agosto '96 va benissimo. Nonostante la prima notte si


verifichi un problema grave di allergia al farmaco anticonvulsivo,
l'indomani sono già seduta nel letto senza dolore alla testa. Ricevo i miei e
qualche amico. Dopo 2 giorni il chirurgo mi fa muovere i primi passi - un
po’ da burattino - ma mi reggo. Non sono invalida. Chiedo il risultato del
referto istologico; il viso del medico è serio, così quello degli amici e di mio
marito: glioma maligno.
Viene a trovarmi Anna la moglie del chirurgo (da me ammirata nei salotti
per il suo splendido e raro viso) e mi dice: "ma sì, c'è un mio amico che è in
cura da quattro anni per un glioma ed ancora vive!" - Quattro anni! Ma è
pazza questa, penso silenziosa. Ma se io avevo programmato la mia vita sino
agli 85 anni. Ma se mia madre ha 91 anni ed è ancora viva!
Non so perché ma non piango (mi difendo dall'assorbire troppo in fretta la
verità ?). Mi sento ancora forte con il corpo nonostante la grande ferita e
avverto una distanza enorme tra me "vera" e la Maria Grazia che dicono
ammalata grave. Due immagini che non coincidono. Mi concentro sui
farmaci anticonvulsivi e i loro effetti perversi (allergia, stanchezza, sonno
profondo per ore e ore). La prima convulsione mi terrorizza e blocca la
voglia di guarigione per quindici giorni. Poi ho la forza di andare al mare
con quattro amiche e mio marito in una bella casa per fare convalescenza.
Dormo sempre troppo; i farmaci sono una dannazione. Qualche passeggiata
però è piacevole. Qualche risata spontanea.
All'inizio di settembre '96 comincio la cobaltoterapia: so che sarà a dosi
aggressive; mi sembra ovvio visto che è tumore maligno.
L'oncologa Anna è una donna rigida, quasi anoressica, che riesce a farmi
sentire assolutamente protetta. Viene ogni giorno; al momento fortemente
ansiogeno di individuazione del punto da irradiare non mi ha mai lasciata
sola. Se ero già con la testa immobile nella maschera di cera e non l'avevo
vista entrare per il controllo, mi tocca un braccio per avvertirmi della sua
presenza: segnale in un codice non stabilito, segnale di cui ho ammirato a
cuore largo la discrezione, l'intelligenza e la parsimonia. E l'amicizia di
prima si costruisce più forte, diventa affetto profondo e riconoscenza, dono
di una collana di mio padre per legarci simbolicamente.
Mio figlio chiama il marito "Santo Claudio". Non mi ha mai lasciata sola,
nemmeno quando è partito per le sue vacanze: cellulare sempre acceso!

Sì, non sono sfortunata. Sono stata operata ad agosto da uno dei migliori
chirurghi che - per pura combinazione - aveva ritardato le ferie; sono
affidata ad un clan di amici professionisti tra i più noti; l'allergia continua i
suoi danni violenti per tutti i cinquantacinque giorni della "cobalto" e
oltre .... ma comunque ogni mattina riesco ad andare ai giardini a passeggio
con le amiche prima della terapia; poi c'è il "turn over" di altre amiche che
mi accompagnano all'ospedale e mi aspettano per il ritorno a casa. Poi il
pomeriggio tante (troppe) telefonate, tanti (troppi) regali.
Consulto un altro grande medico per l'allergia: in realtà continuo a seguire il
mio corpo così come ero abituata, cercando di capirne ogni segnale e
organizzarne la difesa. Ma ignoro la vastità del male.
A ottobre la pelle del cranio è defoliata e abrasa; viene medicata ogni giorno
ma il chirurgo rifiuta (perché troppo grande il pericolo di infezioni e
meningite) qualunque incisione per l'immissione del catetere.
Per la prima volta sono a pezzi. So che dopo le cure tradizionali resta una
possibilità di raddoppiare la durata di vita con l'esperimento della medicina
nucleare e degli isotopi. Se non posso far introdurre la sonda per la cura
nucleare il mio destino è segnato? E gli anni in più ... e le scoperte continue
dei ricercatori sul cancro... ?
Cerco cure parallele (quanta gente attorno ai tumori!): inizio una terapia
alternativa per l'allergia; parlo con la Presidente dell'associazione "Metodo
Kousmine"; telefono ad un medico svizzero che lavora con medicinali il
fegato.
Scelgo le sedute di pranoterapia con un'amica sensitiva e i massaggi
orientali dell'energia.
A fine ottobre decido una gita a Venezia, la mia preziosa città del nord, per
vedere mostre e amici. La delusione è cocente. Dov'è la mia allegria nel
passo, la velocità dei desideri, le mille idee che trascinavano gli altri a
giornate eccessive da ricordare?(mi chiamavano la "Regina del tempo"!).
Così comincio a "sapermi" malata.
Così continuo a insistere con il medico per la sonda. Mi promette che dopo
la prima risonanza magnetica di controllo di novembre, in due giorni mi
preparerà per la cura radioattiva.
Ecco, sono certa che fino a questo momento avevo bisogno di una verità
parziale anche se durissima. Ci si abitua in fretta a ragionare sulla breve
distanza (2 anni / 4 anni) anche per chi come me si considerava ancora
immortale e con mille progetti da chiudere.
Il tempo dei sani è così diverso da quello del malato! Io da agosto ho perso
quasi del tutto la dimensione temporale, ferma al mare di Licosa non avuto,
stretta da un mutamento di vita completo, tesa a riorganizzare anche
inconsapevolmente le nuove tappe del viver breve.
E d'altronde nulla dal punto di vista terapeutico c'era da decidere se non
subire il protocollo internazionale di cure rispettato anche dai medici della
ricerca clinica: la massa di "cobalto" e l'attesa della pelle risanata.

Poi .... poi ... è cominciato l'avvolgimento imperdonabile della mia


coscienza.
Un'amica di Padova - con la sorella morta di tumore cerebrale - mi dice:
"ma guarda che glioma indica una famiglia di tumori. Se vuoi capire ciò che
è successo a mia sorella devi sapere il nome specifico del tuo cancro".
Mi precipito con rabbia al cellulare del chirurgo santo e ormai fratello e gli
chiedo in una telefonata tempestosa di accusa perché mai mi ha finora
fornito solo una indicazione generica: "tu mi hai giurato la verità; tu hai
l'obbligo per legge di dire al paziente che vuole, la diagnosi precisa del suo
male". Mi risponde serio e intenso come al solito: "Non conosco questa
legge ma mi sono sempre comportato così nella mia vita professionale; il
tuo glioma si chiama "astrocitoma"".
Certo, guardando indietro si potrebbe dire che questa precisazione tardiva
doveva farmi venire un dubbio e farmi chiedere in ospedale il referto
istologico autenticato. Certo.
Ma qui entra in gioco la mia personalità che ha sempre creduto impossibile i
tradimenti, che ha operato una selezione fortissima sulle persone cui
affidarsi e che poi - quando ama, quando crede nell'altro - si abbandona
completamente alle parole, alla verità, alla rettitudine dell'amico.
Il giorno dopo richiamo l'affidabilissima amica padovana che in un lungo
pomeriggio sereno mi spiega la vita della sorella affetta da astrocitoma, il
lento deperimento, l'assopimento finale.
Siccome ero brava nell'intuire come fare l'istruttoria penale continuo a
chiedere: la oncologa ribadisce i tempi di vita davanti al silenzioso
confidente basagliano abituato all'introspezione per pelle e che per anni mi
ha detto: "noi dobbiamo dilatare la nostra consapevolezza".
La mediana del mio tumore è 2 - 4 anni.
L'amica psicologa che mi accompagna alla cobalto dice: "ma sì, non pensare
alle statistiche, ci sono le ricerche, si arriva a 5 anni ...poi sai quante
novità...! Stai così bene!!"

E' vero; sto così bene - l'allergia sta finendo, il viso è tornato piacevole; le
forze sono ancora scarse ma vado a Villa Ghigi la domenica con le amiche e
mi stanco quasi come loro. Vado anche a cena fuori. Continuo a farmi
medicare la pelle dal Santo chirurgo che un giorno - non potendone più delle
mie domande, precisazioni, richieste, delucidazioni - mi fa incontrare con il
neurochirurgo che ha lavorato per sei anni con il Dott. Riva della medicina
nucleare di Cesena. Ci lascia soli nel suo studio e io comincio a capire la
tecnica di questo esperimento non perfezionato a base di ittrio e proteine del
ratto immuno - depresso.
Il medico evidentemente non sa nulla di me se non che sono un'amica di
Claudio con tumore al cervello. Mi chiede ad un tratto: "Ma lei cos'ha?".
Rispondo sicura: "Astrocitoma 2/3 grado all'emisfero destro".
Il tono della conversazione subito si alleggerisce: "Ah signora, ma allora c'è
un po’ più di calma, un po’ più di tempo. Noi lavoriamo sull'emergenza del
gliobastoma che dà 12 mesi di sopravvivenza.
Per l'astrocitoma io penso addirittura che fra un anno avrò messo a punto
un'altra ricerca; ora sono solo a 2 casi, non posso proporgliela ... ma
vediamo ... vediamo....".
Di nuovo esco dall'incontro serena. Il mio caso è grave ma l'atmosfera di
calma che c'è intorno a me si comprende - ho un po’ di tempo in più per
sottopormi ad una cura che tutti dicono pesantissima come quella nucleare.
Posso prendermi un po’ di giorni per me sola. Torno anche in ufficio a
lavorare.
Mi sottopongo alla prima risonanza di controllo dopo la "cobalto" (il 16
novembre 1996) senza alcuna agitazione.
So che la pelle è in ordine per immettere il catetere ma dentro di me ho
l'idea di cercare di aspettare ancora un po’ e fare un Natale piacevole e
rasserenante con i miei. Dopo, un po’ di Grecia al sole con Cristina?
Il chirurgo esce invece dalla sala della risonanza scuro in volto: la cavità
dove è stato asportato il tumore si è chiusa; c'è una fessura virtuale nella
quale non è possibile mettere sonda né iniettare alcunché.
Non capisco bene ciò che dice perché sono stordita dall'anestesia. Il giorno
dopo chiamo sia lui che Anna per farmi spiegare di nuovo ciò che è
successo.

Il cratere vuoto non c'è più; le pareti si sono collabite all'interno. Anna è
incerta, può esserci ripresa della malattia ma spera invece sia effetto della
forte dose di cobalto che ha irritato tutto. Prima di uno/due mesi non si può
chiarire la situazione. Al mio ritornello sulla cura nucleare dice che farla per
profilassi non ha senso (ma come, non era questo il progetto terapeutico
stabilito da tempo, penso senza più coraggio di parlare? perché ora è così
perplessa sull'esperimento e lo sconsiglia?).
Ancora insisto l'indomani con Claudio: dice che la cura radioattiva è una
"suggestione", così come confermano i medici internazionali famosi
consultati dagli amici. Certo, il futuro del trattamento dei tumori al cervello
è nella direzione del nucleare ...ma il futuro!.
Mi confondo; ancora sono assolutamente dipendente dalle parole tecniche
del medico.
Una tenera amica mi telefona da Napoli: ha sette giorni liberi per me! Mi
sento bene, anche se la gamba sinistra morde. Prendo l'aereo e mi precipito
la mattina dopo nella mia città: sette giorni di sole continuo, raro a
novembre anche laggiù: spaghetti al Borgo Marinaro, cenette e chiacchiere
continue, i pastori di Natale a S. Gregorio, le Chiese ....la nuova futura
Coroglio, Capodimonte restaurato....Il mio ritmo di prima con tanti amici
intorno per sostegno e togliere la paura...Che bello! Le foto mostrano una
donna sana, solo un po’ più gonfiotta nel viso tondo.

Mi sento il corpo tranquillo, più debole alla sera quando sbando per
stanchezza.
Appena torno a Bologna tormento il chirurgo: "Quando rifacciamo la
risonanza?" "Decidi tu - risponde - o prima o dopo Natale". "Oh Dio,
Claudio, è chiaro che mi piacerebbe essere sicura che va tutto bene prima di
Natale e avere allegria in casa in quel periodo; però se poi il referto è incerto
perché è troppo presto?". Il chirurgo - con eccezionale pazienza - di nuovo
mi visita a lungo. La risposta è positiva: "stai benissimo, se ci fosse qualcosa
si vedrebbe negli occhi come un tappo di champagne che fa bollicine. Vai a
Napoli; facciamo l'altra TAC all'inizio di Gennaio".
Potevo non credere? Potevo immaginare che la sua logica era di concedermi
in serenità l'ultimo periodo buono della mia vita?

Natale è con l'amata amica di gioventù, con mio figlio e la sua ragazza che
io adoro; figli mezzi miei anche quelli delle amiche che partecipano alle
feste.
Coccolatissima dal mattino alla sera, ma è normale nei nostri incontri
trentennali. Riesco persino a far suonare la "tammurriata nera" così come
facevamo al mare (in tanti ragazzi e noi quarantenni) sotto i pini e la luna di
Punta Licosa.
Quando torniamo in aereo il 2 gennaio 1997 qualcosa nel mio corpo è
cambiato. Le gambe si irrigidiscono con crampi al mattino come dopo una
pesante camminata in montagna, la testa ha una inconsueta compressione
sulla fronte che non si alleggerisce con gli antinevralgici.
Partecipo pallida e stanca alla tombola per l'Epifania dell'unica amica che,
nei mesi passati, mi aveva creato ansia e urgenza per il mio tumore in ogni
incontro e che perciò avevo allontanato un po’ a fatica.
Mentre mi lavo al mattino mi accorgo che i movimenti sono sempre più
scoordinati: non lavo il mio corpo ma strofino tra loro due pezzi di sapone.
Avverto il chirurgo che la confusione mentale è ogni giorno in aumento e
così l'instabilità : non posso più passeggiare (come a Napoli pochi giorni fa)
da sola. La risposta tecnica non mi placa l'ansia: è l'edema cerebrale;
coincide con i tempi della cobaltoterapia; è effetto dunque delle sue dosi
massicce; forse mi darà di nuovo il cortisone.

Così strana e già diversa mi sottopongo alla risonanza magnetica del


7/1/1997.
Per destino e accidente della mia vita chiedo di farmi un anestetico leggero
al quale sono già abituata e che non mi stordisce come quello della volta
precedente.
Siccome non ho perduto il bisogno e la voglia di rapporto con le persone,
nell'attesa parlo con un giovanissimo infermiere. Gli racconto del mio
astrocitoma, dei pochi anni da vivere, del mio corpo così sano sei mesi fa,
del mio viaggio in Cina a maggio.
La risonanza non mi spaventa: ormai conosco tutto. Quando esco dal tubo, il
ragazzo mi porta sul lettino per farmi riprendere, ma l'anestetico che ho
voluto mi ha lasciato lucida. Siamo soli, l'anestesista è andato via; gli altri
controllano le lastre.
A quel punto il caso?, "l'angelo" travestito da infermiere? Il bisogno di
sentirsi bravo? chissà...il ragazzo parla: "signora guardi che io ho letto tutti i
suoi referti e non c'è mai scritto astrocitoma. Lei ha un gliobastoma ad
elevato grado di malignità".
Non rispondo una parola. Capisco tutto. Ricordo l'emergenza, ricordo tutte
le nozioni e differenze apprese tra i due tipi di tumori. Ricordo i tempi
brevissimi della morte certa.
A casa la reazione è ancora orrenda contro i miei famigliari; rompo piatti,
bicchieri contro di loro urlando: "è la mia vita, è la mia unica vita".
Mio figlio scoppia in singhiozzi violenti che come sempre mi sfiniscono
d'emozione: hanno deciso di mentirmi perché i medici sostengono che
nessun paziente regge la diagnosi e si lascia così morire in pochi mesi.

Il giorno seguente il fratello chirurgo/Giuda, con libri in inglese e tedesco,


ancora cerca di spiegare e mentire; ancora non vuole alcun intervento
proponendomi esami sulle cellule che portano via un altro mese.

Comincio la mia personale, rapidissima indagine (con amici che viaggiano e


telefonano per me) tra Hannover, Roma, Milano. Ci sono opinioni diverse,
scelte mediche diverse.
E se io non sapevo?
E se io ero ancora esclusa?
E se "l'angelo" non parlava?

Il chirurgo milanese che mi ha aperto il cranio mi ha detto con franchezza


che ai miei parenti avrebbe dato la stessa risposta attendistica del mese
precedente; anche il medico ha bisogno di decidere guardando negli occhi
l'unica persona che rischia di diventare invalida per emiplegia dopo i suoi
ferri, che può non sopportare sei ore e più di intervento: il malato.

Questi i fatti, abbastanza dettagliati, forse troppo per chi non subisce una
vicenda così grande.

E io! E io dal 7 gennaio chi sono? così tradita, così in pericolo?


così ferma e senza cure da oltre tre mesi mentre passeggiavo per Napoli con
un bel cappellino rosso che molti sapevano sarebbe stato seppellito tra poco
tranne io?

Ho passato tanti giorni dopo l'operazione e la "cobalto" a rispettare le regole


della educata signora borghese che rispondeva ai bigliettini, alle telefonate
continue, ai regali.
E se non avessi mai saputo che dovevo iniziare ad affrontare la lotta vera,
urtarmi con l'angoscia di morte, con la voglia del dolore e della sfida prima
di chiudere la mia intensa - ancora giovane - vita?

Dopo venti giorni dalla verità, sono già prenotata a Milano per il secondo
intervento al cervello.
Passo i giorni di attesa continuando a lavorare e a dettare l'intervento sugli
istituti d'assistenza per l'istruttoria pubblica che si terrà al Comune di
Bologna il 17 gennaio.
Non voglio rinunciare.
Al mattino della conferenza sto malissimo. Ho un attacco di labirintismo e
vertigini paurose che mi fanno temere la fine mentre grido "aiuto, aiuto,
aiuto".
Se non avessi saputo la mia diagnosi crudele non avrei mai trovato la forza
di alzarmi dal letto, farmi aiutare a vestire in tailleur, andare, con mille
medicine in corpo, l'amica fidata dell'ufficio per continuare magari la
relazione, la macchina fin sotto l'ascensore (praticamente non cammino)...
Alle 17 sono lì; inizio a leggere...fino alla fine..bene..con calma,... con le
pause espressive volute.

Nel brutto ospedale milanese con ottimi medici chiamo ad assistermi per la
prima notte l'amica napoletana.
Il tradimento c'è stato ma io non l'ho ancora elaborato nell'animo; dice
"faremo la fondazione Maria Grazia Ruggiano per i bambini". La frase mi
rimbomba ogni giorno..."la fondazione.."

Questa seconda operazione è atroce. Il mio corpo cede e forse anche la


possibilità di vivere. Quanto dolore! Quanta pena! Solo a Milano la grande
malattia è diventata me stessa. Solo in quell'ospedale non c'è stata più
distanza tra tutto il mio essere e il tumore mortale.
Torno a casa malatissima, senza autonomia, con necessità dell'infermiera
per lavarmi e fare qualche passo.
Il referto istologico arriva per fax: recidiva, cellule neoplastiche,
gliobastoma multiforme.

Riemerge così dall'intimo il tradimento, i mesi di attesa perduti per sempre


senza poter resistere alla morte veloce, la casualità assoluta della uscita
dall'ovatta dove mi stordivano: so ora che il patologo aveva detto che non
avrei superato il Natale, so ora che il più grande oncologo francese aveva
fatto un conto preciso di settimane di sopravvivenza (50 per l'intervento, 20
per la cobalto). Sono in sopravvivenza già da 5 mesi pieni; ho ripreso in
mano il mio destino solo da pochi, grandi giorni.

Prendo il telefono e urlo la mia rabbia ai tre amici colpevoli; poi scrivo,
scrivo, e mi contorco nella sofferenza della loro perdita; scrivo e nessuno
trova rimedio per il mio amore lacerato.

5/2/1997 per Francesca, Giulio, Mario


Vi siete subito rassegnati alla mia fine, ad avermi come caro ricordo. Con il
silenzio avete protetto la vostra debolezza, non la mia. Mi avreste impedito
per sempre (perché mai più sarebbe stato il momento giusto) questa rivolta
feroce, la pienezza di ogni giorno vissuto in una tensione intima che
raccoglie e supera anche il dolore. Mi avreste tolto l'esperienza più vasta che
un essere umano possa fare e l'allargamento senza limiti della coscienza e
della mente. Le parole-dedica del carissimo Marco solo oggi sono vere fino
in fondo dentro di me. ("la tua potenza sorgiva").
Ci siamo parlati per 20/30 anni: che cosa avete davvero compreso di questa
bimba del Sacro Cuore che non ha mai lasciato cadere un giorno la sua
inquietudine, la volontà, la presa da cane mastino, il bisogno di libertà?
Sì, avete chiesto in giro per notizie, avete tentato informazioni ...Ed io
dov'ero? Lino vi dirà le parole esatte del chirurgo prima e dopo l'operazione.
Nessun chirurgo può decidere senza il paziente di fronte.

Eppure mi ero affidata a voi con tranquillità senza mai dubitare che io e
Francesca, io e Giulio, io e Mario eravamo altro da Lino e Sandro sconvolti
e disperati.
Ha deciso tutto un medico: e voi avete accettato subito, senza neppure
discutere con Lino (ma Claudio è come Grazia? che cosa ha dentro? cosa
vuole dalla sua vita?)
Senza quello strano infermierino del 7/1, oggi che sarebbe di me?
Avevo bisogno di voi per condividere questo avvenimento straordinario che
è la morte vissuta ad occhi spalancati, accanto alla luce, al golfino rosa di
mio figlio, al pranzo quotidiano.
Avevo bisogno di sentirmi belva insieme a voi - voi belve più di me - per
vincere, per vivere, per stringervi al cuore nell'unico modo che ho sempre
conosciuto.

9/2/1997 a Francesca, Giulio, Mario


Così vado a Cesena, senza il cappellino rosso che voi sapevate finto, provata
da una operazione terribile che forse si poteva evitare.
Sarei passata alla fase del dolore e dell'assopimento senza voce, senza
avidità, senza questo mese di furore. Dire senza questo mese sorprendente è
così inadeguato, così lontano dal sommovimento interiore che accade. Non
ho mai guardato fuori dalla finestra ...se c'era il cielo, la nebbia...il mare...
che importa?

La malattia mortale è lato maestoso dell'esistenza, dedicato all'espressione


completa del sé, allo scuotimento e scuoiamento della propria carne.
E ho scritto al chirurgo milanese che i giorni della disperazione possono
valere anche tutta la vita concessa.
Cesena- Ospedale Bufalini - Reparto medicina nucleare - Primario
Dott. Riva -10/2/1997
Si legge la scritta "medicina nucleare"; si vedono gli sbarramenti e le porte
serrate; di nuovo si legge "vietato entrare - degenza radioisotopi".
Per me che devo essere ricoverata si aprono col campanello le porte.
Si nota immediatamente una perfezione organizzativa minuziosa e precisa.
Eppure mi sistemo la stanza (piccina e isolata con muri spessi e strani
apparecchi tecnologici dovunque) senza nessuna sensazione dentro di
diversità rispetto agli altri due ospedali in cinque mesi già visti. Anzi, c'è
solo il piacere di vedersi circondata da persone attentissime compreso il
professionale, competente personale infermieristico.
Iniziano subito una serie continua di accertamenti: dalle 8 del ricovero al
pomeriggio. So già che mi hanno iniettato una prima dose di sostanza
radioattiva per una sorta di TAC ("Spect"), ma ancora tutto è - come dire
-"normale" rispetto a ciò che ho subìto finora negli ospedali e durante la
"cobalto".

Passano due giorni di esami senza pausa di orario, sfibranti.


Il pomeriggio sto male. Eppure devo recuperare in fretta le forze perché
l'ittrio è arrivato dall'Inghiltera e domani è il giorno dell'infusione.

Cesena, 11/2/1997 a Francesca, Giulio, Mario


Reparto nucleare.
Oggi non sono stata bene dopo gli accertamenti e i medicinali.
Sono a letto senza forze; eppure non riesco a distogliere il pensiero da voi e
dal rancore profondo.
Mi continuate a far male perché spreco energia in questo odio che non si
attenua, ma mi martella ogni momento e ogni notte il pensiero che mi
facevate morire come un cane senza memoria di sé.
Avete sovrapposto la vostra persona alla mia anche se solo io rischio tutto e
vivo tutto. Tu Francesca sei andata addirittura in Inghilterra a Natale e mi
organizzavi il viaggio primaverile!
Quale inganno più sottile! Mario è andato tante volte sulla neve, calmo,
senza un abbraccio, un sussulto che mi facesse intuire!
L'avete fatto pensando ad un'"ultima forma d'amore"? (II)
E dove si prende il diritto di sostituirsi a chiunque nel pericolo più estremo?
Ci si ammazza, ci si lascia morire, ci si avvicina alla trascendenza, si inizia a
guardarsi dentro le viscere dell'anima....? Ognuno risponde per sé. Sono
giorni, angosce, durezze che nessuno deve toccare: per nessuno.
Serviva amore, sì, ma amore vero e coraggioso.

Al mattino seguente mi preparo con cura perché so che rimarrò a letto forse
per tutto il giorno e la notte. L'instabilità rimasta dopo l'operazione di
quindici giorni fa mi costringe a chiedere aiuto.
A letto cerco di respirare contro la forte emozione dell'attesa. Metto le mie
preziose cassette di musica portate con il registratore; muovo i piedi per
l'energia.
Alle 11 viene l'infermiera per iniziare la flebo di cortisone; ovviamente si
rompe la vena; Marta (che è timida e delicata) fa come la mia amica Marina
- le vengono chiazze rosse sul collo e sul viso. Riprova: sa che è molto
doloroso questo ago con catetere su vene fragili e sottili come le mie. Per
fortuna il secondo tentativo sembra reggere e fissa l'ago.
Alle 12 comincia un movimento grosso nelle stanze accanto; io posso solo
ascoltare; non siamo visibili reciprocamente perché i muri di tufo sono di
oltre 30 cm. tra una stanza e un'altra.
Anche nella mia capisco che viene preparato molto materiale di emergenza
al di là del muretto del letto. Riva mi avvisa che stanno lavorando prima su
altre tre persone (l'ittrio ha una validità di due giorni ed è stato faticosissimo
procurarselo per il medico: bisogna usarlo subito; hanno chiamato anche un
paziente a casa, di emergenza, per trattarlo immediatamente).
Mi da' i tempi come l'avevo pregato di fare, per controllare l'ansia. Il
chirurgo sta trovando problemi con l'altro ammalato, perciò ritarda.
All'una meno qualche minuto sono nella mia stanza.

Il chirurgo ha la maschera e camice verde, Riva guanti sterili; sono presenti


tutti: infermiere, caposala e medico del reparto. Il chirurgo è un giovane
grosso dall'aspetto e dalla parlata aspra (per fortuna non posso vederne
completamente il viso).
Di colpo entro nella dimensione vera di questo esperimento, della mia
grande malattia, del proiettile nucleare che si deve iniettare.
La mia stanza d'ospedale normale non c'è più.
Vengo coperta completamente da teli verdi sterili. Non vedo nulla, non ho
spazio nemmeno per la bocca, ma sono così concentrata che non ho paura.
Sento le parole del chirurgo che cerca la sonda, rimane stupito dalla
vicinanza del secondo intervento, vede che la pelle è rovinatissima.
Comincia un linguaggio ascoltato nei film (di fantascienza ? dell'orrore ? dei
primi esperimenti spaziali ? non so), quando attorno ad un corpo ricoperto e
inesistente come il mio tante persone provano. Cosa ? Il prolungamento di
un po' di vita.
La voce è secca, metallica, rapida: "ago inserito; cisti ripiena; cavità trovata;
nessuna difficoltà nella penetrazione". Il tono si fa diverso e alterato:
"goccia fuoriuscita; garza contaminata".
Io improvvisamente sento una massa di liquido nel vuoto del cervello; il
chirurgo smuove il mio cranio sotto i teli; lo stupore è ancora più pauroso.
Lui va via ma restano tutti gli altri; Riva mi tocca i due polsi continuamente.

Cerco di osservarmi anch'io ma l'ansia adesso è violenta; ormai so di far


parte di una grande scommessa non perfezionata, di un tentativo estremo
con un mezzo estremo.
Mi si chiude la gola; ho un po' di difficoltà a inghiottire per i miei problemi
allergici.
Riva non si muove quasi più dal mio letto per un'ora intera facendomi
parlare continuamente. Sono le 14 passate quando si allontana per 5 minuti.
Mi tocca spesso la nuca per vedere se si è irrigidita, il polso (può crollare il
cuore, saprò dopo) la gola per il pericolo grosso della reazione allergica. La
reazione sembra modesta; e quest'altra volta? Se mi sensibilizzo? Ma non ho
scelta. Non c'è altro che i tentativi anch'essi sperimentali del Giappone che
rifiuto. Senza quest'uomo attentissimo dal perfezionismo maniacale che
segue personalmente tutti i suoi pazienti, senza le voci già note e gentili del
personale intorno, non avrei potuto reggere questa prova.
Io mi sento fuori dal normale, nel turbamento assoluto, ma il mal di testa
non parte dalla nuca irrigidita. Riva ancora, mi muove il collo e la testa.
Cerco con infinita disperazione di ritornare a pensare alle respirazioni, a
visualizzare il liquido nucleare di 15 m. curie che cerca il cancro e lo
prende, a immaginare le proteine del ratto immuno-depresso che - creando
anticorpi - dovrebbero distruggere il tumore.
Sono stanchissima. Posso bere un goccio di tè che subito mi da nausea. Non
voglio perdere del tutto il controllo di ciò che succede. La testa mi fa molto
male ma Riva sembra più calmo.

Ho freddo. La copertina di Patrizia serve a tutto. Come avrei fatto senza


questo dono sensibile e intelligente di quella persona luminosa?
Parlo al telefono con mio marito; e credo di essere ancora abbastanza lucida.
Alle 17 cambia il dolore: un macigno sul punto dell'infusione, un peso
orrendo che esplode in tutte le direzioni. Riva torna, cerca di spiegarmi
tecnicamente quello che sta accadendo al cervello e la ricerca del '90 che lui
applica. Non seguo bene, è complicatissimo: gli chiedo una pubblicazione
semplice e comprensibile. Dice che non c'è, dovrebbe scriverla lui, ma il
tempo? Va sempre peggio. Verso le 19 provano ad alzarmi per mangiare
qualche cucchiaio di minestrina e inghiottire la terapia anticonvulsiva. E' un
momento terrificante di orrore: non reggo la sedia, non reggo il movimento
del cucchiaio. La testa è un organo che non mi appartiene più. Riva mi fa
rimettere ancora una flebo di cortisone. Crollo con i nervi. Parlo al telefono,
come posso, con mio figlio. Vorrei Giovanna, la mia fatina di Cesena ma
non la fanno entrare. Piango tanto.
Sola.
Riva dice che tornerà alle 22 e 30 per un controllo. Mi mortifico, cerco di
dirgli che l'esplosione si sta attenuando. Mi risponde che preferisce dormire
tranquillo dopo le 22. Puntualissimo arriva con me assopita leggermente dai
tranquillanti.
Mi sveglia, mi tocca il polso. Dà disposizioni di lasciarmi gocciolare flebo
di cortisone lentissima in modo che possa durare tutta la notte.

Riposo qualche ora ma il macigno si è come sgretolato e va per tutta la testa


senza il peso e la violenza di ieri.
Il medico è da me alle 8; Riva alle 8,30: pressione, pillole, iniezioni. Gli fa
piacere vedermi in poltrona dove mi hanno sistemata fuori dai rischi di
caduta e di colpi anche se svengo.
Cerca di spiegarmi che la quantità di radiazioni iniettata cala
matematicamente nei giorni successivi e si dimezza.
Vengono a misurarmi le radiazioni con una sorta di "geiger". Non va bene.
Sono alte. Si riservano lo "Spect" domani per controllare dove si è
depositato il materiale nucleare. Posso ricevere Lino e Giovanna a distanza
di un metro di fronte a me stasera per 10 minuti.
Le infermiere invece sono continuamente a contatto mio e dei pazienti
trattati con lo iodio (stanotte hanno definito una signora "una bomba
radioattiva umana").
Riva torna a fine mattina. Dice che ora è finalmente tranquillo per me; mi
muove di nuovo la nuca, gli spiego che io sto malissimo e non faccio un
passo da sola.
Le sue parole però mi danno il senso del rischio non più vicino (mortale? Mi
risuonano fisse le parole di Anna: "i raggi interni non li reggerai").
Si può comunicare un'esperienza del genere ? Non so.

Il protocollo internazionale per la cura dei tumori al cervello ignora la


sperimentazione del Dott. Riva: nessun rilievo; nessuna efficacia.

Poi nell'aspettare qui il turno dello "Spect" ho avuto la ventura di sedermi


accanto ad una bella signora sana e forte con una polo azzurra come i suoi
occhi. Per fortuna (nonostante il mio aspetto misero da malata) ci siamo
parlate: anche lei aveva un gliobastoma ad elevato grado di malignità da 6
anni; si era ridotta come una larva, ha subìto molte operazioni e trattamenti
nucleari, infezioni e complicazioni, ha avuto coraggio e fortuna.
Certo, è uno dei pochi casi nella statistica del Dott. Riva così felice. Nelle
statistiche dei congressi ufficiali ha ben poco rilievo.
Eppure mi parlava da questo corpo vivissimo, senza traccia sul volto o sul
corpo di dolore e malattia.

Sono scoppiata in un pianto dirotto per una emozione sconvolgente.


Riva l'onnipresente - passando nel corridoio - ha chiesto cosa stesse
succedendo. La donna ha risposto: "Nulla. Siamo compagne di avventura".

Domenica 2 marzo 1997


Dopo più di un mese di ospedali, fisioterapia continua a casa e infermieri,
oggi ho passeggiato piano piano di nuovo al sole di Villa Ghigi con le mie
amiche ben strette a sostegno.
Parliamo: il tempo corre, io corro più di lui. La notte studio, leggo e scrivo.
Metà del mio grande letto è pieno di fogli e penne e libri come una
scrivania. Mio marito dorme in un'altra stanza.
Ci fermiamo su di una panchina a ragionare ancora sotto voce.
Carla racconta del giuramento che le ha fatto fare Paola - l'altra grande
amica del gruppetto bolognese - in caso di malattia mortale: qualunque cosa
potessero dire i medici o i famigliari, qualunque sicurezza avesse raggiunto
la sua intelligenza, mai Carla avrebbe dovuto acconsentire alla verità. Io
sono certa che - se ve ne sarà bisogno - Carla inventerà cose straodinarie e
meravigliose per rassicurare l'amica. Conoscendola da sempre, troverà ogni
giorno la riserva di illusione che ha chiesto e ogni giorno entrerà nella sua
stanza con un dono nuovo di speranza, con un ragionamento bizzarro ma
coerente che spiega le parole afferrate (magari assopita) insieme al bacio del
figlio in lacrime.
Carla ha giurato; Carla sa che non tradirà; le sembra naturale e giusto tutto
ciò che farà.
Eppure è lo stesso affidamento che avevo chiesto io ai pochi amici di vita:
Paola non vuole sapere; io avevo chiesto di conoscere.

Perché il rispetto della mia volontà è stato invece così impossibile e mi ha


coperto di una pìetas non cristiana e senza "elevazione dell'anima"?(III)
In questa forzatura quotidiana di giovinezza/salute/energia dove anche le
donne anziane sono travestite da ragazze, l'angoscia di morte, il rapporto
intenso e complesso con l'accadimento morte (in un paese così cattolico!) è
scomparso. Ben seppellito dalla paura.

Franco Fornari scrive: "un proverbio lucano dice che quando un bimbo
nasce, piange per annunciare che la morte è entrata nel mondo. Sarebbe però
più corretto dire che piange perché - nascendo - ha incontrato la morte".
Sono certa che il grande psicanalista abbia voluto dire ....perché - nascendo -
ha incontrato la sua morte. Nessuno ha il diritto di togliere a quel bimbo che
nel corso degli anni così a fatica è diventato persona (fragile o resistente,
che importa?), a quel vecchio che lo chiede, il confronto con la sua morte.
Il ricordo di tutto se stesso.

NOTE:

I)Il codice deontologico approvato nel giugno 1995 è certamente ambiguo


in proposito e consente un vasto spazio a qualunque condotta del medico.
L'art.29 al 1° comma prevede una serie di condizioni perché il diritto del
paziente ad essere informato venga soddisfatto: "tenendo conto del suo
livello di cultura, e di emotività (!!) e delle sue capacità di discernimento..."
Ma chi valuterà tali livelli se non il medico stesso!?
Al 4° comma aggiunge "Le informazioni riguardanti prognosi gravi o
infauste... devono essere fornite con circospezione..."
Ma la "circospezione" non diventerà un comodo alibi per ogni situazione?
- L'art. 31 ("consenso informato: il medico non deve intraprendere attività
diagnositca e terapeutica senza il consenso del paziente validamente
informato") diviene allora una recita inutile per una firma sempre richiesta
a tutela stavolta delle società assicurative, dei medici e degli ospedali.

II) "Pedro Solinas"

III) "Affetti e cancro" di Franco Fornari


In nota a Ruggiano
Giancarlo Scarpari Questa non è una riflessione sulla morte, ma sulla vita, sulla pienezza e la
qualità di una vita che deve essere realizzata fino in fondo.

Sappiamo che il tempo che ci è dato scorre in modo diseguale: viaggia a


velocità diversa a seconda delle persone e per lo stesso individuo può
mutare nel corso della sua vita, nello spazio di un giorno o in un attimo. E
certo comincia a scorrere più in fretta per chi scorge improvvisamente la
morte, come possibile, all’orizzonte.

Ma nella società "del benessere e della felicità" questo orizzonte è da tempo


cancellato, l’idea stessa della morte (propria) rimossa ed occultata: rimane
quella degli altri, ma neppur questa per lo più vissuta, ma solo sentita,
perché raccontata o vista, attraverso le immagini tutte eguali di un mondo
virtuale.

La persona si è così abituata a vivere il quotidiano come se questo fatto


naturale, la morte, non la riguardasse. E la società ha delegato alla scienza la
cura e la custodia delle altrui sofferenze e malattie.

Non è sempre stato così. Ariés ci ha ricordato che l’uomo del Secondo
Medioevo e del Rinascimento "teneva a partecipare alla propria morte,
perché vedeva in essa un momento eccezionale in cui la sua individualità
riceveva la forma definitiva. Non era padrone della propria vita che nella
misura in cui era padrone della propria morte"(I).

La modernità ha cambiato tutto questo. Le figure che accompagnavano il


malato, che erano presenti in questa fase della vita e che parlavano con lui, il
prete, il medico di famiglia, la cerchia dei parenti hanno finito col cedere il
posto al medico specialista (il cui sapere è irraggiungibile) e alla struttura
ospedaliera (che custodisce e controlla).
Il malato è curato e assistito, ma non ascoltato, se non per cortesia. Il
colloquio, lo scambio, sono finiti; nella generalità dei casi ci si affida - il
paziente, la famiglia tutta - alla scienza del medico, cioè al suo potere
assoluto.
Il malato non deve sapere la gravità del suo male: nei congressi medici, in
Francia, si è sostenuto che al malato bisogna mentire, in nome della "legge
dell’amore e della carità"(II). Nel codice deontologico, in Italia, è prescritto
che i medici diano "le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste"
usando "terminologie non traumatizzanti"(III), celando quindi, ancora un
volta, la verità.
Il paziente quindi non è persona, non ha più diritti, è posto, senza alcun atto
formale, ma col consenso di tutti, sotto tutela. Per il suo bene, s’intende. Le
sue richieste di sapere, di conoscere, sono inopportune, se insistite rischiano
di apparire moleste.
Giorno dopo giorno viene così espropriato della possibilità di decidere della
propria vita, perché altri, nel frattempo, ne è divenuto padrone e può, a
discrezione, dosare le informazioni, mescolare il vero al falso (pietoso),
"tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e della sua capacità
di discernimento".
La pietà, l’amore, la carità sono certo, se autentici, nobili sentimenti: ma
avvolgono le persone cui sono destinate in una gabbia consolatoria, evitando
di riconoscere i loro diritti.

Per rompere questa catena non occorrono rivoluzioni di sorta, ma basta


rendere effettivo un semplice ed univoco principio: "le richieste di
informazioni da parte del paziente, anche in casi di prognosi infauste,
devono essere comunque soddisfatte, con gradualità e rispetto alla persona".
Si tratta cioè di mutare la prospettiva di partenza, sulla base dell’interesse
che si intende tutelare effettivamente, quello del malato, non quello del
medico. Non si tratta, quindi, di stabilire un obbligo generalizzato di
informazione a carico del personale sanitario, ma di fissare un diritto della
persona ad ottenere notizie veritiere sulla sua condizione, una volta
richieste, anche se gravissime e infauste.
Si tratta dunque di una norma che rispetta in primo luogo il diritto del
malato e non è diretta a salvaguardare, come accade oggi, il potere assoluto
di chi lo ha in cura.

Stabilito il principio, si può certo discutere in ordine alle modalità per


renderlo effettivo ed operante, senza intenti punitivi per chicchessia.
Dopodiché potrà accadere che la gran parte dei pazienti preferirà continuare
a vivere nell’illusione, ma altri vorranno e potranno sapere. In entrambi i
casi saranno scelte loro e non di terzi, scelte con cui l’interessato deciderà di
come vivere il suo presente, improvvisamente dilatatosi, e il suo futuro,
dalle incerte frontiere.

NOTE:
(I) P. Ariès, Storia della morte in occidente, Milano, 1994, p. 195.

(II) V. Jankelevitch, Medecine de France, 1966, n. 177, p. 3.

(III) Codice di Deontologia Medica, approvato il 24-5/6/1995 dall’Ordine


dei Medici Chirurgi e degli Odontoiatri.
La politica
Paolo Palazzi Il mio intervento precedente dal titolo L'utopia si concludeva in questo
modo:
"L'unica soluzione strategica che mi sembra praticabile è basata su due
mutamenti di tipo qualitativo:
- passaggio da una economia di prodotti ad una economia di servizi
- passaggio da prodotti e servizi individuali a prodotti e servizi collettivi.
In sintesi, con uno slogan, si può dire che bisogna incorporare nei prodotti
il benessere sociale e la qualità della vita. Slegando in qualche modo il
benessere dalla quantità dei prodotti e legandolo alla qualità.
Il contenuto materiale dei prodotti dovrà tendere a ridursi drasticamente e
invece sempre di più dovrà incorporare migliori rapporti umani,
conservazione di un ambiente sano e piacevole, solidarietà, possibilità di
controllo della propria vita, fantasia e creatività, ecc.
Sono tutte caratteristiche che hanno un elevatissimo contenuto "autarchico",
ad elevato valore aggiunto materiale e spirituale.
Come credo tutti ormai sappiamo, questa trasformazione non può avvenire
con una modificazione dell'assetto politico e ancor meno con una
rivoluzione: poichè tale trasformazione deve avvenire nelle coscienze e dal
basso, non è sufficiente propagandarla né può essere imposta."

In questo intervento cercherò di convincervi che, nonostante il titolo del mio


intervento fosse "L'utopia", queste affermazioni non sono più utopiche ed
irrealistiche di quelle di coloro che pensano che il problema
dell'occupazione sia:
a) tamponabile nel breve periodo con qualche intervento pubblico a favore
dei disoccupati o a favore degli imprenditori;
b) risolvibile nel lungo periodo aumentando i tassi di crescita del reddito a
valori superiori a quelli dell'incremento medio della produttività (4-6%
all'anno).

In cifre l'argomento può essere posto in questo modo: i settori produttivi


tradizionali (agricolo, industriale e terziario avanzato) sono direttamente o
indirettamente esposti alla concorrenza internazionale che li obbliga, pena la
scomparsa, a ritmi di progresso tecnologico decisamente nella media,
nettamente superiori alla espansione del mercato. Ne consegue che l'unica
possibilità di rimanere del mercato è legata alla loro possibilità e capacità di
diminuzione dei costi, in particolare alla diminuzione del costo del lavoro
attraverso l'aumento della produttività e l'espulsione di lavoratori dal
processo produttivo.
Una espansione dell'occupazione, o anche il suo solo mantenimento, è
legata alla crescita dei settori a bassa o nulla dinamica di produttività. Il
settore pubblico e quello del terziario tradizionale hanno in passato svolto
questa funzione, ma ad un costo che ora sembra non più sostenibile e ancor
meno espandibile.
I costi sono davanti a tutti: da una parte un settore pubblico nel quale il
processo produttivo non ha quasi per nulla un rapporto con il prodotto finale
per il quale dovrebbe esistere e un settore terziario tradizionale costosissimo
mantenuto in vita da legislazioni medievali difese dal potere di forti
corporazioni.
Lo smantellamento i queste strutture "precapitalistiche" avrebbe però
l'enorme costo di contribuire in modo drammatico e insostenibile ad un
aumento della disoccupazione.

Può piacere o non piacere, ma questa è la realtà italiana ed europea.


Solo pochi commentatori economici, generalmente quelli non legati
direttamente al mondo della politica, hanno l’onestà culturale di basare le
loro analisi e anche le eventuali soluzioni tappabuchi su questa visione
senza paraocchi della realtà.

Se ne può uscire? Credo che la strada ci sia, è quella di iniziare a produrre in


modo massiccio beni la cui utilità e il cui utilizzo siano legati ad aspetti
qualitativi, in gran parte immateriali, relativi:
a) alla tipologia del prodotto
b) al bisogno che il prodotto soddisfa
c) al modo in cui si organizza il processo produttivo stesso.
Immortalità della televisione
Aldo Grasso Tema conduttore del Salone del libro (Torino 22-27 maggio) sarà
l’immortalità. Come appare e si dimostra nella letteratura, nella scienza,
nella filosofia, nelle arti. Anche nella televisione.

Nonostante in Tv si dica sempre che "il tempo è tiranno", solo con la


tirannia del video ci illudiamo di durare nel tempo. La Tv, meglio, le Tv ci
insegnano infatti che non esiste l’immortalità, esistono le immortalità. Che
non sono uguali, che sono tante, che mostrano caratteristiche specifiche.
Consideriamone alcune.

Immortale per caso. In video si può diventare immortali malgré sol.


L’imperituro per caso è quello sconosciuto finito in una sigla, catturato da
una gaffe, schidionato in un blob. Appare mille volte, come supporto dei
titoli di testa, come esempio di una bestialità, come tormentone perenne: la
donna che lavora, il primo passo sulla luna, il maestro Manzi, il passatoio di
Mondovì, chissà chi lo sa, Alessandro Cocco lo zelig della Brianza. Oppure
è un misconosciuto che viene recuperato in un’epoca che non è la sua, in
una di quelle redenzioni prodigiose che sole le "riletture" o le "rivisitazioni"
sanno compiere. Il principio di casualità televisiva è stato formulato dallo
scrittore polacco Stefan Themerson nel 1951. Dice: "Il Tempo tramuta
annunci pubblicitari in poesie, e il Tempo tramuta poesie in annunci
pubblicitari".

L’immortale ridicolo. E’ il mortale che studia da immortale. Si tratta -


come direbbe Milan Kundera - di una immortalità tutta terrena,
l’immortalità di coloro che dopo morti desiderano fermamente restare nella
memoria dei posteri. Grazie alla Tv, ogni uomo può raggiungere questa
immortalità più o meno grande, più o meno duratura, e fin dalla giovinezza
ne coltiva il pensiero. I nomi di questa piccola immortalità sono "fama",
"celebrità", "notorietà" e l’espressione che ne certifica l’esistenza è:
"Dottore, l’ho vista ieri sera in Tv!". Scrive Kundera ne L’immortalità:
"Fama significa essere conosciuti da molte persone che voi non conoscete e
che avanzano pretese su di voi, vogliono sapere tutto di voi e si comportano
come se voi gli appartenete...Purtroppo la fama non appartiene soltanto ai
personaggi famosi". Di qui il fenomeno peculiare dei talking heads, di quei
personaggi che esistono solo in virtù della loro capacità di apparire nei
talkshaw per esprimere opinioni su qualsivoglia argomento.

Immortale o mitico? Nonostante la cattiva conservazione dei programmi e


lo stato spaventoso degli archivi, bisogna tuttavia considerare che spesso le
immagini sopravvivono ai corpi da cui, in qualche modo, provengono. Si
pone così il problema dell’opera di consumo nell’epoca della sua
incensurabilità tecnica. In realtà, della Tv, come del porco, non si butta via
niente: di qui la voga dei recuperi, delle memorie, delle nostalgie: Pippi
Calzelunghe, Star Trek, l’ombelico della Carrà, Giovanna la nonna del
Corsaro Nero, la collezione dei Puffi di Orietta Berti, Furia cavallo del west.
Ma la Tv entra nell’immortalità con il mito o con il mitico? Se lo chiede
Stefano Bartezzaghi con sottile distinzione: "Il mito sarebbe caratterizzato
dall’insorgenza pura e incontaminata, l’evidenza assoluta,
l’inconsapevolezza di sé. Il mitico si presenta completo di istruzioni per
l’uso: è portato a spiegarsi, a raccontarsi, a storicizzarsi". La Tv creerebbe
solo miti visti da vicino, miti con dibattito a seguire? E la sua memoria è un
catalogo sfibrato che obbedisce al primato gerarchico dello stampo (del
calco, della copia, della riproduzione) e dove il nuovo è ciò che abbiamo di
più antico?

Siete a conoscenza di alcuni casi di immortalità televisiva?

Forum: Altre vite?


Sondati
Renato Mannheimer Al sondaggio sulla "provincialità" o meno dell'Italia, lanciato sul n. 8 di
Golem, hanno riposto 116 lettori, per lo più maschi (solo 14 signore!), tra i
quali molti insegnanti. L'età media è sui 35 anni. L'orientamento politico è
per il 43% di sinistra e per un altro 28% di centro-sinistra. Ma, per
soddisfare almeno un po’ la pluralità di opinioni, un 14% si definisce di
destra (e un altro 3% di centro-destra).
Il quesito era il seguente:

ALCUNI HANNO SOSTENUTO CHE L'ITALIA È UN PAESE


TUTTO SOMMATO "PROVINCIALE".

In che misura sei d'accordo con questa affermazione?

Molto
Abbastanza
Poco
Per Nulla
Non so

Il 41% dei rispondenti si è dichiarato "molto d'accordo" con la frase e un


altro 47% ha detto di essere "abbastanza d'accordo". In totale fa l'88%. Un
plebiscito, insomma. Hanno detto di essere "Per nulla d'accordo" solo 2
rispondenti, uno del nord e uno del sud.
Sembra dunque che la provocazione di Ruggiero sia condivisa dai nostri
lettori. O, forse, più probabilmente, hanno risposto solo quelli che erano
d'accordo. Voi cosa ne dite?
Distinguere
David Meghnagi Confondere il problema dell'intolleranza con l'antisemitismo, istituire gli
stessi parametri interpretativi per spiegare l'ostilità contro chi la pensa
diversamente o chi viene da lontano per cercare lavoro e l'ostilità verso gli
ebrei può essere un errore gravido di conseguenze negative sul piano della
prospettiva e dell'educazione ai valori della tolleranza e della lotta al
pregiudizio antisemita.
Per quanto l'intolleranza ed il razzismo contro gli immigrati possano
presentare sul piano psicologico delle analogie con le forme tradizionali di
ostilità contro gli ebrei, si tratta in ogni caso di fenomeni distinti fra loro. La
chiarezza su questi problemi è una premessa necessaria per non aggiungere
altri danni a quelli già esistenti. Un errore del genere potrebbe legittimare
nella stessa prassi educativa l'idea perversa che gli ebrei di nazionalità
italiana, francese o tedesca per esempio non siano cittadini a pieno titolo.
Allo stesso modo occorre distinguere tra l'antisemitismo vero e proprio e le
forme tradizionali di antigiudaismo religioso e culturale. L'antigiudaismo
cristiano (che ha certamente fornito l'humus simbolico su cui si è in seguito
innestato l'antisemitismo razziale) lasciava pur sempre aperta attraverso la
conversione uno spiraglio di uscita dall'oppressione e dalla segregazione nei
ghetti. Per la teologia cristiana la "colpa" esistenziale dell'ebreo non era
incancellabile, poteva essere redenta col battesimo. Nella simbologia della
Chiesa la condizione di oppressione degli ebrei serviva a rappresentare il
trionfo della "nuova elezione" su quella più "antica". In questa logica
perversa l'antigiudaismo incontrava un limite nel passato ebraico della
nuova fede, nel fatto che "le promesse cristiane" trovavano un loro
fondamento ultimo nelle Scritture ebraiche, che il "nuovo patto" aveva in
ogni caso il suo fondamento in quello più "antico". Oltrepassare questo
limite significava rompere coi simboli costitutivi del Cristianesimo, la sua
trasformazione in qualcosa d'altro (si pensi all'eresia di Marcione).
Quel che nella tradizione antigiudaica del Cristianesimo era "una colpa"
spirituale, che poteva pur sempre essere superata col battesimo (e nella
visione liberale, socialista e comunista, poteva essere considerata un
anacronismo culturale superabile con l’"assimilazione"), nella logica del
razzismo diventava una colpa ontologica, una macchia indelebile e assoluta:
l'ebreo in quanto tale, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose e
ideologiche era "la personificazione del male". Per i nazisti l'ebraismo era la
controimmagine simbolica di un mito che nega l'unità stessa del genere
umano. Non a caso il nazismo individuava nel Cristianesimo e in tutte le
forme di universalismo secolare prodotte dalla civiltà europea, dal
liberalismo alla democrazia, dal socialismo al comunismo, una forma di
"corruzione ebraica", da cui i popoli "ariani" in nome di una pretesa
superiorità della razza si sarebbero dovuti "emancipare".
Il processo di emarginazione degli ebrei dal resto della popolazione tedesca
inizia molto prima dell'avvento del nazismo al potere, è profondamente
radicato nel modo in cui ha preso forma l'ideale nazionale tedesco, nei suoi
miti di fondazione. Come ha ben sottolineato Mosse, nella Germania
dell'Ottocento, dopo la breve parentesi della Bildung goethiana (l'ideale di
un miglioramento progressivo dell'uomo tramite l'elevazione culturale e
morale, in cui ebrei e non ebrei potevano riconoscersi e specchiarsi) era
subentrata un'idea di segno opposto che attribuiva valore all'appartenenza
"organica" al Volk germanico, con la conseguente scissione del principio di
cittadinanza da quello di appartenenza. Nella logica del nazionalismo
tedesco si poteva essere cittadini tedeschi senza per questo appartenere
realmente alla nazione tedesca. Il fatto di nascere in Germania, di parlare la
lingua tedesca, di condividere le aspirazioni dei propri concittadini non
modificavano il dato essenziale dell'appartenenza, che poteva al contrario
essere estesa alle minoranze che vivevano da secoli nelle regioni dell'Europa
orientale.
L'ostilità verso gli ebrei era accresciuta dal fatto che l'emancipazione in
Germania non è scaturita direttamente da un processo di cambiamento
interno, ma in un certo qual modo imposta dall'avanzata delle truppe
napoleoniche (che per non urtare la suscettibilità della popolazione tedesca
si sono affrettate a ridurne la portata). Di conseguenza l'emancipazione degli
ebrei in Germania diventava il simbolo stesso della dominazione straniera.
Lo sviluppo di una nazionalismo organico apertamente ostile ai valori della
rivoluzione francese contribuiva a coagulare in un unico registro l'ostilità
contro il dominio straniero e quello contro gli ebrei. Si tratta di premesse
che non vanno confuse con gli esiti di un secolo dopo. Perché il nazismo
prendesse il potere e il razzismo diventasse ideologia di Stato totalitario,
occorrevano tanti altri passaggi: l’abbrutimento prodotto dalla prima guerra
mondiale, il tracollo militare (che fu un tracollo di imperi), l'umiliazione
postbellica, la guerra civile ed il crollo della repubblica di Weimar. Si tratta
di passaggi molteplici dove non tutto era già prestabilito. Ma è importante
seguire le matrici culturali di un processo se si vuole intravederne in tempo
le implicazioni e gli esiti possibili.
Se Auschwitz è poi assurta a simbolo è perché la logica dello sterminio
nazista ha rappresentato un momento di rottura con ogni forma precedente
di persecuzione e pregiudizio. Non è solo l'entità della tragedia, resa
possibile dal carattere totalitario del regime nazista, ma la forma, il luogo e
la logica che l'ha guidata. Sotto un regime totalitario, come la storia
dell'Unione Sovietica insegna, può accadere di tutto, ma la logica del
totalitarismo nazista era portatrice di un rifiuto che rompeva con ogni traccia
possibile di umanesimo. Col nazismo è l'idea stessa dell'unità del genere
umano ad essere stata messa in discussione con la classificazione in "razze
superiori" e "inferiori". In questa ottica la distruzione dell'ebraismo faceva
tutt'uno con la distruzione dei valori fondanti della cultura occidentale, delle
sue aspirazioni egualitarie e dei suoi ideali di libertà.
Il fatto che tale ideologia si sia affermata nel cuore dell'Europa, nel paese
economicamente più sviluppato, e gli stermini di massa si siano consumati
al suo interno (e non in luoghi lontani) col silenzio delle Chiese, ha finito
col determinare nella coscienza europea e cristiana una frattura irriducibile e
paradigmatica. L'immagine dell'uomo ne usciva modificata, la fede e la
filosofia non erano più le stesse, agli occhi più sensibili la revisione
dell'insegnamento religioso cristiano sugli ebrei si imponeva come una
necessità etica. Non era più possibile tacere di fronte al fatto inquietante che
il cristianesimo col suo insegnamento secolare aveva reso possibile una tale
identificazione simbolica negativa degli ebrei in seno alle società europee.
Purtroppo l'antigiudaismo è una corrente sotterranea che attraversa
dall'interno l'intera storia della cultura. La lotta all'antisemitismo può avere
effetti duraturi se comporta una revisione innovativa e profonda della
tradizione religiosa, della cultura e della politica. Non a caso nella Germania
riunificata è nella parte orientale che ha ripreso corpo nel modo più
inquietante (sullo sfondo di una grave crisi economica e sociale) l'odio
antiebraico e la reazione xenofoba contro gli immigrati. Mentre nei paesi
"ex comunisti", dove fino a qualche anno fa l'antisemitismo veniva
mascherato di antisionismo, il dilagare della crisi economica e sociale ha
dato la stura ai più antichi pregiudizi e nella Russia di oggi si torna a parlare
di "complotto giudaico". Come cento anni fa la tentazione della Russia di
chiudersi a riccio su se stessa va di pari passo col riemergere dell'ostilità
verso gli ebrei e la loro identificazione simbolica con "il male" e con
"l'Occidente". Gli ebrei sono allo stesso tempo accusati di "aver tramato"
contro la Russia eterna con il comunismo e di completare la loro "opera
malefica" con "l'introduzione del capitalismo" e "l'erosione di ogni principio
di solidarietà".
Tra le varie forme di antisemitismo a cui si assiste oggi ve n'é uno su cui
non sarà mai sufficiente riflettere abbastanza, anche perché è il più
sfuggente e può operare contro ogni logica cosciente. Parlo di un
antisemitismo prodotto dalla tragedia di Auschwitz, dal suo impatto e
portata nella cultura tedesca ed europea. Le immagini dello sterminio
nazista sono all'origine di un sentimento di colpa persecutorio che alla lunga
può risultare intollerabile. Gli ebrei diventano colpevoli per il solo fatto di
ricordare con la loro esistenza certi eventi della moderna storia tedesca ed
europea. In questa ottica voler ricordare i propri morti diventa una colpa
perché quel ricordare impedisce ad altri di rimuovere e di dimenticare.

Nell'immaginario collettivo le nozioni di patria e nazione sono dei


rappresentati simbolici della madre, come tale investiti di idealizzazione. Se
tale immagine è danneggiata al punto da non poter più essere investita di
idealizzazione, ci si può inventare un passato diverso. Non potendosi
rappresentare come "innocenti", si può tentare di relativizzare la proprie
colpe ingrandendo quella degli altri, oppure inserendo la sequenza dei fatti
in processi più ampi, ributtando su altri il peso di un fantasma che opprime.
Evidentemente la posta in gioco non è solo la necessità di un giudizio
"obiettivo" dello storico su eventi complessi della moderna storia europea,
ma il sistema di simboli entro cui inscrivere il ruolo del proprio paese e della
propria appartenenza nazionale all'interno di un più ampio orizzonte
europeo. Siamo di fronte ad "un buco nero" che dall'interno corrode la
cultura e la capacità di pensiero, a traumi da cui non è possibile uscire
isolatamente. Il destino futuro dell'Europa è legato alla capacità di portare
tutti insieme un fardello il cui peso non può essere lasciato sulle sole spalle
di chi l'ha subito, né può essergli indebitamente tolto. Parole chiave come
democrazia e Occidente acquistano un significato diverso a seconda della
direzione che viene data alla ricostruzione del proprio passato nazionale e
dei simboli su cui è innestata. Questo aspetto dell'antisemitismo non può
essere limitato alla sola Germania, benché nella storia nazionale di quel
paese l'antisemitismo abbia assunto forme paradigmatiche. Si pensi per
esempio alla Polonia. Le responsabilità di questo paese in fatto di
antisemitismo non sono le stesse della Germania. Eppure anche lì vi è un
problema che coinvolge la sfera più intima dell'identità nazionale ritrovata.
Bisognerà pur sempre trovare una spiegazione, nell'immaginario collettivo
polacco, del perché la maggioranza dei polacchi abbia guardato con
indifferenza allo sterminio di tre milioni di loro concittadini ebrei; né si può
dimenticare che in quel paese si sia consumato all'indomani degli eccidi
nazisti un pogrom contro gli scampati che tornavano alle loro case.
Bisognerà pur sempre chiedersi onestamente perché, almeno sino all'arrivo
dei nazisti, era dalle Chiese, uno dei grandi simboli della libertà nazionale
ritrovata, che partivano le spedizioni contro gli ebrei. In forme diverse il
problema si ripropone con la Romania, l'Ucraina e la quasi totalità dei paesi
dell'Europa orientale dove la reinvenzione immaginaria del passato, propria
di ogni nazionalismo e di ogni rinascita nazionale, si scontra col fatto
ineludibile che la storia ebraica passata e più recente sta ad indicare che
certe rinascite non sono avvenute in modo innocente.
Le leggi razziali
Italia 1938 PROVVEDIMENTI NEI CONFRONTI DEGLI EBREI STRANIERI

REGIO DECRETO-LEGGE
7 settembre 1938-XVI, n. 1381

VITTORIO EMANUELE III PER GRAZIA DI DIO E PER LA


VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D'ITALIA IMPERATORE D'ETIOPIA

Ritenuta la necessità urgente ed assoluta di provvedere;


Visto l'art. 3, n. 2, della legge 31 gennaio 1926-IV, n. 100;
Sentito il Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Duce, Primo Ministro Segretario di Stato, Ministro
Segretario di Stato per l'interno;
Abbiamo decretato e decretiamo:

•Art. 1. Dalla data di pubblicazione del presente decreto-legge è vietato agli


stranieri ebrei di fissare stabile dimore nel Regno, in Libia e nei
Possedimenti dell'Egeo.

•Art. 2. Agli effetti del presente decreto-legge è considerato ebreo colui che
è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione
diversa da quella ebraica.

•Art. 3. Le concessioni di cittadinanza italiana comunque fatte a stranieri


ebrei posteriormente al 1í gennaio 1919 s'intendono ad ogni effetto revocate.

•Art. 4. Gli stranieri ebrei che, alla data di pubblicazione del presente
decreto-legge, si trovino nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell'Egeo e
che vi abbiano iniziato il loro soggiorno posteriormente al 1í gennaio 1919,
debbono lasciare il territorio del Regno, della Libia e dei Possedimenti
dell'Egeo, entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente decreto.
Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro il termine suddetto
saranno espulsi dal Regno a norma dell'art. 150 del testo unico delle leggi di
P.S., previa l'applicazione delle pene stabilite dalla legge.

•Art. 5. Le controversie che potessero sorgere nell'applicazione del presente


decreto-legge saranno risolte, caso per caso, con decreto del Ministro per
l'interno, emesso di concerto con i Ministri eventualmente interessati.

Tale decreto non è soggetto ad alcun gravame nè in via amministrativa, né


in via giurisdizionale. Il presente decreto entra in vigore il giorno della sua
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e sarà presentato al Parlamento per la
conversione in legge. Il Duce, Ministro per l'interno, proponente, è
autorizzato a presentare il relativo disegno di legge.

Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto
nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando
a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a San Rossore, addì 7 settembre 1938-Anno XVI

Vittorio Emanuele, Mussolini

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Le leggi razziali

PROVVEDIMENTI PER LA DIFESA DELLA RAZZA ITALIANA

DECRETO-LEGGE 17 novembre 1938-XVII, n.1728

VITTORIO EMANUELE III PER GRAZIA DI DIO E PER LA


VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D'ITALIA IMPERATORE
D'ETIOPIA

Ritenuta la necessità urgente ed assoluta di provvedere;


Visto l'art. 3, n. 2, della legge 31 gennaio 1926-IV, n. 100, sulla facoltà del
potere esecutivo di emanare norme giuridiche;

Sentito il Consiglio dei Ministri;

Sulla proposta del DUCE, Primo Ministro Segretario di Stato, Ministro per
l'interno, di concerto coi Ministri per gli affari esteri, per la grazia e
giustizia, per le finanze e per le corporazioni;
Abbiamo decretato e decretiamo:

CAPO I
Provvedimenti relativi ai matrimoni

•Art. 1. Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona


appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto
con tale divieto è nullo.

•Art. 2. Fermo il divieto di cui all'art. 1, il matrimonio del cittadino italiano


con persona di nazionalità straniera è subordinato al preventivo consenso del
Ministero per l'interno. I trasgressori sono puniti con l'arresto fino a tre mesi
e con l'ammenda fino a lire diecimila.

•Art. 3. Fermo il divieto di cui all'art. 1, i dipendenti delle Amministrazioni


civili e militari dello Stato, delle Organizzazioni del Partito Nazionale
Fascista o da esso controllate, delle Amministrazioni delle Provincie, dei
Comuni, degli Enti parastatali e delle Associazioni sindacali ed Enti
collaterali non possono contrarre matrimonio con persone di nazionalità
straniera. Salva l'applicazione, ove ne ricorrano gli estremi, delle sanzioni
previste dall'art. 2, la trasgressione del predetto divieto importa la perdita
dell'impiego e del grado.

•Art. 4. Ai fini dell'applicazione degli articoli 2 e 3, gli italiani non regnicoli


non sono considerati stranieri.

•Art. 5. L'ufficiale dello stato civile, richiesto di pubblicazioni di


matrimonio, è obbligato ad accertare, indipendentemente dalle dichiarazioni
delle parti, la razza e lo stato di cittadinanza di entrambi i richiedenti.
Nel caso previsto dall'art. 1, non procederà nè alle pubblicazioni nè alla
celebrazione del matrimonio. L'ufficiale dello stato civile che trasgredisce al
disposto del presente articolo è punito con l'ammenda da lire cinquecento a
lire cinquemila.

•Art. 6. Non può produrre effetti civili e non deve, quindi, essere trascritto
nei registri dello stato civile, a norma dell'art.5 della legge27 maggio 1929-
VII, n. 847, il matrimonio celebrato in violazionedell'art.1. Al ministro del
culto, davanti al quale sia celebrato tale matrimonio, è vietato
l'adempimento di quanto disposto dal primo commadell'art.8 della predetta
legge. I trasgressori sono puniti con l'ammenda da lire cinquecento a lire
cinquemila.

•Art. 7. L'ufficiale dello stato civile che ha proceduto alla trascrizione degli
atti relativi a matrimoni celebrati senza l'osservanza del disposto dell'art. 2 è
tenuto a farne immediata denunzia all'autorità competente.
CAPO II
Degli appartenenti alla razza ebraica

•Art. 8. Agli effetti di legge:


a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica,
anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica;
b) è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di
razza ebraica e l'altro di nazionalità straniera;
c) è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica
qualora sia ignoto il padre;
d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di
nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla
religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica,
ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non
è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità
italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del1í ottobre 1938-
XVI, apparteneva a religioni diversa da quella ebraica.

•Art. 9. L'appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata ed annotata


nei registri dello stato civile e della popolazione. Tutti gli estratti dei predetti
registri ed i certificati relativi, che riguardano appartenenti alla razza
ebraica, devono fare espressa menzione di tale annotazione. Uguale
menzione deve farsi negli atti relativi a concessione o autorizzazioni della
pubblica autorità. I contravventori alle disposizioni del presente articolo
sono puniti con l'ammenda fino a lire duemila.

•Art. 10. I cittadini italiani di razza ebraica non possono:


a) prestare servizio militare in pace e in guerra;
b) esercitare l'ufficio di tutore o curatore di minori o di incapaci non
appartenenti alla razza ebraica;
c) essere proprietari o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende dichiarate
interessanti la difesa della Nazione, ai sensi e con le norme dell'art. 1R.
decreto-legge 18 novembre 1929-VIII, n. 2488, e di aziende di qualunque
natura che impieghino cento o più persone, nè avere di dette aziende la
direzione nè assumervi comunque, l'ufficio di amministrazione o di sindaco;
d) essere proprietari di terreni che, in complesso, abbiano un estimo
superiore a lire cinquemila;
e) essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un
imponibile superiore a lire ventimila. Per i fabbricati per i quali non esista
l'imponibile, esso sarà stabilito sulla base degli accertamenti eseguiti ai fini
dell'applicazione dell'imposta straordinaria sulla proprietà immobiliare di
cui al R. decreto-legge 5 ottobre 1936-XIV, n.1743. Con decreto Reale, su
proposta del Ministro per le finanze, di concerto coi Ministri per l'interno,
per la grazia e giustizia, per le corporazioni e per gli scambi e valute,
saranno emanate le norme per l'attuazione delle disposizioni di cui alle
lettere c), d), e).
•Art. 11. Il genitore di razza ebraica può essere privato della patria potestà
sui figli che appartengono a religione diversa da quella ebraica, qualora
risulti che egli impartisca ad essi una educazione non corrispondente ai loro
principi religiosi o ai fini nazionali.

•Art. 12. Gli appartenenti alla razza ebraica non possono avere alle proprie
dipendenze, in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. I
trasgressori sono puniti con l'ammenda da lire mille a lire cinquemila.

•Art. 13. Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti
alla razza ebraica:
a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato;
b) il Partito Nazionale Fascista e le organizzazioni che ne dipendono o che
ne sono controllate;
c) le Amministrazioni delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza e degli Enti, Istituti ed Aziende,
comprese quelle dei trasporti in gestione diretta, amministrate o mantenute
col concorso delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza o dei loro Consorzi;
d) le Amministrazioni delle aziende municipalizzate;
e) le Amministrazioni degli Enti parastatali, comunque costituiti e
denominati, delle Opere nazionali, delle Associazioni sindacali ed Enti
collaterali e, in genere, di tutti gli Enti ed Istituti di diritto pubblico, anche
con ordinamento autonomo, sottoposti a vigilanza o a tutela dello Stato, o al
cui mantenimento lo Stato concorra con contributi di carattere continuativo;
f) le Amministrazioni delle aziende annesse o direttamente dipendenti dagli
Enti di cui alla precedente lettera e) o che attingono ad essi, in modo
prevalente, i mezzi necessari per il raggiungimento dei propri fini, nonché
delle società, il cui capitale sia costituito, almeno per metà del suo importo,
con la partecipazione dello Stato;
g) le Amministrazioni delle banche di interesse nazionale;
h) le Amministrazioni delle imprese private di assicurazione.

•Art. 14. Il Ministro per l'interno, sulla documentata istanza degli interessati,
può, caso per caso, dichiarare non applicabili le disposizioni dell'art 10,
nonché dell'art. 13, lett. h):
a) ai componenti le famiglie dei caduti nelle guerre libica, mondiale,
etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista;
b) a coloro che si trovino in una delle seguenti condizioni:
1.mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle
guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola;
2.combattenti nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola che abbiano
conseguito almeno la croce al merito di guerra;
3.mutilati, invalidi, feriti della causa fascista;
4.iscritti al Partito Nazionale Fascista negli anni 1919-20-21-22 e nel
secondo semestre del 1924;
5.legionari fiumani;
6.abbiano acquisito eccezionali benemerenze, da valutarsi a termini
dell'art.16.
Nei casi preveduti alla lett. b), il beneficio può essere esteso ai componenti
la famiglia delle persone ivi elencate, anche se queste siano premorte. Gli
interessati possono richiedere l'annotazione del provvedimento del Ministro
per l'interno nei registri di stato civile e di popolazione. Il provvedimento
del Ministro per l'interno non è soggetto ad alcun gravame, sia in via
amministrativa, sia in via giurisdizionale.

•Art. 15. Ai fini dell'applicazione dell'art. 14, sono considerati componenti


della famiglia, oltre il coniuge, gli ascendenti e i discendenti fino al secondo
grado.

•Art. 16. Per la valutazione delle speciali benemerenze di cui all'art. 14 lett.
b), n. 6, è istituita, presso il Ministero dell'interno, una Commissione
composta del Sottosegretario di Stato all'interno, che la presiede, di un Vice
Segretario del Partito Nazionale Fascista e del Capo di Stato Maggiore della
Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale.

•Art. 17. è vietato agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in
Libia e nei Possedimenti dell'Egeo.

CAPO III
Disposizioni transitorie e finali

•Art. 18. Per il periodo di tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente
decreto, è data facoltà al Ministro per l'interno, sentita l'Amministrazione
interessata, di dispensare, in casi speciali, dal divieto di cui all'art. 3, gli
impiegati che intendono contrarre matrimonio con persona straniera di razza
ariana.

•Art. 19. Ai fini dell'applicazione dell'art. 9, tutti coloro che si trovano nelle
condizioni di cui all'art.8, devono farne denunzia all'ufficio di stato civile
del Comune di residenza, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto. Coloro che non adempiono a tale obbligo entro il termine
prescritto o forniscono dati inesatti o incompleti sono puniti con l'arresto
fino ad un mese e con l'ammenda fino a lire tremila.

•Art. 20. I dipendenti degli Enti indicati nell'art.13, che appartengono alla
razza ebraica, saranno dispensati dal servizio nel termine di tre mesi dalla
data di entrata in vigore del presente decreto.

•Art. 21. I dipendenti dello Stato in pianta stabile, dispensati dal servizio a
norma dell'art.20, sono ammessi a far valere il diritto al trattamento di
quiescenza loro spettante a termini di legge. In deroga alle vigenti
disposizioni, a coloro che non hanno maturato il periodo di tempo prescritto
è concesso il trattamento minimo di pensione se hanno compiuto almeno
dieci anni di servizio; negli altri casi è concessa una indennità pari a tanti
dodicesimi dell'ultimo stipendio quanti sono gli anni di servizio compiuti.

•Art. 22. Le disposizioni di cui all'art.21 sono estese, in quanto applicabili,


agli Enti indicati alle lettere b),c),d),e),f),g),h), dell'art.13. Gli Enti, nei cui
confronti non sono applicabili le disposizioni dell'art.21, liquideranno, ai
dipendenti dispensati dal servizio, gli assegni o le indennità previste dai
propri ordinamenti o dalle norme che regolano il rapporto di impiego per i
casi di dispensa olicenziamento per motivi estranei alla volontà dei
dipendenti.

•Art. 23. Le concessioni di cittadinanza italiana comunque fatte ad ebrei


stranieri posteriormente al 1° gennaio 1919 si intendono ad ogni effetto
revocate.

•Art. 24. Gli ebrei stranieri e quelli nei cui confronti si applichi l'art.23, i
quali abbiano iniziato il loro soggiorno nel Regno, in Libia e nei
Possedimenti dell'Egeo posteriormente al 1° gennaio 1919, debbono lasciare
il territorio del Regno, della Libia e dei possedimenti dell'Egeo entro il 12
marzo 1939-XVII. Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro
il termine suddetto saranno puniti con l'arresto fino a tre mesi o con
l'ammenda fino a lire 5.000 e saranno espulsi a norma dell'art.150 del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 18 giugno
1931-IX, n. 773.

•Art. 25. La disposizione dell'art.24 non si applica agli ebrei di nazionalità


straniera i quali, anteriormente al 1° ottobrel938-XVI:
a) abbiano compiuto il 65° anno di età;
b) abbiano contratto matrimonio con persone di cittadinanza italiana.
Ai fini dell'applicazione del presente articolo, gli interessati dovranno far
pervenire documentata istanza al Ministero dell'interno entra trenta giorni
dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

•Art. 26. Le questioni relative all'applicazione del presente decreto saranno


risolte, caso per caso, dal Ministro per l'interno, sentiti i Ministri
eventualmente interessati, e previo parere di una Commissione da lui
nominata. Il provvedimento non è soggetto ad alcun gravame, sia in via
amministrativa, sia in via giurisdizionale.

•Art. 27. Nulla è innovato per quanto riguarda il pubblico esercizio del culto
e la attivita delle comunità israelitiche, secondo le leggi vigenti, salvo le
modificazioni eventualmente necessarie per coordinare tali leggi con le
disposizioni del presente decreto.
•Art. 28. è abrogata ogni disposizione contraria o, comunque, incompatibile
con quella del presente decreto.

•Art. 29. Il Governo del Re è autorizzato ad emanare le norme necessarie


per l'attuazione del presente decreto. Il presente decreto sarà presentato al
Parlamento per la sua conversione in legge. Il DUCE, Ministro per l'interno,
proponente, è autorizzato a presentare relativo disegno di legge.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto
nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando
a chiunque spetti di osservarlo e farlo osservare.

Dato a Roma, addì 17 novembre 1938 - XVII

Vittorio Emanuele, Mussolini, Ciano, Solmi, Di Revel, Lantini


Italiano in campus
Domenico Fiormonte Ho ricevuto in data 3 maggio 1997 una copia di un lancio fatto dall'ufficio
PR della Città Invisibile con allegato un mio messaggio di posta elettronica
inviato il 12 aprile alle liste di discussione Let-it (a cura di Giuseppe
Gigliozzi e Lettere Italiane (a cura di Emilio Speciale ). Questa nota si
riferisce al dibattito che ha preso il via da quella mia mail, piuttosto
amareggiata (e polemica), in cui riportavo ampi stralci di un articolo
pubblicato dal Guardian Higher Educational Supplement del 25 marzo
scorso (qui allegato). L'articolo, intitolato "Unfair Exchange" e a firma
Domenico Pacitti e James Meikle, è apparso tradotto da Alberto Cavallari
sull'Internazionale.

Chi non è iscritto a quelle liste non sa però che alla mia prima lettera, citata
integralmente nel lancio, ne sono seguite altre dove chiarivo il mio punto di
vista sull’università (italiana e non). La prima lettera dunque deve essere
considerata nel suo contesto di discussione aperta, perché tale è la natura dei
messaggi diffusi sulle liste attraverso la posta elettronica. Il tono e il
contenuto della mia prima lettera avevano scatenato reazioni contrastanti. Io
ed altri colleghi (non solo qui a Edimburgo) avevamo giudicato l'articolo del
Guardian offensivo e superficiale. Giulio Lepschy, durante la biennale
conferenza degli Italianisti britannici a Glasgow, mi aveva poi messo sulla
tracce di un altro articolo di Pacitti, ancora più offensivo del secondo e al
quale Bendetta Bini addetta culturale a Londra aveva risposto
pubblicamente.

All'invio della mia prima mail molti degli iscritti, non conoscendo i
precedenti, si sono arrabbiati o stupiti, pensando che io volessi difendere a
ogni costo l’università italiana da giuste critiche o attaccare i lettori stranieri.
Qualcuno mi ha dato del sindacalista della CGIL. Un pensionato-poeta
dell'Indiana mi ha risposto commosso citando Canetti e Frost. Fabio Girelli-
Carasi ha scritto che la mia difesa era comprensibile, ma non giustificabile,
rientrando nella categoria "solo io prendo a calci il mio cane". Un amico
incredulo mi ha risposto privatamente, sostenendo che in realtà, in un
accesso Stevenson-Flaubertiano (l'aria di Edimburgo), Pacitti Domenico era
moi, vittima e carnefice dell’università italiana a un tempo. Eccetera. In
generale, eccetto Nanda Cremascoli (preside di una scuola di Clusone),
pochi hanno avuto la bontà di analizzare a sangue freddo la situazione ed
andare al di là delle issues of contention del momento (lettori e caso
Erasmus).
Nella mia lunga replica, comunque sia, cercavo di spiegare la mia posizione,
frutto non tanto (o non solo) di un soprassalto d'Italico orgoglio, ma di una
consapevolezza maturata attraverso gli anni delle mie esperienze all'estero.
Qui sotto ne propongo ai lettori di Golem una sintesi, non senza ribadire
però che la pars destruens qui sotto dedicata al sistema americano non vuole
essere, nonostante la durezza delle mie denunce, una condanna integrale
verso quel sistema universitario, né una difesa trasversale dei difetti di
quello italiano.

[...]

1)«Tutta altra musica gli ottimi articoli di Burton Bollag e Andrew Gumbel
(citati da Girelli-Carasi, e apparsi sull'americano Chronicle of Higher
Education fra l'ottobre e il febbraio 1996), che si riferiscono sempre a casi
specifici e riportano correttamente nomi e cognomi delle fonti citate.
Insomma ammettiamolo: il Guardian ha preso una bella toppa pubblicando
l'articolo di un giornalista che è parte in causa (anche se la causa dei lettori è
una causa giusta). (n.b. poco sopra riportavo un messaggio del Pro-rettore
dell'Università di Siena che mi informava del fatto che Domenico Pacitti è
lettore nel dipartimento di Lingue di quella Università )».

[...]

A questo punto affrontavo il problema dei sistemi universitari, cercando di


ampliare il dibattito e suggerendo che se il nostro sistema è largamente
deficitario, altri sistemi hanno problemi diversi ma non meno importanti.
Cercavo, insomma, di spostare la discussione sul problema di modello di
formazione universitaria, invitando a riflettere su quello attualmente
vincente, cioè lo statunitense.

2) «Conosco gli USA da 15 anni, ho iniziato il mio PhD in una università


statunitense, ho passato più di un anno alla Complutense di Madrid ed ora
sono da settembre in UK. Ho visto da vicino diversi sistemi universitari
(almeno tre escluso quest'ultimo), ed ho il coraggio e l'orgoglio di dire, dopo
tutto questo peregrinare, che gli standard di qualità dell’università italiana
non hanno nulla da invidiare a quelli delle migliori istituzioni straniere. In
USA, in particolare, oltre a insegnare spagnolo e studiare per il mio PhD
sono stato assistente amministrativo del direttore dei Graduate Studies del
mio programma (RTC, Michigan Tech), e ho dovuto studiare il sistema
procedurale di ammissione, le regole scritte e quelle non scritte, i
finanziamenti, le raccomandazioni, l'insegnamento, i quality assessment,
ecc. Su questi temi ho raccolto materiale da altre fonti e altre università
(qualcuno forse si ricorderà della rivolta degli studenti graduate di Yale, che
provocò addirittura una censura ai docenti implicati da parte dell'American
Association of University Professors). Con questo materiale potrei
confezionare un libro più corposo di quello di Anne Matthews (Bright
College Years: Inside the American Campus Today). I problemi del sistema
universitario americano sono stati recentemente discussi anche su Humanist
(Discussion Group vol. 10.0819-10.0845), dove con pacatezza molti hanno
espresso la loro opinione, ma certo nessuno si è sognato di gettare fango sul
sistema nel suo complesso. Mi offro di mandare su questa lista (o
privatamente) la lettera-dossier da me raccolta durante il mio soggiorno
USA, dossier che è stato consegnato al Presidente dell’università ma che
non ha mai ricevuto risposta. Sono confortato dal fatto che ho trovato
confermate molte delle mie osservazioni nei casi discussi su Humanist. In
generale il problema statunitense può essere riassunto così:

I) L'UNIVERSITA' AZIENDA
A livello specifico la competizione su base commerciale e i tagli sempre più
duri alla spesa per l'education hanno in parte già prodotto:
a) un abbassamento del livello dell'insegnamento;
b) un livellamento della retribuzione;
c) il congelamento implicito del passaggio a "tenured" per moltissimi
insegnanti.
Già solo questi tre (quattro, compresi i tagli) fattori - come sa chiunque
abbia lavorato in un università americana - sono la causa di un aumento
inverosimile del livello di stress e di logoramento sociale all'interno dei
campus.

d) Il crescere del peso della didattica sugli studenti graduate che,


ricordiamolo, non sono riconosciuti come lavoratori (vedi appunto il caso di
Yale), sono pagati con stipendi di sopravvivenza (dai 500$ agli 800$ al
mese) e non possono protestare se il contratto prevede 20 ore settimanali ma
in realtà gli assignment sono per 30 o 40. Qualunque teaching assistant sa
che quando si hanno 20-25 studenti e si voglia dare loro un aiuto concreto,
la distinzione fra "contact hours" e preparazione è truffaldina, perché fa
decidere la seconda a dei calcoli astratti che nulla hanno a che vedere col
carattere "individuale" dell'insegnamento.

e) Il crescere del ricatto nei confronti dei graduate students produce un


impoverimento della ricerca di base: si ricerca su temi che impegnano per
brevi periodi, altrimenti non si riesce a pubblicare e alla fine del PhD non si
trova lavoro (il problema è non solo delle Humanities, questo tema è stato
affrontato drammaticamente in una recente conferenza a Madrid da Marvin
Minsky, IA).
II) DISCENTE E CLIENTE
f) La mentalità "quantitativa" tipica dei processi di valutazione scientifica (o
pseudotali) dà risultati devastanti quando viene imposta a settori alieni alla
quantificazione. L'introduzione, nella maggioranza dei college americani,
delle teaching evaluation anonime (da parte degli studenti) come criterio di
giudizio dell'insegnamento s'inserisce nel solco. Gli studenti (diritto,
beninteso, sacrosanto) compilano ogni term dei prestampati multiple-choice
che verranno distribuiti all'inizio del succesivo term all'insegnante (un
sistema di questo genere sarebbe stato un tempo il mio sogno di studente
della Sapienza). Tutto va bene però finché questo rimane uno strumento
"consultivo". Ma così non è. Quando l'università si auto-concepisce come
"struttura di servizio", lo studente si trasforma da discente in cliente. Cosa
produca il diffondersi di questa mentalità a livello pedagogico non è difficile
immaginare. Più la responsabilità cade sull'insegnante- commesso (e per
motivi diversi, tipo l'ipocrisia del politically correct, per cui siamo tutti
"peers" e abbiamo una "open door policy"), più il rapporto allievo-
insegnante si snatura, diventando impossibile da parte di chi insegna
esercitare la dose minima di "autorità" (parola tabù) che esige la transizione
fra uno stato di "minor conoscenza" a uno di "maggior conoscenza".
(Horkheimer definisce l'autorità una superiorità che si accetta e che viene
riconosciuta.) Per non parlare del problema del rispetto e della indipendenza
di giudizio, sempre più ardui da definire in un sistema che in certi casi non
prevede l'istituto della bocciatura (in molti college americani, compresi gli
Ivy League, non è previsto che uno studente non superi [fail] un corso. A
volte, se la preparazione è giudicata insufficiente, lo studente viene invitato
a ripetere il corso).

g) Le teaching evaluation costituiscono una fonte di manipolazione anche a


causa del perverso meccanismo della "media universitaria". Come molti
sanno, le scale di valutazione (riprese dal sistema militare), vanno in genere
da 1 a 5. Dove 1 sta per "poor" e 5 per "excellent". Mettiamo che la media
universitaria sia 4. Questo nella pratica significa che qualsiasi punteggio al
di sotto viene automaticamente (ma tacitamente) considerato dagli addetti
alle global performance evaluation (o dal tuo supervisor) "insufficiente".
Una volta stabilita la "media universitaria", tutto ciò che c'è fra l'1 e il 4
perde di significato, perché (conosce bene il fenomeno chi ha lavorato per
l'industria) è "fuori standard". In questa modo la scala di valutazione perde
totalmente di senso, innescando fra l'altro un potenziale meccanismo di
complicità - o peggio baratto.- fra allievo e insegnante.

h) La trasformazione in azienda di un sistema che veicola e produce


conoscenza non solo minaccia la nostra libertà di insegnanti e ricercatori,
ma mina quei processi di controllo di qualità della ricerca e
dell'insegnamento che sono il vanto del sistema industriale. Qui giova forse
una testimonianza personale. Durante il mio soggiorno al Michigan Tech mi
era stata assegnata la cura di un survey interno sul mio PhD Program
(Rhetoric and Tech Communication). Tale survey sarebbe stato distribuita
poi ad un "evaluation team" esterno, pagato dallo stesso dipartimento. Il
meccanismo della evaluation (al quale ho partecipato anche in veste di
accompagnatore del team) assomiglia molto a quello delle "job interviews"
aziendale dove l'agenda (il famigerato "scheduling") prevede impegni ogni
ora dalle 8 alle 20, tutto è organizzato al millesimo di secondo, il soggetto
non viene lasciato solo per un istante. Pur ammettendo che un tale
trattamento produce una impressione di accuratezza e efficienza altissima,
bisogna notare che in questo modo il controllo esercitato sui controllori è
massimo. Ai valutatori non rimane un solo minuto per guardarsi intorno e
ogni informazione (o richiesta di) viene filtrata attraverso i "dipendenti" del
campus. Tutta questa complessa procedura si svolge nella convinzione e
fiducia reciproca che le informazioni date siano corrette. Il team a questo
punto, stremato da decine di cene e incontri, se ne torna a casa con un bel
malloppo di dati da scartabellare e da verificare. Nel nostro caso, purtroppo,
i dati della survey erano stati elaborati dallo stesso dipartimento: un graduate
student del dipartimento raccoglieva i questionari dai quali si sarebbero
ricavati i diagrammi di "gradimento" sul dipartimento stesso. Finalmente,
entrambi i "valutatori" figuravano nel comitato editoriale della rivista diretta
dal capo del dipartimento sotto esame. Il graduate student incaricato della
elaborazione ero io, e a causa dei miei dubbi (espressi in maniera assai
diplomatica, cercando di sottrarmi all'incarico), sono entrato in rotta di
collisione col capo del dipartimento. In seguito, a causa di una mia
improvvisa (e a quel punto, crediateci o no, sincera) malattia il capo del
dipartimento e il direttore dei Graduate Studies hanno portato a termine da
soli la survey. Questo dopo aver prima chiesto al "system administrator" di
violare la mia password personale e prelevare i file che servivano dal mio
archivio. Questa invasione della privacy (denunciata e puntualmente
ignorata) ha definitivamente pregiudicato la mia permanenza. Da tutta
questa storia (violazioni a parte) ho tratto una lezione molto chiara: quando
un dipartimento, per sopravvivere, deve imparare a pianificare una strategia
di mercato, pubblicità e propaganda diventano vitali.

i) Ultimo punto, forse il più preoccupante, da quanto detto sopra consegue


che gli studenti di MS e PhD vengono sempre più selezionati non in base
alle loro "academic performances", ma in base alla loro resistenza ai ritmi
dell’insegnamento e alla loro flessibilità sul luogo di lavoro (spesso gli
studenti svolgono lavori di segreteria, ecc.). Di tutte le deformazioni questa
è certamente la più pericolosa perché fonde la nozione di lavoro retribuito
con quella di studente ricercatore, eliminando l'indipendenza del secondo e
distruggendo i diritti del primo.

III) FUNZIONE E CONOSCENZA

Tutti questi fenomeni, intrecciati come sono, innescano una miscela


esplosiva. La competizione di tipo commerciale, inserita nel mondo della
ricerca e dell'insegnamento, a lungo termine rischia di fagocitare il
significato della parola education, intesa come processo di acquisizione
della conoscenza (oltre che di specifiche skills) all'interno del suo universo
di valori. Ciò che rischia di diventare bagaglio acquisito e coscienza
collettiva è dunque l'equivalenza, certamente aberrante, fra "funzione" e
"conoscenza", dove per funzione s'intende: efficienza, performance,
funzionalità, commerciabilità del prodotto (i valori dell'industria). Chi fa le
spese di questo processo? Le "improduttive" facoltà umanistiche
innanzitutto, ma non solo. Dopo l'anello debole verranno gli anelli forti.

Ci troviamo di fronte a una crisi globale dei sistemi educativi e nel mettere
mano a questa crisi io intravedo una spaccatura e un bivio. Sul campo si
affrontano due forze, a sua volta riflesso di delicati equilibri economici,
storici e culturali che stanno lentamente venendo al pettine: un modello
anglosassone, rappresentato dal sistema americano (e dai suoi cloni più o
meno temperati) e un sistema europeo, il cui modello non esiste, ma che è
giunto il momento di inventare. Molto si sta muovendo in UK, un sistema
selettivo con ossatura pubblica, ma vedo più analogie fra il sistema
americano e quello britannico (nelle sue ultime tendenze) che fra
quest'ultimo e quello francese. Si attendono con trepidazione le mosse del
nuovo governo laburista che, ricordiamolo, durante la campagna elettorale
ha messo al centro dei suoi programmi riformatori proprio scuola e
università.

Il punto discriminante rimane che cultura, istruzione e formazione si


possano fare a prescindere o attraverso la regolazione e il finanziamento
dello stato. Nonostante tutti i suoi difetti, io sono per il secondo. Soprattutto
perché non innesca un processo - a mio avviso - irreversibile.

Vedo un potenziale conflitto fra i due sistemi, un conflitto pericoloso, ma


INEVITABILE. Un conflitto che, perché'negarlo, non esiterei a definire di
culture. A questo conflitto, per quanto mi riguarda, con tutto quello che
questa battaglia implica per la qualità della nostra vita futura, non ho
nessuna intenzione di sottrarmi.

I mali dell’università italiana non hanno un corrispettivo, come molti


ingenuamente credono, nelle virtù dei sistemi stranieri. Discutiamone pure,
ma sempre tenendo presente che questa è una crisi generale dei modelli
educativi, una crisi che - inutile dirlo - ha radici altrove, nella
ristrutturazione industriale (e poi sociale) degli ultimi 15-20 anni e dunque
nella sostituzione, all'interno della coscienza collettiva, di un paradigma di
progresso sociale con uno di avanzamento economico. ("Prossimo è
l'avvento di un mondo dove gli uomini saranno governati dai loro interessi e
non da valori.", Alberto Cavallari, La Repubblica, domenica 3 luglio 1994.)
Di questo dobbiamo parlare, secondo me. C'è chi pensa di risolvere i mali
dell’università pubblica con forti iniezioni di competitività, di privato, di
efficienza, di legami con l'industria - col "mondo del lavoro" (il lavoro di
chi?). Follia - e soprattutto bugia.
L'apertura di credito nei confronti del sistema "commerciale" è sbagliata
poiché ha un contenuto ideologico. Ci troviamo di fronte a un "credo" (o se
preferite un termine postmoderno, a un discourse) i cui tratti venivano
qualche anno fa riassunti da Giovanni Raboni con l'espressione "etica
aziendale": "E' lo spirito dell'azienda. Col ricatto che comporta a vincere. E
questo, pensate, è del tutto acquisito dallo spirito pubblico." (Il Manifesto,
19 aprile 1994, p. 25.) So a quali critiche mi espongo dicendo quanto segue,
ma sono convinto che questo processo di emasculazione del dissenso
attraverso il ricatto "etico" sia più pericoloso di 40 anni di democrazia
cristiana, baroni, mafia, corruzione e stragi. Tutto si può cambiare (e lo
cambieremo), tranne un credo e la sua narrative. Un credo porta solo
distruzione e, nel nostro caso (università ricerca, ecc.), lobotomizzazione del
sapere.

Quante sono le voci che criticano (penso al grande Erwin Chargaff o a


Joseph Weizenbaum) le magnifiche sorti del sistema commerciale? E quali
mezzi, quali strumenti hanno? Ma soprattutto: chi è disposto a starle a
sentire?

Eppure ecco che arriva il Guardian fa un bel discorsetto sull'Italia corrotta e


tutti gli andiamo dietro, senza capire, senza riflettere su che cosa vogliono
dire queste critiche, cosa presuppongono, quale modello educativo
suggeriscono e perchè. L'andazzo generale non ci permette di abbassare la
guardia nei confronti di nessuno - nemmeno del Guardian, che, come molti
sanno, ha sull'educational system idee considerate da molti conservatrici (è
per esempio per un ritorno ai "Politecnici", che in UK sono delle università
di serie B destinate alla specializzazione delle classi medio-basse.)

Da quali pulpiti vengono queste bellissime prediche? Questa è l'unica


domanda che intendevo pormi e qui sta il significato più profondo della mia
protesta contro il fango sull'Italia.»

ADDENDUM
Carlo Testa, della British Columbia a Vancouver, a proposito di questa mia
frase commentava: "Bisogna essere grati alle critiche da dovunque vengano.
Non lo dicono anche i cattolici che i sacramenti valgono anche se
amministrati da un prete indegno? E allora, per quanto "indegni" possano
essere gli anglosassoni, si faccia buon uso di ciò che di utile essi possano
rivelare". Sono assolutamente d'accordo. Ma un conto sono delle critiche, un
conto una campagna diffamatoria che tutto distrugge e tutti mette sullo
stesso piano, critici, giornalisti, baroni, corrotti - e persino i poveri lettori.
Les Immortels
Carlo Bertelli L’Immortel cinse la sottile spada al fianco, s’inchinò leggermente agli altri
suoi simili e pronunciò il discorso d’insediamento. E’ d’uso da tempo
immemorabile all’Académie che il nuovo entrato celebri le virtù di colui cui
è succeduto. In questo caso l’immortale entrante era il più popolare e il più
televisivo degli storici dell’arte italiana mentre il suo predecessore era stato
un popolarissimo presidente degli Stati Uniti, Richard Milhous Nixon.
Cavallerescamente Federico Zeri attribuì le disgrazie di Nixon all’infame
televisione, senza la quale lo scandalo Watergate non vi sarebbe stato e la
nostra storia sarebbe andata diversamente. Ricordò che Nixon era stato
amico della signora Frick, ossia della proprietaria della più splendida
galleria d’arte antica, aperta al pubblico e dotata d’una importante fototeca -
ancora direi la più importante - di New York.
L’amicizia fra Nixon e la signora Frick è ben documentata. I Fricks sono da
generazioni repubblicani e durante l’ultima campagna elettorale cui
partecipò, il futuro presidente fu accolto nella galleria con un sontuoso
ricevimento cui presero parte gli invitati più qualificati. Nixon era molto
stanco. Era la prima volta che metteva piede nella Frick. Fu accompagnato
nel salone, quello in cui alcuni fra i massimi capolavori dell’arte italiana e
olandese ti guardano. Adocchiò l’ampio divano, vi si sprofondò
pesantemente e pronunciò una frase che subito circolò negli ambienti
democratici di New York: "What a nice place for a snap downtown!".
Può darsi che fossero maligne voci messe in giro dai democratici, anche se
la storia assomiglia molto a quel poco che sappiamo di lui.
Ritengo comunque che la successione a Nixon sugli scanni dell’Académie
abbia certi aspetti di nemesi. Lo dico perché durante un viaggio a Palm
Springs mi fermai in un albergo, fra Palm Springs e Spring Desert, costruito
come una missione spagnola. Nel patio si poteva ammirare una torre bianca
con un complesso carillon. Alle mezz’ore da una porticina usciva un lungo
corteo di figure meccaniche che rappresentavano un monaco, un vescovo,
un indio convertito, un soldato spagnolo, la Morte. Mi ero fermato a
osservare la scena e quando tutte le figure erano sfilate ed erano state in
parte assorbite da un’altra porticina, lasciando visibile sul posto soltanto la
Santissima Trinità, un cameriere mi chiese premurosamente se volevo
visitare le catacombe, che sarebbero state sul prezzo della mia
consumazione.
Scese due rampe di scale mi trovai in un corridoio fiancheggiato di arcosoli
con pitture di vago sapore catacombale. La maggiore sorpresa, per che abbia
qualche esperienza delle catacombe romane, non stava però nell’imitazione
più o meno felice dei temi reperibili nelle cartoline illustrate che si vendono
in quei luoghi ricchi di storia, ma nel lusso sfrenato di quelle catacombe
alberghiere.
Tutto era marmo e del marmo più lucido. Spessi vetri proteggevano le
pitture e l’illuminazione artificiale era degna della Funerary Home di
Madison. Lastre di marmi colorati artificialmente chiudevano i finti loculi e
l’occhio scorreva sulle iscrizioni: Christos Soter, Martyri Benemerenti....
Superato un diverticolo e poi un altro, ci trovammo in un’area più ampia,
una vera cappella. Ancora arcosoli, ancora nomi di martiri e, sulla parte di
fondo, un altare con regolare fenestrella confessionis. Dietro, sul muro, una
grande lastra di marmo nero con l’iscrizione in oro: IN THIS CHAPEL
MARRIED RICHARD MILHOUS NIXON LATER TO BECOME
PRESIDENT OF THE UNITED STATES.
Avevo già sentito il racconto della visita alla collezione Frick e, dopo quella
mia ispezione catacombale, fui sempre più portato a credere che fosse vero.
Tempus ulter, almeno nelle piccole cose, avrà pensato qualche accademico
come me al corrente di quanto ho riferito.
E' possibile una Biblioteca Multimediale?
Giulio Blasi Il dibattito (insulso) sulla morte (vera o falsa, presunta, annunciata,
imminente o meno) del libro e sui rapporti tra editoria tradizionale e editoria
multimediale ha dimenticato sinora un tema di grande rilievo: è possibile
immaginare una Biblioteca Multimediale che, al pari delle biblioteche
tradizionali, raccolga, mantenga utilizzabili e consultabili nel tempo le opere
oggi realizzate su supporti elettronici?

In genere questo problema viene focalizzato puntando sulla questione della


deperibilità dei supporti (ad esempio, quanto tempo rimarrà utilizzabile e
leggibile un floppy disk o un Cd-ROM?). Ma il problema più grave è
costituito dall’evoluzione dell’hardware (computer e periferiche) e
dall’evoluzione del software (sistemi operativi, linguaggi di
programmazione, piattaforme di sviluppo, ecc.). Anche supponendo che un
Cd-ROM abbia un tempo di conservazione di 100 anni (poniamo) siamo di
fronte al paradosso che - allo stato attuale di evoluzione della tecnologia -
niente garantisce che il contenuto di quel cd risulterà in qualche modo
utilizzabile dopo 100 anni. Immaginate la situazione: microprocessori
radicalmente diversi dagli attuali, un sistema operativo Windows 2100 a
1600 bit (?), supporti di memoria completamente nuovi (quindi niente lettori
di Cd ROM), ecc.

La società per la quale lavoro (Horizons Unlimited) ha in piedi due progetti


che pongono in primo piano il problema - oggi ancora sottostimato - della
conservazione e della ri-utilizzabilità dell’editoria multimediale nel corso
del tempo.

Il primo progetto è Encyclomedia, la guida multimediale alla storia della


civiltà europea diretta da Umberto Eco e pubblicata da Opera Multimedia .
Quest’opera ha richiesto anni di lavoro e molti miliardi di investimenti e
sarebbe davvero spiacevole immaginare che tra 10-15 anni una tale mole di
lavoro potrebbe diventare inutilizzabile dai possessori di un personal
computer (in qualunque cosa tale strumento si sia trasformato nel
frattempo). Ovviamente questo è un problema che si pone per tutte le case
editrici impegnate sul fronte del multimedia (tra le italiane ricordo:
Mondadori , De Agostini , RCS, Giunti, ecc.).

Il secondo progetto si chiama Multimedia Arcade ed è in corso di


realizzazione a Bologna in collaborazione con la locale Amministrazione
Comunale. Umberto Eco ne ha parlato in una recente intervista sul mensile
americano Wired. Il progetto prevede per l’appunto la creazione di una
Biblioteca Multimediale e quindi il tema ci interessa piuttosto da vicino.

E’ evidente che soluzioni sono possibili e praticabili ma il fatto è che


nessuno sinora si è preoccupato di proporne su larga scala. Per una ragione
abbastanza semplice: anche se il computer ha 50 anni di storia (circa),
l’editoria multimediale ne ha solo 10 (scarsi) ed è quindi abbastanza difficile
focalizzare il problema di cui sto trattando (anche se è già concretamente
esperibile dall’utente esperto con una storia personale di uso del computer
maggiore di 5 anni). Il problema si porrà in modo acuto tra 5 anni quando
gli editori multimediali scopriranno i costi e i problemi legati al
"mantenimento in vita" dei loro cataloghi.

Come si risolverà questo problema? Beh, è ovviamente ridicolo che io


proponga un’idea sistematica al riguardo in questa sede. Però posso dare un
suggerimento, sensato sul lungo periodo.

Esiste un tipo di software oggi ancora sconosciuto ai consumatori di editoria


multimediale: si tratta dei cosiddetti "emulatori", programmi che permettono
di far girare su una data macchina pezzi di software scritti per una macchina
diversa (ad esempio, un computer del passato). I possessori di computer
Mac, ad esempio, possono trovare in rete una vera e propria miniera di
programmi di questo genere che permettono di utilizzare software scritto per
sistemi ormai del tutto obsoleti: l’ATARI 800, il Commodore 64, addirittura
il PDP-8, ecc. (il sito di Emulation Net è ricchissimo di programmi del
genere). Cose simili esistono ovviamente anche per Microsoft Windows e
Unix.

Potete allora immaginare lo storico del futuro (del 2100, poniamo) in una
biblioteca multimediale dotata di computer un po’ particolari sui quali
girano sistemi operativi un po’ diversi dal normale perché sono in grado di
emulare grandi quantità di sistemi del passato. Il nostro ultranipote troverà
in un catalogo on-line il titolo "Encyclomedia" attribuito ad un noto
poligrafo del secolo precedente, tale Umberto Eco. Il suo sistema operativo
(MS Windows 2100, appunto) sarà in grado di "datare" il software con il
quale il prodotto è stato realizzato un secolo prima e di attivare l’emulatore
giusto che ne permetterà la consultazione.
Questo per ciò che attiene ad ipotesi futuribili e che in fondo ci riguardano
poco. E’ invece certo che dovremo occuparci, sempre più nel futuro
prossimo, di elaborare progetti e strategie al riguardo, di costruire modelli
operativi e sperimentazioni efficaci, di sottoporre il problema alla comunità
internazionale degli editori multimediali affinché finanziamenti adeguati
siano destinati alla ricerca in questa direzione.

Il progetto Multimedia Arcade - nato da un’idea di Eco e dal progetto


operativo di Horizons Unlimited - potrebbe divenire la prima sede
internazionale per riflettere sul problema. Siete anzi invitati a spedire
suggerimenti e proposte.

Se non faremo questo (cosa che non possiamo escludere a priori) vorrà dire
che l’editoria multimediale di cui oggi ci occupiamo è destinata a tempi di
sopravvivenza brevissimi, incomparabilmente più brevi di quelli degli altri
media. I bit oggi codificati con tanto dispendio di denaro ed energie si
trasformeranno in inutili atomi.
Per forza e per amore
Giovanna Grignaffini Ordine, disordine, armonia. Stabilità, crisi, nuovo equilibrio.
Volendo leggere le recenti vicende della vita politica italiana, secondo uno
schema capace di contenerne le incessanti fluttuazioni, la struttura
elementare del racconto si presenta come particolarmente appropriata. Dalle
varie finanziarie alla crisi albanese, dai ripetuti voti di fiducia alle deleghe
concesse al governo, dal progetto di riforma del welfare ai lavori della
Commissione bicamerale, dalle esternazioni di Bertinotti a quelle di Dini,
dalle ordinarie tenute del Parlamento agli improvvisi crolli del numero
legale, è infatti tutto un aprirsi, sciogliersi, riaprirsi di crisi. Con l’unica
certezza di un provvisorio lieto fine e di una instabilità permanente che ha
accelerato i propri ripetuti movimenti. Fino al punto di trasformare un calmo
governo che si pensava di legislatura in semplice e movimentato governo ad
horas.
Ma lungo la soglia esilissima che separa e collega il ciclico andamento delle
crisi secondo scansione ritmica sempre più incerta ed abbreviata e un
modello narrativo apparentemente sempre più solido, qualcuno comincia ad
interrogarsi circa la capacità di interpretazione che la struttura elementare -
lineare ed orizzontale - del racconto offre rispetto al presente della nostra
vita politica.
Perchè, per esempio, potremmo trovarci di fronte ad un movimentismo di
superficie che non altera la stabilità di una scena profonda il cui ordine,
indelebilmente fissato dal voto dell’aprile 1996, non presenta alternative
possibili almeno a medio termine.
Ma, aggiungere la dimensione spaziale dalla profondità a quella
esclusivamente temporale implicita nel concetto di crisi, non modifica i
termini della questione, visto che i conflitti in atto potrebbero essere radicati
in ben altra sostanza rispetto a quella esilissima che appare quotidianamente
nelle diatribe della scena pubblica.
Il fatto è che i modi per dare forma a una complessità (che tali sono sia la
società italiana contemporanea sia l’alleanza di governo uscita vincitrice
dalle ultime elezioni) non si lasciano facilmente rappresentare dalle logiche
lineari o binarie: quelle in cui o c’é conflitto o c’é ordine, o ci sono riforme
di struttura o c’é governo dell’esistente, o c’é perfetta identità di vedute o
c’é differenza inconciliabile di punti di vista, o c’é "per forza" o c’é "per
amore".
No, potrebbe essere molto più semplice - non risolta, ma più semplice da
analizzare, valutare e risolvere - la situazione politica italiana se solo
qualcuno cominciasse a "pensare almeno due cose contradditorie
contemporaneamente" senza disporle lungo la catena ordinatrice dello
spazio e del tempo: per esempio, conflitto e convivenza, identità e
differenza, governabilità e utopia.
Sarebbe molto più semplice se qualcuno cominciasse a pensare che, in
questa storia, Rifondazione Comunista sta con il governo Prodi per forza e
per amore. E viceversa.
In attesa che cominci un’altra storia.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

L’Autogolem incomincia (punto 1) con un autogolem, e di lì procede,


inchiavardando ics e ipsilon secondo le regole enigmistiche del lucchetto.
Le prime due ics di 1 si andranno a unire alle due ics finali di 10, a ottenere
un comune emiliano che diede i natali a una famosa pantera.

1. ESPERTO IN CABALA

"Io l’ho letto, Gerhard Scholem,


e so bene cos’è un xxyyy".

2. FALSE ETIMOLOGIE

Il cronista è al cronicario.
Chi è campione ha il campionario.
La lambada ha il lambadario.
Chi va lemme ha il suo yyyxxxxx.

3. FALSO DIMINUTIVO

Fu "mariuolo" la sua offesa.


Il suo nome è Xxxxx Yyyyyy.

4. EAU DE CHE
Non sarò molto à la page:
non capisco quel battage
che riguarda il maquillage.
Che vuol dire? Yyy y "Yyxxxxx"?

5. ACINI IN ASPIC

Sembra tutta un’altra cosa,


quell’xxx xxyyyyyyyy

6. AMMIRO MARZIALE

Devo dire che mi piace


il suo yyyyyy yyxxxx

7. A LUME DI CANDELA

Stasera è doppio il languore:


c’è xx xxyyyyy y’yyyyy

8. NON DEVI PAGARE ALCUNA SOVRAIMPOSTA

Questa cifra che t’accolli


è yyyyy yy yyyy x xxxxx

9. HO FAME!

Butta presto il maccherone:


l’acqua è già in xxxxxxyyyyy

10. POLITICALLY CORRECT

Ha capanna e cuor (è vero):


Tom è il nome, è lo yyy yyxx.

Soluzioni

1. golem
2. lemmario
3. Mario Chiesa
4. Chi è "sauvage"?
5. uva gelatinosa
6. latino salace
7. la cenetta d'amore
8. netta da more e bolli
9. ebollizione
10. zio nero
Sessualità dopo i 40
Roberta Ribali Certamente, la vita sessuale cambia: ma declina o progredisce?

Luoghi comuni e battute spiritose (sempre in ritardo di qualche decennio


rispetto alla realtà antropologica...fateci caso!) sembrerebbero aver già dato
un verdetto.
Sussurri e rimpianti fra amici, paragoni più espliciti e realistici fra amiche -
gli uomini fanno fatica a dichiarare un "insuccesso", mentre le donne sono
più aduse a parlare fra loro, operando dei distinguo, anche perché arrivare
all’orgasmo al femminile è sempre stato così complicato...
Proviamo a entrare un po’ più in profondità.
La fisiologia ci insegna che col tempo intervengono nell’uomo naturali
abbassamenti dei livelli ormonali che, sommati a lievi disfunzioni
circolatorie e metaboliche, determinano dei cambiamenti nelle modalità
sessuali. Ci si può aspettare quindi di necessitare di maggiori stimoli diretti
per avere un’erezione, che può essere non così completa e duratura. Il
desiderio si modifica e si può provare la pulsione sessuale con meno
frequenza di prima. A volte ciò porta ad una durata maggiore dei rapporti,
con meno ansia: fra un’erezione e un’altra passa più tempo, l’urgenza
scompare e, se si evita l’angoscia della performance, l’erotismo si sviluppa
con maggiore ricchezza.
Per la donna le aspettative sono diverse: rispetto solo a uno-due decenni
orsono, la salute, la presenza e l’eros femminili sono diventati
un’appannaggio quasi illimitato e la donna di 40-50 anni e oltre si sta
rassicurando sempre un po’ in ritardo.....del suo valore di persona e di
partner erotico. I mutamenti ormonali sono controllabili
farmacologicamente: le donne che usano terapie ormonali sostitutive sono
ormai molte, in Italia soprattutto nelle classi sociali privilegiate. Viene
conservata così l’elasticità e la tonicità degli organi genitali, evitando quelle
patologie atrofiche che rendevano un tempo dolorosi e difficili i rapporti
dopo la menopausa. In più, l’ansia di una gravidanza indesiderata non ha più
ragione di esistere e l’esperienza del proprio corpo e della propria sessualità
è ormai completa, il raggiungimento dell’orgasmo, che magari è stato
difficile all’inizio della vita sessuale, è acquisito. La donna matura ha
imparato a conoscersi e a lasciarsi andare di più, superando con l’esperienza
molti condizionamenti repressivi.
In altre parole, nel tempo si può realizzare tutta una serie di condizioni che
possono permettere alle persone di diventare degli ottimi amanti, dando e
ricevendo il massimo del piacere.
Il che ha poco a che fare con il massimo della prestazione fisica.
Qui si dovrebbe discutere un altro pregiudizio: una coppia ben affiatata
eroticamente può continuare ad esserlo anche dopo anni, contrariamente a
ciò che spesso si sostiene.
Le coppie che hanno una buona e duratura vita sessuale non scrivono ai
giornali, non compaiono in televisione, non fanno notizia, ma ce ne sono e
molte.
Il desiderio e le modalità espressive cambiano, ma soprattutto aumenta la
sicurezza in se stessi e nel partner. Il che è una base psicologica
fondamentale che non dovrebbe essere scalfita dalle normali aspettative di
invecchiamento biologico.
La donna, si sa, è avvantaggiata: può iniziare e portare a termine un rapporto
in qualunque momento, anche psicologicamente non ottimale. Per l’uomo è
ben diverso: l’esperienza di una insufficiente o mancata erezione può essere
drammaticamente frustrante, innescando una forte ansia da prestazione
anche nei rapporti futuri.
Un uomo di una certa età può arrivare al punto di rimuovere e negare il
proprio desiderio, più o meno consciamente, a causa della fortissima ansia
che gli procura il timore di poter avere un’erezione insufficiente, di "non
riuscire".
A volte un uomo preferisce raccontarsi di essere diventato impotente
piuttosto che affrontare la paura del fallimento, concludendo in questo modo
definitivamente la propria vita sessuale, etichettandosi tout-court come
ormai "troppo vecchio". La sua partner, per timore di giudizi sociali e
personali negativi, tace e acconsente magari di malumore: ma il verdetto è
inappellabile.
Ho incontrato molte donne insoddisfatte ma complici involontarie di queste
situazioni: ricordo una signora che si lamentava della presunta parziale
impotenza del marito. Ma durante i colloqui era emerso che, data
un’educazione molto repressiva, lei non aveva mai preso alcuna iniziativa
per facilitare l’erezione del partner, che avrebbe dovuto, secondo le sue
aspettative, essere immediata, completa e duratura alla sola prospettiva di
avere un rapporto. Ciò in assenza o quasi di stimoli diretti: carezze,
preliminari vari, rapporti orali e così via: Il marito ha sempre sostenuto
questa posizione con grande e comprensibile fatica: a un certo punto si sono
presentate delle ovvie défaillances e lui si è recato dal sessuologo,
chiedendo un rimedio miracoloso per "tornare come prima".
In un lungo e paziente lavoro questa coppia ha scoperto che il piacere
sessuale non è direttamente proporzionale al numero e all’intensità delle
erezioni maschili.
I preliminari erotici hanno una denominazione poco felice: essi stessi
possono essere grande sorgente di piacere in una coppia matura e affiatata,
anche se non preludono immediatamente a una penetrazione e a
un’eiaculazione. Possono consentire una bellissima intimità, prolungata nel
tempo, senza la fretta di concludere il rapporto. Certamente, facilitano per
un uomo un’erezione soddisfacente e per la donna possono essere un mezzo
per arrivare all’orgasmo senza caricare il partner di pressione psicologica
eccessiva, attutendo le aspettative e azzerando le paure e le angosce.
Inoltre, le medicina può migliorare e risolvere sia eventuali problemi
ginecologici che andrologici, le condizioni metaboliche e circolatorie
possono essere ben controllate (diabete, arteriosclerosi e vascolopatie
periferiche, insufficienze epatiche e altro) e così le carenze ormonali e le
interazioni farmacologiche. Anche la depressione psichica è un evento grave
che determina, anche se si presenta in forma leggera, un calo dell’interesse
per la sessualità: un adeguato intervento psicologico e farmacologico rende
del tutto reversibile la situazione, riportando la persona a interagire
affettivamente col partner.

Il dialogo, insomma, è aperto: la vita sessuale si arricchisce, e volte si ferma,


ma poi riparte e si sviluppa così come si sviluppa la persona che vive i suoi
anni in dinamico contatto con se stessa e con gli altri.
Nuvole in viaggio
Rossana Di Fazio Ci sono film che è davvero difficile riassumere o raccontare.
Ho la sensazione che siano quelli che credono di più al linguaggio
cinematografico, alla capacità delle immagini di raccontare e non solo di
illustrare e mostrare una storia.
Vorrei rivedere Nuvole in viaggio del finlandese Akï Kaurismaki e contare
le parole dei dialoghi. Credo che non superino le due, trecento: è un film di
poche, ma buone, parole. I personaggi si ispirano a molti generi di discorso,
alcuni dei quali squisitamente cinematografici: la commedia e il noir, il non-
sense, il melodramma, lo stile enfatico, ma leggero per definizione, che
sanno avere certe canzoni d'amore, che sembrano molto stupide solo fino a
quando non ci si ritrova nelle situazioni che raccontano.
I protagonisti del film sono due sposi, non più giovanissimi, con due belle
facce serie, che vengono licenziati perché il mondo cambia e le cose vanno
così. Il ristorante nel quale Ilona lavora chiude, mentre l'azienda tranviaria
che dà lavoro al suo sposo è costretta a giocarsi a carte i dipendenti da
licenziare. Sono situazioni assolutamente senza senso e assolutamente
realistiche.
La ricerca di un nuovo lavoro muove tutto il racconto e diventa il centro di
un film che non esiterei a definire melodramma, visto che la musica - le
canzoni suonate al ristorante Dubrovnik, gli intermezzi tratti da Verdi, da
Wagner e altri classici- gioca un ruolo essenziale nel fare da contrappunto
romantico allo stile asciutto e surreale dei dialoghi e dei gesti dei
personaggi. Questo fa sì che il racconto, a volte davvero patetico, si
mantenga sempre compunto, ironico, senza perdere pathos né
verosimiglianza. Così potrei dire che si tratta di una storia di vero amore,
raccontata con una discrezione sublime; e siccome ogni storia d'amore ha
bisogno di ostacoli e guai per trasformarsi in un racconto credibile e
necessario, qui il Lavoro incarna il mito della felicità possibile. Non si tratta
della garanzia della sopravvivenza, tant’è vero che la strada del "qualunque
cosa" si rivela senza fondamento. Si tratta di una idea più nobile del Lavoro
come spazio della azione individuale e occasione per il mondo di dotarsi
delle nostre cure, di essere allevato e migliorato, reso più accogliente da un
buon ristorante, un tram ben condotto, un mazzo di fiori sul tavolo. Non
importa di quale lavoro si tratti: la dignità di essere operaio, tramviere,
manovale, cameriera o, come Ilona, capo-cameriera, non ha niente a che
fare con l'ambizione per la carriera o l'esercizio del potere. "Un
professionista non ha bisogno di affidarsi alla fortuna", dice il protagonista
alla moglie prima di un colloquio. E' una affermazione d’orgoglio resa
assolutamente ridicola dalla realtà che mi ha ricordato la scena, per me
bellissima, di un altro film, molto diverso, La bella vita, di Paolo Virzì,
nella quale il padre del personaggio principale, ex operaio, fiero di esserlo,
si ritiene oltraggiato dal fatto che suo figlio voglia diventare un piccolo
imprenditore.
Questa concezione alta del lavoro, qualunque esso sia, mi sembra del tutto
mascherato da altri valori e sostanzialmente, anche sotto il peso della sua
assoluta leggerezza sul piano sociale, in via di estinzione.

Kaurismaki riesce a raccontare quasi per sottrazione, in uno stile di


sceneggiatura ellittico che si àncora a episodi e dialoghi minimali, ma
perfettamente compiuti.
Anche sotto l'aspetto figurativo il film è solo apparentemente semplice.
Prevalgono i piani fissi, con pochi movimenti di macchina, e anche il
montaggio asseconda questo effetto-quadro, rispettando una specie di
carattere paratattico, sequenziale della sceneggiatura. Come la musica
introduce affetto ai toni estremamente asciutti dei dialoghi e dei gesti, la
distanza che la macchina da presa mantiene nei confronti dei personaggi è
compensata dalla fotografia e dal colore, dai toni molto caldi, dalle tonalità
sature e piene delle case, dalla luce gialla delle strade.
Nessuna ridondanza sentimentale o grottesca, poiché ogni dimensione è
necessaria: misura, umorismo e verità sono felicemente onorate in Nuvole in
viaggio, e con loro il cinema classico, quello che non lo è più, e la vita che
assomiglia a tutt'e due.

Vedi Anche:

cinema.it
Jimi
Roberto Caselli Una storia infinita. Da quel fatidico 18 settembre 1970, giorno in cui Jimi
Hendrix morì in circostanze mai del tutto chiarite, la sua eredità musicale è
passata attraverso complicate traversie, quasi sempre finalizzate ad
arricchire chi se ne occupava, più che a realizzare una pubblicazione
definitiva che mettesse finalmente chiarezza nella sua opera. Fino ad oggi,
tra dischi ufficiali, edizioni economiche, greatest hits e pubblicazioni più o
meno clandestine, i titoli attribuiti a Hendrix arrivano tranquillamente al
centinaio. Dopo la sua morte, infatti, negli archivi degli Electric Lady
Studios, furono trovate centinaia di ore di musica registrata dallo stesso
chitarrista che furono affidate dagli eredi al produttore Alan Douglas, uno
degli ultimi collaboratori di Hendrix. Da quel momento vennero date
periodicamente alle stampe registrazioni frammentarie, spacciate per nuove,
che hanno, in realtà, solo creato una gran confusione. Nel 1993, dopo aver
più volte manifestato la propria contrarietà verso questo tipo di gestione, la
famiglia Hendrix ha fatto causa a Douglas per il cattivo lavoro da lui
effettuato e per l’ambiguità con cui si è mosso. A due anni di distanza, papà
Al e sorella Jane vincono la causa e si riprendono il diritto di sfruttamento
dell’opera di Jimi. La mossa successiva è quella di affidare il ripristino
definitivo del catalogo hendrixiano all’ingegnere del suono Eddie Kramer e
all’esperto John McDermott, con l’esplicito compito di ricostruire anche
l’identità di un disco, finora mai uscito, ma che sembra fosse praticamente
pronto, prima che Hendrix morisse. La Universal MCA, che nel frattempo si
è aggiudicata la licenza mondiale per le registrazioni di Hendrix ha
cominciato, proprio in questi giorni, a immettere sul mercato i primi frutti di
questa revisione. Il risultato è la nuova disponibilità dei primi tre storici
lavori: Are You Experienced? (1967), Axis: Bold As Love (1968) e Electric
Ladyland (1968) e finalmente del nuovo album, First Rays Of The New
Rising Sun, che contiene 17 brani, già tutti ascoltati, ma mai ordinatamente
raccolti. I lavori sono disponibili sia su vinile che su CD. In autunno si
prevede la pubblicazione di Band Of Gypsys (1970) e per il prossimo
gennaio addirittura di un disco fatto solo di inediti. Non è tutto, voci
abbastanza ufficiali giurano anche sull’individuazione di altri nuovi brani
che usciranno con una scadenza fissa di due anni dal 2000 in poi. Come
dire? Hendrix will never die.
La complessità
Sylvie Coyaud http://www.exploratorium.edu/complexity/menu.html

Da quasi vent’anni la parola si sta facendo strada nel nostro linguaggio. Un


po’ com’è accaduto negli anni Venti alla relatività, altro potente concetto
scientifico.

Alla complessità, manca però un eroe popolare alla Einstein in cui


incarnarsi, e forse questo le ha impedito di irrompere con altrettanta
violenza nella conversazione quotidiana. Diversamente dalla relatività, nata
all’improvviso come Minerva da una cefalea di Giove, la complessità ha
conosciuto una lenta gestazione.

Le idee che lungo un intero secolo hanno portato a una nuova "dinamica, a
un modo più fluido e globale di concepire i rapporti tra le cose, animate o
meno, osservate o solo ipotizzate, sono sul Web dell’Exploratorium, sotto il
titolo "Paesaggi turbolenti: le forze della natura che danno forma al
mondo" (Turbolent Landscapes).

Siccome l’Exploratorium di San Francisco è un museo della scienza, c’è di


mezzo una mostra. Un po’ lontana: per fortuna uno sfruttamento molto
intelligente delle risorse dell’Internet la fa vedere e la spiega. Ha partecipato
al sito il Santa Fe Institute, che sta alla complessità come il Vaticano al
cattolicesimo. Continua a parteciparci con degli esperti che rispondono alle
domande e aggiungono mano mano personaggi e concetti suggeriti dai
visitatori.

Nella sezione "Paesaggi turbolenti" vera e propria, sono gli oggetti in


mostra. Qui l’immagine non rende affatto il fascino dello "Schermo di spilli
vibranti" di Ward Fleming, per esempio. Per fortuna, la didascalia sì. In
"Complexity Timeline", c’è il secolo di storia delle idee, e nel
"Complexicon" un generoso indice-dizionario di scienziati e termini. Nelle
ultime due sezioni, figurano i protagonisti, come Cantor, Lorenz, Poincaré,
Mandelbrot; i concetti chiave e le loro applicazioni come non linearità,
teoria delle catastrofi, dinamica qualitativa, automi cellulari. E i frattali: visti
e stravisti, eppure la loro bellezza continua a lasciarci a bocca aperta.
Certo, bisogna sapere l’inglese.
Anzi, vale la pena impararlo apposta.

http://www.exploratorium.edu/complexity/menu.html
Nota tecnica: bastano dei normali browser. Il "Tour" audio dell’argomento,
accessibile per chi dispone dell’apposita scheda, non è indispensabile alla
comprensione.
Nota critica: occorrono almeno tre passaggi, a partire dal pagina Menu per
arrivare a certi oggetti della mostra "Paesaggi turbolenti", e siccome non
c’è un catalogo (o non l’ho visto) è difficile ritrovarli per una seconda visita
più sistematica. Suggerimento: salvate nei bookmarks quelli che vi sono
piaciuti di più.
Orari migliori: 8-11 del mattino. Dopo, rallentamento generale.
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

PRE-VISIONI
I registi di domani alla prova

spettacoli degli allievi del IV anno del corso di regia della Scuola d’Arte
Drammatica Paolo Grassi in collaborazione con il Teatro Franco Parenti ed il
Teatro Verdi

SERA D’AUTUNNO Teatro Franco Parenti


da Friedrich Dürenmatt 8-11 maggio 1997
progetto e regia ore 21, domenica ore 18
Benedetta Frigerio ingresso £ 10000

via Pier Lombardo 14


tel. 02/5457174

THANKYOUEVERYONE Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi


di Carlo G. Gabardini, Sala Teatrale, 20-21 maggio 1997
Andrea Gattinoni, Max ore 21
Papeschi, Bolo Rossini,
Valeria Sanna via Salasco 4
progetto e regia tel. 02/58302813
Max Papeschi
G.i.o.c.h.i.
Marco Sabatini Adunque.

Il nuovo gioco non ha avuto un grandissimo successo.

Come osservava Cecilia, e' più difficile del primo, perché devi operare su
una sola parola, anziché su una frase. Poi e' passato il momento
dell'entusiasmo iniziale per un gioco in rete, quindi rimangono solo gli
"appassionati" (i maniaci). Giocare in due e' deprimente, ed ho pensato ad
un paio di cose che - forse - potrebbero migliorare la situazione:

1. riunire i siti in cui si gioca, sia al Cinegioco che ai Finneghismi.


Tanto i giochi si assomigliano, e chi apprezza una cosa di solito apprezza
anche l'altra. Cosi' chi e' interessato risparmia anche tempo. Questo potrebbe
valere anche per i futuri giochi di parole;

2. pensavo ad un nuovo gioco, un po' diverso. Prendete una frase: "Nostro


Umberto, Maestro Eco" e allineate le iniziali. Otterrete una parola: NUME.

Se la parola ha un senso, e' un Acronimo. In poesia si chiama Acrostico una


parola ottenuta con le lettere iniziali dei versi di un componimento.
Con un po' di fantasia si riescono a fare cose carine:

GOLEM: Giochiamo O Lavoriamo? E' Misterioso....


PUB: Per Una Bevuta;
UPIM: Ultimi Prodotti In Mostra;
STANDA: Senza Timore: Amici, Non Dateci Ascolto;
ANDREA: Ambirebbe Non Dover Regolarmente Esibirsi Aggratis;
CLAUDIA: Coltiva L'Apparente Umiltà' Dell'Indomito Agostino;
CECILIA: Carina E Cicciottella, Ispira L'Immaginazione Altrui;
DUCCIO: Diventerà' Un Compunto Contabile In Orario;
MARCO: Meglio Allenarsi Regolarmente Che Occasionalmente;

(figuriamoci se perdo un'occasione per sberDucciare gli amici)

Non e' necessario inventare gli acronimi: a volte li si trova nei giornali o nei
libri. Cosi' si tratta solo di leggere, non di creare. Qualche esempio dai titoli
di libri:

TIR: Tutti I Racconti


LEI: L'Estate Incantata (R. Bradbury)
VIP: Volevo I Pantaloni (L. Cardella)
IRI: I Racconti Inediti (Ph. Dick)
PIO: Passaggio In Ombra (M.T.Di Lascia)

Alcuni degli acronimi di cui sopra sono vecchi acronimi reinterpretati:


TIR, IRI, VIP.

Ma, più che nei titoli, e' nei testi che gli acronimi potrebbero nascondersi.

E poi una sfida: di quale frase la parola

PRISENCOLINENSINAINCIUSOL

e' un acronimo? Chi risponderà a questo quesito scoprirà il profondo


messaggio che si nascondeva nella canzone di Adriano Celentano.

Ah.......G.I.O.C.H.I.:

G iochiamo
I nsieme:
O spitiamo
C hi
Ha
I mmaginazione
Golem è giunto al numero dieci. Sarà, ma i numeri tondi fanno sempre un certo effetto. Grandi sorprese stiamo
preparando, comunque, per il compleanno di Golem.
Intanto, vi proponiamo gli argomenti di Umberto Eco sul perché è più utile scrivere su Internet che sulla carta,
argomenti che inducono a varie considerazioni sul ruolo dell’informazione e sul senso della professione
giornalistica.
Il referendum sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti viene affrontato direttamente dagli interventi di Calabrò
e La Stella, nonché attraverso le proposte di legge a favore o contro l’abolizione.
Le nuove tecnologie porteranno con sé un nuovo modo di fare informazione , di fare giornalismo? In quali
direzioni e con quali modalità possiamo comprendere e dirigere questo mutamento?
Si parla, poi, di ruspe, pale e cucchiaini, ovvero del rapporto tra produttività e occupazione, di come dovrebbe e
di come non dovrebbe essere rinnovata l’Università in Italia e della relazione tra il premio Oscar, il Festival
della canzone italiana e il fondamentale concetto di democrazia.
Tra le rubriche, oltre ai nostri affezionati collaboratori, vi segnaliamo una nuova entrata: Roberta Ribali, che ci
intratterrà ogni mese con una riflessione sulle trappole che ci tende la nostra psiche.
Augurandovi una buona e costruttiva lettura, restiamo in attesa delle vostre sempre stimolanti reazioni.
Non scrivete sui giornali: nessuno se ne accorge
Umberto Eco Non è che Internet serva solo ai deliranti per ricevere messaggi dagli
extraterrestri (li ricevevano anche prima di Internet, magari via posta). Spero
serva anche ai terrestri, per dire delle cose che è ormai inutile dire sulla
stampa.
Ecco la storia. Sabato 29 marzo i giornali informano che Emma Bonino, in
un accesso di sdegno, di fronte alla tragedia dell’Albania, si chiede perché
Bobbio ed Eco (è lei ad usare questa sineddoche adulatoria, specie per me,
per indicare tutti gli intellettuali) non si pronunciano sull’Albania, così
rendendosi complici e forse responsabili diretti del disinteresse verso i
profughi albanesi.
Trascuro il sentimento un poco kitsch che sta dietro a questi sfoghi: come se
in una tragedia in cui l’ONU, la Comunità Europea, una dozzina di governi
non riescono a trovare una soluzione, e gran parte del paese reagisce con
razzismo istintivo, un alato appello di Anime Belle potesse risolvere la
situazione. Immagino che, secondo Emma Bonino, se Bobbio firmasse un
appello per affermare che gli albanesi sono buoni, la Pivetti ne
accoglierebbe duecento a casa propria. Ma se fosse così, basterebbe che la
Pivetti avesse letto non dico Bobbio, ma il Vangelo.
Trascuro il fatto che come commissario europeo la Bonino dovrebbe sentirsi
responsabile (se non soggettivamente, almeno oggettivamente) della
latitanza della Comunità Europea su questo argomento; lo ha notato
giustamente Cacciari su Repubblica di domenica, osservando come sia per
lo meno spudorato cercare altri responsabili invece di dare le dimissioni
dalla propria carica, a quanto pare inutile. Ma pazienza, i tempi sono duri e
possono saltare i nervi a chiunque.
Più singolare mi pare il fatto che la Bonino riceva in ritardo i giornali, o non
li legga. Altrimenti si sarebbe accorta di due cose. Primo, che proprio il
giorno prima che lei parlasse usciva sull’Espresso una mia riflessione
sull’Albania in cui invitavo a considerare una serie di cose. Secondo, due
giorni prima a Parigi aprivo un Convegno internazionale sull’intolleranza e
parlavo specificamente dell’Albania e del razzismo strisciante (o talora
rampante) che si sta verificando in Italia; ne ho riparlato il giorno dopo, e tre
giorni prima avevo sollecitato l’Academie Universelle des Cultures a
formulare un appello alla Comunità Europea. I giornali francesi (per non
dire di radio e televisione) hanno dedicato a questi eventi il massimo rilievo,
il Figaro ha trascritto tutto il mio intervento, l’Unità lo ha riportato in gran
parte, compreso l’accenno all’Albania e alla situazione italiana.
Il fatto che persino la Bonino (che avrebbe da citare questi eventi per
lanciare un appello a una maggiore partecipazione) non lo sapesse è proprio
la prova che gli appelli intellettuali servono a poco in tragedie come queste,
e quindi sarebbe inutile chedere agli uomini di cultura cose su cui essi hanno
poco potere.
Tuttavia, ancora una volta, la Bonino c’entra sino a un certo punto. Ha detto
una stupidaggine, pazienza, può accadere a tutti, la stampa avrebbe potuto
dedicarle un trafiletto ironico e la cosa sarebbe finita lì. Nossignore, la
stampa l’ha presa sul serio. Ho dovuto staccare il telefono perché a casa mi
avevano avvertito che vari quotidiani volevano sapere che cosa avrei
risposto. Mi sono detto che la stampa aveva tutti gli elementi a sua
disposizione per rispondere, l’Espresso era nelle edicole, a Parigi c’erano
tutti i corrispondenti italiani, tutto esisteva su fonti pubbliche.
E invece sui giornali di domenica ho ritrovato la sparata della Bonino
ripresa, affannosi interrogativi sul perché Bobbio ed Eco non salvano gli
albanesi, e nessuno - dico nessuno, neppure quelli che avevano parlato degli
eventi parigini il giorno prima - che si ricordasse di quello che ho riassunto
poco sopra.
La stampa non ha più memoria, non ha più archivi, né di giornali italiani né
di giornali esteri, non si ricorda delle notizie dei giorni precedenti, salta
addosso all’ultimo scandalo pur di riempire colonne.... Per quel che ne
sappiamo, Bobbio potrebbe avere fatto chissà che cosa venerdì, ma
domenica la stampa l’avrebbe dimenticato, e solo perché sabato ha parlato la
Bonino. E questa è la dimostrazione di quanto la Bonino abbia torto: non
vale affatto la pena che gli intellettuali scrivano e parlino, anche se quel che
dicono potesse contare qualcosa, perché intanto ogni parola verrebbe
cancellata il giorno dopo.
Visto che ormai la carta viene macerata nottetempo, mi affido alla rete. Non
si è forse scoperto che vi sono dei siti non più aggiornati da un anno e forse
più? Sulla rete c’è forse ancora un culto della memoria.
Il "mestiere" del giornalista
Antonio Calabrò Lo si può perdonare, Michelangelo Antonioni, per aver usato quella parola
un po’ solenne, "professione", accosatata a "reporter". Lo si può perdonare
perché era un maestro del cinema. E perché ancora, in quel ’74, non era
dilagata fastidiosamente la tendenza a parlare di "professionalità",
"professionisti", "professionismo", magniloquenze tanto più insistentemente
declamate quanto più sono emersi, collegati a quelle parole, corporativismi,
giochi di privilegio, intolleranze nei confronti di chi, "professionista"
appunto, faceva poco e male il suo lavoro (avvocati, medici, notai,
saltimbanchi, operatori TV, tecnici dell’informazione tutti pronti a
scandalizzarsi per gli "attacchi alla professionalità" senza aver mai voglia di
riflettere se e quanto le critiche, nel merito, fossero fondate).
Preferisco, dunque, parlare di "mestiere", per il giornalismo. Come una sorta
di "mestiere di vivere". Perché se ne sottolinea il carattere tutto sommato
artigiano: fare bene un lavoro, con precisione, accurata ricerca del come e
del perché delle cose, attento rispetto delle persone, umiltà. E perché dà
bene la dimensione d’una fatica: di capire, raccontare, redigere
puntigliosamente un giornale per cercare periodicamente di dare un senso a
quello che succede nel mondo. Mestiere artigiano, quindi, indifferente, nel
suo significato più profondo, alle tecnologie, le più moderne e sofisticate,
per scrivere, impaginare e trasmettere parole, suoni e immagini: un morto è
pur sempre un morto, una guerra una tragedia, un’operazione finanziaria
un’avventura con vantaggi e costi, uno spettacolo un evento da descrivere e
interpretare.
Giornalista è dunque chi ogni giorno fa un tale mestiere. E non certo
soltanto chi è iscritto ad un albo "professionale", ad un ordine di categoria
che negli anni ha finito per assumere troppe caratteristiche di corporazione.
Di un "Ordine", privilegio quasi esclusivamente italiano, si potrebbe
insomma benissimo fare a meno. A condizione, naturalmente, di difendere
invece i valori di fondo cui si deve ispirare il mestiere e le regole per poterlo
esercitare bene a cominciare dai contratti di lavoro (rafforzando quindi
compiti e ruoli del sindacato dei giornalisti).
C’è un gran bisogno, oggi, di una profonda riflessione proprio sui valori e
sulle regole del giornalismo: sulla cultura e sulle tecniche di cui è necessario
essere padroni, sul rapporto fra giornalista e fonti di informazione,
sull’autonomia nei confronti dei tanti poteri pubblici, politici, culturali ed
economici, sul ruolo di chi informa all’interno delle aziende giornalistiche
(giornali stampati, radio e TV o notiziari Internet che siano). Sulla
preparazione necessaria per evitare superficialità, cialtronerie e subalternità
di cui il giornalismo italiano offre purtroppo pessimi esempi.
Ci saranno infatti pesanti colpe dei giornalisti se oggi il referendum
sull’abolizione dell’ordine rischia di trasformarsi, impropriamente, in un
giudizio populista pro o contro i giornalisti in quanto tali, la loro funzione, il
ruolo politico e sociale. E se in certe aziende editoriali prende corpo l’idea
che il giornalista sia un factotum privo di identità particolare e buono ad
essere "flessibilmente" usato oggi per un settimanale Tv, domani per una
rivista di cucina, doman l’altro per una rassegna di moda impasticciata con
la pubblicità. E dunque, più che difendere l’anacronistico Ordine, varrebbe
la pena ragionare innanzitutto sull’etica dell’informazione e sui contenuti
del mestiere in questi difficilissimi tempi di grandi trasformazioni.
Recuperando, tra l’altro, l’orgoglio d’un lavoro ben fatto. Come sa bene
ogni buon artigiano.
Catena di montaggio
Oliviero La Stella L'informazione oggi in Italia è al livello forse più basso da vent'anni in qua.
La gente è insoddisfatta e trasferisce puntualmente nei sondaggi la scarsa
fiducia che nutre nei confronti dei media. Credo che su questo aspetto ci sia
poco da aggiungere, dopo le riflessioni e le provocazioni di Umberto Eco.
Alla crisi del sistema dell'informazione, la politica risponde con un
referendum che ha l'obiettivo di abolire l'Ordine dei Giornalisti. A mio
parere, questo modo di affrontare il problema è assolutamente disonesto.Si
fa credere all'opinione pubblica che i giornalisti siano i responsabili
dell'informazione quando invece lo sono solo in minima parte. La loro
autonomia nel corso degli ultimi anni si e infatti drasticamente ridotta. I
promotori del referendum, e chi apertamente o silenziosamente lo sostiene,
fingono di ignorare che l'informazione è oggi saldamente nelle mani dei
padroni dei media, ovvero di gruppi industriali e partiti politici. I giornalisti,
ahimè, oggi come oggi sono - a qualsiasi livello - elementi di una catena di
montaggio che sforna quotidianamente un prodotto scadente (superficiale e
talora manipolato), che si tenta di rendere appetibile con la "panna
montata" (scandalismo, pettegolezzi e frivolezze). Credo che i giornalisti
italiani, almeno quelli che hanno vissuto altre stagioni professionali, siano
tutti profondamente frustrati da tale situazione. E ritengo che ad essi si possa
soltanto imputare, individualmente e collettivamente, una mancanza di
coraggio, ovvero l’incapacità (e in alcuni casi la non volontà) di rifiutare
questo svilimento della professione.Ora con un referendum si punta a
delegittimare definitivamente la figura professionale del giornalista, per
renderla del tutto simile a quella della "scimmia ammaestrata" dell'ingegner
Frederick Winslow Taylor, il padre della catena di montaggio.Non sono mai
stato un fanatico dell'Ordine dei giornalisti. Da giovane, essendo un
cosiddetto "figlio del Sessantotto", ritenevo che avesse un sapore
corporativo e che quindi, per ciò stesso, fosse da abolire. In età più matura
ho fatto parte del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti e mi sono
sorbito centinaia di ore di chiacchiere inutili, su temi e da parte di oratori
spesso lontani dalle gravi questioni dell'informazione in Italia. Ma devo dire
che, ciò nonostante, qualcosa di buono l'Ordine l'ha fatto, insieme con la
Federazione Nazionale della Stampa: come la Carta di Treviso (a difesa dei
minori) e la Carta dei Doveri del Giornalista (per cercare di imporre
un'informazione più corretta); due documenti importanti ma che purtroppo,
per una serie di ragioni, ancora non sono entrati nelle redazioni come cultura
diffusa. Così pure, l'Ordine si è battuto - finora invano, per l'opposizione
degli editori - perché chi accede alla professione abbia un'alta
qualificazione, ottenuta al termine di un ben definito percorso formativo.Da
queste esperienze ho tratto la convinzione che l'Ordine debba esistere, ma
radicalmente riformato. Occorre che esso diventi più pienamente un
organismo di difesa del cittadino nei confronti delle distorsioni e delle
prevaricazioni dei media e che, quindi, attraverso strumenti di legge venga
dotato della possibilità di esercitare con efficacia questo ruolo. Ciò significa,
ad esempio, che bisognerà trovare il modo di sanzionare in maniera rapida e
rigorosa le scorrettezze dei giornalisti. In sostanza, sono per un Ordine con
più poteri, ma non a beneficio della "corporazione" bensì della gente.Non
vedo perché, così come si avverte l'esigenza di istituire authorities che
tutelano la libera concorrenza sul mercato o la privacy del cittadino, non si
possa pensare a un organismo che si preoccupi dei requisiti di correttezza
dell'informazione. Creare e far funzionare un'istituzione di questo genere
significherebbe, a mio parere, aprire una stagione nuova: la Seconda
Repubblica dell'informazione. E' comprensibile che a qualcuno faccia paura.
La battuta pronta
Anna Masera Cari amici di Golem, vi ringrazio del vostro invito a riflettere su alcune
considerazioni che sono emerse dal forum in diretta sul futuro del
giornalismo che avete ospitato sul vostro sito giovedì 13 marzo scorso alle
17.00 e a cui sono stata invitata a partecipare, insieme a Rocco Cotroneo del
Corriere della Sera e Enrico Pedemonte dell'Espresso. Il forum è stato
stimolante, ma temo che sia stato poco utile per approfondire il tema: la
comunicazione è stata sconnessa, un po' per motivi tecnici, un po' perchè le
chat tendono a favorire chi ha la battuta pronta, e non necessariamente lo
scambio di idee.

Vi scrivo dopo aver letto lo scambio vivace e polemico di questi giorni tra
Riccardo Staglianò (che ha scritto l'articolo di copertina «Poveri noi se il
web è idiota come la tv!» su Reset), Riccardo Chiaberge (che ha scritto
«Internet, la sinistra ci ripensa» sul Corriere della Sera del 19 marzo) e
Franco Carlini (che gli ha risposto per le rime sul Manifesto del 20 marzo).
Nel frattempo, il mio giornale, Panorama, ha pubblicato nel numero 11 del
14 marzo scorso l'articolo-inchiesta di Luca De Biase su «L'edicola al tempo
dell'online» (utile al lettore che vuole capirci qualcosa e che potete andare a
leggere su http://www.mondadori.com/pan1197/
mag/inc_1197_1.html) con a lato, purtroppo, un contraddittorio commento
firmato con la sigla del «tricheco» (del nostro condirettore Pierluigi
Battista), che tanto per cambiare prende le distanze da Internet con il tipico
snobismo e il tipico attaccamento al «vecchio» contro tutto ciò che è
«nuovo» dei principali direttori di giornali italiani.
Tutto questo serve per contestualizzare il mio intervento, che vorrei
sintetizzare in tre punti:

1) I discorsi ideologici avevano un senso prima della caduta del muro di


Berlino: ormai sono passati parecchi anni e parlare di cosa sia di destra e
cosa sia di sinistra può essere divertente, ma non è fare informazione. Ci
sono persone che si considerano di destra, ma che sono più progressiste di
tante persone che si dicono di sinistra. E tra quelle «di sinistra», ci sono
tantissime differenze (da sempre!).

2) Non ha senso, per noi che «di sinistra» siamo quantomeno di provenienza
storica, demonizzare tutto ciò che è commerciale, «privato» e produce
«soldi». Sì, Internet non è più solo la grande rete anarchica dove tutto era
libero e gratis: oggi su Internet si commercia, ci si guadagna da vivere, si fa
pubblicità. E con questo? Ma le strade secondo voi sono state costruite per
favorire lo scambio di merci o solo per permetterci di andare in vacanza?
Non siamo ridicoli: meno male che Internet sta maturando e che le
informazioni arrivano anche grazie al «push» e non solo al «pull» (quello,
tra l'altro, per i «puristi della Rete» ci sarà sempre); meno male che Internet
diventa più accessibile a chi cerca informazioni ma non ha tempo di
navigare; e meno male che Internet diventa un luogo di opportunità, non
solo per chi vuole imparare, ma anche per chi vuole guadagnarsi da vivere
inventandosi un nuovo mestiere. Le imprese commerciali, con le loro
iniziative e i loro banner pubblicitari, simili agli spot della tivù, sono solo
benvenute se favoriscono tutto questo.

3) Preoccupiamoci, piuttosto, di rendere Internet accessibile a tutti, e quindi


realmente democratica: questo sì che sarebbe uno sforzo utile. Perchè
attualmente Internet ce l'ha solo una minoranza irrisoria del Paese.
Chiediamoci come mai. Tutto il resto, sono chiacchiere che confondono i
lettori e li distolgono dai veri problemi. Ma è possibile che noi giornalisti
abbiamo tanta difficoltà a porci al servizio del lettore?

Infine, una postilla. Su Internet tutto corre veloce. La polemica pubblicata


dai giornali su «Internet di destra o di sinistra» è già diventata qualcosa di
nuovo in Rete: i protagonisti (Staglianò-Chiaberge-Carlini) sono andati
avanti con la discussione e si sono dimostrati molto più profondi, e alla fine
d'accordo, di quanto sia apparso sulla carta. Ne dà conto proprio Internet:
sul sito di Reporters Online (http://www.rol.it), che ho fondato assieme a
Luca De Biase e a tanti altri colleghi appassionati per dare l'opportunità di
sperimentare i nuovi media ai giornalisti, con o senza tessera, che lo
vogliono. Siete tutti invitati a venire a trovarci e a dire la vostra sul forum di
Rol!
Pubblichiamo la proposta di legge, presentata da Furio Colombo, Giovanna Melandri, Giuseppe Giulietti e
Fabio Mussi, il 28 febbraio 1997, pervenuta alla redazione di Golem (Proposta di legge per l’istituzione della
carta di identità professionale dei giornalisti e del comitato nazionale per la correttezza e la lealtà
dell'informazione). Abbiamo, inoltre, sintetizzato altre proposte di legge sullo stesso tema, in modo da poter
concretamente svolgere una argomentata riflessione con i lettori.
Sondaggio, a cura di Renato Mannheimer

Cari lettori di Golem,


come sapete tra i referendum approvati dalla Corte Costituzionale, sui quali si andrà probabilmente a votare a giugno, c’è anche
quello sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Su questo numero di Golem potete trovare alcuni interventi sul tema.
Vorremmo conoscere anche il vostro parere. Vi chiediamo quindi di rispondere alla domanda che segue, e di compilare poi la
parte riguardante i vostri dati personali che ci serviranno per le nostre elaborazioni statistiche.
Nei prossimi numeri di Golem saranno pubblicati i risultati di questo sondaggio e del precedente.

Quali delle seguenti affermazioni si avvicina di più alla tua opinione sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti?

Sono favorevole all’abolizione


Sono contrario all’abolizione
Non ho ancora un’idea precisa al riguardo

Caratteristiche personali:

Genere:

Maschio
Femmina

Età: 0

Regione di nascita: Valle d'Aosta


Regione di residenza: Valle d'Aosta

Titolo di studio

Nessun titolo/Licenza elementare

Professione:

altro

Ti "senti" di:

Sinistra
Centro-Sinistra
Centro-Centro
Centro-Destra
Destra
Nessuna di queste categorie
Non so

Infine... E’ la prima volta che rispondi ai sondaggi di Golem?

Si
No

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L'utopia
Paolo Palazzi Il fenomeno degli ultimi decenni della globalizzazione internazionale dei
mercati ha alcune importanti caratteristiche di novità rispetto alla situazione
precedente in cui in realtà i mercati erano già abbondantemente globalizzati
(addirittura alcuni studiosi affermano che, dal punto di vista del peso degli
interscambi internazionali sulla produzione, la globalizzazione era più
elevata all'inizio del secolo).

In particolare l'aspetto che mi appare più rilevante è che si è modificato il


rapporto con alcuni paesi del Terzo mondo: da un tradizionale sfruttamento
delle risorse naturali e del lavoro (lavoro, però, utilizzato prevalentemente
per lo sfruttamento delle risorse naturali), che veniva perpetrato utilizzando
sia la supremazia economica che quella militare, si è passati allo
sfruttamento del lavoro di per sé. Tale processo è avvenuto utilizzando da
una parte le strutture politiche, sociali e culturali dei paesi del Terzo mondo
(quindi selezionando tali paesi secondo la capacità di tali caratteristiche ad
essere impiegate in modo profittevole nel processo produttivo) e dall'altra
utilizzando, congiuntamente ai metodi tradizionali di supremazia (militare
ed economica), la supremazia tecnologica e di conoscenza.
Tali modifiche hanno portato, però, a cambiamenti anche profondi nelle
dinamiche interne ai gruppi dei paesi sviluppati e sottosviluppati: in
particolare il fatto che una parte del reddito prodotto, più rilevante rispetto
alla situazione precedente, rimane nei paesi del terzo mondo coinvolti in
questo processo. Infatti, oltre al reddito tradizionale che già restava nelle
mani della borghesia "compradora", della burocrazia e dei politici locali,
sempre più reddito reale rimane nelle mani di una borghesia nazionale di
tipo "occidentale" e di una classe operaia nascente. Diversamente dai
tradizionali redditi, questi ultimi hanno quantitativamente e qualitativamente
la possibilità di correlarsi al processo produttivo e quindi anche di trarne
vantaggi tendenzialmente crescenti: da una parte la possibilità di innescare
uno sviluppo autonomo, dall'altra di raggiungere standard di vita
tendenzialmente simili a quelli dei paesi ricchi.
È ovvio che, se questa analisi è vera, è anche vero che le "sofferenze" dei
paesi industrializzati si accompagnano a maggiori redditi in alcuni paesi del
Terzo mondo. Mi sembra altrettanto ovvio però che tale conflitto di
interessi, se si concretizza nella rincorsa sul tema del costo del lavoro,
risulterà perdente per tutti (forse anche per il sistema nel suo complesso, che
si potrebbe trovare in una crisi di sovrapproduzione).
A mio avviso è anche una soluzione illusoria la possibilità di una nuova
specializzazione internazionale che veda passare la struttura produttiva
mondiale dal tradizionale dualismo manifattura-materie prime, al nuovo
dualismo tecnologia-lavoro dequalificato. Il limite sta nel fatto che da un
lato questa supremazia tecnologica non può essere considerata immutabile e
facilmente difendibile, e dall'altro lato nel fatto che l'emarginazione di forza
lavoro dai processi produttivi ha portato, in molti paesi industrializzati, alla
proliferazione di posti di lavoro di bassa o nulla professionalità, che alla
lunga potranno portare ad una crescente e permanente dequalificazione di
formazione e conoscenza da una parte sempre più ampia del mercato del
lavoro occidentale, sviluppando un forte dualismo strutturale del mercato
del lavoro all'interno degli stessi paesi industrializzati.

L'unica soluzione strategica che mi sembra praticabile è basata su due


mutamenti di tipo qualitativo:
- passaggio da una economia di prodotti ad una economia di servizi
- passaggio da prodotti e servizi individuali a prodotti e servizi collettivi.

In sintesi, con uno slogan, si può dire che bisogna incorporare nei prodotti il
benessere sociale e la qualità della vita. Slegando in qualche modo il
benessere dalla quantità dei prodotti e legandolo alla qualità.

Il contenuto materiale dei prodotti dovrà tendere a ridursi drasticamente e


invece sempre di più dovrà incorporare migliori rapporti umani,
conservazione di un ambiente sano e piacevole, solidarietà, possibilità di
controllo della propria vita, fantasia e creatività, ecc.
Sono tutte caratteristiche che hanno un elevatissimo contenuto "autarchico",
ad elevato valore aggiunto materiale e spirituale.

Come credo tutti ormai sappiamo, questa trasformazione non può avvenire
con una modificazione dell'assetto politico e ancor meno con una
rivoluzione: poichè tale trasformazione deve avvenire nelle coscienze e dal
basso, non è sufficiente propagandarla né può essere imposta.
Ruspe, pale e cucchiaini
Antonio Martino Negli ultimi 20 anni, mentre gli Stati Uniti hanno creato 36 milioni di nuovi
posti di lavoro, di cui 31 milioni nel settore privato, nell’Unione Europea ne
sono stati creati soltanto 5 milioni, di cui appena 1 milione nel settore
privato. Da questo dato discende una conseguenza ovvia: se vogliamo creare
occupazione produttiva, dobbiamo consentire agli investimenti privati di
farlo, il che implica la rimozione dei troppi vincoli che oggi lo impediscono.
Ho avuto modo di illustrare questa tesi in un precedente articolo, ma credo
che valga la pena riprenderla perché mantiene intatta la sua validità. Il
problema della disoccupazione attuale non può essere risolto con politiche
di stimolo della domanda, come aumenti della spesa pubblica o politiche di
moneta facile. No, la disoccupazione che rappresenta l’incubo di milioni di
nostri giovani, specie al Sud, è dovuta quasi esclusivamente a cause
"strutturali", ai vincoli ed alle distorsioni che impediscono ai mercati del
lavoro di funzionare. In conseguenza di ciò, è semplicemente illusorio (per
non dire velleitario) supporre, come fanno in tanti, che l’intervento pubblico
diretto possa creare occupazione. Vediamo di chiarire.
Sembra che qualche anno fa un uomo d’affari occidentale, durante una sua
visita in Cina, vide un centinaio di lavoratori che, armati di pale, scavavano
un terrapieno, una sorta di piccola diga. L’uomo d’affari non poté trattenersi
dal commentare che un lavoratore solo con una macchina scavatrice avrebbe
potuto agevolmente svolgere lo stesso lavoro in mezza giornata. Al che il
caposquadra gli rispose che, così facendo, si sarebbe creata disoccupazione.
"Ah!", rispose l’uomo d’affari occidentale, "non avevo capito. Credevo che
voleste costruire un terrapieno. Ma se, invece, volete creare occupazione,
perché non gli togliete le pale e li armate di cucchiaini?".
Un’illustrazione abbastanza efficace di una differenza fondamentale: quella
fra occupazione fasulla ed occupazione produttiva. La prima non è difficile
da creare con l’intervento pubblico, com’è ampiamente dimostrato
dall’esperienza, non solo in Italia. Assumete un certo numero di persone,
mettetele a scavare buche, ed incaricate poi un altro gruppo di "lavoratori"
di riempirle. Pagate i due gruppi con denaro "pubblico" (cioè con quattrini
prelevati con le tasse da tasche private) ed avrete creato il tipo di occupati
che l’intervento pubblico sa creare così bene.
Il problema tuttavia, con questo tipo di occupazione è che essere occupati
non significa percepire un reddito, significa produrre un reddito. Ora,
quando uno percepisce un reddito che non produce, qualcun altro produce
un reddito che non percepisce e non percepirà mai. L’occupazione "creata"
dai politici, in altri termini, è anzitutto null’altro che un trasferimento di
reddito di chi produce a chi non produce. Coloro i quali hanno dovuto
pagare le tasse per finanziare gli stipendi dei "lavoratori" pubblici avranno,
in conseguenza di ciò, meno reddito da risparmiare o da spendere. Al
sistema produttivo, quindi, affluiranno meno risorse sia per minori vendite
di prodotto che per minore risparmio da investire. L’occupazione nel settore
produttivo sarà, quindi, minore: l’intervento pubblico da un lato ha creato
occupazione (sono aumentati gli scavatori ed i riempitori di buche, i
"buchisti"), dall’altro ha distrutto posti di lavoro nel settore produttivo dal
quale ha dovuto prelevare le risorse per pagare lo stipendio dei "buchisti "
pubblici.
Anche supponendo per assurdo che il numero dei lavoratori occupati grazie
all’intervento pubblico sia uguale al numero di quanti, in sua assenza,
avrebbero trovato occupazione nel settore produttivo, l’effetto netto
dell’intervento pubblico è sempre negativo, perché i posti di lavoro creati
sono improduttivi, mentre quelli distrutti sarebbero stati produttivi. In
conseguenza, stiamo tutti peggio perché il reddito complessivo prodotto sarà
minore di quanto avrebbe potuto essere.
L’analisi surriferita, anche se schematica, è lungi dall’essere caricaturale:
l’esperienza di questo secolo, infatti, dimostra aldilà di ogni ragionevole
dubbio che l’intervento pubblico non è in grado di creare occupazione
produttiva. Se , infatti, grazie ad illuminati piani quinquennali o altre forme
di intervento pubblico si potesse creare occupazione produttiva, il
comunismo avrebbe avuto successo. Se è miseramente fallito è proprio
perché non è riuscito a creare occupazione produttiva. D’altro canto, è
altrettanto certo che la fiscalità eccessiva - le troppe tasse e i troppi onerosi
balzelli imposti al sistema produttivo - distrugge l’occupazione. Non è un
caso che i paesi in cui il carico fiscale è più basso sono anche quelli con
minore disoccupazione: Svizzera, Stati Uniti, Giappone o paesi emergenti
del sud-est asiatico hanno tassi di disoccupazione trascurabili, specie se
confrontati con quelli dei paesi ad alta fiscalità, come il nostro.
La morale è semplicissima (anche se le nostre sinistre continuano a non
capirla): se vogliamo accrescere l’occupazione produttiva dobbiamo ridurre,
non aumentare, sia le tasse che le spese pubbliche. Dobbiamo cioè smetterla
di chiedere al governo di fare quello che nessun governo è mai riuscito a
fare: creare occupazione produttiva. Quello che il governo, invece, può e
deve fare è proprio l’opposto di quanto sta facendo: deve liberare risorse che
possano essere investite, assicurando finalmente ai nostri giovani quella
speranza nel futuro che oggi viene loro negata.
No, questa legge no
Giovanni Bachelet 07/03/97 Può darsi che mi sbagli, ma mi pare che da molti mesi non ci siano più
commenti su "Cattedra o cara" e sul DDL di riforma dei concorsi. Eppure
fra pochissimo il DDL andrà in aula dopo le modifiche apportate in
commissione. L'estate scorsa ero patriotticamente convinto che la
combinazione dei dispositivi inizialmente previsti dal DDL (idoneità,
concorsi locali e "obbligo della deportazione" cioè divieto per i candidati
locali di concorrere nella stessa sede dove già sono) potesse funzionare.
Qualche maligno suggeriva già allora che i vincoli sembravano scritti
apposta per essere poi massacrati in aula: dopo l'iter parlamentare, dicevano,
sarebbe rimasta la sola idoneità nazionale a numero aperto, con conseguente
ope legis di massa di tanti falsi validi - come li definiva mesi fa Paolo
D'Iorio della Scuola Normale - entrati senza mai affrontare un concorso, e
spesso meritevoli semmai di una retrocessione e non di una ulteriore
promozione gratis. Purtroppo ci siamo arrivati: il testo attuale (come
osservava Paolo Sylos Labini su La Repubblica di sabato scorso primo
marzo) per un insieme di infernali dispositivi transitori e incastri diabolici di
tempi e scadenze avrà per effetto, se passa cosi' com'è, quello di sistemare e
promuovere più o meno automaticamente tutti quelli che già sono dentro
l’università, e lasciar fuori tutti gli altri, a cominciare dai giovanissimi in
gamba (l’età media del ricercatore pare sia oggi superiore ai 40 anni) fino ai
medio-giovani bravissimi che almeno nel mio campo (Fisica) sono in gran
numero ormai all'estero, e non torneranno per meno di una cattedra. Ormai,
come dice Sylos Labini, l'unica speranza è abolire del tutto idoneità (che
prevede tempi lunghissimi, non verrebbe negata a nessuno e preluderebbe
fatalmente a un ope legis di massa) e lasciare la parte buona della legge: i
concorsi locali. Nel chiedere a Umberto Eco, che tutti a torto o a ragione
considerano l'ispiratore di questa legge, e a tutti quelli che vogliono evitare
che di qui al 2010 non entri più nessuno nell’università, di rifiutare
pubblicamente la versione attuale della legge e aderire all'appello di Sylos
Labini contro idoneità a numero aperto, segnalo che io sono Professore
Associato, entrato con uno dei due concorsi liberi (nel 1988) e quindi
probabile fruitore dell'ope legis mascherato se questa legge passa cosi'
com'è. Se chiedo ai colleghi di ribellarsi, è perché credo che tutti debbano
avere pari opportunità nell'accedere ai posti di ricerca e insegnamento: non
solo per un democratico principio di equità (che non dovrebbe peraltro
suonare strano per chi ha creduto nell'Ulivo), ma anche perché la qualità
dell'ambiente scientifico in cui vivo vale per me più di molte altre
gratificazioni. Credo che quanto più amiamo il nostro governo, quanto più
abbiamo lavorato per farlo vincere un anno fa, tanto più dobbiamo aiutarlo a
non fare provvedimenti iniqui e stupidi. E sono convinto, come Sylos
Labini, che con un paio di emendamenti semplici questa legge possa tornare
a diventare uno strumento di rinnovamento dell’università e di opportunità
per tanti che non hanno voce, stanno fuori dal sistema universitario e sono
più bravi di molti che stanno dentro per effetto di precedenti...riforme dei
concorsi.
I misteri di Eleusi
Maurizio Bettini Tra le molte cose che ci aspettiamo da una nuova legge sull'università, c'è
anche una riforma del cosiddetto "Dottorato di ricerca". Una delle istituzioni
più assurde, bizzarre e comunque meno soddisfacenti che la fantasia
mitologica della burocrazia ministeriale italiana abbia mai partorito.
Vediamo brevemente di che si tratta. Il "Dottorato di ricerca" è stato istituito
quindici anni fa, nel seguente modo: le università o i consorzi fra università
a cui è stata riconosciuta la capacità di concedere il dottorato, ricevono ogni
anno tre posti (in media) da destinare a giovani laureati. Le apposite
commissioni sottopongono perciò i candidati a un esame, dopo di che
indicano i tre prescelti. Essi riceveranno per tre anni uno stipendio annuale
non alto, e in cambio saranno tenuti a seguire dei seminari specialistici e a
redigere una tesi di dottorato. Alla fine dei tre anni una commissione
nazionale giudica se concedere o meno il titolo di "dottore di ricerca" ai
singoli candidati.
Cosa c'è che non va in questo sistema? Cominciamo dalla fine. Forse non
tutti sanno che, se la dissertazione conclusiva è giudicata insufficiente dalla
commissione nazionale, il dottorando perde per sempre la possibilità di
ricevere il titolo. Ci si aspetterebbe che i professori della commissione
avessero la possibilità di dare dei consigli al candidato, e di invitarlo a
ripresentare una nuova versione del suo lavoro. Invece no. In questo modo il
conseguimento di un titolo scientifico piuttosto raffinato, l'equivalente del
PhD americano o britannico, rassomiglia un pò troppo all'interrogazione di
storia e geografia: se lo studente non è preparato vada a posto con
l'insufficienza. Inutile dire che lo stato ha comunque speso l'equivalente di
tre anni di borsa dottorato per quella persona, salvo privarsi della possibilità
di averla poi come dottore di ricerca.
Scorriamo indietro nella carriera del dottorando, e andiamo al principio. In
un dottorato di tipo umanistico (quelli di cui ho esperienza) i candidati al
concorso iniziale sono in genere un centinaio: di questi se ne prendono di
media tre. E gli altri novantasette? Ammettiamo pure che molti di essi
facciano il concorso senza particolari motivazioni. Ne resta comunque un
buon numero che dispiace escludere dai corsi di dottorato per il solo fatto
che "non c'è posto". A questo punto ci si chiede: ma perchè? Che bisogno
c'è di fare così? Lo stato ha certo il diritto di non concedere più di tre borse
l'anno a un certo dottorato: questo non implica però che chi non riceve la
borsa debba per questo essere escluso dalla frequentazione dei corsi e dalla
possibilità di conseguire il titolo. In tutti i paesi del mondo una persona, se
ritenuta idonea, ha il diritto di frequentare i corsi di PhD pagando le tasse
richieste, e di sottoporre la sua dissertazione a un giudizio finale. In Italia
no. All'inizio, per la verità, non era così. Nella legge 382 si ammetteva
almeno la possibilità che, oltre ai titolari della borsa potessero essere
ammessi ai corsi "dipendenti da enti pubblici e professori di ruolo delle
secondarie superiori". Poi però questo comma è stato abrogato, e anzi, in
una circolare del 1986 si legge quanto segue: "è fatto assoluto divieto di
consentire la frequenza alle attività previste per il dottorato a qualsiasi
persona che non vi sia stata formalmente ammessa...è altresì vietata la
presenza dei cosiddetti studenti osservatori, auditori, volontari, o altrimenti
denominati. Dell'inosservanza di tale divieto sarà ritenuto responsabile il
coordinatore". In questa circolare, oltre il tono minaccioso e l'uso
dell'avverbio "altresì" (che bisognerebbe proscrivere dal linguaggio
burocratico sotto la minaccia delle armi), spiace soprattutto la visione
iniziatica del dottorato a cui l'estensore si ispira. Un osservatore esterno si fa
l'idea che i nostri corsi di dottorato siano come i misteri di Eleusi. Non solo
viene tolta la possibilità di conseguire il titolo a coloro che non sono titolari
di borsa, ma azzardati a frequentare in qualunque altra forma i seminari!
Il Dottorato di ricerca avrebbe potuto essere una grande occasione per
innalzare il tono culturale del nostro paese. Almeno per ora, non è stato così.
Avere a disposizione più persone che hanno conseguito un PhD è una
ricchezza per la nazione, qualunque cosa facciano queste persone dopo aver
conseguito il titolo. Invece noi alleviamo dei "dottori di ricerca" dotati di un
"titolo accademico valutabile unicamente nell'ambito della ricerca
scientifica": come esplicitamente dice la legge 382. Cioè persone che,
almeno nel settore delle discipline umanistiche, non possono che essere
destinate a svolgere ricerca nell'università. Salvo che nell'università non c'è
posto per loro, come purtroppo si sa. In questo modo viene raggiunto un
obiettivo davvero paradossale: continuiamo ad avere un numero basso di
persone in possesso del titolo di dottorato, e nello stesso tempo ne abbiamo
troppe. In un'altra circolare, stavolta del 1994, veniva affrontato il tema
delle "tendenze internazionali e europee" in materia di dottorato. Vi si legge
quanto segue: "in tali paesi si formano...molti più dottori di ricerca di quanto
ancora non avvenga in Italia. Tali dottori vengono solo in parte minore usati
per il reclutamento accademico, ma vengono invece usati nel sistema
produttivo e nelle istituzioni...Anche il nostro paese dovrebbe poter muovere
in tali direzioni". L'estensore di questa circolare sembra avere molta più
confidenza col mondo del PhD di quanto non l'avesse colui che immaginava
il dottorato come i misteri di Eleusi. Però, se si continuano a prendere solo
tre persone per volta, come si fa ad aumentare il numero dei dottori di
ricerca? E se si considera il dottorato un "titolo accademico valutabile
unicamente nell'ambito della ricerca scientifica", come si può pretendere che
i dottori di ricerca vengano poi impiegati nel sistema produttivo e nelle
istituzioni?
Le buone intenzioni
Aldo Schiavone Dopo quasi un anno dal suo insediamento, la politica del governo Prodi
verso la scuola, l’università e la ricerca sembra fatta ancora molto più di
annunci e di proclami di intenti che di risultati raggiunti. La grande svolta in
cui molti di noi confidavano dopo gli impegni della campagna elettorale, è
per adesso mancata e nulla lascia pensare che sia imminente.
Per quanto riguarda l’università, il segnale più preoccupante va considerato
certamente il rinvio a tempo indeterminato della riforma dei concorsi. Il
ministro Berlinguer era partito bene, con un progetto di legge che
raccoglieva i frutti di un lungo dibattito e che avrebbe potuto essere
rapidamente approvato, eliminando una delle distorsioni peggiori della
nostra vita accademica e ridando finalmente una prospettiva alle giovani
generazioni di studiosi. Ma l’iniziativa si è arenata subito in un estenuante
dibattito all’interno della Commissione Pubblica Istruzione del Senato, che
ha impiegato circa sette mesi per varare - senza modifiche rilevanti - un
testo che avrebbe potuto essere licenziato in pochi giorni. Ora siamo ancora
in attesa che inizi la discussione in aula ed è impossibile fare previsioni.
Potranno passare anni. E, intanto, il ministro è costretto a bandire i concorsi
(oggi per gli associati, domani per gli ordinari) con le vecchie regole,
circondate di generale discredito, per cui è facile prevedere che l’esito delle
prove darà luogo a contenziosi infiniti.
Anche sul fronte della politica della ricerca, non è stato fatto nulla di
significativo. S’era parlato di un progetto per le cosiddette "scuole di
eccellenza" e di una revisione profonda della struttura e del funzionamento
dei grandi enti (Cnr, Enea, ecc.), ma l’unico atto finora compiuto riguarda il
rinnovo della presidenza del Cnr, con una scelta che ha tutta l’apparenza di
continuare nelle vecchie pratiche spartitorie di democristiana memoria.
Infine, qualche parola sulla scuola: qui le dichiarazioni di intenti si
succedono in modo incalzante, mescolate a più modeste decisioni già
operative, alcune senz’altro buone (come la prospettata riforma dei cicli
d’insegnamento, che va considerata l’idea migliore elaborata dal governo
nel campo dell’istruzione e dell’insegnamento), altre più discutibili (come la
riforma dell’insegnamento della storia e l’abolizione, senza prevedere nulla
al loro posto, dei "corsi di recupero"), altre ancora senza dubbio pessime
(come la bozza di statuto sui diritti delle studentesse e degli studenti).
Le ragioni di questa situazione di stallo sono molte e per la verità la maggior
parte di esse non possono essere direttamente attribuite a responsabilità del
ministro. Ma rimane il fatto - gravissimo - che il nostro sistema educativo si
sta deteriorando sempre di più, sta perdendo forze e risorse e si sta
allineando su rendimenti sempre più bassi, dalla scuola dell’obbligo fino
all’università, e tutto ciò proprio nel momento in cui appare sempre più
evidente che saranno la competitività e la concorrenza fra i sistemi scolastici
a decidere le future gerarchie fra i paesi europei.
Il tempo segmentato
Ugo Pirro Il quesito che pongo é il seguente: è ancora possibile rappresentare quello
che siamo, il mondo com'è, ricorrendo a strutture narrative per così dire,
lineari, cioè che procedono per analogie e associazioni, in previsione di un
arco narrativo dall'andamento cronologico?
I flash all'indietro e in avanti non rompono l'unità temporale, al contrario, la
confermano, affollano l'antefatto?
I modelli più seguiti sono ingannevoli.
La suspense, ad esempio é un inganno giacché spinge lo spettatore a
condividere sentimenti ed emozioni che, in realtà, rifiuta. Possiamo essere
indotti a sperare che un assassino riesca a farla franca e così via. Lo
spettatore riacquista la proprietà dei suoi convincimenti soltanto quando
esce dal buio della sala.

L'antefatto domina i grandi romanzi dell'ottocento, nei film, con rare


eccezioni, é ancora alla base della narrazione, mentre la sua soppressione
darebbe visibilità, per così dire, ai "segni", imporrebbe la ricerca di
significanti e significati altri.

Mi rendo conto di essere schematico, ma é soltanto un tentativo di avviare


una discussione.
Golem d'aprile
Carlo Bertelli L’Onorevole Bossi non manca di stupire. L’anno scorso dette a tutti lezione
di latino. Si dice "referendas", osservò, e non "referendums". Quest’anno,
chiamando il candidato del Polo a Sindaco di Milano " Albertina" ha
rivelato insospettate letture proustiane. Peccato che il candidato Albertini sia
meno agile nelle sue letture e abbia rispolverato la vecchia storia dei salotti
radical-chic, sui quali, in risposta, ha fatto giudiziose osservazioni Michele
Serra; sull’Unità. Il "Corriere", invece, felice assertore del motto "si dice il
peccato ma non il peccatore", con molta eleganza ha identificato i salotti
incriminati in quelli di Rosellina Archinto e Gae Aulenti, le quali hanno
risposto all’intervistatore sul tema. Senonchè l’Albertini non è un candidato
qualsiasi. Ha avuto fino a ieri un posto di alta responsabilità
nell’Assolombarda, quella stessa Assolombarda che aderì ad un progetto del
Presidente della Commissione Cultura del Consiglio Comunale di Milano,
la Signora Rosellina Archinto, per mettere allo studio un piano di fattibilità
per la ristrutturazione e la messa a norma del Castello Sforzesco da affidarsi
a Gae Aulenti assistita da un certo numero di esperti.
Il piano di fattibilità è stato pubblicato dalla stessa Assolombarda, che lo
presentò nella sua sala di via Pantano gremita come poche volte.
E’ curioso che il candidato Sindaco se ne sia scordato. E’ curioso che, visto
che il "Corriere" si rivolgeva proprio alle due autrici del piano, non abbia
chiesto scusa; dichiarato che i salotti cui si rivolgeva non erano i loro e
assicurato che, se sarà Sindaco, metterà il suo onore nel realizzare un
progetto in cui aveva creduto come Assolombarda.
Oppure dissentiva? Ci sono verbali da cui risulti che si opponeva al piano e
con quali argomenti? Il Castello non è un episodio secondario
nell’immagine e nel funzionamento di Milano e, se il candidato Sindaco
ama parlare di caserme che dovrebbero essere istituite a Milano, pensi anche
che c’è un Castello. E quale Castello!
E’ vero, però, che l’Assolombarda ha dimostrato in tutti i modi di essere
stata tirata per i capelli a mettere allo studio il piano di fattibilità ma di non
crederci più di tanto. Si è vantata della circostanza che tutti coloro che vi
avevano lavorato lo avevano fatto gratuitamente e generosamente, ma poi,
oltre ad aspettare mesi e mesi, mentre la situazione si deteriorava, per
pubblicare il piano, non ha fatto assolutamente nulla per tenere desta
l’attenzione intorno al progetto. Che so, stanziando una prima somma o
aprendo una sottoscrizione fra gli industriali e gli altri cittadini.
Così che c’era un’emergenza Castello se ne sono dimenticati davvero tutti.
Non c’è da ben sperare, chiunque dei maggiori candidati in lista vinca le
elezioni. A meno che la flebile voce del piano non raggiunga il candidato
Fumagalli.
L'Oscar, Sanremo e la democrazia
Ranieri Polese Ha scritto Tullio Kezich a proposito dei nove Oscar a "Il paziente inglese"
di Anthony Minghella: "A esprimere il loro parere sono stati migliaia e il
risultato non convince proprio". Infatti si tratta dell’ "ennesimo falso
capolavoro, un film romanzesco e ridondante, girato così così". Insomma,
ha aggiunto il critico del Corriere della Sera, "la consultazione democratica
applicata ad un giudizio di valore presenta suppergiù gli stessi rischi delle
decisioni di un comitato ristretto", cioè delle giurie dei vari festival che
recentemente - e con ottime ragioni - Kezich ha accusato di avere preso
orrendi abbagli.
Inevitabile, ci pare, il parallelo con l’ultimo Sanremo vinto dai Jalisse
("Fiumi di parole"): il verdetto, anche qui, proveniva da un ampio numero di
votanti. Quindi era democratico, salvo poi rivelarsi molto criticabile. Anche
perché la canzone è sembrata riportarci a un gusto musicale molto passato
(quel gorgheggio sempre in agguato, per favore!) e tra le parole profuse a
fiumi non ce n’era una che paresse contenere l’ombra di un’emozione, di un
pensiero ("ma questo linguaggio da talk-show, cosa c’entra con noi?").
Il paragone tra film e canzone prosegue. "Il paziente inglese" sembra fatto
apposta per piacere agli europei: per le ambientazioni (dai deserti del nord-
Africa alla campagna toscana), per certe allusioni colte (gli affreschi di
Piero della Francesca ad Arezzo, le storie di Erodoto), per l’ambiguità del
protagonista (una spia nazista oppure soltanto un innamorato che per salvare
la propria donna deve cedere informazioni ai nazisti?).
E invece, proprio in Europa non riesce a sfondare, e non solo non convince
la critica ma nemmeno gli spettatori. Così i Jalisse che, pensati
espressamente per un pubblico nazional-popolare e di massa (stile
"Domenica in", per intendersi), non compaiono nelle classifiche di vendita
né si ascoltano sulle varie radio (dove, invece, sofisticata e divina, Patty
Pravo sta prendendosi la sua rivincita).
Ma perché tutto questo? Sempre Kezich propone una spiegazione, parlando
del film: è stato il trionfo della sottomarca. Come dire, prendete
"Casablanca", "Il dottor Zivago" e "Laurence d’Arabia", frullate il tutto e
poi offrite una confezione assolutamente conveniente per rapporto qualità-
prezzo (anche se non firmata da un noto stilista-regista). Lo stesso hanno
fatto i Jalisse, con il loro cocktail di Matia Bazar, Eurythmics (e musica
etnica). Ma il loro risultato, in tutti e due i casi, è pericolosamente inclinato
verso il cattivo gusto. Molto evidente nella canzone ("la mia testa chiude
l’audio...è come in un film, dove lei farà la pazzia"), più subdolo nel
kolossal degli schermi (dove, per esempio, l’insistenza sulle opere d’arte è
proprio fastidiosa: gli affreschi preistorici della grotta del Sahara, le pitture
di Piero, e poi Kristin Scott Thomas in aereo che somiglia tanto, troppo al
quadro di Tamara de Lempicka...)
E allora, che fare? Certo correttivi alle cadute di gusto alle votazioni
democratiche si impongono. Ma come fare? A Sanremo, nella notte dei
vincitori, si rimpiangevano i metodi e i risultati dei tempi di Baudo. Per il
cinema, alcuni commentatori sono andati ancora più indietro: biasimando il
fatto che "Il paziente inglese" abbia incassato più Oscar di "Via col vento",
qualcuno proponeva un drastico ritorno all’indietro. All’anno 1939, quando
ancora non c’era la guerra, i tedeschi non avevano invaso l’Africa del Nord,
e il conte ungherese faceva ancora l’esploratore del deserto.
Olfatto e conoscenza
Carlo Bertelli Si possono visitare gli Uffizi in Internet. La direzione del museo comunica
che da quando è stato realizzato il programma di visita virtuale il numero
dei visitatori virtuali ha subito battuto di mille volte quello dei visitatori
reali.
Poiché ho visto altri programmi di visita virtuale, immagino come sia
questo: perfetto e perlucido. Sono più che convinto che le opere d’arte
abbiano un altissimo contenuto intellettuale. Le ricerche ottiche di oggi sono
capaci di estrarre ed evidenziare in forme raffinate molti elementi di un
gioco intellettuale sottaciuto. Soprattutto le nuove tecniche esplicitano ed
espongono. Per esempio, possono rivelarmi che l’armonia che intuisco ed
avverto in un dipinto si basa su di un rapporto di sezione aurea. Dal mio CD
posso allora imbarcarmi in un lungo viaggio nei misteri della sezione aurea,
inoltrandomi nei segreti della geometria o dei numeri.
Tutto ciò è bene, ma nello stesso tempo solleva nuovi interrogativi. Il primo
cui penso è quello dell’esperienza concreta, direi fisica, dell’opera d’arte e
dei luoghi in cui si trova. Della mia visita infantile all’armeria di Palazzo
Ducale a Venezia ricordo l’odore di cera del pavimento misto a quello degli
oli e delle trementine sparse a protezione delle armi, e dal quel ricordo
olfattivo risalgo alle barbute, alle rotelle e agli spadoni. Delle prime visite
alle catacombe romane ricordo l’inconfondibile odore della pozzolana.
Così mi chiedo se la visita in Internet sia uno strumento nuovo di
conoscenza - e forse lo è - o se sia un mezzo nuovo di difesa, un modo di
ovviare alla pressione della massa dei visitatori.
L’odore di trementina che emana dal Tondo Doni va dunque registrato fra i
privilegi concessi a pochi. E pochi verificheranno dal vero quello scialle
della Madonna della seggiola che Proust ricordava con tanta precisione.
E’ giusto?
Forse è tanto giusto come è giusto ammettere che sarebbe un guaio se i
cinesi avessero a testa tante automobili quante, statisticamente, possiamo
averne noi. Intendo dire che come l’automobile non può esser l’ultima
risposta alla domanda di qualità, così il museo non può essere la risposta
definitiva alla domanda odierna di cultura.
Il museo, la città d’arte, il Taj Mahal sono frammenti di un modo diverso di
vivere che sono stati inseriti dentro l’industria odierna del turismo. Nella
loro conservazione, che comprende anche la protezione dalla banalità,
sarebbero avvantaggiati dalla loro riconversione a finalità originarie e
compatibili. Immaginare le Meteroe ricondotte alla preghiera, l’Acropoli
alle visite, al tramonto, di pochi visitatori convinti e, sotto la canicola, di
storici e archeologi.
Può sembrare un discorso reazionario, ma lo è?
Thesauri ad hoc...
Giulio Blasi Altavista, il motore di ricerca della Digital Equipment, conferma il suo
sostanziale primato tecnologico rispetto ai numerosi strumenti simili oggi
disponibili. E lo fa con un nuovo add on del sistema, i "Live Topics".

I "Live Topics" permettono di restringere, riorganizzare e visualizzare in


modo più organico i risultati di una ricerca realizzata con Altavista. Unendo
l’utile al dilettevole, o viceversa, continuo a sviluppare il tema dello scorso
numero (la scuola italiana su Internet) approfittando di questo nuovo
strumento. In sostanza, vi do uno spunto per arricchire il vostro repertorio di
link sulla scuola per conto vostro.

Eccovi un esempio. Interrogo Altavista sul termine "scuola" e ottengo (come


spesso accade) una tale quantità di risultati (circa 80.000 in questo caso) da
rendere l’interrogazione perfettamente inutile.

Provate subito (scegliendo l’opzione giusta a seconda del vostro browser) a


visualizzare con "Live Topics" questa ricerca:

● Live Topics per browser con Java

● Live Topics per browser senza Java

Ai possessori di browser Java-compatibili i "Live Topics" di Altavista


offrono un’immagine "relazionale" della ricerca che hanno fatto. Una volta
dentro, scegliete le "Topic Relationships" e vi si presenterà uno schema di
relazioni tra una serie di termini connessi all’espressione che avete ricercato e
molto frequenti nei documenti analizzati da Altavista.
In altri termini, Altavista costruisce per voi un thesaurus ad hoc basato sulle
ricorrenze di termini tematicamente connessi al soggetto della ricerca nei
documenti trovati. Il che permette di restringere le ricerche con maggiore
cognizione di causa.

Eccovi una piccola tabella di espressioni con o link ai "Live Topics" relativi
(per browser con e senza Java).

Ricerca base sul Live Topics con Java Live Topics senza
termine: Java

"scuola elementare" LT LT

"scuola media" LT LT

"liceo" LT LT

"istituto tecnico" LT LT

"università" LT LT

Buona navigazione!
Il nome della cosa
Giovanna Grignaffini Chissà se, dopo aver attraversato per almeno una stagione i rituali del
Parlamento, ai deputati capita di interrogarsi sul senso e sul valore del gesto
che più abitualmente compiono e che consiste nell’apporre da qualche parte
la propria autentica e pregiatissima firma. Infatti, è principalmente in quel
riconoscimento di paternità simbolica connesso ad ogni nominazione che sta
racchiusa ampia parte del loro potere, così come del loro dispendio
energetico. A cominciare da quei più nobili e convinti attestati di paternità
che si producono quando si firmano proposte di legge, emendamenti,
interpellanze, interrogazioni, mozioni, appelli, petizioni. Per continuare con
quell’impegno più anonimo, diffuso e quasi svagato quando si firma per, si
firma contro, si chiede grazia, sia auspica dura condanna, si prende
posizione, si sollecita, si intercede, si promuove, si prende atto. Per non
parlare del panico che può circolare quando rischia di farsi incerta
l’attribuzione di paternità: prima firma, seconda firma, firme a seguire in
ordine alfabetico, logica di gruppo, logica trasversale, l’intero Parlamento
sottoscrive. Un lavoro duro, oscuro e continuo, fonte d’ansia e irto di
trabocchetti, capace tuttavia di fissare indelebilmente su carta e a futura
memoria, quella dissipazione di gesti e parole che si perpetua ogni giorno
dentro l’aula. Un segno di potenza, nel luogo della fragilità; un segno di
continuità, nel luogo dell’eterno presente.
E’ facile allora immaginare cosa succede quando quel segno, la firma, si
trasforma nell’unica certificazione disponibile di esistenza, quando
l’umanissimo sogno di onnipotenza e continuità si trasforma in vera e
propria ossessione. Si apre la stagione degli inseguimenti e i deputati
rinunciano alle loro prerogative e al loro vero potere (nel senso di "poter
fare") per farsi esclusivamente cacciatori. Con i lunghi appostamenti nei
polverosi archivi del Parlamento alla ricerca di vecchie proposte rinnovabili
con una firma; con le incursioni presso le sedi di categorie e associazioni per
impossessarsi di nuovi interessi da rappresentare e sottoscrivere all’istante;
con le notti trascorse in commissione a spulciare e siglare centinaia di
emendamenti di bandiera; con antiche ferite da riaprire, basta una firma; con
l’occhio eternamente puntato sulla cronaca per avvistare almeno un fatto su
cui produrre debito nome e interrogazione, "a risposta scritta", se proprio la
materia non consente un adeguato dibattito parlamentare.
Ora, non c’è alcun dubbio che l’iniziativa legislativa, la possibilità di
emendare le proposte del governo, così come l’azione di controllo sugli atti
di quest’ultimo, costituiscono le attività fondamentali di un Parlamento
degno di questo nome. Ma dovrebbe essere altrettanto indubbio che tale
nome sarà veramente degno, quanto più la sua azione, svincolandosi dal
furore nominalista che la caratterizza oggi, saprà abbracciare a pine mani
un’etica della responsabilità: il che significa innanzitutto assumere fino in
fondo la fatica che trascinano con sé termini come scelta, priorità, processo,
procedura, risultato. Il che significa secondariamente rinunciare al piacere
purovisibilista che ogni rappresentanza parcellizzata, moltiplicata,
interscambiabile e mai confutabile può dare. Il che significa, da ultimo,
alleggerire il peso che continua ad avere, in molti luoghi, "il nome della
cosa".
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

Lucchetto: una strofa eredita dalla precedente una manciata di lettere e altre
ne aggiunge, da lasciare poi alla conseguente. Il cerchio della vita? Magari!
Qui si finisce dopo nove anelli, con un impasto di acqua e sabbia che
simboleggia la caducità della condizione umana. Data la casuale
coincidenza di rime, sono state unificate le quartine 7-8-9 in una dozzina di
versi pulp (ma non splatter).

1. FIERI DELLA NOSTRA TECNOLOGIA

Molti, medii, abbiam le ali:


ci chiaman xyyyyyyyyyyy

2. PARAMEDICI E NEFROLOGIA

"Puoi aiutarmi con le analisi?"


"Finisco le yyyyyy yyyyyxx"

3. DIMMI I RETROSCENA TV

"Su Mediaset cosa sai?"


E la xxyyyyyyyy YYY?"

4. NON SO CHE COMANDI TI FARANNO MANOVRARE

"Relais? Pulsanti? In breve,


forse yy yyyyyyyyy xxxx".
5.ORTOFONIA HIMALAYANA

Di pronuncia questo è un test:


non si dice "x’Xxxyyyy".

6. 7. 8. NON FAR SCENE, TI STO SOLO AMMAZZANDO

Non mi dire che non vale


e non darmi del maiale
rotolando per le scale.
Cerca di essere cordiale.
Non è un fatto personale,
anzi è cosa assai normale,
tu sai che sono imparziale
e, concedi, pur leale.
Non ci devi yyyyxx xxxx
se punto un’xxxx xxyyyy:
te lo dico yyyy x xxxxx.
L’onestà mia è totale.

9. SALOMONICO, IMMODESTO (E UN PO’ TAUTOLOGICO)

Ho una grande qualità


la mia giusta, xxxx xxyyyy

CHIUSURA DEL LUCCHETTO

(x da 1; y da 9)

10. PROVERBIO DI CANTIERE


Muratore, fai la xyyyy
che il padrone subappalta

SOLUZIONI

1) Multimediali
2) ultime dialiSI
3) SItuazione RAI
4) tu azionerai LEVE
5) L'EVErest
6) restAR MALE
7) ARMA LEtale
8) tale E QUALE
9) EQUA LEaltà
10) Malta
Biotechfobia
Roberta Ribali L’immagine di una mite pecorella , rimbalzata dai quotidiani alle copertine
dei più prestigiosi settimanali e alle reti tv di tutto il Pianeta ha evocato in
tutti noi inquietudini e reazioni con un unico denominatore: la paura. Paura
che, al pari di ogni percorso fobico, appare razionalmente sproporzionata
alla reale pericolosità dell’oggetto in sé: è la nostra immaginazione la reale
protagonista, capace di produrre una catena associativa che parte dalla
parola "biotecnologia" e arriva rapidamente a quadri apocalittici, visioni
perverse di legioni di Hitler, schiavi, produttori di organi da trapiantare
clonati e così via.
Si ha il terrore di ciò che potrebbe essere, non di ciò che è: e le ipotesi si
scatenano in presa diretta con il nostro inconscio, capace di immaginare gli
scenari più ripugnanti, annidati nel profondo di tutti noi. Queste dinamiche
oscure affiorano e si oppongono alle visioni razionali e serene di un utilizzo
dignitoso e corretto delle biotecnologie. I media e la science fiction - film e
romanzi miliardari - danno voce alle paure profonde, in un meccanismo di
esorcizzazione collettiva, che porta alla luce scenari sostanzialmente
irragionevoli ma anche infinitamente affascinanti.
Il confronto con la realtà è faticoso, implica una critica acuta, una libertà di
pensiero cui i più non sono abituati.
E la realtà ci propone il confronto con il Cambiamento. Ci troviamo di
fronte alla nostra conflittualità primaria; una parte della nastro natura umana
ci porta in avanti, a trasgredire superando il limite, in un percorso di
evoluzione e ricerca. L’altra parte sostiene la resistenza al cambiamento, la
certezza delle regole, l’affidarsi al dogma, rassicurante e protettivo, che non
può e non deve essere messo in discussione, pena l’angoscia e il terrore
dell’ignoto.
Il diktat autoritario e repressivo interviene dunque a questo punto; il No
viene gridato in nome del no perché no, poiché la ragione non lo sosterrebbe.
L’etica viene monopolizzata dai moralisti.
Le biotecnologie vengono messe al bando: dalla coscienza di molti, che
rifiutano di esaminarne gli usi, caso per caso, con pacatezza. Gli uomini di
potere, i politici, cedono alla demagogia del divieto: per ora proibiamo, poi
si vedrà. Non mi risulta che nessun Ministro della Sanità abbia aperto
democratiche discussioni o proposto referendum. In Italia, l’Ordine dei
Medici senza neanche degnarsi di consultare i suoi iscritti, si è pronunciato
"contrario", screditando con anatemi gli "uteri in affitto", ignorando
qualunque proposta di dibattito. Niente di nuovo sul Pianeta, dopo tutto:
dovremmo essere abituati dalla nostra Storia a sorridere e ad aspettare. Ma
in questo caso aspettare non si può: la velocità delle nuove scoperte cresce
in modo esponenziale. L’opinione pubblica dimentica anche a grande
velocità: molto rumore per la maternità di alcune signore sessantenni, fatto
clamorosamente irrilevante per l’ecosistema umano e metabolizzato senza
drammi.
Ad ogni nuova notizia in materia si produce un quantitativo maggiore o
minore di ansia, proporzionale alla minaccia di Cambiamento che si
percepisce: la tentazione di un Acting-out è grande. Definiamo come Acting-
out quell’azione immediata e poco elaborata che permette a ciascuno di noi
di risolvere le proprie situazioni ansiose in modo clamoroso, riducendo così
la tensione in modo irrazionale e sostanzialmente inutile: ad esempio
eliminando bruscamente un’amicizia o un amore che ci creano conflittualità,
troncando sui due piedi un rapporto di lavoro frustrante, agendo in modo
definitivo, rapido, tranchant. L’acting-out alla lunga non serve a niente: se
non elaboriamo profondamente le nostre conflittualità, le riprodurremo tali e
quali e ce le ritroveremo di fronte nelle prossime relazioni realizzando una
classica coazione a ripetere.
Una fobia non si risolve con i divieti: non si prende più l’ascensore, non si
va in aereo o in metropolitana. La nevrosi non fa altro che limitare la nostra
esistenza.
Il recupero dell’io, nella sua pienezza, avviene attraverso l’elaborazione del
conflitto.
Le biotecnologie caratterizzeranno lo sviluppo nei prossimi decenni e sarà
un processo inarrestabile. Sarà inutile frapporre dighe: ci sarà sempre
qualche piccolo laboratorio, da qualche parte del pianeta, che potrà sfuggire
a qualunque regolamentazione. Non a caso possiamo osservare che di
biotecnologie si interessano moltissimo i media economici: tutte le grandi
aziende farmaceutiche finanziano piccole consociate in cui si fa ricerca
avanzata nel settore. Piccole ditte usate con sapienza dai colossi
dell’industria, facilmente manovrabili, quindi sostanzialmente
incontrollabili.
Non resta quindi altro che la strada del confronto aperto e democratico per
ritrovare, nel rispetto della sensibilità di tutti, delle soluzioni ragionevoli che
regolamentino e promuovano un utilizzo "buono" delle biotecnologie.
Evitando, possibilmente, le trappole di un certo tipo di bioetica, facilmente
manipolabile da forme di potere che tendono a perpetuare le disuguaglianze.
Il dialogo, l’opinione di tutti può far elaborare rapidamente il conflitto e
superare l’angoscia della nevrosi.
Una storia troppo semplice
Rossana Di Fazio Larry Flynt di Milos Forman ha vinto l’Orso d’oro a Berlino poche
settimane prima che Hollywood si preparasse ad ignorarlo per incoronare
discorsi sull’Amore Rosa.

Cerco sempre di non aspettarmi niente, quando entro in sala. Però, mentre
vedevo Larry Flynt, non potevo fare a meno di avvertire un senso di
mancanza.

Il film è scorrevole, la storia vera (e davvero molto romantica).

Ma la autenticità del racconto, che ne legittima in un certo senso i termini,


ne ha anche circoscritto i limiti: di una storia vera non si possono discutere
gli sviluppi, ma se ne possono articolare le questioni, oppure no.
Le cose sono andate così: il povero (ricchissimo) Flynt deve tutte le sue
disgrazie alla società moralista americana e alla sua scelta di libertà. A suo
modo è un eroe e un martire.L’America però, infine, si riscatta, e la
Giustizia dà ragione a Flynt. Da questa prospettiva, il film potrebbe
appartenere a quel filone "legal-giudiziario", che nell’ancorare la storia
individuale ed esemplare ad una vicenda giudiziaria, misura lo stato della
moralità e dei valori di una nazione, in questo caso in materia di censura e
libertà di stampa. Protagonista del film, in questa cornice, è il primo
emendamento.

Questa piega di genere il film la prende solo nel secondo tempo. La prima
parte è all’insegna di altre questioni: i primi locali di Flynt, le spogliarelliste,
la ricerca di nuovi sbocchi a questo mercato, l’incontro con la bella Altea.La
vicenda qui viene inquadrata nel clima della rivoluzione sessuale dei primi
anni Settanta e, anche attraverso la figura della Festa Libertina, Larry e
Altea incarnano il cambiamento di costumi che valorizza la rottura dei tabù
sessuali.
C’è una sequenza molto dura e densa, assurda in un certo senso: è quella in
cui ad una convention autoprodotta per promuoversi come difensore della
libertà d’opinione, Flynt alterna diapositive tratte dal meglio della sua rivista
alla più triste iconografia di morte che si conosca: foto di guerra e di lager;
questo curioso contrappunto gli serve per interrogarsi e provocare il proprio
pubblico: cosa è veramente osceno? E’ l’unico punto (molto improbabile e
rozzo nella sua scarsa articolazione), ma cruciale, in cui ci si interroga sullo
statuto delle immagini e le cose, e soprattutto sulla loro funzione e la loro
strumentalizzazione.
Se si esclude questa sequenza, le cui premesse peraltro potrebbero
facilmente essere smentite, l’articolazione del discorso è molto elementare,
e davvero non capisco come abbia potuto il film sollevare critiche e censure,
visto che ad un certo punto abbandona completamente il piano cruciale,
quello che avrebbe potuto "muovere" davvero questioni che rimangono
sempre intrappolate nell’aut aut del duello frontale (e scontato) fra censura e
libertà.

Manca nel film il senso della complessità della questione.


Porre esclusivamente la questione della libertà di espressione in materia di
pornografia mi sembra sinceramente una prassi semplificatrice e quasi
ideologica, poiché partendo da quella premessa viene escluso qualunque
discorso di merito, qualunque discorso sui destini del corpo, la sua sacralità
e la sua mercificazione, la sostanza dell'erotismo e della pornografia e la
loro triste omologazione.

Il film finisce per dividere la società in due, i libertari e i bacchettoni, e


questa mi sembra una semplificazione della questione, e una conclusione
tutto sommato molto pacificatrice, anche alla luce del (relativo) lieto fine,
che riconosce all’America, ancora una volta, il ruolo di guida nel cammino
verso le libertà.

Così manca sempre qualcosa e benché non si possa certo rimproverare ad un


film di essere quello che è, ho la sensazione che sia venuto meno a se stesso,
abbassando il tiro di un racconto che avrebbe potuto abbandonare il piano
individuale e di "genere", aprire le parentesi che pone, ed entrare nel merito,
contraddittorio, difficile, davvero intoccabile.

Vedi Anche:

cinema.it
Appendi lo scettro al chiodo
Roberto Caselli Certo ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, nei primi anni settanta,
partecipare ad un concerto rock voleva dire indossare una divisa da
combattimento e rischiare l’incolumità tra lanci di sassi e bottiglie da una
parte e lacrimogeni dall’altra. Il tempo dell’autoriduzione selvaggia è finito
probabilmente per sempre tra la felicità degli organizzatori e la
rassegnazione degli spettatori; i figli degli anni novanta possono contare su
mance mensili più sostanziose e togliersi più di uno sfizio senza passare per
la porta di servizio. Di sicuro c’è ancora chi non può permettersi di spendere
cinquantamila lire per vedere i propri beniamini, ma il tempo del "tutto e
subito" fa parte della cultura di un’altra generazione e il giovane randagio di
oggi preferisce organizzarsi nel suo branco, crearsi un proprio giro
alternativo fatto di band di provincia che suppliscono alle star del momento.
Non è un caso che molti organizzatori abbiano intuito le potenzialità di
guadagno che comunque riservano queste sacche di periferia e cavalchino
oggi il fenomeno dell’heavy metal. Il costo di un concerto rimane comunque
un problema aperto soprattutto quando le strutture e spesso gli stessi artisti
non garantiscono la professionalità che, con quel che si paga, si ha il diritto
di esigere. Nelle grandi città non esistono spazi a misura per la musica rock,
le acustiche raramente sono all’altezza della situazione e la sicurezza delle
strutture spesso non è adeguata al numero di persone che possono contenere.
Recentemente è passato qui da noi in tour Chuck Berry, il re del rock’n’ roll,
un nome in grado di attirare un vasto pubblico di ogni età. L’attesa
ovviamente era grande, ma poiché le prevendite non garantivano il tutto
esaurito si è pensato bene di cambiare, nella stessa giornata del concerto
milanese, il luogo dell’esibizione. Il risultato è stato ovviamente disastroso
con l’aggravante che ad accompagnare Chuck Berry non c’erano certamente
fior di musicisti, ma dei dilettanti reclutati sul posto a mala pena in grado di
sostenerlo. Il sound check non è stato fatto e i fischi degli strumenti durante
il concerto hanno costretto gli stessi musicisti a spostare a caso gli
amplificatori e per completare l’opera il re del rock’n’roll si è concesso per
la miseria di cinquanta minuti, pause comprese.
I fischi impietosi del pubblico non hanno smosso più di tanto gli
organizzatori, nessuno si è neppure degnato di chiedere scusa. I re saranno
anche bizzarri, forse a una certa età avranno anche vita dura, ma per alcuni
sarebbe certo meglio posare lo scettro con più dignità. La storia è quella di
sempre, chi ha dato ha dato, chi non ha avuto, si arrangi.
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

PRE-VISIONI
I registi di domani alla prova

spettacoli degli allievi del IV anno del corso di regia della Scuola d’Arte
Drammatica Paolo Grassi in collaborazione con il Teatro Franco Parenti ed il
Teatro Verdi

EDIPO Teatro Verdi


da Sofocle 1-5 Aprile 1997
progetto e regia ore 21
Antonio Pizzicato ingresso £ 10000

via Pastrengo 16
tel. 02/5696786
LE SERVE Teatro Franco Parenti
da Jean Genet 11-20 aprile 1997
progetto e regia ore 21, domenica ore 16
Emanuele Bottari ingresso £ 10000

via Pier Lombardo 14


tel. 02/5457174

SERA D’AUTUNNO Teatro Franco Parenti


da Friedrich Dürenmatt 8-11 maggio 1997
progetto e regia ore 21, domenica ore 18
Benedetta Frigerio ingresso £ 10000

via Pier Lombardo 14


tel. 02/5457174

THANKYOUEVERYONE Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi


di Carlo G. Gabardini, Sala Teatrale, 20-21 maggio 1997
Andrea Gattinoni, Max ore 21
Papeschi, Bolo Rossini,
Valeria Sanna via Salasco 4
progetto e regia tel. 02/58302813
Max Papeschi
A tutti benvenuti sul nuovo numero di Golem. Qualche novità e due (anzi tre) argomenti fondamentali, che non
si esauriscono certo in questo numero.
Prima di tutto, tranquilli: Umberto Eco non è l’Anticristo.
E poi, come stanno le cose della cultura nei tempi dell’Ulivo?
Questa domanda l’abbiamo rivolta ad alcuni esperti "veri": persone che hanno una conoscenza approfondita
delle questioni calde nel campo dei beni artistici (Bertelli), della musica (Restagno), del teatro (Ponte di Pino),
del cinema. Molti hanno risposto immediatamente, altri ci hanno promesso le loro osservazioni prossimamente.
Abbiamo voluto escludere bilanci generici e approssimativi: in ciascuno degli interventi troverete, accanto a dei
giudizi di valore, anche delle soluzioni, delle proposte concretissime e operative.
Figlia (o madre?) dell’idea di Cultura che un paese coltiva, la Scuola è stata per anni una specie di tormentone
del dibattito politico. Troverete il testo della riforma Berlinguer (a vostra disposizione già da qualche giorno) e
autorevoli commenti: Cardini, Starnone, Blasi, il collettivo studentesco del Tasso di Roma.
Per non dimenticare vive anche in questo numero, sotto forma di dibattito sulla democrazia in rete.

Dopo tanti pensieri e rubriche, un saltino in Sala giochi non sarà che salutare: se ne apre uno nuovo, si rinfresca
quello vecchio, frequentatissimo, a furor di popolo.
Come vedete, ogni spazio di questo sommario merita la vostra attenzione: crediamo di meritarci la vostra
opinione, che nutre e dà senso alla rivista. Un’ultima cosa: guardatevi intorno, perché c’è un appuntamento.

Buona primavera a tutti.


L'Opus Dei smentisce che io sia l'Anticristo!
Umberto Eco Nella prima settimana di febbraio ero a Parigi per presentare un CDrom
multimediale alla Bibliothèque Nationale, quando ho ricevuto una serie di
telefonate di giornalisti italiani che mi chiedevano quale fosse il rapporto tra
le enciclopedie ipertestuali e l'Anticristo. Anzi, alcune domande
riguardavano i rapporti tra Internet e l'Anticristo, Internet e l'Apocalisse,
l'Apocalisse il fatto che io scriva su Golem, Golem e il dischetto ipertestuale
(Il Settecento della serie di Encyclomedia) che stavo per presentare - e
naturalmente tra l'Anticristo e la Bibliothèque Nationale di Parigi.
Anzitutto li ho pregati di fare una distinzione tra Cdrom, ipertesto e Internet,
perché ci possono essere dei Cdrom che non vanno su Internet, Internet può
essere ipertestuale (il Web) oppure no (l'e-mail), e visto che però la
differenza non veniva colta bene e si tornava sempre su alcunché di satanico
che dovrebbe esserci in tutte queste faccende, ho spiegato che un Cdrom è
come un libro, uno può metterci dentro di tutto, così come un editore può
pubblicare sia i Vangeli che "Mein Kampf", ma non vedevo il nesso.
Allora i giornalisti mi hanno informato che su "Studi Cattolici" era apparso
un articolo in cui mi si denunciava come l'Anticristo.
Mi hanno spiegato che, siccome questa rivista è comunemente associata
all'Opus Dei (prego non mandare smentite, perché riferisco soltanto quel che
loro dicevano), la notizia aveva fatto scalpore, era stata ripresa da importanti
quotidiani e da agenzie, e (mi hanno detto) era stato persino interpellato un
dotto e serissimo gesuita il quale, probabilmente sorpreso per telefono
all'alba da quesiti demenziali, aveva sobriamente escluso che fossi
l'Anticristo, e si era rimesso a dormire.
Sono stato tentato di mandare a quel paese (non al Diavolo) i miei
interlocutori, perché l'esperienza mi ha insegnato che chi fa domande su
Satana e sull'Anticristo è culturalmente depresso, socialmente pericoloso e
pronto per lo psichiatra; ma gli interlocutori stessi si scusavano per le
domande deliranti che le redazioni in ebollizione gli avevano imposto di
farmi. Il giorno dopo hanno scritto articoli abilissimi in cui, pur escludendo
che gli ipertesti avessero direttamente a che fare con l'Anticristo, lasciavano
qualche spiraglio problematico.
Non ho dato importanza alla notizia perché un altro collaboratore di "Studi
Cattolici", tale Blondet, aveva già scritto un libello in cui si provava come la
casa editrice Adelphi fosse una istituzione filo-giudeo-massonico-
satanistica, e le mie lunghe frequentazioni con la bibliografia del
complottismo internazionale, dall'abate Barruel ai "Protocolli dei Savi di
Sion", mi ha persuaso che questo tipo di letteratura spesso fiorisce perché è
economicamente redditizia, dato che esiste un ampio pubblico di esaltati,
occultisti, neonazisti e deliranti sfusi.
Rientrato in Italia ho ricevuto per una settimana telefonate di parenti e amici
che solidarizzavano con me asserendo di essere moralmente sicuri che io
non fossi l'Anticristo, cosa che mi è stata di grande conforto perché uno
potrebbe pur sempre essere l'Anticristo senza saperlo.
Pochi giorni fa mi è finalmente arrivata la copia di "Studi Cattolici"
accompagnata da un biglietto gentile di Rino Camilleri, autore dell'articolo
incriminato, in cui mi si dice che - visto che i giornali stavano stravolgendo
il senso del suo "divertissement" - desiderava che ne prendessi visione.
Devo rendere giustizia a Camilleri perché il suo pezzo si presenta
esplicitamente come uno scherzo fanta-occulto (come io stesso ne ho scritti
tanti). Al massimo si potrebbe rimproverare l'autore di averlo pubblicato su
una rivista che qualche pagina dopo stampa un articolo sul "satanismo" di
Carducci in cui riappare la teoria ottocentesca di quel complotto di società
segrete ha prodotto tutti i mali del mondo dalla rivoluzione francese
all'Unesco, onde travolgere Trono e Altare. Non si nega alla rivista il diritto
di polemizzare contro il laicismo anticlericale, altrimenti che studi cattolici
sarebbero, ma a giocare coi complotti occulti (senza accorgersi che tutti gli
eventi deprecati si sono svolti invece alla luce del sole) si finisce per
ragionare come le società segrete "gnostico-massoniche" contro cui si
polemizza. Chi va troppo col Diavolo comincia a diavoleggiare ed ecco
come, in un contesto del genere, anche uno scherzo innocente può
acquistare sapore di zolfo.
Però, a parte i frequentatori di quelle librerie umbratili dove si vendono
magia, cabala ebraica, antisemitismo nazista e massoneria neotemplare
(ecco i miracoli del sincretismo esoterico), chiunque poteva capire che
quello di Camilleri era un gioco, farcito di dotte civetterie. Il problema è
dunque come sia stato preso per oro colato da parte della stampa detta laica.
D'altra parte due anni fa un giovanotto tedesco aveva scritto un altro articolo
palesemente scherzoso ipotizzando che io non esistessi e fossi tre persone
diverse. In Germania chi aveva letto l'articolo si era fatto quattro risate, ma
in Italia avevo dovuto staccare il telefono perché vari giornali volevano
sviluppare la notizia e, visto che non esistevo, ritenevano urgente
intervistarmi.
Siccome in questi casi la stupidità è esclusa, non rimane che la decisione del
falso "scoop". Decisione autocastratoria perché sottintende questa filosofia:
non pensiamo che i lettori bevano tutto, ma siccome ormai non credono più
a nulla di quel che leggono, tanto vale divertirli.
Che l'Anticristo (ormai tra noi) sia il giornalismo scandalistico?
Ministero della Pubblica Istruzione
Documento di lavoro sul riordino dei cicli scolastici

0. Premessa
0.1. Approccio globale 0.2. Idee guida 0.3. Obiettivi
1. Scuola di base
2. Scuola secondaria
2.1. Orientamento e conclusione dell’obbligo scolastico 2.2. Scuola superiore
3. Istruzione post-secondaria
4. Il sistema della formazione professionale
5. Insegnanti e formatori
6. Itinerario
7. I bambini che nasceranno....
8. Tavole:
8.1. Il sistema scolastico italiano in vigore

8.2. Proposta di riforma

8.3. Tempi di attuazione

8.4. Il sistema scolastico nei paesi europei


Alcuni ingenerosi e tendenziosi rilievi
Franco Cardini Ebbene, sì. Non riesco a sfuggire all’autosospetto - sono persona molto
autosospettosa - d’ingenerosità e di tendenziosità nel segnalare alcune cose
che mi sembrano poco opportune e molto rischiose nella politica
universitaria e scolastica di Luigi Berlinguer. Mi vado da un po’ chiedendo
che cosa dovrei fare io, e che cosa invece farei, se fossi al suo posto. Che
cosa dovrei fare, è chiaro: rassegnare in tronco le dimissioni, dopo aver
constatato che la crisi universitaria e scolastica italiana è giunta a un punto
tale che ogni tipo di riforma men che radicale è un palliativo più o meno
come la cura della polmonite con un’aspirina, mentre una riforma radicale è
improponibile se non nel contesto d’una radicale riforma di una società, vale
a dire di una rivoluzione, soluzione questa lontano dalle prospettive
realistiche e comunque poco auspicabile. Che cosa invece farei penso,
ohimè, di saperlo benissimo: resterei al suo posto, un po’ per dovere
lealistico di squadra, un po’ per civica, professorale, patetica convinzione
che far qualcosina è sempre meglio che non far nulla e un po’ perché - come
il grande Andreotti insegna -mollare spontaneamente una poltrona è sempre
un grave errore.
Onore al merito, anzitutto. Dopo Gentile nel ’23 e Bottai nel ’39, Berlinguer
è il primo a tentare una riforma vera. La nostra scuola - pensata nel secondo
Ottocento per una ragione civica sacrosanta allora ma ormai superata e
riformata due volte per renderla (con parziale successo) congrua rispetto alla
natura e ai fini della società fascista - era sopravvissuta a se stessa e al
fallimento dei modelli che l’avevano ispirata da ben cinquantadue anni. Era
ora di farci qualcosa che non fosse il deprimente lavoro di rammendo delle
leggistralcio, dei decreti delegati, degli scivoli, degli alibi e dei rinvii.
Ciò premesso, questa è purtroppo una riforma che non c’è. Berlinguer, che è
un uomo dell’Università e che di queste cose se ne intende, sa benissimo che
i punti nodali dell’insegnamento e dell’apprendimento nel nostro paese sono
tre. Primo: la mancanza di rapporto tra i congedati del nostro sistema scolare
(diplomati o laureati che siano) e il mercato del lavoro con le relative
prospettive di assorbimento dei primi all’interno del secondo.
Secondo: la totale e drammatica inadeguatezza delle infrastrutture e in
particolar modo la mancanza o la gravissima carenza di strumenti
tecnologici sul piano informatico che consentano un rinnovamento dei
metodi e delle tecniche dell’insegnamento e dell’apprendimento.
Terzo: la presenza massiccia, specie a livello della scuola media, d’un
personale docente in sovrannumero e per giunta impreparato, frustrato,
proletarizzato sotto il profilo culturale e intellettuale, privo di autorità e di
prestigio, demotivato ed estraniato rispetto al suo lavoro, sfiduciato nei
confronti del suo ruolo e della sua professionalità.
L’Università si trova dinanzi alla questione del "numero chiuso", passo
necessario ma per nulla sufficiente a sanare la situazione.
Signor Ministro, non basta che Lei sfidi l’impopolarità di certi ambienti
specie giovanili della sinistra dichiarando che il "numero chiuso" è una
soluzione obbligata, così come in prospettiva è obbligata la lievitazione dei
costi dello studio. Lei deve trovare la lucidità e il coraggio necessario per
denunziare il fatto che il "numero chiuso" c’è già, e sulle teste delle
categorie più deboli, quelle che mantengono i loro figli nell’Università
pubblica ricevendo in cambio lauree svalutate e candidandoli alla
disoccupazione o alla pseudoccupazione. Perché nella realtà delle cose le
categorie più abbienti e privilegiate si stanno costituendo o si sono già
costituite - dalle lauree "grazie a Cepu" fino ai vari masters aziendali e
all’iscrizione nelle Università di altri paesi - gli strumenti per assicurare il
ricambio a livello di certo dirigente e di élite, mentre ai non-privilegiati resta
lo strumento usurato e dequalificato dell’Università pubblica. Ma per un
rilancio e un risanamento dell’Università pubblica occorrono varie cose, tra
cui le seguenti: primo, una verifica accurata del livello di preparazione e di
adeguatezza del corpo insegnante, specie di quello configuratosi a partire
dagli Anni Settanta; secondo, un forte intervento di copertura economica
dello stato e una sostanziale, rigorosa revisione dei costi dello studio con
relativo adeguamento; terzo, una politica massiccia e robusta di borse di
studio che premino il merito reale e correggano le sperequazioni sociali che
stanno alla base d’una selezione delle élites che si sta attuando a un livello
sempre più censitario: il che dovrebbe andare nella direzione d’un
rafforzamento e d’un risanamento, non già d’una eliminazione dello stato
sociale.
La scuola. Ho già detto che il vero nodo è costituito dall’inadeguatezza delle
strutture e dalla preparazione degli insegnanti. E’ a questo punto
impensabile una riforma della scuola senza un sistematico impegno nel
senso d’un aggiornamento professionale e scientifico serio del corpo
docente: l’instaurazione di vari corsi organici, tenuti da docenti universitari,
caratterizzati da una frequenza obbligatoria e sostenuti quindi da un sistema
di "anni sabbatici" dei quali i docenti elementari e medi dovrebbero fruire
con lo scopo dell’aggiornamento e con l’obbligo di dar prova pubblica dei
frutti di tale lavoro attraverso esami di profitto. Questo occuperebbe più
utilmente i docenti universitari che sono in eccedenza e hanno stipendi
troppo alti per i loro stretti obblighi d’insegnamento; e riqualificherebbe il
corpo docente fornendogli fiducia in se stesso e autorevolezza.
Ma Ella, signor Ministro, ha cominciato dai programmi. Ella ha scelto l’
"effetto placebo" d’una parvenza di riforma incentrata su un ridicolo
spostamento delle periodizzazioni. Ella ha sventolato la bandiera ideologico-
demagogica dello studio più approfondito di un Novecento per il quale si
stanno già approntando in tutta Italia tante nuove piccole Frattocchie, tante
piccole scuole per nostalgici delle scuole di partito dove s’insegnerà una
modestissima teologia neoresistenziale per orfani del Sessantotto e del
Settantasette. Si farà un Novecento fatto di Resistenza, più un pizzico di
guevarismo, più una spruzzata di attualità a colpi di strumenti massmediali
di risulta. Al massimo, sarà una foglia di fico a coprire il fallimento della
defunta metaria detta "Educazione Civica", un abortuccio degli Anni
Settanta da anni già tacitamente gettato nel cassonetto dove si buttano le
buone e le meno buone intenzioni.
Novecento? Ma Ella e i Suoi esperti, signor Ministro, non si sono neppur
domandati dove cominci, storiograficamente parlando, il Novecento. Aveste
almeno avuto il coraggio di seguir le indicazioni di un anglomarxista serio
come Erich Hobsbawm e farne un "secolo breve", che comincia dal 1918
(laddove io sospetto per contro che sia un secolo lunghissimo, che non si
capisce se non si comincia dal 1848 o almeno dal 1870). Il decreto
ministeriale, invece, parla di Novecento punto e basta, proprio così. Alla
faccia di decenni e di fiumi d’inchiostro versati su un’interminabile
discussione tra gli specialisti, il secolo XX comincia, nelle scuole, dal 1900
(o dal 1901). Felicitazioni ai suoi esperti, signor Ministro.
E ringraziamenti vivissimi da parte non solo dei convinti europeisti come il
sottoscritto, ma anche di tutti i cittadini italiani che si svenano pagando
eurotasse e subendo manovre e manovrine per "entrare in Europa". Perché
di quest’Europa nella quale dovremmo entrare non c’è traccia nei Suoi
programmi scolastici, che per il momento si limitano alla "riforma" (!)
dell’insegnamento della storia. Identità europea, coscienza europea,
formazione di futuri cittadini che siano coscienti del loro essere europei.
Anno Zero, Notte e Nebbia.
Allo stesso modo, un mucchio di belle felicitazioni per la sensibilità e le
aperture nei confronti del mondo extraoccidentale. Mondialismo e
globalismo avanzano, e mi permetta di dirLe che a me non piacciono: ma,
visto che gli occidentali paiono ben decisi a ereditare la terra (e ne
consumano, essi 20% della popolazione mondiale, l’80% di risorse e
ricchezze), non gliela vogliamo un po’ spiegare questa grande avventura del
genere umano, evitando di continuare a fingere che essa si esaurisca nella
storia universale? Ma di tutto ciò, signor Ministro, nei suoi programmi di
storia non c’è traccia: si parte da una preistoria ch’è evidentemente al
massimo quella eurasiatico-mediterranea e si procede a dritto, con
ottocentesco sprezzo di tutte le altre civiltà grandi e piccole. Non una parola
sulla Persia, sull’India, sulla Cina, sull’America precolombiana. I nostri
ragazzi debbono capir bene il Novecento, dice Lei? Perfettamente: e come
lo capiranno se non insegniamo ad esempio loro qualcosa sulla storia
orientale sulla quale stanno impiantate le radici della crisi arabo-istraeliana
non meno che quelle della ridefinizione dell’ex impero sovietico e quelle del
fondamentalismo islamico?
Non vedo niente di tutto ciò nella sua riforma, signor Ministro. Se ne
avessero fatta una simile gli sprovveduti del Polo (che tuttavia hanno la
colpa di non averci neppur provato) oggi le nostre aule universitarie
sarebbero quasi tutte occupate, dalla Lombardia alla Sicilia, e le strade
invase dalla protesta "di piazza". Ma l’Ulivo possiede al suo interno,
com’Ella sa, antidoti e anticorpi necessari a far sì che ciò non avvenga. Un
bel vantaggio, sul piano tattico. Le auguro che esso non Le si rivolga contro
su quello strategico. E, soprattutto, che non danneggi ulteriormente e
irreversibilmente un paese nel quale il sistema scolare è già in via di
liquidazione. Del resto la Sua riforma, della quale non discuto le buone
intenzioni, non ci porta nemmeno al limite della scuola dell’obbligo dei 16
anni previsto dai livelli europei. E allora, signor Ministro, me lo permette un
sospetto? Non sarà per caso che istruzione pubblica e diritto allo studio sono
ferrivecchi, che al progetto di ridefinizione neocapitalista del pianeta non
interessano e non servono più?
E il piacere?
Domenico Starnone Diciamo così, molto schematicamente: è urgente progettare e realizzare una
scuola in cui, per studenti e insegnanti, il piacere di esserci sia più forte di
quello di non esserci. Ma oggi, almeno nella scuola media inferiore e
superiore, le cose (salvo eccezioni) non stanno a questo modo. E’ vincente,
piuttosto, il tran tran della mala educazione, vale a dire l’educazione, nella
noia, al conformismo e alla superficialità.
Il riordino dei cicli scolastici proposto da Berlinguer se ne preoccupa?
Muove nella direzione di una scuola che cancelli la disaffezione tradizionale
e più che mai dilagante per aule e banchi? Direi di no. Al centro della
proposta mi pare che ci siano, invece, vecchie preoccupazioni: ridare alla
scuola il ruolo di ingranaggio capace di rendere adeguatamente "produttive"
le nuove generazioni; riconsolidare l’idea che l’istruzione pubblica è
essenzialmente un avviamento alle attività lavorative; rinforzarne il ruolo di
ratifica "oggettiva" delle gerarchie socioeconomiche e culturali. Lo sforzo,
cioè, non pare rivolto a ripensare la funzione della scuola e dello studio, ma
ad aggiornarne gli ordinamenti invecchiati secondo le necessità della
cosiddetta terza rivoluzione industriale. Non è poco. Ma, quanto alla
sostanza dei problemi che oggi logorano la vita scolastica, non è niente di
molto diverso da quello che accade da sempre. Vale per gli studenti d’oggi
quello che annotava Sant’Agostino millecinquecento anni fa: la costrizione
allo studio ha come unica incomprensibile giustificazione, agli occhi dei
bambini e dei ragazzi, la necessità di darsi un posto nel mondo, la necessità
di eccellere in qualcosa per avere "l’onore degli uomini e false ricchezze".
Con quale risultato? Mi facevano notare, di recente, che se si chiede a
studenti di ogni ordine e grado: "Cosa avete fatto oggi a scuola?", in genere
essi rispondono "Niente". Ore di lavoro, ore di tensioni, ridotte a "niente".
La scuola della malavoglia, fatta per costrizione, per necessità, è appunto
"niente". Senonché è questo "niente" il vero nemico da combattere. Se la
scuola di massa vuole davvero un futuro di qualità, e non semplicemente
una veste più "europea" per il proprio niente, deve poter ricorrere alle
tecnologie didattiche più avanzate, deve avere la capacità di intervenire in
modo oculato sulle situazioni extrascolastiche che causano svantaggio, deve
soprattutto dare agio al rapporto docente-allievo, senza il quale non vi è
comunicazione di passione, di piacere intellettuale, di sapienza vera. Questo
significa danaro a ufo: danaro per riorganizzare in modo radicale la
formazione degli insegnanti: danaro per remunerarli in funzione di un lavoro
non di routine; danaro per moltiplicarne il numero nelle situazioni più
difficili; danaro per affiancar loro esperti di varia formazione; danaro per
ripensare le strutture scolastiche; danaro per acquistare e imparare a usare i
sussidi didattici più evoluti; danaro per fare della scuola un posto
accogliente, efficacemente attrezzato. Perché l’insegnamento fatto con
quattro soldi, come oggi, è un insegnamento da quattro soldi. Ma i ministri
tendono a pensare svolte epocali senza parlar di spesa. E quindi sbandierano
riordini della facciata che servono solo a rendere più ringhiosi gli insegnanti
e a rendere più assenti gli studenti.
Contro il "niente" è l’idea stessa di studio che va modificata. Più meschina è
l’origine sociale, più gli studenti sentono lo studio come una prova carica di
minacce. La scuola pensata in chiave di ratifica (abusiva, precoce,
infondata) di capacità e attitudini (quindi di ipotetica collocazione
economico sociale) riduce l’apprendimento non al desiderio di sapere ma
all’ansia di farcela. Esempio: la storia, la matematica, la letteratura non
valgono di per sé, ma come un ostacolo da superare di trimestre in trimestre,
di anno in anno, per arrivare al diploma, alla laurea come simbolo di una
condizione futura. Questa modalità di studio non serve a crescere, ma a
marchiare: c’è chi ce la fa, chi ce la fa un po’ meno, chi non ce la fa affatto.
Conseguenza: lo studio o è vissuto con ansia, con conformismo, con
subordinazione, truffaldinamente; o, dai più svantaggiati, è rifiutato come
uno sforzo inutile, pregiudizialmente segnato dall’insuccesso. Nella scuola
dove gli studenti dicono che non fanno "niente" lo studio in linea di
massima oggi è così. Sicché o il mondo adulto riesce a popolare densamente
e appassionatamente questo niente, o nessun riordino dei cicli scolastici
servirà ad alcunché. Paradossalmente non servirà nemmeno alle necessità,
come si dice, dello sviluppo.
Contraddizioni e ambiguità
Il Collettivo Apprezziamo il fatto che il Governo si sia mosso nell’ambito di un riordino
del Liceo Ginnasio della secondaria superiore e dell’intero sistema scolastico che in Italia ormai
Torquato Tasso risale alla riforma Gentile del 1923. Tuttavia il testo, anche perché non è
di Roma altro che un semplice documento di lavoro, si presenta molto generico, vago
e approssimativo, mancante delle esplicazioni necessarie a delineare con
precisione le modalità di concreta attuazione di quello che è solo un profilo
generale della riforma. La prima parte del testo si limita ad enunciare i
principi di massima che dovrebbero improntare l’intero ordinamento
scolastico; ma se si esamina in modo più specifico la seconda parte si
riscontrano varie contraddizioni ed ambiguità:

1. Mentre fino ad ora si era sempre ipotizzato, a proposito dell’innalzamento


dell’obbligo, l’istituzione di un biennio comune al termine della scuola
media inferiore, la proposta del governo è quella di "innalzare" l’obbligo
scolastico anticipando l’ingresso nel mondo della scuola a 5 anni, questa
soluzione facilita l’approccio alla scuola di base, ma non aumenta
effettivamente la durata del corso di studi obbligatorio.

2. Mentre l’opinione comune vede già nell’attuale sistema la scelta


dell’indirizzo formativo come una decisione troppo impegnativa per un
quattordicenne, nel documento di lavoro si prospetta l’anticipazione a 12
anni di una scelta di specializzazione che probabilmente determinerà tutta la
carriera scolastica dello studente. L’innalzamento dell’obbligo, a nostro
parere, dovrebbe significare una ulteriore estensione della cultura generale
uguale per tutti a fasce di età più allargate e non è certo specializzando lo
studente a 12 anni che si raggiunge questo obiettivo.

3. Giudichiamo negativamente la scomparsa della ciclicità del corso di studi


prospettata dal nuovo sistema, poiché lo studente si troverebbe ad affrontare
degli argomenti di studio che non saranno più trattati ad una età in cui non è
in grado di comprenderli pienamente.
4. Riscontriamo inoltre una contraddizione tra quanto enunciato nella prima
parte del testo circa il bisogno di una maggiore flessibilità nel lavoro e
quanto invece si desume dall’analisi del progetto: nella seconda parte,
infatti, viene più volte affermata la necessità di una sempre maggiore
specializzazione che, oltre a non conciliarsi con la tanto decantata
flessibilità, è secondo noi negativa e contrastante con un mondo del lavoro
che sta eliminando il concetto di professione fissa.

5. C’è poi da chiarire meglio il rapporto fra studenti e mondo del lavoro
(agenzie formative e centri di formazione professionale). Il documento di
riforma prevederebbe in merito la possibilità per lo studente di svolgere
un’attività lavorativa, nell’ultimo anno della scuola dell’orientamento, sotto
il controllo della scuola e più specificamente del suo "tutor" (una nuova
figura poco definita che lo dovrebbe seguire nel corso del suo ciclo
scolastico). Questa possibilità, oltre ad essere guardata con le dovute
precauzioni relative all’ingresso dei privati nella scuola, non ci pare
corrispondere all’idea della democratica scuola dell’obbligo perché
introduce il lavoro specializzato là dove si dovrebbe garantire un’istruzione
comune fondamentale per la formazione del cittadino.

Legata a quest’ultimo punto è l’assenza dei programmi e di una


quantificazione e specificazione delle ore dedicate alle materie principali in
base all’indirizzo scelto. Anche per questa ragione è impossibile fornire del
documento un giudizio più preciso sebbene le linee portanti siano molto
evidenti e altrettanto discutibili.

Ci sembra comunque di grandissima importanza che si inizi un lavoro di


analisi e critica attenta da parte di tutte le componenti della scuola e degli
intellettuali italiani di un documento di lavoro ancora suscettibile di molte
modifiche perché questa riforma, tanto desiderata e sofferta, realizzi
realmente il progetto di un interesse comune per la formazione di una scuola
pubblica rinnovata ed efficiente ispirata ai valori della democrazia e della
libertà.
1000 miliardi per le scuole: "manovra aggiuntiva" entro il
termine di legislatura?
Giulio Blasi Il progetto del Ministro Berlinguer di stanziare 1000 miliardi per la
diffusione di strumenti informatici nelle scuole italiane è un progetto
assolutamente cruciale.

Zambardino (sul Venerdì de La Repubblica del 21 febbraio) invita alla


cautela citando una anonima ricercatrice americana della Apple che trova
"insoddisfacenti" le esperienze americane di introduzione del computer nelle
scuole. Si tratta di una cautela mal indirizzata, però: in Italia saremmo
davvero felici di poter giudicare "insoddisfacente" il tasso americano di
diffusione del PC e di Internet nelle scuole e nelle università.
Sfortunatamente, noi italiani abbiamo altri problemi, più basilari, da
risolvere e da risolvere in fretta. Tra questi quello di aumentare (in un modo
o nell’altro) la massa critica di utenti di strumenti informatici in campo
didattico.

Ecco una mappa per cogliere le differenze tra i paesi del G7 in questo
ambito di problemi.

● USA
● Canada
● Giappone
● Germania
● Francia
● Gran Bretagna
● Italia

E’ evidente che bisognerà applicare ogni attenzione ai meccanismi di spesa


dei 1000 miliardi stanziati da Berlinguer. In che modo si terrà conto delle
esperienze già realizzate? Quali studi di settore verranno utilizzati per
indirizzare la spesa? In che modo verranno coinvolte le imprese italiane
dell’informatica? Quali standard tecnologici proporre? In che modo
calibrare l’investimento sull’off-line e sull’on-line? Che infrastrutture
impegnare per costruire un network delle scuole italiane davvero efficace?
Tutte domande importanti cui certamente il Ministro dedicherà la dovuta
attenzione.

Penso tuttavia che il Ministero faccia molto bene a limitare il suo intervento
alla delineazione di un semplice quadro di regole e standard minimi per la
spesa di questi 1000 miliardi e lasciare le scuole (le singole scuole) libere di
orientarsi autonomamente nella spesa.

Una scuola dedicherà la sua attenzione alla computer grafica mentre un’altra
si concentrerà sul multimedia per la didattica. Alcune sceglieranno di
investire in connessioni di rete più potenti, altre di dotarsi di dispositivi
hardware migliori e di periferiche più avanzate. Alcune utilizzeranno il
computer solo per il word processing, altre si spingeranno ad integrare
applicazioni più complesse nella didattica della matematica e delle scienze.
Chissà. Vedremo.

Vi fate un’idea più precisa dello stato attuale dell’arte in Italia (e all’estero )
sfogliando questo indice preparato dagli autori del progetto bolognese
Kidslink .

Una strategia di deregulation del finanziamento ministeriale mi pare più


adeguata al vero obiettivo di Berlinguer. Che non è tanto l’ "aggiornamento"
tecnologico delle scuole italiane ma l’inizio di un processo di integrazione
vera delle nuove tecnologie nella didattica delle nostre scuole. Un’impresa
che non è regolabile per la semplice ragione che non ha direttrici precise e
preesistenti da seguire. Gran parte degli effetti futuri del finanziamento di
Berlinguer dipenderanno dalla creatività e dalle scelte dei singoli docenti e
dei loro studenti nel processo concreto dell’insegnamento e dello studio.

Se posso permettermi un suggerimento, credo che questo progetto debba


partire già con un’ipotesi di rilancio (come per la "finanziaria di primavera"
in rapporto all’obiettivo europeo). 1000 miliardi quest’anno e ancora altri
1000 miliardi entro il termine della legislatura, per stabilizzare il processo e
imprimere nuova energia al rinnovamento iniziato. Il tutto, evidentemente,
sulla base di verifiche e analisi precise delle esperienze realizzate. "On the
fly", come dicono gli informatici.

Un simile immediato rilancio contribuirebbe più di ogni altra cosa al


processo di creazione della "Società dell’informazione globale" disegnato
(tra gli altri, anche con il contributo di Prodi) nel cosiddetto Rapporto
Bangemann. Forse più ancora delle strategie dei grandi gruppi di
Telecomunicazione.

Si tratterebbe di un’iniziativa in grado (non tanto paradossalmente se si


pensa alla storia di altri paesi) di spostare l’attenzione del mondo dei new
media verso il luogo naturale per la sperimentazione e l’integrazione sociale
delle nuove tecnologie: la scuola.

Come i 65.000 miliardi dell’ultima manovra finanziaria, i 1000 miliardi di


Berlinguer per le scuole sono un segno importantissimo di volontà da parte
del Governo. Manteniamo l’acceleratore pigiato (limiti di velocità
permettendo).
La musica all’ombra dell’Ulivo
Enzo Restagno Di musica nel nostro paese, anche all’ombra dell’Ulivo, si continua a farne
poca e non nel migliore dei modi. Se si chiedesse poi a qualcuno di coloro
che dovrebbero occuparsene di riassumere la situazione della musica in
Italia, costui verrebbe a trovarsi in una condizione imbarazzante poiché la
musica da noi non è mai entrata nel novero delle discipline alle quali si
annette ufficialmente valore culturale.
Capita ogni tanto di ascoltare qualche voce in difesa del ruolo che alla
musica dovrebbe spettare nella nostra società: sono lamenti e amari sarcasmi
che con frequenza piuttosto rada si sono ascoltati per anni ma adesso
sarebbe ora di smetterla per comprendere una buona volta che quelle
deplorazioni sono un alibi a buon mercato. Da quando abbiamo al governo
uno schieramento politico che si dichiara ed è probabilmente più sensibile
alle cose della cultura di tutti quelli che lo hanno preceduto, abbiamo il
diritto di aspettarci una politica culturale più attiva e consapevole, anche per
la musica.
Il vero problema per una politica musicale degna di questo nome e
soprattutto della qualità della musica italiana, è riuscire a comprendere la
differenza che passa tra conservazione della tradizione e cultura del
presente. Ed è proprio a sostegno di questa cultura del presente, l’unica
veramente lungimirante, che cercherò di dare qualche suggerimento .
Lo sanno coloro che ci governano che l’Italia, paese dall’economia un po’
fragile e dagli equilibri sociali non proprio esemplari, è considerata nel
mondo un gigante musicale? E questo non solo per aver dato i natali a
Palestrina, Monteverdi, Scarlatti, Vivaldi, Rossini, Verdi ecc. ma per essere
capace di produrre da alcuni decenni personalità musicali cui va
l’ammirazione di tutti. Proprio qui sta il punto: ad ammettere che l’Italia col
suo passato musicale costituisca un mirabile museo non ci vuol molto; più
difficile ma anche molto più importante è prendere atto che la nostra civiltà
musicale presente possiede una ricchezza e una varietà tra le più rare ed
ammirevoli. Bruno Maderna, Luigi Nono, Luciano Berio, Franco Donatoni
(tanti altri ne potrei citare ma le liste più diventan lunghe più rischiano di
apparire anonime) messi insieme non fanno probabilmente metà della
popolarità di Pavarotti ma Pavarotti passa e loro restano. Maderna e Nono se
ne sono già andati ma la loro musica sempre più diventa oggetto di
ammirazione, di studio e di ascolto. A Berio, Nono, Maderna, Donatoni e a
tanti altri maestri l’Italia deve la sua formidabile reputazione musicale.
Vi sembra una cosa trascurabile? Devo dedurre di si perché fino a oggi per
quella realtà musicale non si è fatto praticamente nulla. Questo è il primo
suggerimento che vorrei porgere ai rappresentanti della politica culturale
dell’Ulivo: aprite gli occhi su questa prestigiosa ricchezza della nostra
musica e fate qualcosa per sostenerla perché per quella realtà culturale che
fa di noi nel mondo contemporaneo dei protagonisti, non si fa praticamente
niente, obbligando i nostri compositori più giovani e talentosi ad una sorta
di emigrazione verso la più generosa e lungimirante Parigi.
Il tono accorato che gli appelli in difesa della cultura contengono mi sembra
talmente patetico e scocciante che mi limiterò ai dati della cronaca: Febbraio
1997, a Parigi Radio France celebra il suo sontuoso festival di musica
contemporanea. Decine e decine di concerti sinfonici e da camera tutti
dedicati alla musica italiana di oggi con ben 18 esecuzioni dedicate soltanto
a Berio. Il direttore della musica a Radio France, Claude Samuel, giura che
la scuola italiana è una della "più vive, più interessanti e più varie".
I paesi musicalmente più evoluti dell’Europa da anni si sono dotati di uno
strumento essenziale per la diffusione della musica di oggi. Hanno dei bei
nomi questi strumenti: "Ensemble Intercontemporain" a Parigi, "London
Sinfonietta" a Londra, "Ensemble Modern" a Francoforte. L’Olanda che è
un paese piccolo ma di grandissima cultura musicale, di strumenti del
genere ne possiede addirittura tre, l’Italia neanche uno.
La RAI dell’Ulivo non potrebbe organizzare anche lei il suo festival di
musica contemporanea, magari in collaborazione con le consorelle francesi,
inglesi, tedesche, olandesi ecc.? Ma un festival vero, di gran classe, fornito
della massima apertura culturale, capace di guardare in casa nostra ma anche
lontano, fino in Corea, in Cina, in Giappone e in tutti quei posti dove si
stanno sviluppando le sedi di una civiltà musicale ormai planetaria. Non è
difficile: ci vuole solo un po’ di competenza ed una giusta valutazione della
profondità e ampiezza dei nostri giacimenti musicali. E la RAI dell’Ulivo,
subentrata all’amministrazione che ha falciato le sue orchestre e i suoi cori,
non potrebbe cercare di far nascere, magari con altri partners,
quell’Ensemble specializzato ( una minuscola ma agguerritissima orchestra
da camera) che tutti gli altri paesi musicalmente evoluti posseggono? Dopo
tutto occorrono risorse abbastanza modeste e, bene inteso, sono qui per
darvi una mano.
Via col vento
Carlo Bertelli Il brutto colpo dei ladri al museo di Piacenza, improvvisamente privato di
una gloria recentissima, la scoperta di un dipinto di Klimt nascosto sotto un
altro, sempre suo, di proprietà del museo, ha dato l’ultima cattiva notizia del
mese. Commentando alla radio l’accaduto, il comandante del nucleo dei
Carabinieri a protezione del patrimonio artistico ha dichiarato che i furti
avvengono nei musei comunali e non in quelli statali, meglio sorvegliati e
protetti. Non è del tutto vero, ma in percentuale il comandante potrebbe
avere ragione. E allora? Credo che pensiamo tutti che il patrimonio artistico
vada salvato a chiunque appartenga e che dunque, anziché accusare i
comuni, ci si debba chiedere a che punto è un servizio che aiuti anche i
comuni a proteggersi.
Come è noto, sono anni che vige il blocco delle assunzioni negli enti locali
ed è già questo un grosso motivo di disparità. Se un nuovo sistema federale
dovesse perpetuare il distacco dell’amministrazione statale, che si considera
centrale, dal territorio sarebbe un bel guaio anche per i musei, le biblioteche,
gli istituti di cultura. E’ che le nostre strutture culturali sono quelle pensate
da Napoleone e continuate con l’unità, e non ci si stancherà mai di ripetere
che è necessario un piano organico nuovo arrivando al 2000.
E’ invece sorprendente come si salti facilmente sul primo tram che passa,
senza chiedersi dove portino i binari. E’ il caso di Milano, dove fioccano le
proposte di nuovi musei. Non importa se la Grande Brera è stata promessa
vent’anni fa, e non si sa se e quando sarà realizzata e se il CIMAC, il museo
comunale d’arte contemporanea, promesso come grande museo nel Palazzo
Reale, è confinato in soffitta mentre i lavori di ristrutturazione non hanno
mai fine. Anzi proprio per queste insufficienze si continua a inseguire
miraggi lontani.
Mesi orsono l’assessore Daverio volle allestire una "prova generale" per
quello che potrebbe essere un nuovo museo d’arte contemporanea. Svuotò
mezzo CIMAC e si fece prestare opere che al museo non arriveranno mai,
perché sono di banche, di mercanti o di collezionisti che non le cedono.
L’idea di giocare con le collezioni ha subito generato un’altra proposta.
"Facciamo un museo del Futurismo". Buttata là, l’idea riscuote immediato
successo. Non si pensa che, a volerlo fare, occorrerebbe condannare
irrimediabilmente i musei che già esistono.
E’ infatti difficile parlare di acquisti in questo campo. Un Boccioni venduto
alla Finarte sei anni fa, realizzò il più alto prezzo mai pagato per un dipinto
italiano e da allora altri quadri futuristi importanti non sono passati per il
mercato internazionale.
Scomporre i musei esistenti per toglierne i futuristi, sarebbe di fatto
ucciderli. I futuristi sono infatti arrivati ai musei milanesi per dono di intere
collezioni. Levare i futuristi alle collezioni Jesi, Grassi, Boschi e altre
significherebbe fare un gravissimo torto ai collezionisti che le hanno donate
o dare una buona giustificazione agli eredi che le reclamerebbero. Non solo:
sarebbe annunciare che d’ora in poi si fa carta straccia della volontà dei
donatori presenti e futuri. Certo, i futuristi dicevano di voler distruggere il
museo, ma questa sarebbe una inutile e tardiva vittoria.
Occorre invece pensare a risolvere i guai dei musei che già ci sono e metterli
in grado di esporre bene i futuristi che già possiedono, di organizzare
programmi, proiezioni, didattica e altre manifestazioni intorno al nucleo
futurista - come anche intorno alla pittura metafisica, al surrealismo o al
Novecento -, attirando i collezionisti e avviando scambi con gli altri musei.
Oggi i musei d’arte di Milano sono in prima fila per i prestiti a mostre
nazionali e internazionali, ma non sono in grado di allestirne di proprie, né
di ricevere quelle cui contribuiscono. Ciò avviene per mancanza di spazio,
ma anche, e soprattutto, per la totale mancanza di autonomia che li paralizza
nei rapporti esterni.
Non è questa asfissia l’ultima delle cause per cui Milano ha perduto il
proprio posto in Europa. Ci se ne rende conto guardando poco oltre la
frontiera. Fino a dieci anni fa Milano era una mèta importante per gli artisti
e gli architetti ticinesi. Oggi si rivolgono altrove.
Non vorremmo che l’assessore regionale alla cultura, il dottor Tramaglia,
promotore di convegni su F.T. Marinetti, cogliesse l’occasione di
vitalizzarci promettendoci il museo del futurismo. Sarebbe come far correre
un infartato.
Considerazioni di un impolitico sulla Rai
Aldo Grasso Contando sulla febbrile acutezza di Franz Kafka vorremmo timidamente
porre alcune questioni al ministro Walter Veltroni. In forma di parabola, è
ovvio, e partendo proprio dal celebre racconto dell’avvoltoio (Der Geier,
1920).

"C’era un avvoltoio che menava colpi di becco contro i miei piedi. Aveva
già lacerato stivali e calze e ora già beccava i piedi. Continuava a menar
colpi, poi volò più volte irrequieto intorno a me e riprese il lavoro. Passò un
tale che stette a guardare e dopo un poco domandò perché tolleravo
quell’avvoltoio. "Sono inerme" risposi. "E’ venuto e ha cominciato a
beccare. Naturalmente volevo cacciarlo via, tentai persino di strozzarlo, ma
un animale così ha molta forza e poiché stava già per saltarmi in viso ho
preferito sacrificare i piedi. Ora sono quasi straziati".
"Come si fa a lasciarsi torturare così?" disse quello. "Uno sparo e
l’avvoltoio è spacciato". "Davvero?" esclamai. "E ci vuole pensare lei?"
"Volentieri" rispose. "Devo soltanto andare a casa a prendere lo schioppo.
Può aspettare ancora mezz’ora?".
"Non lo so" dissi e stetti come irrigidito dal dolore. Poi soggiunsi: "Per
favore, tenti in ogni caso".
"Sta bene" disse lui, "cercherò di far presto". Durante questo colloquio
l’avvoltoio aveva ascoltato tranquillo guardando ora me, ora lui. Ora vidi
che aveva capito tutto, si sollevò, piegò la testa all’indietro per prendere
slancio e come un lanciere affondò il becco attraverso la mia bocca, dentro
di me. Cadendo all’indietro sentii, liberato, che nel mio sangue straripante,
di cui erano piene tutte le cavità, l’avvoltoio affogava irrimediabilmente".

Nel rapporto fra Ulivo e Rai ci si attendeva, prima ancora delle nuove
nomine, un progetto sulla nozione di Servizio pubblico. Progetti non se ne
sono visti, l’ambiguità sul ruolo della Rai si è fatta cocente; in compenso si
è pensato di organizzare la situazione con la solita, avvoltoica lottizzazione.
In molti chiedevano, ingenuamente, idealità. Non utopia, che spesso è
risibile e dannosa, ma un poco di idealità sì. Pareva, quella dell’aspirazione,
la via più nobile per sottrarsi all’incubo dell’audience. In questi casi però si
rischia di fare la figura di Francesca Borri, l’adolescente delusa che al
recente congresso del PDS ha chiesto a Massimo D’Alema di poter ancora
sognare, desiderare, volare. Nel frattempo, D’Alema e Berlusconi si sono
messi d’accordo sul futuro assetto della TV.

Nel riordinamento della Rai si sperava anche in un soffio di giustizia. Poca,


per carità; quel tanto però che servisse a ridare il senso etico del servizio
pubblico. Una tenue forma di riconoscimento per chi ci ha creduto e per chi
ancora ci crede.

Ma ecco l’unica domanda che dopo Kafka ci è consentito porre: si può


ancora intervenire sulla cosa ( una, due, tre...), qualunque cosa sia, o si deve
solo accettare, con estrema lucidità, l’ineluttabile ( che, paradossalmente, ha
il volto della realpolitik)?

Grazie per la eventuale risposta. Anche se la conosciamo già.


Il governo del Teatro
Oliviero Ponte di Pino Gli piace? Non so se gli piaccia o no ("Gli piace, gli piace...") ma Walter
Veltroni si trova a gestire le sorti del teatro italiano in un momento molto
particolare, quando è inevitabile un radicale riassetto del sistema (per un
quadro complessivo della situazione, cfr. la relazione da me presentata al
Forum du Théâtre Européen, St. Etienne, giugno 1996). Non contento, il
ministro ha annunciato la presentazione di un progetto di legge per il teatro.
Il provvedimento è promesso dal 1948, ne sono state presentate decine di
versioni, non se n’è mai fatto niente. Il teatro continua a essere regolato da
una circolare che cambia anno dopo anno: apparentemente burocratica, in
realtà è un potente strumento di governo e sottogoverno.

La nuova commissione. Il governo aveva tra i primi compiti quello di


rinnovare la commissione che distribuisce i finanziamenti governativi (in
base ai criteri stabiliti appunto dalla circolare annuale). Nell’estate del ’96,
poco dopo l’insediamento, Veltroni si era esibito in proclami sulla necessità
di rinnovare i metodi di selezione dei commissari, evitando l’autogoverno
corporativo e i conseguenti conflitti d’interesse. Sei mesi dopo (e dopo
defatiganti compromessi) è stata nominata una commissione nel segno della
continuità: i membri che meglio conoscono i meccanismi politico-
burocratici del teatro, e quindi i più autorevoli ed efficaci, sono Mauro
Carbonoli e Bruno Borghi, due pilastri del teatro della Prima Repubblica.
La vecchia commissione. Alla fine di gennaio, presentando il nuovo
direttore del Piccolo Teatro, Jack Lang, Veltroni aveva annunciato
esplicitamente l’aumento dei finanziamenti allo stabile milanese, orfano di
Strehler (il quale si era dimesso proprio perché non gli erano stati garantiti i
denari necessari a far funzionare la nuova sede). Poche settimane dopo, la
commissione (ancora quella vecchia) decideva di diminuire i finanziamenti
al Piccolo per la stagione in corso; fatto ancora più grave, privilegiando in
generale iniziative di carattere chiaramente commerciale e punendo quelle
dotate di un più riconoscibile progetto culturale (e in particolare l’area della
ricerca, penalizzando soprattutto i Centri). Il tutto, nelle parole di Mario
Bova, neo-direttore generale dello spettacolo (nominato dunque da questo
governo), in base a una presunta "oggettività" di criteri astrattamente
burocratici (mentre il ministro Veltroni si trincerava dietro l’autonomia dei
commissari).

Il nuovo Piccolo. Con l’inaugurazione della nuova sede (prevista per il 14


maggio 1997, dopo 19 anni di lavori), per funzionare a pieno regime e non
sprecare l’investimento immobiliare (un centinaio di miliardi), il Piccolo
Teatro avrà bisogno di 20-25 miliardi all’anno di sovvenzioni. Molto più di
quel che riceve ora. Questo incremento altererà inevitabilmente l’equilibrio
complessivo del teatro italiano, visto che la dotazione del Fondo Unico per
lo Spettacolo destina alla "prosa" un centinaio di miliardi, non cresce da
anni e a ogni finanziaria c’è un tentativo di ridurlo - rintuzzato anno dopo
anno sempre più in extremis. Una soluzione ci sarebbe: fare del Piccolo un
Teatro Nazionale. Ma pare che Milano non possa avere un Teatro Nazionale
senza che ce l’abbia anche la capitale. Con due Teatri Nazionali a Milano e
Roma, adeguatamente finanziati, a tutti gli altri resterebbero solo le briciole.

Un teatro nazionale? Non è solo un problema economico. Che ruolo dovrà


avere, quali funzioni svolgere un teatro nazionale? Il Piccolo deve
continuare a essere il teatro di un grande artista come Strehler (e poco altro,
com’è accaduto finora)? Ma come creare un autentico teatro nazionale,
come la Comédie Française o il National Theatre? E’ un modello adatto a un
paese dalle mille capitali teatrali, da Venezia a Napoli? A un sistema teatrale
che si regge da sempre sulle compagnie di giro, degli "scavalcamontagne"?
(Tra l’altro, il referendum che aveva abolito il Ministero del Turismo e
Spettacolo l’aveva fatto in nome della regionalizzazione. Ma che senso
avrebbe regionalizzare un teatro fatto di compagnie che in una stagione
girano da Torino a Trieste, da Bari a Trieste?)

Il Museo e l’Effimero. La scelta di creare uno o più teatri nazionali è una


cartina di tornasole, una chiave di volta. Anche perché con la creazione
Ministero della Cultura, su un piano più generale si incroceranno due
logiche diverse (con effetti tutti da vedere). Da un lato c’è la logica dei Beni
Culturali, che ha come obiettivo la conservazione del gigantesco patrimonio
artistico nazionale (un compito prioritario, che finora il Ministero dei Beni
Culturali ha svolto poco e male, anche per cronica mancanza di fondi).
Questa impostazione porta soprattutto a irrobustire le strutture esistenti e a
crearne di nuove (musei, biblioteche, monumenti e aree di interesse storico,
eccetera). Dall’altro lato - per il teatro e soprattutto per il cinema, che il
nuovo Ministero erediterà dal defunto Ministero del Turismo e Spettacolo -
la logica è invece quella della creazione e produzione di eventi culturali ex
novo. Il teatro lirico, e in parte anche quello di prosa, hanno naturalmente a
che vedere con la conservazione di un patrimonio culturale (il repertorio
delle opere musicali e dei testi teatrali), e tuttavia non possono permettersi
di codificarlo troppo rigidamente. Altrimenti un Teatro Nazionale rischia di
diventare il mausoleo dei Goldoni e dei Pirandello, oppure degli spettacoli
di maestri come Strehler o Ronconi.
Per i rispettivi detrattori, che polemizzano da tempo, la prima è la cultura
del museo, accademica, mortuaria e inadeguata alle esigenze del presente; la
seconda è quella dell’effimero, schiava delle mode, superficiale e sprecona.
Per i suoi fan, nella prima si incarnano i valori eterni della bellezza e
dell’umanesimo, ed è la migliore testimonianza del nostro paese (e forse
dell’intera cultura occidentale) sulla scena mondiale. I fan della seconda
sostengono invece che la loro ipotesi è l’unica in grado di riflettere le
inquietudini del presente e di inventarsi il linguaggio adatto per trasmetterle;
secondo loro, è la sola strada per non restare succubi dell’imperialismo
culturale americano ed evitare la turistizzazione e disneyzzazione della
cultura.

Un Ministero per quale cultura? Da un lato l’esigenza è quella di


conservare nella maniera migliore un tesoro incommensurabile di opere
d’arte, e valorizzare una risorsa fondamentale per il paese. Dall’altro si tratta
di immaginare e sperimentare quali possano essere le forme di espressione,
comunicazione e socializzazione adeguate alle società contemporanee.
Riunire prospettive e interessi così divergenti sotto lo stesso tetto (un unico
Ministero, che però non si occupa della televisione, il grande grimaldello
culturale, nel bene e nel male) è un gesto di grandissimo significato, che
avrà conseguenze imprevedibili. E’ un’operazione assai ambiziosa, che
richiederebbe il carisma di una personalità di notevole spessore, e un
enorme impegno, sia dal punto di vista del progetto culturale sia dal punto di
vista economico.

Un nuovo mecenatismo. Finanziariamente, gli stanziamenti governativi per


lo spettacolo - il FUS - sono gli stessi da anni (e dunque l’inflazione li
erode). Qualsiasi operazione di rilancio che non voglia limitarsi alla
propaganda deve perciò cercare di attirare le sovvenzioni dei privati. In
Italia (e in generale in Europa), considerando la tradizione dei rapporti tra lo
Stato, il cittadino e la cultura (e le imprese), l’operazione è tutt’altro che
facile. Di fatto nasce dal nulla, e richiede in primo luogo un seria e credibile
incentivazione fiscale, e in secondo luogo una serie di interventi correttivi
"pubblici" (lo sponsor privato tenderà a farsi carico di un certo tipo di
intervento, a minor rischio e meno incerto ritorno d’immagine, privilegiando
le istituzioni più prestigiose).

L’ETI. Analogamente a quanto sta accadendo per gli enti lirici, Lang e
Veltroni hanno preannunciato la creazione di una fondazione che dovrebbe
aprire le porte del Piccolo ai privati. Il Piccolo è stato il primo teatro
pubblico italiano, il modello al quale si sono ispirati tutti gli stabili e anche
molti teatri di più recente formazione. Aprirlo ai privati, significa decretare
la chiusura di un ciclo iniziato nel 1947: sarebbe un segnale di enorme peso
politico.
Ma se proprio bisogna andare verso la privatizzazione del patrimonio
pubblico, perché non cominciare dall’Ente Teatrale Italiano, uno dei grandi
carrozzoni del sottogoverno? Generosamente finanziato dallo Stato, l’ETI
gestisce da decenni alcune delle più prestigiose sale italiane (Quirino,
Pergola, Duse, eccetera) a tutto vantaggio degli impresari privati, che in
questo mercato distorto ottengono le piazze migliori, sovvenzioni anche
indirette e dunque un inaccettabile strapotere. Malgrado i recenti tentativi di
moralizzazione, malgrado l’attenzione al nuovo (sostanzialmente di facciata
e ghettizzante), in questi decenni l’ETI ha costantemente sostenuto gli
interessi dei cosiddetti imprenditori del teatro, accollando le spese allo Stato
(nella miglior tradizione di certo "privato all’italiana").

Il teatro vivo. Va anche ricordato che le esperienze più interessanti del


teatro italiano di questi ultimi vent’anni, dopo la sostanziale paralisi artistica
e progettuale dei teatri stabili, non vengono da esperienze assimilabili al
"museo": gli spettacoli di maggior valore artistico e di maggior peso
culturale sono stati il frutto della "regia critica" (Luca Ronconi, Massimo
Castri); o nascono dai registi-artisti cresciuti nell’area dell’avanguardia e
della ricerca (Leo De Berardinis, Carlo Cecchi, Remondi e Caporossi,
Federico Tiezzi e i Magazzini, Mario Martone e Toni Servillo dei napoletani
Teatri Uniti, Giorgio Barberio Corsetti, Societas Raffaello Sanzio, Teatro
Laboratorio Settimo, Ravenna Teatro, Teatro della Valdoca, Alfonso
Santagata, Claudio Morganti). O sono l’espressione di una nuova
drammaturgia neo-dialettale che ha assimilato quella lezione (Enzo
Moscato, Franco Scaldati, eccetera).

La legge. Come valutare la politica e la legge per il teatro del ministro


Veltroni? Abbiamo già visto alcuni test, come la posizione del Piccolo e il
ruolo dell’ETI. Ce ne sono altri, molto semplici e indicativi, sufficienti a
valutare se il governo Prodi è interessato a una reale riforma, moralizzazione
e rilancio del teatro italiano, o se si accontenterà di difendere l’esistente,
continuando sulla linea dell’autogoverno corporativo del settore e in
definitiva del sottogoverno (quello di cui una volta, al Ministero dello
Spettacolo, si occupavano appunto i sottosegretari, e non il ministro della
Cultura).
La nuova legge non dovrà limitarsi a canalizzare gli interessi costituiti (e
incancreniti), che stanno riducendo il teatro italiano a sottoprodotto della
televisione.
Dovrà trovare la forza per cancellare dal finanziamento pubblico le
iniziative dichiaratamente commerciali (uno degli scandali dell’ultima
commissione sono gli oltre 200 milioni all’impresario che ha prodotto il
remake teatrale di Nata libera con Valeria Marini; ma lo Stato finanzia
generosamente anche lo spettacolo di Garinei e Giovannini con Pippo
Baudo: dunque paga indirettamente i mega-cachet delle star televisive e
cinematografiche che decidono di incassare la loro quota di popolarità sulle
scene, sia nei teatri pubblici sia in quelli privati). Solo liberandosi di questi
fardelli ingiustificati, che alla lunga hanno finito per rendere indistinguibile
pubblico e privato, per inflazionare il mercato e per involgarire il gusto del
pubblico, l’intervento del ministero della Cultura potrà concentrarsi sul
teatro come evento culturale e artistico.
Dovrà ridefinire in maniera chiara i compiti e la funzione del teatro
pubblico: dagli stabili ai Centri di Ricerca. Da vent’anni - da quando
l’esperienza degli stabili ha concluso il suo ciclo vitale - questo tema pare
diventato tabù.
Dovrà cambiare i criteri in base ai quali vengono assegnate le sovvenzioni,
ormai burocratizzati oltre il sopportabile, assurdi e ridicoli, ormai quasi
totalmente indipendenti dal progetto culturale e dal valore artistico delle
compagnie.
Dovrà dare ruolo e responsabilità adeguate agli artisti, a cominciare dalla
generazione dei quarantenni che sono stati protagonisti di una delle rare
rivoluzioni della scena italiana, quella dell’avanguardia degli anni Settanta e
Ottanta: un’esperienza di notevole peso culturale (anche perché cresciuta in
un periodo assai difficile per il nostro paese) e apprezzata anche fuori dai
nostri confini.
Dovrà soprattutto dare alle nuove generazioni la possibilità di accedere al
mondo del teatro: la burocratizzazione della scena italiana ha posto delle
soglie d’accesso talmente alte che nell’ultimo decennio è stato praticamente
impossibile, per un regista o una compagnia giovane, accedere alle
sovvenzioni ministeriali, condizione necessaria per entrare nel circuito dei
Centri di ricerca. Mentre i teatri pubblici, dal canto loro, in tutta la loro
storia molto difficilmente hanno offerto ai giovani reali possibilità di
formazione e crescita.

Insomma, la nuova legge - se mai verrà approvata - dovrà concentrare le


(scarse) forze perché il teatro italiano sia degno di un Ministero della
Cultura.
Rappresentare i giovani
Furio Colombo Ho fatto questa proposta di legge perché mi sono reso conto che molti,
moltissimi argomenti che noi continuamente dibattiamo alla Camera - di cui
sono membro - ma anche al Senato, moltissimi materiali che diventano
leggi, che diventano decisioni della Repubblica sono prese da persone
anziane e riguardano in realtà persone giovani e giovanissime, sono prese
oggi e riguardano domani, sono fatte in un presente che ha certe
caratteristiche ma stanno per diventare vere e produrre i loro effetti in un
futuro che riguarderà coloro che oggi sono giovanissimi.
Che senso ha proporre che il diritto di voto venga spostato dai 18 ai 16 anni?
Io credo che abbia due ragioni fondamentali. La prima è che il voto a
persone più giovani renderà di colpo immensamente più giovane la lista dei
candidati che ciascuna forza politica presenterà, dunque produrrà un
ringiovanimento quasi istantaneo e quasi autonomo dell’intero corpo
politico, ovvero un rinnovamento di cui spesso parliamo senza sapere bene
come farlo, di quella parte della classe dirigente che è la parte di coloro che
- almeno per un certo tempo nella loro vita - fanno politica.
Il secondo effetto è quello di ridurre, di diminuire forse fino a far cessare
quell’atmosfera di deresponsabilizzazione, di non legame con la realtà che
moltissima gente giovane sente, benché abbia già la forza mentale e fisica di
partecipare alla realtà. Tanto è vero che alla realtà partecipa sia sul versante
positivo - penso per esempio agli estesi fenomeni di volontariato in cui i
giovani e i giovanissimi sono coinvolti - e sia sul versante negativo in cui
lascia un segno, magari col vandalismo, magari con un gesto sprezzante, ma
lascia un segno pur di lasciarlo in un mondo che gli concede poche
alternative di espressione.
Ecco, quella del voto potrebbe essere una grande alternativa, una grande
chiamata di responsabilità. E’ un fatto d’avanguardia perché pochi altri
paesi al mondo, soltanto Israele e Brasile, lo hanno finora sperimentato. Ma
credo che si potrebbe pensare anche alla possibilità di introdurre questo
cambiamento del diritto di voto per quanto riguarda le elezioni
amministrative in senso attivo ma anche passivo, cioè per coloro che hanno
diritto di essere votati. Se si pensa per esempio a quanto contano il tempo
libero, l’attività sportiva, i luoghi d’incontro, gli orari dei locali e un’infinità
di altre attività, cominciando dalle scuole, nella vita dei comuni, ecco che
l’ingresso di un elettorato giovane e giovanissimo, attivo e passivo, potrebbe
avere un significato molto grande.
La legge che ho presentato per ora si riferisce alle elezioni nazionali e credo
che, se approvata produrrà davvero un effetto molto grande di rinnovamento.
Ricordo di Sanremo
Ranieri Polese Sanremo ’97, la vittoria mutilata. E non solo nel senso che i vincitori Jalisse
sono stati accusati (a torto) di aver copiato da un brano dei Roxette. Ma più
in generale perché proprio nell’anno in cui, grazie a Mike Chiambretti e
Marini, la RAI prendeva la rivincita sulla guerriglia di Antonio Ricci e di
Mediaset, polemiche e sospetti avvelenavano i risultati e gettavano cupe
ombre su tutto e tutti. Perché? Forse (azzardiamo) perché chi ha curato
l’edizione numero 47 ha colpevolmente snobbato importanti ricorrenze che
non si dovevano dimenticare: Luigi Tenco, che un colpo di pistola si portò
via nel ’67, e Claudio Villa, che se ne andò nella notte della finale del
festival di dieci anni fa. Con Tenco se la sono sbrigata usando la musica di
"Lontano lontano" come sigla del "Dopofestival" di Vespa; per l’altro,
invece, non è stata spesa nemmeno una parola. Ci piace pensare, così, che
proprio le due grandi ombre irate e offese abbiano scatenato il turbine di
polemiche che si è abbattuto su quell’immenso show.

Chi copia chi? L’elenco, ancorché provvisorio, dei supposti plagi è già
lungo. E minaccia di infoltirsi sempre più. Primi, naturalmente, i Jalisse e la
loro "Fiumi di parole", subito accusata - via Internet - di essere un furto da
"Listen to Your Heart" degli svedesi Roxette. Poi è toccato a Toto Cotugno:
la trasmissione "Mai dire gol" sostiene che la sua "Faccia pulita" altro non
sarebbe che la fotocopia di "Canzoni stonate" interpretata da Gianni
Morandi. La reazione di Toto non si è fatta attendere: "Maiali, deficienti,
bastardi, vigliacchi".
Anche la canzone di Leali ("Non ami che te") non pare del tutto esente da
sospetti: in particolare si dice che sarebbe troppo simile a "Sterile" di Renato
Zero. Senza contare l’incidente (subito aggiustato) occorso a "E dimmi che
non vuoi morire" cantata da Patty Pravo: si è fatto vivo un secondo autore
della musica, che ha ottenuto di vedere il suo nome - Ferri - citato accanto a
quello di Curreri.
E per concludere, Pippo Baudo ha citato per plagio l’intero Festival, che
riprenderebbe pari pari lo schema da lui usato per le precedenti edizioni.
Raccomandati - Anche qui, la tempesta si è abbattuta sui poveri Jalisse.
Perché la loro canzone è scritta e prodotta da Carmen di Domenico. Che è la
compagna di Sergio Bardotti. Che è l’autore dei testi della trasmissione
televisiva del Festival (oltre che delle parole del nuovo "Canto" del Pds). E
dunque ...
Ora, ammesso e non concesso che raccomandazione ci sia stata, la lista dei
sospettati di raccomandazioni non si ferma mica ai soli Jalisse. Proprio no. E
allora andiamo un po’ a curiosare. Apre la sfilata Siria, figlia di Elio
Cipressi, discografico assai influente. C’è poi Marina Rei, figlia di un
professore d’orchestra della Rai. E Niccolò Fabi ha un padre discografico,
mentre da parte di madre è quasi nipote di Arbore. Maurizio Lauzi è
naturalmente figlio di Bruno. Anche Domino è figlia di un direttore
d’orchestra abbastanza noto. Ci sono poi i Ragazzi Italiani, promossi fra i
Big per via della trasmissione "Domenica in". Meno potenti gli sponsor
(Maria De Filippi, "Amici", Mediaset) di Alessandro Errico, che è rimasto
nel limbo delle nuove/vecchie proposte del ’96. Anche Randy Roberts ha un
padre, diciamo così, famoso: Rocky Roberts, quello di "Stasera mi butto".
Ma non gli è servito poi più di tanto. E chiudiamo la passerella con Greta,
ragazza del Sud, venuta a cantare con i New Trolls dalla natia Catanzaro:
dicono che dietro a lei non ci fosse né padre né fratello, ma tutta la Regione
Calabria, sponsor ufficiale di Sanremo ’96.

Indimenticabili. In tanto furore di accuse e di sospetti, che cosa ci rimane


di questo Festival? Alcune frasi dentro quel gran fiume di parole. "Kula è il
femminile di Culo" (Mike Bongiorno parlando del gruppo Kula Shaker).
"Non vorrei essere nei panni di Luciano" (Nicoletta Mantovani, "compagna"
di Pavarotti, nella rubrica che il "Corriere" affidava giornalmente alla
Hillary Clinton del belcanto). "The show must go on" (Silvana Giacobini,
direttrice di "Chi", rivolta all’inviata a Sanremo dello "Wall Street Journal":
voleva dire che lasciava la sala stampa e tornava in sala).
Opinioni
Danco Singer Come alcuni di voi sapranno, abbiamo ricevuto qualche giorno fa, questo
messaggio.

Abbiamo saputo che alcuni gruppi Neonazisti stanno cercando di creare un


gruppo di discussione usenet dove mantenere i contatti tra di loro sulle loro
attività sul quale è, credo, superfluo soffermarci. Il gruppo in questione è rec.
music.white-power . Per creare il gruppo hanno però bisogno di vincere il
"Referendum" che viene sempre indetto per creare un nuovo gruppo usenet;
al referendum sono ammessi a votare tutti coloro che hanno un indirizzo
email. E' importante votare UNA SOLA VOLTA, altrimenti il voto viene
annullato.
Per fermare la creazione di questo gruppo dovete:
1. Mandare copie di questa lettera a chi conoscete
2. Mandare una mail all'indirizzo
music-vote@sub-rosa.com
con scritta solo la frase:
I vote NO on rec.music.white-power
Poiche' la cernita dei voti e' fatta in modo automatico cercarte di non
scrivere altro nella mail, nemmeno la firma.
Grazie a tutti.

Abbiamo pensato subito di girarlo agli abbonati di Golem; nel giro di


qualche ora abbiamo ricevuto numerosi messaggi di riscontro, pro e contro
la nostra iniziativa. Dal momento che abbiamo da tempo uno spazio mentale
e concreto su questa rivista (Per non dimenticare, in Golem 06 e Golem 08),
ci è sembrato opportuno cogliere quest’occasione per discutere con i nostri
lettori alcune questioni..
Il tentativo di questi i neonazisti di creare gruppi di discussione usenet è un
segnale grave che richiede una riflessione e una risposta. Gli aspetti da
considerare a mio avviso sono due: il primo è che teorie e pratiche razziste e
antisemite sono ancora vive e vegete e la vigilanza, la condanna e la
repressione di queste attività non è mai scontata e sufficiente.
Il secondo aspetto è che la rete, proprio per le sue caratteristiche di libertà,
gratuità e globalità rappresenta uno strumento potente, utile e nello stesso
tempo pericoloso se incontrollato.
Come leggerete, alcuni interventi sollevano il problema della democrazia e
della convivenza sulla rete, come si trattasse di un mondo parallelo, nel
quale possono valere regole diverse da quelle del mondo reale. Secondo noi,
invece, on line, come sul territorio, le idee che ci sembrano sbagliate si
combattono, con i mezzi che abbiamo.
Combattere il nazismo in tutte le sue forme, discutere dei modi di
regolamentare e garantire la libertà di espressione sulla rete, sono in questo
caso due elementi inscindibili.
Abbiamo quindi deciso di trasformare in forum i messaggi inviatici, in
modo da consentire a tutti di intervenire su questi temi.
Andrea Settime Egregi signori della redazione Golem.
27/02/97 Ho ricevuto il vostro messaggio ed ho immediatamente inviato la e-mail per
aiutare a bloccare il newsgroup neonazista.
Saro' lieto di collaborare a qualsiasi altra iniziativa vorrete segnalarmi per
bloccare newsgroup ispirati ad idee violente ed anti-democratiche, inclusi
newsgroups ispirati ad idee violente ed anti-democratici di estrema sinistra
(ve ne sono molti).

Saluti.

Pino Anzani "Fatto" (S. Berlusconi)


27/02/97 Girato invito a 10 amici

Vostra Signorina Sola Carissimi amici di Golem,


27/02/97 anzitutto vorrei ringraziarVi per la Vostra iniziativa: è estremamente
lodevole che Ve ne siate fatti carico.
Ne leggevo nei giorni scorsi proprio su 'Sotto voce', un giornale online, del
quale Vi incollo un breve testo, concernente la votazione.
"DALLE CHIACCHIERE AI FATTI"

Ecco, a leggere questo testo sembrerebbe che già la votazione ci sia


stata...
Mi avete un pò confuso le idee, sinceramente. Io comunque, voterò, e
manderò la lettera ad ogni mio corrispondente ed a tutti i miei conoscenti,
perchè penso non si debba proprio dare spazio a questa barbarie.
Amici, troverete questo articolo ed altri sullo stesso tema, cliccando qui:
www.clarence.com

si aprirà una pagina che dovrete far scorrere fino in basso, dove troverete
diverse parole; Voi dovete cliccare su 'Circolo della Stampa', e da lì potrete
scegliere a quale giornale accedere: Zapata, Vocioff... Altri e Sottovoce.
Purtroppo devo salutarVi: io non ho ancora lasciato miei pareri su Golem,
perchè m'intimidisce sempre un pò, leggere tutte quelle opinioni così colte...
E' tutto, con simpatia e gratitudine per l'aver appoggiato questa iniziativa,
cordialmente mi congedo.

One Eye Jack Gentile Redazione di Golem, credo che quello che state facendo non sia
27/02/97 corretto, chiunque, Neonazista o non Neonazista abbia il diritto di
esprimersi, con questa E-Mail state violando la prima legge della rete la
libertà di espressione dando origine ad una forma pubblicitaria di censura
(chi unque iniziera a mandare E-mail per la rete chiedento agli altri
navigatori di votare NO per chissa che cosa).
Credo pertanto che sia più interessante e democratico aprire un altro gruppo
di discussione sul quale si informi la gente su che cos'é il Neonazismo, ed
utilizzare la rete per per comunicare l'apertura di un nuovo Gruppo di
discussione (alimentando cosi la rete di informazioni) invece di utilizzare la
rete per incitare la gente ad appoggiare l'aborto di un Gruppo.
Io avrei inviato una E-Mail nell'incitare la gente a partecipare al gruppo di
discussione Neonazzista per farsi una idea del contenuto, ed a parteciparvi
esprimendo la propria opinione (anche se sappiamo che certa gente della
nostra opinione sene sbatte), ma una cosa é importante non dobbiamo fare
censura come facevano loro, altrimenti non saremmo diversi.
Tengo a precisare che non sono ne un Nazzista ne un Razzista ne un
Religioso ma credo che questi abbiano il diritto di esprimersi come noi
(anche se noi non la pensiamo come loro).
Danco Singer Non sono assolutamente d'accordo con quanto affermato e proposto.
direttore di Golem Non mi convince la distinzione fra il"dire" e il "fare", fra la libertà di
27/02/97 espressione e la libertà di mettere in atto le idee espresse, che sarebbe invece
sottoposta alle limitazioni del vivere in società e quindi all'eventuale
repressione; sappiamo bene, e Umberto Eco ce lo ha insegnato, che dire è
fare, che le parole sono fatti di grande importanza e portata, che con il
piombo degli articoli si possono fondere le pallottole dei fucili e che è
possibile UTILIZZARE LE PAROLE PER COSTRUIRE LAGER E
CAMERE A GAS.
Chi può ritenere il creatore di parole e di opinioni Goebbels meno
responsabile degli sciagurati aguzzini che, fidicamnete e materialmente,
provvedevano allosterminio?
Il rifuto del nazismo, in tutte le sue forme e le sue espressioni, non è un
gesto di "correttezza" o un tardivo senso di colpa verso i sopravvissuti o le
vittime ai campi di sterminio; o peggio ancora unresiduo del passato
destinato ad attenuarsi prima e a scomparrire poi.
Io sono convinto che chi vuole dimenticare, vuole solo ricominciare. Ma il
problema non è solo questo.
Esiste un limite alla libertà degli individui? Esistono dei valori talmente
fondamentali e importanti da dover essere anteposti perfino alle libertà
individuali?
Io penso che il nazismo e l'antisemitismo vada PROIBITO, appartenga cioè
a quelle vergogne che l'umanità non può e non deve tollerare.
Gli stati democratici hanno tutti gli strumenti per impedire la propaganda,
non la conoscenza e l'informazione, di queste forme incivili, totalitarie e
violente di discriminazione e di razzismo.
La nostra scelta di boicottare l'iniziativa nazista su internet è tra queste.

Vanni Campo e Non sappiamo *quanto* sia bellodemocraticoeantifascista impedire a


Caterina Tosi chicchessia -neonazisti compresi- di esprimere le proprie idee, fintantoché
27/02/97 ciò rimane nei limiti della legalità.
Ci limitiamo per il momento a ritrasmettere il messaggio ricevuto,
riservandoci di aderire all'iniziativa solo dopo aver discusso a lungo con
le nostre coscienze ed aver da queste ricevuto il necessario assenso.
Contributi di pensiero che aiutino le nostre coscienze nella decisione
saranno i benvenuti, e sono anzi caldamente sollecitati.
Giulio Blasi Credo che MR "One Eye Jack" sia fuori strada. I newsgroup sono luoghi di
27/02/97 discussione pubblici ed è per questo che l'apertura di un newsgroup richiede
un referendum, pratica perfettamente democratica. Se hanno bisogno di un
newsgroup "privato" per discutere nessuno gli impedisce di farlo (centinaia
di programmi software gratuiti sono lì pronti per questo su Internet). A
prescindere dalla nostra Costituzione o dal modo in cui noi italiani (in
rapporto alla giurisprudenza americana del secondo emendamento) trattiamo
la vicenda, Internet consente piena liberta di "assembramento" digitale.
Non si vede perchè - dunque - tali gruppi di discussione debbano finire nelle
gerarchie pubbliche delle news distribuite in tutto il mondo. Anche su
Internet esiste un barlume di "sfera pubblica" e questa sfera pubblica si
rifiuta nel suo insieme (speriamo) di legittimare gruppi neo-nazisti. Questo è
tutto.

Roberto Villani Come già scritto in altri gruppi di discussione, la libertà di parola è un bene
27/02/97 irrinunciabile e da difendere anche quando parlano gli stronzi.....
NON SI PUO' VOTARE CONTRO UN NEWSGROUP!! oltretutto non è
detto che il software automatico conti un messaggio come quello riportato
come voto favorevole.
Inoltre è semplicemente impossibile costringere qualcuno a leggere un
newsgroup!
Perciò se non si vuole un certo newsgroup basta ignorarlo.... basta il
buonsenso!

Teatri di vita Ma come? Una volta tanto che sarebbe possibile controllare passo dopo
27/02/97 passo i neonazisti, ci impediremmo questa possibilità? Partendo dal
presupposto che i neonazisti hanno molte altre occasioni più o meno
clandestine per scambiarsi informazioni e che impedire la libertà di parola in
un gruppo non significherebbe altro che spostarla e non rimuoverla
definitivamente (con quel che ne segue di vittimismo-eroismo, senza parlare
poi del fatto che tappare la bocca a un altro è esattamente una delle
caratteristiche dei nazisti), approfittiamo almeno dell'unica occasione "alla
luce del sole" per seguirli da vicini, controllarli ecc. Piuttosto, sarebbe da
informare subito polizia, Digos, investigatori, procuratori e quant'altri
perché anche loro non si lascino scappare questa occasione.

Carla Pellegatta Cari amici di Golem, aderisco senza problemi alla vostra iniziativa alla
27/02/97 quale spero ne seguiranno altre analoghe in futuro. Grazie e cordiali saluti.
Paolo Benanti Purtoppo la procedura da voi indicata e' inutile e serve solo a far circolare di
28/02/97 più il nome di questo NG e, forse, a prolungare la sua sopravvivenza che e'
dovuta al traffico che esso genera.
Tutto cio' non toglie che anche io sia contrario al NG in questione e che
consideri il tutto come una mortale offesa alla dignità delle persone e ritenga
che la libera circolazione di bugie (per non usare termini meno fini) storiche
e il libero accesso di folli invasati a mezzi di comunicazione così potenti sia
da ridiscutere e da deprecare.
Restando in ascolto per eventuali notizie e discussioni sull'argomento e
sperando di essere stato utile vi saluto cordialmente.

A. La notizia che riportate è vera, tuttavia si riferisce ad una votazione che si è


28/02/97 svolta svariati mesi orsono -- rec.music.white-power NON è stato approvato.
Nuovi giochi
Marco Sabatini Rinnovare? E' una necessità e una vocazione. Ecco qui due giochi nuovi per
i lettori di Golem.
Il primo, in realtà, e' stato proposto da Eco, e comunicatomi da un amico. Lo
chiameremo i Finneghismi. L'idea e' la stessa dei titoli dei film, ma si lavora
sul lessico quotidiano. Eccone alcune esemplificazioni Echiane:

Clavacembalo: strumento musicale dell'uomo preistorico


Apocalesse: carro usato dall'Angelo sterminatore
Rubicondor: rapace di montagna che gode ottima salute
Griffone: rapace firmato
Ermafrodato: transessuale ingannato da un chirurgo pasticcione
Artrittico: pala d'altare deformata dall'umidità
Reo convesso: colpevole piegato dal rimorso
Tartarucola: testuggine ghiotta di erbe aromatiche
Istetrica: levatrice in preda a crisi di nervi
Depistemologo: teorico radicale dell'infondatezza di qualunque metodo (uno
alla Feyerabend, per capirsi)
Dodecafone: autore di musiche licenziose e di bassa lega
Cazzandra: profetessa che non ne indovina una
Imenefreghista: persona che non dà importanza alla verginità
Borsaiuole: ladre di fiori
Microgip: giudice per le indagini preliminari competente sui reati informatici
Sgarbie: bambola che dice parolacce
Iperboria: vanita' di scandinavo
Deformatica: comportamento deviante di chi nella vita non vede altro che
computer
Caforisma: breve massima che esprime un concetto arrogante e volgare
Palio di Schiena: corsa tradizionale in cui i fantini montano i cavalli
guardando dalla parte della coda

Il secondo è una variante. Si tratta di dare definizioni nuove di parole


esistenti. Ovvero, il gioco è tutto nella definizione. Per esempio:
Aforisma: pila di carta umida e calda
Equinozio: il riposo dei cavalli
Imenottero: insetto che ama le vergini
Ostetrica: levatrice da osteria
Tartarughe: segni della vecchiaia tra i Tartari

Alcune definizioni vanno bene sia per un gioco che per l'altro:
Clavicembalo/Clavacembalo: strumento musicale dell'uomo preistorico

Buon lavoro a tutti.


Cordialmente,
Marco Sabatini

P:S.: Per amore di qualità sono proibiti accrescitivi e diminutivi ("il portone
e' un grosso porto", "il postino e' un piccolo posto"), "mogli", "mariti" e
"figli" ("il battaglio e' il marito della battaglia", e cosi' via).
Doppio sogno
Giovanna Grignaffini Il terreno appariva ricco di insidie perché la legge speciale detta "par
condicio"- già capace di irrigidire toni e posture delle campagne elettorali-
se applicata agli ordinari tempi che corrono troppo alla lettera e, soprattutto,
fuori da ogni ragionevole orizzonte di senso e di realtà, avrebbe popolato di
vecchi mostri e nuovi replicanti le nostre già meccaniche giornate televisive.
Ma il presidente della Repubblica aveva parlato, il Garante dell’Editoria
fatto eco, il Presidente della Commissione di Vigilanza tuonato, il
Presidente e il CdA della RAI concordato e provveduto per quanto di loro
competenza.
Il Parlamento non poteva restare insensibile a tanto richiamo: ci voleva un
documento sul pluralismo nell’informazione. Possibilmente severo, senza
diventare invadente; in qualche modo vincolante, senza apparire
prescrittivo; aperto, dinamico, leggero, "di indirizzo" , come ormai si
conviene ad ogni documento liberal.
Certo un documento sul pluralismo emanato dalla Commissione
Parlamentare di Vigilanza sulla RAI doveva anche risolvere alcuni "nobili"
rebus istituzionali e politici. Per esempio, quello di conciliare direttive
parlamentari in materia di informazione con l’autonomia dei giornalisti,
delle testate e più in generale dell’azienda RAI; ma anche quello di
dichiarare il pluralismo virtù unitaria del sistema radiotelevisivo, senza
distinzioni tra operatori pubblici e privati. Per non parlare dell’esigenza di
sottrarre l’intera questione all’ineffabile regola del cronometro e della
performance ginnica del leader.
Lo stesso termine di pluralismo avrebbe dovuto inoltre ricercare una sua più
sensata definizione alla luce della transizione politica in cammino verso un
sistema bipolare, ma non bipartitico, disposta a sostituire il termine
"rappresentanza" con quello di "rappresentazione", capace di far emergere
soggettività e società politica fuori dai tradizionali recinti dei partiti.
Insomma, c’era molto da riflettere e da sciogliere, ma la tentazione segreta
che si respirava nelle notti fumose della Commissione di Vigilanza era di
abbandonarsi a un altro sogno. Che atteneva molto da vicino al desiderio di
trasformare l’intera Commissione in regista occulto della programmazione
RAI, regista severo e inflessibile che, con la sua partitura di ricette, codicilli
e misurini, governasse da monarca assoluto un’azienda strategica per la
democrazia, nel democratico nome della par condicio.
Anche questo sogno mostruoso, un vero e proprio incubo, muore all’alba,
lasciando sul tappeto antichi e nuovi rebus la cui soluzione resta affidata a
quell’altro sogno che continuiamo a chiamare politica.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

Anche in questa puntata Autogolem propone una catena di parole, unita da


un rigido lucchetto.

Lucchetto? Sì. Le sette ipsilon che stanno per la fine del cognome del
ministro1., diventano la parte iniziale dei compiti sadici inflitti dal
professore di 2., la cui parte terminale, sequenza di sei x, inaugurerà il
vocativo delle mucche pazze di 3. E così via, e così via: fino a incontrare un
nuovo ministro. Rima e metrica aiutano, come sempre, gli aspiranti solutori.

1. LA PATATA BOLLENTE

Non è semplice l'affaire


pel ministro Xxxyyyyyyy

2. SADISMO DEL PROFESSORE DI FILOLOGIA

Compito per le vacanze:


studiar tre yyyyyy yxxxxxx.

3. IL PIO BOVE SALUTA LE SORELLE FALCIDIATE DAL MORBO

Fin qui siete state eroiche


Addio, x xxxxx yyyyyyyyyy.

4. ALLENAMENTO AZZURRO

In attacco i Serafini,
e yyyyyy y Yyyxxxxxx.

5. CONSIGLI GALANTI DI TAMARRO (PERO' RICCO)

Se le ami fatti avanti


con xxxxxx y yyyyyyyy.

6. ADULTERIO: INNOCENTE SCOPO

Passar qualche ora lieta:


questa y yy yyyyyy xx xxxx.

7. AVVISO AI TURISTI

A Toledo state attenti:


ci sono xxxx xxyyyyyyy

8. PER UN GOVERNO DI UNITA' RAZIONALE

Non compite gesti futili.


Sopprimete yyy yyyyy xxxxxxx.

9. SPIETATA CERNITA DI VIDEO DI COMICI TOSCANI

I Benigni li teniamo,
x Xxxx xx yyyyyyyyyyy.

10. CARA, APRI I SERRAMENTI DEL TUO CUORE

I miei gesti son bramosi:


schiudi i yyyyyyyy yyyxxxx.

11. NON ESAGERIAMO LE RESPONSABILITA' POLITICHE DELLE


SITUAZIONE DI DEGRADO DOVUTE ANCHE A OBIETTIVE
DIFFICOLTA', MANCATA MOTIVAZIONE DEL PERSONALE E
ALTRE CARENZE IMPUTABILI AD ARRETRATEZZE SECOLARI E
GIAMMAI ALL'ATTUALE RESPONSABILE DEL DICASTERO

Se i lenzuoli non son lindi


non ha colpa Xxxx Yyyyy.

SOLUZIONI
1) BERlinguer
2) lingue rOMANZE
3) O MANZE paranoiche!
4) parano i cheRUBINI
5) RUBINI e diamanti
6) è di amanti LA META
7) LAME TAglienti
8) gli enti INUTILI
9) i Nuti li CANCELLIAMO
10) CANCELLI AMOrosi
11) Rosi BINDI.
Tempo e denaro
Roberto Caselli Quanto dura il successo di un disco? Se si fa riferimento alle classifiche che
compaiono più o meno in tutte le riviste specializzate non si può fare a meno
di notare che il metodo di valutazione che si utilizza è un parametro di
difficile uniformità. I campioni che vengono utilizzati sono spesso differenti
tra loro e molto dipende dalla specializzazione del negozio interpellato.
Grosso modo, con un po’ di ottimismo, si può ipotizzare un fluttuare di
qualche mese tra le prime venti posizioni. E poi a che destino vanno
incontro i vecchi successi? L’iter previsto in questi casi è la permanenza per
qualche anno sugli scaffali dei negozi, fino a che è ipotizzabile pensare che
qualcuno possa richiederli ancora. Infine il destino può essere quello di
finire fuori catalogo o di andare a ingrossare le file delle collane economiche
(vendute a un prezzo che va dalle 22.000 alle 25.000 lire) che ogni etichetta
discografica si è da tempo organizzata. Un disco di successo mantiene
comunque un potenziale di vendita piuttosto buono e può rendere bene per
molto tempo, ma questo vale soprattutto per i generi pop e rock che vantano
un mercato commerciale molto ampio; sicuramente funzionano meno bene
le nicchie marginali come per esempio il blues, il folk e entro certi termini
anche il jazz. E’ dunque lecito chiedersi perché non si possano diversificare
i prezzi di vendita dei vari dischi, in fondo anche il CD, come ogni altra
merce, rientra in una logica di domanda-offerta e quindi dovrebbe essere
soggetto a un normale abbassamento dei prezzi nel momento in cui la
richiesta si mantiene bassa. L’escamotage del medio prezzo della collana
economica entra in funzione solo quando le potenzialità si sono quasi del
tutto esaurite e il prodotto è inevitabilmente vecchio. La cultura, si potrà
obiettare, non ha tempo, ma allora perché non incentivarla con un marketing
più attento? Siamo sicuri che cercare di vendere più dischi di certi generi
musicali a minor prezzo renda meno di spellare il pollo a prima vista?
Premesse ?
Rossana Di Fazio Il film di Antonio Albanese Uomo d'acqua dolce, è accurato sotto molti
aspetti: fotografia, montaggio, recitazione. Il racconto è quasi inesistente,
ma la sceneggiatura diligente di Cerami e Albanese e qualche trovata di
buon gusto, ne sostengono con grazia lo sviluppo. E' un film al quale si
adatta l'aggettivo "ben confezionato": è confezionata la città, una Milano
completamente ripulita e anonima, la casa, convenzionale nella sua
eleganza. Nonostante questo cellophane, la cura tutta professionale fa onore
agli autori, per non aver delegato esclusivamente al comico Albanese i
destini del film. La musica di Piovani ricalca una certa, virale, nel cinema
italiano, tendenza dolciastra, ma questo è un argomento a cui tengo, e non
vorrei bruciarne l'articolazione in poche battute, anche perché vorrei parlare
d’altro.

Uno dei temi ricorrenti nelle osservazioni teoriche "classiche"(penso a


Balàzs, Epstein, Barthes e tanti altri) è quello della rivelazione del corpo ad
opera del cinema. La grandezza dello schermo, la mobilità della macchina
da presa, la certezza fotografica della ripresa, modificarono completamente
il rapporto con il corpo dell'attore caratteristico dello spazio teatrale, e
proposero allo spettatore anche una esperienza rinnovata del corpo come
paesaggio da esplorare, come epifania del volto e traduzione del corpo in
termini di luce e forma.

Questa rivelazione è avvenuta, nel tempo, a vari livelli: da una parte, come
già detto, sono gli strumenti stessi del cinema a incuriosirsi, a rimanere
ingaggiati nel colloquio con il volto e il corpo degli attori. Per altro verso
però sono stati alcuni attori a imporre la propria "corporalità" allo schermo,
e fra questi, parte molto rilevante l’hanno avuta gli attori comici. Ora non
voglio richiamare Charlot, Totò, Groucho Marx, o Jacques Tati per metterli
sullo stesso piano di Antonio Albanese. Solo ho notato che è sempre più
raro nel cinema, non solo italiano, ritrovare il senso di un corpo totale, nel
quale l'essere si esprime completamente, persino semplicemente, non solo
nella gestualità facciale, ma anche negli stili della camminata, in segni del
corpo che trasformano un personaggio in personaggio totale, in una
maschera cinematografica. Antonio (nel film e nella vita) usa la camminata
come effetto di uno stato d'animo (c'è la camminata risoluta: passo lungo e
deciso; quella da tapino: con la testa incassata fra le spalle), e rispetta alcuni
piccoli riti per sedersi, per cominciare a parlare, per cantare e ballare...
Se anche all'origine di queste trovate gestuali c'è il teatro, il cabaret, o la
rivista o, in altri casi, il funambolismo vero e proprio del circense (mi viene
in mente Leo Carax) è vero che il cinema cambia completamente il senso di
quelle invenzioni e di quelle espressioni, sia per il fatto di inserire il
personaggio in un racconto, conferendogli una dimensione esistenziale
(quindi etica etc...), sia per quella visibilità totale, strutturale che il cinema
presta alle sue figure.
Importando le figure del saltimbanco o della macchietta, il cinema integra,
staglia e rivela queste creature spurie (o purissime), pesanti come persone e
leggere come pupazzi, sempre diverse da tutti gli altri personaggi; esseri che
sanno farsi tradire da un corpo che parla al loro posto, che coincide con la
loro anima al punto da muoversi con lei. Uomo d'acqua dolce mi sembra
essere un ritratto di questa specie di viventi: se Albanese volesse
intraprendere questa strada parallela, squisitamente cinematografica,
potrebbe trovare molto bene qualcosa che, mi sembra, da molto tempo
nessuno sa o vuole cercare.

Vedi Anche:

cinema.it
Fumetti
a cura di Comix

Altan

avanti
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Il Gruppo X-FILE presenta: Questa notte le macchine sono inquiete


Modelli di società e società dell’informazione all’alba del 2000

Roma, 21 marzo 1997 ore 9.30 - 19.00


Sala Grande Ex-Hotel Bologna
Via S. Chiara, 4
Roma

9,30 - 1° sessione: "Il soggetto e la rete"

introducono il tema: Giovanna Grignaffini e Peppino Ortoleva


ne discutono: Alberto Abruzzese, Furio Colombo, Renato Giannetti, Danco
Singer, Letizia Paolozzi, Marzia Vaccari, Vincenzo Vita

14,30 - 2° sessione: "Spazio pubblico e scena privata"

introducono il tema: Franca Chiaromonte e Stefano Rodotà


ne discutono: Gabriella Bonacchi, Omar Calabrese, Francesco Garibaldo,
Raffaella Lamberti, Enrico Menduni, Bia Sarasini

16,30 - 3° sessione: "Il caso e la regola"

introducono il tema: Giovanna Melandri e Cristiano Antonelli


ne discutono: Giuseppe Giulietti, Paola Manacorda, Giaconto Militello,
Alessandro Ovi, Giorgio Panattoni.
L’iniziativa è in collaborazione con le riviste: Golem, Ires, Technology of
Review.

Per informazioni:
Segreteria organizzativa Gruppo X-FILE:
Anna Paola Concia
Tel. 06/676.045.91 - Fax: 06/676.027.40

Il sito X-FILE è all'indirizzo:


http://orlando.women.it/info/x-file/index.htm

L’Università degli Studi di From database networking to the digital library: a European perspective
Padova promuove:
Giovedì 6 Marzo ore 16.00
Aula Magna CIS Vallisneri
Viale G. Colombo, 3
(ex Viale Trieste)
Padova

La politica dell’informazione elettronica in Italia


tavola rotonda con editori e distributori

coordina: Riccardo Ridi


partecipano:

Editori Elettronici:
Piero Migli, De Agostini Multimedia
Danco Singer, Opera Multimedia
Albino Bertoletti, Giunti Multimedia

Distributori:
Luca Buriano, E.S. Burioni Ricerche Bibliografiche
Fabrizio Ligi, D.E.A. Librerie Internazionali
Paolo Sirito, Cenfor International
Teatri '90. La scena ardita dei nuovi gruppi,
6-16 marzo 1997 a cura di Antonio Calbi Milano,
Teatro Franco Parenti
via Pier Lombardo 14
tel. 02.5457174
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer

Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:

Mario Calabresi, Gianni Granata, Giulio Blasi, Umberto Eco, Gianni Riotta, Domenico Starnone, Franco Cardini,
Ranieri Polese, Giovanna Grignaffini, Aldo Grasso, Enzo Restagno, Carlo Bertelli, Furio Colombo, il Collettivo del
Liceo Tasso di Roma, Rossana Di Fazio, Oliviero Ponte Di Pino, Stefano Bartezzaghi, Roberto Caselli, Luca
Sabatini, Comix, Altan

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo Italia Online


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A tutti il più sincero benvenuto.
Prima di tutto, grazie per aver giocato così sapientemente insieme a noi. Ci riposiamo un po’ in questo numero,
ma stiamo lavorando anche con le vostre (molto numerose) proposte per aprire nuovi Giochi Sociali, dunque
preparatevi: nuove fatiche ludiche in vista.
Golem08 è davvero ricco di contributi e denso di materiali sui quali riflettere insieme. Alle rubriche di Bertelli,
Grignaffini, Blasi, Bartezzaghi eccetera... si aggiungono decine di interventi focalizzati su tre argomenti
principali.
Il primo tema che proponiamo è quello della Globalizzazione: gli Orizzonti del nostro Paese in relazione alla
prospettiva europea e mondiale. Abbiamo impegnato, insieme all’ambasciatore italiano all’ONU Paolo Fulci,
protagonisti e osservatori della politica italiana. Emerge la grande responsabilità dei media nella scarsissima
attenzione dei cittadini italiani per le questioni internazionali, negazione, si direbbe, di una realtà globalizzata
dell’economia o dei processi produttivi. Negli interventi è costante il riferimento alla vista, alla miopia,
all’incapacità di uno sguardo più alto, a mondi reciprocamente invisibili e paralleli. La metafora della visione
come conoscenza diviene così uno strumento per ripensare la politica, l’informazione, l’economia.
Il secondo spazio, Il Futuro delle telecomunicazioni, riprende una questione già avviata in Golem 06, e propone
gli scenari previsti da personaggi di primo piano delle società attualmente impegnate in questo campo.
Si apre poi lo spazio permanente dedicato alla riflessione e alla memoria dell’Olocausto, uno spazio che
vorremmo discreto e costante. Tre contributi, estremamente interessanti e differenziati, proprio come avevamo
desiderato in Golem 04, quando lanciammo questa proposta di dialogo permanente.
I Forum sono aperti: leggiamoci, parliamoci, scriviamoci. Per ben vedere.
"Paese miope..."
Domenica , 29 dicembre 1996, esce sul Corriere della Sera l’intervista da
Ginevra di Danilo Taino a Renato Ruggiero, direttore generale del World
Trade Organitation , l'organizzazione che guida il commercio
internazionale. La riproponiamo ai lettori perché il dibattito sulla
globalizzazione di questo numero di Golem è stato avviato anche a partire
da questo intervento.

L'Italia ha l'aria di una vecchia marchesa: snob, superficiale, fuori dal


tempo. Di là dal portone sta passando la rivoluzione e non se ne accorge; o,
quando sente i rumori giù per strada, non capisce. «E' un Paese che sta
attraversando un'involuzione drammatica, che mangia se stesso, i suoi
valori, le sue istituzioni: forse per non cambiare». E' un declino che va
fermato, dice Renato Ruggiero. «Ma non da un demiurgo, ancora meno da
un falso demiurgo».

Ruggiero è l'italiano di grado più alto in un'istituzione internazionale:


direttore generale della Wto, l'Organizzazione mondiale del commercio. La
sua è probabilmente la poltrona dalla quale meglio si vede chi scende e chi
sale nell'economia di fine secolo. L'Italia non sale. Anzi, scivola verso una
posizione marginale e rischia, secondo Ruggiero, di «fare tutte le scelte
sbagliate: per incomprensione di ciò che succede». L'ambasciatore non parla
per amarezza anche se «è una situazione che mi fa male», dice dal suo
ufficio che guarda il lago di Ginevra. Parla perché non si può guardare senza
reagire «un grande Paese con una grande cultura e una grande storia che si
sta disfacendo in una drammatica transizione». In questa intervista spiega
perché l'Italia rischia di restare ai margini dei grandi eventi che stanno
cambiando il pianeta. E chiama in causa i politici, gli industriali, i
sindacalisti, gli studenti e, soprattutto, i giornalisti. «Per amore del Paese.
Non per dare lezioni a destra e sinistra».

Perché ce l'ha coi giornali italiani, per amore del Paese?


«In Italia, i mondi della politica, della cultura, dell'economia ma soprattutto
quello dei media si concentrano solo sui problemi interni.
Raccontano solo le piccole vicende domestiche come se nel mondo esterno
non succedesse nulla. Invece sta cambiando tutto. Ma noi ci arrotoliamo su
noi stessi. Col risultato che abbiamo creato falsi miti. Bossi e Di Pietro, per
esempio: trattati, seguiti e ascoltati come se potessero rappresentare l'Italia o
la politica».

Li legge i giornali italiani?

«Certo. E' per questo che ne soffro. Hanno una logica esclusivamente
domestica. Mentre al Paese servirebbe un colpo d'ala collettivo per misurarsi
coi problemi del mondo, con la globalizzazione dell'economia, con le sfide
che arrivano dai Paesi avanzati e da quelli emergenti. Alcontrario, l'Italia dà
l'impressione di avere perso sia i valori e gli ideali suoi propri, senza i quali
una società non può vivere, sia il senso del mondo in cui sta. Nonostante sia
una grande entità economica integrata con le altre, il sesto Paese del pianeta
per import e per export. Non c'è il senso della necessità di questo colpo
d'ala».

Negli altri Paesi è meglio?

«Senza paragone. Basta aprire la stampa anglosassone o quella francese. Io,


per esempio, per i media italiani sono interessante solo se ho un messaggio
critico verso il mio Paese. A questo mi ribello».

Che i media rispecchino il Paese?

«L'Italia sta chiaramente attraversando un'involuzione culturale drammatica


che non le permette di vedere e capire qual è il suo posto nel mondo. Per cui
si assumono atteggiamenti superficiali e snobistici.
E' come se fossimo una vecchia marchesa che guarda la vita dalla finestra e
non la capisce. Stiamo attraversando una grande rivoluzione: negli ultimi
anni sono arrivati sui mercati due miliardi di individui che prima ne erano
tenuti fuori e nei prossimi anni ne entreranno in campo altri due miliardi. E'
qualcosa che cambia tutto e ovunque provoca reazioni, positive e negative.
Ma in Italia non se ne discute nemmeno».

Le colpe? Non possono essere solo dei media.

«E' un limite generale del Paese. Mi è difficile stabilire la graduatoria di chi


ne ha le responsabilità maggiori. Il fatto è che la sostanza del dibattito aperto
nel resto del mondo è ignorata dai politici italiani. Così come dagli
industriali. A parte qualche eccezione, non hanno il senso della necessità di
aggiustare l'economia non solo ai parametri di Maastricht ma soprattutto alla
realtà della globalizzazione. Il sindacato mi ha invitato a parlare di queste
cose ma anche da quel versante servirebbe più attenzione. E' un problema
generale. Per esempio, ben pochi studenti italiani riescono a vincere i nostri
concorsi, qui alla Wto: perché nessuno li preparara a misurarsi con questi
problemi. E così continuano ad andare in piazza senza rendersi conto che di
fronte ai problemi della globalizzazione essi non sono altro che borghesi
ultra-conservatori che distruggono senza costruire, protezionisti che si
rifiutano di competere col resto del mondo».

L'Italia si sta marginalizzando?

«E' difficile dirlo. Certamente il Paese ha una grande forza propulsiva e sa


sfruttare sul piano individuale e congiunturale tutte le occasioni. Ma sembra
senza strategie».

E' però in atto lo sforzo per entrare in Europa.

«Che è giusto ma insufficiente. Io sono un europeista convinto ma mi


preoccupa il fatto che negli ultimi tempi l'Europa si sia concentrata solo
sull'aggiustamento ai parametri di Maastricht. La mia preoccupazione è che
questo obiettivo abbia messo in seconda linea quell'altro grande
aggiustamento necessario, quello strutturale richiesto per partecipare con
successo alla globalizzazione. Ad esempio nella scuola».

Questa globalizzazione ormai ci tormenterà per sempre.

«La globalizzazione non la faccio io né la inventa nessuno. La fa soprattutto


il progresso tecnologico che ha scavalcato le frontiere. E' una realtà che
incontriamo nella vita di tutti i giorni, nelle componenti delle automobili
come nella prima colazione al mattino. Qui alla Wto cerchiamo di dare delle
regole ai mercati».

La gente fatica però a capire di cosa si tratta.

«E' vero e va chiarito. Non solo in Italia. Noi cercheremo di spiegarlo. E'
importante, perché mentre l'economia diventa globale, la politica resta
locale».

Ma è proprio sicuro che gli italiani siano così provinciali?

«No, l'italiano non è provinciale. E' che gli manca chiarezza. Ma soprattutto
gli manca il messaggio su quello che succede nel mondo».

In altri termini?
«In altri termini gli studenti, i sindacati, i politici ritengono che si possano
fare delle scelte al di fuori del contesto globale. Ed è un errore, perché la
globalizzazione significa interdipendenza e l'interdipendenza accresce le
opportunità ma nello stesso tempo diminuisce le capacità di scelta».

Esempio?

«Oggi si dice che per una grande azienda o per un grande Paese come
l'Italia, il mercato non è certo più quello nazionale e neppure solo quello
europeo: il mercato è il mondo, sono 6 miliardi di possibili consumatori.
Questa è un'enorme opportunità. Ma nello stesso tempo anche la
concorrenza non viene più solo dall'ambito nazionale o continentale, ma da
qualsiasi altro possibile concorrente nel mondo. E questo limita le scelte».

Insomma, alla fine, questa benedetta globalizzazione è davvero così


positiva?

«Certamente aumenta le possibilità di crescita in un modo che non ha


precedenti. Negli ultimi dieci anni gli investimenti diretti stranieri nei Paesi
in via di sviluppo sono aumentati di quattro volte. Secondo gli ultimi dati
oggi nel mondo ci sono tre miliardi di uomini che hanno aumentato il loro
tenore di vita. Ma questi tre miliardi di uomini rappresentano anche la
globalizzazione delle attese e delle speranze. Nel mondo in cui viviamo,
questi uomini sapranno sempre di più come si vive nei Paesi industrializzati.
Vi è una sola risposta a questa grande sfida: produrre più risorse senza
distruggere l'equilibrio naturale e aprire le nostre economie. L'alternativa
alla globalizzazione è oggi la divisione del mondo in grandi aree regionali
intercontinentali. La scelta di fronte a noi è quindi un mondo diviso in
blocchi oppure un grande mercato regolato da un sistema universale di
regole e discipline. Questa seconda opzione è quella del Wto. Un'opzione
certo non accettata da tutti, ma che non ha una vera alternativa tranne quella
di un mondo chiuso e in cui aumenteranno la divisione, il terrorismo, la
guerra. Le nuove tecnologie stanno portando in tutto il pianeta la
conoscenza e l'informazione a livelli impensabili fino apoco tempo fa.
Questa è una vera rivoluzione, che sta dando alla globalizzazione una
dimensione umana, al di là della libera circolazione delle merci e dei
capitali».

Però?

«Però, come tutte le grandi storie dell'umanità, non sempre l'utilizzo di


questa massa di nuove risorse viene utilizzata nel migliore dei modi dai
governi nazionali. Quindi stiamo attenti: l'economia di mercato è certamente
il migliore sistema per la produzione di beni e servizi, ma la loro
distribuzione è una responsabilità che appartiene ai governi nazionali».
Prospettive
Paolo Fulci Condivido molte delle riflessioni dell’amico Renato Ruggiero sulla cronica
mancanza di attenzione in Italia verso i temi della politica estera,
fondamentali per gli interessi nazionali in un mondo in cui i Paesi sono
sempre più interdipendenti e sempre meno indipendenti.
Anche a New York abbiamo avuto - e lo stesso Ambasciatore Ruggiero ne
ha fatto cenno ai giornalisti italiani a Bangkok - esperienze non dissimili
dalla sua, per quanto concerne la percezione che si ha nella penisola di
alcune grandi tematiche legate al profilo internazionale.
Quando tre anni fa, agli inizi del dibattito all’ONU sull’allargamento del
Consiglio di Sicurezza, cominciammo a portare avanti un progetto di
riforma presentato dal Governo italiano, sempre sostenuto con grande
convinzione e coerenza da tutti i Ministri degli Esteri che si sono succeduti,
ci scontrammo con tre ordini di obiezioni.
Gli uni ci paragonavano a dei "Don Chisciotte", colpevoli di enorme
ingenuità per aver solo pensato di poter contrapporre un nostro disegno alle
ambizioni di due colossi economici come Germania e Giappone.
Altri ci consideravano dei pericolosi temerari, perché rischiavamo di recare
pregiudizio, alienandoci la benevolenza della Germania, i nostri interessi in
Europa.
Altri ancora affermavano che era perfettamente inutile cercare di essere
presenti con maggiore frequenza nel Consiglio, visto che l’Italia non
sarebbe comunque in grado né di concepire, né di avere, né di attuare alcuna
politica estera degna di questo nome.

Insomma, di volta in volta siamo stati accusati di comportarci da ingenui e


incauti "cavalieri", o novelli Davide in lotta contro possenti Golia, oppure al
meglio dei fragili sognatori, alla ricerca di obiettivi irraggiungibili.

D’altra parte, nel dicembre scorso, quando ci è toccata la presidenza del


Consiglio di Sicurezza, fra il centinaio di corrispondenti che affollavano le
quotidiane conferenze stampa per conto del Consiglio, raramente se ne
scorgeva qualcuno italiano. Alle mie ripetute domande sul perché di tale
assenza, la risposta dei nostri pur validissimi giornalisti di New York è stata
invariabilmente la stessa: le testate italiane sono poco interessate alle
vicende delle Nazioni Unite perché "non fanno notizia", e preferiscono
comunque dare preminenza alle questioni interne.
Eppure, il Consiglio di Sicurezza è l’unico organo al mondo legittimato a
decidere l’imposizione di blocchi economici e sanzioni, di organizzare
operazioni di pace o di guerra, di istituire tribunali penali internazionali.
Tutti gli Stati sono tenuti a rispettare e ad applicare le decisioni del
Consiglio, in base all’art. 25 dello Statuto, da essi liberamente sottoscritto:
con ovvie conseguenze quindi sulla sicurezza e sulle condizioni di vita
anche dei singoli cittadini.
Certo sarebbe ingeneroso addossare la responsabilità di tale stato di cose ai
soli "media", che spesso sono lo specchio della società cui si rivolgono e in
cui operano. Tra l’altro, è solo grazie a un ristretto gruppo di responsabili
del mezzo televisivo ed editorialisti più sensibili al tema, che un argomento
così fondamentale per la politica italiana, la riforma del Consiglio di
Sicurezza, non è stato seppellito sin dall’inizio nel disinteresse generale. Tra
i primissimi a dargli il giusto rilievo, ricordo Letizia Moratti, Furio
Colombo, Arrigo Levi, Piero Ostellino, Aldo Rizzo e Paolo Garimberti.
Un altro aspetto del problema è che senza dubbio, in termini di politica
interna, la politica estera non paga, o paga pochissimo: si è mai visto in
Italia un uomo politico che sia stato eletto od abbia fatto carriera su una
piattaforma di politica internazionale? Anche qui - sempre in relazione alla
riforma del Consiglio di Sicurezza - vi è stata l’eccezione di una pattuglia di
illustri parlamentari, tra cui gli stessi Presidenti dei due rami del Parlamento,
e soprattutto i Presidenti e molti componenti delle Commissioni Esteri di
Camera e Senato, passati e presenti.
La verità è che le cause a monte della scarsa attenzione degli italiani per ciò
che accade all’estero sono più di una, a cominciare dall’inadeguato
insegnamento delle lingue straniere nelle scuole.

Renato Ruggiero ha dunque ragione da vendere quando dice che noi italiani
continuiamo ad essere affetti da un radicato provincialismo.

Con viva cordialità.


Il giornalismo italiano è provinciale
intervista a Piero Sansonetti
E’ d’accordo con il giudizio che Renato Ruggiero da dell’Italia, che gli
appare con l’aria di una vecchia marchesa, snob, superficiale, fuori dal
tempo ?

Sono tentato di dire di sì e di no. Vorrei dire no perché mi pare uno


stereotipo e mi sembra che uno dei vizi italiani sia proprio quello di
utilizzare molti stereotipi, come di avere una specie di nazionalismo al
rovescio, un anti-nazionalismo. Abbiamo il vizio di considerarci sempre più
stupidi, più provinciali, più cialtroni e invece io devo dire, anche sulla base
della mia esperienza personale negli Stati Uniti, che l’Italia sotto molti
aspetti può essere considerata superiore anche a quel paese. Potrà sembrare
provocatorio dire che l’America non è un paese efficiente, ma un paese in
gran parte inefficiente, che New York è una città che funziona male e che
Roma sotto questo punto di vista non ha nulla da invidiargli, ma è vero.
L’America secondo me è una delusione, un esempio sono i telefoni, che non
funzionano, esattamente come da noi.

Detto ciò però su alcune cose Ruggiero ha ragione, per esempio quando
parla del mio lavoro, perché credo che il giornalismo italiano sia di un
provincialismo che fa pena.

Ruggiero afferma infatti che i media italiani hanno una logica


esclusivamente domestica e si concentrano solo sui problemi interni, mentre
dovrebbero misurarsi con i problemi del mondo. Su questo concorda?

Il nostro giornalismo è sicuramente un giornalismo provinciale, come


dimostra il fatto che io prima di arrivare agli esteri, su un qualunque
quotidiano italiano, devo girare decine di pagine. Questo è indiscutibile e
soprattutto noi dell’estero cerchiamo stereotipi, quindi il nostro giornalismo,
non solo si occupa pochissimo degli esteri, ma racconta quello che già
sappiamo e che spesso credo non sia vero. Ciò che noi raccontiamo
dell’America, per esempio, in grandissima parte non è vero: i giornali
cercano solamente stereotipi sull’America, che in gran parte sono falsi, sia
positivamente, sia negativamente. L’America non è né il paese
dell’efficienza che noi raccontiamo, né il paese del "darwinismo sociale".
Non è il paese che viene raccontato, perché non è la giungla, ma neppure il
paese dell’efficienza.

I giornali italiani, così come i politici italiani sono miopi. In tutto il dibattito
sulle riforme istituzionali ho notato una non conoscenza del dibattito
politico e della situazione istituzionale che c’è negli altri paesi, e questa
penso sia un’ignoranza molto grande e recente, perché l’Italia da questo
punto di vista era un paese molto più preparato, la generazione politica
precedente era molto più ferrata da questo punto di vista, era certamente più
immobile e aveva altri difetti, ma adesso il dibattito politico su queste cose è
impressionante.

Però io credo che il popolo italiano abbia delle cose geniali, non credo che
sia sulla via del declino. La stampa italiana in alcune momenti è stata una
grandissima stampa, anche se adesso mi pare faccia veramente pena e sia
molto provinciale.

Come andrebbero invece raccontati i fatti del mondo?

Innanzitutto i giornali italiani si occupano praticamente solo di quattro o


cinque paesi: Stati Uniti, Francia, Russia, Gran Bretagna e Germania.
Lavorano con cinque corrispondenti in questi cinque paesi e non viaggiano.
Mentre il mondo è molto più grande e bisognerebbe viaggiare certamente di
più.

Per esempio, credo che la struttura dei giornali italiani fatta con molti
corrispondenti e pochi inviati sia errata e da rivedere. Dovremmo viaggiare
e raccontare una parte molto più grande del mondo. In futuro i
corrispondenti dovrebbero sparire e noi all’Unità ci prepariamo ad abolirli,
perché sono uno strumento del passato. Bisognerà usare molto di più gli
inviati e le nuove tecnologie.

E’ una cosa impressionante il numero di informazioni che i giornali


potrebbero ricevere e dare utilizzando i nuovi strumenti tecnologici, che
vengono invece ignorati. Un buon navigatore di Internet, anzi basta un
medio navigatore che ci giochi un poco, può avere una conoscenza e una
visione del mondo assai più approfondita di un lettore certosino di tutte
le pagine degli esteri dei giornali italiani.

Ma soprattutto dovremmo acquistare interesse per il mondo, che in questo


momento è molto basso, mentre in altri momenti eravamo più attenti a
quello che succedeva fuori dai nostri confini : Dieci anni fa i nostri giornali
avevano un interesse e una capacità di racconto delle vicende mondiali
superiore a quella di oggi.

Questo crollo di interesse penso si possa spiegare sia con il cambio di


Repubblica che abbiamo avuto in Italia e con gli intensi avvenimenti
politici, che hanno richiamato l’attenzione prevalentemente verso l’interno,
sia con il fatto che i giornali, avendo assunto, dopo il crollo dei partiti
politici, un potere politico eccessivo, sono stati risucchiati, per motivi quasi
di potere, dalla politica e questo ci ha reso miopi sul resto del mondo.

Per concludere penso che non ci siano dubbi che i giornali e il mondo
politico siano provinciali, ma che questa sia una condanna o un destino
irreversibile per il Paese non ci credo, perché l’Italia penso possa essere
capace di riprendersi e di correggersi, più di quanto possano fare altri paesi.
Europa: un futuro che non c'è
Lucio Caracciolo L’Europa è oggi un progetto senza futuro. Si è incagliata sulla questione
dell’euro, quella che dovrebbe essere la moneta unica europea e che invece
non lo sarà. Infatti, i casi sono due: o questo progetto si fa, e allora
riguarderà essenzialmente Germania, Francia e alcuni paesi minori, con
l’Italia esclusa ed emarginata; oppure non si fa, e allora la costruzione
europea dovrà indirizzarsi lungo percorsi nuovi e sperabilmente meno
divisivi e insensati.
Fatto è che nei media si continua a parlare di moneta unica europea pur
trattandosi eventualmente di una moneta di una parte dell’Unione. A
conferma di una deriva semantica del termine "Europa", del quale si è perso
ogni significato perché si è voluto caricarlo di ambizioni eccessive e spesso
contraddittorie. Così si può parlare impunemente di "Europa delle regioni",
che è una perifrasi per delegittimare a un tempo l’Europa e gli Stati
nazionali e far fiorire, invece, una pletora di staterelli più o meno "etnici" e
certamente illiberali. Oppure di "Europa delle nazioni", che vuol dire
lasciare le cose come stanno o anzi dar nuovo peso agli Stati nazionali
rispetto all’Unione europea.
Altra curiosità semantico-politica: oggi passano correntemente per
"europeisti" i sostenitori della moneta europea, cioè di un progetto che,
concretamente, non può che dividere l’Unione europea. Mentre passano per
"euroscettici" se non per "antieuropeisti" coloro che questa stramberia
criticano. Colmo dei paradossi, la tesi per cui occorre fare l’Europa (leggi:
l’euro) perché ce lo impone la globalizzazione. E’ vero che anche la sfera
semantica di quest’ultima espressione si è alquanto allargata, ma un minimo
di consenso esiste sul fatto che si tratta di un fenomeno liberista, di apertura
delle frontiere alle merci, ai capitali, alle persone. Ora non si vede come si
possa contemporaneamente volere l’Europa e la globalizzazione, il primo
essendo, se la parola ha ancora un senso, un blocco regionale, dunque un
progetto protezionista e mercantilista. Ciò è particolarmente vero
nell’interpretazione francese dell’euro, inteso come un rivale del dollaro,
come un grimaldello per aprire alle merci europee i mercati americani e per
condurre una guerra commerciale contro gli Usa. Chissà, forse qualcuno
sosterrà che liberismo (globalizzazione) e protezionismo (Europa) sono nel
frattempo diventati sinonimi...
Perché questa confusione? Per la perdita di controllo dei media e dei governi
sul loro linguaggio? Anche. Ma si può tentare un’interpretazione meno
benevola. In effetti, questo brouillage semantico serve ad evitare una
discussione seria e concreta sull’Europa. E serve ai vari governi per
utilizzarla come foglia di fico per quelli che ritengono essere i rispettivi
interessi nazionali.
Ad esempio, per i francesi il progetto euro è essenzialmente destinato a
togliere ai tedeschi il marco, in modo da riequilibrare i rapporti di forza in
Europa, e per lanciare la sfida commerciale agli Usa. Per i tedeschi, quello
che conta non è l’euro, che infatti per i due terzi di loro è un’idea perversa e
punitiva, ma l’applicazione dei parametri di Maastricht, in modo da
"germanizzare" le economie europee e per gestire una politica dei tassi di
interesse che garantisca un flusso di capitali esteri verso la Germania, senza
del quale la ricostruzione dell’ex DDR, già spaventosamente difficile,
sarebbe impossibile.
E noi italiani? Uno dei grandi misteri della Prima Repubblica è la ragione
per cui Andreotti e De Michelis posero la loro firma sotto il Trattato di
Maastricht. Si trattava in tutta evidenza dell’atto di morte della finanza
allegra e quindi della stessa Prima Repubblica. Probabilmente entrambi
pensavano che quel Trattato sarebbe rimasto un pezzo di carta. Ma si
sbagliavano.
Ora noi italiani rischiamo di essere esclusi dall’Europa grazie all’euro
franco-tedesco. Nostro interesse vitale è quindi che tale progetto non vada in
porto. Tanto più che anche in Francia e soprattutto in Germania sempre più
voci contestano la sensatezza di questo progetto.
Si può dare Europa senza Italia? Credo e spero di no. Ecco perché sarebbe
urgente un dibattito pubblico e senza tabù sul nostro interesse nazionale
riguardo al progetto euro, e sulle possibili alternative. Sapendo che alla fine
per noi non ci sono che due possibilità: restare dentro l’Europa, rinviando
l’euro e demonetizzando il progetto europeo, oppure esserne esclusi in nome
dei "superiori interessi" di chi attraverso l’euro vuole mettere le basi di una
nuova Europa. Più piccola, più omogenea, meno europea. Soprattutto, senza
l’Italia.
Che succede in Europa ?
Antonio Martino Il momento storico suggerisce l’opportunità di alcune considerazioni in
tema di unificazione monetaria dell’Europa. Ho più volte ribadito che la
strategia di unificazione monetaria attualmente perseguita in ossequio al
dettato di Maastricht sembra condurci ad uno dei seguenti due sbocchi,
entrambi fortemente preoccupanti. O prevale una interpretazione permissiva
dei "criteri di ammissione", quella sostenuta fra gli altri dalla Francia, e si fa
finta di credere che abbiano le carte in regola anche paesi (come l’Italia) che
non le hanno e li si ammette fin dall’inizio, ma in questo caso si fonda la
moneta europea su basi finanziarie dubbie, fragili e precarie, col rischio di
gravi crisi future. Oppure si segue una interpretazione "rigorosa", come
vuole la Germania, e si ammettono solo i paesi che hanno veramente
risanato i propri bilanci pubblici affrontando le radici strutturali del dissesto,
ma in questo caso si spacca l’Europa, perché la si divide in due (o, più
correttamente, tre) gruppi di paesi, con un gruppetto di paesi più uguali degli
altri anche sul piano politico, destinato ad assumere una sorta di leadership
sugli altri, gli esclusi.

Allo stato dei fatti, secondo le stime più affidabili, entrerebbero a fare parte
del sistema fin dall’inizio otto paesi (Germania, Francia, Olanda, Belgio,
Lussemburgo, Austria, Finlandia ed Irlanda); resterebbero fuori Portogallo,
Italia, Grecia e Spagna (con un acrostico velenoso, questi paesi vengono
indicati come i PIGS - porci in inglese); infine, Svezia, Inghilterra e
Danimarca, al momento non sembrano interessate ad entrare, neanche se
avessero le carte in regola. Una frantumazione, quindi, dell’Unione
Europea, con la creazione di fatto di un direttorio dominato dall’asse franco-
tedesco, se non addirittura dalla Germania: un esito esattamente contrario
alle aspirazioni dei padri fondatori dell’Europa unita.

Il confronto fra queste due tesi si è incentrato sul cosiddetto "patto di


stabilità" - l’insieme di regole di condotta del bilancio pubblico da imporre
ai paesi "ammessi" al sistema della moneta europea. La Germania avrebbe
voluto che le condizioni in presenza delle quali viene condonato ai paesi un
disavanzo pubblico superiore al 3 per cento del pil venissero definite e
specificate preventivamente, non come avrebbe voluto la Francia, valutate
caso per caso dal Consiglio, e che le sanzioni fossero automatiche, non
deliberate in sede politica. Al vertice di Dublino si è deciso che, se lo
"sfondamento" del tetto del disavanzo riguarda un paese in cui il prodotto
interno lordo è diminuito in misura pari o superiore al 2 per cento rispetto
all’anno precedente, lo "sfondamento" viene considerato ammissibile e non
si infliggono penali di sorta. Un punto a favore della tesi tedesca. Se, invece,
la recessione è compresa fra lo 0,75% ed il 2%, le sanzioni non saranno
automatiche ma diverranno oggetto di discussione e trattativa in sede
politica. Un punto a favore della posizione francese. Infine, se lo
"sfondamento" riguarda un paese in cui la recessione è inferiore allo 0,75%,
le penali saranno automatiche. Un secondo punto a favore della posizione
tedesca. Germania batte Francia 2 a 1.

Questo compromesso si presta ad una serie di considerazioni. Anzitutto, a


50 anni dalla morte di Keynes ed a 60 anni dalla pubblicazione della sua
opera principale, le decisioni del vertice rappresentano la pietra tombale
posta sulla visione Keynesiana della politica di bilancio, della
manipolazione cioè dei deficit pubblici come strumento di politica
economica. D’ora in avanti, ammesso che questo schema abbia successo, i
paesi europei non potranno più darsi a politiche di finanza allegra con la
nobile giustificazione che, così facendo, si possa promuovere l’occupazione
e lo sviluppo, ma saranno sottoposti ad una rigida disciplina di bilancio. Se
funzionasse, sarebbe davvero un grande risultato.

In secondo luogo, tuttavia, l’idea che un paese membro del sistema a moneta
comune sia disposto a sottoporre il proprio bilancio all’esame degli altri
paesi, senza contraccolpi nazionalistici, appare dubbia. Per comprenderlo,
basti pensare alla reazione del governo, del parlamento e dell’opinione
pubblica ad una eventuale "bocciatura". Né sembra credibile che un paese,
reo di aver ignorato il vincolo di bilancio, accetti di buon grado di pagare
una penale di dimensioni cospicue (come ricordavo due mesi orsono, per
l’Italia si tratterebbe di cifre fino a 10 mila miliardi). E che dire delle
conseguenze della penale? Il paese che ha un deficit eccessivo si troverebbe
a dover fare i conti pure col pagamento della multa, il che certamente non lo
aiuterebbe a risanare i suoi conti.

Infine, ma più importante, il compromesso non risolve il dilemma di cui


dicevo in apertura: non sappiamo ancora se si deciderà di adottare la
formula permissiva, la "manica larga", ammettendo anche paesi di
solvibilità finanziaria dubbia, o quella restrittiva, basata sulla rigorosa
interpretazione dei criteri di convergenza finanziaria. Non sappiamo, cioè se
l’Europa è destinata a spaccarsi o a dare vita ad un meccanismo con basi
finanziarie fragili o precarie.
Dal momento che entrambe le alternative appaiono potenzialmente
disastrose, resta solo da auspicare che alla fine prevalga il buon senso, si
decida di rinviare l’inizio della moneta europea, e questa bislacca
costruzione venga ripensata a fondo. Come non mi stanco di sostenere da un
numero indecoroso da anni.
L’Europa necessaria
Mario Deaglio

Antonio Martino ha ragione da vendere a porre l’accento sulle difficoltà che


ancora sussistono per la messa a punto della moneta unica e sul dilemma
permissività-severità finanziaria che rende incerte le prospettive dell’Euro.
Non dobbiamo però fossilizzarci su un dibattito, pur importante, ma
piuttosto arido e di breve periodo; per una volta, let’s take the long view,
solleviamo lo sguardo e ampliamo i nostri orizzonti.

Non sono orizzonti esaltanti. Seguendo questa strada, scopriremo che,


indipendentemente dalle difficoltà della moneta unica, l’Europa o avrà un
futuro comune oppure sarà senza futuro. E’ questa la realtà di fondo con la
quale dobbiamo fare i conti nella moderna economia globale; e dobbiamo
fare questi conti soprattutto guardando al resto del mondo e non alle nostre
piccole beghe europee. Negli ultimi 30/40 anni, infatti, sono maturate
convergenze strutturale che rendono a un tempo i Paesi europei più simili tra
loro e più diversi dai Paesi non europei.

Il primo elemento di convergenza è la demografia, dimenticata da tutti


perché chi solleva problemi demografici in Italia corre sempre il rischio di
passar per fascista. Ebbene, le proiezioni demografiche europee sono
semplicemente spaventose alla luce di una possibile crescita economica di
lungo periodo o anche solo al mantenimento degli attuali livelli di benessere.

La crescita demografica del nostro continente è pari a poco più di un terzo di


quella degli Stati Uniti e dovuta pressoché interamente all’allungamento
della vita degli attuali abitanti; a differenza del Nord America, la natalità è
crollata e l’immigrazione - a parte alcune ondate specifiche legate a
convulsioni politiche nei Paesi confinanti- è molto ristretta. Risultato:
l’Europa si riempie di persone anziane. Liberalizzati o no, i sistemi
pensionistici rischiano di saltare ovunque.
Volente o nolente, quindi, l’Europa dai capelli grigi dovrà sospendere una
maggior quota di risorse pubbliche per il sostentamento di questa
popolazione non attiva, a meno di non condannare i vecchi alla povertà.

Una demografia squilibrata porta con sé bilanci pubblici squilibrati e nel


prevedibile futuro i bilanci pubblici europei saranno quindi gravati di un
peso che gli altri blocchi economici non conoscono oppure devono
sopportare in forma molto ridotta. A parità di altre condizioni, vi saranno
minori risorse da dedicare a investimenti e genericamente allo sviluppo.

L’anomalia demografica e l’anomalia della finanza pubblica si sono


accentuate nel corso degli ultimi tre decenni e portano i Paesi europei a
collaborare tra loro, a difendere assieme interessi comuni. A queste due si
aggiunge una terza, più tradizionale, particolarità europea: la scarsità di
materie prime, soprattutto di tipo energetico, e la necessità di carattere
strategico, di assicurarsene la disponibilità regolare e pacifica. In un mondo
ingessato dalla guerra fredda, tale accesso era automaticamente garantito
dall’alleanza con gli Stati Uniti; la guerra del Golfo ha però probabilmente
rappresentato l’ultimo caso in cui gli americani sono stati disposti a pagare
(e anche a morire) per difendere le nostre rotte petrolifere.

I motivi per stare assieme sono quindi oggi più cogenti che mai e sarebbe
preferibile che smettessimo di litigare per assurdità come le quote-latte e
anche per cose meno assurde come i patti di stabilità. Le recenti vicende del
commercio internazionale mostrano come l’unità e la fermezza europea (per
esempio contro le sanzioni minacciate dagli Stati Uniti a chi investe nei
Paesi a loro non graditi) sono in definitiva efficaci. Se si vuole nel mondo
un liberalismo dal volto umano, c’è bisogno di un’Europa unita. E questo è
vero, Maastricht o non Maastricht, moneta unica o non moneta unica, quote
latte o non quote latte.
Il piccolo mondo dei media italiani
Alberto Flores Per chi si occupa di questioni internazionali è fin troppo facile essere
d'accordo con quanto dichiarato da Renato Ruggiero. Passata l'ubriacatura
seguita al crollo del Muro e alla guerra del Golfo lo spazio dedicato dai
media (giornali e tv) alle notizie provenienti dal mondo è stato
drasticamente ridotto.
Se negli anni ‘92-‘94, con l'imperversare di Mani Pulite e della cosiddetta
"rivoluzione italiana", tutto ciò poteva essere giustificato, oggi non ci sono
più alibi.
Si tratta dunque di una scelta: dettata da un provincialismo "cronico" - che
accomuna da sempre la classe dirigente italiana - e dall'intreccio di interessi
e di affari che legano il mondo dell'editoria e dell'informazione al potere
politico. Intreccio talmente radicato che spesso i direttori finiscono per
essere scelti non sulla base delle loro capacità professionali ma per le loro
frequentazioni con il Palazzo e la loro "fedeltà" politica. Da qui nasce
l'incredibile e innaturale spazio dedicato da giornali e televisioni alla
politica e soprattutto ai pettegolezzi della politica, sempre più lontani dai
reali interessi della gente comune e quindi dei lettori.
Ma c'è un secondo punto, a mio avviso ancora più grave:
l'omogeneizzazione di tutti i media, la creazione di una sorta di "capo
redattore unico" che impone le stesse notizie, in un circolo vizioso per cui i
quotidiani rincorrono le tv, che a loro volta rincorrono i quotidiani. Con la
conseguenza che le prime pagine sono tutte uguali - negazione di uno dei
principi basilari del giornalismo - e che le notizie divengono tali solo
quando arrivano dalle agenzie o dalla televisione.
Questo "caporedattore unico" ha decretato negli ultimi tempi che la politica
estera e in generale ciò che avviene nel mondo è "noioso" e che non piace
alla cosiddetta "gente". Per cui dai giornali (e dai telegiornali) italiani stanno
progressivamente scomparendo le notizie, i reportages, le inchieste, cioè
tutti quegli articoli che possono aiutare meglio il lettore a comprendere ciò
che avviene fuori dall'Italia, e che nel mondo "globale" interessa
direttamente anche l'Italia e gli italiani.
In cambio si riempiono le pagine di banalità, fino ad arrivare all'estremo che
una non-notizia, sette righe pubblicate nella pagina dei "pettegolezzi" del
New York Post, diventano venti righe dell'Ansa e, dopo il visto del
"caporedattore unico", mezza pagina di quotidiano. Alla faccia della famosa
"gente": che sono poi gli italiani che leggono i giornali, che viaggiano in
tutto il mondo, che commerciano e fanno affari in tutti i continenti.
Under western eyes
Il "sistema operativo" del mondo
Beppe Servegnini Il 12 luglio dell'anno 1900, a bordo del piroscafo Prinz Heinrich diretto in
India e in Cina, Luigi Barzini lanciò questo grido di dolore: "La civiltà è una
cosa bellissima, ma orribilmente monotona. La sua luce potente, ovunque
arriva a proiettarsi, rende tutte le cose del medesimo colore scialbo, come fa
un raggio di luce elettrica. I paesi più lontani diventano eguali; a poco a
poco le differenze di costumi, di usi, perfino di linguaggio e di razza vanno
scomparendo. Tutto quanto vi è di più incantevole, la varietà, si appiana, e il
mondo finirà col non presentare più attrattive di una immensa palla da
biliardo. "
Come j'accuse contro la globalizzazione è perfetto: non c’è soltanto l'arringa
contro l'Occidente, ma anche l'aspetto sferico (la palla da biliardo). Da allora
il lamento di Barzini - con meno stile, ma con qualche giustificazione in più
- è risuonato di continuo. L'Occidente - diamo il termine per scontato, anche
se non dovremmo - in questo secolo ha riempito il pianeta di macchine,
modelli, miti, mode e motivi. Non tutti buoni. Ma non tutti cattivi.
L'argomento è talmente vasto che diremo subito quello di cui NON
parleremo. Non parleremo di commerci, che pur tra errori e prepotenze,
hanno portato benessere e corroso dall'interno le dittature (quanto
resisterebbe Fidel Castro senza l'embargo USA, alle prese con un’economia
aperta?). Non parleremo di modelli politici, per non essersi sommersi di e-
mail da Singapore, dove sostengono le virtù del paternalismo autoritario.
Non parleremo di modelli culturali, anche perché in Italia siamo ormai
importatori netti (c'è il rischio di diventare una Corea bianca, che duplica
video-cassette e scopiazza programmi TV).
Parleremo, invece, di un'esportazione minore. Potremmo chiamarla - giusto
per capirci - il "pacchetto delle convenzioni quotidiane". E' una
globalizzazione apparentemente secondaria; ma, come vedrete, sorregge
quell'altra, e la rende possibile.
Cosa sono le "convenzione quotidiane"? Facciamo qualche esempio. Gli
uomini d'affari, in tutto il mondo, parlano una lingua comune, prenotano gli
aerei nello stesso modo, prendono i taxi con l'identica fretta, dormono in
alberghi simili, telefonano e pagano con le stesse carte di credito.
Queste abitudini sono un prodotto che abbiamo esportato con successo:
abbiamo fornito al mondo gli strumenti per lavorare insieme. Questo non
vuol dire - come lamentava Barzini (estetizzando) e sostengono i
terzomondisti (esagerando) - che l'Occidente abbia distrutto le culture locali.
L'uomo d'affari libanese e il ministro cinese non devono vergognarsi (e
infatti non si vergognano), se parlano e telefonano come noi. Hanno
semplicemente accettato "il kit da viaggio" offerto dall'Occidente (diciamo
pure: dall'America), e lo usano quando serve.
Le differenze tra le diverse culture restano grandi, per fortuna (e sarebbe ora
che imparassimo ad apprezzarle). Ma per lavorare insieme, il mondo ha
bisogno di un "sistema operativo" che tutti siano in grado di comprendere e
utilizzare. Non ci sono solo quelli dei computer (Windows), di Internet
(TCP/IP), della navigazione aerea (IATA). Anche la lingua inglese è un
sistema operativo: era l'idioma dei britannici e degli americani; oggi, nella
sua forma-base, è un codice per trasmettere e ricevere informazioni. Lo
stesso si può dire delle catene alberghiere internazionali; di alcune carte di
credito; della televisione via satellite e di qualche giornale. Aggiungerei, a
costo di provocare qualcuno, una certa tolleranza di stampo anglosassone.
Un’ "etica aeroportuale" che può sembrar fasulla, ma è il minimo comun
denominatore tra persone che hanno idee, propositi, storie e religioni
diverse: non spingere, fai la coda, non urlare, chiedi per favore, ringrazia,
saluta.
Badate: questa non è l'apologia di un mondo di plastica. E', invece,
l'ammissione che la plastica è meglio del fango, del cartone, del sudore e del
sangue. Lo scrittore americano P.J. O'Rourke, dopo una dozzina di viaggi
nel Terzo Mondo, scrisse che "la civiltà è un enorme miglioramento rispetto
alla mancanza della suddetta". Intendeva dire che qualsiasi turista, anche il
radical-chic più caparbio, è arrivato ad ammettere ciò che fino a qualche
tempo fa non era per nulla scontato: "Gli abitanti dei villaggi cinesi e delle
favelas brasiliane non possono rimanere poveri per fornire a noi ricchi une
atmosphère très primitive , e hanno il diritto di sognare prima la luce
elettrica, e poi la televisione a colori". Anche questi sono "standard"; anche
questa è globalizzazione.
Questa presa di coscienza - facilitata dal fatto che, come sostiene O'Rourke,
"dove resiste une atmosphère très primitive la gente si spara addosso, e le
docce funzionano male" - è stata lenta, e non è ancora conclusa. In
Occidente, i falsi romanticismi sono sempre in agguato. Samuel Johnson
scriveva che "i viaggi erano una delusione, perché città e paesi si
somigliavano tutti"; però viaggiava. John Ruskin si dichiarava
"inconsolabile per la scomparsa della diligenza"; poi si è consolato. Il
già citato Luigi Barzini, quando sosteneva che "traversare una nazione o un
continente" era divenuto "perfettamente uguale a traversare un corridoio",
forse non si rendeva conto che l'esotismo di pochi è un piccolo prezzo da
pagare, se aiuta la vita di molti.
In conclusione: noi occidentali possiamo andare orgogliosi d'aver fornito al
mondo un buon "kit da viaggio". E' una piccola cosa? Forse.
Ma le piccole cose che significano molto per tanta gente sono, in effetti,
grandi cose, per cui la storia ci darà credito. Le colpe dell'Occidente sono
ben altre. Sono le guerre cui assistiamo indifferenti; la silenziosa
accettazione del lavoro infantile; un turismo sessuale sfrenato e incosciente;
l'esportazione della pedofilia. Ora non dite che alla prima globalizzazione (il
"sistema operativo") segue per forza la seconda (sfruttamento e
colonizzazione culturale). Perché non è vero.
Tecnoglobali, ma non tutti uguali
Rocco Cotroneo George Gilder, visionario americano, sostiene che la rivoluzione digitale
investirà tutta l'umanità, e non solo i ricchi, per un motivo strettamente
economico: il costo. Le materie prime della nuova era, la sabbia (silicio), il
vetro (fibre ottiche) e l'aria (etere) si trovano in natura e non rischiano di
finire, o di essere monopolizzate da qualcuno. Tutto il resto conta poco, dice
Gilder, che è di destra, iperliberista e ha una visione così estrema del futuro
da far sembrare Negroponte uno scettico pieno di dubbi. La convinzione che
il sol dell'avvenire sarà digitale, tecnoprofeti a parte, è abbastanza diffuso. I
primi segnali di globalizzazione guidata dalle nuove tecnologie
sembrerebbero confermare la tesi della bontà intrinseca del nuovo. Già oggi
l'ultimo dei problemi di un turista in Malesia è trovare un telefonino, perché
quel Paese ha la più alta concentrazione di cellulari del mondo. Ed è
talmente meno costoso costruire una rete di telefonia mobile rispetto ad una
tradizionale, che buona parte dell'Africa subequatoriale sta inseguendo la
modernizzazione saltando a pie’ pari gli stadi di tecnologia dell'Occidente.
Esempi simili si trovano nel Terzo Mondo nella televisione, nella
radiodiffusione, nelle reti telematiche. Al posto dell'accumulazione forzata
di industria e capitale, di marxiana memoria, lo ‘storage’ vorticoso di chip e
bits.
Il punto che sembra sfuggire agli ottimisti ad oltranza - o meglio, sul quale
mancano conferme così illuminanti - è che difficilmente cambiamenti
epocali sono avvenuti nella storia dell'umanità per meri nuovi paradigmi
tecnologici. Le tecniche di navigazione del XIV secolo hanno consentito di
colonizzare l'America, ma non sono certo state la ragione per lo sterminio
dei Pellirossa o degli Inca. I bassi costi che consentiranno allo studente di
Lagos di ricevere la stessa mole di informazioni del suo collega di Harvard
non lo metteranno automaticamente sullo stesso piano. Anzi. L'interattività
o comunicazione a due vie, rischia di accentuare il potere culturale di chi sta
seduto sull'estremo ‘giusto’ del cavo.
La storia recente dell'informatica mostra già chiaramente che la palla sta
passando decisamente dai fornitori di macchine (hardware) a quelli di
contenuti (software), proprio perché i costi delle prime calano
continuamente. E mai come adesso il potere si sta concentrando nelle mani
dei ‘fornitori’ di contenuti, si chiamino Bill Gates o Columbia Pictures.
Prendiamo il caso del Dvd, il dischetto ottico grande come un cd rom ma
potente dieci volte tanto, che dovrebbe sostituire cd musicali, cd rom, audio
e videocassette nei prossimi anni. La tecnologia è pronta da anni, ma il
lancio sul mercato continua ad essere rinviato per la pressione delle major
hollywoodiame. Sono i produttori di film, musica, cartoni animati che ne
determineranno il successo, sono loro che vogliono essere certi di
controllarne la tecnologia, non certo il titolare della fabbrica di Taiwan che
li produrrà in milioni di pezzi all'anno.
Che la globalizzazione culturale, la caduta delle barriere e delle
ineguaglianze segua la curva della legge di Moore o le previsioni di Gilder,
insomma, è tutto da vedere. Per ora le nuove tecnologie stanno prendendo
piede nei diversi Paesi con modalità più familiari ai sociologi che agli
ingegneri: gli italiani impazziscono per il telefonino, i nordeuropei per le
chiacchierate solitarie al computer, ai francesi non va giù questo English
pervasivo sulla Rete, gli inglesi hanno scoperto la televisione grazie a
Murdoch (mentre il resto del mondo magnifica la BBC). E vogliano parlare
di Internet? Non bastano tutti i libri di tutte le Business School per spiegare
la crescita spontanea, su base sostanzialmente volontaristica e gratuita, del
più grosso fenomeno di fine secolo, e proprio nel culmine del trionfo del
capitalismo. Buone notizie, insomma. Ai tecnofobi il mondo fa sapere di
non avere alcuna intenzione di trasformarsi in un tribù di replicanti, ai
signori dei Contenuti dice di stare molto, molto attenti, ai loro investimenti
in fantastilioni di dollari.
Livelli di realtà
Stefano Cingolani Quel piccolo nucleo di irriducibili che da anni, sepolto nella giungla dei
videoterminali, si ostina a seguire le notizie internazionali, è ormai
accerchiato da due nemici diversi, ma ugualmente pericolosi. Davanti,
attaccano le forze d’élite guidate dal club di Davos; da dietro arrivano le
truppe, ben più numerose e "popolari" ammassate dal club dei Passi Perduti.
Per chi deve ogni giorno a far uscire le pagine esteri di un grande giornale,
muoversi in questa tenaglia sta diventando impossibile.
Andare all’assalto sarebbe donchisciottesco, chiudersi in trincea diverrebbe
un suicidio.
Il club di Davos è composto da quel gruppo di industriali, grandi manager,
politici, guru dell’economia e della diplomazia che ogni anno si riunisce
nell’ "amena località" sulle Alpi svizzere per analizzare i destini del mondo,
intrecciare relazioni, scambiarsi informazioni di prima mano. Parlano
international english, condividono gli stessi valori (con qualche variante),
sono i profeti della globalizzazione e del villaggio-mondo.
Il club dei Passi Perduti, invece, si incontra a Montecitorio tutti i giorni dal
lunedì al venerdì mattina. Ne fanno parte parlamentari, giornalisti, lobbisti,
velinisti, candidati alla direzione dei telegiornali pubblici e privati. Sono i
sacerdoti del primato della politica per i quali ogni fiato del Palazzo vale più
di un boom a Wall Street.
I primi influenzano le decisioni dei Potenti, i secondi condizionano le scelte
dei Potentini. Ma sono questi ultimi ad avere in mano oggi i massa media
italiani. Si avvia così un arido gioco di specchi in cui ciascuno rimanda
l’immagine dell’altro.
I sommi sacerdoti di Davos hanno reso il pianeta più piccolo scambiando
dollari e informazioni alla velocità della luce. Ma si sono illusi che il crollo
delle frontiere nazionali avrebbe creato un mondo omogeneo, unificato dal
mercato, dalla lingua inglese e dall’hamburger: il McWorld guidato dalla
convinzione che i paesi dove sorge un McDonald’s non si combattono tra
loro. Allo slogan hippie "facciamo l’amore non la guerra" si contrappone
quello yuppie "non fate la guerra, mangiate un Big Mac". La realtà è, al
contrario, che all’economia globale si contrappongono dieci, cento, mille
tumulti locali, le tante "jihad" provocate dai nuovi fondamentalismi
ideologici, religiosi, etnici e via via combattendo.
Gli alfieri di Montecitorio rivendicano che, finita la Guerra Fredda, l’Italia è
pienamente libera di determinare il proprio destino. Così, negli ultimi
quattro anni si è scatenato un terremoto politico, istituzionale, etico che non
ha paragoni in tempo di pace. Non farne il centro dei propri interessi sarebbe
sciocco e colpevole. Ma hanno creduto davvero che ci possiamo muovere da
soli.
Roma non deve più attendere l’okay degli Stati Uniti per formare un
governo, è vero, ma ha più che mai bisogno del viatico di Bonn e Parigi,
oltre che del benign neglect degli altri alleati. La destra ha scoperto che non
era amata in Europa e ha usato i suoi telegiornali per gridare al Grande
Complotto. Ora tocca alla sinistra dimostrare che è maturata sul serio. E i
mass media, tutti protesi a registrare ogni sospiro dei Passi Perduti, non si
accorgono che il governo Prodi non cadrà per un’intervista di Fini o
Berlusconi, ma se Helmut Kohl negherà all’Italia l’ingresso nel primo
cerchio dell’unione monetaria.
Milano/Mondo: un Piccolo grande Teatro
Oliviero Ponte di Pino Come si sa, nella riunione in cui ha nominato Jack Lang direttore del
Piccolo Teatro, il consiglio d’amministrazione ha anche deciso di offrire una
consulenza a Fatma Ruffini. Dirigente della Fininvest-Mediaset, la signora
Ruffini ha portato al successo (spesso adattandole da format stranieri)
numerose trasmissioni televisive. Certamente la sua esperienza (grazie alla
sapienti regie di Giorgio Strehler) riuscirà a dimostrare che la tradizione
culturale di un’istituzione come il Piccolo Teatro e il successo di pubblico
del Piccolo Schermo presso giovani e anziani si possono conciliare con
grande facilità (trovando per di più molti sponsor che possono miracolare il
bilancio del teatro).

Tra moglie e marito (da Casa di bambola di Henrik Ibsen. Sponsor


Arredamenti Aiazzone). Nora, moglie dell’avvocato Helmer (Rita Dalla
Chiesa e Fabrizio Frizzi, sposi anche nella vita con straordinario effetto
verità), ha tenuto nascosto al marito il prestito ottenuto con una firma falsa
del proprio padre: il denaro - commozione! audience! - è servito per curare
il marito ammalato. Sono passati gli anni, e non è stato possibile restituire il
debito al perfido Krogstad (Davide Mengacci), un bancario collega di
Helmer. E suo rivale di carriera La promozione di quest’ultimo potrebbe
risolvere il problema, ma Krogstad ritorna e ricatta Nora. Conduce Marco
Columbro.

OK il prezzo è giusto (dall’Avaro di Molière). Arpagone (Paolo Villaggio)


è terribilmente avaro. La sua avarizia ha soffocato ogni altro sentimento.
Deve indovinare il prezzo dei prodotti esposti, appartenenti al variegato
universo di tutto ciò che si può acquistare: cibo, stoviglie, elettrodomestici,
automobili, arredi (offerti dagli sponsor). Conduce questa feroce satira
anticonsumistica Iva Zanicchi.

Forum (dal Cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht e da un’idea di


Sandro Leoni; sponsor l’anti-pool Mani pulite). In una città del Caucaso, il
governatore viene deposto e ucciso. Durante la fuga, sua moglie perde il
loro bambino, che viene allevato da Grusa, una povera contadina. Cade il
Muro di Berlino, il Polo delle Libertà vince le elezioni, la moglie del
governatore rivuole il bambino. Di chi è? Della madre biologica o di chi l’ha
allevato? Le due madri rivali sono splendidamente interpretate dalle due
veline di Striscia la notizia. Conduce Rita Dalla Chiesa, decide il giudice
Santi Licheri.

La ruota della fortuna (dal Cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt


Brecht; sponsor gli sponsor di Mike Bongiorno). L’antefatto è lo stesso di
Forum. Solo che questa volta per risolvere il dilemma dall’alto cala Mike
Bongiorno, con la sua Ruota della fortuna del Caucaso: questa volta tra le
due madri (Maria Cristina Busi e Lilli Gruber) contano soprattutto abilità e
fortuna. Questi due spettacoli rientrano nel II Festival Brecht del Piccolo.

Karaoke (dall’Aida di Giuseppe Verdi; sponsor Sony, Ricordi e Five


Records). La trama è esattamente la stessa dell’opera. Sì, ma allora cosa
c’entra il karaoke? Accanto al direttore d’orchestra (a sere alterne il maestro
Riccardo Muti e il maestro Tony De Vita), Fiorello dirigerà i cori del
pubblico che potrà leggere le parole del libretto in un maxidisplay.

Il gioco delle coppie (dalla Locandiera di Carlo Goldoni; sposor Alpitour o


Club Mediterrannée). Il concorrente, diviso da un "muro magico" da tre
pretendenti, sulla base delle risposte potenziali deve scegliere con chi
partire. La bella animatrice di un villaggio Alpitour ed ex valletta di Mike
Bongiorno Mirandolina (Antonella Elia) è maestra nel far innamorare gli
uomini. La corteggiano il ricco conte di Almafiorita (Zucchero Fornaciari) e
lo spiantato marchese di Forlimpopoli (Mal dei Primitives), ma non il
cavaliere di Ripafratta (Franco Califano), che sostiene di disprezzare le
donne e le vacanze organizzate. Alla fine, però, Mirandolina sceglierà
Fabrizio, cameriere della locanda e valletto della trasmissione (il cantante
Pupo). Conduce Marco Predolin.

C’eravamo tanto amati (dal Tartufo di Molière; sponsor gli sponsor di


Maurizio Costanzo). Confessioni e litigi di coppie sull’orlo della
separazione. Tartufo, un falso devoto, si è installato in casa di Orgone
(Maurizio Costanzo) e di sua madre, la signora Pernella (Franco Bracardi), e
spadroneggia nella casa del suo benefattore. La moglie Elrmira (Maria De
Filippi) tenta di smascherare l’ipocrita Tartufo - che cerca addirittura di
sedurla. Conduce Luca Barbareschi, che interpreta anche il ruolo del titolo.

Stranamore (dal Sogno di una notte di mezza estate di W.Shakespeare;


sponsor Profilattici Durex e la campagna Pubblicità Progresso sull’Aids,
affidata al professor Bossi di Antenna 3). Chi è troppo timido per dichiarare
il proprio amore o non sa come recuperare quello perduto, può risolvere qui
i suoi problemi. Lisandro (Gerry Scotti) e Ermia (Pamela Villoresi) si
amano ma sono costretti a fuggire da Atene (e a rifugiarsi in uno studio
televisivo), perché il padre di lei vuol darla in sposa a Demetrio (il dj
Albertino), il quale li insegue, inseguito a sua volta da Elena (Giulia
Lazzarini), che lo ama. Istigato dal re delle Fate Oberon (Giorgio Strehler),
il folletto Puck (Alberto Castagna) intreccia con un incantesimo le loro
passioni. Ora Ermia ama Demetrio, e Elena Lisandro, o forse Ermia, e
Lisandro Elena, o forse Puck....Riuscirà il conduttore a ristabile l’armonia
perduta? (Per le fortunate coppie, viaggio premio a Cologno Monzese, dove
potranno far parte del pubblico di Moby Dick e rispondere a una domanda di
Sant’Oro).

Scherzi a parte (dai Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello).


Durante una prova del Gioco delle parti di Pirandello, sulla scena appaiono
misteriosamente sei personaggi (Paolo Rossi, Lella Costa, Moni Ovadia,
Claudio Bisio, Paolo Hendel, Luciana Littizzetto), che con vari pretesti
mandano all’aria il lavoro del regista e dei suoi attori (Giorgio Strehler e la
compagnia del Piccolo). Conducono Teo Teocoli e Gene Gnocchi. Con
interventi della Gialappa’s sul tema del metateatro. Tutti gli spettacoli
saranno trasmessi su Rete4. Fatma Ruffini è consulente del Piccolo Teatro,
Giorgio Strehler farà la regia del prossimo telequiz di Mike Bongiorno.
"Non vi preoccupate, siamo su Scherzi a parte!".
Il sogno sognato di una televisione europea
Aldo Grasso In un celebre intervento radiofonico, T.S. Eliot sosteneva che occorrono due
condizioni perché la cultura europea fiorisca: "che la cultura di ogni paese
sia unica, e che le diverse culture riconoscano la reciproca relazione,
cosicché ciascuna sia in grado di accogliere l’influenza delle altre. E ciò è
possibile poiché v’è elemento comune nella cultura europea, ed è una sorta
di rapporto nel pensiero, nel sentimento, nella condotto, uno scambio di arti
e di idee" e più avanti: "E’ necessario essere chiari su quel che intendiamo
per ‘cultura’, per poterlo essere sulla distinzione tra organizzazione
materiale ed organismo spirituale dell’Europa. Se quest’ultimo muore, quel
che organizzerete non sarà l’Europa, ma unicamente una massa di essere
umani che parla diverse lingue. E non vi sarà più alcuna giustificazione
perché essi continuino a parlare diverse lingue, poiché non avranno più nulla
da dire che non possa dirsi ugualmente bene in qualsiasi lingua: in breve,
non avranno più nulla da dirsi in poesia. Ho già affermato che non vi può
essere ‘cultura europea’ se i diversi paesi sono isolati l’uno dall’altro:
aggiungo ora che non vi può essere cultura europea ove tutti questi paesi
vengano ridotti ad una identità indifferenziata. Ci occorre varietà nell’unità:
non l’unità della organizzazione, ma della natura" (T.S. Eliot, ‘L’unità della
cultura europea’, 1946, in Opere, Milano, Bompiani, 1986).
L’interrogativo fondamentale che ci suggerisce Eliot è che sia ancora
possibile pensare a un ideale di Europa che sappia resistere ai tatticismi
politici, alle velleità ideologiche e alle implacabili leggi del mercato. Cosa
deve sacrificare l’Europa all’unificazione televisiva? Che ruolo può ancora
svolgere la cultura? Quali scambi culturali tra paesi e regioni favorirà il
mercato allargato della Comunità? E concretamente, quali programmi
televisivi con finalità culturali (o, più semplicemente, programmi
qualitativamente stimolanti) potranno essere scambiati?
Secondo le indicazioni di Eliot, ogni Tv nazionale inserita in ambito
europeo dovrebbe dare vita a un duplice, grande movimento: assimilare le
influenze straniere per arricchire il proprio repertorio di offerta, valorizzare
le proprie fonti originali per non smarrire l’identità che l’ha contraddistinta
per tutti questi anni. La possibilità di scelta si prefigura tuttavia nel
momento in cui le televisioni nazionali stanno perdendo i propri connotati
tradizionali, il proprio legame con le radici storiche. Il fatto e che nella
costruzione dell’Europa televisiva, in questo momento, agiscono una
modesta tensione morale, una blanda forza politica, un’idea di cultura
passatista (cultura in Tv non vuol dire mostrare delle cose culturalmente
apprezzabili ma mostrare delle cose, qualunque cosa, in modo
linguisticamente apprezzabile) e una robusta spinta commerciale : non si
intravede affatto una Europa dei programmi. La Tv del business sta
soffocando la Tv degli ideali, se mai ne è esistita una.
Un punto centrale della Tv europea è il nodo dell’articolazione fra l’identità
nazionale e lo spazio di ricezione a copertura pan-europea. Dal punto di
vista puramente tecnico, non esistono problemi: con l’uso del satellite è
possibile raggiungere ogni paese; dal punto di vista culturale le cose si
complicano un po’. Il Vecchio Continenti sembra arenato tra difficoltà che
gli provengono da un passato glorioso ma anche gravoso e da un presente
impacciato da diffidenze politiche e difficoltà economiche. Ma è ancora
possibile con la Tv avvicinare l’Europa agli europei? E’ ancora possibile
riuscire a dare una idea generale dell’Europa? "L’Europa si è ristretta, Non
è più che un frammento dell’Occidente, mentre ancora quattro secoli fa,
l’Occidente non era che un frammento d’Europa. Essa non è più al centro
del mondo, è respinta alla periferia della storia. L’Europa è divenuta
provinciale nei confronti dei giganteschi imperi ed è divenuta provincia, non
solo in seno al mondo occidentale, ma in seno all’era planetaria. Ora
l’Europa non può assumere la sua provincialità se non cessa di essere
parcellizzata e atomizzata in stati che godono ognuno della propria sovranità
assoluta"(Edgar Morin, Pensare l’Europa, Milano, Feltrinelli, 1988).
L’Europa dei pensatori, degli uomini che credono ancora alle idee e, per
dirla con Eliot, alla poesia è dunque la marginalità, è un’Europa
ostinatamente periferica. Se ripensiamo a libri come La mia Europa di
Milosz, Ach Europa di Enzensberger ci accorgiamo che l’idea di Europa è
un territorio di speranze e utopie cedute, è un viaggio nel disincantato, nella
memoria dolente, e la constatazione della totale assenza di una potestas
spiritualis così come l’avevano immaginata i grandi europeisti del passato.
Cosa può ancora garantire l’Europa, ora che sembra svanito per sempre il
sogno dello ius publicum Europaeum, di quelle "identità di esistenza
spirituale che si spingono sino ai destini più personali, anzi sin dentro
l’anima di tutti quegli uomini che con il loro pensiero e i loro concetti
cercano di dominare spiritualmente una tale situazione e debbono sopportare
tutto il peso di questo tentativo"? (Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus,
Adelphi, 1993)
Perché la Tv funzioni da crocevia, da transito di energie e di idee è
necessario almeno che siano tutelati alcuni punti fondamentali secondo gli
auspici della Commissione delle Comunità europee.
Tuttavia la Comunità non dovrebbe preoccuparsi soltanto delle "fabbriche"
dei programmi ma dei programmi stessi, favorendo una più brillante
avventura dell’intelligenza (alcuni organismi culturali, quali università,
centri di ricerca, aree editoriali meriterebbero un maggior incoraggiamento).
Certo, la situazione concreta è determinante; ma si può ancora aspirare a un
ideale televisivo comunitario che non rinunci totalmente a una condizione
moralmente accettabile e intellettualmente stimolante?
Gli enti televisivi sembrano aver concluso, sui teleschermi nazionali,
un’epoca di impatto forte e direttivo con l’utenza per aprirsi a prospettive
più soffici per sostituire all’antico discorso e senso unico gli intrecci
contemporanei di più voci sfasate e divergenti, il gioco illusorio di una
complessità ‘messe in scena’ per mezzo delle strutture portanti della
quantità e delle concorrenza. Con procedimenti analoghi e già verificati in
altri settori dell’industria culturale, anche le televisioni dei vari Paesi hanno
ormai raggiunto una dimensione sovranazionale, e non tanto in termini
produttivi - non soltanto in questi termini -, quanto nell’evoluzione della
richiesta di consenso, nella proposta dei programmi e più in generale
nell’elaborazione di una proposta linguistica che si speculare alle nuove
modalità dell’organizzazione sociale.
L’unica cosa certa, comunque, è che in tutte le nazioni europee si sta
imponendo un solo grande modello televisivo; questo modello ha due
sbocchi Tv généraliste, cioè un tipo di programmazione che tiene conto di
un pubblico vario e indistinto e che sembra essere vincente nelle singole
nazioni e la Tv complémentaire (Tv via cavo, payTv, televisioni regionali,
televisioni mirate, ecc.) che sembra invece imporsi in un contesto più vasto
come, appunto, quello europeo.
Quanto al modello americano, basati sulla preponderanza assoluto del
settore privato su quello pubblico, un suo trasferimento in Europa pare poco
praticabile, e anche poco seducenti. Infatti, le televisioni europee hanno alle
spalle una storia che ne rende problematica una sottomissione alle sole leggi
dell’economia di mercato; le loro implicazioni culturali e sociali esigono che
dei correttivi siano apportati ai puri meccanismi commerciali. Assicurare
questi correttivi è la missione che gli organismi delle Comunità europee
possono svolgere in maniera determinante per l’insieme del sistema di
comunicazione. Un modello europeo per l’articolazione del settore pubblico
con quello privato dovrà dunque tendere a creare l’equilibrio necessario
perché venga salvaguardata una emulazione creatrice capace di preservare i
valori propri dell’Europa.
Rendersi invisibili: il cinema italiano in Francia
Ranieri Polese

Da circa dieci anni Aldo Tassone dirige a Firenze "France Cinéma", il


festival che ha fatto conoscere film, registi, attori del cinema francese fra
noi. In quello stesso periodo ha assistito alla scomparsa delle pellicole
italiane dalle sale francesi, alla perdita d’interesse pressoché totale per il
nostro cinema. Insomma, alla sua progressiva marginalizzazione. Un
fenomeno impressionante, tanto più clamoroso se si pensa che il cinema,
che aveva saputo esprimere De Sica e Rossellini, Visconti, Antonioni e
Pasolini, era giustamente il nostro prodotto culturale più internazionale. Ci
può spiegare, Tassone, come è potuto accadere tutto questo?

Da dieci anni, per i francesi, il nostro cinema è passato di moda. L’ultimo


grande momento fu il recupero delle commedie italiane voluto da Simon
Mizrahi, un distributore geniale e innamorato dell’Italia che fece uscire
Risi, Monicelli, Scola, ecc., fregandosene del fatto che erano opere ormai
datate. Purtroppo, Mizrahi non c’è più e nessuno ha preso il suo posto.
Bene, da allora i nostri film - quei pochi che arrivano - escono male e sono
recensiti peggio. A noi è dedicata si e no la metà dell’attenzione che va ai
film di Taiwan o a quelli australiani. Insomma, non facciamo più notizia. E’
di moda Kiarostami, non noi. Un bel film come Lamerica di Amelio è
passato inosservato. L’Italia non è più in grado di creare un evento.
L’ultimo evento è stata la morte di Mastroianni, la morte di Mastroianni, la
partecipazione al funerale, e tutto il resto. Mastroianni (e la Loren) sono i
soli due attori apprezzati e conosciuti in Francia. Dopo di loro, per i
francesi, non c’è più nessuno. Fra le ragioni della disaffezione del pubblico
per il cinema italiano, infatti, viene spesso citata l’assenza di grandi attori.
Recentemente i giornali hanno parlato di Carlo Verdone all’università: è
vero, è stato un successo, gli studenti sono andati a vedere i suoi film. Però
non è giusto farsi illusioni. Nessuna di quelle pellicole era uscita in una
sala, né ci arriverà prossimamente. Insomma, lasciamo parlare le cifre. La
nostra presenza in Francia è pari allo 0,9 per cento; la loro da noi è sette
volte tanto".

I francesi non ci trovano più di moda. E questo è un motivo. Ma noi, che


cosa abbiamo fatto?

"Ecco. Guardiamo un po’ i nostri problemi. Intanto c’è una totale


incapacità di presentare i film all’estero. Così fanno per France Cinéma,
per esempio. Viceversa il Festival di Annecy, in Savoia, dedicato al cinema
italiano, non ha nessuna eco sulla stampa francese. A Roma, l’ambasciata
ha attrezzato una sala per proiettare anteprime per giornalisti e
distributori: noi, a Parigi, non abbiamo niente di simile. Siamo arrivati a un
tale punto di invisibilità che nemmeno la vittoria dell’Oscar per
Mediterraneo ha fatto conoscere Salvatores in Francia….. Quanto, poi, alle
coproduzioni, quelle che Veltroni ha cercato di rilanciare a Venezia, i
francesi hanno protestato perché vedevano prender posto nella
commissione vecchi personaggi politici che avevano affossato il cinema
italiano. Sembra che siano stati tolti, grazie a Dio…".

Ma oggi, quali sono i nomi italiani noti in Francia?

"Un po’ Bertolucci, poi soprattutto Moretti. Palombella rossa e Caro diario
sono osannati dalla critica, anche esageratamente: ne hanno fatto una
specie di nuovo Fellini. E’ piaciuto Tornatore, con il film che loro chiamano
Paradisio, Oscar e gran premio speciale a Cannes; ma non va dimenticata
l’intelligente testardaggine del produttore Franco Cristaldi (un altro che
purtroppo non c’è più) che riuscì a imporlo. Infine, due nuovi autori sono
passati di recente. Martone, con L’amore molesto: è andato a Cannes e poi
ha avuto una buona distribuzione nonostante la perplessità della critica. E
l’altro è La seconda volta di Calopresti, con Moretti protagonista".

E il resto è silenzio. Uno strano silenzio. Curioso, per un paese come l’Italia
che fa registrare record d’incassi miliardari per dei film (è il caso, per
esempio, del Ciclone di Pieraccioni) che nessuno vedrà mai oltre le Alpi.
Globalizzazione?
Furio Colombo Globalizzazione: tutto è grande come il mondo (globo). Il pensiero nascosto
è che la misura sia ancora più grande, perché il globo può essere percorso
più volte in tutte le direzioni e in modi diversi (fisico, virtuale, terrestre,
aereo, formale, reale, etc).
Basta ascoltare quasi ogni discorso sulla globalizzazione per rendersi conto
che globalizzazione significa infinito, ovvero una nuova misura infinita
delle cose. Ogni cosa può crescere a dismisura. Ogni movimento, viaggio,
spostamento, è senza limiti.
Non solo non esistono più frontiere, ma lo spazio senza frontiere è mille
volte più grande di quello che c’era prima, con muri, divisioni e controlli.
Nascono di qui due percorsi, quello dell’euforia e quello della paura.
Il primo ci porta alla persuasione che grande è bello, perché coincide con
libero. E suggerisce che all’ingigantimento dello spazio corrisponda anche
un allargamento nel tempo.
Ciò avviene non perché pensiamo che il tempo rallenti e che nello spazio
vasto le cose avvengano piano. Al contrario sappiamo benissimo (e anzi lo
ripetiamo con vero trionfalismo) che globalismo vuol dire spostare qualcosa
(per esempio masse di ricchezza finanziaria) in un istante, cosicché persino i
fusi orari tradizionali vengono annullati e otteniamo una giornata continua,
lunga ventiquattrore. Il fenomeno avviene già nella vita finanziaria, chiude
Wall Street e apre Londra, chiude Londra e apre Tokio e così via.
Il fatto è che l’istante è la più persuasiva metafora dell’eternità. E dunque il
fatto che nello spazio globale ogni cosa possa avvenire in un instante ci dà la
doppia nozione di spazio globale e di tempo globale e un senso di mancanza
di limiti che dà alla testa. Induce persino a intravedere un punto di incontro
fra materiale e spirituale o almeno fra l’immaterialità del pensiero e la
fisicità dell’azione.
La paura è la naturale conseguenza del troppo: troppo vasto, troppo veloce,
troppo illimitato, come un effetto di luce continua e senza ombre .
Agorafobia.
Sto parlando di una paura che è solo il volto negativo dell’euforia, una sorta
di effetto depressivo che deriva dalle stesse cause: l’aver percepito dai
media che non ci sono più limiti e barriere e che gli spazi non hanno confini.
Raramente qualcuno sembra volersi confrontare con la domanda: ma il
globalismo esiste davvero? Gli entusiasti non si lasciano scoraggiare dalla
constatazione dei fatti. Se tutto è globale, come spiegare che giornali e
televisioni sono sempre più locali, che qualunque editore chiude o
ridimensiona i suoi uffici di corrispondenza estera, che molte aziende
riducono le spese per le filiali estere, che molti Paesi, compresi gli Stati
Uniti, tagliano invece che aumentare, il numero dei consolati e nominano
sempre più frequentemente un solo ambasciatore responsabile per diversi
Paesi?
Perché, rispondono gli euforici, la chiave del globalismo è nelle nuove
tecnologie, come questa, il computer, e nella sua connessione, la rete. Tutto
in Internet avviene in tempo reale e con minimo spessore temporale. La
tecnologia provvede direttamente a informare e a rappresentare, rendendo
anziane, dunque indesiderabili, le precedenti forme di comunicazione e
rappresentanza.
Qui si situa la pattuglia dei catastrofisti. Anch’essi prendono sul serio la
globalizzazione, ormai avvenuta e dominante. E vedono in essa un
complotto. Esiste, funziona, ma ti priva della libertà, agisce prima della tua
decisione, al modo di una bocca che preceda nella conversazione il pensiero.
Svuota i processi democratici di legame col territorio. E’ certamente al
servizio di qualcuno.
Propongo un’altra strada, lontana dall’euforia, dalla paura e dal complotto.
La globalizzazione di cui parliamo si è realizzata in uno solo dei mondi
interconnessi in cui viviamo, quello finanziario. E’ vero e provato: le
ricchezze percorrono il mondo senza ostacoli e in tempi così brevi da
consentire di creare o spostare nuovi equilibri fisici di ogni zona attraversata.
Quando vi dicono che esiste la globalizzazione culturale, che sarebbe
dimostrata dal fatto che noi sappiamo tutto degli Stati Uniti dall’ultimo
programma TV di quel Paese all’ultimo condannato a morte, domandatevi
quanti sanno negli Stati Uniti delle nostre vicende o di quelle dei Baschi o se
Tutsi e Watussi siano o no la stessa leggendaria popolazione passata dalla
forma più elegante e colorata di tribalismo a quella più sanguinaria. La
globalizzazione economica? E’ un vento che spinge i più forti a prevalere
dovunque sui più deboli. Viene dai secoli, e nei secoli è sempre stato
"globale".
La globalizzazione politica è un fenomeno rallentato e faticoso, reso
scarsamente percorribile dal sempre più confuso concetto di "interesse
nazionale" di ciascun Paese, esempio: ci vogliono tre anni di massacri prima
che alcuni Paesi europei decidano di intervenire nella ex Jugoslavia (e ciò
contro i sondaggi di opinione e le pressioni di rilevanti parti politiche di quei
Paesi). E non basterà la fine del secolo a fare di un gruppo di stati
estremamente somiglianti e abituati da decenni alla stessa vita e allo stesso
benessere, il Paese Europa.
A guardarlo da vicino il fenomeno della globalizzazione non solo è parziale
e riguarda quasi solo la finanza e l’informazione personale raggiungibile
attraverso Internet (non poco, ma non tutto quello che ci dicono). La festa
nasconde una contraddizione grave e poco discussa: alcune cose si muovono
in massa e in fretta (informazioni finanziarie e comunicazione in rete).
Queste altre cose sono rimaste inchiodate al territorio. Sono le persone.
Direte, ma il turismo? In apparenza è la grande eccezione, se si pensa che
masse di esseri umani attraversano il mondo in ogni momento per vedere
un’altra parte di mondo.
Però ricordate la notizia dell’italiano rispedito a casa da un aeroporto
americano perché "albanese" o simile a un albanese?
Il fatto non è isolato, benché non sia ancora tipico. Le polizie di frontiera di
paesi aperti e amici non ci pensano due volte. Al minimo dettaglio non
convincente rimandano a casa. Non le cose. Solo le persone.
Volete un esempio più convincente? La superstizione contro le
immigrazioni. Gli USA, paese tutto costruito dagli immigrati, stanno
dibattendo la proposta di elevare un muro di mille chilometri che lo divida
dal Messico.
Troppe infiltrazioni. Eppure, nello stesso periodo ha firmato un trattato di
"mercato comune" delle merci col Messico.
Sentite dire spesso che si esporta il lavoro. E’ vero. Si licenzia nel posto A
per dare lavoro a condizioni più convenienti a persone del posto B. Ma ciò
si può fare perché sia il posto A, più evoluto, che il posto B, ovviamente in
condizioni più precarie, esportano e importano la convenienza (dunque il
margine economico di convenienza) del lavoro, ma non le persone. Esse
restano - come ai tempi antichi - legate al territorio, hanno solo il permesso
di compiere brevi scorrerie turistiche. Nessun Paese permette più agli
stranieri di lavorare, solo di portare, durante un rapido passaggio, soldi in
cambio di servizi nell’avventura chiamata turismo. Dunque siamo tutti
turisti e tutti stranieri. Se volete, questa è la definizione che vi propongo di
globalismo. Dite che è restrittiva? Ne aspetto un’altra.
Sondaggio, a cura di Renato Mannheimer

Renato Ruggiero, capo della World Trade Organization ha sostenuto che, dal suo osservatorio esterno al nostro paese, l'Italia appare
proprio un paese provinciale, tutto interessato ai propri (spesso piccoli e, appunto, "provinciali") problemi interni, senza un'ottica e un
respiro di più ampia portata.
Vorremmo sapere cosa pensano i lettori di Golem di questa affermazione, in che misura la condividano o meno e perchè. A questo
fine, vi preghiamo di rispondere dapprima alla domanda "chiusa" e poi, nello spazio sottostante, dirci i motivi della risposta. Infine,
per consentire alcune elaborazioni statistiche, vi preghiamo di darci alcuni dati su di voi. Nel prossimo numero di Golem saranno
pubblicati i risultati di questo sondaggio tra i lettori, confrontati con quelli rilevati da un campione rappresentativo della popolazione
italiana nel suo complesso.

Alcuni hanno sostenuto che l'Italia è un paese tutto sommato "provinciale".

In che misura sei d'accordo con questa affermazione?

Molto
Abbastanza
Poco
Per Nulla
Non so

Perchè?:

Genere:

Maschio
Femmina

Età: 0

Regione di nascita: Valle d'Aosta

Regione di residenza: Valle d'Aosta


Professione:

Ti "senti" di:

Sinistra
Centro-Sinistra
Centro-Centro
Centro-Destra
Destra
Nessuna di queste categorie
Non so

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Il futuro delle telecomunicazioni
intervista a Francesco Chirichigno amministratore delegato Telecom
Quali conseguenze potrà determinare l’accordo British Telecom - MCI per
le aziende italiane impegnate nel settore?

Questo accordo è una nuova tappa di quel processo di rafforzamento che da


alcuni anni interessa tutti gli attori della Information Communications
Technology: nel mercato della convergenza vinceranno quelli che, per
dimensione, per copertura territoriale, per dinamica innovativa e per
completezza dei servizi sapranno proporsi come fornitori veramente globali.
E’ fuori dubbio che operazioni come quella condotta da BT funzionino da
acceleratori dello sviluppo della competizione.
In questo quadro, la nostra capacità di risposta come operatori leader del
mercato italiano esce senza dubbio rinforzata dalla fusione, voluta dal
governo, fra Stet e Telecom Italia.

Come vede il futuro delle telecomunicazioni in Italia, da qui al duemila?

Il futuro delle telecomunicazioni italiane sarà influenzato, a mio parere, da


tre fattori.
Anzitutto la fusione Stet-Telecom Italia cui ho già fatto riferimento. In
secondo luogo le modalità e i tempi di definizione del quadro normativo e
regolamentare dell’intero settore. Terzo, la completa liberalizzazione delle
telecomunicazioni che sarà operativa dall’inizio del 1998, e che ho sempre
considerato un traguardo importantissimo per lo sviluppo del mercato e
delle imprese del settore. Vorrei qui ricordare, per inciso, che l’acquisizione
di MCI da parte di BT è anche frutto di quelle scelte lungimiranti ed
anticipatorie, in direzione della privatizzazione e della liberalizzazione, che
hanno messo l’operatore inglese in grado di sviluppare capacità competitiva,
generando al contempo rilevanti risorse finanziarie.
Venendo a Telecom Italia, noi stiamo da tempo lavorando per sviluppare un
forte progetto-impresa. E i risultati non sono mancati. La fusione ci darà la
possibilità di attivare sinergie ancora più forti tra le diverse competenze
(telefonia fissa e mobile, servizi on line, servizi televisivi avanzati) che si
sono sviluppate all’interno del gruppo Stet e di aumentare la massa critica
dell’intero sistema italiano delle telecomunicazioni. Questo ci metterà in
grado di essere protagonisti non solo sulla scena nazionale ma anche in
campo internazionale. La validità della strada imboccata ha già trovato
ampia conferma da parte degli operatori economico-finanziari che hanno
premiato il progetto di una realtà industriale forte ed integrata. Starà a noi,
poi, vincere la vera partita: quella che si gioca ogni giorno conquistando
l’apprezzamento dei mercati.
Sul piano internazionale però possiamo fare di più, La fusione ci consentirà
di concentrarci su questo obiettivo perché il nostro Paese deve avere un
player globale di telecomunicazioni.
Infine, voglio sottolineare che nel nostro Paese ci sono ampi spazi per lo
sviluppo di una forte e costruttiva competizione, a tutto beneficio dei clienti,
privati cittadini o imprese.
Al legislatore spetta ora fissare le regole, per garantire che questa
concorrenza sia, al tempo stesso, vigorosa, corretta ed equa; ricordando
anche che una sana e utile competizione, quella che sviluppa valore
aggiunto per i clienti, richiede notevolissimi investimenti. È allora
necessario disporre di risorse finanziarie, ma è altrettanto necessario che
l’intero quadro normativo garantisca certezze di riferimento e configuri un
coerente disegno di sviluppo.
Mi pare che l’Italia si stia muovendo bene in questa direzione, ma le tappe
da percorrere sono ancora molte.

Quali vecchi attori usciranno di scena e quali nuovi entreranno?

Avremo secondo me, due tipi di protagonisti: da un lato le grandi imprese


della convergenza che, con forti capacità finanziarie e con dimensioni
mondiali, sapranno integrare tutti i diversi momenti della nuova catena del
valore della multimedialità: dalla creazione dei contenuti, fino al packaging
dei servizi e alla gestione del cliente finale. Dall’altra ci sarà spazio per
aziende più piccole, di nicchia, che sapranno sfruttare come surfisti le onde
del mercato, le sue esigenze, le sue mode, proponendo servizi innnovativi
con estrema tempestività.

Alcune delle grandi imprese che vediamo sulla scena oggi vi saranno anche
domani; ma la crescita del mercato creerà certamente spazi per nuovi
protagonisti. In questo settore le previsioni sono difficili: ricordiamoci che
solo dieci anni fa vivevamo in un mondo senza telefonica cellulare, senza
Internet, senza satelliti digitali. Estrapolare i trend del futuro dalle
esperienze passate è un esercizio assai pericoloso quando si opera in un
mondo caratterizzato da straordinarie dinamiche tecnologiche e da una
crescente necessità di disporre di informazione a valore aggiunto, nel
momento giusto, nel luogo giusto e nel modo giusto.
Quali ricadute potranno esserci sulle comunicazioni on line e, in
particolare su Internet?

Nel prossimo decennio il quadro competitivo mondiale sarà teatro di


un’esplosione di nuovi servizi trainati dall’evoluzione delle diverse forme di
multimedialità interattiva.
Informazione, cultura, intrattenimento, transazioni economiche e servizi al
cittadino viaggeranno in linea.
Internet è, dunque, una sfida per tutti. I gestori lo hanno capito e si stanno
attrezzando, investendo sulle infrastrutture e ampliando il loro portafoglio di
offerta.
Questa sfida Telecom Italia l’ha raccolta con tempestività e oggi si propone
come il punto di riferimento italiano verso il mondo Internet: non solo in
termini di accesso, ma anche come offerta di servizi e come supporto agli
operatori che vogliono sviluppare una propria attività sulla rete.
Il futuro delle telecomunicazioni
intervista a Silvio Scaglia amministratore delegato Omnitel
1. Quali conseguenze potrà determinare l’accordo British Telecom-
MCI per le aziende italiane impegnate nel settore?

L’accordo tra British e MCI è solo un altro passo verso le mutazioni che
stanno attraversando le telecomunicazioni nel mondo. Lo scenario che si sta
delineando è quello di una molteplicità di mercati; vi trovano spazio grandi
gruppi come quello nato da questa acquisizione o all’europea Global One,
spazio anche per operatori soltanto nazionali o in mercati di "nicchia" in
contesti più articolati come quello statunitense. Per i grandi e per i piccoli
sono necessarie comunque creatività e flessibilità oltre alla capacità di
adattamento alle diverse esigenze dei clienti. Le grandi aziende devono stare
attente proprio a questo: non perdere la capacità di risposta immediata alle
richieste del cliente. Anche in Italia si dovrà tenere conto di queste
situazioni.
Gruppi di queste dimensioni hanno al loro interno know-how e risorse che
possono mettere a frutto in ogni momento e in ogni mercato. Mi sembra di
poter tranquillamente affermare che Omnitel, con le alleanze e gli azionisti
qualificati che ha, possa competere ad armi pari con i migliori operatori del
mercato delle telefonia mobile e penso che anche Albacom, da quello che
leggo sui giornali, abbia quell’insieme di know-how che ne fa un
concorrente qualificato. Per quanto riguarda i gruppi pubblici credo che
debbano drammaticamente aumentare la loro velocità di adattamento verso
il concetto di mercato concorrenziale. In questo primo anno di concorrenza
nelle telecomunicazioni credo che sia chiaro per tutti, clienti e operatori, che
la concorrenza non può che portare benefici per tutti e nel futuro prossimo
anche gli operatori di origine monopolistica dovranno focalizzare la loro
attenzione e le loro energie più verso i clienti che verso la difesa ad oltranza
dei privilegi del monopolio, altrimenti rischiano di essere irrimediabilmente
sconfitti se non altro dalla storia economica.
2. Come vede il futuro delle telecomunicazioni da qui al duemila?

Ho due stati d’animo contraddittori. Da un lato sono molto ottimista e


prevedo un grande futuro, un mercato aperto, più competitori presenti e
nuove possibilità e tecnologie per il consumatore. L’esperienza di Omnitel
da questo lato mi conforta e mi fa ben sperare. Dall’altro però temo il
potrarsi dei ritardi della burocrazia e un tardivo adattamento delle leggi a
questi nuovi mercati.
Lo sviluppo delle telecomunicazioni è infatti connaturato a una caratteristica
fondamentale: la rapidità. Se ha stupito la velocità di innovazione dell’era
informatica, quella delle telecomunicazioni sarà ancora più sorprendente e
in grado di creare nuovi scenari; il cambiamento sarà così veloce da
richiedere anche alle altre infrastrutture, e anche a tutte le autorità
competenti, rapidità eccezionali soprattutto per un Paese a "velocità ridotta"
rispetto al resto dei Paesi industrializzati.

3. Quali vecchi attori usciranno di scena e quali nuovi entreranno?

Al di là di quelli presenti e quelli di cui si parla come prossimi operatori


credo che il mercato vedrà l’ingresso di altri operatori stranieri non solo
direttamente ma anche, come nel nostro caso, con partecipazioni azionarie
significative.
L’Italia è un mercato estremamente interessante per le telecomunicazioni.
Esiste poi un potenziale ancora tutto da esplorare che arriverà con la
liberalizzazione del cuore del sistema delle telecomunicazioni: la telefonia
fissa globale. In Omnitel siamo convinti che lo sviluppo tecnologico porterà
presto alla convergenza fisso/mobile e che questa consentirà nei fatti una
concorrenza a tutto campo tra i diversi operatori già a partire dalla fine di
questo decennio.

4. Quali ricadute potranno esserci sulle comunicazioni on-line e in


particolare su Internet?

Enormi. Lo sviluppo delle telecomunicazioni digitali, la convergenza di


fisso e mobile, la number portability sono i vari aspetti di uno stesso futuro:
essere parte costante di una rete a cui è possibile connettersi in ogni
momento e in ogni luogo. In questo senso Internet avrà sempre maggior
spazio. Un esempio reale di ciò sono le oltre 80 persone che in Omnitel si
occupano della manutenzione dei siti. I tecnici hanno un telefono GSM e un
laptop collegato ad una banca dati centrale che ha in memoria la
dislocazione, la storia tecnica, gli interventi già effettuati di ogni singola
stazione radio base che Omnitel ha fino ad oggi installato.

Collegandosi al WEB di Omnitel il personale tecnico può avere accesso ad


informazioni che lo guidano dalla semplice strada da fare per raggiungere il
sito, alla storia degli interventi fatti, alle segnalazioni di eventuali situazioni
anomale particolari già rilevate, che quindi diventano subito patrimonio di
tutti. Insomma, pur essendo dislocati all’esterno dell’azienda su tutto il
territorio i circa 80 tecnici lavorano in stretto coordinamento, come se
facessero riunioni plenarie ogni giorno.
Il futuro delle telecomunicazioni
intervista a Ernesto Pascale ex amministratore delegato Stet
- Quali conseguenze potrà determinare l’accordo Bt-Mci per le aziende
italiane impegnate nel settore?

"Sicuramente Concert, la holding nata dalla fusione tra Bt e Mci,


rappresenta una realtà molto importante. Nelle classifiche dei principali
operatori mondiali, in termini di fatturato, Concert occuperà il terzo posto
dietro Ntt e At&t, mentre in termini di traffico internazionale uscente
occuperà il secondo posto dietro At&t. L’impatto per le aziende italiane sarà
quello di una forte concorrenza con un nuovo operatore che aggrega una
grossa clientela, quella del mercato americano ed europeo, mercati strategici
che rappresentano i due terzi di tutto il mercato delle telecomunicazioni.
Questa concorrenza sarà ancora più aspra se si considera che Concert dovrà
recuperare su altri mercati le perdite di quote che Bt sul mercato inglese e
Mci su quello americano probabilmente subiranno nei prossimi anni".

- Come vede il futuro delle telecomunicazioni in Italia da qui al 2000?

"Strettamente legato a quello che accadrà in Europa e nel resto del mondo.
Nei prossimi anni possiamo avere un forte sviluppo della società
dell’informazione, con grandi benefici per i cittadini, da un lato grazie ai
progressi della convergenza tra telecomunicazioni, informatica e media che
renderanno disponibili i prodotti e i servizi innovativi e dall’altro grazie al
diffondersi della concorrenza per effetto della liberalizzazione. Molto però
dipenderà dalle regole che a questo processo verranno date. Se per esempio
si legheranno le mani a Telecom con l’obiettivo di farla colpire più
facilmente dai suoi concorrenti, come propone Elserino Piol nell’intervista
rilasciata a Golem, non credo che i consumatori ne trarranno benefici. Penso
al contrario che se vogliamo si sviluppi davvero il mercato della
multimedialità, la regolamentazione migliore sia quella priva di vincoli e di
asimmetrie tra i vari settori, sul modello di quelle americana e francese.
Certo qualcosa nell’atteggiamento del sistema paese verso l’innovazione
dovrà cambiare: non è bloccando per mesi la partenza del Gsm, come è stato
fatto, né osteggiando il cablaggio, né, ancora, guardando con sospetto ogni
singola mossa del nostro service provider Stream che si può pensare di
costruire la società dell’informazione. Che cosa si vuole, che stiamo fermi?
Certo, paradossalmente faremmo utili molto più pingui gestendo il nostro
business tradizionale che non affrontando le nuove iniziative che portano al
futuro, ma a perderci sarebbe il paese".

- Quali vecchi attori usciranno di scena e quali nuovi entreranno?

"Sul mercato italiano operano da tempo numerosi soggetti forti del calibro
di At&t, Bell Atlantic, Bt e Cable and Wireless. Già oggi il 57% dei ricavi
di Telecom Italia verso le maggiori aziende proviene da servizi liberalizzati
e, al tempo stesso, la domanda di accesso e servizi da parte di individui e
famiglie è soddisfatta per circa il 20% dei volumi e il 30% del valore da
servizi in piena competizione (dal radiomobile, alle carte telefoniche, a
Internet). In un contesto sempre più liberalizzato e globale i grandi operatori
stranieri entreranno sempre più attivamente sul mercato italiano, anche
grazie alla collaborazione coi detentori delle reti alternative, come l’Enel.
Analogamente, l’operatore italiano diventerà sempre più internazionale. Ma
soprattutto mi auguro che emergano fornitori di servizi e di contenuti in
numero tale da far decollare davvero il mercato dei nuovi servizi. Da questo
punto di vista, un grande attore che non può mancare è il regolatore
pubblico, il quale può fare almeno tre cose fondamentali: dare, come dicevo,
buone regole, fornire linee guida per la società dell’informazione, creare una
fiducia e una confidenza collettive verso le nuove tecnologie anche
attraverso l’opera di alfabetizzazione della scuola".

- Quali ricadute potranno esserci sulle comunicazioni online, e in


particolare su Internet?

"La comunicazione online, di cui Internet è un capitolo fondamentale, potrà


aumentare la capacità competitiva del nostro paese, le cui sorti, nello
scenario globale, sono sempre più legate alla capacità di produrre e
diffondere conoscenza. Da questo punto di vista l’interesse della Stet, che è
quello di fare business, coincide totalmente con un progetto paese che metta
la diffusione della conoscenza e la creazione della società dell’informazione
al primo posto. Ecco perché il nostro gruppo sta portando avanti un
programma multimediale forte, che prevede, insieme allo sviluppo di
Internet con l’unificazione dell’offerta in Telecom Italia Net, la creazione di
una rete a larga banda per la fornitura di servizi multimediali sia di
intrattenimento che di utilità. Lo sviluppo dei nuovi servizi può avere, tra
l’altro, una forte ricaduta occupazionale: secondo un recente documento di
Databank, ricerche realizzate nell’ambito del programma europeo Acts
(Advanced communications technologies and services) hanno stimato
l’impatto potenziale di una diffusione accelerata della comunicazione
avanzata sulla crescita occupazionale europea in 6 milioni di posti di lavoro
entro il 2010 con una crescita addizionale cumulativa del prodotto lordo del
6% entro la metà del prossimo decennio".
La Rete replica
Gianni Granata Matematici e informatici sanno muoversi nell'intrigante mondo delle
funzioni ricorsive e delle strutture autoreplicanti. Anche fisici, biologi e
linguisti hanno familiarità con questi concetti, di rara potenza espressiva, ma
piuttosto oscuri alla maggioranza delle persone.
Facciamo alcuni esempi, per cercare di chiarire di cosa stiamo parlando: con
un approccio ricorsivo si possono risolvere problemi complessi come il
calcolo dei numeri fattoriali partendo da una formulazione molto semplice.
Anche una filastrocca può continuare all'infinito richiudendosi su se stessa:

C'era una volta un Re,


che disse alla sua serva:
"raccontami una storia".
La serva incominciò:
C'era una volta un Re ...

Dai film di fantascienza (indimenticabili i Body Snatchers di Don Siegel nel


'56) alla fiction in generale, l'idea di esseri (o idee) che si diffondono per
replica è entrata nella testa di tutti (replicandosi). Alla base di queste
situazioni c'è sempre il concetto di cambiamento su larga scala (nazione o
mondo) generato da transizioni che avvengono in modo iterativo a livello di
contatto tra singoli individui (Doug Hofstadter, l'autore di Gödel, Escher,
Bach, può illuminare in proposito).
Ma che c'entra tutto questo con Internet? C'entra.
La principale proprietà della Rete, l'essenza che ne ha determinato lo
straordinario successo degli ultimi due anni, è stata la capacità di diffondersi
e di crescere in funzionalità a partire da un piccolo seme iniziale.
Basta un PC con una connessione TCP/IP (pochi kilobytes di software) per
poter richiamare altro software tramite pochi colpi di mouse (e un po’ di
pazienza), che a sua volta consente di utilizzare altro software sulla rete, e
così via.
Dato che la capacità di erogare contenuti multimediali (audio, video, realtà
virtuale, etc) è principalmente determinata dal software scaricabile dalla
rete, ci troviamo di fronte ad un media con caratteristiche assolutamente mai
viste prima. Pensiamo per un attimo se, nello sviluppo della televisione,
fosse stato possibile passare dall'apparecchio in bianco e nero a quello a
colori con un colpo di telecomando, pagando soltanto in termini di dieci
minuti di attesa per download; idem per installare a casa il videoregistratore,
l'antenna satellitare e il decoder per la pay-TV.
Saremmo arrivatati all'attuale assetto dei nostri salotti in due o tre anni
anziché nell'arco di trenta, procedendo anche in questo caso a quella che
viene chiamata "Web speed". Ma la velocità è dovuta proprio al fatto che

La Rete replica

Matematici e informatici ...


Il futuro delle telecomunicazioni
intervista a Elserino Piol
Nel 1996 gli operatori delle telecomunicazioni hanno ampliato i propri
interessi, integrato servizi, acquisito pacchetti azionari, diversificato le
strategie. Le grandi aziende americane, inglesi, giapponesi operano in una
dimensione ormai planetaria. Da ultimo, la nascita di Concert, nome della
nuova società che unisce British Telecom e MCI; essa è parte di un
processo globale di ristrutturazione del mercato delle telecomunicazioni.

E’ anche ‘la fine di un’epoca in cui mastodontici monopoli telefonici


cospiravano con i governi contro gli interessi dei consumatori’, ha scritto
recentemente il Financial Times.

La liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni spinge le società


telefoniche a cercare nuovi settori di intervento: tv digitale, satelliti, fibre
ottiche, internet.

Qual è la situazione in Italia?

Abbiamo intervistato su questo tema Elserino Piol, consulente di Mediaset


per le telecomunicazioni.

Perché in Italia non é possibile un accordo di questo genere?

Accordi di questo tipo (prevalentemente basati su scambi azionari) sono


possibili solo a una Stet privatizzata e priva di "golden shares".

Non sono possibili accordi di grandi dimensioni se non viene utilizzato lo


strumento "scambio azionario".
Quali conseguenze potrà determinare questo accordo per le aziende
italiane impegnate nel settore?

Bisogna distinguere tra aziende.


Per la Stet si tratta di fronteggiare un competitore più potente, specie nel
mercato internazionale. Non vi è dubbio alcuno che ciò contribuisca a
diminuire la posizione di competitore globale di Stet.
Albacom ne esce rafforzata, come conseguenza diretta del rafforzamento di
B.T.

Questo accordo avrà delle conseguenze su Internet?

Sicuramente si, specie in funzione degli investimenti già fatti da MCI su


Internet.
Inoltre si ritiene che Internet sarà il campo di battaglia dei maggiori
operatori globali di telecomunicazioni.

Come vede il futuro delle telecomunicazioni in Italia da qui al duemila?

Con le recenti regole/leggi, che non aiutano la concorrenza, lo scenario


cambierà poco da qui al 2000. Lo scenario probabile non è quello che piace
di più e sarà:

● Telecom Italia e Telecom Italia Mobile continueranno a essere di


fatto i padroni del mercato: Telecom Italia con più dell’80% del
mercato della telefonia terrestre; Telecom Italia Mobile con più del
50% della telefonia mobile.
● Vi saranno almeno tre operatori terrestri, tra cui Infostrada,
Albacom e un terzo operatore molto probabilmente guidato da Enel.
Più una miriade di operatori minori.
● Vi saranno almeno tre operatori mobili: Tim, Omnitel ed un terzo
operatore su tecnologie DCS-1800.

Per evitare che Stet/Telecom Italia continui di fatto ad essere il competitore


dominante, è necessario favorire la crescita dei nuovi operatori attraverso
regole asimmetriche a favore dei nuovi entranti.

Quali vecchi attori usciranno di scena e quali nuovi entreranno?

Bisogna premettere che ci si sta avvicinando ad uno scenario oligopolistico


mondiale, con pochi enormi operatori:
AT&T con Unisource, Concert (B.T. e MCI), Global One (F.T., D.T. e
Sprint) etc.

Questo significa che:

● Stet sarà tagliata fuori dal gioco oligopolistico mondiale , salvo che
si privatizzi e che cambi le politiche di alleanza;
● in Italia avremmo certamente i rappresentanti degli oligopoli
mondiali, e Albacom e Infostrada sono tra questi;
● non si vede come possano nascere nuovi operatori significativi, e
non di nicchia, che non siano legati ai monopoli mondiali.

Quindi in termini inerziali l’Italia tende ad essere un mercato in cui non


nascono operatori con ruolo internazionale o globale. Per cambiare la
situazione è necessaria una Stet privatizzata e disponibile a grandi alleanze
mondiali, nonché una politica che favorisca la nascita e/o la crescita di
nuovi operatori, in modo che gli stessi possano avere una posizione di
prestigio e di forza nell’allearsi con i protagonisti mondiali (cioè derivare da
un forte posizionamento nel mercato italiano una valida posizione
contrattuale).

Vedi anche:

http://www.ispo.cec.be/ispo/press.html

http://www.mci.com/

http://www.bt.com/

http://www.altavista.digital.com/cgi-bin/query?
pg=q&what=news&fmt=.&q=%22bt+mci%22
Radici
Carlo De Benedetti Da più parti oggi si chiede a gran voce un forte impegno morale e politico
per non dimenticare l’olocausto. Le nuove generazioni non sanno - si dice-
mentre negli adulti e negli anziani di oggi il ricordo si indebolisce sempre
più; con il passare del tempo si è fatta strada la tentazione di considerare
l’olocausto come un incidente di percorso nella storia dell’umanità. Un
brutto ricordo, un episodio e niente più.
Di fronte all’eventualità che questa tentazione prenda (o abbia già preso)
corpo reale, non posso rimanere indifferente. Vi sono vicende e persone che
nella vita non si possono dimenticare; immagini che rimangono impresse in
modo indelebile; interrogativi che si ripropongono ogni giorno perché non
riescono a trovare risposte razionali e convincenti.
Nella mia esperienza di vita, il ricordo dell’olocausto mi ha accompagnato
costantemente; né poteva essere diversamente. Era il settembre del ’43;
avevo nove anni. Con la mia famiglia si era deciso di fuggire in Svizzera;
c’erano anche i miei zii e i loro figli. Due famiglie in cerca di salvezza,
abbandonando tutto alle proprie spalle per conservare quel supremo bene
che è la libertà. Tirammo a sorte; toccò a noi cercare per primi di passare il
confine; andò tutto bene. Poi fu la volta degli zii e dei cugini; furono
scoperti. Ho ancora negli occhi l’immagine di una tragedia; una tragedia che
segna la vita e che non si può dimenticare.
Perché, come tanti altri, siamo stati costretti a dover scegliere tra la fuga e la
prigionia? Perché tanto accanimento contro chi era giudicato colpevole per
il semplice fatto di essere considerato diverso da chi era al potere?
Si può tentare di dare una risposta storica; capire il momento politico, la
cultura prevalente dell’epoca, i rapporti di potere tra le nazioni e all’interno
delle nazioni, ecc. Un esercizio doveroso ma pericoloso, perché rischia di
portare a conclusioni errate; rischia di far apparire l’antisemitismo e
l’olocausto come i frutti di una "congiuntura" politica e culturale
sfavorevole; un incidente di percorso, appunto.
In realtà i fattori che hanno determinato l’olocausto sono tuttora
profondamente radicati nella storia e nella coscienza degli uomini:
"l’incidente di percorso" può ripetersi in qualsiasi momento. Ne sono
convinto per almeno un paio di considerazioni.
La prima è che l’olocausto degli anni ’30 e ’40 rinnova forme di violenza e
di intolleranza antisemita che non sono per nulla nuove nella storia.
Periodicamente riemerge il destino di sopraffazione e se l’ultimo olocausto
appare più drammatico dei precedenti è solo perché è l’ultimo in ordine di
tempo ed ha assunto proporzioni enormi perché il conflitto ha raggiunto le
dimensioni mondiali.
La seconda considerazione riguarda la capacità dell’umanità di imparare
attraverso la storia e il progresso della società. Il passato ci racconta storie di
inaudita violenza e crudeltà; rispetto a certe barbarie medioevali, rispetto a
certe oppressioni del fanatismo religioso e politico, la civiltà di oggi ha fatto
grandi progressi. Quasi dovunque nel mondo più sviluppato si sono
dimenticati i tempi della servitù della gleba, dell’Inquisizione,
dell’oppressione dispotica dei signori del Medioevo, delle crociate, della
colonizzazione, ecc. L’umanità è cambiata: viviamo in una società dove c’è
più cultura, più razionalità, più conoscenza e informazione. Eppure in questa
società l’antisemitismo ha egualmente attecchito fino a esplodere
nell’olocausto. Come è stato possibile arrivare a tanta violenza irrazionale e
fanatica in un mondo che pure era così avanti nella cultura, nella tecnologia,
nel benessere economico?
Non credo allora che basti un viaggio nella congiuntura della politica per
rintracciare le cause dell’olocausto; quello che serve è un viaggio nella
coscienza dell’umanità. Una coscienza che non sempre migliora e
progredisce di pari passo col progredire della tecnologia, della conoscenza e
dell’economia.
Oggi si deve ricordare il passato per evitare che l’olocausto possa ripetersi o
possa - come è avvenuto e come continua ad avvenire - assumere altre
forme: il razzismo, il genocidio, lo sterminio dei più poveri perpetrato
nell’indifferenza o nell’impotenza della comunità mondiale.
E’ giusto che le nuove generazioni possano e debbano vedere le immagini
che stigmatizzano gli orrori di un’epoca. Ma il ricordo fine a se stesso non
basta; le immagini del passato (come quelle delle sopraffazioni che ogni
giorno avviliscono l’umanità) devono accompagnarsi a uno sforzo di
educazione delle coscienze, in senso morale e politico. Un’educazione al
rispetto degli altri, dei diversi, degli avversari; nella società, nelle relazioni
internazionali, nella politica, nella religione, nello sport.
Con gli anni mi sono sempre più convinto che i fattori che hanno scatenato
l’olocausto sono difficili da rimuovere perché sono radicati dentro l’uomo e
quindi sono potenzialmente dovunque: se ne trovano tracce nell’intolleranza
che abita in tante aule di parlamento, negli stadi, nei quartieri delle
metropoli, nei consessi internazionali, nei luoghi di culto, ecc.
Se ne potrebbero trarre conclusioni pessimistiche: è difficile cambiare la
coscienza dell’uomo, ci vuole troppo tempo. Ma queste sarebbero
conclusioni affrettate, che trascurano alcuni importanti motivi di fiducia.
Innanzitutto non si può ignorare che il sacrificio dell’olocausto non è stato
inutile: molti hanno dimenticato o non sanno, ma molti ricordano o hanno
preso coscienza di quanto certe idee, certa cultura, certi partiti possano
nuocere alla convivenza civile. E poi dall’olocausto è nato uno stato che per
la prima volta dopo secoli, se pure tra mille conflitti e tensioni, ha dato al
popolo ebraico un territorio, una base di riferimento.
Né infine si può dimenticare che la tecnologia sta spingendo sempre più
rapidamente l’economia e la società verso un mondo globale, dove le
possibilità di comunicare e di accedere alla conoscenza e all’informazione
diventano pressoché illimitate. In un mondo globale non mancano motivi di
conflitto, ma è più facile prendere coscienza delle diversità politiche,
culturali e religiose ed accettarle; prendere coscienza delle carenze di
democrazia e di libertà, delle disuguaglianze economiche e sociali, e
combatterle.
Ho fiducia nella tecnologia e nella sua capacità di trasformare il mondo in
un villaggio globale; ma soprattutto ho fiducia nella capacità dell’uomo di
trasformare la convivenza in questo villaggio in una convivenza civile, dove
non ci sia più spazio, culturale, politico o religioso, per alimentare la pianta
degli antisemitismi.
A partire da un libro. Ombre della psicanalisi.
Maria Irmrgard Wuehl L’editore Vivarium di Milano (esseffe@iol.it) sta preparando per il marzo
prossimo un volume dedicato a Jung, Freud e l’antisemitismo, dal titolo
Ombre sospese.
Questo volume prende spunto da un convegno tenutosi a New York nel
1989 sul tema "Ombre sospese: junghiani, freudiani e l’antisemitismo".
Scopo del convegno era esaminare, lanciare una sfida o porre fine a una
persistente disinformazione riguardo l’atteggiamento di Jung verso gli ebrei
e riguardo le sue cosiddette attività politiche svolte durante gli anni che
precedettero la seconda guerra mondiale.
La questione è di particolare importanza perché, sin dalla rottura tra Freud e
Jung, l’accusa di antisemitismo rivolta a Jung è stata di ostacolo a una
riconciliazione tra le due grandi scuole della psicologia del profondo. Gli
junghiani si sentirono in dovere di tentare un dialogo: scrutare nell’oscurità,
sia in quella personale sia in quella collettiva, è, secondo Jung, la pietra
angolare di una vita autenticamente ed eticamente vissuta.
La ricerca si è concentrata su tre aree importanti: la prima riguarda la
relazione personale e professionale tra Jung e Freud, relazione breve ma
feconda. Fu quando si ruppe questo rapporto che Jung fu per la prima volta
accusato di antisemitismo; la seconda area riguarda le attività e
l’atteggiamento di Jung a partire dalla rottura con Freud nel 1913 fino
all’inizio della seconda guerra mondiale; la terza area, infine, si muove
intorno alle possibili motivazoni consce e inconsce che furono alla base
dell’atteggiamento di Jung.
Freud fu attirato dal giovane Jung per la sua mente curiosa e acuta nel
comprendere la psicoanalisi, e per il fatto che non fosse ebreo: In molte
occasioni Freud ha affermato che "fu solo per la sua apparizione [quella di
Jung] che la psicoanalisi evitò il rischio di diventare una questione nazionale
ebraica". Freud e Jung erano coinvolti in una relazione padre-figlio,
caratterizzata da una proiezione massiccia che poteva dar luogo a una
collaborazione creativa ma anche a una competizione e a una inimicizia
distruttiva.
Freud e Jung collaborarono intensamente: centinaia di lettere, numerosi
incontri e un lungo viaggio in nave verso gli Stati Uniti lo testimoniano.
Freud sostenne la candidatura di Jung alla presidenza dell’Associazione
Psicoanalitica e alla carica di redattore-capo degli "Annali di ricerche
psicoanalitiche"; e Jung guardava a Freud con grande stima e ammirazione
considerandolo "il primo uomo veramente importante" per la psicologia del
profondo.
Malgrado ciò, c’erano molti aspetti che li dividevano fin dall’inizio della
loro relazione. Non si trovavano d’accordo, per esempio, sull’importanza
psicologica di indagare sui cosiddetti fenomeni occulti: Freud considerava
l’occultismo pericoloso e regressivo, mentre Jung era fortemente attratto dai
misteri della vita psichica. Come è noto, lo scoglio maggiore alla loro intesa
era dovuto al disaccordo sul ruolo da attribuire alla sessualità nel
funzionamento della psiche. Jung, dapprima in modo cauto e in seguito
molto più apertamente, espresse dubbi sulla teoria freudiana della libido e
negò il primato della pulsione sessuale.
A un livello più personale Jung aveva sicuramente qualche difficoltà ad
accettare l’autorità paterna di Freud. Da figlio ribelle, che aveva colto molto
precocemente i dubbi religiosi di suo padre, pastore protestante, Jung
interpretava con insofferenza e disagio la parte del "figlio adottivo", "erede"
di Freud, docile nel seguire le orme tracciate dal padre-mentore. La strappo
definitivo con Freud avvenne con la pubblicazione di "Trasformazione e
simboli della libido", un’opera che sfidava apertamente la teoria del maestro
sul desiderio incestuoso infantile per il genitore di sesso opposto. Jung sentì
che questi desideri erano espressioni simboliche di un’energia psichica e che
non dovevano essere presi alla lettera.
Fu in questo periodo, alla fine della loro relazione nel 1914, che emersero
pubblicamente le prime accuse di antisemitismo nei confronti di Jung;
sebbene già nel 1908 Ernest Jones, il biografo di Freud, avesse colto in Jung
aspetti di antisemitismo, queste sensazioni furono tenute nascoste. Senza
dubbio il fatto che Freud avesse riposto fiducia in Jung perché cristiano (per
stornare in tal modo il sospetto che la psicoanalisi fosse una scienza
esclusivamente ebraica) fu il primo germe da cui sarebbe poi scaturita
l’accusa di antisemitismo: finché c’era stata una sana e fattiva
collaborazione nella comunità psicoanalitica, non era sorto alcun
disaccordo, ma non appena Jung si allontanò da Freud e dagli altri membri
della comunità, ecco che l’accusa di antisemitismo si fece avanti con una
rapidità allarmante. Freud, nel suo testo "Per la storia del movimento
psicoanalitico", accusò Jung di non essere stato fedele alla psicoanalisi a
causa di "certi pregiudizi razziali". Essendo stata scritta di pugno dal
maestro ed essendo apparsa su un documento pressoché ufficiale, questa
affermazione dette inizio a quella controversia storica che che si è protratta
fino a oggi con risultati disastrosi.
Nel 1917 apparve uno scritto di Jung nel quale egli fa una distinzione tra
psicologia ebraica e psicologia tedesca. Egli riteneva che la psiche ebraica,
anche se ricca ed estremamente sofisticata, non fosse in relazione con "le
forze ctonie profonde", mentre la psiche germanica lo era a tal punto da
diventare pericolosa, barbarica. Dieci anni dopo, nel 1928, Jung si espose
all’accusa di antisemitismo strisciante sostenendo che in tutte le razze si
riscontrano specifiche caratteristiche diverse; riconoscere la specificità della
"razza ebraica" non equivale a essere antisemiti. E’ anche possibile che i
commenti di Jung scaturissero da sentimenti negativi nei confronti di Freud
ed evidenziassero le proiezioni che continuavano a persistere in lui (e nello
stesso Freud) come risultato della loro rottura traumatica.
Agli inizi degli anni Trenta accadde un fatto molto significativo che mise
ulteriormente Jung sotto una luce antisemita. Rispondendo a una richiesta
dei suoi colleghi, Jung accettò la presidenza della società generale di
psicoterapia, sostituendo Ernst Kretschmer che aveva dato le dimissioni
quando i nazisti presero il potere.
Divenne inoltre redattore-capo del Zentralblatt fuer Psychotherapie,
pubblicato in Germania. Nel 1933 apparve un articolo filonazista dello
psichiatra Matthias Goering, cugino del leader nazista Hermann Goering.
L’articolo avrebbe dovuto apparire solo su un supplemento destinato a
essere diffuso esclusivamente in Germania, ma, per una negligenza, il
manifesto di Goering apparve, all’insaputa di Jung, anche sul numero del
Zentralblatt da lui firmato come redattore-capo. A complicare le cose, sullo
stesso numero apparve anche il saggio di Jung "Situazione attuale della
psicoterapia", nel quale veniva fortemente sottolineata la differenza tra la
psicologia ebraica e quella "ariana". Il suo articolo, inoltre, paragonava gli
ebrei ai "nomadi" e alle donne, perché, come quest’ultime, "fisicamente più
deboli". Questo testo infelice, affiancato per giunta a quello di Goering, fu
inopportuno e dette naturalmente adito a una cattiva interpretazione
mettendo Jung nella peggior luce possibile. Divenne infatti il principale
documento teorico che gli accusatori di Jung esibivano a dimostrazione del
suo antisemitismo.
Jung ha sempre dichiarato di non essere mai stato un antisemita ma che il
suo scopo è sempre stato quello di esplorare e illuminare la complessità
della psiche umana. Le riflessioni di Jung sulla Germania e su Hitler
caratterizzano il suo frequente tentativo di applicare i princìpi della
psicologia individuale alla psiche collettiva, allo scopo di comprendere le
nazioni, il carattere nazionale e l’azione politica, guardando quindi alla
Germania come un medico guarda a un paziente. Ammise poi, in molte
circostanze, di aver preso un abbaglio nel credere che l’emergere delle forze
inconsce in Germania avrebbe potuto portare a risultati positivi e a una
trasformazione spirituale e culturale del paese.
Molti degli autori ebrei che hanno conosciuto Jung personalmente, James
Kirsch, la Jaffé, la Hannah, tracciano una sorta di apologia del loro maestro
e amico scomparso nel 1961, dichiarando con certezza che non si è mai
macchiato di antisemitismo; altri autori non ne sono però così sicuri.
Più problematica appare la questione delle motivazioni consce e inconsce,
che hanno indotto in Jung un atteggiamento che ha sollevato contro di lui le
accuse di antisemitismo. La ragione più plausibile del suo passo falso è
forse legata ai suoi sentimenti irrisolti verso Freud, la figura del padre, del
mentore e dell’amico dal quale Jung si era sentito deluso e tradito. E’ anche
possibile, come molti hanno ipotizzato, che Jung avesse voluto prendere il
posto del padre, identificandosi inconsciamente con gli eventi della
Germania e forse addirittura con il potere di Hitler. Intrappolato in questa
identificazione inconscia, egli può aver colto l’opportunità negli anni
Trenta, quando Freud e la psicoanalisi vennero banditi dal regime tedesco,
di promuovere la propria psicologia e se stesso diventando "lo psicologo
delle nazioni".
Quali che siano state le ragioni che hanno condotto Jung verso tali
atteggiamenti, possiamo certamente affermare che in quel terribile periodo
storico egli ha mostrato una certa dose di insensibilità verso la condizione
degli ebrei e una ingenuità rispetto alle conseguenze politiche e personali
che le sue parole scritte e dette avrebbero potuto suscitare. E’ senza dubbio
noto che Jung ha aiutato diversi amici e colleghi ebrei a sfuggire al pericolo
nazista. Fu egli stesso, in modo drammaticamente umano, a trovarsi
vulnerabile di fronte agli effetti di quelle forze insidiose che aveva cercato
di rendere apprezzabili e di fronte alle profondità inesplorate del suo passato
che l’avevano visto come il figlio ribelle di un pastore svizzero e come
l’erede fallito di una "scienza ebraica".
Nel 1944, durante una crisi cardiaca, Jung ebbe alcune visioni di natura
squisitamente ebraica. Una sorta di redenzione? Vide se stesso accudito da
una nutrice ebrea e nutrito con cibo "kosher", preparato secondo il rito
ebraico; in un’altra visione partecipò al matrimonio cabalistico di Malchut e
Tifereth: Inoltre, con il suo libro "Risposta a Giobbe", che apparve nel 1952,
Jung forse scoprì ciò che non c’era stato nel suo incontro con l’ateo Freud: il
giudaismo che, collegandolo alle sue radici originarie, avrebbe potuto
"nutrirlo" nel modo che gli fu penosamente negato dalla vuota religiosità del
padre biologico.
Goldhagen: gli Attori della Storia.
Giancarlo Bosetti E' il 24 marzo 1938 a Vienna. La foto mostra un gruppo di ebrei (se ne
vedono quattro, se ne possono immaginare altre decine) che, accucciati o in
ginocchio, strofinano la strada con le spazzole. Dietro di loro fanno corona,
chi guardando nell'obiettivo, chi guardando l'azione, soldati, poliziotti, uno o
due SS. Nessuna arma puntata. La maggioranza degli astanti sembra
soddisfatta della situazione. E serena. La parola più corrispondente
all'umore di questo capannello è "compiacimento". Per la precisione si
riescono a distinguere quindici facce. Su almeno dodici di queste è netto il
sorriso, del genere "sono contento di esserci" (quello che ci siamo abituati
adesso a vedere alle spalle dei telecronisti). L'SS sembra più serio e
compreso, come cosciente del significato, della "missione storica" che in
quel momento sta prendendo forma e concretezza. Un maturo signore col
pizzetto è addirittura divertito, ma più di tutti emana vera gioia una donna
grassa, una faccia da popolana che guarda inequivocabilmente gli ebrei
chini con la spazzola. E dal guardarli si sente ripagata di chissà quante cose.
Daniel Jonah Goldhagen ha scelto questa tra le immagini poste al centro del
suo libro, I volonterosi carnefici di Hitler (Mondadori) perchè il centro del
suo interesse sta lì, nella gente comune che fu parte attiva, partecipe,
convinta dell'Olocausto. I "willing executioners" furono reclutati non su un
altro pianeta ma in mezzo alle folle anonime e Goldhagen vuole scomporre
e illuminare l'atteggiamento mentale, la cultura, la situazione soggettiva che
rese possibile tante scelte individuali che consentirono di mettere in atto la
"soluzione finale" della questione ebraica. Goldhagen avversa tesi del
terrore, quella della cieca obbedienza agli ordini, quella della macchina
anonima di morte e tutte le altre che dal processo di Norimberga in poi sono
state tentate.
Il fatto storico, in quanto tale, rimane una sfida permanente ad ogni
interpretazione, perchè - Goldhagen lo sa benissimo - "nessuna spiegazione
legata ad un'unica causa potrà mai essere adeguata per l'Olocausto", ma
l'autore americano si avvicina al problema ponendo il suo sguardo sugli
"agenti" e sulle loro motivazioni. E la sua scoperta è che lo fecero
"volentieri". Perchè? Perchè il terreno era stato lungamente preparato sul
piano ideologico di massa. Goldhagen scopre, sezionando lettere,
dichiarazioni e ogni genere di testimonianza di soldati, ufficiali, poliziotti e
manovali della macchina nazista, che la "forma mentis eliminazionista" era
così diffusa da far dire che tra i tedeschi, colti e non, la Judenfrage non
riguardava più il "se" ma il "come" eliminare gli ebrei.
Si può dire che in questo modo Goldhagen scioglie definitivamente il
problema storico dell'Olocausto? Direi di no. Anzi, a ben vedere lo
complica, confermando l'insufficienza sia delle tesi "eccezionaliste" che di
quelle "normaliste". E' vero infatti che ce lo restituisce nella sua dimensione
quotidiana, comune, casalinga, quella dello sguardo della popolana di
Vienna: qualcosa che non aveva bisogno di uomini e donne
straordinariamente crudeli, ma soltanto di tanti "normali" antisemiti,
seriamente convinti che "Die Juden sind unser Ungluck" (Gli ebrei sono la
nostra infelicità). D'altra parte Goldhagen ci spiega che questa tremenda
"normalità" non avrebbe avuto le stesse conseguenze senza la somma
eccezionale di altre circostanze. Perchè il virulento antisemitismo
eliminazionista diventasse un progetto politico, dopo la Prima Guerra
Mondiale, erano necessari Hitler ed il suo partito. Perché diventasse realtà,
occorreva poi che questi prendessero il potere (il che non sarebbe avvenuto
senza una disastrosa crisi economica). Ma non bastava. Per il compimento
era necessario ancora che la potenza armata tedesca si allargasse su tutta
l'Europa e creasse condizioni di assoluta impunità internazionale, almeno
fino al 1945. Solo in Germania questa somma di fattori, ciascuno dei quali
non inevitabile, fu messa insieme. Goldhagen non poteva e non voleva
liquidare questo problema storico, che mantiene qualcosa di inattingibile,
voleva però abbattere lo schermo della "colpa collettiva" per dimostrarci che
anche il crimine maggiore del secolo e forse di tutta la storia ebbe bisogno
del sì di tanti individui, che vi parteciparono con le loro idee, la loro
intelligenza, le loro mansuete convinzioni, la loro personale responsabilità.
Chimere: cronache sul mito del Museo Autonomo
Carlo Bertelli In un celebre romanzo di Mishima il maestro Zen sbalordisce gli allievi
affidando alla loro meditazione frasi enigmatiche e apparentemente prive di
senso, del tipo: egli si mise i sandali sulla testa.
Non so se il soprintendente ed ex ministro Antonio Paolucci sia un lettore di
Mishima. Ma certo anch’egli segue gli stessi metodi pedagogici del maestro
del romanzo. Come ministro, infatti, affermò di volere l’autonomia di alcuni
grandi musei italiani, fra i quali gli Uffizi.
Gli interpreti trovarono faticoso capire in che consistesse quell’autonomia.
Poiché l’organico del ministero, come il ministro sapeva, non comprende il
personale dirigente e amministrativo, che quell’autonomia avrebbe richiesto.
Nello stesso tempo il ministro Paolucci con un atto concreto metteva in
chiaro che non dava nessuna importanza all’autonomia scientifica dei musei.
Infatti procedette all’acquisto, per diversi miliardi, di due opere significative
senza interrogare i direttori dei musei cui, come ministro, le destinava.
Si trattava di "sbloccare", secondo un verbo caro all’efficientismo di
sempre, il lascito Bardini. L’antiquario Bardini aveva donato allo Stato
italiano un intero museo a Firenze con la condizione che in cambio lo Stato,
con una somma di alcuni miliardi messa a disposizione dal donante,
compisse due importanti acquisti di opere, per il Bargello e gli Uffizi, cui
legare il suo nome. Così il ministro comprò una targa marmorea con lo
stemma Martelli attribuita a Donatello (ma ignorata nelle più recenti
monografie) e due scomparti di un polittico di Antonello ridotto allo stato di
rudere.
La direttrice del Bargello protestò per non essere stata interpellata, mentre la
direttrice degli Uffizi, oltre a trovare singolare la propria esclusione
dell’acquisto di opere importanti per il suo museo, osservava che comprare
due tavole terribilmente logore non era il modo più corretto di rispettare la
volontà del Bardini. Tanto più poiché i cataloghi d’asta pubblicati in quei
giorni offrivano occasioni estremamente più interessanti per un grande
museo italiano. Nel frattempo gli interpreti trovano che con questa mossa il
ministro aveva ancor più oscurato il senso da lui attribuito all’autonomia dei
musei.
A Firenze si ripeteva quanto era avvenuto mesi prima a Milano. Qui la
Regione aveva acquistato, e destinato al Castello Sforzesco, l’unica anta
intatta dello stesso polittico di Antonello, ma questo dopo un solido accordo,
che risaliva a circa tre anni prima, con la direttrice della pinacoteca.
Nel frattempo, però, il Comune aveva acquistato, sempre per il Castello
Sforzesco, due grandi tele del Canaletto. La direttrice del museo, che temeva
che quell’acquisto avrebbe compromesso l’altro dell’Antonello, cui
giustamente maggiormente teneva, osservò, parlando con una giornalista,
che i due Canaletto corrispondevano assai poco al carattere delle raccolte
del Castello.
La confidenza fu pubblicata e la direttrice venne addirittura censuarta in
pieno consiglio comunale. Si capisce perché. L’acquisto era stato fortemente
voluto da un consigliere leghista , dal cui voto dipendeva la sopravvivenza
della giunta. Dopo l’acquisto il consigliere uscì dal gruppo leghista e passò
all’opposizione.
Il bell’esempio di autonomia dei musei dato da Milano è stato ora seguito da
Firenze. Ritornato soprintendente, ossia a prendere ordini da quei dirigenti
generali cui prima li dava lui, l’ex ministro Paolucci ha estromesso la
direttrice degli Uffizi dall’elaborazione dei programmi di ampliamento del
museo.
Un funzionario che non è mai uscito dall’Italia, come il dottor Paolucci, ha
forse difficoltà a comprendere il carattere internazionale degli Uffizi. Forse
non ha visto che l’autorevole "Burlington Magazine" aveva dedicato
addirittura un editoriale a lode delle trasformazioni dovute all’attuale
direttrice, la dottoressa Anna Maria Petrioli Tofani, la stessa che è ora messa
alla porta.
Anche in questo caso il soprintendente parla di situazione "sbloccata" e non
dice nulla sulle ragioni obiettive, d’indirizzo e tecniche, del contendere,
mentre si appoggia al collega soprintendente per i Beni Architettonici,
attraverso il quale si perpetua la commedia di sempre dei musei italiani di
proprietà dello Stato, sui quali la Soprintendenza per i Beni Architettonici ha
molto più potere che non la direzione del museo.
Il soprintendente fa anche esplicito riferimento al carattere della direttrice,
descritto come ruvido e poco amabile. Non sembra un argomento
scientifico, ma gli interpreti ora pensano che la ventilata autonomia fosse
soltanto un marchingegno per togliersi dai piedi una collega scomoda.
Domani accadrà
Giovanna Grignaffini Le mani sono ancora piene dei gesti che hanno portato all'approvazione
della finanziaria e dei numerosi decreti che ostacolavano la vita del
Parlamento. La testa è già protesa verso l'istituzione della Bicamerale e la
nuova stagione di riforme che essa inaugura. Eppure l'incidente è nell'aria in
questo apparentemente tranquillo mercoledì 15 gennaio. Già lo avevano
annunciato ieri alcune verifiche del tabellone: 8,10,15,6. Sono 6 voti di
scarto tra maggioranza e opposizione. Per non parlare di quel clima troppo
rilassato che registra senza apprensione la presa di distanza di Rifondazione
Comunista e le troppe assenze nei banchi della maggioranza.
Eppure il provvedimento che chiude la giornata non è di poco conto rispetto
alle strategie di politica economica del Governo, visto che esso attiva gli
strumenti tecnici necessari per procedere alla privatizzazzione della Stet.
Ma tutto tace. Nessuna frenesia, trattativa, telefonate, conta, verifica, clima
d'attesa. Anche le dichiarazioni di voto finale ripetono uno stanco rituale. Le
decine di voti che l'hanno preceduto sembrano aver definitivamente
confermato un'antica leggenda che racconta del sogno di onnipotenza del
governo e della maggioranza così come della fragilità impotente
dell'opposizione.
Alcuni deputati lasciano improvvidamente l'aula. Molti altri, troppi,
altrettanto improvvidamente, non l'hanno mai raggiunta.
Quanti tra gli assenti e tra i presenti sanno? In quanti arrivano avvertiti di
fronte a questo ennesimo scontro?
Alcuni sguardi di paura attraversano l'aula come fendenti ma sembra solo
l'esercizio di un abituale esorcismo materno del pericolo. Ma, soprattutto, è
troppo tardi.
32 astenuti, 230 favorevoli, 234 contrari: La Camera respinge.
Ci vogliono alcuni istanti per attraversare tutto intero lo stupore, per farlo
esplodere, di là in entusiasmo, di qua in rabbia e rancore.
Si compulsano i tabulati, si inveisce col vicino assente, si deplora
l'incapacità di mediazione del Governo, si distribuiscono diversamente le
responsabilità tra i vari gruppi, si stigmatizzano i vuoti più inspiegabili, si
censura l'atteggiamento di Rifondazione: si cerca invano di ritrovare l'anima
dentro un giocattolo irrimediabilmente rotto.
Domani ci diranno che verranno comunque salvati gli effetti del decreto
bocciato, che Rifondazione aveva coerentemente avvisato, che molti assenti
erano giustificati, che le telefonate, i richiami, i contatti e le trattative si
erano sprecati. Insomma che tutto era stato tentato, è tutto in ordine, tanto
rumore per nulla.
E tuttavia resta dentro ognuno di noi la consapevolezza di essere più piccoli
di fronte all'alchimia di un giocattolo che può andare in mille pezzi ad ogni
occasione. La consapevolezza insomma che domani, come ogni altro giorno,
dovrà ogni volta accadere un piccolo miracolo perché non torni a ripetersi
ciò che è accaduto oggi.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

Il primo testo si chiude su un verso palindromico: è composto dalle stesse


parole anche se lo si legge da sinistra verso destra (lettera per lettera). E’
macchinoso, ma non difficilissimo da indovinare (se si tiene conto
dell’argomento monografico di questo numero di Golem e Autogolem).
Il secondo testo si ispira al gioco enigmistico del "lucchetto". Esempio:
GoLEM/L’Embargo/bar goZZANIANO... (esisteranno bar gozzaniani? E,
se esistono, come proseguire il gioco?). Unendo la X della prima coppia e la
Y dell’ultima si ottiene un conciso e spiccio verbo di impazienza
occidentale, ovvero un prolisso gioco di pazienza orientale.

1. POESIA CON VERSO FINALE PALINDROMICO

Dentro a un caos infernale


nella mischia generale
confusione massmediale
ragnatela universale
(sarà un bene? sarà un male?
Questo dubbio già m’assale)
Pensa questo mondo attuale,
x xx xxxxxx xxx, xxxxxxx.

2. POESIA A LUCCHETTO

Bravo cosmopolita
Sono onesto, sono probo:
vado in giro per il xyyyy.

Cuculo
Grave forma di pazzia:
mi fan la yyyyxxxxx.

Bibliomane disordinato
Leggo molto e tengo certi
ponderosi xxxx xyyyyy.

Tennis club
Sei a sei, caro Jack?
Si decide yyy yyx-xxxxx.

Comunanza Culturale
E’ la lingua di Mosé
posso dir, l’xxxxx xyyyy.

Avversari e gentiluomini
Son scacchisti cavalieri:
"scegli pur, voui i bianchi y y yyxx?"

Constatazione
Non ci vuole poi un gran fisico
per giocare bene a Xxyyyy...

Fama d’attrice
Claudia ha le physique du r“ le.
"Sai il cognome?" "yy:Yyxx"

Donna moderna
E’ attiva e non ha ignavia
la Carmen Xxyyy Yyyyyyy

Rubacuori parigina
La vedeste nei bistrot
yyy yyyy, yy yxxxxx.

Portieri poco coraggiosi


Non van bene, sono scarsi:
han paura x’xxxxyyyyyy.

Campagne abbandonate
Vivon solo quattro vecchi
fra terreni yyyyyy, xxxxxx.

Fine del gioco


E’ durato ormai parecchio.
Chiudo, e buonanotte al xxxxxxy.

SOLUZIONI

1. E la bolgia hai globale


2. Globo / loboTOMIA / TOMI Aperi/ pertiE-BREAK / EBREA
Koiné / o i neRI / RIsiko / sì, koLL / LLera moravia / era mora, vi
aDESCO’ / D’ESCOriarsi / riarsi, SECCHI/ SECCHIo = Go
Per Luigi Tenco
Roberto Caselli Nel mondo dello spettacolo nessun fenomeno è più redditizio della morte
dell’artista. Non per il defunto, beninteso, ma per la macchina che produce i
suoi film, i dischi o i libri che improvvisamente subiscono un’impennata di
vendite. E’ come se la fascinazione esplodesse quando viene posto un limite
dialettico irreversibile con l’interessato, se si fa una rapida carrellata
mentale degli attori, cantanti o scrittori scomparsi ci si rende subito conto
della sostanziale rivalutazione di quel ruolo, che in vita era stato trascurato.
Naturalmente c’è anche chi le lodi sperticate se le è sentite attribuire per
tutta la sua carriera e quindi non crea nessuna contraddizione, ma in molti
casi viene da pensare che si tratti proprio dell’ultima occasione per
promuovere le vendite delle varie opere prodotte, altrimenti perché ci si
accorgerebbe di come sia stato bravo un artista solamente nel momento in
cui muore?
Trent’anni fa, proprio nel mese di gennaio, si suicidava Luigi Tenco. Un
colpo di pistola, subito dopo l’interpretazione della sua canzone al Festival
di Sanremo, mise fine a frustrazioni e delusioni accumulate per la scarsa
attenzione di pubblico e critica nei confronti del suo talento. Anche lui non
sfuggì alla regola generale; il suicidio fece vendere a Tenco più di quanti ne
avesse venduti in tutta la sua vita, e la casa discografica per questo exploit
sta ancora gongolando. Pochi anni dopo venne addirittura istituito il Club
Tenco, una specie di rassegna colta, tuttora esistente, destinata a
salvaguardare la canzone seria a cui possono partecipare tutti i cantautori,
emergenti o consolidati che siano.
Il suo nome è ora sinonimo di impegno e qualità, ma chi lo sostenne nei
momenti difficili? Lo show business ha le sue leggi e non saranno
certamente i bisogni di un singolo artista a cambiarne i codici; la prerogativa
del potere è dimenticare in fretta e sapersi riconvertire nella maniera più
fruttuosa possibile. Forse, se si hanno velleità di cose serie, varrebbe la pena
di non prendere neanche in considerazione manifestazioni come quella di
Sanremo. Se si sta al gioco dell’effimero e della finta spensieratezza bisogna
accettare anche di poter essere sacrificati.
Non è un mistero: the show must go on.

Ricordo di Luigi Tenco


(in collaborazione con Publifoto)
Paragoni
Rossana Di Fazio Ci sono Tempi in cui ha senso interrogarsi sulle relazioni fra cinema e
letteratura; altri ancora vedono un ostinato riferimento del Cinema alla
pittura o alla pubblicità, al fumetto o alla musica.
Sono i singoli film a stabilire un Paragone, attraverso vari procedimenti, ma
in un certo senso sono le poetiche di un Tempo a proporre come attuale tale
confronto.

I paragoni fra le arti sono un tema prediletto della trattatistica, per esempio
cinque e seicentesca. Nell'inseguire il mito del primato il teorico compiva
uno sforzo non solo retorico verso la comprensione delle caratteristiche
specifiche delle singole Arti, spesso in concomitanza con mutamenti della
sensibilità che si esprimevano nel successo della pittura sulla musica o della
poesia sulla pittura.
Benché ipotizzare la superiorità di un'arte sull'altra sia per noi abbastanza
inaccettabile, non si può fare a meno di notare che, osservati a distanza, in
determinati contesti, alcuni linguaggi sviluppano poetiche e forme
espressive in modo più radicale di altri, il che non significa affatto che
riescano a mantenere a lungo questo primato (un primato sperimentale, di
ricerca potremmo dire, più che una gerarchia assoluta).
Quindi, in determinate congiunture, una forma espressiva è disponibile a
divenire formante più di un'altra o, in altri termini, un determinato contesto
pensa meglio attraverso certi linguaggi piuttosto che altri.
Non sto dicendo niente di nuovo: Panofsky, Lotman o Mac Luhan hanno
riconosciuto in analisi esemplari alcuni di questi processi.

Resta il fatto che nell'adeguarsi o nel modellarsi ad altri linguaggi, il


Cinema, la Letteratura, la Pittura, la Musica, trovano una grande ispirazione,
motivo per misurare i propri limiti espressivi e l'occasione di spezzarli e
spingerli un po' più lontano. Chiunque faccia qualcosa sa che l'ispirazione è
un problema serissimo e che quindi avere un oggetto e un orizzonte di
ricerca è una grande consolazione.
Scriverò di un paragone posto da due film diversissimi, sotto ogni profilo,
che hanno in comune però un riferimento all'immagine dei nostri schermi di
computer o, potremmo dire con una sintesi che potrebbe suonare ambiziosa,
al Computer come Forma Simbolica.

In The Pillow Book Peter Greenaway stabilisce una identità fra lo schermo
cinematografico e la pagina: lo schermo diventa un supporto di scritture.
Anche se celebra il gesto manuale della scrittura, il film ostenta il carattere
elettronico della composizione figurativa; le finestre che si aprono
contemporaneamente negano l'illusione tridimensionale della scena
rappresentata e tutte le figurazioni rispettano e obbediscono alle dimensioni
verticale e orizzontale. Attraverso questa somiglianza fra le finestre con cui
lavoriamo quotidianamente sui nostri pc, Greenaway qualifica lo spazio
elettronico come dimensione multipla e fortemente bidimensionale. A suo
modo Greenaway riporta alla forma bidimensionale della Scrittura tanto lo
spazio cinematografico che l'idea dell'immagine elettronica. Non posso fare
a meno di aprire una parentesi ( ).

L'altro caso di cui vorrei parlare è Nirvana di Gabriele Salvatores. Nel


Villaggio più Globale che si possa immaginare non è solo il racconto a
tematizzare fortemente il rapporto con il computer e la contaminazione fra
uomini e macchine. Anche lo spazio cinematografico è ambiguo: virtuale e
reale sono assolutamente indistinguibili. Anche se il concretissimo ex-
Portello vive qui la sua commovente epifania, chi non sa cos'era e cosa
rappresenta potrà continuare a pensare ad uno spazio ricostruito, ad una
messa in scena .

La associazione gioco/vita/film viene posta direttamente dal personaggio di


Maria (Amanda Sandrelli), vittima di un simpatico lapsus. Prendere questa
strada di interpretazione del film però conduce in un sentiero stretto, che ci
tiene attaccati fortemente alla struttura del racconto, nel quale tutte le
poetiche di Salvatores (il viaggio, la ricerca, il gruppo, la generazione, l'uso
di una lingua-gergo molto connotata, le scelte individuali come resistenza ai
sistemi di governo e di controllo) ritornano attraverso una scelta di genere
molto forte (la fantascienza), coraggiosa, ma stemperata da un eccesso di
commedia, di autoironia qualche volta un po' troppo facile e prevedibile.
Preferisco osservare come Salvatores si cimenti con l’incontro fra lo spazio
virtuale e quello cinematografico. Questo riferimento al Computer, ai
comportamenti indotti dalla frequentazione con le reti, potrebbero esser solo
ammiccamenti all'attualità, pretesti per rimpiazzare la latitanza di buoni
racconti.
Credo invece che nel caso di Nirvana la realtà virtuale abbia ispirato una
immaginazione dello spazio filmico che intrattiene un rapporto di necessità
con il racconto.
Sin dall'inizio del film le dimensioni strettamente bidimensionali subiscono
rotazioni (che ribaltano l'idea di sotto/sopra e destra/sinistra); la navigazione
degli Angeli dentro i sistemi informatici si qualifica come vortice, come
viaggio in profondità, tridimensionale (ma sarebbe più giusto dire
polidimensionale), denso, che ha profonde conseguenze corporali. Lo
schermo aderisce a queste forme, sviluppando per altro anche sul piano
narrativo un modello che è ancora quello della prospettiva pittorica, in grado
di dare luogo ad uno spazio (virtuale) virtualmente percorribile dai
personaggi e dagli oggetti.
Un altro segnale di questa rilevanza delle forme è la neve che scende
durante gran parte del film. E' come un virus, anzi è un virus. A giudicare
dalle connotazioni positive che il racconto dà al virus come correttore, come
disturbo del Sistema, c'è da ben sperare. A voi trarre conseguenze sul piano
dei contenuti, a me interessa sottolineare quanto questi momenti svolgano
una funzione di nodo insieme formale e narrativo che pone l'associazione/
paragone fra lo schermo del cinema e lo schermo del computer, non senza
omaggiare il citatissimo (dalla critica) Blade Runner.
C'è poi un altro tema abbastanza importante che permea la narrazione, ed è
quello dell'interattività. E' l'interattività a dare il via al racconto e a rompere
l'equilibrio del Sistema e credo che il principio del Gioco vada inquadrato in
questo contesto. Che poi si tratti di una rivisitazione del mito di Pigmalione,
o della stanza dei giocattoli che si animano, poco importa. Il film del resto si
regge su schemi narrativi abbastanza tipici e probabilmente aspira a questa
semplicità della Favola e del racconto esemplare.
La relazione fra il videogioco (il CD Rom omonimo è già in commercio) e il
film è diretta; questa potrebbe essere semplicemente una trovata del Mercato
che non mancherà di diffondersi come pratica corrente, ma potrebbe anche
inaugurare il progetto, diversamente tentato da Resnais in Smoking/No
Smoking o da Altman nella struttura seriale dei suoi film o, più
modestamente, dallo stesso Pulp fiction nella struttura del racconto, di
misurare le possibilità di un racconto "multiplo", non finito, che non rispetti
uno sviluppo lineare a una direzione, ma soddisfi un modello di narrazione
più simile ad una rete che ad una retta: circolare (Altman), parallelo e
incrociato (Resnais) o interattivo. Un Gioco insomma, ma anche un modello
di descrizione della realtà.
Il cinema forse sta facendo i conti con il Modello della Rete e
dell'interattività e più in generale con il Computer come Forma Simbolica.
In quanto tale diviene quindi ispiratore di poetiche, soluzioni o confronti
dialettici, come quello posto da Greenaway nel contrapporre ad un modello
leggero (immateriale) e totalizzante della comunicazione, l’idea della
scrittura come rito della materia e del corpo.

(se Greenaway si dedica all'architettura, e alla melanconia degli architetti,


mito ricorrente nella storiografia artistica, come ne Il ventre dell'architetto,
colori, forme e racconto si adattano completamente al loro oggetto e ne esce
una parabola degna di entrare nel classico libro di Kurz e Kris, La leggenda
dell'artista; se si dedica al teatro, come ne L'Ultima Tempesta, trasforma lo
spazio filmico in teatro all'ennesima potenza; se invece è la scrittura il suo
oggetto, il linguaggio cinematografico si adatta a divenire come la scrittura,
superficie multipla bidimensionale. Benedica il Cielo Peter Greenaway per
la sua capacità di inventare e ripensare sempre lo spazio filmico. Fine della
parentesi )

Vedi Anche:

cinema.it
Fumetti
a cura di Comix

Una storia di Cinzia Leone

Altan
Locale e globale su Internet
Giulio Blasi I romanzi di Bruce Sterling (si pensi a Islands in the Net del 1994) e molta
letteratura cyberpunk ci suggeriscono un’idea della rete come territorio nel
quale le differenze nazionali sono annullate e sostituite con altre "barriere" e
"soglie" (le grandi corporations, la topologia della rete, ecc.) che implicano
forme sociali interamente nuove.

Questo genere di narrativa prende naturalmente le mosse da i discorsi


mediologici sul "villaggio globale" (McLuhan) e dai discorsi degli
economisti sulla globalizzazione dell’economia. Eppure la letteratura
sembra spingersi più avanti degli analisti nel pensare una globalizzazione a
più livelli: del sistema editoriale, dell’entertainment, dell’educazione,
dell’informazione.

Internet sembra essere l’unico test possibile di questo scenario di "cultura


globale" nel quale non la distribuzione dell’informazione è globale ma il
Marshall McLuhan consumo: pubblici trasversali rispetto alle barriere linguistiche, geografiche
e nazionali. La sola televisione satellitare costituisce, oggi, un mezzo di
comunicazione di massa con caratteristiche simili (e non casualmente le
relazioni tra tv satellitare e Internet stanno diventando più strette negli ultimi
tempi).

Se è abbastanza ovvia la capacità di globalizzazione di Internet (tutto su


Internet è visibile da tutti: il sito della CNN e il sito dell’Unione Sarda)
bisogna però riflettere sul fatto che è il rapporto tra globale e locale a venire
modificato dalla rete.

Ecco alcuni esempi su cui riflettere:


Costruisce un indice di siti
Internet sulla base delle
Get Local (Yahoo)
preferenze geografiche
dell’utente
Motori di ricerca per singole
Alta Vista Europe
lingue europee
Tutti i giorni tutti i GR delle
Giornali Radio italiani on line varie regioni italiane in Real
Audio
Cinema, teatri, concerti nelle
città italiane ove esiste una
Informazioni locali di Repubblica.it
redazione locale de "la
Repubblica"
Newsgroup della rete civica Discussioni della rete civica
bolognese bolognese sulla cucina...

Quelli elencati sono esempi di siti e spazi di discussione tipicamente "locali"


eppure disponibili all’intera "comunità" di Internet.

Da un lato, certo, quest’informazione è fatta per essere consumata dalle


comunità locali che vogliono trovare su Internet tutta l’informazione che
riguarda l’area geografica di residenza.

D’altro canto questa informazione tenderà a divenire geograficamente


trasversale e verrà consumata anche da destinatari che non sarebbero
raggiunti dai media tradizionali.

La dialettica tra globale e locale su Internet tende infatti a riprodursi ben


oltre i confini della distinzione tra città-province-regioni e nazioni (Napoli
vs Italia, per intenderci).

Gli stessi siti "nazionali" diventano locali se rapportati alla globalità di


Internet (guardate gli Yahoo francesi e tedeschi, ad esempio).

Ci si può chiedere se tutto ciò sia orientato a recuperare su Internet forme di


comunicazione che delimitino pubblici geograficamente e linguisticamente
distinti.

Può darsi. La mia impressione è tuttavia che la distinzione tra locale e


globale venga "osservata" da utenti di Internet ormai pienamente globali. In
altri termini: la specializzazione geografica e linguistica dei servizi Internet
servirà semplicemente ad articolare meglio il blob indistinto
dell’informazione disponibile in rete.
L’apparente spinta verso il localismo, oggi osservabile su Internet, è
semplicemente un’illusione ottica provocata dall’evoluzione dei sistemi di
indicizzazione e catalogazione dell’informazione on line.

La catalogazione geografica è tutto sommato quella più intuitiva e


sistematicamente realizzabile. L’unico "thesaurus" delle risorse Internet già
oggi disponibile in forma (quasi) sistematica è per l’appunto quello
geografico. Non è dunque un caso che esso venga sfuttato per primo.
Golem 07

Carissimi Lettori e scrittori di Golem,

Così, senza volere, assecondando l’interesse dei nostri collaboratori, il settimo Golem si è configurato
abbastanza precisamente come un ritratto del nostro Paese. Aspetti e umori che si rivelano in comportamenti
(Grasso sullo sciopero, Mannheimer sul caso Di Pietro); visioni reciproche di fasce della società (Colombo in
calce ad un forum molto partecipato; Caselli sui Beatles), analisi delle visioni e degli orientamenti che
l’Economia impone (ma lo sa?) alle regole della convivenza (Luttvak, Martino, Sapelli); osservazioni sulla idea
stessa di mediazione politica (Grignaffini) e sul senso di operazioni culturali discutibili e forse inutili (Bertelli).
Forse stiamo cercando qualcosa; i cervelli nel frattempo si esercitano in massa sui giochi proposti da Eco e
Bartezzaghi. Complimenti a tutti.
Con la collaborazione di Publifoto abbiamo preparato un piccolo omaggio a Marcello Mastroianni, un segno di
riconoscenza e affetto che speriamo apprezzerete.

I nostri abbonati hanno già ricevuto i nostri auguri a domicilio.

Per tutti gli altri , oltre all’invito ad iscriversi al Club di Golem e a organizzare l’ultima sera dell’anno secondo i
saggi consigli di Blasi, noi auspichiamo Buone cose per questo e per il prossimo anno, di tutto cuore.
avanti
Giostra di fine anno
Quale '97? In collegamento con RAI International e il direttore artistico Renzo Arbore,
Golem invita i suoi lettori e gli spettatori della "Giostra di fine anno" a
partecipare al Forum "Quale '97?".

Desideri, sogni, pensieri, auguri, promesse da scambiare per festeggiare


insieme un anno davvero nuovo.
Gioco di famiglie (per tutti)
Umberto Eco Ed ecco ora un altro gioco, suggerito da Marcella Bertuccelli Papi (via
ormai l'indispensabile e-mail). Consiste nel trovare un'opera letteraria
(romanzo, poesia, commedia, dramma) come tema generale a cui fa seguire
altri titoli che richiamano lo stesso tema.

I demoni: Il diavolo e il buon Dio, Il diavolo zoppo, Il diavolo a


Pontelungo, Faust, Belfagor arcidiavolo, Il diavolo in corpo. Il fiore:
Narciso e Boccadoro, La signora delle camelie, Il nome della rosa, I fiori del
male, L'uomo dal fiore in bocca, Il giglio della valle, La primula rossa,
Violette nei capelli, Il garofano rosso, All'ombra delle fanciulle in fiore,
Daffodils, Narcyssus pseudo narcyssus, Niente orchidee per Miss Blandish,
Il maestro e Margherita, Il negro del Narciso, Il giardino dei ciliegi. Le
passioni dell'anima: La nausea, La noia, La peste, Il piacere. Piccole
donne crescono: Lolita, Lulù, Madame Bovary, Moll Flanders, Lady
Roxana, Anna Karenina.
Belli e dannati: I vinti, Umiliati e offesi, Gli indifferenti. Finzioni: L'isola
del giorno prima, Il sole a mezzanotte, Buio a mezzogiorno, Orologio senza
lancette, Si vive solo due volte, Luna di carta, Variazioni sopra una nota
sola, Forse che si forse che no, L'uomo che scambiò sua moglie per un
cappello. I fiumi: Il Placido Don, Il mulino del Po, Il mulino sulla Floss, Il
ponte sulla Drina, Morte sul Nilo. Miseria e nobiltà: Il principe, Il barone
rampante, Il barone di Münchausen, Il principe e il povero, Povero ricco, Il
visconte dimezzato, Il marchese di Roccaverdina, Il conte di Montecristo, I
reali di Francia, La regina Margot. E poi I miserabili, I masnadieri, I
malavoglia, Il pitocco, I poveri sono matti.
Il libro della giungla: La tigre della Malesia, Il gattopardo, I giovani leoni,
Il furto dell'elefante bianco, Il serpente piumato, Zanna bianca, Il pappagallo
verde. I parenti terribili: Madre Coraggio, Le tre sorelle, La nuora, Padri e
figli, Figli e amanti, La cugina Betta, Il cugino Pons, Zio Vanja, Papà
Goriot, Le sorelle Materassi, La capanna dello zio Tom, La zia di Carlo, Il
marito ideale, I fratelli Cuccoli, Giuseppe e i suoi fratelli, I fratelli
Karamazov, I parenti poveri. La fattoria degli animali: La gatta, L'anatra
selvatica, Mamma l'oca, Le rane, Gli uccelli, Le vespe, Uomini e topi,
L'asino d'oro, Il bove, Corri coniglio, Le roman de Renart, Le mosche, Porci
con le ali, Il pavone bianco.
Ciò che ogni donna sa: Con l'amore non si scherza, Tenera è la notte, La
vita è altrove, Un bacio e addio, Amore e ginnastica, Cuore triste al
supermercato, Mai devi domandarmi, Lavorare stanca, Avrei dovuto tornare
a casa. Così parlò Zarathustra: Nessun uomo è un'isola, Gli affari sono
affari, La botte dà il vino che ha, La terra è di tutti, Le rose fioriscono anche
in autunno, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso, Ognuno muore solo,
Gli esami non finiscono mai. Libro dei vizi e delle virtù: Fede e bellezza,
Orgoglio e pregiudizio, Menzogna e sortilegio, Amore e vendetta, Ricerca e
perdizione, Delitto e castigo.
Gli indifferenti: L'antipatico, L'egoista, L'avaro, Il misantropo,
L'immoralista, Il cortegiano.
La storia (un titolo quasi per secolo, a voi il resto): La Bibbia, l'Odissea,
Storia della decadenza e discesa dell'impero romano, Gli ultimi giorni di
Pompei, Storia dei Longobardi, Storia dei Franchi, Cronache dell'Anno
Mille, Storia della città di Roma nel medioevo, La Gerusalemme liberata,
L'assedio di Firenze, La civiltà del Rinascimento, Storia dell'età barocca in
Italia, sino a Le ceneri di Gramsci - i titoli debbono riferirsi esplicitamente
al periodo storico, non valgono Guerra e pace, Buio a mezzogiorno, Il
partigiano Jonny, Il giorno della civetta, Il rosso e il nero, All'ovest niente di
nuovo.
Nano Blob
Carosello
di Marco Giusti

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I termini della questione
Antonio Martino Non amo il termine "capitalismo" sia per la sua ambiguità sia per la sua
storia. Persone diverse usano il termine con significati molto differenti,
quando non opposti, di modo che le discussioni sul "capitalismo" quasi
sempre degenerano in confusi dibattiti sul nulla. In secondo luogo, com’è
noto, il termine è stato inventato dai detrattori dell’economia di mercato ed
ha tuttora un connotato negativo. Sono passati, è vero, i tempi in cui la
traduzione italiana di Capitalism and Freedom di Milton Friedman venne,
per pudore, titolata Efficienza economica e libertà -nel 1967 parlare di
capitalismo veniva considerato sconveniente, a meno che non si trattasse di
deprecarlo- ma il connotato negativo, anche se in misura attenuata, resta.
Preferisco, quindi, parlare di economia di mercato o di economia di libertà,
ed evitare accuratamente un termine ambiguo, che viene usato più per
deprecare che per descrivere.
In secondo luogo, il termine "sistema" è, in un certo senso, esattamente il
contrario di un’economia di mercato. "Sistema", infatti, suggerisce l’idea
che un’economia di un certo tipo sia caratterizzata da un insieme di
caratteristiche necessarie ed ineliminabili. I fautori dell’economia di
mercato, viceversa, da sempre rifiutano l’olismo e ritengono che non
esistano "sistemi"; come ci ha insegnato F. A. von Hayek: "Il principio
fondamentale che nell’organizzazione dei nostri affari dovremmo usare
quanto più è possibile le forze spontanee della società, e ricorrere quanto
meno è possibile alla coercizione, è suscettibile di una varietà infinita di
applicazioni.". Niente "sistemi" standardizzati, quindi.
E ancora, per quanto riguarda l’essenza del mercato, vale la definizione che
del mercato ha dato lo stesso Hayek: il mercato è un meccanismo ottimale di
raccolta e trasmissione di informazioni. Queste informazioni sono essenziali
al coordinamento dell’attività di migliaia, milioni di individui diversi.
Nessuno di essi, singolarmente considerato, possiede tutte le informazioni
necessarie al coordinamento dell’attività economica di ognuno. Le
informazioni sono diffuse, disperse, possedute separatamente dai singoli;
esse si modificano continuamente e non possono, quindi, essere mai
simultaneamente note ad un qualsiasi centro decisionale unico.
Quello che viene chiamato "capitalismo" con riferimento all’economia di
mercato è tutto qui: non esistono "sistemi" e le informazioni sono disperse,
il che determina la superiorità di un meccanismo a decisioni decentrate
rispetto ad uno centralizzato. Se a questo aggiungiamo la necessità di una
definizione e di una tutela rigorose della proprietà privata e della libertà di
contratto, il quadro è completo. Come si vede, è un po’ poco parlare di
sistema.
Oggi, il mercato appare trionfante: sono ormai pochissimi ed isolati quelli
che si dichiarano apertamente ostili ad un’economia libera; non è quindi
l’economia di mercato ad essere in crisi. Se crisi, con riferimento
all’economia privata italiana, c’è, essa riguarda la sua inadeguata
competitività dovuta alla collusione fra affari e politica, alla prassi aberrante
di pubblicizzare le perdite, scaricandone il costo sui contribuenti. L’essenza
del mercato non è, come si continua a ripetere, la "logica del profitto", ma,
se proprio vogliamo usare quest’impostazione, "la logica del profitto e delle
perdite". Il mercato come "meccanismo di filtro", che seleziona in modo
continuo le alternative valide separandole da quelle da eliminare, richiede
sia profitto, in modo che le risorse vengano indirizzate verso gli impieghi
più efficienti, che le perdite, che segnalano un impiego inefficiente dei
fattori produttivi.
Se, quindi, è in crisi qualcosa nell’economia privata italiana (della crisi di
quella pubblica è superfluo parlare, essendo nota a tutti), questo non è il
mercato, ma il suo contrario: la violazione dei principi propri di
un’economia libera. Se riusciamo a fare divorziare l’economia dalla politica
ed a tradurre in comportamenti concreti il fatto che difendere il
"capitalismo" non ha nulla a che spartire con le sovvenzioni erogate a favore
dei grandi "capitalisti" attuali, nessuno, tranne qualche esaltato ideologo,
parlerebbe più di crisi. E’ questa la mia speranza.
Alto e Basso capitalismo
Giulio Sapelli Una delle caratteristiche salienti del capitalismo italiano non mi pare sia,
oggi, la tipicità della sua struttura produttiva o la criticità della sua
collocazione nella divisione internazionale del lavoro della competizione
globale. Certo, esistono specificità rilevanti a riguardo: la diffusione
epidemica (alta natalità e alta mortalità ricorrente) di piccolissime e piccole
imprese, quella meno allargata di unità produttive medie, la ristrettezza del
gruppo delle grandi imprese; in grave crisi queste ultime, del resto: o di
mercato, o di implementazione di nuove filiere tecnologiche, o di identità
patrimoniale e manageriale e di strategie.
Capitalismo di nani e di azzoppati giganti, il nostro è sempre stato
beneficato dalla mano visibile dello Stato, ripianatore di debiti e
sorvegliante ottuso di proprietà e di controlli famigliari e familistici (vedi il
ruolo svolto da Mediobanca, da un lato, e, per altri versi non opposti,
dall’altro, dalle antiche e dissolte - ormai - Partecipazioni Statali: veri e
propri ospedali di salvataggio dei fallimenti dei privati capitalisti).
L’innovazione si è prodotta, sì, ma sempre in forme alveolari e scarsamente
diffuse, con l’incomunicabilità pressoché assoluta tra "alto" e "basso"
capitalismo. E quando non è stata tecnologica, ma manageriale o finanziaria,
l’innovazione è stata spesso criminale o border line con la legge e l’etica
degli affari, per l’ostilità ch’essa ha sempre trovato dinanzi a sé, in primis
sul fronte delle forme proprietarie e di controllo. Di qui il potere sempre
rinnovatosi degli oligopolisti, pronti a spezzare le gambe a ogni capitalista
che volesse farsi, e non soltanto dirsi, "moderno". La maledizione di Angelo
Costa (non solo di Cuccia, per favore! Finiamola con le ipocrisie...) pesa
ancor oggi sul capitalismo italiano: Costa e i suoi si opposero sino all’ultimo
al MEC, alla competizione di mercato, nostalgici della serra protetta
dell’autarchia: i suoi nipotini si oppongono, oggi, con contorsioni più o
meno eleganti e con sortite para-politiche più o meno efficaci alla
liberalizzazione piena e dispiegata dei mercati e quindi anche delle forme
proprietarie, che è la sola via per dare speranza al capitalismo europeo,
anche con "le lacrime e il sangue" che non potranno non conseguirne.
Di qui la specificità del capitalismo italiano di oggi: esso sprofonda nella
paura e nell’angoscia. I mediatori partitici tra stato e collusione d’impresa
contro il mercato si son dileguati, distrutti dall’iniziativa del liberismo
economico internazionale. Quest’ultimo sperava, infatti, che fosse possibile
un patto con il capitalismo nostrano per una entrata "morbida" nel liberismo
dispiegato. In effetti si scelse la via più facile, che stava a cuore, per opposte
ragioni agli oligarchi di casa nostra: la distruzione dei mediatori partitici
ormai troppo pervasivi e costosi e inutili sul fronte geostrategico (dopo il
crollo del Muro di Berlino dell’89). Questo patto è ciò che sta dietro, nella
sostanza, al terremoto di Mani Pulite. Infatti, a riprova di ciò, il terremoto si
è fermato, all’inizio del suo prodursi, alle soglie del potere economico
oligarchico, perché si sperava che quest’ultimo, liberato dagli impacci
dell’avvoltolamento con un sistema di partiti provvido di collusioni e di
sostegni protezionistici, contribuisse con forze proprie all’avvento del
mercato unico dispiegato. Sennonché tutto si è fatto molto più complicato di
quanto previsto: la pressione internazionale neo-liberistica e neo-egemonica
nord-americano-tedesca continua a esercitarsi e il terremoto, però ... non si è
fermato, nonostante dimissioni di magistrati, colpi di scena televisivi,
tentativi abortiti di riforme elettorali neo-oligarchiche e plebiscitarie. La
paura è ora non soltanto quella di non avere più protettori-mediatori che
ostacolino il liberismo e proteggano gli oligarchi, ma è anche contro un
governo inedito nella storia d’Italia (di sinistra-centro con alterne tensioni
tra i poli opposti al suo interno) e che ha decisamente scelto la via
neoliberista nel settore capitalistico industriale (non dei servizi, come
dimostrano gli accordi sul fronte televisivo e il problema delle
telecomunicazioni e delle banche piene di debiti). Non a caso a protestare
tra anomia, angoscia, paura di perdere - quelle ritrovate sono troppo deboli e
corporative - la mediazione tra centro e periferia che garantiva protezione (si
chiamasse essa elusione fiscale, svalutazione, sostegno infrastrutturale alla
crescita) è il capitalismo "basso" e periferico che solo apparentemente, come
ha dimostrato Giuseppe Turani ne I sogni del grande Nord, appena edito da
Il Mulino, è in Europa. Apparentemente perché lo è senza progettualità,
senza idee che non siano "arricchiamoci e poi periscano...gli altri", ecc...
ecc..., con tutte le paretiane derivazioni tipiche del fallimento della morale
cattolica, da cui provenivano, appunto, con i cinici socialisti craxiani senza
Dio, i mediatori. L’"alto" capitalismo, francamente, non sa più che fare: è
impegnato tanto sul fronte giudiziario quanto su quello della difesa dei
mercati, contro i mercati, e così facendo spinge il paese alla decadenza. Per
questo la sola speranza è nella ricomposizione di un nuovo blocco di
comando del capitalismo nostrano tra medie industrie internazionalizzate e
dinamiche e ciò che rimane e ciò che ancora non si rivela della fronda - che
pure ancora esiste, per fortuna, e che deve però rapidamente manifestarsi -
nello stesso "alto" capitalismo: "cambiare o perire". Per questo dilaga la
paura, nell’"alto" e nel "basso" capitalismo italiano.
La Sindrome della Banca Centrale

Vi proponiamo la traduzione di alcuni brani dell’articolo che Edward Luttwak ha


presentato il 14/11/1996 sulla London review of books.

Edward Luttwak Il comunismo è morto, il socialismo è stato ripudiato dagli stessi socialisti,
sempre meno persone in Europa credono nella religione Cristiana, ma
nonostante tutto sembra che una nuova religione fanatica - praticata anche in
America - sia riuscita a sostituire tutti questi credo: il culto della banca
centrale.

E come tutte le religioni anche questo culto ha il suo Dio supremo, la


moneta forte, e perfino il suo Diavolo, l'inflazione. Mentre è sufficiente il
senso comune per combattere l'inflazione dilagante e per temere
l'iperinflazione quale malattia mortale delle valute, occorre la fede assoluta
della religione per rifiutare un'inflazione anche solo di modesta entità, a
spese di una galoppante disoccupazione e della stagnazione del mercato
come hanno fatto gli Europei, oppure per accettare per anni e anni una
crescita economica rallentata, come hanno fatto gli Stati Uniti!
E come la maggior parte delle religioni, anche il culto della banca centrale
ha i suoi santuari, che ispirano reverenza quanto qualsiasi altra famosa
cattedrale: dalla maestosa Banca d'Inghilterra ai templi greci della Federal
Reserve statunitense, alla massiccia modernità del complesso della
Bundesbank, fino ad arrivare all'inevitabile umbertino della Banca d'Italia.
La Nihon Ginko giapponese è ospitata in un edificio tanto solido quanto
irrilevante, posto in una strada secondaria; e questa è cosa consona, dato che
fino a poco tempo fa faceva la "servetta" al potente Okurasho, il Ministero
del Tesoro, proprio come la Banca di Francia era schiava del Ministero delle
Finanze. In quanto schiave, entrambe queste banche erano soggette alle
influenze corruttrici - possiamo dirlo? - delle decisioni politiche, benché, a
dire il vero, entrambi i ministeri sono sempre stati delle roccaforti elitarie e
ultra conservatrici, poco esposte alle "stravaganze" della democrazia.
Una semplice e definitiva prova della supremazia dottrinale delle banche
centrali può essere ritrovata nel fatto che qualsiasi iniziativa politica
marchiata come "inflazionistica" è in genere rifiutata e gettata alle ortiche.
Per contrasto, il termine "recessionistico" non ha alcuna risonanza: è usato
essenzialmente come espressione tecnica e non come potente condanna di
politiche fiscali e monetarie super-restrittive che strangolano la crescita e
che, negli anni trenta, furono la causa della Grande Depressione, del caos
politico, della dittatura e della guerra. Dobbiamo prima di tutto pensare che
l'inflazione colpisce il denaro, ossia uno strumento, mentre la recessione ha
un impatto immediato sulla popolazione, negandole la possibilità di lavorare
e di guadagnare e quindi acquistare beni e servizi, che a loro volta
permetterebbero ad altre persone di lavorare e guadagnare.
E, come tutte le religioni, anche il culto della banca centrale richiede dei
sacrifici ai suoi adepti. A confronto i Cattolici, gli Ebrei e persino i
Musulmani hanno vita semplice: il culto della banca centrale è più simile
alla fede Azteca, che richiedeva i sacrifici umani! Al punto in cui siamo
arrivati oggi, non abbiamo ancora visto Hans Tietmayer o qualsiasi altro
banchiere europeo scalare le piramidi per strappare il palpitante cuore di
giovanetti e di vergini con un coltello di ossidiana, ma possiamo stare sicuri
che nessuno di loro esita quando si tratta di imporre livelli di disoccupazione
che, anno dopo anno, privano milioni di giovani della possibilità anche solo
di iniziare una carriera nel mondo del lavoro.
Ma come è potuto succedere tutto questo? In che modo i dipendenti di
un'istituzione pubblica tra molte altre hanno assunto una tale posizione di
"santità", divenendo in vari modi più potenti dei Primi Ministri e dei
Presidenti?
Una spiegazione semplice per l'avvento del culto della banca centrale quale
saggezza prevalente del nostro tempo è di carattere istituzionale: mentre il
valore del denaro viene protetto con fiera determinazione dalle banche
centrali, l'industria e il lavoro non possono contare su tali strenui difensori,
ma solo su Governi e Parlamenti, grandemente inibiti dalle minacce dei
banchieri. È una reazione chiaramente meccanica, ma anche circolare, che
ovviamente fa sorgere una domanda. E forse per questo c'è una spiegazione
politica diretta: in quest'era post-socialista, il Diritto, ovunque, è ancora
risoluto nella sua obbedienza a chi vive di rendita perché possiede dei titoli
(il quale, ovviamente, si oppone all'inflazione con tutte le sue forze) mentre
la Sinistra, già logorata intellettualmente, è stanca di lamentarsi della
disoccupazione e ... francamente, si è ormai annoiata dei "poveri".
In assenza di qualsiasi contrappeso intellettuale al fenomeno delle banche
centrali, una vittoria elettorale della Sinistra può solo portare a politiche
destrorse, in parte messe in atto da ex socialisti senza nessun talento, né
alcuna affinità naturale per il commercio e la finanza. Così è stato in Francia
sotto Mitterand e così è in Italia, dopo la vittoria dell'ex Partito Comunista,
ora rietichettato PDS, ovvero "Partito Democratico della Sinistra". Il PDS,
come ben lo rappresenta il suo Ministro di punta, il giovanile, alla moda e
"sempreverde" Walter Veltroni, molto più a casa sua in Madison Avenue
che non nei bassifondi del Sud, sta usando tutto il suo potere per sostenere il
Governo di coalizione di Romano Prodi, interamente votato al culto della
banca centrale. Il suo derogatorio scopo non è quello di ridurre la
disoccupazione in Italia (che è arrivata a livelli tremendi nella maggior parte
del sud del Paese), di rimodernare le scuole che cadono a pezzi e le
università antiquate secondo principi di modernità, di dotare l'Italia di un
sistema sanitario adeguato, di elevare la burocrazia governativa agli
standard del resto dell'Europa, ma bensì quello di portare il suo Paese
nell'Unione Monetaria: è l'apoteosi della forma tutta europea - e
particolarmente virulenta - di sindrome della banca centrale.
I criteri di Maastricht sono letteralmente "aspersi", "infarciti" e "bolliti" nel
culto della banca centrale. Per essere ammessi a far parte dell'Unione, gli
Stati, per il 1997, l'anno dell'"esame" statistico, devono presentare un deficit
di bilancio inferiore al 3 % del PIL (perfino la Germania si trova al
momento al 4,1 %), un tasso di inflazione non oltre l'1,5 % rispetto ai tre
aspiranti che hanno "peccato" di meno (perfino l'Italia può farlo), devono
dimostrare dei tassi di interesse a lungo termine (una misura della stima di
mercato dell'inflazione futura) non oltre il 2 % di quelli dei tre aspiranti "più
virtuosi", non devono essere macchiati della colpa di aver operato
svalutazioni dopo il 1995 e infine, criterio più difficile di tutti, il debito
pubblico non deve superare il 60 % del PIL, una condizione che per ora
possono soddisfare solo la Francia e la Danimarca. Per l'Olanda, (78 %), per
la Spagna (79,8 %) e per il Portogallo (70,7 %), a parte la Germania (62,4
%), la percentuale ammessa di debito rispetto al PIL è sicuramente
raggiungibile entro il 1997. Tutto ciò che serve per raggiungerla è una
buona dose di tasse, per liquidare i detentori di titoli a casa e all'estero. ...
Questo deprimerà ulteriormente la domanda, la produzione e l'occupazione,
ma i nuovi disoccupati saranno in buona compagnia!
Nessuna indipendenza comunque può essere tanto magnifica e assoluta
quanto quella della Banca Centrale Europea in sé stessa: non potrà ricevere
istruzioni né dai Paesi membri, né da qualsiasi istituzione dell'Unione
Europea. Sarà questo lo status di sovranità che caratterizzerà tale istituzione,
che sarà retta da un grande banchiere scelto tra i vari esponenti delle banche
centrali reclutati e addestrati dai propri predecessori tra persone "della stessa
risma" e che assumerà il controllo totale ed esclusivo della politica
monetaria di tutti i Paesi membri dall'inizio dell'Unione, il 1 gennaio 1999.
Libera da qualsiasi interferenza democratica, la Banca Centrale Europea
avrà libertà per interferire a suo piacimento in qualsiasi cosa abbia a che fare
con il denaro in tutti i Paesi membri.
Ciò che invece è molto meno divertente è il fatto che sotto il dominio della
Banca Centrale Europea l'Euro sarà sicuramente amministrato come la
Sterlina negli anni venti piuttosto che come il Dollaro a partire dal 1974,
cioè come la valuta più forte tra le più forti, mantenuta tale dalla più crudele
e persistente recessione. Quale esito per tutte le speranze che l'unità europea
un tempo evocava! Con le economie dell'Europa Occidentale in stallo a
causa di una cronica fiacchezza della domanda, con i russi che mancano di
tutto (a parte le armi nucleari), dagli strumenti chirurgici degli ospedali ai
riscaldamenti delle case, e con gli altri Stati ex sovietici ancora più
malmessi, i generosi mazzetti di Euro spediti all'Est avranno un ritorno
immediato nell'occupazione di milioni di persone nell'Europa Occidentale,
rilanciando gli investimenti e la crescita, generando nuove brillanti speranze
nella depressa gioventù, così come, sicuramente, un po' di inflazione. ...
Quello sarebbe davvero un grande progetto, degno di un'Unione Europea
che si rispetti, e potrebbe addirittura evitare il mega disastro che può
facilmente accadere se un paio di cosette in Russia non vanno per il verso
giusto. Basterebbe solo che la Banca Centrale Europea fosse governata da
un consiglio di industriali e sindacalisti, senza che ai banchieri sia permesso
nemmeno di entrare nell'edificio, con a capo un contabile incaricato
solamente di tenere a bada l'iperinflazione, dando ogni tanto un colpo
d'arresto al turbinio delle presse che stampano gli Euro.
Da come siamo messi, naturalmente, qualsiasi vero aiuto dagli "Altri
Europei" è escluso. Questi, come gli Stati Uniti e tutti gli altri Paesi che
esportano verso le nazioni dell'Unione Monetaria Europea, saranno
danneggiati solo incidentalmente dalla cieca avanzata verso la valle della
recessione da moneta forte. Ciò potrebbe significare una perdita
corrispondente ad un terzo della crescita degli Stati Uniti. Ma per lo meno la
Banca Centrale Europea dovrebbe essere in grado di risparmiare sulle
paghe. Certamente non c'è bisogno di assumere i sacerdoti più pagati delle
chiese centrali a dirigere la Banca Centrale Europea. Le politiche monetarie
che intende applicare sono così restrittive e meccaniche e l'ambito delle
decisioni è così ristretto che praticamente qualsiasi impiegato armato di una
calcolatrice tra le più economiche sarebbe in grado di svolgere quella
mansione!
Sciopero: volontà o rappresentazione?
Aldo Grasso Ammantato di una certa qual aura di solidarismo, ci sono momenti in cui lo
sciopero si presenta come una tensione inevitabile in cui il solo segno di
virtù è la pervicacia. Come il destino degli Stoici, gli scioperi guidano i
volenti e trascinano i nolenti. Li trascinano soprattutto nel malumore. Perché
c’è questo di paradossale: spesso la soddisfazione di una categoria sociale
ha come prezzo il malumore dell’intera comunità che vede violati alcuni
diritti elementari: spostarsi, muoversi, non patire ritardi, lavorare, godere di
uno spettacolo.
E’ successo che lo sciopero ha cambiato natura; o meglio: ha come
atrofizzato certe sue caratteristiche e ne ha sviluppate altre che gli
permettono adesso di apparire più come un mezzo di comunicazione che
non "la forma più elementare di lotta di classe", secondo la celebre
definizione di Trotskij. Lo sciopero si giustificava nel sistema storico di
produzione quale violenza organizzata in grado di strappare alla violenza
inversa del capitale una frazione di plusvalore, e di quel sistema ricopiava
anche le forme, le espressioni, i topoi. I luoghi canonici delle manifestazioni
di protesta erano infatti la fabbrica e la piazza. Adesso la piazza non esiste
più, è diventata virtuale, si è trasferita in video. Quanto alle fabbriche, sono
ormai entrate nell’archeologia industriale. Dove si va a manifestare?
Il verbo "scioperare" deriva dal latino parlato "operare", con l’aggiunta di un
"ex" negativo: non lavorare, astenersi dal lavoro. E’ una forma di protesta
antichissima che solo a partire dal secolo XIX ha perso le connotazioni
spregiative per essere accolta, nella sua accezione nobile, nell’art.40 della
Costituzione: "Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo
regolano". C’è una straordinaria pagina di Simon Weil in cui questo diritto è
descritto persino come fonte di luce: "Indipendentemente dalle
rivendicazioni, questo sciopero è in sé una gioia. Una gioia pura. Una gioia
integra".
Col tempo, lo sciopero si è scaltrito, è andato a scuola di strategie
comunicative: sciopero a catena, a scacchiera, a singhiozzo, a oltranza, a
sorpresa; sciopero bianco, selvaggio, generale, politico, articolato, furbo
(quando i network, per non perdere la pubblicità, trasmettono la partita
senza commento); sciopero di categoria, di solidarietà, della fame. Il vero
dramma, non solo lessicale, inizia quando lo sciopero passa ad indicare i
servizi fermati anziché le categorie dei lavoratori: sciopero dei trasporti,
dell’informazione, degli approvigionamenti.
Sagomandosi sui media, lo sciopero non vive più sulla moltitudine che
incrocia le braccia ma sulla confidenza che sa intrattenere con il mondo
della comunicazione: cento impiegati in mezzo a una piazza si perdono
nell’indifferenza; davanti alla sede di un telegiornale o di una TV ottengono
però qualche attenzione. Bloccare una strada o una ferrovia o i voli
costringe gli altri media a entrare in cortocircuito.
Proprio nelle più recenti forme di sciopero assistiamo a una curiosa
inversione. Mentre i sindacati tradizionali "manifestano" nei confronti di
questo decisivo strumento di lotta una forma di amore quasi arcaia ed
estetizzante (il film prodotto dai sindacati confederati su uno sciopero
generale è stato presentato nientemeno che alla Mostra del Cinema di
Venezia, quasi fosse "Sciopero" di Ejzenstejn), i nuovi scioperanti si
giovano invece di un’inedita scaltrezza rappresentativa. L’efficacia di
un’astensione non è più stabilita in base al numero dei partecipanti ma alla
potenza comunicativa che i partecipanti medesimi detengono in virtù
dell’occupazione che svolgono. Controllare il traffico aereo, in termini di
comunicazione, è come possedere una TV; chiudere le pompe di benzina è
come avere un giornale; fare il ricercatore universitario è come esprimersi
con un dazebao. Oggi il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi,
sì, ma della comunicazione. Tanto è vero che anche i "ricchi" oggi possono
scendere in piazza - sia pure scortati dalle guardie del corpo - senza provare
alcun imbarazzo classista.
Lo sciopero è il simulacro della lotta di classe e la sua efficacia la si misura
né nella volontà di lotta né nella classe ma nella rappresentazione. Per
questo, da strumento di solidarietà, rischia di diventare una nuova forma di
discriminazione: non a tutti i lavoratori è concessa la stessa telecamera.
Simboli e opinione pubblica
Renato Mannheimer Ogni giorno ricevo richieste di dati concernenti l’andamento della popolarità
di Antonio Di Pietro. Ancora stamattina, un giornalista mi chiede se
l’immagine di Di Pietro sia cambiata dopo il rifiuto di rispondere ai giudici
di Brescia. Questo incessare di richieste, probabilmente tutte motivate dalla
sincera convinzione che la popolarità sia un carattere soggetto a facili e
subitanei mutamenti, mi spingono a tentare di fornire qui alcune
precisazioni.

La popolarità presso il grande pubblico si conquista di solito quando si


compiono azioni che quest’ultimo si aspetta e gradisce. Nello sport è
relativamente facile sapere cosa il pubblico si aspetta. Si tratta, nella gran
parte dei casi, di compiere imprese che la gran parte di noi non saprebbe
fare, come battere un record, segnare molti gol, ecc. Se un uomo sportivo
compie ripetutamente azioni del genere, diviene molto popolare. In politica -
ma anche, se si vuole, nelle arti e, in una certa misura, nelle scienze - non è
così semplice capire cosa la gente si aspetta. Talvolta si cerca di saperlo
attraverso sondaggi o studi del genere. Talvolta lo si intuisce. Nel caso
specifico, Di Pietro è divenuto assai popolare perché ha compiuto una serie
di atti che simboleggiavano la rottura col passato e con la politica
tradizionale. Questa rottura era da diversi anni desiderata e richiesta dai
cittadini.
Molti studi hanno mostrato come, a partire grossomodo dalla metà degli
anni settanta (cioè circa venti anni fa), sia maturato un atteggiamento di
disaffezione - e talvolta di vera e propria ostilità - verso i partiti tradizionali
e una conseguente voglia di "nuovo" e di "diverso". Questo atteggiamento,
dapprima presente in settori limitati della popolazione, è andato via via
diffondendosi, sino a divenire uno degli elementi principali su cui oggi si
basa la scelta di partito.

Molti personaggi, politici e non, hanno in questi anni, "rappresentato" (o, in


certi casi, "cavalcato") questa disposizione crescente dell’opinione pubblica,
impersonando le vesti del "nuovo" e del "diverso" rispetto al passato.
La stessa "tangentopoli" è stata in un certo senso "resa possibile da questo
nuovo clima politico" (sono parole del procuratore Borrelli) e ne ha poi
ovviamente favorito lo sviluppo.
Di Pietro, dunque, in quanto simbolo di tangentopoli è stato il simbolo di
questa "voglia di nuovo" che da tempo era presente nell’elettorato. E lo è
tuttora. Per questo - per quello che rappresenta - è - a torto o a ragione -
l’uomo politico più popolare (e di gran lunga) del nostro paese.

La sua popolarità è dunque assai elevata non tanto (o, se si vuole, non solo)
per quello che ha fatto (né per come lo ha fatto), quanto per ciò che
rappresenta. Per questo la popolarità dell’ex magistrato difficilmente
diminuisce, almeno in questo periodo, e, naturalmente a meno che egli non
compia atti giudicati fortemente riprovevoli (tanto per dire, una rapina in
banca, lo stupro della gatta di casa, ecc.). Certo, l’opinione pubblica è assai
poco sensibile alle minute vicende giudiziarie dell’ex-magistrato e ai suoi
interrogatori. E ciò sia perché (contrariamente a quanto ritengono alcuni
commentatori) coloro che seguono giorno per giorno queste vicende sono,
tra il grande pubblico, relativamente pochi, sia perché vi è comunque, nella
gran parte degli estimatori dell’ex-magistrato, una radicata convinzione
della sua innocenza.

Veniamo dunque ai dati, così tanto richiesti. Secondo l’osservatorio della


popolarità che Ispo realizza tutti i mesi su di un campione di 4515 persone,
rappresentativo della popolazione italiana al di sopra dei 18 anni, Di Pietro
aveva raggiunto il massimo di popolarità nel settembre scorso, quando
poteva godere del consenso del 64% degli intervistati. Poi è cominciato un
lento declino: 51% ad ottobre, 50% a novembre, 47% a dicembre. Dunque,
malgrado l’ex-magistrato resti di gran lunga primo nella graduatoria della
popolarità degli uomini politici, il suo consenso popolare è calato davvero?
Sì e No. Sì, come mostrano le cifre. Ma il declino si inquadra in un più
generale calo di popolarità che ha investito molti uomini politici, legati in
qualche modo al governo e il trend negativo di Di Pietro è solo di poco più
accentuato di vari altri. E, specialmente, l’andamento negativo si registra
anche per ciò che concerne la fiducia in diverse istituzioni, tra le quali la
magistratura. E nell’ultimo periodo - in dicembre in particolare - la
magistratura nel suo complesso ha perso PIU’ consensi di quanti ne abbia
persi Di Pietro.
Insomma, l’andamento della popolarità dell’ex-magistrato, in quanto
simbolo di contenuti che vanno al di là della sua persona, appare legato più
a trend di carattere generale (come la sfiducia crescente che caratterizza
questo periodo) che a ciò che lui stesso fa e dice in queste settimane.

Appare dunque poco utile inseguire i livelli di consenso per Di Pietro giorno
dopo giorno, ipotizzando che cambino a seguito dei diversi interrogatori
giudiziari. Sia poiché i cambiamenti sono minimi, sia, specialmente, poiché
è assai più interessante ed importante comprendere I MOTIVI della sua
popolarità. Anche perché se il suo successo corrisponde ancora oggi a una
diffusa "voglia di nuovo", e se è vero che sta maturando una sfiducia
crescente nell’elettorato, le implicazioni politiche e pratiche di questi
fenomeni, potrebbero essere, con o senza Di Pietro, veramente dirompenti.
Riflessioni sul Forum
Furio Colombo 1. Leggendo gli interventi in rete su Le Tribù giovani, noto che solo uno dei
partecipanti indica la sua età (62). Tutti gli altri? Speriamo che siano
giovani. Questo dato spiegherebbe un tipico errore di metodo proprio
dell’immaturità. Ad una osservazione di linguaggio e costume rispondono
accumulando fatti e ragioni, tipica reazione generazionale. "Non è un
processo, è una conversazione", rispondono in questo caso i padri di fronte
alle reazioni eccessivamente vivaci dei figli.

2. Nella maggior parte degli interventi c’è il curioso espediente di scacciare


la timidezza con l’ironia, a volte col sarcasmo. C’è anche il desiderio di
chiamare in causa la persona dell’autore, come se il personalizzare il
confronto facesse luce sull’argomento. Non fa nessuna luce. Che l’autore
viaggi o no in aereo (business class, precisano tutti) tra gli USA e l’Italia
non illumina l’argomento. Non si parlava di aviazione, turismo o carriera
del viaggiatore. Si parlava dell’età e dei suoi riti in due culture diverse.

3. L’autore, da mesi, non viaggia. Sta inchiodato a una sedia ribaltabile (nel
senso che il sedile si alza e si abbassa come al cinema) di Montecitorio dopo
essere stato eletto alla Camera dei Deputati, nella lista dell’Ulivo. Collegio 6
di Torino, il 21 aprile scorso.
Ma se viaggiasse quale sarebbe la differenza? Il gioco era proporre alcune
frasi per chiedere "vero o falso"? Nel caso si diceva che gli uomini italiani
fin quasi a quarant’anni chiamano se stessi "ragazzi". Mentre tutti i ragazzi
americani, anche a dodici anni, chiamano se stessi "uomini". Il gioco ora: è
vero? E se è vero, quale sarà la ragione di una così clamorosa differenza di
linguaggio. Se volete, il gioco continua.
Verdi, moderni o contemporanei
Carlo Bertelli Brevi appunti di fine d’anno. Nell’ultimo mese del 1996 fui molto
imbarazzato nel dover presentare un recentissimo libro di Renato Barilli,
dedicato a ciò che l’autore intende per moderno o per contemporaneo, e un
altro di una sua allieva, Anna Zanchi, che è un’agile monografia su Andrea
Appiani (1754-1813).
Fui sollevato dai due autori, che furono non dico loquaci, ma torrentizi. In
sintesi, Barilli estende le categorie di analisi formale di W” llflin (forma
chiusa contro forma aperta etc.) in un sistema aperto in cui moderno si
contrappone a contemporaneo. Lo schema è integrato dal metodo definito
come "il materialismo storico culturale o, meglio, tecnologico di Marshal
McLuhan e Marvin Harris".
Il contemporaneo si oppone al moderno in quanto quest’ultimo aveva
bisogno di certi strumenti rappresentazionali, come la prospettiva, di cui il
contemporaneo fa a meno in quanto obbedisce alle nuove logiche scaturite
dalla scoperta dell’elettromagnetismo, il quale avvicina i corpi sovvertendo
le norme generali di percezione dello spazio. L’elettromagnetismo fu
scoperto e perfezionato intorno al 1860-1870, ma ciò non toglie che potesse
essere presentito già da artisti di molte generazioni prima.
Purtroppo anche gli artisti "contemporanei" si rivelano a volte "moderni", in
una sindrome del tipo Dr. Jeckill e Mr. Hyde. Il gioco diventa così più
difficile e può generare infinite applicazioni, cui tutti sono invitati a
partecipare. Per esempio, chiedete ai vostri amici se portare la barba è
moderno o contemporaneo, se fare vacanze esotiche è contemporaneo o
moderno, quando la pelliccia ecologica è stata moderna e quando è divenuta
contemporanea.
Il secondo libro è un’apologia di Appiani come pittore contemporaneo.
Tanto contemporaneo da portare dritto dritto a Previati. Come diceva
Mefistofele a Faust: "Con questa pozione riconoscerai ogni femmina
Margherita".

La notizia che però mi sembra più sensazionale riguarda l’ultima


metamorfosi di Santa Claus, e anche qui mi trovo in bilico tra moderno e
contemporaneo. Inutile ricordare che "Santa" è Nicola di Bari, vescovo di
Mira, il cui corpo fu trasportato nella città pugliese nel medioevo. La sua
fama di distributore di regali riposa sull’aiuto da lui dato a tre bambine che
stavano per essere vendute e sul fatto che la sua festa cade nel momento più
opportuno.
Il santo vescovo rimane indisturbato, nonostante le crescenti incombenze
dello sviluppo consumistico, fino al 1931, quando la Coca Cola ordinò al
pittore svedese Haddon Sunblom di rifargli il look per una campagna
pubblicitaria. Credo che sia stato il più grande successo iconografico del
secolo. Nessun’altra creazione, compreso Micky Mouse, ha avuto un simile
compenso.
Ora, proprio in questi giorni, la 1a 14th Santa Claus And Call For World
Peace Activities, riunita a Demre, dove il vesvovo morì, ha stabilito che
Santa "deve" cambiare colore. Si vestirà di verde per rammentare a tutti la
necessità di mobilitarsi per salvare l’ambiente. A questo punto, mi sembra
che per restituire a Santa il contatto con la sua vera identità, occorrerà che
anche vescovi e cardinali adottino il verde.

Ultima annotazione. La Radio della Svizzera Italiana ha intervistato alcuni


storici dell’arte, me compreso, a proposito dell’uso di Michelangelo nella
pubblicità. Mi sembra che la pubblicità abbia la verifica più immediata nelle
leggi di mercato e che da tempo la sua comunicazione sia efficacemente
rivolta alla contaminazione. Non credo che Michelangelo diventi più merce
di quanto, per certi aspetti, già è , se lo si avvicina ad altra merce. Non credo
che si corrompano così le menti e gli occhi di quanti vorranno vedere
davvero Michelangelo. O toccarlo, come avviene in "Cinque passi di
distanza". Tutto ci dice che Michelangelo può resistere non meno bene di
Santa Claus. Forse perché non è né moderno né contemporaneo.
Miseria e nobiltà
Giovanna Grignaffini Il nobile nome di Maxi-Emendamento non riesce a cancellare l’ambiguità
con cui si presenta alle 8,45 nella nostra commissione dopo lunghi giorni e
notti di trattativa travagliata.
Anche l’aspetto è travagliato e porta tutti i segni delle battaglie che ha
dovuto sostenere per giungere fino a noi. Contiene di tutto e dispensa a
piene mani pace per tutti: proroga alle reti Mediaset poste fuori legge da una
sentenza della Corte Costituzionale, miliardi alla RAI, nuovi poteri alla
Commissione di Vigilanza, soldi e certezze per il sistema dell’editoria,
certezze e frequenze per il sistema radiofonico e televisivo locale. E tanti
altri doni che la rigida prosa dei commi non riesce interamente a celare.

Miseria della politica, tuonano a gran voce i portatori di opinione. Miseria


della politica ripete convinto ogni cittadino che della politica disprezza
ormai ogni azione.
Certo, miseria della politica: lo sappiamo anche noi che viviamo assediati da
interessi e domande private che non sanno farsi generali. Oltre che da regole
e procedure che producono ad ogni istante l’identico stallo.
Ma cominciamo anche a sapere che è proprio da lì che muove la politica: da
quello stallo e da quella miseria in cui ci dibattiamo oggi tutti e sulla cui
superficie compatta si tratta di aprire quelle fessure in grado di lasciar
intravedere il cambiamento e renderlo possibile: per il momento è tutto qui
lo spazio d’azione concesso oggi alla politica da un paese che diffida di lei e
che non vuole affatto cambiare.
Ed è proprio lungo questo stretto e oscuro corridoio di paura che si muove il
volto nobile del Maxi-Emendamento in questione: concedere senza donare,
sanare antiche ferite senza dispensare elisir di lunga vita, dare movimento a
un quadro senza produrre smottamenti, rendere possibile, desiderabile oltre
che necessario, il cambiamento.
Verrà la riforma e avrà ancora gli occhi spalancati e protesi di questa lunga
traversata.
Miseria e nobiltà della politica e di tutti noi che, alle 8,45 di un giorno
qualunque, come ad ogni istante, siamo chiamati ad agire nel suo nome.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

Per motivi del tutto casuali, l’argomento è calcistico (che, per un


Autogolem, non sarà neanche una stranezza). Rima monca al 1.; avverbio un
po’ fesso, ma esistente, al 6.; clamorosa coincidenza lessicale fra l’8. e il
10.; termine di gergo al 9. . I due omaggi a Paolo Conte (3. e 9.) non erano
previsti, ma tanto di guadagnato: Bartali è sempre alla ribalta.

DERBY A SAN SIRO

1. IN VANTAGGIO GLI UNI

Il pallone arriva a Winter,


nerazzurro e grande sprinter.
Che gran gioco, che gran finte:
sembra l’Ajax, xx x x’Xxxxx.

2. PAREGGIANO GLI ALTRI

Non c’è sosta, non c’è qiuete:


non si gioca a "viva il prete"
(le tribune son complete).
Ecco tira il Xxxxx: xxxx.

3. DEBOLI SCUSE DI PORTIERE

Con lui gli altri ormai s’adiran,


che le palle assai gli giran.
Le omonime lo aggiran:
non le para, mai (sospiran).
"Colpa mia se bene miran?
Mi dispiace, xx xx xxxxx...".

4. QUEL TERZINO E’ UNO SCARPONE

"Signor arbitro, è una iena


io non sto facendo scena.
Ha la cifra sulla schiena
e stia certo:xx xxx xxxx".

5. VANTERIA DI VIRTUOSO SULLE FASCE

Io conosco la mia parte.


Quando il libero riparte
io mi smarco là in disparte
e ti mostro le mie carte:
è del calcio xx xx x’xxxx.

6. GIOCATORE BURLONE

Lui diverte assai la gente


con l’azione travolgente.
Ha ironia, questo si sente
gioca allegro, xxxxxxxxx.

7. SCHEMA D’ATTACCO

Tu dal centrocampo sali


e t’accentri, xxxxxx xxx
e mezzali con centrali
copron fasce laterali.

8. STIAMO PER TORNARE A CASA

Xx xxxxxxx manca poco


e scomparso è omai il bel gioco.
Non c’è verve, non c’è più fuoco:
butta pur la pasta, cuoco!

9. ZAZZARAZZAZ

Siamo giunti ormai alla fine


dei due tempi, xxx "xxxxxx"
e palle perse a dozzine.
Era meglio andare al cine.

10. CRONISTA IN REDAZIONE

"Un rigore plateale!"


"Una marcia trionfale!"
Questo derby passionale
con la prosa mia impariale
io riassumo mica male
e ci fo l’editoriale.
Son già qui, al mio giornale,
e lavoro al xxxxxxxxx.

SOLUZIONI

1. ma è l’Inter
2. Milan: rete
3. me le tiran
4. il tre mena
5. in me l’arte
6. ilarmente
7. mentre ali
8. al termine
9. tra "meline" (la "melina) è il loffio titìc e titòc a cui a fine partita si
abbandona, a centrocampo, la squadra in vantaggio o comunque
desiderosa di giungere al termine della partita senza rischiare di
subire danni. Essendo la "mela" il pallone, secondo antica metafora,
"melina" significa "piccola mela", e ad alcuni farà perciò venire in
mente una canzone di Francesco De Gregori. In tale canzone ogni
verso veniva ripetuto due volte: "metto in tasca una piccola mela:
metto in tasca una piccola mela"; "la figlia del dottore sa cantare: la
figlia del dottore sa cantare"; e così via, come se il cantautore si
rivolgesse pazientemente a un sordastro).
10. terminale
Musica
Roberto Caselli Prima era il nulla, poi furono i Beatles.
Il trono che il rock’n’roll si è conquistato in paradiso, così come le mille
elaborazioni che si sono succedute musicalmente in questi ultimi trent’anni
sono gran parte conseguenza della loro comparsa in scena, avvenuta in quel
lontano ottobre del 1962. A ventisei anni dallo scioglimento ufficiale del
gruppo, il fenomeno Beatles presenta ancora oggi aspetti sociologici
irrisolti, non è infatti chiaro se tanto entusiasmo, tuttora dimostrato nei loro
confronti, sia il frutto di un capolavoro di marketing o di un effettivo
coinvolgimento intergenerazionale dovuto al richiamo di chissà quale
inconscio collettivo. Fatto è che i CD dei Beatles resistono da sempre a
prezzo pieno nei negozi e vantano comunque un profitto di vendita più che
soddisfacente, nonostante il loro ultimo album, Let it be, risalga al 1970.
Recentemente si è poi assistito ad una vera e propria corsa al cimelio. Oltre
alla riedizione di due antologie, costituite da doppi CD, che raccolgono quel
materiale selezionato ai tempi nei cosiddetti album rosso e blu, due anni fa
hanno visto la luce le registrazioni live fatte alla BBC durante i loro primi
anni di carriera. Ma il vero colpo di genio della casa discografica è stato poi
quello di annunciare l’edizione di tre ulteriori album doppi che avrebbero
inserito ben centocinqanta pezzi ripresi da prove, takes alternative e
artificiose ricostruzioni, la più famosa delle quali è rappresentata da Free As
A Bird, un vecchio pezzo di Lennon, miracolosamente reinciso postumo con
la partecipazione dei restanti tre Beatles.
Usciti questi ultimi lavori, l’ultimo dei quali il mese scorso, e visto che il
business Beatles macina ancora denaro a palate, dal mondo audio si è
passati a quello video. L’annuncio è sensazionale, un’Anthology Video
formata da otto videocassette, vendibili anche separatamente, è disponibile
in tutti i negozi. Verrà rivisitata la carriera dei Beatles dalla loro formazione
allo scioglimento, otto anni di musica, interviste e trasgressione che il road
manager Neil Aspinall, con l’aiuto del regista Chips Chipperfield, ha
confezionato cucendo tra di loro una montagna disordinata di filmati.
La macchina Beatles, come si vede, procede anche senza autisti. Non c’è
alcun dubbio che i rimanenti baronetti guadagnino più di diritti che non di
nuovi dischi; dal canto suo la casa discografica ha trovato i tempi e i modi
giusti per evitare un possibile oblio.
Con poco più di mezzo milione si possono acquistare gli ultimi quattro CD
doppi usciti e l’intera collezione video. Troppo caro? Vedete voi, è Natale.
Libere associazioni
Rossana Di Fazio Quando un film mi ispira o mi incuriosisce non voglio leggere niente che lo
riguardi prima di averlo visto.
Così sono andata a vedere Crash (Cronenberg) sforzandomi di non saperne
niente. Penso che sia un film perfettamente riuscito (regia, fotografia, attori,
colonna sonora...). Solo, mi è sembrato di essere andata all'inferno e la
sensazione ha pesato su di me per qualche giorno. Poi mi è scivolato via
tutto, l'odore di bruciato e la sensazione di aver subito un torto.
Questo fatto mi interessa. Giustifica, mi sembra, un sentimento di fastidio e
anche di noia che ho provato nel secondo tempo, di fronte ai primi piani
delle cicatrici, all'apoteosi delle protesi, alla ripetizione compulsiva di inutili
amplessi. Ho provato un profondo senso di ingiustizia di fronte alla
desolazione di un’aria spessa e odorosa di organi e secrezioni metalliche e
umane.
Qualcuno in platea, per difendersi da tanta tristezza, raccoglieva ogni
occasione per volgere in ridicolo brani di dialogo, per sopravvivere alle
conseguenze estenuanti di premesse che si verificano all'infinito. A questo
incubo non serviva una storia. Forse la forma del racconto, inteso come
evoluzione e sviluppo, non è adatta agli incubi; la sola catarsi dell’incubo è
il risveglio.
Molti osservatori hanno sostenuto contro la censura l’idea che la letteratura
(e il cinema) riflettono o amplificano aspetti barbari e malati che
appartengono al mondo prima che alla letteratura. Non mi sembra un buon
argomento. La letteratura (e il cinema, ma forse potremmo dire la
narrazione, perché anche l’informazione non è estranea da questo effetto)
genera realtà. Questa produzione di realtà porta con sé una questione etica
che i censori non conoscono e i libertari, giustamente occupati a contrastare
ogni forma di censura, preferiscono non riconoscere come problema.
Divisa fra le cronache di realtà insostenibili, la loro sublimazione artistica e
il rovescio di tutto questo (le macchine sentimentali di Hollywood sempre
più indistinguibili dall’immaginario pubblicitario) riconosco a me stessa un
grande bisogno di vera commedia o, potrei dire, di musica.
Ho notato infatti che in alcuni film che considero vere commedie la musica
è regina. Grace of My Heart (Allison Anders), Shine (Scott Hicks) sono film
molto diversi fra loro, ma il valore di gesti minuti, delle intonazioni della
voce (perdute irrimediabilmente nel doppiaggio), il senso di un racconto che
evolve: tutto questo viene tenuto insieme dalla Musica, che pure gioca un
ruolo diverso in tutti e due i film.
La Musica è un modo di parlare del Tempo, lo descrive e lo qualifica
agganciandolo a una storia individuale, di gruppo, di umane dimensioni.
Non importa che sia o no una musica sublime o originale: la musica
leggerissima di Grace of My Heart all’inizio del film è ai limiti della
stupidità, ma questa misura discreta in una buona commedia diventa degna
di essere raccontata. Il titolo è molto eloquente: grazia è una parola fuori
moda che ben si addice al carattere effimero e immateriale della voce. Alla
fine di Shine io non posso giudicare se l'esecuzione di David sia sublime o
soltanto decente: quello che conta è che lui è ancora lì a suonare. David fa
un bel gesto: si copre il volto con le mani, per il pudore di non mostrare la
sua grande contentezza e commozione. In questo mostrare e nascondere
vedo uno dei segreti della vera commedia e credo che sia davvero difficile
mantenere la misura di questo equilibrio senza diventare finti, sentimentali o
decisamente comici.
In una buona commedia c’è posto per tutto e non si rischia il ridicolo
involontario perché si sa sorridere.
Una buona commedia produce un senso denso e lieve dell’esistenza, che
permane nell’esperienza di chi ha la fortuna di vederla e contrasta i colpi di
durissima realtà che da ogni parte ci minacciano. Una buona commedia è
una cosa difficilissima che ha tante sfaccettature e che invece sembra
semplice.

Buon Natale a tutti (e felice anno nuovo...)

Vedi Anche:

cinema.it
Fumetti
a cura di Comix

Una storia di Cinzia Leone

Altan
Un Capodanno digitale
Giulio Blasi Mentre auguro ai surfisti di Internet di respingere la loro tendenza all’onanismo
telematico la notte di Capodanno, voglio abbandonarmi a un esperimento futile per
questo ultimo Golem del 1996. E domandarmi cosa accadrà di speciale la notte del 31
dicembre 1996 su Internet.

In TV, al telefono, alla radio, al cinema, sulla stampa, immaginiamo già - con
ragionevole approssimazione - cosa ci attende nei giorni di festa. Su Internet la cosa è
decisamente più dubbia. Cosa offriranno i 500.000 web server sparsi per il mondo? Di
cosa andrà in cerca il 31 dicembre quella massa di 35-50 milioni di utenti di ogni paese
del mondo oggi connessi alla rete? Di cosa si discuterà nei newsgroup meno tecnici ?
Quali siti saranno preferiti dagli internettisti nei giorni di vacanza? Cosa faranno su
Internet per Capodanno le nostre maggiori emittenti nazionali (RAI, Mediaset, TMC,
Telepiù)?

Le domande di questo genere (tra la demenza e il marketing) potrebbero moltiplicarsi.

Ora, sta di fatto che io non ho la minima idea di cosa rispondere ad alcuna di queste
domande. Ma potrei suggerirvi cosa farei io (tra il 31 dicembre e il 1 gennaio) se proprio
volessi togliermi alcune di queste curiosità.

Comincerei ad esempio a guardare quali sono stati i siti più visitati su Yahoo. Yahoo è
un servizio visitato da milioni di utenti al giorno e il dato è senz’altro significativo.

Passerei poi in rassegna i principali motori di ricerca, incerto sulla stringa di testo da
cercare ma certamente a partire dall’ovvio "New Year’s Eve", nella lingua della
maggiore etnia telematica (ma potete poi continuare con "Capodanno 1997" o
quant’altro verrà in mente a voi):

Altavista

Yahoo
Webcrawler

Hotbot

Il data base di immagini di Image Surfer

Infoseek

Excite

Andrei poi immediatamente a consultare i newsgroup italiani e non dedicati a temi non
troppo tecnici. Per chi non possiede un "news reader" (il software che serve a leggere le
bacheche elettroniche di Usenet) il solito Altavista farà una ricerca per voi
rimandandovi tutti i messaggi contenenti la stringa "new year’s eve".

Ma la mia vera curiosità (che temo di voler evitare di soddisfare) sarebbe quella di
incontrare gli alieni telematici connessi alla rete il giorno di capodanno per fare chatting
in tempo reale su IRC o su altri sistemi. Se non avete il software adatto potete scaricarlo
da qui. Se non ne avete voglia potete tentare di fare chatting attraverso il web con il
vostro solito browser: ad esempio collegandovi al Club di Italia OnLine o (per i palati
più cyberpunk) al sito di Wired che però richiede un browser Java-compatibile (se non
sapete cosa sia Java rileggete Golem 02).

Nella sua indubitabile demenzialità questo surfing di fine anno pone un problema
interessante: Internet è (o no) un mezzo di comunicazione abbastanza importante da
indurre i fornitori di servizi a considerare le feste di Natale un segmento di palinsesto
autonomo e bisognoso di contenuti specifici? Io personalmente ne dubito, ma non si può
mai dire.

Vorrei infine lanciare un invito ai lettori di Golem che, nonostante i nostri tentativi di
dissuasione, si trovassero a navigare in queste zone tra il 31 dicembre 1996 e il 1
gennaio 1997: mandateci un email per convincerci dell’esistenza (o dell’inesistenza...)
di un pubblico di Internet simile a quello della televisione, della radio, del cinema, della
stampa, della pay tv via satellite o via cavo. Un pubblico in cerca di intrattenimento
natalizio e post-natalizio sui media, ma questa volta "on demand", con il mouse al posto
del telecomando.

Quale '97?
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Carosello 1957 - 1977


Non è vero che tutto fa brodo

Milano, 5/12/1996 - 26/1/1997, ore 10.00 - 20.00 (lunedì


chiuso)
Triennale di Milano, Palazzo dell’Arte, viale Alemagna 6, tel.
02/724341

La mostra è curata da Marco Giusti e l’allestimento è di


Pierluigi Cerri.
Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:

Umberto Eco, Gianni Riotta, Moni Ovadia, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio, Renato Mannheimer, Giulio
Blasi, Antonio Martino, Carlo Bertelli, Edward Luttwak, Giulio Sapelli, Furio Colombo, Roberto Caselli, Marco
Giusti, Giovanna Grignaffini, Aldo Grasso, Comix, Altan

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo Italia Online


Home Page Home Page Home Page
Golem 06 esce un mese dopo il numero precedente. Abbiamo preso una cadenza mensile segmentata da
iniziative e interventi particolari; così è stato per il sondaggio sulle elezioni americane e il dibattito che ne è
seguito, e per altri avvenimenti che intendiamo seguire e discutere in diretta.
Modelli di vita, il futuro delle telecomunicazioni, la fame nel mondo, il Parlamento come videogioco, storia
delle immagini, giochi di parole: questi sono alcuni degli argomenti che affrontiamo in questo numero.
Furio Colombo fa un interessante confronto fra USA e Italia: là vince il modello lessicale uomo/donna anche
per gli adolescenti, da noi invece si afferma sempre più il modello del ragazzo a vita (senza casa propria, senza
lavoro, senza legami).
Con Elserino Piol iniziamo una serie di interviste a opinion leader sul futuro delle telecomunicazioni in Italia.
Ci piacerebbe che anche voi utenti, consumatori e protagonisti diciate la vostra.
Giovanna Grignaffini ci presenta un Parlamento come scenario di un videogame; forse è più un’Astronave a
distanza della terra , una specie di palla di cristallo che la riflette; il senso delle azioni c’è, ma non si vede.
Vittorio Gregotti apre un dibattito sulla necessità di una politica culturale che si occupi dell’Architettura.
Progetto della città, valorizzazione delle risorse nazionali, insegnamento: l’architettura non deve essere per il
governo solo una gestione di appalti edilizi da moralizzare. Non è un problema tecnico, ma di qualità (globale).
E’ una faccenda molto seria sulla quale si misura anche il senso di progetto che un governo osa sul territorio e
sul suo sviluppo.
Carlo Bertelli e l’uovo di Orvieto. Bellissima novità per gli appassionati della storia delle immagini e dei loro
segreti, dove si dimostra che cercare il senso porta sempre sorprese e mostra la complessità dei pittori della
nostra storia più prestigiosa (quella del rinascimento).
Film e romanzi come giochi: è il suggerimento di Umberto Eco. Aspettiamo da tutti i nostri lettori ( che ormai
sono tantissimi, quasi quattromila al giorno) proposte e provocazioni.

Buon divertimento.
Le tribù giovani
Furio Colombo "Sono un ragazzo di 32 anni", dice al telefono l’interlocutore di una delle
tante trasmissioni radiofoniche che intrattengono rapporti col pubblico.
Noto la parola che riemerge martellante, con frequenza. "Sono un ragazzo"
anche quando chi parla ha superato da un pezzo la maggiore età ed è persino
oltre la soglia del servizio militare e della laurea.
Ma è la prima volta che sento la autodefinizione di "ragazzo" per qualcuno
di più di trent’anni.
Eppure ascoltando la telefonata ho dovuto rendermi conto del realismo della
frase. Non era un lamento. Era una descrizione di vita. Abitazione, presso i
genitori. Vita sentimentale: senza impegni. Lavoro: precario, svolto
comunque senza passione e senza attenzione, come il proseguimento della
scuola. Punti di attenzione e di fuoco sulla vita: la musica, ovvero le canzoni.
L’ospite di turno del programma di cui sto parlando era un cantautore. Di
quel cantautore il nostro "ragazzo di 32 anni" sapeva tutto, parole, musica,
concerti, cambiamenti di stile, affinità con cantautori stranieri, eventi del
mixaggio o studi di registrazione.
Il trentaduenne ha definito, in questo modo, una nuova categoria sociale,
quella del ragazzo a vita. O almeno per una lunga parte della vita.
Quella categoria esiste.

E’ più di una categoria, è uno stato della vita che si può definire così: il
treno della vita sociale è fermo. Se posso colorire un po’ la metafora, dirò
che è fermo fuori stazione., in un territorio senza segni particolari,
sconosciuto e irriconoscibile. Nei vagoni di testa, più comodi e arredati ma
altrettanto immobili, sono accomodati gli anziani, protagonisti di vite lunghe
e uguali nelle quali non accade più niente.
Fra le cose che non accadono c’è il fatto che nessuno scende dal treno.
Perché dovrebbe farlo visto che non siamo arrivati in stazione? Però, se
nessuno scende , nessuno sale, nei vagoni di testa. E gli altri vagoni restano
gremiti di "ragazzi" liberi da vere responsabilità, la casa, la famiglia, i figli,
il lavoro.
Voi direte: perché la famiglia, visto che al cuore non si comanda e certo non
lo comandano i ragazzi?
Perché, io credo, se tutto il resto diventa precario o la vita si trasforma in un
campeggio, anche la famiglia diventa più passatempo che impegno. E, se
possibile, senza impegni e senza figli. Che sia questa una delle cause della
denatalità di cui tanto discutiamo?
E’ probabile che "il ragazzo" di 32 anni tuttora occupato con la conoscenza
in dettaglio delle canzoni, sia poco incline a diventare padre. Se lo è
diventato, sarà probabilmente un simpatico amico più che un modello di
vita. Quale vita? Però non posso fare a meno di notare un clamoroso
contrasto linguistico, e mi domando se è solo linguistico. Sto pensando agli
Stati Uniti, Paese a cui tanto spesso ci riferiamo per confrontare, anticipare,
capire, ammirare, condannare.
Bene, negli USA da più di dieci anni, si è diffusa, in modo universale e
senza eccezione, l’abitudine di dire "uomo" tutte le volte che si diceva
"ragazzo". Tanto che la tipica espressione di meraviglia "oh boy" è diventata
senza eccezioni "oh man", e l’intercalare "man" ("listen man", "I tell you,
man") è diventato di uso esclusivo anche tra i bambini.
Allo stesso modo non chiedete mai alle giovanissime alunne di una prima
media "quante ragazzine (young girls) ci sono in classe?". La risposta sarà
"women", "donne", perché così le adolescenti chiamano se stesse negli
USA. E non azzardatevi a usare termini diversi da "uomini" e "donne" con
una classe universitaria. Apparireste ridicoli.
Serve come spiegazione di questa straordinaria e vistosa differenza di parole
la questione lavoro?
Serve (dieci milioni di posti di lavoro creati in quattro anni negli Stati
Uniti), ma non spiega tutto.
Perché il nuovo lavoro americano è quasi sempre precario e tipicamente
"giovane" e il più delle volte è un "posto", non una "carriera".
Forse fa luce il distacco irreversibile della famiglia. I piccoli delle tribù
americane lo sentono prossimo e inevitabile persino quando vivono ancora
in casa. Continuare a vivere in casa invece sembra essere il dato tipico della
lunga giovinezza italiana.
E’ questo il punto?
Perché non chiediamo ai "ragazzi" sopra i 32 anni di dirlo a Golem?

Forum: Giovani, carini e disoccupati


Oylem Goylem
di Moni Ovadia

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Giochi di società
Umberto Eco Questi giochi sono stati fatti nottetempo (e in gran parte per fax) tra me,
Roberto Benigni (che non smonta mai di servizio), Gianni Coscia, Stefano
Eco, Costantino Marmo e Danco Singer, con un intervento singolo ma
mirabile di Francesco Guccini, e un provocatorio rilancio di Stefano
Bartezzaghi. Le paternità o maternità rimangono imprecise perché poi
ciascuno ha tentato di migliorare o peggiorare i giochi degli altri.

Si attendono nuovi contributi dai surfers di Golem. L'esercizio consiste nel


dare una definizione che sia soddisfatta dal titolo di un film o di un
romanzo, in cui sia stata sostituita o eliminata una lettera. E' accettata
qualche eccezione, quando la sostituzione sia di due lettere ma alla
pronuncia risulti di un solo fonema, ovvero quando la sostituzione di due
lettere produca lo stesso suono del titolo originale.

Film italiani. Essere un fan di "Ombre Rosse": Amar Ford. Bianchi e


Legnano: Padri di biciclette. Hegel: Metti una sera a Jena. Dini:
Profondo rospo. Polemiche sulla Marini: Giù la tetta! Cacciari: Forte a
Venezia. Clochard: Ultimo rango a Parigi (ma, crisi ortofrutticola in
Francia, Ultimo mango a Parigi). Fila di paparazzi: Processione reporter.
Felino stupido: Il gatto tardo. Scazzottata durante l'opera: I pugni in
Tosca. Figli di Tangentopoli: Padre ladrone. Passeggiatrici urbane: Serie
d'agosto. L'aperitivo dello psicoanalista: Ginger and Freud. Sciopero alla
Scala: Priva d'orchestra. Confiscati i beni alla P2: Poveri ma Gelli.

Film stranieri. Zazie dans le métro: La regina d'argot. Dopo sauna a


Bilbao: Massaggio a Nord Ovest. Mucche pazze: Apocalypse cow.
Indossatrice: Zero zero tette. Gli inamovibili: Ani di piombo. Fine
stagione: A qualcuno piace saldo. Il dottor Zivago: Guerra e dace. Bossi:
Ben Dur. Moli tempestosi: Brontë del porto.
Inciampa e cade nel letame in scuderia: Sfiga all'OK Corral. Muore colpito
al capo da un volume rilegato del Nuovo Testamento: Vangelo
sterminatore. Krizia/Missoni: La guerra del golf. Perugine comuniste:
Umbre rosse. Altri personaggi di Tangentopoli: Il Ladrino 1, Il Ladrino
2.... Ridondanze a Trieste: Bora!Bora!Bora! Scatolame: Il grande tonno.
Osservatorio tv: Il balcone Maltese. Inondazione: Rio pravo. Arabi
immigrati in Guascogna: Corano di Bergerac. Minimum tax: Un dollaro
d'onere.

Libri e varie. Fumatore di tabacco scuro: L'insostenibile leggerezza


dell'estere. Pestaggio neonazista: Sonata al chiaro di runa. Cosa cercare
per annullare un matrimonio: Il nome della Rota. Ripresa in piazza San
Pietro: La zumma teologica. Canto notturno di Rauti errante: La luna e i
Salò. Paramenti sacri: La gonna della domenica. Polemica coi pensatori
del Polo: Critica della ragion Pera. Agenti segreti all'Isola di San Giulio:
Sid d'Orta.

Emmanuelle: La ditina commedia. Indigestione di Calvino: Le


cosmicoliche. Miseria e nobiltà: Il barone campante. La semiotica in
lotteria: Grattato di semiotica generale. Indagine comunale a Palermo:
L'Orlando curioso. La principessa. e 7,777: Biancaneve e i sette noni.
Erba a casa Fitzgerald: Belli e cannati. Julka e sorella: Le veneri di
Gramsci. Carmen Moravia: La Llera delle vanità. Zardo: Quer
pasticciaccio brutto di via Merolana. Merola: De bello fallico.
L'antibagno: Il precesso. Ritratto dell'omosessuale da giovane: Pedalus.
Nani e ballerine: Vent'anni dolo. Il giorno dopo il Gran Premio in
Romagna: L'Imola del giorno prima. C'era una volta la rocca: E l'allume
fu. Spedizione Nobile al Polo: Sei personaggi in cerca di aurore. Viaggio
in Padania: Il Miglione. Critica del giudizio: Il terzo tomo.

Ancora Merola: La meta fisica. Bossi/Pivetti: Liti d'oggi. Attesa


dell'orgasmo: Aspettando godo. Casini e Mastella: El Ccd. Tuorlo
mediocre: L'uovo senza qualità. Silvio rivuole i soldi dati a suo fratello:
Paolo, il saldo! Leggere Rilke è facile: Easy Reiner. Non l'ha il daltonico:
La cognizione del colore. Baratto l'Eden : Il paradiso permuto.

Titoli originali. Omosessuale in cerca di esperienze sempre nuove: The gay


after. Enzo Siciliano: The catcher in the Rai. David Niven: Brow up.
Troppo alchermes nella torta: Le gateau ivre. Sono giunte le vettovaglie per
la Comune: L'arrivée du grain à la gare. L'ultimo romanzo di Eco: Les
vacances de Monsieur Ilôt. Il più grande scrittore di fantascienza? Maybe
Dick.

ALTRI SUGGERIMENTI

Scrivendo Lady Chatterley fu morso da cane infetto: Lawrence da rabbia.


Un secolo vissuto nel capoluogo friulano: Cent'anni di solita Udine.
Barthes: L'interpretazione dei segni. Bindi: Il nome della Rosy. Centro
addestramento rapaci: Dove usano le aquile. Carlo De Benedetti: Il cavo
estinto. Beppe Cottafavi (editore di "Comix"): Gulp fiction.

La polemica sull'aborto: Attrazione fetale. La banda dell'alta velocità: Full


metal racket. Telegrafico lagunare: Morse a Venezia. Ritirata strategica:
La strategia del bagno. Incesto: Gruppo di famiglia in un inferno.
Mistico in macelleria: Ecce lombo. Camelot: Il cielo sopra Merlino.
Romeo sotto il balcone: Quell'oscuro aggetto del desiderio. Minorenne
viziosa: Quella sporca zozzina.

In vacanza a Samo: Turista per vaso. Campagna contro AIDS: I tre giorni
del condom. La gatta sul tetto che scotta: Miao, maschio. Rivalità tra attori:
Lupi della ribalta. Crisi valutaria: Per qualche dollaro in giù. Aumento
tasse in Usa: Privaci ancora, Sam. Brindisi per vincita alla lotteria: Prendi
i soldi e stappa. Portavoce berlusconiano: Il tamburo di Letta. Vita del
dottor Gibaud: La pancera rosa. In attesa di Gesù: Indovina chi viene a
Cana. Staff chirurgico a Casablanca: Operiamo, che sia femmina. Mania
di acquistar gioielli: Coazione da Tiffany. Ufficiale giudiziario da Flaubert:
Pignora Bovary. Sogno di Berlusconi: Fotto gli ulivi.

Forum: Giochiamo in rete


Fame e democrazia
Paolo Palazzi Esiste un problema specifico di fame e di malnutrizione nel mondo?

La risposta sembra, ovviamente, sì: secondo i calcoli della Fao oggi ci sono
circa 800 milioni di persone malnutrite nel mondo, e secondo le proiezioni
al 2020, effettuate dall'International Food Policy Research Institute degli
Stati Uniti, la situazione dovrebbe complessivamente in media migliorare un
po’, mentre per l'Africa Sub-Sahariana è previsto un drammatico
peggioramento.

Il problema però non è così semplice: infatti la malnutrizione e la


sottonutrizione sono uno dei fenomeni caratteristici che individuano e
caratterizzano la povertà. Si potrebbe benissimo affermare, e molti lo fanno,
che il vero problema è la povertà dovuta alla mancanza di sviluppo
economico in molte aree del mondo che ha come sottoprodotto l'esistenza di
popolazione con livello di vita inferiore a quello che permette una
sussistenza sociale minima (una vita salubre e attiva). Secondo questo
approccio non esistono scorciatoie: il problema della malnutrizione è un
problema che va affrontato in termini di sviluppo economico e quindi può
essere sbagliato ed alle volte controproducente effettuare interventi parziali
e limitati al solo problema della malnutrizione.
A mio parere è invece utile e possibile isolare il problema della fame, della
sottonutrizione e malnutrizione da quelli più complessivi dello sviluppo
economico. Non perché siano indipendenti, ma perché lo studio di questi
fenomeni e delle politiche da adottare per alleviarli possono mettere in luce
delle caratteristiche importanti che possono essere utili anche per affrontare
il più ampio e complesso problema dello sviluppo economico.

Un esempio di quanto sto affermando si può trarre dal problema della


"sicurezza alimentare".

La sicurezza alimentare può essere definita come la possibilità di produrre o


acquistare cibo sufficiente per tutti in tutti i tempi.

Il problema è nella definizione dei tutti e in particolare della definizione del


livello di aggregazione al quale ci riferiamo. I tutti possono essere tutti i
paesi, tutte le regioni, tutti i villaggi, tutte le famiglie, sino a tutti gli
individui. La caratteristica della sicurezza alimentare è che, se essa esiste ad
un determinato livello, non c'è nessuna garanzia che esista al livello
inferiore.
E` evidente che anche se un paese complessivamente ha la possibilità di
produrre o acquistare tutto il cibo necessario alla popolazione, nulla
garantisce che tutti gli individui abbiano possibilità di accesso al cibo
necessario; ma un esempio limite è quello della famiglia. Esistono esempi
documentati di malnutrizione (di donne, bambini o anziani) in famiglie in
cui complessivamente la famiglia ha un livello di reddito che permetterebbe
una sicurezza alimentare a tutti i suoi componenti. Nel vertice della Fao la
discussione della sicurezza alimentare è effettuata dai governi ed il concetto
dominante di sicurezza alimentare è definito a livello di paese. I
provvedimenti di sostegno e aiuto sono riferiti ai singoli paesi con problemi
di sicurezza alimentare e l'obiettivo è quello di crearla o aumentarla a livello
di paese.

In realtà è ormai acquisito che nessun paese, per quanto disastrato, ha un


livello di reddito che non permetta complessivamente la sicurezza
alimentare. Il problema è quello della distribuzione delle risorse e quindi
della possibilità che livelli via via più bassi (regioni, provincie, villaggi,
famiglie e singoli individui) possano acquisire sicurezza alimentare.

Il passaggio dal problema della sicurezza alimentare dal livello di singolo


paese a quello di singolo individuo non è però indolore in quanto deve
investire l'analisi del rapporto fra bisogno dei cittadini e struttura di potere
dei paesi con problemi di malnutrizione. E` un argomento tabù in quanto
comporterebbe: 1) da parte dei paesi sviluppati smettere di aiutare governi e
istituzioni governative dei paesi sottosviluppati notoriamente corrotte che,
nella migliore delle ipotesi, sono indifferenti ai problemi della
sottonutrizione di gruppi di popolazione politicamente, socialmente ed
economicamente emarginate 2) da parte dei paesi sottosviluppati quello di
riconoscere le proprie responsabilità per la loro incapacità ad affrontare
problemi di base quali quelli della fame, smettendo di addebitarne le cause
esclusivamente a fenomeni naturali o di dipendenza internazionale.

Eppure le soluzioni almeno teoricamente potrebbero essere trovate proprio


affrontando questi due nodi: 1) i paesi "donatori" dovrebbero concentrare i
loro interventi direttamente verso quei gruppi che soffrono di
sottonutrizione, il livello al quale riferirsi dovrebbe essere quello nel quale
la sicurezza alimentare del gruppo garantisca la sicurezza alimentare di tutti
i componenti del gruppo stesso.Non ci sono regole precise ed immutabili,
questi gruppi potrebbero essere provincie, villaggi, organizzazioni non
governative locali o in alcuni casi i singoli individui; quello che è sicuro è
che più elevato è il livello di aggregazione, più è difficile che si verifichi
una distribuzione efficace degli interventi.

2) i paesi recipienti dovrebbero iniziare ad affrontare in modo deciso il


problema dell'assetto democratico delle loro istituzioni, dove per
democratico si vuole intendere almeno il diritto di partecipazione e di
gestione del potere anche di settori di popolazione generalmente emarginate.
Quindi problemi di democrazia politica, decentramento del potere e
partecipazione.

E` comune un detto fra molti economisti dello sviluppo: "La democrazia


non si mangia", è una frase ad effetto che è stata utilizzata per coprire le
malefatte, dal punto di vista dei diritti umani, di moltissimi paesi, sviluppati
o non. Ma, oltre ad essere una frase che offende i diritti umani è una frase
che porta ed ha portato a scelte che si sono il più delle volte dimostrate sia
nel breve che nel lungo periodo deleterie, anche nel campo specifico della
fame e della sottonutrizione.

Vedi Anche:

http://www.fao.org/
Lettera al Ministro per i Beni Culturali
Vittorio Gregotti Caro Veltroni,
Vi sono due aspetti della cultura architettonica italiana di cui mi piacerebbe
discutere con Lei e vorrei che Lei considerasse questa mia lettera solo un
avvio a tale discussione.
Il primo di questi aspetti riguarda alcune delle ragioni del deplorevole stato
di decadenza in cui versa la cultura architettonica in Italia.
Il secondo aspetto è l’ancor più deplorevole mancanza di sostegno che essa
riceve dallo Stato italiano, specie se questo viene confrontato con le
iniziative al riguardo
promosse dagli altri Stati europei, per non parlare degli Stati Uniti o del
Giappone.
Per il primo aspetto ho scritto qualche anno fa un piccolo libro nel quale è
dedicato un capitolo a questa questione: se avrà tempo di leggerlo, potrà
farsi un’idea delle molte questioni e ragioni. Comunque esse sono in larga
parte interne alla nostra disciplina e forse bisognerebbe rassegnarsi alle
ondulazioni della storia. Anche la Venezia del Seicento ha prodotto pittori
scarsi se paragonati al secolo precedente o a quello seguente.
Il secondo aspetto invece riguarda direttamente la Sua carica di Vice
Presidente del Consiglio ancor prima di quella di Ministro per i Beni
Culturali.
Dividerò la questione schematicamente in tre parti anche se sono in effetti
aspetti di un tutto.
La prima parte riguarda il disinteresse ormai storico del governo italiano a
rappresentarsi attraverso l’architettura. Sarà forse un tardo complesso nei
confronti
delle vaste operazioni fatte negli anni Trenta dal regime fascista in questo
campo, ma non riesco a ricordare neanche una riforma urbana o un edificio
significativo di
qualche qualità promosso dalla Repubblica italiana nel suo mezzo secolo di
vita.
Questo disprezzo della qualità architettonica ha fatto sì che gli unici sforzi
compiuti siano alla fine quelli corporativi. La preoccupazione di distribuire i
lavori, e non quella della qualità della cosa, ha spinto all’obbligo di
concorso per le iniziative pubbliche, concorsi peraltro assai scarsi di numero
rispetto a quelli europei, poco articolati per categorie di problemi e quindi
poco permeabili alle giovani generazioni.
Peraltro i primi sforzi dell’attuale Ministro dei Lavori Pubblici sono tutti
volti a riavviare, moralizzandoli, i grandi appalti pubblici. Cosa
importantissima, ma non una parola è stata spesa sul tema della qualità.
Inoltre si tende a concepire strettamente l’architettura come edilizia
singolare; questo esclude dalle sue competenze altre questioni
importantissime, per esempio il disegno delle infrastrutture o la regolazione
dei grandi spazi aperti collettivi o la localizzazione ed il disegno dei sistemi
di produzione dell’energia, ecc., ecc. Una direzione generale del Ministero
dei Lavori Pubblici responsabile della qualità degli interventi architettonici
ed urbani come quella che sotto la presidenza Mitterand ha
permesso di portare l’architettura francese in vent’anni ad essere una delle
più interessanti d’Europa, è certo un esempio da studiare.
La seconda parte riguarda l’insegnamento dell’architettura. In Italia ci sono
60.000 studenti di architettura contro i 13.000 medi degli stati della
Comunità. Nelle facoltà di architettura si ammucchiano inarticolate persone
che vogliono fare i designer, gli urbanisti, i landscaper, gli storici, i
restauratori, i grafici e moltissime che ormai frequentano per rimandare le
difficili scelte di lavoro; ma con il mondo del lavoro le facoltà di architettura
hanno quasi del tutto ridotto la comunicazione.
Naturalmente a questo fa riscontro il fatto che, al di là delle carenze
strumentali e funzionali, non vi sarebbero fatalmente buoni insegnanti per
più di quattro o cinque
facoltà, mentre ve ne sono quattordici.
L’insegnamento dell’architettura è in crisi in tutto il mondo, ma da noi
manca ogni base per ritrovare un senso al suo insieme.
La terza parte della mia piccola perorazione riguarda l’appoggio del nostro
governo al nostro lavoro internazionale di architetti. Non esigo che ci si
spinga, come hanno fatto Francia e Stati Uniti, a contrattare per esempio con
la Germania incarichi internazionali di prestigio, o a nominare “Sir” i
quattro o cinque architetti importanti inglesi. Ma quando qualcuno di noi ha
la fortuna di essere invitato a partecipare o di vincere qualche grande
concorso internazionale, si sente del tutto abbandonato dalle nostre
ambasciate o dai nostri istituti di cultura. Francesi, tedeschi, americani e
giapponesi fanno dei propri architetti, se non proprio degli eroi nazionali, un
elemento importante della diffusione della propria cultura: questo perché
riconoscono nell’architettura un ruolo di costituzione della propria identità
nazionale e quindi diffondono le proprie mostre, aiutano a tradurre i libri dei
propri protagonisti architetti, organizzano mostre, ecc., ecc. Questo per
trovarci a competere internazionalmente, se possibile, alla pari.
Mi rendo conto che vi sono per Lei e per il governo altre priorità da
affrontare ma credo che le speranze di una relazione nuova tra governo e
cultura italiana non debbano essere deluse e che sia necessario aprire un
canale di comunicazione e di collaborazione positiva con essa: specie con le
periferie del nord.

Vedi Anche:

http://www.altavista.digital.com/cgi-bin/query?
pg=q&what=web&fmt=.&q=%22vittorio+gregotti%
22

http://www.altavista.digital.com/cgi-bin/query?
pg=q&what=web&fmt=.&q=architettura

http://www.yahoo.com/Arts/Design_Arts/Architecture/
Le riscoperte di Liberal
Ranieri Polese Lo sapevate, lo immaginavate voi qual è stato il punto più buio, il momento
più ignobile del cinquantennio della Prima Repubblica? In senso cultural-
politico, s’intende, per quel che riguarda cioè la produzione di pensieri
parole opere romanzi musiche film ecc. che tradizionalmente si definiscono
cultura? Fortunatamente, con un articolo di Giuliano Zincone, il numero di
novembre della rivista "Liberal" viene a dircelo: è stata la mancata
comprensione delle canzoni di Claudio Baglioni, il cantante di Passerotto
non andare via, Questo piccolo grande amore e Strada facendo. Che avrà
avuto, sì, molti primi posti nelle hit parade e clamorosi riscontri di
popolarità. Ma è pur sempre rimasto un paria, un reietto. Uno insomma che
l’intelligenza di sinistra non voleva non voleva nemmeno ascoltare. Che
stupida cattiveria occorre, non vi pare?

L’Italia della Prima Repubblica - ormai dovrebbe essere chiaro- è stato un


luogo infame e spesso atroce. In cui la cultura era preda di ideologie
prepotenti, e gli intellettuali venivano costretti a far professione di fede nei
dogmi dell’impegno politico e sociale. Chi non ci stava, peggio per lui: o
finiva tra i nemici di classe, i mostri reazionari oppure scivolava nella
categoria dei senzaparrocchia, gli irregolari, gli spiriti bizzarri a cui non si
doveva dar retta. Nel ’68 e per tutto il decennio successivo, le cose
peggiorarono ancora: gli studenti del Movimento, gli extraparlamentari, le
élite della contestazione insomma, aggiunsero danni terribili a quelli già
perpetrati dalla sinistra istituzionale. Per esempio commisero questo efferato
delitto: "Quando Claudio Baglioni mise fuori la testa, gliela tagliarono
subito. "Si chiamava Claudio, proprio come Claudio Villa", constatarono i
militanti. Baglioni non era nemmeno odiato, era proprio considerato al di
sotto di ogni discussione". Poi, rinunciando alle metafore un po’ stile "che
cosa hanno fatto le Guardie Rosse ai nemici del popolo", Giuliano Zincone
passa a spiegarci quello che accadde veramente: che cioè Claudio Baglioni,
se da una parte "con Questo piccolo grande amore emozionò moltitudini di
giovani", dall’altra si trovò a essere disprezzato dalle avanguardie
rivoluzionarie.
Più o meno lo stesso è accaduto -sempre secondo "Liberal"- a Montale,
Gadda, Germi, Parise, Savinio, Flaiano e alla Ortese: la loro colpa fu quella
di non essere impegnati. Di non aver voluto diventare militanti, per tutta la
vita (o anche solo per una parte di essa). A questo punto, la domanda è
legittima: furono gravemente discriminati, emarginati, cancellati per questo?
No, non proprio. Fama e anche successo spesso li raggiunsero (Montale
addirittura ebbe il premio Nobel). Le loro opere (libri, film) furono diffuse,
conosciute e ammirate. Soltanto accadde che da parte dei soliti di sinistra
furono considerati dei casi isolati, forse un po’ eccentrici, di certo non in
grado di insegnare qualcosa alle masse bisognose di fede progressista.
Proprio come Baglioni.
Che nonostante questo ostracismo ha venduto un altissimo numero di dischi,
diventando uno dei più popolari protagonisti della cultura italiana fra gli
anni ’70 e gli anni ’90.
Quanto agli altri seri e sfortunati compagni di squadra del divo Claudio,
anche qui è un po’ curioso il tono di denuncia di "Liberal": ma scusate, cari
signori, la cultura italiana di questi ultimi trent’anni, di che cosa si è
occupata? Andate a scorrere gli indici di qualsiasi giornale o rivista,
rivedetevi bibliografie e cataloghi editoriali, e troverete i nomi di Gadda e
Montale, Savinio e Flaiano che si ripetono una stagione dopo l’altra. Forse
erano degli irregolari, ma -mi dispiace tanto per voi- non si parlava d’altro.
"Torniamo agli irregolari", dice la copertina di "Liberal": perché no? A patto
però di intendersi sul termine. Due anni fa, Oreste del Buono raccolse nel
libro "Amici, amici degli amici, maestri" una galleria di ritratti di
dimenticati. Fra cui Giancarlo Fusco, Alberto Mondadori, Tommaso Giglio
che -dice OdB- "non solo furono sfortunati, vennero maltrattati e morirono
malamente, ma in più hanno subito l’oltraggio di essere dimenticati".
Ripartire da questi irregolari, che lottarono per un modo migliore di fare
cultura e furono sconfitti, mi sembrerebbe bello e generoso; da quelli di
"Liberal", forse, un po’ inutile, visto che non ce ne siamo mai separati.
Chi legge Golem (come e quando)
Gianni Granata Nonostante la tecnologia di Internet, ed in particolare del WWW, consenta
una raccolta di dati assolutamente impensabile per qualunque altro media,
conoscere il profilo dei lettori di Golem non né automatico né semplice, sia
per la grande quantità di informazioni da analizzare e correlare sia per la
estrema mutabilità del contesto. Gli utenti di Internet in Italia e gli abbonati
di Italia Online infatti crescono, e il sito di Italia Online, in cui Golem è
ospitato, è stato da poco modificato radicalmente: la topologia della rete di
accesso cambia continuamente.
Alcune considerazioni si possono comunque fare, analizzando i log files (la
memoria storica) del sito Golem da inizio settembre ad oggi. Teniamo
innanzitutto conto delle date delle ultime uscite di Golem: 9 agosto e 22
ottobre: la oggettiva difficoltà a leggere il numero 4 stando in barca o sulle
vette alpine ha sposato alla prima settimana di settembre un buon numero di
lettori (2.632), che sono andati poi in calo nel corso del mese (2.414 nella
terza settimana).
Crescita in ottobre, anche in assenza di novità editoriali, ma trainato
dall’aumento significativo degli utenti Italia Online (3.103 nella seconda
settimana), e massimo (3.655) raggiunto con l’uscita del numero 5. Nota
bene: si tratta di effettivi lettori, per ottenere le pagine lette (i cosiddetti hits)
occorre moltiplicare mediamente per quattro.
Da dove provengono i lettori? Principalmente da Italia Online (non è una
sorpresa, dato che sul sito IOL è dato rilievo a Golem, mentre su altri siti
non è stato ancora pubblicizzato); in secondo luogo dalla rete di Telecom
Italia Interbusiness, che colleziona un gran numero di provider; non
trascurabili sono gli accessi dal Nord Europa.
Data questa situazione si possono ragionevolmente applicare a Golem alcuni
dati medi relativi a Italia Online: a) i collegamenti sono di breve durata,
mediamente sotto i 20 minuti, tolto l’effetto delle sessioni interrotte per
problemi tecnici, per esempio le attività di posta elettronica; b) nell’arco
della giornata si rileva un accesso minimo di consultazione nella mattina e
due grandi concentrazioni serali, una prima di cena, l’altra attorno a
mezzanotte; il rapporto minimo/massimo è di uno a quattro).
Dall’analisi della lettura delle singole pagine di Golem si ricava
l’impressione di un interesse molto segmentato (si va sull’indice e quindi su
uno/due articoli al massimo) e comunque orientato alla rapida fruizione:
spiccano le pagine di giochi e fumetti. Come prevedibile, c’è molta curiosità
per le proposte multimediali (teniamo conto che il parco dei PC
multimediali è in forte crescita), mentre sui singoli articoli è difficile trarre
indicazioni significative.
Sicuramente dalla miniera dei log file non abbiamo ancora estratto tutte le
informazioni, ma stiamo ancora scavando: non per niente tra gli addetti ai
lavori questa attività si chiama "data mining".

Sondaggio Troppi maschi! E vero che tutte le ricerche più recenti hanno mostrato che il
pubblico di Internet in Italia (ma non altrove) è costituito in grande
a cura di Renato Mannheimer prevalenza di maschi, ma c’era da sperare che questa situazione non si
ripercuotesse necessariamente su chi segue Golem. Invece, hanno risposto al
questionario di Golem 516 maschi (il 90%) e solo 58 femmine. Per il resto,
le caratteristiche dei partecipanti rispondono a quanto ci si aspettava: una
‘punta’ tra i 26 e i 45 anni; prevalenza relativa di impiegati e dirigenti; una
distribuzione territoriale che vede una concentrazione al Nord Ovest, ma al
tempo stesso, una buona presenza al Sud.
Gli interessi espressi dai lettori di Golem paiono assai significativi. La
cultura (ma non la politica e l’economia) è al primo posto, con più dell’80%
di preferenze, con una maggiore presenza relativa delle (poche) donne
rispondenti.
Segue, come oggetto di interesse Internet., ‘votato’ prevalentemente dai più
giovani.
Fanalino di coda l’economia: interessa a meno della metà dei lettori con
‘punte’ tra i meno giovani e, significativamente, tra i rispondenti che
risiedono nel solito Nord-Est.

Al sondaggio di Golem hanno risposto 574 lettori.

Maschi 89.9%
Femmine 10.1%

0-11 anni 0.9% (5 lettori!)


12-18 anni 2.4%
19-25 anni 9.6%
26-35 anni 34.1 %
36-45 anni 30.5%
46-55 anni 14.6%
56-65 anni 4.4%
oltre 65 anni 1.9%
non indica 1.6%

Imprenditori 7.1%
Libero professionista 20.4%
Dirigente 8.5%
Impiegato 22.5%
Operaio 1.0%
Studente 13.4%
Casalinga 0.3%
Pensionato 2.8%
Disoccupato 1.2%
Non indica 22.6%

Nord-Ovest 32.9%
Nord-Est 19.7%
Centro 24.6%
Sud-Isole 15.2%
Estero 3.3%
Non indica 4.4%

Gli interessi dei lettori di Golem (% che hanno espresso interesse per..)

Cultura 81.5%
Internet 78.7%
Informazione 75.4%
Politica 62.5%
Economia 43.7%
Riflessioni per un libro.
Anzi due, o forse tre.
Aldo Grasso Al crocevia della comunicazione, in Italia, c’è Maurizio Costanzo. Che
occupa lo schermo sette giorni su sette, che tiene un diario su un quotidiano
della Capitale, che collabora a una radio, che è titolare di rubriche su alcuni
settimanali, che è, si dice ancora così, titolare di un insegnamento sulla Tv
all’Università La Sapienza di Roma, che è il marito di una conduttrice
televisiva, che scrive libri a getto continuo per diverse case editrici, che è
consulente per D’Alema dell’immagine della Quercia, che insegna
comunicazione ai dirigenti d’azienda, che...

Maurizio Costanzo ha pubblicato presso Mondadori le sue ultime


"riflessioni per un anno". La frase più inquietante del libro, che si intitola
"dietro l’angolo", la si trova a pagina 24, dice: "Per quanto mi riguarda, le
persone le incontro davanti alle telecamere. A telecamere spente in pratica
non vedo nessuno, a parte mia moglie, i collaboratori e pochi amici, sempre
gli stessi". L’indice dei nomi rivela che sono 264 le persone ad essere state
prese in esame. Fra queste tuttavia non figurano Ernesto Galli Della Loggia
e Riccardo Bocca.
Riccardo Bocca, giornalista, ha scritto un libro che si intitola "Maurizio
Costanzo Shock". Sottotitolo: "Affari, potere, alcova: i retroscena del
giornalista più famoso d’Italia". Una dura requisitoria, dove si racconta di
maneggi, logge segrete, malaffari, pettegolezzi. Persino di molestie sessuali.
Vicende in gran parte risapute ma che, raccolte in collana, procurano una
certa impressione. Costanzo sarebbe da arresto immediato.

Galli della Loggia, storico ed editorialista del "Corriere della Sera", in


un’intervista rilasciata all’"Espresso" ha dichiarato: "E’ chiaro che per i
giornali italiani esistono argomenti tabù. Il primo che mi viene in mente. Ho
appena letto "Maurizio Costanzo choc" (sic), un libro sui retroscena
finanziari della carriera di Costanzo scritto da Riccardo Bocca, un
giornalista free lance. Negli Stati Uniti l’autore sarebbe nella rosa dei
finalisti del Pulitzer. Mi sembra che da noi non sia stato nemmeno recensito,
anche se è tra i libri più venduti. Perché nessuno dei giornalisti che si
occupano di televisione ha mai indagato sugli affari di Costanzo? La verità è
che il potere, anche questo dell’Ulivo, non rispetta affatto la libertà di
espressione...".

Kaos edizioni, la casa editrice che deve anche la sua fortuna a tre libri su
Silvio Berlusconi ("Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv", "Berlusconi, Gli
affari del presidente", "Le mazzette della Fininvest") pubblicizza sui
maggiori quotidiani il libro di Bocca con queste due frasi: "Il libro-inchiesta
censurato da tutti i mass media di regime"; "Non l’ho letto e non lo
leggerò... Lascio questo libro alla clandestinità cui è destinato". Firmato
Maurizio Costanzo.

Ricominciamo da capo (si potrebbe andare avanti all’infinito, se solo alla


Rete piacesse...).

Maurizio Costanzo ha i mezzi per tentare censure. E’ probabile che con


alcuni giornalisti sia intervenuto, ma è altrettanto certo che con altri non è
intervenuto. Per una prima verifica, e per divertimento, basterebbe comporre
la schiera dei recensori possibili che nelle ultime settimane sono apparsi al
"Maurizio Costanzo Show". Se uno va ospite nel salotto televisivo dei
Parioli si può supporre che poi abbia qualche imbarazzo a trattare la materia.

Nel libro di Costanzo viene abilmente tessuta la sua rete di relazioni. Si


capisce chiaramente chi gli è amico e chi no. E si capisce altrettanto
chiaramente che non deve essere facile mettersi contro Costanzo. Ma ci
sono stati critici televisivi che del presentatore hanno sempre detto che
dovevano dire. A costo anche di pubblici dileggi.

Il libro di Riccardo Bocca riporta avvenimenti risaputi e altri inediti, è frutto


di uno scrupoloso lavoro di indagine. Ma è il classico libro su cui il giudizio
più efficace lo potrebbe dare solo la magistratura. Sarà interessante seguire
gli sviluppi e vedere se Costanzo adirà le vie legali.

Un bel fondo, in prima pagina, sul più importante quotidiano italiano


potrebbe essere la collocazione ideale per discutere del libro "Maurizio
Costanzo Shock". Sempre che si ritenga opportuno parlare del libro. Ulivo o
non Ulivo.

La diffusione dei libri segue vie di comunicazione che, non di rado, esulano
da mass media tradizionali. I libri invisi al regime spesso godono di buona
fortuna editoriale.

Chiuse queste note per "Golem", ricevo al "Corriere" un fax di Wolfang


Achtner, un giornalista free lance che collabora a prestigiose testate
straniere e che ha scritto presso l’editore Baldini & Castoldi (che di
Costanzo ha appena pubblicato il saggio "La televisione è piccola") il libro
"Penne. Antenne e Quarto Potere: per un giornalismo a servizio della
democrazia", in cui si descrive a forti tinte un quadro poco idilliaco sullo
stato dell’informazione in Italia. Scrive Achtner nel fax indirizzato alla
Segreteria di Redazione: "Ho saputo da un membro autorevole del comitato
di redazione del giornale che il libro non è stato ancora recensito sulle
pagine del "Corriere" perché il direttore non ha gradito il modo in cui è stato
da me scritto... Mi pare un caso di censura, un tentativo di impedire che i
lettori del "Corriere della Sera" vengano a conoscenza dell’esistenza di un
libro che tratta un argomento sul quale i lettori del giornale avrebbero tutto
il diritto di essere informati".

Possiamo ricominciare da capo?


Vedi Anche:

http://www.altavista.digital.com/cgi-bin/query?
pg=q&what=web&fmt=.&q=%
22maurizio+costanzo%22
Ad Aldo Grasso
Maurizio Costanzo Caro Professore, si tranquillizzi: dalle infamie mi difenderò al momento
opportuno, nelle sedi più opportune. Non sono stato mai così tranquillo dal
momento che quando ho commesso qualche errore non ho avuto problemi a
parlarne pubblicamente. Se poi Lei ritiene attività scrupolosa un killeraggio,
La lascio ovviamente alla sua idea. Come Lei sa, Pirandello era solito
ripetere che le commedie si discutono al terzo atto. Lei è persona colta e
intelligente: non la sfiora il dubbio che il non fare cassa di risonanza a
operazioni scandalistiche rappresenti una valutazione nel merito
dell’operazione e non, come Lei adombra, una censura?
A presto, con molti cordiali saluti.
Replica
Aldo Grasso Il "possiamo ricominciare da capo?" era una domanda retorica e in quanto
tale ha subito ricevuto un’autorevole risposta, prima ancora di entrare in
Rete.
Io non volevo recensire il libro di Riccardo Bocca e infatti non l’ho
recensito. Né, tantomeno, mi sono prestato a fare da cassa di risonanza. Mi
interessava soltanto, di fronte ad una pietra gettata nello stagno del mondo
della comunicazione, rilevare alcuni comportamenti e modalità sulla
diffusione dei libri che parlano di comunicazione. Ho scelto la sede di
"Golem" per queste riflessioni perché mi sembrava la più opportuna, la più
mirata, la più tecnologicamente acconcia a ricevere arricchimenti. Si scrive
su Internet e non su un giornale quando si è disposti ad essere "penetrati"
dagli interventi di altri.
Ho usato un solo aggettivo che può sembrare sbilanciato, ed è "scrupoloso".
Mi pareva, per un libro che Galli della Loggia vuole candidare al premio
Pulitzer, più elegante di "ossessivo", "smodato", "imperversato". Non sono
entrato nel merito e non ci voglio entrare.
Commento (05/12/96)
Riccardo Bocca Abbiamo ricevuto da Riccardo Bocca un commento, che qui di seguito
pubblichiamo, ai temi sollevati da Aldo Grasso e Maurizio Costanzo su
questo numero di Golem.

Sfidare i potenti è, oltre che rischioso, frustrante. Me ne sono reso conto,


ancora una volta, leggendo lo scorso numero di Golem. Tra i vari interventi,
c’era quello di Aldo Grasso titolato "Riflessioni per un libro. Anzi due, o
forse tre".
Riguardava il Maurizio Costanzo Shock, un’inchiesta che ho pubblicato
presso la Kaos edizioni. Centosessanta pagine di notizie verificate con
relativi documenti e testimonianaze che hanno un’unica pretesa: raccontare
ai lettori la scomoda verità sul telegiornalista attualmente più potente
d’Italia.
Bene: Grasso, nel suo intervento, ha preferito non riferire nessun episodio
specifico contenuto nel pamphlet. Ma ha comunque espresso in modo chiaro
il suo giudizio dicendo che "Il libro è frutto di uno scrupoloso lavoro di
ricerca". Nè più nè meno.
Lo ammetto: mi aveva fatto piacere constatare come il mio lavoro fosse
stato apprezzato. E mi sono trovato d’accordo con Grasso anche quando si è
detto convinto che il mio "è un classico libro su cui il giudizio più efficace
lo potrebbe dare soltatno la magistratura". Mi chiedo, però, per quale motivo
il professore non abbia riferito che, proprio riguardo ad un capitolo del libro
sui rapporti tra Costanzo e il Comune di Roma, ho presentato un esposto alla
Procura di Roma e uno alla Corte dei Conti.
E’ un tabù parlare di questi argomenti? Come mai Grasso dice soltanto che
"sarà interessante seguire gli sviluppi e vedere se Maurizio Costanzo adirà le
vie legali"? Invoco par condicio. Ma pazienza. In fondo c’era di peggio nel
prosieguo dello scorso numero di Golem. Ho infatti trovato un intervento
dello stesso Costanzo che replicava ad Aldo Grasso. A modo suo,
indossando la coppola di Pirandello e ricordandogli come le commedie si
discutono al terzo atto: "Se poi Lei ritiene attività scrupolosa un killeraggio -
aggiungeva Costanzo -, la lascio della sua idea". Parole che hanno fatto il
loro effetto. Non a caso Grasso ha scelto in corsa di replicare alla replica.
Anche lui a modo suo, scappando da quello che aveva scritto in precedenza:
"Ho usato un solo aggettivo che può sembrare sbilanciato, ed è "scrupoloso"
- ha rinculato -. Mi pareva ….più elegante di ‘ossessivo’, ‘smodato’,
‘imperversato’. Non sono entrato nel merito e non ci voglio entrare". Invece,
con questa altalena di aggettivi non proprio affettuosi rivolti al mio libro ci è
entrato, caro professor Grasso. E ha mostrato ai lettori come Costanzo
sappia riportare subito all’ordine chi lo critica, anche solo di sponda. Di più:
ha fatto vedere fino a che punto coraggio e coerenza, quando interviene il
piccolo grande uomo del Parioli, vengono accantonati in attesa di tempi
migliori.
Non è una critica, sia chiaro: solo un dato di fatto. Anch’io, naturalmente,
non voglio entrare nel merito.
Sacre uova
Carlo Bertelli C’è un uovo a Orvieto! Anzi, c’è un uovo anche a Orvieto. Mi spiego. La
cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto, ora egregiamente restaurata
dalla cooperativa Beni Culturali (Martellotti, Vedovello & C), è stata chiusa
per molti anni. Troppi. Ma ciò è dipeso dalla signora Bono Parrino, che
occupò per un certo tempo il Ministero per i Beni Culturali sulla poltrona
del ministro, la quale tolse i soldi stanziati alle soprintendenze dalla legge
Todi-Orvieto del 1986 per trasferirli ad una privata società di gestione. Fu
per colpa di questa privatizzazione sui generis che i restauri furono sospesi e
ripresi nel 1992.

Il 1992 era l’anno del quinto centenario dalla morte di Piero della Francesca.
Scrivendo su Piero, avevo guardato anche io con curiosità una forma
tondeggiante, nello sguincio d’una finestra, che non capivo se fosse un uovo
dipinto o una lampadina. Capisco che prendere un appuntamento con la
soprintendenza e andare a vedere sarebbe stata la cosa più facile. Ma in quel
tempo stavo a Losanna o a Milano e andavo su e giù a San Sepolcro e
Arezzo con mezzi pubblici (non posseggo un’automobile) e, confesso,
avevo un po’ paura di fare una pessima figura chiedendo di vedere una
lampadina.

Ma ora che i restauri sono finiti, è tutto chiaro. Nel cielo della finestra
centinata Luca Signorelli ha dipinto proprio un uovo, visto in prospettiva dal
basso e appeso a una catena.

Nel grossissimo volume che accompagna il restauro, un autore competente


in sistemi simbolici, la signora Ceri Via, ha giustamente messo in rapporto
quell’uovo con quello dipinto da Piero nella pala di Brera. Citando il dotto
studio di Millard Meiss e di chi lo ha seguito nell’indagine iconologica, per
la quale l’uovo di struzzo assume altri significati in rapporto alla Nascita,
vuoi di Guidobaldo o di Gesù, o alla concezione senza macchia e verginale
di Maria etc..
Ma a Orvieto non vi sono nascite da celebrare, mentre la tavola con la
Madonna è stata collocata sull’altare solo nel Settecento. Tutta la cappella è
ispirata alla fine del mondo e al conseguente giudizio universale. Sulla
parete dove è la finestra con l’uovo sono rappresentati gli eletti e i dannati
avviati alle rispettive destinazioni e, proprio sotto la finestra, il restauro ha
scoperto la figura di Caino che si morde le mani insanguinate. Allora?

Dalla parte della finestra si trova l’altare. L’uovo è un trompe-l’oeil al di


sopra dell’altare.

Scrivendo della pala di Piero avevo ricordato un testo popolare del


Quattrocento, Viazo al santo Jerusalem, dove per spiegare cosa sono gli
struzzi si dice testualmente che sono quegli uccelli che fanno le uova che
"noi mettiamo sopra gli altari". Ne concludevo che nella pala di Piero l’uovo
segnala la presenza dell’altare, trasformando le ginocchia di Maria, su cui è
"deposto" il Bambino addormentato e marcato dal rivolo sanguigno del
corallo, come l’altare per eccellenza. Sono contento di vedere che ora Luca
Signorelli conferma che l’uovo di struzzo designa l’altare. Luca Signorelli
era allievo di Piero, e avrà ben avuto qualche confidenza dal maestro. Al
quale qui rende omaggio a circa dieci anni dalla morte.
Dieci incredibili giorni
Giovanna Grignaffini Favorevole, contrario, astenuto. Luce verde, luce rossa, luce bianca. Verde:
la Camera approva. Ma si accende solo una parte. Di fronte a noi è tutto
vuoto e spento. Dicono che la rottura istituzionale è senza precedenti e che il
parlamento è stato svuotato del suo senso, oltre che dei suoi poteri. Lo
dicono da una parte e dall’altra. Ma qui parlano solo i colori. Tutto verde: la
Camera approva.
12 contrari: sabotaggio?
Fanno sapere che non torneranno, facciamo sapere che andremo avanti.
La Camera approva.
Mandano a dire che il paese è tutto fuori con loro, mandiamo a dire che il
paese è tutto dentro con noi.
La camera - quel che ne resta, ma intera - approva.
E’ subito chiaro che diventerà una battaglia contro il tempo e i miraggi:
allucinata come tutte quelle combattute nel deserto. Davanti a noi il vuoto,
alle nostre spalle e tra noi un’unica ossessione e minaccia: la nostra stessa
presenza.
298 votanti, 298 favorevoli, nessun contrario, nessun astenuto: la Camera
approva.
Scattano i primi controlli incrociati mentre l’aula si riempie di solidarietà:
Vota! Torna! Corri! 295 votanti ed esplodono i primi rancori. 294 votanti.
La solidarietà lascia il posto al sospetto. Corri! Vota! Dove siete? E
diventiamo a poco a poco nemici l’uno all’altro, mentre esplode in ogni
angolo la paura di non avere più nè un nome proprio nè un nome comune.
Solo una Voce tiene in vita la speranza: all’unanimità la Camera respinge,
all’unanimità la Camera approva.
Ma siamo tutti prigionieri di un acquario il cui immobilismo spegne
l’intensità di ogni rumore e tiene sospeso ogni segno di vita. Solo il
tabellone luminoso, con le sue scariche improvvise di verde e di rosso,
continua a ricordarci che una battaglia è in pieno svolgimento e che noi
siamo vivi solo per questo.
Vivi come lo si può essere in un gigantesco videogame in cui il corpo
dell’altro è del tutto assente e il nostro stesso corpo respira al ritmo di puri
impulsi luminosi.
303 rossi: la Camera respinge. 301 verdi: la Camera approva. Un caffè,
sgranchirsi le gambe: il numero legale. Pausa. La Camera approva. Verde. Il
numero legale, Parere contrario.
300 contrari e 3 astenuti: chi è, perchè, attenzione! Finalmente qualche
rumore, la Camera respinge. Verde, Emendamento pag.48. Avanti.
Dicono che stiamo dando prova di grande responsabilità e coesione politica,
in questa logorante guerra di trincea contro un nemico invisibile, ma siamo
diventati anche noi invisibili a noi stessi: solo mani pronte a premere un
bottone e occhi eternamente in cerca di colore. Rosso: colpito. La Camera
approva e la meta sembra ormai a portata di mano. Solo un attimo di
abbandono e sopraggiunge immediato il timore. La Camera respinge e scatta
la paura perchè saremo ancora più soli domani quando dovremo presentarci
in 316 all’appello. La Camera approva. La Camera respinge. Rosso. Parere
del relatore: contrario. Parere del Governo: contrario. La Camera respinge.
Emendamento 10.76: la Camera approva. Emendamento 18.103: si propone
l’accantonamento. No, Votiamo! E saremo in 319 all’ultimo voto.
Fuori ritroveremo tutte le nostre ragioni e spiegazioni: quelle stesse che
avevano guidato la scelta di affrontare da soli la lunga traversata del deserto.
Resterà tuttavia in ognuno di noi il segno indelebile di quei dieci incredibili
giorni, trascorsi a inseguire un miraggio luminoso che allontanasse per un
istante la nostra stessa ombra.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)

Autogolem infilza collanine di testi in ognuno dei quali una parola viene
nascosta da una serie di ics. Tutte le parola nascoste della stessa collana
sono anagrammi l’una dell’altra. La prima collana è contraddistinta da
lettere; la seconda (stretta e assai soffocante), da numeri romani; la terza, da
numeri arabi. La terza è quella che darà meno dispiaceri ai puristi. I versi
enigmatici di B e di III sono "maltusiani". Così con imprecisa efficacia si
nominano i versi interrupti, quelli in cui viene troncato qualcosa che
vorrebbe tanto giungere a compimento: la parola finale. Grande poeta
maltusiano fu Petrolini: "puoi suonarla in mille mod" (la chitarra).

A. IMPIEGATO CHE SI LASCIA ANDARE

I capelli tuoi son unti;


i guanciotti sono smunti;
son più bravi i neo-assunti:
stai perdendo molti XXXXX.

B. IL TOGATO SI PRESENTA

"Di mestiere faccio il GIP,


non lavoro mai in équipe.
I miei modi non son cheap:
metto i boxer, non gli slip,
se c’è il nastro, attendo il beep.
Se non bello, sono XX XXX".

C. IMPULSO ALLE INDAGINI


"Per tre dì ti ho interrogato:
ogni addebito hai negato,
ma tu sai che t’ho incastrato
comprovando il tuo reato.
Se ti penti, ti accommiato:
dammi un XXXXX, imputato!"

I. QUEL CHE ESCE DAL COMPUTER

Xxxxxx si chiama la cosa


che dall’Unità Operosa esce ognora senza posa
a te dando dati a iosa.

II. SE VUOI FARE LA BALLERINA SVEGLIATI

Imparando già il galop


ci dan dentro col bibop.
Il lavoro non ha stop
nel febbrile dance-workshop:
or fa presto, metti il top
e quel tuo bel XXXX, XX!
l’amministratore e’ un tamarro
Dopo aver bevuto il brut,
scaglia a terra la sua flûte
(col cristallo è un mammuut)
né trattiene qualche rut.
Se alzi il dito, sei kaput:
egli è il Capo, e XXX XXX.

1. IL CAMERIERE PRUDENTE

Una birra è quattro tosti?


Grandi vini e buoni arrosti?
Non ho idea di quanto costi:
non fo conti senza gli XXXX.

2. NEBULOSI RICORDI DI UNA CANZONE

C’era un campo anzicheno’:


graminacee. Certo. Ohibò.
Una papera passò.
Altra papera incontrò.
Di papaveri parlò.
Dir dov’era non XX XX.
3. IL SOUL DI REDDING E’ SENZA BON TON

Non c’inviterei la Sotis,


al concerto del buon Xxxx.

4. CHE NESSUNO PENSI MALE

Reggicalze o falpalà,
qualche cosa ti cadrà.
La raccolgo, eccomi qua:
ma sia chiaro: Honni xxxx..."

5. OHI MAMA MAMA (M’AMA) ovvero: VITA RITIRATA MA


TECNOLOGICA DI UN SORNIONE EROE DELLA CANZONE
POPOLARE, ATTUALMENTE CONIUGATO

Com’è noto son Pedrito,


soprannominato "El Drito":
la muchacha ho concupito
e ne sono ormai il marito.
Sedentario, incivilito, telematico incallito, nella rete son finito:
voglio stare nel mio xxxx.

SOLUZIONI

LETTERE

A. punti
B. un tip
C. input

NUMERI ROMANI

I. output
II. tutù, op!
III. può tut

NUMERI ARABI

1. osti
2. ti so
3. Otis
4. soit
5. sito
Musica
Roberto Caselli

A ben guardare non c’è molto altro. Se in questi ultimi trent’anni togliamo
dalla musica italiana l’opera cantautorale, rimane qualche isolato tentativo
di fare del rock serio, peraltro spesso abortito, e tanta canzonetta che è ben
poca cosa se la si esanima appena aldilà dell’orecchiabilità. Lo zoccolo duro
della cultura musicale leggera è dunque ancora patrimonio di un pugno di
personaggi storici che ogni tanto palesa anche qualche stanchezza,
soprattutto quando è legato a scadenze contrattuali che impongono ritmi
troppo veloci rispetto a quelli che sarebbero necessari.
In questo ultimo mese, per una sorta di strano appuntamento, si sono trovati
a presentare l’ultimo lavoro quasi tutti i cantautori più quotati di casa nostra.
Le vetrine mostrano a stretto contatto i CD di Francesco De Gregori
(Prendere o lasciare), Fabrizio De André (Anime salve), Lucio Dalla
(Canzoni), Franco Battiato (L’imboscata), Francesco Guccini (D’amore, di
Morte e di Altre Sciocchezze) e del più giovane Vinicio Capossela (Il Ballo
di San Vito), una scala reale che creerà legittime difficoltà di scelta a tutti
gli appassionati con il portafogli non proprio gonfio. Ma il livello di questi
dischi è sempre all’altezza della fama di chi li ha registrati o c’è qualche
legittimo dubbio sul famoso salvataggio in corner dovuto al mestiere o al
cliché? In gran parte i lavori sono buoni, ma quasi mai eccellenti, se si
esclude De André che davvero ha dato molto (non a caso si è preso sei anni
di tempo), quasi tutti gli altri hanno pezzi molto belli che si alternano ad
altri decisamente più deboli.
La regola, si dirà. Certo, anche se rimane il dubbio che le pressioni dei
discografici e la necessità di non finire troppo obliati in faccia li faccia
puntare su pochi cavalli di battaglia per poi far seguire tutto il resto. La
critica in questi casi, in virtù di una specie di debito di riconoscenza che
porta ad essere tolleranti, glissa sul meno buono ed esalta ciò che merita
senza essere troppo obiettiva. Abbiamo, in verità, tutti imparato ad amarli
così tanto i nostri cantautori da permettere loro qualche caduta di stile senza
essere troppo severi. Il disco lo compriamo lo stesso e poi, a forza di
ascoltarlo, finisce che diventa anche carino.
Come al solito il problema è conciliare la creatività con la commerciabilità,
un bel dilemma che il povero acquirente, a meno di intrasigenze assolute,
può permettersi solo di subire.
Riflessi di un romanzo: Ritratto di signora
Rossana Di Fazio Indubbiamente Ritratto di signora sarebbe un caso interessante per
osservare i rapporti fra cinema e letteratura. Il romanzo d'origine è infatti
uno dei più belli e complessi del secolo scorso, e soprattutto la concezione
del racconto nella scrittura di Henry James è davvero imprescindibile dallo
stile, che si caratterizza, fra l’altro, per una certa distanza che il narratore
mantiene dai suoi personaggi, concedendo loro, con il mezzo di una scrittura
incredibilmente nitida, il massimo di profondità, senza mai divenire loro
complice e astenendosi dal mostrare comprensione o compassione per le
loro situazioni, delle quali però articola ogni possibile complessità. Li vede
completamente, ma senza indulgenza e questa peculiarità, questo sospendere
ogni giudizio e affetto verso il personaggio è, forse, all’origine di un effetto
pieno/vuoto grazie al quale tutto quello che il narratore non dice dei
personaggi dà loro uno spessore vivissimo, perché essi non coincidono mai
completamente con le cose che dicono e fanno.

Anche per queste ragioni la trasposizione di un'opera di James entra


necessariamente nel merito di una riflessione sulla specie dei linguaggi che
mette a confronto.

In sala non si può fare a meno di soffrire la mancanza di tutto quel collante
di analisi, descrizioni, argomenti dai quali James fa scaturire ogni parola dei
personaggi.

In sala viene da pensare "ecco dove si capisce che un romanzo non è mai
solo una storia" .

Ma come avrebbe potuto fare, altrimenti, Jane Campion?

Non lo so; ma, nonostante fossi abbastanza prevenuta nei confronti del film,
ho apprezzato l'imponenza del lavoro di messa in scena.
Ho apprezzato la scelta dei titoli di testa. Molti vi hanno riconosciuto un
tentativo di riannodare il destino della protagonista a quello delle donne di
ogni epoca. Non mi piace tirare questa specie di conclusioni; credo piuttosto
che questi titoli, tanto diversi da tutto il resto, formino una robusta cornice
del film, che ne distanzia il racconto e ne accentua il carattere di rilettura del
romanzo.

Mi ha colpito anche la centratura dei personaggi nella scelta degli attori e


l'adesione degli ambienti alla idea che me ne ero fatta leggendo il romanzo:
una rarissima coincidenza.

Ma soprattutto c’è un aspetto della regia che mi ha convinto: è il lavoro sui


dettagli in primo piano. Trovo lievemente riduttive le analisi che hanno visto
in questi innumerevoli primi piani la soluzione, la traduzione psicologica dei
personaggi: il primo piano infatti non è destinato solo ai volti, ma anche ad
oggetti di varia consistenza.

Quando un personaggio sale una scala e la macchina da presa scende dal


volto ai piedi del personaggio e indugia sulla soglia di una porta; quando
Isabel Archer deve affrontare il marito e nell’inquadratura c’è solo lo
strascico di taffettà che percorre lo scalone; quando alle spalle di una piccola
parte di volto, il fumo muove una minuta fetta di spazio scuro che sullo
schermo è grande; ecco, in questi momenti, numerosissimi, l'immagine
riesce a restituire il senso dell'esattezza, che non è solo virtuosismo
descrittivo, ma ricerca di un effetto di nitore, di una esattezza di visione, la
stessa che muove la scrittura di Henry James.

Questa ricerca rivela una concezione alta del lavoro della trasposizione,
anche quando realizza soluzioni non sempre convincenti (i numerosi ralenti
che modificano la percezione del tempo) perché interessa aspetti più
profondi di quelli legati alla trama e ricerca corrispondenze fra linguaggi
diversi, modi in cui immagini filmate e stili di scrittura riescono a
raggiungere analoghi effetti, ben sapendo che è dallo stile e dalla forma che
un racconto, un bel racconto, prende vita.

Vedi Anche:

cinema.it
Sorprese dal Golfo
Silvana Rizzi Un avvenimento d'eccezione porta a riscoprire la Spezia. Nel cuore della
città ligure, nell'ex-convento seicentesco dei Paolotti ristrutturato, il 30
novembre ha aperto le sue porte il Museo Amedeo Lia, evento
accompagnato da una storia degna del Rinascimento. La preziosa collezione
oggi visitabile dal grande pubblico è stata donata al comune solo un anno fa
dall'ottantaduenne imprenditore e mecenate spezzino Amedeo Lia che, in
cinquant'anni, ha messo insieme uno straordinario patrimonio artistico: oltre
mille opere che documentano l'arte italiana ed europea, dall'epoca classica al
Medioevo all'età moderna.
La raccolta, unica nel suo genere è, secondo lo storico dell'arte Federico
Zeri, la più importante d'Europa per qualità dei pezzi e per le scelte operate
dal collezionista. Annovera miniature, dipinti, sculture di bronzo, avorio e
legno, vetri, maioliche e oggetti d'arte di tutti i generi, come smalti, ferri
battuti e coralli. La quadreria occupa un piano intero dell'ex-convento. Tra i
capolavori esposti, i cosiddetti primitivi costituiscono il nucleo principale
con oltre settanta opere che spaziano dal XIII al XV secolo. Incantano per lo
splendore dei tratti e dei colori le tavole di Pietro Lorenzetti, Lippo di
Benivieni e Bernardo Daddi. Procedendo nel tempo, sono i veneti a far la
parte del leone con Tiziano, Tintoretto, Pietro Longhi fino al Tiepolo.
La visita al Museo Lia invita a visitare alla città. La Spezia non possiede
monumenti di particolare interesse, ma i bei palazzi ottocenteschi e stile
Liberty, allineati nella celebre via Chiodo, dal nome dell'ingegnere che
progettò l'arsenale militare voluto dal conte di Cavour, ricordano un periodo
di splendore. Tra la fine dell'Ottocento e gli anni Trenta, a la Spezia si dava
infatti appuntamento il bel mondo che ruotava intorno alla Marina militare,
e la città godeva di un grande sviluppo grazie ai cantieri navali, ora in forte
ripresa.
Oggi per gli appassionati di mare, meta d'obbligo è la visita al Museo navale
della Marina militare, in piazza Chiodo, ricco di cimeli, modelli, sezioni di
scafi, apparecchiature e materiali relativi a varie epoche: dalle zattere
primitive alle navi egizie, dalle galere romane a esemplari di navi dell'ultima
guerra. Merita una visita anche il neonato Porto Lotti, porto turistico
d'avanguardia, con La Baia, ottimo ristorante affacciato sul Golfo (tel. 0187-
532244, chiuso a mezzogiorno, prezzo medio 60 mila lire). Per gustare
tuttavia la vera cucina ligure si va da Caran, una trattoria tipica e
ultracentenaria dove, per un prezzo davvero conveniente, si possono gustare
ottime torte di verdure e minestre di ceci e fagioli.
Una gita a La Spezia è l'occasione per rivisitare tradizionali borghi marinari,
come Portovenere e le celebrate Cinque Terre: Riomaggiore, Manarola,
Corniglia, Vernazza e Monterosso, piccoli paesi di pescatori che, lontano
dall'affollamento estivo, ritrovano la loro anima di antico rifugio. Per
raggiungere Monterosso da La Spezia, oltre all'auto, il mezzo più comodo è
il treno (quasi venti collegamenti al giorno con un tragitto di una trentina di
minuti). Il paese vecchio, raccolto attorno alla bella chiesa di San Giovanni ,
con i carrugi (gli stretti vicoli liguri) e le ripide scalinate è pieno di
suggestione. Buona la cucina del ristorante La Cambusa (tel. 0187-817548,
chiuso il lunedì) con la zuppa di molluschi, mentre per le specialità liguri si
consiglia Il Gigante, a pochi minuti dal porto: ottimi il pesce al timo e gli
spaghetti ai moscardini (tel. 0187-817401, chiuso il martedì).
Una splendida passeggiata di due ore, adatta anche ai bambini, lungo un
sentiero in mezzo a boschi, vigneti e antichi orti, porta al delizioso paesino
di Vernazza, caratteristico per le case dai colori vivaci affacciate sul
porticciolo. Qui è d'obbligo una sosta da Gianni Franzi, trattoria famosa per
gli antipasti di pesce, le acciughe al limone e i muscoli ripieni. Da Vernazza,
in un quarto d'ora di treno, si arriva a Manarola, il paese più autentico delle
Cinque Terre con le case costruite sulla roccia e il porto più piccolo del
mondo. Una bella passeggiata tagliata nella roccia e chiamata
romanticamente Via dell'Amore, collega il paese con Riomaggiore. Ancora
la ferrovia riporta in pochi minuti a La Spezia o a Monterosso.
Nei mesi invernali si trova ottima accoglienza all'hotel Della Baia a
Portovenere, bellissimo borgo con promontorio panoramico e porticciolo
lungo il quale, da non perdere, sono le specialità marinare di Iseo (tel. 0187-
790610, chiuso il mercoledì, prezzo medio 60.000 lire).

DOVE MANGIARE

Caran
Dal 1880 gastronomia tipica spezzina e grande ospitalità.
Indirizzo: via Genova 1, La Spezia.
Telefono: 0187-703777.
Prezzi: da 20.000 lire, vino escluso.
Chiusura: martedì.
Carte di credito: tutte.
Guida Tci: 1 forch

Gianni Franzi
Specialità: antipasti di pesce e cucina ligure.
Indirizzo: via Visconti 2, Vernazza.
Telefono: 0187-812228.
Chiusura: mercoledì.
Prezzi: 45.000 lire, vino escluso.
Carte di credito: tutte.
Michelin: 1 cucc forch

DOVE D0RMIRE

Della Baia
Costruzione seicentesca ristrutturata di recente.
Indirizzo: Lungomare est 111, loc. Le Grazie, Portovenere.
Telefono: 0187-790797.
Fax: 0187-790034.
Prezzi: 140.000 lire la camera doppia, con prima colazione.
Carte di credito: tutte.
Michelin: 1 casetta
Guida Tci: 3 stelle
Animali: nessuno.

INDIRIZZI UTILI

Museo Amedeo Lia


Indirizzo: via Prione 234, La Spezia.
Telefono: 0187-739537.
Orario: 10-18.
Chiusura: lunedì.
Ingresso: 10.000 lire.

Museo navale
Indirizzo: piazza Chiodo, La Spezia.
Telefono: 0187-783016.
Orari: martedì, mercoledì, giovedì e sabato 9-12 e 14-18, domenica 8.30-
15.30; lunedì e venerdì 14-18.
Chiusura: lunedì e venerdì mattina, domenica pomeriggio.
Ingresso: 2000 lire.
Fumetti
a cura di Comix

Una storia di Cinzia Leone

Altan
Oltre il web: Marimba, Castaneets and Bongosts
Giulio Blasi Sono 4 ex membri del team che ha sviluppato Java per la Sun Microsystems
i fondatori di una nuova società che propone un nuovo sistema per
distribuire programmi in rete, bypassando il World Wide Web e i browser
come Netscape ed Internet Explorer. Si tratta di Kim Polese, Arthur van
Hoff, Jonathan Payne e Sami Shaio. La società si chiama Marimba e si trova
a Palo Alto, in California.

Il software sviluppato da Marimba trasforma in realtà (o almeno in un


prototipo efficace...) la promessa che gli ultimi due anni di sviluppo delle
tecnologie web hanno posto in primo piano: distribuire in rete software che
si auto aggiorna e auto-installa indipendentemente dalla piattaforma
hardware dell’utente finale. Il nuovo sistema si chiama "Castanet" ed è
basato su una metafora televisivo-radiofonica : il trasmettitore e il
sintonizzatore ("Transmitter" e "Tuner").

L’utente finale di Castanet deve scaricare dalla rete il tuner (distribuito


gratuitamente da Marimba). Con il Tuner, ci si potrà quindi collegare a quei
server su Internet che "trasmettono" programmi. Al momento si tratta solo
di programmi in Java ma il sistema promette di estendersi ad altre
piattaforme in futuro. I programmi caricati con il Tuner sono dei
"canali" (sempre attivi quando si è collegati alla rete) che aggiornano i dati
(o il software stesso, se necessario) dal server.

Marimba ha anche sviluppato un sistema autore, "Bongo" , che permette di


creare applicazioni ipertestuali in Java da trasmettere con Castanet. Una
sorta di Hypercard o Toolbook per Java.

Se avete una connessione Internet e un PC con Windows 95 o NT vi


conviene visualizzare tutto questo direttamente.
Quali sono gli elementi nuovi proposti da Marimba?

a) Le applicazioni Java non richiedono necessariamente la mediazione dei


browser e delle pagine HTML per arrivare all’utente;

b) Le applicazioni Java scaricate dalla rete vengono salvate sulla macchina


dell’utente (al contrario di quanto accade quando si utilizza una applet Java
entro Netscape, ad esempio)

c) Le applicazioni scaricate con il tuner mantengono "canali" di


comunicazione con il server e si auto-aggiornano periodicamente

Al momento le applicazioni disponibili in questa tecnologia sono ben


poche : cruciverba, il cubo di Rubik, il chat della rivista Wired, un cerca-
persone della Stanford University, pubblicità bancarie, un motore di ricerca
e altre cose ancora.

Mi ero occupato in un numero precedente del modo in cui Java sta


modificando il modo in cui si distribuiscono e fruiscono servizi e contenuti
sul Web.

Fuori o dentro il browser, con Netscape o con Marimba, Java sta senz’altro
abituandoci a una caratteristica nuova del concetto di "ipertesto" : gli
ipertesti non sono più semplicemente reti di "documenti" testuali e
multimediali ma anche (e in futuro soprattutto) reti di programmi,
applicazioni, codice. Questo davvero supera l’immaginazione dei pionieri e
dei teorici attuali dell’ipertestualità, da Vannevar Bush a Ted Nelson, da
Doug Engelbart a George Landow.
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Ferita. Sguardo su una gente dedicato ad Adolf Hitler.


Le giovani generazioni e la memoria storica, a Roma in uno
spettacolo

Roma, 10 - 22 dicembre 1996, ore 21.15

Teatro Spazio Uno, tel. 06 - 589.5765

Carosello 1957 - 1977


Non è vero che tutto fa brodo

Milano, 5/12/1996 - 26/1/1997, ore 10.00 - 20.00 (lunedì


chiuso)
Triennale di Milano, Palazzo dell’Arte, viale Alemagna 6, tel.
02/724341

La mostra è curata da Marco Giusti e l’allestimento è di


Pierluigi Cerri.
Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:

Umberto Eco, Gianni Riotta, Mario Calabresi, Moni Ovadia, Furio Colombo, Elserino Piol, Paolo Palazzi, Vittorio
Gregotti, Ranieri Polese, Gianni Granata, Aldo Grasso, Maurizio Costanzo, Riccardo Bocca, Carlo Bertelli,
Giovanna Grignaffini, Stefano Bartezzaghi, Roberto Caselli, Rossana Di Fazio, Giulio Blasi, Silvana Rizzi, Comix,
Altan

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo Italia Online


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Le scuse sono d’obbligo: usciamo con un ritardo ingiustificabile sotto l’aspetto editoriale e comprensibile solo
tenendo conto che Golem si fa per piacere più che per dovere, e che quindi deve assecondare le esigenze dei suoi
collaboratori. Non accadrà più, parola di Golem.
La lunga vacanza ci ha reso più sensibili ai piaceri del viaggio, anche piccolo, e così è nata una nuova rubrica,
Fuori Porta, a cura di Caterina Zaina, dedicata a piccoli e preziosi itinerari.
Stiamo progettando qualche novità sulle rubriche, saremmo contenti di ricevere i Vostri pareri, suggerimenti ed
esigenze.

Sono successe tante cose sul fronte politico e culturale: la finanziaria, l’Europa, il futuro della Costituzione, sono
temi nei quali si esprimono le contraddizioni di una società in continua trasformazione, che fatica a riconoscersi
una identità e una direzione di marcia.
I nostri collaboratori hanno avuto carta bianca sulla scelta delle priorità, e così Golem 05 è assai articolato e vario.
Questa varietà di pensieri è come sempre a voi dedicata: restiamo in attesa di un Vostro cortese riscontro.
Bentrovati.
Renato Mannheimer
Principi ricostituenti

A quale organismo affidare la stesura delle riforme istituzionali? Ad una assemblea costituente, appositamente
eletta, o ad una commissione bicamerale formata da parlamentari già in carica? La discussione sembra essere al
centro del dibattito politico di queste ultime settimane. Dietro alle due opzioni contrapposte stanno opinioni e
interessi di varia natura, ma probabilmente legati soprattutto al tipo di maggioranza che si formerebbe
nell’organismo in questione. Una assemblea costituente non potrebbe essere eletta che col sistema proporzionale e
rifletterebbe i rapporti di forza tra i vari partiti da questo punto di vista. Ciò spiega forse anche perché le formazioni
di centro-destra paiono prediligere questa soluzione. Come si sa, infatti, alle ultime elezioni esse ottennero nella
quota proporzionale la maggioranza dei voti, trovandosi tuttavia in minoranza nella distribuzione dei seggi
parlamentari, a causa del diverso comportamento dei loro elettori nel voto maggioritario e della conseguente netta
prevalenza dei candidati dell’Ulivo in quest’ultimo (che, come si sa, "conta" in misura assai maggiore in termini di
seggi). Non è detto tuttavia che una nuova elezione porti oggi a questi stessi risultati.
D’altra parte una commissione bicamerale formata dall’attuale Parlamento, non potrebbe che rispecchiare le
proporzioni di quest’ultimo, favorendo la coalizione di centro-sinistra. Anche in questo caso ciò spiega, forse, la
preferenza in questo senso da parte dell’Ulivo.
Per risolvere la questione, alcuni esponenti politici hanno addirittura proposto di affidare il responso ad un
referendum o ad un sondaggio (di quelli seri) da condurre tra i cittadini. Abbiamo, per la verità, in corso una ampia
ricerca al riguardo. Ma è il caso di dire subito che sarebbe del tutto insensato affidare agli esiti di un sondaggio o di
un referendum una decisione del genere. Lo ha già giustamente sottolineato Giovanni Sartori sul Corriere qualche
giorno fa: se si vuole che i referenda o gli stessi sondaggi diano risultati cui si possa fare in qualche modo
affidamento, occorre che i cittadini interrogati siano, almeno in una certa misura, a conoscenza delle implicazioni
delle diverse alternative proposte. E quanti, oggi, lo sono davvero, sia sulla questione bicamerale/costituente che, in
generale, sulle diverse prospettive di riforma istituzionale?
Prima di sottoporre al giudizio popolare questioni quali la scelta tra bicamerale e costituente o, più in generale, la
riforma istituzionale, occorrerebbe che su di esse si sviluppasse nel paese un serio ed ampio dibattito che permetta a
ciascuno di cogliere veramente la natura e il significato delle diverse alternative.
C’è da chiedersi tuttavia se la discussione tra bicamerale e costituente abbia davvero senso. Il vero problema non
sta infatti in questa alternativa, ma nel tipo di discussione che si svilupperà nell’organismo prescelto e nella serietà
o meno delle soluzioni che lì saranno dibattute.
I precedenti in materia non sono incoraggianti ed è purtroppo diffusa l’impressione di una scarsa avvedutezza del
nostro legislatore. Ad esempio, molte delle scelte adottate per la legge elettorale in vigore (che giustamente viene
ridicolizzata - in primo luogo, ancora una volta, dallo stesso Sartori - e spesso derisa anche in sede internazionale
per la sua incongruenza) sono state adottate frettolosamente, talvolta quasi per caso (come la misura della soglia di
sbarramento al 4% anziché al 5%), o semplicemente riprese da normative precedenti (come la misura del 25% da
assegnare alla quota proporzionale).
C’è da augurarsi che, qualunque sia la sede in cui verrà discussa, la riforma istituzionale (e quella della normativa
elettorale che ne è necessariamente parte) sia il frutto di analisi e riflessioni serie, meditate e competenti e non,
com’è accaduto in passato, il confuso e contraddittorio coacervo di compromessi tra le richieste di questa e quella
forza politica, di questo o quel leader.

Costituente o Bicamerale?
Mario Deaglio
Capitalismo italiano: crisi di sistema

La Guardia di Finanza entra nel proverbiale salotto buono della finanza italiana. E ne esce portandosi via due
manager e inseguendone altri tre con ordini di custodia. Questo episodio, della seconda settimana di ottobre, è
un’altra tappa nel processo di disarticolazione del tradizionale sistema di governo dell’economia privata italiana. E
fa il paio con l’invito alle imprese di un autorevole rappresentante del mondo finanziario milanese affinché si
quotino a Wall Street e non già a Piazza Affari.
Si può far coincidere l’inizio dell’attuale travaglio del capitalismo privato italiano con la crisi del gruppo Ferruzzi
che lasciò un segno sul mondo bancario, chiamato ad assorbirne i debiti e obbligò alla rapida cessione di parti vitali
dell’industria chimica e farmaceutica italiana a imprese estere; tale fase negativa continua con la migrazione di
gruppi emergenti, come Luxottica, verso gli Stati Uniti e con il tentativo di ricompattamento del sistema
rappresentato dall’operazione SuperGemina, finito ingloriosamente in un incredibile "buco" contabile. Ha nella
crisi dell’Olivetti l’episodio saliente dell’autunno 1996; ma non bisogna passare sotto silenzio che, nello stesso
periodo, alle Generali viene impedito l’acquisto della banca viennese Kreditanstalt. Il motivo, al di là delle parole
di circostanza, è chiarissimo: le Generali sono un’impresa italiana e questo si ripercuote negativamente sulla sua
affidabilità. Tenendo in mente le accuse di falso in bilancio rivolte ai manager della Gemina e gli incredibili
"buchi" contabili apertisi nei conti di molte grandi imprese, non c’è da stupirsi di questa reazione straniera.
Questa serie, ormai purtroppo piuttosto lunga, di ritirate e capitolazioni ha sullo sfondo la dèbacle ancora maggiore
dell’IRI, sul punto del tracollo per debiti, un sistema bancario incapace di arginare la crescita inesorabile delle
"sofferenze", una Borsa che non riesce a diventare luogo di scambio di maggioranze azionarie, e nella quale
l’azione degli enti di controllo è debole e incerta. Si svolge sotto lo stimolo di un’Europa che incalza e con il freno
di una classe politica che, al contrario, non sa né capire né reagire. Comunque vadano le cose, gli anni novanta
saranno ricordati come una crisi di sistema, una sorte di processo disgregativo a conclusione di un secolo
tumultuoso ma nel complesso straordinariamente costruttivo.
Si tratterà di una crisi finale? Forse no, se vale il vecchio detto latino, Saeculum se renovat. Occorre però arrivare
ancora vitali al giro di boa, altrimenti potrebbe succedere che i fuochi d’artificio, i quali ritualmente annunceranno
l’arrivo degli Anni Duemila, rappresenteranno altresì la marcia funebre dei capitalismi nazionali, stemperati in un
unico grande mercato mondiale (o quanto meno in un meno vasto mercato europeo). In tal caso, quello italiano,
finanziariamente il più debole tra quelli dei grandi Paesi avanzati, appare il primo candidato alla dissoluzione. Le
imprese italiane dinamiche e di successo di dimensioni medio-piccole - e ce ne sono almeno diverse centinaia -
prenderanno la via dell’estero, nel senso che cercheranno i capitali necessari al loro sviluppo non più presso le
banche o la Borsa italiane ma nel resto d’Europa e del mondo. E sempre più sposteranno i loro investimenti (come,
del resto stanno già facendo) al di fuori dei confini nazionali, in Paesi nei quali, per avviare un’attività d’impresa,
bastano quattro documenti anziché i sessantaquattro dell’Italia e nei quali i profitti sono mediamente tassati dalla
metà a un quarto di quanto non lo siano nel Bel Paese e in cui è possibile licenziare i dipendenti oltre che assumerli.
In un’economia di mercato, gran parte dell’identità nazionale dipende dall’esistenza di un mercato nazionale,
dotato di regole proprie, non tributario degli altri ma anzi in grado di attirare operatori e capitali dall’estero. Questo
proprio non succede nell’Italia schiacciata dal debito pubblico, dalla burocrazia e anche dalla crescente debolezza e
incompetenza di una struttura capitalistica arcaica; ed è qui uno dei più seri motivi di rischio dell’identità a un
tempo economica e culturale del Paese.

Capitalismo Impossibile
Blob
Gradara

Formato AVI - 88 sec. 7118 kilobyte

Formato MOV - 73 sec. 3412 kilobyte


Oylem Goylem
di Moni Ovadia

Formato WAV 2.54 minuti 3.761 kilobyte

Formato AIF 2.54 minuti 3.761 kilobyte


Giuseppe Turani
Tangentopoli 2: la vendetta

Ci si domanda se Tangentopoli 2 sia più grande o più piccola di Tangentopoli 1. Per quello che si è capito fino a
oggi si può dire che è più inquietante.
Lo schema di Tangentopoli 1, in fondo, era molto semplice. I partiti avevano bisogno di soldi, e quindi
rubacchiavano presso le ditte che, per qualche ragione, avevano contatto con la pubblica amministrazione. Nel fare
questo, erano obbligati a servirsi di intermediari che, già che erano lì, rubavano anche un po' (molto) per se stessi.
Fine dello schema.
Tangentopoli 2, invece, sembra essere una cosa tutta diversa. I partiti, almeno per ora, c'entrano poco. Qui siamo in
presenza di una banda di affaristi che, approfittando delle vecchie relazioni e di alcuni strumenti (come la banca
Karfinco), ha messo in piedi tutta una serie di traffici e di arricchimenti illeciti.
È impressionante che tutto ciò si svolga dopo che sulla corruzione sono state fatte tante indagini e che alcuni dei
protagonisti di Tangentopoli 2 arrivino direttamente da Tangentopoli 1.
Questo significa solo una cosa: e cioè che poco è stato fatto, da parte del potere politico, per bonificare l'area della
corruzione. Non ci sono nuove leggi e, probabilmente, alle inchieste penali (necessariamente limitate perché sono
tenute a inseguire le notizie di reato), non sono seguite indagini amministrative, trasferimenti di persone,
riorganizzazioni.
Insomma, Tangentopoli 2 lascia il sospetto che dentro la macchina dello Stato siano ancora al lavoro (e in posizioni-
chiave) discreti quantitativi di corrotti, in grado di far passare affari assai poco puliti. Impressione, peraltro,
confermata dalle indagini sul caso Squillante.
Raffaele Simone
Sei Sapienze

Avrete letto tutti che Luigi Berlinguer, il ministro dell'Università, con una determinazione che non ha precedenti in
questo paese così poco disposto ad azioni nette, ha deciso di scindere l'università la Sapienza di Roma in sei atenei,
ognuno caratterizzato da una qualche specializzazione. Non è una trovata a freddo, ma il tentativo estremo e
drastico di mettere ordine nel marasma: la Sapienza ha quasi duecentomila studenti e una qualità della vita tra le
più basse. Un esempio solo: nella Facoltà di Giurisprudenza ci sono quarantamila studenti (la popolazione di città
come Viterbo o Lucca), che vengono serviti da appena ottantatré professori, buona parte dei quali professionisti
benestanti, che all'università dedicano ovviamente meno tempo che possono.
Basta passeggiare, del resto, per mezz'ora nella città universitaria per capire che qualcosa si è rotto: trent'anni fa era
un bel campus all'italiana (magnifiche architetture fasciste e razionalistiche, prati, fontane e luoghi per ricrearsi);
oggi ha una densità edilizia pari a quello del Principato di Montecarlo: palazzi dappertutto, cantieri abbandonati,
automobili in sosta abusiva, masse umane vaganti, un incredibile mercatino di paccottiglia tutt'intorno alle mura
della città universitaria. Non parliamo dell'efficienza e i servizi e della didattica.
Un altro dato pesante è che la Sapienza è dominata dalla Facoltà di Medicina, che da sola ha quasi ottocento
professori sui milleduecento totali. Ciò significa che le volizioni accademiche riflettono perlopiù gli interessi di
questo gruppo, dal quale dipendono anche l'elezione del rettore e la sua fortuna, e che le logiche della facoltà
medica hanno gradualmente contaminato l'intera vita dell'Ateneo.
L'idea di Berlinguer comporta due passi. Anzitutto, scindere la Sapienza in sei atenei, ognuno col suo rettore e con
propri organi, lasciandoli nelle sedi in cui stanno: il vantaggio immediato dovrebbe essere quello di rendere
governabile un corpo che oggi sfugge a ogni controllo Poi, distribuire nella città alcuni di questi atenei, con nuovi
investimenti e impianti, anche per evitare che una enorme folla di persone si riversi ogni giorno nello stesso punto,
e rivitalizzare aree urbane che hanno perduto ogni contatto con la cultura.
Chiunque riconoscerebbe facilmente che l'unico modo per rendere vitale e civile una simile teratologia consista
nello smembrare il Gran Corpo. E invece no, anzi: apriti cielo! Il rettore ha indossato la corazza del crociato
dichiarando che l'autonomia dell'università non si tocca e che la Sapienza deve restare unita. I presidi delle sue
facoltà (tolto uno, quello di architettura, che evidentemente di problemi urbani ne capisce più degli altri) hanno
giurato solennemente che lotteranno fino alla fine per evitare lo sconcio smembramento. E così, al grido di parole
solenni ed eroiche (smembramento, unità, salvaguardia, autonomia, indipendenza, libertà, salvezza...) è cominciato
una specie di Lombardi alla Prima Crociata che non sappiamo come finirà. Berlinguer è una persona determinata e
andrà per la sua strada; ma la resistenza così testarda di un intero corpo accademico (tolti pochi) corre il rischio di
far marcire una questione urgente.
Non voglio però discutere della Sapienza in particolare, ma del problema che questa storia pone sul tappeto. E far
notare in particolare due cose.
Anzitutto che nessuno, in tutta questa discussione, si è preoccupato di domandarsi qual è l'interesse degli studenti. I
poveri iscritti alla Sapienza sono, infatti, tra gli universitari italiani più vessati, e avrebbero mille ragioni per
insorgere. Si alzano alle sei per trovare posto ad una lezione che comincia alle nove, perché altrimenti non
avrebbero alcuna speranza di sentir niente; fanno la fila dinanzi alle segreterie per ottenere un certificato perché il
sistema di segreteria elettronica, dopo molti guasti, è stato messo fuori funzione; sono rassegnati a non trovar posto
in biblioteca e a frequentare poco i laboratori; sono trattati come anime morte piuttosto che come persone nella fase
più delicata della vita, e così via continuando. Certo, sopportando una situazione così avvelenata qualcosa la
imparano anche: una pazienza da stilita, una santità da martire cristiano, una salutare mortificazione alla loro
superbia insomma, una smisurata sfiducia. Ma possiamo compiacerci che i giovani crescano così?
Il fatto che l'interesse degli studenti non stia a cuore a nessuno mi pare grave. Significa, secondo me, che lo
studente è ormai, nelle discussioni sull'università, una variabile indipendente: possiamo averne pochi o molti, e
questi possono essere contenti o completamente insoddisfatti del servizio che ricevono, ma questi fatti non faranno
mai né caldo né freddo a nessuno. Gli studenti sono diventati ormai un'entità irrilevante e marginale. Quale che ne
sia il numero, quale che sia la soddisfazione per il servizio che ricevono e la qualità di quel che imparano, i
finanziamenti dallo stato alle università arriveranno lo stesso. Magari tardi, ma arriveranno. I corpi accademici
preferiscono allora domandarsi come si possano moltiplicare i posti per perpetuare le proprie dinastie, più che come
fare per migliorare la qualità del loro insegnamento e della loro ricerca.
L'altra considerazione riguarda la semantica del termine autonomia. Quando si sente, sia pur da lontano, il timore
che i finanziamenti statali si riducano, i corpi accademici insorgono sostenendo che il senso dell'autonomia è
distorto maliziosamente. Quando invece si annunciano misure (come questa di Berlinguer) che sono forse l'unico
presidio terapeutico per sanare una escrescenza ormai inarrestabile, si sostiene che l'autonomia delle università
viene offesa e mortificata, e che bisogna invece proteggerla ad ogni costo.
Io credo che l'autonomia comporti anche la capacità di procurarsi finanze (perdendo gradualmente il vizio di
aspettarsi il biberon caldo delle finanze statali), e in questo quadro la salvaguardia degli interessi degli studenti
diventa cruciale. Lasciare insoddisfatti migliaia di studenti può significare, allora, perdere quattrini e perfino
trovarsi nella necessità di chiudere. Ma chi avrà il coraggio di farlo capire alle università italiane?
Ranieri Polese
Bell' Europa

"Nu, vulevòn" dicevano Totò e Peppino in Piazza del Duomo a Milano. Chiedevano l'indicazione di una strada per
arrivare da qualche parte. Ovviamente senza ottenere altro che il ridicolo. Era un film di tanti anni fa. Ma sembra
oggi, con le richieste di conoscere il modo per arrivare in Europa. E di sapere quanti migliaia di miliardi ci costerà
Maastricht. E ogni volta arriva qualcuno che fa salire il prezzo. Che ci boccia (Italia in serie B, Italia rimandata).
Che ci copre di vergogna.
Già, quanto ci costa l'Europa. Ma poi, ci piace ancora l'Europa? I tagli imposti da Kohl, la caccia ai sans papier
scatenata da Chirac, è questa l'Europa che ci si aspettava? Quella che si pensava tanto tempo fa, quando ci
raccontavano a scuola - nelle prime lezioni di educazione civica - dei trattati di Roma, quelli del 1950 e del 1951.
Senza contare le citazioni di Altiero Spinelli, che poveretto chissà come ci sarebbe rimasto male di fronte ai calcoli
degli esattori di Maastricht. Davanti ai tassi d'interesse, alle tasse, a tutto quello che ci sarà ancora da pagare per
entrare in quell'Europa dove fino a Maastricht credevamo di essere già. E invece no.
Ma quale Europa avevamo in mente, allora? Forse l'Europa dei primi viaggi da fare da soli, senza più parenti o
accompagnatori scolastici. Quando cominciò a bastare la sola carta d'identità e c'erano quei meravigliosi biglietti a
tariffa speciale per gli studenti. Ecco, l'Europa fu un Festival di Avignone e la scoperta del teatro di Ariane
Mnouchkine. E furono le mostre dei Medici a Firenze. Europa era Londra, Carnaby Street prima, King's Road con i
suoi punk poi, il ritrovarsi a Covent Garden, i mercatini di Camden Passage. E Parigi prima di Chirac. E Berlino
prima durante e dopo la caduta del Muro.
Oggi, che non c'è altra Europa all'infuori di Maastricht, tutto questo sembra così lontano. Così strano. Peccato,
perché era molto più bello.
Aldo Grasso
No comment

"Sono uno dei moltissimi italiani che ieri l'altro, ai telegiornali della sera, hanno sentito con le loro orecchie le
dichiarazioni del pm Alberto Cardino, il magistrato spezzino che ha aperto la botola sul caso Necci..." inizia così un
fondo di Gianni Rocca apparso sull'Unità del 19 settembre. Inizia così, non per colpa di Rocca, un altro clamoroso
caso di caduta di tensione morale nelle comunicazioni. È come se i vigili del fuoco, chiamati a spegnere un grande
incendio, rivolgessero le loro pompe contro un passante che si accende incautamente una sigaretta.

Ricostruiamo la scena incriminata. I magistrati di La Spezia mettono le mani sull'ennesimo intrigo di Tangenti &
Complotti, una seconda Tangentopoli, una perversione democratica e istituzionale resa ancora più malefica dal
senso di impunità che continua ad animare i traffici sporchi in Italia.
Un giovane pm, abituato finora a scambiare qualche impressione con il corrispondente del "Secolo XIX' di Genova,
improvvisamente si trova la strada sbarrata da una selva di microfoni e telecamere. Di fronte all'insistenza dei
cronisti ha un attimo di debolezza: invece di trincerarsi dietro un algido "no comment" (alzi la mano chi possiede
tanto sangue freddo), il povero pm cui era piombata fra capo e collo l'inchiesta della vita, balbetta probabilmente
frammenti di verità: "sì, qualche politico attualmente in carica risulta essere coinvolto...".
Apriti cielo! Ha cominciato Massimo d'Alema, il zelante D'Alema, a impartire regole di comportamento, lezioni di
buone maniere, consigli per gli acquisti. E poi, tutti gli altri. Compresi i giornali, che prima spingono i loro cronisti
a strappare notizie e poi moraleggiano su giudici ciarlieri.
I media soffrono di queste schizofrenie: per due giorni vengono solennemente sgridati i magistrati che,
nell'esercizio delle loro funzioni, si lasciano scappare qualche parola di troppo. E, in sottordine vengono anche
stigmatizzati i ladroni di Stato, gli appaltatori disonesti, i faccendieri collusi.
E così il Guardasigilli Giovanni Maria Flick, sorpreso a cena con l'avvocatessa di Necci, in casa di Luciano Rispoli
(che alte frequentazioni!), si attiva subito per prendere provvedimenti disciplinari contro chi "esterna" e detta regole
ferree: non violare il dovere della riservatezza sui procedimenti in corso, non esprimere pubblicamente giudizi di
assenso o dissenso su procedimenti in corso, non coinvolgere i politici in indagini relative a reati contro la pubblica
amministrazione. Sia chiaro: Flick ha ragione ma il suo intervento non soffre di strabismo mediatico? Per questa
goffa intempestività, il ministro si becca un puntuto "Senza senso" di Stefano Bartezzaghi.
"Mi chiamo proprio Flick
(sic!), son ministro
segnato ho il tuo cognome sul registro".
Se un magistrato esterna,
Flick (sic!): zac! si costerna:
"a te io quela lingua la salmistro".
E così il Presidente della Camera Luciano Violante, uno che quando c'è da parlare non si tira mai indietro, dice ai
magistrati: "imparate a tacere". E poi con un tocco di vera finezza: "Qui c'è la democrazia, non Khomeini". E anche
lui, per non restare indietro, detta regole ferree: sul segreto delle indagini, sulle dichiarazioni dei magistrati, sulla
pubblicazione delle intercettazioni. Anche Violante ha ragione, ma di fronte allo scandalo di un paese a corruzione
continua bisogna per prima cosa bacchettare chi fa con correttezza il proprio mestiere?
Certo, verrà il momento di dedicarsi non solo al rapporto fra magistratura e mafia, ma anche alla fenomenologia
della cimice e alla semiologia dell'intercettazione ambientale. Ma, per intanto, ci farebbe piacere che stampa,
televisioni e istituzioni riservassero più tempo, e più spazio, alla riprovazione dei malfattori e non a quella del
"circo mediatico-giudiziario". Di cui, tra l'altro, fanno parte a pieno titolo.
Adriano Sansa
Genova, la realtà irrilevante

Quando sono arrivato in Piazza Affari a Milano, per presentare il collocamento in Borsa dei titoli dell’Amga, gli
operatori finanziari mi hanno accolto dicendomi che ero il primo sindaco di una città italiana ad entrare in Borsa
con i titoli di un’azienda del suo comune. Era un evento, hanno sottolineato. I giornali economici ne hanno parlato
ampiamente.
Al di fuori di questa circostanza, trovo invece problematico l’aspetto della comunicazione. Ho passato la vita a
leggere moltissimo i giornali, ne ho sempre letti sei o sette al giorno, per poter avere una panoramica completa di
quello che accadeva, ho sempre avuto molta fiducia nella funzione della stampa, tra l’altro sono pubblicista e ho
una rubrica su Famiglia Cristiana da 25 anni, ma oggi mi sento fortemente deluso.
Noto una tendenza nuova, diversa. Pur sapendo quanto si sia lontani dal motto del giornalismo americano "i fatti
separati dalle opinioni", oggi spesso sui nostri quotidiani quasi non vedo più i fatti e neppure le opinioni, ma ci
sono rappresentazioni immaginifiche e la gente si sta abituando a questo giornalismo virtuale.
Di fronte a questo tipo di informazione, che risulta approssimativa, poco rigorosa, innamorata dell’effimero,
dell’evento ad effetto e che insegue l’insolito, non so come comportarmi, perché attira l’attenzione soltanto colui
che è capace di fare mosse a effetto.
Da quando sono sindaco ho cercato di evitare qualsiasi tipo di comunicazione mistificante, ma non so se sono
riuscito a farmi capire dai miei concittadini, perché nel tentativo di fare un’informazione onesta e non virtuale, di
resistere ad una comunicazione che rischiava di diventare fasulla, ho finito per comunicare troppo poco.
La sfida di una comunicazione corretta è difficile da vincere, mi sembra di non avere i mezzi necessari, con i
genovesi cerco un contatto diretto, cerco di stabilire rapporti personali, ma queste sono cose che possono bastare al
sindaco di una piccola città, ma Genova ha 700mila abitanti e in un mandato di quattro anni, pur passando tutte le
serate ad incontrare i cittadini per ascoltare, spiegare e discutere, si possono incontrare al massimo centomila
persone.
Oggi penso che si possa avere una comunicazione migliore in televisione, perché c’è meno intermediazione, è vero
che puoi venire tagliato, ma le parole che hai pronunciato restano quelle e il tono del discorso anche, quando vengo
intervistato dai giornali invece mi capita di vedere riportate cose diverse da quelle che ho detto, non ho garanzie
che il mio pensiero verrà rispettato, e non so che taglio avrà l’articolo. Il giornalista ha una grande responsabilità
perché credo abbia più possibilità di deformare la realtà rispetto alla televisione.
Voglio fare l’esempio dei Boc, i buoni ordinari del comune, i bot emessi dalle amministrazioni delle città, che oggi
vanno tanto di moda. Sono uno strumento interessante, ma io li farò solo se sarà conveniente per la città, fino ad ora
non lo è stato, ed anche se fare il Boc dal punto di vista dell’immagine e del ritorno pubblicitario è come fare i
fuochi d’artificio, se non sarà conveniente accenderò un mutuo, ma questo, lo so, non farà proprio notizia.
Genova è una città con un bilancio sano e limpido, quando sono arrivato era vicina al tracollo ma oggi i suoi conti
sono stati risanati e tra le grandi città è una di quelle che ha i bilanci più a posto. Questo i suoi cittadini devono
saperlo e la mia sfida è quella di trovare un nuovo modo di comunicare, che non mi obblighi a farmi fotografare in
barca o mentre accarezzo un bambino e a mistificare la realtà, ma che evidenzi il lavoro di una città.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

(Soluzione dei giochi del numero precedente)

Questa puntata di Autogolem è composta da due serie. La prima serie (ordinata per numeri) si crede poliglotta,
frequenta lettere esotiche e si mette nei pasticci. La seconda serie (ordinata per lettere) è tranquilla, italiana,
tradizionale, senza grilli o (si fa per dire) ipsilon per la testa. Dall'uno al cinque si anagrammano le stesse otto
lettere; dalla A alla E le stesse sette lettere, che però non sono quelle di prima. In 1. Le rime non sono perfette. Chi
lo è, del resto?

1. ALMENO IL BISCOTTO, CIUMBIA


Non ti piace questo krapften.
Non gradisci questa Sacher
Se non mangi, resti "màgher".
Non lo prendi, allor, ‘xxx xxxxx?

2. NON RICORDO LA COMPAGNIA


Alitalia? chi lo sa.
La Lufthansa? Dico: "mah".
Linee Aeree Canadà?
O era, xxxxx, X.X.X:?

3. ROMA PER TOMA, VOV PER WOW


È una cosa manifesta
che non merita un'inchiesta
né ammette la protesta.
Una "V" nostrana questa?
Dico io, dove hai la testa?
È una doppia "X" xxxxxxx!

4. IL VERO COWBOY
Prova pure, fammi un test:
col cappello fo la siest;
agli indiani fo la fest
con la Colt io son the Best;
baro al gioco (disonest).
T'amo troppo, x Xxx Xxxx!

5. GIOIE E DOLORI DELLA TECNOLOGIA


Certo, il xxxxxxxx è cosa floscia
come soffice brioscia.
Se funziona, accendi e poscia
il computer dati scroscia:
batti mano sulla coscia.
Se si rompe, quale angoscia!

A. OCCHIATE IN BALERA
Quella bionda col toupet
che nel tango fa il casque
roteando sul parquet
guarda te, x xxxx xx?

B. COSA DIRANNO, A BROADWAY


Qualche cosa devi fare!
Se non reciti, ballare.
Se non balli, almen cantare.
Se non canti, piroettare.
Imitare o sculettare.
Declamare x xxxxxx.

C. ABITUDINARIO
"Per quest'anno non cambiare..."
Te la puoi pur figurare
quanta voglia ho di mutare
la mia spiaggia, il xxx xxxx.

D. IL COLLE SI RIBELLA
Non ci viene forse il C.A.I.
o l'inviato della R.A.I.
Compagnia, però, ne ho assai
Fui tranquillo. Xxxx, xxx.

E. INDOVINELLO SUL COMPUTER


Ha gli archivi, e non è storia.
Coi dischi non fa baldoria.
Fa di tutto e non ha boria.
Non è uomo e ha xxxxxxx.

SOLUZIONI

1. ‘sto wafer
2. forse T.W.A.
3. "W" foresta
4. o Far West
5. software
A. o mira me
B. o mimare
C. mio mare
D. Ermo, mai
E. memoria
Rime esagerate
Umberto Eco

LA TEMPESTA
Il grande anglista, in un momento prospero
scrisse un saggio su Ariele (e anche su Prospero)
"Ai miei lettori non importa un prospero,"¹
disse, "ma a me non può che far buon prò (spero)"

¹prospero, sostantivo romanesco: "zolfanello"; senso figurato: "cosa di poco valore".

ULIVO ALLA CASA BIANCA


Si batté Prodi, preso dallo scrupolo
di non ridur la lira a meno scrupolo¹.
Vinse, ed a Clinton disse "Well, I screw Polo!"

¹scrupolo, antica misura di peso; quantità minima, inezia.

SEGNO DI ACHAB
Dopo aver catturato la balena
farei un busto con la sua balena¹...
Ed è nel viaggio che l'idea balena
da Basilea al Vesuvio (Bâle - NA).

¹con le stecche di balena si facevano i busti.

DOLCE GABBANA
Sarto qual son, un giorno lesto abbordo
una dama assai bella e d'alto bordo,
e con mano leggera ecco le bordo
al fondo della veste un vago bordo
con una delicata tinta bordò.
E questo avviene in un incontro a bordo
del Transeuropa da Nimega a Bordeaux.

INCITAMENTO DI LEGHISTA SUCCUBE


Tra siepi di Padania ed alti bossi
vado a incontrare il mio padrone Bossi
ed in anglo-latin l'incito: "Boss,i"¹.

¹i: imperativo del verbo latino ire, andare. È noto l'equivoco sulla frase "I vitelli dei romani sono belli" (vai, o Vitellio, dio romano, al
suono della guerra). Due crittografie mnemoniche opponevano un tempo (Prima Repubblica, torna, è tutto perdonato) gli allora
organi degli allora PSI e PCI. La prima diceva: "I". Il solutore doveva capire che si trattava del "Corrispondente romano dell'Unità" (I
"corrisponde" nella numerazione "romana" al numero uno). La seconda diceva: "I". Il solutore doveva capire che si trattava del
"Corrispondente romano dell'Avanti!" (I corrisponde in latino a: "vai!", "adelante", "avanti")

PROGETTO INFAME DI PELLICCIAIO


Da William mi travesto, ecco mi bardo
in modo da sembrare quel gran Bardo.
Poi un calice colmo offro, ed al bar dò
(come alla Rosamunda il gran Lombardo)
alla mia arcinemica Brigitte Bardot.

FAN ESAGERATO
Siccome Pavarotti non è un cane
ed io gli son devoto come un cane,
l'affronto, del revolver alzo il cane
ed in latin gli grido: "Cane, cane!"¹.

¹cane: imperativo del verbo latino canere, cantare. La parola si presta a vari giochi italo-latini, della serie de "I vitelli..." (vedi sopra);
classico il "cane nero", che significa "canta o Nerone". Un bello scioglilingua latino dice: "Cane decane, canis? sed ne cane, cane
decane,/De cane; de canis, cane decane, cane" (Tu canti, o canuto vegliardo? Ma non cantare, o canuto vegliardo,/di un cane; canta,
canuto vegliardo, della canizie)

MATRONA LONGOBARDA RIPUDIATA


Cuoceva male tutti gli alimenti,
si pretendeva un angelo (Ali¹?Menti!)
Divorziare? E chi paga gli alimenti?
La spedii al confino: "A limen,ti!²"

¹ ali; voce del verbo aliare, volare.


² limen, latino: soglia, limitare. Ti, lombardo: pronome di seconda persona singolare, sia nominativo che accusativo. "Dà del tì": dare
del tu; "Ti te se no": tu non sai (titolo di una canzone di Iannacci); "L'è per tì": è per te. Pleonastico e in posizione finale, rafforza: "te
gh'è reson ti": tu hai ragione te. Non è: "tu hai ragione", ma "hai proprio ragione te", dove l'accentuazione dà a tutta la frase una
connotazione maligna e irridente.

POST SCRIPTUM, di Stefano Bartezzaghi

Questo nuovo gioco del professor Eco ha a che fare con la rima, ma con una rima onnivora, che deglutisce di tutto.
Su La Stampa - Tuttolibri l'ho chiamata: "rima esagerata" (in assonanza con la Vita spericolata, esagerata e piena di
guai di Vasco Rossi: voglio una rima come Steve McQueen). Le rime esagerate di Eco accettano:
la rima fra eguali, o "equivoca": prospero/prospero
la rima fra la stessa parola in due lingue diverse, o: "rima dei falsi amici": cane (italiano)/cane (latino)
la rima con spezzatura, o "franta": prospero/ pro, spero,
la rima solo fonetica, o all'orecchio: bar dò/Bardot
la rima trans-fonetica, o rima della Vacca Spagnola: scrupolo/screw Polo
la rima né fonetica né ortografica, né all'occhio né all'orecchio o rima guercio-sordastra: bordo/Bordeaux
la mia ricca, riccastra o come si chiama: bardo / lombardo.

L'importante è ripetere a ogni verso la sequenza di lettere o di suoni finali, cercando di non deragliare dalla metrica
o dalla parvenza di senso, giacché deragliamento d'asino non sale al cielo.
Un pallido epigono che temo di conoscere ha seguito l'esempio di Eco con la seguente strofa:

L'AZZARDO DILAGA NELLA NUOVA SODOMA


Di merce venduto un lotto
in piazzal Lorenzo Lotto
contro sè stesso ei lottò
per non giocar tutto al Lotto
sul 20, il 36, l'8.
Infine incontrò Lot: "toh!".

Non è difficile far meglio, anche perché qui si tratta, in realtà, di rima esagerata-moderata: la rima esagerata-
esagerata non avrebbe trascurato le parole che finiscono in "-lotto": agnolotto, cubilotto, borlotto, Pievano Arlotto....
Come le foglie
Giovanna Grignaffini

Non c'é allegria da rientro in questa rallentata riapertura del Parlamento dopo la breve estate del ‘96: solo una
stanca vocazione notarile che annota, registra e puntualizza i numeri.
"Sarà di almeno 50.000 miliardi. Non più di 100.000 sul Po. 200.000 a Milano. Almeno 300.000 a Modena.
20.000.000 al mese. Centinaia di migliaia in tutta Italia."
Parlano solo le cifre in aula e nelle commissioni, mentre tutti i colori e gli umori che campeggiano nell'aria
annunciano già l'autunno e la sua resa dei conti.
In attesa dell'autunno, un accogliente e ovattato immobilismo imprime una cadenza da ralenti anche ai concitati
movimenti provenienti da fuori: i sobbalzi di una finanziaria che ci porterà verso l'Europa, il vortice dei piccoli
incontri e grandi raduni che ci porteranno nell'Internazionale Socialista e nel sistema bipolare, la perigliosa marcia
lungo un fiume che ci porterà chissà dove, le nuove esplosioni di una polvere di scandali che ci porterà nel passato
più profondo, il vivo ritorno del blu sull'asfalto assorto delle piazze e delle strade.
Là tutto si agita e vive. Qui tutto attende, evapora e muore. Senza un sussulto, nè una impuntatura.
Ma, da dove viene questo sentimento così netto di una scissione irricomponibile tra lo scorrere, là fuori, delle
azioni e dell'incrostarsi, qui dentro, fianco delle parole?
Solo qualche punto fermo per una domanda che ha fin troppe ragioni.
Innanzitutto alcune antiche ragioni squisitamente tecniche: l'insostenibile peso del bicameralismo e dei regolamenti
interni delle due camere, unitamente alla vocazione pervasiva, frammentaria e pletorica della nostra legislazione.
Poi, contraddizioni consolidatesi nel tempo ma rese più vivide dai nuovi scenari della politica: lo schiacciamento
dell'attività del Parlamento sulla "ratifica" di decreti-legge e finanziarie; l'incerta definizione della rappresentanza
"di collegio" all'interno di un sistema rimasto nazionale; il mancato adeguamento del sistema parlamentare ad un
sistema politico ed elettorale che tende al bipolarismo. Per non parlare di quella nuova cultura delle istituzioni che
vorrebbe rendere indisponibile il Parlamento alla vecchia cultura dei partiti che lo abitano e governano.
Nell'insieme, una sostanza così vischiosa, compatta e pervasiva da rendere falso, qui dentro, ogni movimento.
Così, in attesa della Grande Riforma che verrà e che dovrebbe conferirgli nuovo slancio, diverso potere, nuove
funzioni, efficacia, vigore e, soprattutto, dignità il Parlamento "sta, come d'autunno sugli alberi le foglie".
Un Matriarcato piccolo piccolo: L'albero di Antonia
Rossana Di Fazio

L'albero di Antonia della regista W.Ammertrodv è nelle sale da molto tempo, segno che ha avuto successo; ne ho
sentito parlare solo bene: le donne che ho interpellato, entusiaste, gli uomini pure, con una riserva sulla propria
immagine, comprensibile, visto che non ne escono certo come tipi interessanti.
La traduzione del titolo è fuorviante rispetto alle intenzioni dell'autrice perché non esplicita il significato
genealogico di albero, nel quale risiede il vero senso del titolo originale (Antoniàs line), che ambiziosamente si
riferisce all'idea di generazione femminile e matrilineare.

A me il film non è piaciuto molto.


Non mi è piaciuta l'organizzazione del racconto: trovo che la scelta di far commentare tutto alla voce fuori campo
sia didascalica e finisca per appiattire fortemente il racconto.
Questa Antonia è sempre meravigliosa, saggia, non ha un cedimento né una contraddizione: è esente da errore o
ripensamento. Il suo rapporto con la figlia (l'unico personaggio che mi è sembrato accettabile) è sempre sereno e
felice.
Il punto di vista del racconto è quello della bambina, l'erede della generazione di Antonia, è vero, e questo
giustifica una visione sostanzialmente mitica della nonna, ma la prospettiva si chiarisce solo nelle ultime sequenze
del film, e ormai i personaggi sono stati completamente rivelati.
Credo che un personaggio, chiunque esso sia, abbia il diritto di essere articolato. Non sto affatto lamentando una
mancanza di realismo nella descrizione del personaggio principale. Un personaggio assolutamente fantastico arriva
ad ottenere una verosimiglianza assoluta perché ne si articola le potenzialità e il carattere. Non posso fare a meno di
portare l'esempio dell'armatura vuota di Agilulfo, il cavaliere inesistente di Calvino, che esiste, eccome.
Insomma è la complessità di Antonia e della sua specie che mi manca.

Se ho scelto proprio Antonia per criticare (criticona!) alcuni aspetti che sono più che comuni nel cinema di oggi, è
perché questo film ha più ambizioni di altri, e perché ne ha su un fronte che mi sta a cuore e su un tema attuale
ormai da un decennio nella cultura femminista.
Questa felice comunità femminile che può fare a meno degli uomini tranne che per procreare non mi serve e non mi
attira, né mi rassicura il fatto che l'odioso stupratore possa per misericordia uscire di scena. Non è una visione
radicale, che immagina un'autentica autonomia lesbica, ma nemmeno curiosa di approfondire le complicazioni e
l'interesse di una nuova convivenza fra donne e uomini.
Non occorre divenire pesanti per intravedere questi orizzonti: per questo mi dispiace non poter abbondantemente
parlarvi di Grace of My Heart, perché in un contesto molto meno ambizioso, i personaggi e le loro relazioni sono
descritte con una grazia rara e si racconta con umorismo e discrezione di una cantante che non ha speranza in tempi
di gruppi maschili, di gelosie e amori per uomini e donne: senza pretenziosità, ma soprattutto senza retorica.
Speriamo che il doppiaggio non ce lo sciupi troppo.

Ecco, io ho trovato l'Albero di Antonia retorico e la retorica è un problema di forma che finisce per svuotare anche
il contenuto più condivisibile.
L'Albero di Antonia per il carattere di esemplarità ha un impianto ideologico che chiede di essere condiviso:
secondo me il pubblico lo ha acclamato per un'adesione sostanzialmente politica verso una serie di valori sempre
più diffusi, ma non ancora comunemente condivisi, più che per le sue qualità cinematografiche.
Io temo questa riduzione di complessità, nella forma e nei contenuti, questo didascalizzare, anche perché il mercato
premia e accetta di tutta la cinematografia femminile e femminista solo queste produzioni addolcite, forse proprio
perché sono innocue.
Passa, così, solo una retorica dei valori femminili, uno stereotipo delle identità e una riduzione di realtà che
oltretutto, in un contesto di discorsi così limitato, esige una adesione ideologica che personalmente mi disturba.
Questo appiattimento della forma sui buoni contenuti credo che finisca per non esprimere assolutamente nulla.
Dire, male, delle cose giuste è molto difficile: si finisce per dire cose sbagliate.
Mi hanno detto che il mio si chiama "complesso dell'arbitro di casa" e ammetto che forse è proprio così. Chissà
perché qualche volta mi fanno arrabbiare gli avversari relativi più di quelli assoluti?
Carlo Bertelli
Per Antonio Cederna

La morte di Antonio Cederna, malinconico eroe di tante battaglie, ha suscitato una questione omerica alla rovescia.
Le città greche si contendevano il titolo di aver dato i natali ad Omero, così come di Torquato Tasso ci si
domandava quale fosse la vera patria. Ricordate la commovente lapide dedicata al Tasso a Sorrento, in un lembo di
città che forse proprio le battaglie di Cederna contribuirono a risparmiare?
Ebbene a Cederna morto si sono invece disputati i luoghi, fra loro distantissimi, da dedicargli. Si chiamerà con il
suo nome la zona che l'Ilva di Bagnoli sta per lasciare, se sarà salvata dalla speculazione? oppure il parco
archeologico che dal centro di Roma, ossia dai Fori, raggiungerà la via Appia, se mai si realizzerà? Altre coste
marine, altre sponde fluviali sono candidate a prendere il suo nome. Con la morte Antonio Cederna si è innalzato
da amaro critico a luminosa speranza. E così sia.
Interessante, intanto, verificare come la stampa, apparentemente nazionale, ma di fatto di forte impronta cittadina,
ha commentato la scomparsa di questo personaggio scomodo. Pagine intere sul "Messaggero", sulla "Stampa", sulla
"Repubblica", sul "Manifesto", "Liberazione"... Sul "Corriere della Sera", cui Antonio Cederna aveva in passato
collaborato, una breve notizia firmata L.C. in taglio basso in una pagina interna.
La scelta del "Corriere" può apparire severa, ma è probabilmente il freddo riflesso di una situazione reale.
Milano, la città della giovinezza di Cederna, la capitale un tempo "morale" e motore del moralismo dello stesso
Cederna, ha cessato da diversi anni di essere un centro intellettuale; se per intellettuale si comprende chi assume,
consapevole della propria preparazione specifica, una posizione critica (diverse le definizione che ne dà il Lessico
dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, èra Cappelletti, che merita di andare a vedere). Se Milano fosse più critica
sarebbe impossibile apprendere dai giornali che il Comune intende convertire la centrale via Dante in un piccolo
campo di golf, con tanto di istruttori che introdurranno gli ignari ai segreti di questo sport. E sarebbe evidentemente
derisorio intitolare a Cederna il campetto di via Dante.
Cederna si è battuto per risparmiare dalla speculazione luoghi lontani della Calabria, del Lazio o dell'Abruzzo,
dove non va chi preferisce il tutto compreso alle Maldive. Eppure, poiché antropologicamente non esistono spazi
senza cultura, bensì culture diverse, c'è da chiedersi perché l'impeto di Cederna abbia a stento superato l'Appennino.
La stessa costituzione del Fondo Ambiente Italiano (FAI) appare allora come una rinuncia alle battaglie generali di
Italia Nostra per consolidare una linea di resistenza basata sull'acquisizione diretta e, quindi, su di una sostanziale
sfiducia verso le istituzioni pubbliche.
Invece le campagne di Cederna sono sempre state nell'ottica di una forte assunzione di responsabilità dell'ente
pubblico.
È verosimile che l'uditorio di Cederna, da Roma a Palermo, fosse diverso da quello che avrebbe avuto a Milano. Le
mobilitazioni di Cederna toccavano vasti settori dell'amministrazione pubblica, la scuola, l'università (nelle facoltà
di lettere, specialmente), il mondo dell'archeologia, ivi compresi gli autorevolissimi istituti stranieri presenti a
Roma. Il tessuto di Milano è diverso. L'istituzione milanese più tipica è la Triennale e le facoltà che hanno
maggiore impatto sull'opinione pubblica sono qui quelle degli ingegneri e degli architetti. È difficile mobilitare gli
architetti sulla rinuncia a costruire, mentre la sfiducia nel pubblico ha confinato in ambiti ristrettissimi problemi
grossi come il parco e la villa di Monza, il castello di Vigevano, il palazzo ducale di Mantova, la stessa
razionalizzazione del Castello Sforzesco... La stessa archeologia industriale non ha individuato a Milano nessun
oggetto degno di attenzione e capace di una prospettiva diversa da quella di un'area dismessa.
Mi sembra così che il silenzio intorno a Cederna attesti l'impossibilità di un dialogo, generata dall'incomprensione
delle differenze. Il FAI è una coraggiosa e lodevole fuga in avanti, ma vi è ancora un vasto territorio sul quale
l'interesse pubblico non riesce ad essere rappresentato.
Fumetti
a cura di Comix

Una storia di Cinzia Leone

Altan
Giulio Blasi
Atenei nella rete

La responsabilità delle università italiane


(da leggere con Netscape 2.0 o Internet Explorer 3.0)

Sarebbe davvero pretestuoso cercare di dedurre qualcosa sullo stato di salute delle università italiane a partire dal
modo in cui esse (in rapporto ad altri paesi) gestiscono la loro interfaccia Internet, ad esempio i loro siti WWW.
Però si può fare l'opposto osservando come lo stato di salute di Internet in Italia sia fondamentalmente
proporzionale al livello dei servizi on line forniti dalle nostre università.
Raccolgo qui di seguito una piccola lista di siti universitari italiani che vi invito a navigare. Il panorama che ne
emerge è secondo me desolante, salvo rarissime eccezioni "storiche" (tra le quali va menzionata l'Università di
Bologna). Interfacce di navigazione di livello "amatoriale", caos ipertestuale allo stato puro, interattività
praticamente inesistente, basso grado di aggiornamento delle pagine, incuria nel trattamento editoriale dei testi,
rarissima implementazione di sistemi di ricerca, la comunità accademica reale praticamente assente.

● Università di Palermo
● Università di Cagliari
● Università di Reggio Calabria
● Università di Salerno
● Università di Napoli
● Università di Roma "La Sapienza"
● Università di Firenze
● Università di Bologna
● Università di Parma
● Università di Padova
● Università di Venezia
● Università di Genova
● Università di Torino
● Università di Pavia
● Università di Milano
Cosa può mostrarci il surfing tra le risorse web delle nostre università? Il ragionamento è semplice.
Sino all'inizio degli anni '90 Internet è stata popolata essenzialmente da utenti accademici (negli USA la situazione
era in realtà più complessa già negli anni '80 ma non è questa la sede per esaminare le differenze). Lo sviluppo
"commerciale" di Internet degli anni '90 (cioè l'entrata in gioco delle imprese e di un pubblico generico di
navigatori non necessariamente accademici) ha preso le mosse dall' "infrastruttura" di dati, contenuti e servizi
preesistenti. I primi navigatori non-accademici di Internet, grosso modo tra il 1991 e il 1994, si affacciavano su un
mondo di informazioni gestito da e per professori, studenti e ricercatori (prevalentemente americani).
Oggi la situazione è radicalmente cambiata. I computer connessi a Internet delle istituzioni educative americane
(quelle che hanno indirizzi con il suffisso "edu") sono 2.114.851, mentre i computer connessi da organizzazioni
private e commerciali (quelle con il suffisso "com") sono 3.323.647 (dati del luglio 1996, Network Wizards . Se si
estende l'analisi oltre i confini degli USA, la forbice tra imprese ed istituzioni educative on line si allarga ancora di
più.
È tuttavia evidente che la qualità delle risorse distribuite on line dalle università è strettamente correlata ai tassi di
crescita della connettività nei vari paesi. La tabella che segue vi permette di fare una verifica diretta. Per ogni paese
ho raccolto il link a un indice di siti universitari (su Yahoo), il numero di computer (host) connessi a Internet
(numero che moltiplicato per 5 da un numero indicativo degli utenti Internet effettivi), gli abitanti di ciascun paese
in modo da avere un'idea delle proporzioni.

Paese Indici di siti universitari Numero di Host (luglio Abitanti


su Yahoo '96)
Usa 8.224.279 260.967.000

Gran Bretagna 579.492 58.422.000

Germania 548.168 81.966.000

Canada 424.356 29.107.000

Giappone 496.427 124.960.000

Francia 189.786 57.982.000

Italia 113.776 57.313.000

Fonte: Rielaborazione di dati Network Wizards e CyberAtlas

Lascio a voi l'interpretazione di questi dati. Ma almeno un'osservazione è necessario farla. Se il tasso di diffusione
degli strumenti telematici in Italia ha valori così bassi le università hanno in questo una responsabilità decisiva. La
diffusione commerciale di Internet inizia infatti in Italia solo nel 1994 (!).
Si potrà anche sostenere che gli investimenti privati italiani nei servizi telematici sono stati insufficienti ma è del
tutto evidente che le istituzioni che altrove hanno svolto un ruolo trainante nella cosiddetta "rivoluzione
telematica" (dalla fine degli anni '60 ad oggi) - le università, appunto - in Italia semplicemente latitavano (salvo,
ripeto, gloriose eccezioni). Senza giustificazioni, per semplice e vergognosa arretratezza culturale. È a partire da
quella poverissima infrastruttura di dati universitari che si va costituendo oggi il pubblico di Internet. C'è poco da
stupirsi, dunque, nello scoprire che i nostri tassi di connettività sono 10 volte inferiori a quelli della vicina Svizzera.
Roberto Caselli
Il prezzo, il valore, il diritto

All'inizio del '95, in un normale negozio di settore, un compact disc costava trentaduemilalire, a quasi due anni di
distanza, salvo qualche ulteriore ritocco natalizio, il prezzo è salito a trentasettemila lire, un 8% d'aumento annuo
che si attesta ben oltre il tasso d'inflazione. Se le vendite discografiche non subiscono da tempo impennate
significative, ma anzi fanno sempre più fatica a mantenere una soglia di minimo, è senz'altro anche perché i costi di
vendita sono elevati e vengono recuperati solo in parte da quel catalogo a prezzo speciale che rattoppa molti buchi.

Se si prova a chiedere ad un discografico come mai il costo di un CD sia così elevato, la risposta più plausibile è un
cenno del capo che sottende commiserazione per la disinformazione ostentata. "La verità", ci si sentirà rispondere,
"è che il costo al pubblico di un CD è troppo basso rispetto ai costi generali reali a cui è sottoposta la casa
discografica."
Andiamo allora ad indagare più a fondo scopriamo che ci sono tre figure chiave nella catena produttiva-distributiva
di un compact disc: la casa discografica stessa, che è proprietaria del master della registrazione, il distributore, che
provvede a recapitare nei punti vendita i vari prodotti e il rivenditore che infine ha a che fare con il pubblico (per
semplicità non consideriamo il caso in cui entri in gioco anche la figura del grossista, che si collocherebbe subito a
monte del rivenditore). Nel caso delle majors di settore (BMG-Ricordi, CGD East West, EMI, PolyGram, Sony e
WEA)
i dischi prodotti vengono distribuiti dalla stessa struttura per cui le prime due voci coincidono.
Analizzare i costi della casa discografica è il problema più complesso perché qui entrano in gioco una serie di
variabili difficili da standardizzare come le royalties percepite dall'artista, dal produttore e dall'arrangiatore, che
variano dipendentemente dalla possibilità potenziale di vendita che hanno, e i costi di registrazione che anche in
questo caso dipendono da quanto ci si aspetta dal prodotto finito. Ipotizzando un lavoro più che dignitoso portato a
termine da un cantante di discreto successo si possono quantificare i seguenti costi per ogni singolo CD venduto al
pubblico a 37000: Costi di Registrazione lire 1540 lire , Royalties Artista Lire 2550 , Royalties Produttore Lire
920 , Costi di Promozione Lire 865 , Spese Generali Lire 810 , Utile lire 970.
Il distributore si deve invece accollare i Costi di Fabbricazione Lire 2430 , i Costi di Distribuzione Lire1320 , i
Costi di Vendita Lire 1320, i costi SIAE Lire 2080 e le ovvie Spese Generali Lire 2420. L'Utile è di Lire 3295.
Il venditore acquista quindi ogni singolo CD a 20520 lire ai quali vanno aggiunti 3000 lire di ticket TV (un bonus
per sostenere parte della pubblicità televisiva che spetta alla casa discografica) per un totale di lire 23520. A questa
cifra bisogna aggiungere il 13% di IVA (lire 3055 arrotondate) e un'ulteriore costo IVA calcolato sul prezzo di
vendita al pubblico di lire 1170. Il guadagno del negoziante è dunque di lire 9255, a cui vanno poi sottratte le sue
spese generali che vanno dall'affitto del locale a quelle del telefono, e così via.
Come si vede i guadagni pro capite non sono vertiginosi, soprattutto perché album che vendono un milione di copie
sono pochi, ma certo un disco ben azzeccato assicura a tutti utili molto interessanti.
Di abbassare i prezzi non se ne parla neanche, una politica di abbattimento dei costi a favore di una possibile
maggiorazione delle vendite è giudicata troppo ardita da tutte le parti interessate; ancora una volta spetterà dunque
al fruitore la scelta di acquistare un disco piuttosto che di un altro bene di consumo. Il diritto alla cultura (quando di
cultura si tratta), per chi non ha grande disponibilità, si afferma solo rinunciando ad altri diritti.
Caterina Zaina
Ritorno al frutteto

Piante antiche a Torba / Mele, pere e frutti di ogni tipo, purché rari e introvabili, in un'insolita mostra-mercato
nell'antico complesso monastico. Un'occasione per riscoprire le località alle porte di Varese tra vestigia longobarde,
affreschi preziosi e sapori d'altri tempi

Ritorno al frutteto

Arrivano dai quattro angoli d'Italia e, spesso, sempre più spesso, dall'estero. La cornice, inoltre, non potrebbe essere
più appropriata. Tra le antiche mura del monastero di Torba presso Gornate Olona, alle porte di Varese, si danno
infatti convegno i vivaisti e gli studiosi di alberi da frutto oggi dimenticati.
Ai piedi della poderosa torre che segna il complesso abitato dalle monache benedettine fin dal 1049, i cultori della
botanica d'antan sembra vogliano ribadire che più la scienza progredisce più l'uomo vuole restare attaccato, là dove
può, a un appiglio sicuro. L'attenta opera di restauro del Fondo Ambiente Italiano, che ha profuso il meglio delle
proprie energie per restituire dignità a sale con affreschi altomedievali, usate per secoli come granaio, va quindi di
pari passo con l'attività di chi cerca di restituire al mondo le specie di frutta che la standardizzazione dei mercati
agricoli ha fatto sparire.
Il 12 e il 13 ottobre, a Torba, è perciò di scena La frutta antica, mostra-mercato giunta alla terza edizione e che vede
come protagonisti i frutti un tempo presenti nelle campagne e sulle tavole degli italiani. Saranno esposti alberi tra i
quali vale la pena ricordare il biricoccolo, un ibrido naturale tra l'albicocco e il susino, e il caco-pesca.Tra le tante
varietà di pere, il broccolino, la Mora di Faenza, la Principessa di Gonzaga.E fra le mele: tutte le renette, la Rosa
Mantovana, la Permain Doré, ma pure la Bella di Barge, la mustlot o la Edoardo VII, per far menzione di specie
originarie del vicino Piemonte.
Alla manifestazione partecipano sia associazioni sia comunità montane e produttori che propongono e vendono i
loro frutti. Primi fra tutti l'Erso, Ente ricerca e sperimentazione in ortofrutticoltura (via vicinale Monticino 1069,
Diegaro di Cesena, Forlì, tel.0574-29810), Pomona, l'Associazione nazionale per la salvaguardia e la tutela della
frutta antica, e la Comunità montana della Bassa Valle di Elvo (via Martiri della Libertà 29, Occhieppo Superiore,
Biella, tel.015-2593388). Poi Raffaele Bassi, vivaista che produce piante di castagno e si è fatto un nome anche con
le varietà frutticole antiche (Bassi Vivai, frazione Trucchi, Cuneo, tel.0171-402149 o 492850) oppure gli specialisti
emiliani dei vivai Flora 2000 (via Zenzalino Sud 19, Budrio, Bologna, tel. 051-800406).
La rassegna dà modo di ammirare tutte le forme assunte dalle piante nel corso della coltivazione, fino a diventare
veri elementi decorativi: dal melo a spalliera, al pero a palmetta o al pesco a fuso. Esemplari di alberi da frutto
antichi che valgono come nuove proposte di coltivazione, ma anche come soluzioni decorative per terrazzi o piccoli
giardini.
Non occorre, infatti, avere un frutteto a disposizione. E, in molte città, basta alzare lo sguardo oltre il semaforo per
veder spuntare alberi da frutto, belli sì, ma senza disdegnare la dolce produzione di albicocche o mele, ciliegie o
pesche. Una moda che vede non solo gli appassionati di botanica, ma pure semplici curiosi acquistare alberelli di
ogni genere. Come confermano gli oltre 2000 visitatori che, per due giorni, hanno affollato la scorsa edizione della
mostra-mercato di Torba.
La rassegna può rappresentare un'interessante occasione per visitare il complesso monastico, nato nel V-VI secolo
dopo Cristo come avamposto militare e che si presenta dalla strada sottostante con un severo torrione di
avvistamento. Adibito a convento in epoca altomedievale, probabilmente nell'VIII secolo, conserva ancora di quel
periodo affreschi visibili proprio all'interno della torre.E sono i temi rappresentati ad aver fatto pensare agli studiosi
che vi abbia soggiornato una comunità di monache benedettine. Se, entrando nel cortile, la torre si impone in fondo
a destra prima, sullo stesso lato, si trovano la rustica struttura dei depositi agricoli (di costruzione posteriore) e
quello che si ritiene fosse il convento delle monache. Vi ha sede il piccolo negozio del Fai che vende pubblicazioni
che riguardano la zona e i suoi luoghi da visitare, ma pure miele e altri prodotti di coltivazioni biologiche.
L'ingresso è in comune con Il refettorio, ristorante un pò fuori della norma, dall'arredo volutamente semplice e
dall'atmosfera severa, attivo a pieno titolo solo in occasione delle manifestazioni e con un menù unico che varia a
seconda della stagione e dell'estro della Badessa, com'è chiamata Raffaella Maestri, cuoca e moglie di Giuseppe
Luisi che con lei lo gestisce. Un esempio: risotto, o crespelle o timballo, arista alle prugne o stracotto con polenta,
contorno di verdure, dolce. Prenotare con una settimana d'anticipo, e in un gruppo di una decina d'avventori, è
l'unica alternativa per poter apprezzare la birra Kapuziner, i vini dell'Oltrepò, il pane di semola fatto fare in un
forno lì vicino e i molti ingredienti biodinamici con cui si lavora in cucina.
Tornando nel cortile, proprio di fronte si alza elegante la chiesa di Santa Maria la cui fondazione si fa risalire
all'VIII secolo ma che oggi, grazie alla paziente opera di restauro del Fai, si mostra nella veste della ricostruzione
romanica dell'XI secolo, con un'abside del XIII.
Da Torba, un viottolo tra i boschi di acacie, che sale uno dei terrazzi glaciali scavati dall'Olona, condurrebbe con
facilità fino a Castelseprio se le recenti frane e la generale incuria non l'avessero reso impraticabile. La zona, infatti,
era frequentata già nella tarda età del Bronzo e nella prima età del Ferro; in epoca tardoromana fu utilizzata come
punto di avvistamento e segnalazione integrato nel limes pedemontano, terra di confine che aveva il proprio perno
difensivo nel campo fortificato di Sibrium, l'odierna Castelseprio.
Con un giro più ampio si giunge all'area archeologica di Castelseprio, la cui visita, per i profani, può durare una
mezz'ora e si svolge come una passeggiata su un gran prato, costeggiando i resti di un ponte, di una grande basilica,
quella di San Giovanni Evangelista, di un serbatoio per l'acqua, di un fonte battesimale e ancora delle fondamenta,
o poco più, di un'abitazione medievale, e di una seconda chiesa, quella di San Paolo, a pianta esagonale.
Dirigendosi poi verso la parte che si affaccia sulla valle dell'Olona, si incontrano gli avanzi del recinto fortificato
del V-VIsecolo, che per oltre 700 metri di perimetro circondava il pianoro, mentre un'appendice scendeva sino a
racchiudere proprio il complesso di Torba.
Da non perdere, a poche centinaia di metri, il gioiello di Castelseprio, quella chiesina di Santa Maria foris portas
scoperta solo nel 1944 e che la menzione dell'arcivescovo di Milano, Arderico (936-48), graffita su un intonaco ha
fatto datare con certezza a prima del Mille. Luogo di incontro e di rifugio per molti viandanti, la costruzione in
ciottoli risalirebbe addirittura, secondo alcune ipotesi, al V-VI secolo dopo Cristo. All'interno (facendone richiesta
al custode dell'area archeologica) si possono ammirare i celebri affreschi dell'abside centrale, risalenti al VII-VIII
secolo.
La valle dell'Olona, peraltro, non esaurisce i suoi motivi d'interesse in Torba e Castelseprio. Risalendo di qualche
chilometro il corso del fiume si incontra infatti la straordinaria acropoli di Castiglione Olona.
Allungato su uno sperone a dominio del fiume, circondato in basso da un abitato poco allettante, l'antico borgo
deve la sua fama all'opera del cardinale Branda Castiglioni, esponente di spicco della nobiltà locale, giurista, legato
pontificio e vescovo di Veszprém in Ungheria. Tra gli anni Venti e Trenta del Quattrocento, ispirandosi ai canoni
rinascimentali appena introdotti in Toscana da Filippo Brunelleschi, il cardinale fece ricostruire pressoché
completamente il nucleo storico di Castiglione Olona, con esiti non solo eccezionali per l'epoca e l'ambiente, ma
ancor oggi emozionanti per chi sale, con calcolata fatica, dalla piazza fino alla Collegiata e al Battistero, custodi
degli straordinari affreschi realizzati da Masolino da Panicale.
Frutto dell'accostamento di un edificio trecentesco a un corpo quattrocentesco, il palazzo Branda Castiglioni
prospetta sulla piazza del borgo con un bel portale di pietra; di fronte la chiesa di Villa che nell'impianto si rifà agli
esempi fiorentini del Brunelleschi, particolarmente evidenti nelle profilature in pietra grigia su intonaco bianche,
integrato da statue legate ai caratteristici stilemi lombardi del periodo.
L'ascesa verso la chiesa prosegue tra antichi edifici che tradiscono l'origine quattrocentesca non solo nei dettagli ma
anche nelle ardite soluzioni, come la casa Magenta, dal bel passaggio aereo che scavalca la via.
Raggiunta la sommità, dove sopravvivono i ruderi del castello cui il borgo deve il nome, la Collegiata appare
improntata al gotico lombardo, con facciata profilata da un sottile frangia ad archetti. Ma è nell'ampia abside
poligonale che splendono le Storie della Vergine, affrescate da Masolino, capolavoro del Quattrocento italiano che
trova eco nel vicino Battistero, in realtà una elegante cappella ricavata da una torre dell'antico castello. Sulle pareti
e nella volta, con il ciclo di affreschi della Vita di S.Giovanni Battista, il grande artista toscano ha lasciato la più
importante testimonianza della sua maturità artistica quasi dieci anni dopo aver lavorato nella Collegiata.
È invece ridotta alle tracce dei disegni preparatori un'altra opera di Masolino, l'Annunciazione ai lati dell'ingresso.
Da non perdere, il piccolo, ma ben dotato, museo della Collegiata, accanto al Battistero.

COME ARRIVARCI

In auto: dall'autostrada A-8 Milano-Varese, uscita di Solbiate, seguendo le indicazioni per Castelseprio e per il
monastero di Torba.

DOVE MANGIARE

IL REFETTORIO
In occasione di manifestazioni, menù fisso a seconda della stagione in una sala a volta dell'ex monastero.
Altrimenti solo in piccoli gruppi
e su prenotazione.
Indirizzo: monastero di Torba, Gornate Olona.
Telefono: 0331-820301.
Chiusura: lunedì e domenica sera e dal 24 dicembre al 1_ febbraio.
Prezzi: 25-60.000 lire, vino escluso.
Carte di credito: nessuna.

DOVE DORMIRE

POSTA VECCHIA
Un piacevole due stelle di lunga tradizione, tra le colline alle porte di Varese.
Indirizzo: via Italia Libera 12, Gazzada Schianno.
Telefono: 0332-463333.
Fax: 0332-463160.
Chiusura: mai.
Prezzi: 55.000 lire la camera singola, 75.000 lire la doppia.
Carte di credito: CartaSì, Visa,
MC, EC.
Animali: tutti.

INDIRIZZI UTILI

MONASTERO DI TORBA
Informazioni sulle iniziative culturali del Fai e per la visita del complesso.
Indirizzo: Torba, Gornate Olona.
Telefono: 0331-820301.
Orari: sabato, 14-18 e domenica 10-18 per la mostra La frutta antica; negli altri giorni, 10-13 e 14-18.
Giorno di chiusura: lunedì.
Ingresso: 5000 lire.

POMONA
L'Associazione nazionale per la salvaguardia e la tutela della frutta antica.
Indirizzo: via Bramante 29, Milano.
Telefono: 02-3450751.
Orari: 9-13 e 14.30-18.
Chiusura: sabato e domenica.

FAI -FONDO AMBIENTE ITALIANO


Informazioni generali sulle attività dell'associazione.
Indirizzo: viale Coni Zugna 5, Milano.
Telefono: 02-4815556.
Fax: 02-48193631.

ZONA ARCHEOLOGICA DI CASTELSEPRIO


Per visitare i resti longobardi.
Indirizzo: via Castelvecchio 58, Castelseprio.
Telefono: 0331-820438,
Orari: 9-19; nei giorni festivi, 9-17.30.
Giorno di chiusura: lunedì.
Ingresso: gratuito.
COLLEGIATA E BATTISTERO DI CASTIGLIONE OLONA
Per informazioni e visite guidate.
Indirizzo: via Branda Castiglioni 1, Castiglione Olona.
Telefono: 0331-824801.
Orari: 14,30-17 fino al 31 marzo; 10-12 e 15-18.30 d'estate.
Chiusura: lunedì.
Ingresso: 5000 lire.
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Presentazione di
ENCICLOPEDIA ZANICHELLI 1997 MULTIMEDIALE
INTERATTIVA

Milano, 19/11/1996, ore 17


Libreria Internazionale Ulrico Hoepli, via U. Hoepli 5

Roma, 1/12/1996, ore 11,30


Mel Bookstore, via Nazionale 254

LE RAGIONI DELL'EQUITA'. IL FUTUTO DEL WELFARE STATE

Palazzo Baldassini
via delle Coppelle 35
Roma, 16 novembre 1996, ore 9,30
Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:
Umberto Eco, Mario Deaglio, Adriano Sansa, Moni Ovadia, Marco Giusti, Giuseppe Turani, Raffaele Simone,
Caterina Zaina, Giovanna Grignaffini, Altan, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio, Renato Mannheimer, Gianni
Riotta, Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Roberto Caselli, Giulio Blasi, Ranieri Polese, Mario Calabresi, COMIX.

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato, Elisa Mazzini e
Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo


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Un caro benvenuto in Golem 04. Il dibattito sulle pericolose relazioni fra Verità e informazione prosegue, sotto la
pressione degli interventi puntuali di Eco e Colombo, ma anche dei numerosi contributi da Voi proposti, che hanno
evidenziato quanto la qualità dell’informazione sia centrale per la formazione e l’organizzazione della "sfera
pubblica".
E poi è estate, certo, e avremmo voluto poter essere più lievi. Non vi preoccupate: non mancano i giochi di
Bartezzaghi, né i compiti delle vacanze riferiti da Ranieri Polese, e nemmeno i Links di Giulio Blasi da inseguire
nelle notti calde e insonni d’agosto. Vi segnalo anzi una nuova collaborazione, di argomento musicale, a firma
Roberto Caselli.
Però è successo qualcosa nella coscienza di tutti noi, e lo dobbiamo al processo Priebke. Vogliamo raccogliere
questa inquietudine e trasformarla in un progetto: speriamo vivamente che vorrete considerarlo anche un Vostro
progetto.
A tutti Voi, lettori e corrispondenti, molti cari saluti.
Danco Singer
Il dibattito continua

Il dibattito sulla verità nei giornali e sulla crisi della stampa, aperto da Gianni Riotta, Umberto Eco, Furio Colombo
nei numeri 03 e 04 di Golem e ripreso in parte anche da alcuni quotidiani, è continuato poi sull'Espresso e sulla
Repubblica con interventi di Umberto Eco, Nello Ajello, Curzio Maltese.

Ripubblichiamo sulla nostra rivista, in accordo con l’editore, tutti gli interventi, insieme a tre interviste, raccolte per
Golem da Mario Calabresi e Marcello Campo, a Vittorio Feltri direttore de Il Giornale, Ferdinando Adornato
direttore di Liberal, Enzo Biagi.

Ecco la cronistoria completa del dibattito. Potete leggere gli interventi on-line, oppure scaricare il testo in un
documento (formato Word).

Golem 03 11 luglio G. Riotta Sisifo on-line


Golem 03 11 luglio "I giornali dicono la verità?"
rispondono a Golem:
Montanelli, Mauro, Borrelli,
Anselmi, Rossella
Golem 04 9 agosto U. Eco Caro Sisifo
F. Colombo Fuga dalla rilevanza
R. Mannheimer Sondati
L'Espresso 30 agosto U. Eco Una modesta proposta un po' censoria per ristabilire la
libertà di stampa
La Repubblica 30 agosto N. Ajello La ricetta di Eco: politici intervistatevi da soli
La Repubblica 1 settembre U. Eco Giornali spegnete la TV
La Repubblica 3 settembre C. Maltese Giornalisti vil razza dannata
Golem 04 6 settembre V. Feltri La diagnosi è giusta, ma la terapia è sbagliata
Golem 04 6 settembre F. Adornato Tutti i giornali sono uguali
Golem 04 6 settembre E. Biagi I fidanzatini allo specchio

Intorno a questo tema abbiamo realizzato, con la collaborazione di Renato Mannheimer un sondaggio, alimentato
anche da contributi proposti nel Forum.
Forum: Il giornale sincero

Quello dell’informazione è un tema cruciale su cui desideriamo continuare ad avere la vostra opinione.
Umberto Eco
Caro Sisifo

A proposito degli interventi che hanno fatto seguito alla provocazione di Riotta: i fronti si dividono nettamente: da
un lato lo scetticismo e la disaffezione dei "lettori", dall’altro le affermazioni ideali dei direttori di giornale. Come
se uno andasse dal dottore dicendogli che sta morendo e l’altro rispondesse che ha fatto il giuramento ippocratico.
Poche definizioni pratiche di verità "pubblica" (escludo le certezze interiori, come sapere che ci fa male al ventre o
che amiamo davvero qualcuno).

1. Verità di esperienza: se dico "piove" dico la verità non solo se, tendendo la mano, avverto delle gocce che
cadono (perché potrei essere malato, oppure stare stupidamente accostato al muro sotto un canale di scolo) ma
anche se un certo numero di persone accanto a me acconsentono.

2. Verità culturale: è vero che Napoleone è morto a Sant’Elena, che Berlino è in Germania, che l’acqua è H2O. Non
lo so in base alla mia esperienza, ma la mia esperienza mi ha convinto che devo dar fiducia ad alcune fonti che,
tutte, acconsentono intorno a un fatto.

Un giornale può muoversi solo tra questi due tipi di verità. La faccenda, citata da Riotta, dell’aborto, fa già parte
delle verità "filosofiche". Un giornale può occuparsene solo sotto forma di rassegna di opinioni. O presentandosi
esso stesso come veicolo di opinione, esplicitamente schierato.
Quanto al primo tipo, che sia davvero esplosa una bomba ad Atlanta il giornale lo potrebbe dire solo se vi fosse
stato là in quel momento un suo inviato speciale. Però, per convenzione, giornale e lettori accettano come verità di
esperienza la notizia di agenzia. Starà però al giornale l’onere di correggerla se non concorda con altre notizie di
agenzia. Tutte le altre notizie dovrebbero essere introdotte da "il Tale dice che" (il giornale garantisce solo che il
Tale lo ha detto davvero).
Tuttavia un giornale può "creare" notizie quando un fatto singolo viene proposto come segno evidente di una
tendenza generale. Accadono tre incidenti autostradali, uno a Agognate, un altro a Imola, il terzo sulla Roma
Napoli; se metto le tre notizie nella stessa pagina ho già trasformato tre fatti individuali in un fenomeno generale.
Dovrei apporre anche una finestrella statistica: se apparisse che tre incidenti autostradali al giorno sono la media
dell’ultimo decennio, la notizia avrebbe minor valore. Se ritengo che tre incidenti al giorno per dieci anni sono
troppi, allora articolo d’opinione.
Veniamo alle verità culturali. Esse possono sempre essere revocate in dubbio (Galileo ha scoperto che Tolomeo
aveva torto). Su una rivista pubblicata dall’università di Broz si scrive che, in base a esperienze sui topi, l’acqua
può causare il cancro. Dare la notizia può essere interessante, ma il giornale dovrebbe dire al tempo stesso (a) quale
è il credito di cui gode l’università di Broz (ma spesso l’articolo inizia con "l’autorevole università di Broz..."); (b)
se altri autorevoli centri di ricerca hanno reagito con scetticismo, o con interesse (ma spesso le eventuali riserve, se
sono citate, appaiono in coda); (c) quante volte negli ultimi cento anni qualcuno ha presentato teorie analoghe
(questo il giornale tenta disperatamente di non fare, altrimenti la notizia non sarebbe uno scoop). Così si spara a
quattro colonne la notizia diffusa da Broz, ed è fatta: il giornale ha praticamente garantito che l’acqua causa il
cancro.
Una categoria a parte è data dagli "indizi". Scalfaro appare in pubblico con una cravatta verde e blu, il Papa nel suo
ultimo discorso non cita la bomba di Atlanta. Potrebbero essere fatti casuali; potrei invece decidere di interpretare il
primo come una dichiarazione di neutralità tra il blu del Polo e il verde dell’Ulivo, e il secondo come disinteresse
polemico verso le Olimpiadi. L’unica soluzione onesta è parlarne nell’articolo di opinione; se sparo il titolo "Il
papa tace su Atlanta" ho già gonfiato qualcosa forse irrilevante trasformandolo in notizia.
Quello che preoccupa nella stampa odierna non è che dia notizie false (tutto sommato, accade di rado), ma che
mostri (e provochi) indignazione o stupore per fatti o tendenze "normali". Che nel sottobosco dello spettacolo,
registi o impresari si portassero a letto le attricette in cambio di una comparsata è cosa nota credo dai tempi di
Plauto; è fenomeno endemico come la prostituzione o il furto con destrezza. Caso mai da circa un secolo i più
sporcaccioni filmano anche le scopate (ma anche questo era noto). Poi un giorno i giornali da un normale evento
giudiziario (che meritava mezza colonnina) traggono pretesto per pagine scandalistiche. Debbono farlo, dal
momento che, per contrastare la concorrenza della televisione (che dà le notizie la sera prima) hanno deciso di
trasformare in notizia rilevante ogni evento che riguardi l’universo televisivo.
Cosi sono i giornali a produrre il caso Lenzuola Pulite, e inducono i lettori a pensare che si tratti di un fenomeno
emergente, misteriosamente connesso sia a Tangentopoli che alla lobby di Lotta Continua.
I lettori di Golem sembrano ritenere che queste pratiche siano dovute a scarso professionismo o a disonestà. No,
sono fenomeni naturali, come l’inquinamento da gas di scarico, che non è dovuto al fatto che tutti gli automobilisti
siano criminali. Per far fronte alla concorrenza della televisione, la stampa parla della televisione (poteva prendere
un’altra strada, ma così ha deciso, per cui ogni giornale, invece di tacere quanto possibile sul proprio concorrente,
si presenta come una Fiat che rechi stampato sulla fiancata "fidatevi della Renault"). Per sostenere la guerra della
pubblicità, il giornale deve riempire più pagine di quanto le notizie degne di attenzione gli consentirebbero. Così il
quotidiano è diventato simile a un settimanale, e tra il modello del settimanale ha quello più scandalistico,
specializzato nel creare la notizia dell’affettuosa amicizia tra Tizio e Caia.
Il fatto che questi fenomeni siano "naturali" non implica che vadano accettati: si cerca di evitare l’inquinamento
automobilistico e si cerca addirittura di prevenire i terremoti, quindi rimane aperto il discorso su una stampa
diversa. Ma è come produrre automobili elettriche: a chi conviene davvero? Nel contempo però si cerca di educare
la gente a un uso moderato dell’automobile. Così deve accadere per la stampa, e partendo dalla scuola.
La diffidenza dei lettori deve essere trasformata in metodo. In fondo i lettori più "educati" sono quelli di "Novella
2000": sanno benissimo che sono palle, ma le trovano divertenti. Partite dal principio che il giornale non dice "la
verità" ma produce una merce chiamata notizia. Se il giornale vi dice che è esplosa una bomba ad Atlanta, è
ragionevole crederci. Se vi dice che sono stati i fascisti americani o i fondamentalisti musulmani, controllate se cita
delle fonti, e quali sono. Se vi spara su quattro colonne che Prodi ha litigato con Veltroni, incominciate a pensare
non sia vero (forse Prodi ha solo detto "scusa, io la vedrei diversamente..."). Se vi dice che è morto il romanzo,
avreste già dovuto imparare che si tratta di "canard" stagionale, serve a far pagine. Se pubblica una recensione di un
libro, credeteci: essa dice di solito quel che davvero pensa il recensore, o quello che egli davvero desidera che voi
pensiate.
Insegniamo alla gente a usare i giornali per quel che sono, partendo dal principio che gli unici veramente attendibili
sono quelli esplicitamente faziosi. Non fanno finta di dire la verità, ma ci dicono (assumendosene la responsabilità)
quello che dovremmo volere.
Forum: Il giornale sincero
Furio Colombo
Fuga dalla rilevanza

Ci si può fidare dei giornali? Ci si può fidare delle fonti di informazione, radio e televisione? Ci sono paesi migliori
e paesi peggiori, nel sistema delle informazioni? Se è così qual’è il modello più alto?
La crisi del giornalismo o almeno la crisi del rapporto fra gente e giornali fa il giro del mondo. Il problema non è il
meglio o il peggio. Certo alcuni giornali hanno ancora il grandioso respiro del New York Times o del Wall Street
Journal. Altri identificano in modo geniale, ciò che conta nella realtà locale, anche molto piccola. Ma neppure la
distanza grandissima fra il meglio e il peggio spezza il filo che unisce tutto il sistema delle informazioni nelle
democrazie industriali.
Si tratta di una deriva verso il futile, verso l’ornamentale e l’irrilevante.
Lo scopo è probabilmente di fermare l’attenzione sempre più instabile, sempre più effimera. Questa stanchezza in
parte è dovuta alla grande quantità di opzioni e di scelte. In parte per la scarsa fiducia che lega gli utenti alle fonti
dell’informazione.
Questa sfiducia è forse nata come parte di un più vasto movimento di distacco tra opinione pubblica e istituzioni,
un disincanto che sta spingendo moltissima gente a cercare una nuova ambientazione nelle periferie culturali,
sociali, psicologiche. Comunque lontano dal centro.
È accaduto che i media - carta e televisione - hanno reagito alla crisi di attenzione con dosi crescenti di effimero,
erotico, mondano, irrilevante o - come si osa dire - "divertente".
Niente come il "divertente" diluisce o rende ancora più instabile il rapporto con l’utenza, e smobilita l’attenzione.
Gradatamente le regole dell’informazione si deformano, lasciano il campo dell’informazione e si piegano sempre di
più al mondo dello spettacolo.
Al fenomeno di questo spostamento si aggancia la pratica sempre più diffusa di legare ogni atto, ogni iniziativa di
informazione, ogni numero di giornali, ogni ora e minuto della televisione e un indice di diffusione e di ascolto.
Comincia qui una spirale destinata a produrre tre conseguenze: aumenta la presenza di spettacolo nelle notizie, si
produce il fenomeno sempre più esteso delle star, delle "celebrities" che chiedono spazio e impongono un sistema
devastante di gerarchie. Alla fiducia dell’utente per la fonte si sostituisce l’attenzione discontinua ed erratica e un
legame di lealtà che si sposta a colpi di teatro, beneficiando di espedienti e trovate teatrali, subendo la punizione di
ciò che è ritenuto "noioso".
In questo nuovo spazio di informazione - spettacolo la meraviglia è destinata a sostituire la fiducia, la sorpresa
prende il posto della notizia. Non c’è più l’opinione pubblica, c’è il pubblico dello spettacolo pronto a spostarsi
secondo i colpi di scena e disposto a lasciarsi intrattenere.
La crisi, come si vede non riflette un momento sfavorevole ma un’evocazione di struttura.
E la divaricazione si fa inevitabile: più entrano spettacolo e "celebrities", più si allontana l’attenzione e la fiducia.
La prova è il continuo contrarsi nella circolazione complessiva delle copie di giornale nelle democrazie industriali,
e il procedere incerto, legato a periodi brevi di successo , a bruschi cambiamenti tipici del mondo dello spettacolo.
È un percorso senza ritorno? La cura è dentro internet. Nella rete la qualità d’informazione diventa grandissima,
mirata, circola dentro corridoi molto stretti che arrivano molto lontano e si moltiplicano in modo incalcolabile, su
spazi molto vasti. Lo stimolo di un così immenso deposito di spunti informativi servirà a rimettere in movimento il
sistema, se non altro come espediente di salvezza.

Forum: Il giornale sincero


Renato Mannheimer
Sondati

I lettori di Golem (o meglio il gruppo di lettori che ha risposto al nostro sondaggio on-line) hanno relativamente
poca fiducia nella stampa. E in ciò somigliano alla maggioranza relativa degli elettori italiani. È ciò che emerge
dalla inchiesta su questo tema condotta contemporaneamente tra coloro che hanno risposto al questionario di
Golem e tra un campione rappresentativo della popolazione italiana.

Ecco anzitutto i risultati per ciò che concerne il pubblico di Golem. Interrogati sulla "fiducia" alla stampa, il 69%
dei rispondenti (dunque più di due terzi) ha dichiarato di avere "poca fiducia", un altro 8% ha addirittura "nessuna
fiducia", mentre il restante 23% ha "molta fiducia".
Tre intervistati su quattro, dunque, non stimano granché i nostri giornali. Ma, più della numerosità in sé (anche
perché il campione che ha risposto è relativamente esiguo, 51 persone), è interessante esaminare CHI sono i critici
verso i giornali, in termini di caratteristiche sociali ed economiche. In particolare, un minor grado di fiducia verso
la stampa è espresso dalle donne, mentre non si riscontrano differenze particolari per età. Dimostrano poi meno
fiducia gli impiegati (mentre i livelli relativamente massimi di fiducia nella stampa si riscontrano tra i 4
imprenditori che hanno risposto).
Ma la differenziazione più significativa è quella corrispondente alla zona di residenza. Si è visto che, tra i
rispondenti di Golem, la quota media delle riposte "poca/nessuna fiducia" è pari al 75%. Ma tra coloro che abitano
nelle regioni del Nord essa è "appena" del 68%, mentre è pari al 75% al Centro ed raggiunge il 91% al Sud. Qui dei
giornali non si fida nessuno.
Sin qui le risposte dei lettori di Golem. Ma, come si è detto, una domanda analoga è stata posta ripetutamente anche
ad un ampio (quasi 4000 soggetti) campione rappresentativo dell’elettorato italiano, interrogato nel corso di tutto lo
scorso anno. I risultati di questo sondaggi corrispondono significativamente a quelli rilevati tra i lettori di Golem.
In occasione dell’ultima rilevazione, effettuata alla fine di giugno, la quota di coloro che affermavano di avere
fiducia nella stampa era pari al 26%: lo stesso dato rilevato tra il pubblico di Golem.
Ma, anche se su livelli relativamente bassi, la fiducia del pubblico italiano per la stampa ha mostrato, negli ultimi
mesi, un trend relativamente crescente. Dal 18% di "fiduciosi", rilevato nel gennaio 96, si è gradatamente passati al
21% di marzo, al 24% di aprile, sino al 26% di oggi. Il campione nazionale ci permette anche di distinguere i livelli
di fiducia secondo l’orientamento politico. E questa analisi ci mostra un dato sorprendente: i più "fiduciosi" verso
la stampa risultano essere gli elettori del Pds! Che sia una critica implicita al segretario, Massimo D’Alema che, in
più occasioni ha mostrato un atteggiamento assai poco entusiasta della stampa italiana?

Forum: Il giornale sincero


Ranieri Polese
Istruite istruzioni

Vacanze, istruzioni per l’uso. Dove andare, con chi, con che cosa ed eventualmente perché. Non c’è giornale
italiano che resista alla tentazione di ripetere - un anno dopo l’altro - liste di luoghi e di persone raccomandate (o
sconsigliate) per i giorni della "grande fuga", della "lunga - o breve - estate calda" ecc.ecc.

Insomma, per quanto le città chiudono per ferie (ma è così trendy restarci proprio allora, dicono e scrivono i più
informati), quando l’obbligo è fuggire via dalla pazza folla (ma quest’anno più che mai la discoteca di Riccione ha
la meglio sulla Maremma dei capalbiesi), quando l’ultimo imperativo è fare marmellate da regalare ad amici che ti
hanno già regalato le loro,, o minacciano di farlo al più presto. Settimanali e magazine di grandi quotidiani (il
"Corriere" con "Sette" e "Io donna", "Repubblica" con "Venerdì" e "D": anche tenersi semplicemente aggiornati è
diventato maledettamente faticoso) hanno intanto già passato in rassegna spiagge & viaggi, diete, vestiti e musiche
d’estate, nonché festival e libri.
Questi ultimi, i libri appunto, ci vengono cortesemente indicati da eccellenti testimonial, come su "D", dove fra
l’altro si conferma una cosa che sapevamo già: che cioè i lettori famosi non leggono mai, ma rileggono (salvo le
novità, che comunque loro hanno appena finito di leggere, magari in versione originale, se straniere; o in bozze, se
italiane). E si scopre che la cosa più giusta in questo momento è la filosofia. Due esempi, tratti appunto dal numero
10 di "D": "Mi piacerebbe riprendere Schopenhauer, magari "La quadruplice radice del principio di ragion
sufficiente"", Paola Capriolo: "L’introduzione a Hegel" di Kojève, appena tradotto (letto a pezzi durante
l’università) mi aspetta per squarci di lettura durante l’estate", Enrico Ghezzi.
Ma saliamo di tono. Ed arriviamo alla grande sfida. Da una parte "Panorama" ha messo in copertina Valeria Marini
col titolo "Seguimi, sarò la tua estate" (e dentro un’agenda fittissima di libri spettacoli luoghi e naturalmente anche
qui le marmellate...); dall’altro rispondeva "l’Espresso" con Massimo Cacciari. che consiglia un punto di partenza
assolutamente singolare: lo Steinhof. Già, ma cos’è lo Steinhof? È il manicomio di Vienna, "è il punto da cui
spiritualmente si domina Vienna" ci spiega "Il punto dove meglio si può comprendere la Vienna di fine secolo, tra
"L’interpretazione dei sogni" di Freud e le sinfonie di Mahler, e cioè quel momento di crisi epocale in cui tutti i
nostri fondamenti hanno cominciato a vacillare". Ora, va bene tutto. Accettiamo pure l’attenuante
dell’autocitazione ("Dallo Steinhof" è il titolo di un saggio di Cacciari uscito da Adelphi anni fa), ma questo
itinerario ci sembra in ogni modo eccessivo. Va bene la filosofia, va bene la crisi, la fine secolo che incombe ecc.
ecc. ecc. Però, via...
P.S. E comunque, che triste estate è mai questa, dove l’unica vera alternativa è fra il manicomio di Vienna e le
marmellate?
Aldo Grasso
A ciascuno il suo mezzo

Se fossi Maurizio Costanzo proverei qualche imbarazzo a invitare nel mio salotto televisivo alcune persone, tra cui
Valerio Merola ed Enrico Preziosi. Non li inviterei per un caso di coscienza, anche se rappresentano due casi
mediatici di estremo interesse.
Se fossi Maurizio Costanzo - e mi fingo conduttore perché il talk show è diventato l’unica forma di processo
popolare, vox populi... - penserei però a quel molto che perdo e a quel poco che guadagno.
Se fossi Maurizio Costanzo racconterei così le storie esemplari di Valerio Merola e di Enrico Preziosi.

Il presentatore Valerio Merola ha ottenuto la libertà dal gip di Biella, pur restando indagato, perché ha decantato le
sue doti anatomiche: "La vera prova della falsità delle accuse la porto dentro i pantaloni. Ho fatto anche una perizia
medica che lo ha attestato scientificamente. Non posso avere rapporti sessuali di un certo tipo se la mia partner non
è consenziente". Non c’è nulla da tradurre è sufficiente la finezza espositiva del protagonista: "Non posso
sodomizzare una ragazza, la ridurrei male perché sono superdotato. Ecco la prova". Il gesto lo immaginiamo. Alle
affermazioni di Valerio Merola, detto Merolone, sono scattate le reazioni dei media: i fotografi lo vogliono nudo
per immortalare tutto quel bendidio, i giornalisti bramano raccogliere le sue confessioni (diverse da quelle fatte al
giudice), le TV sono pronte a rimetterlo nel circuito, magari cambiandogli ruolo: da presentatore a presentato. È un
paese il nostro in cui gli attributi hanno sempre avuto un valore non indifferente, e a chi compie opere di certa
attribuzione non è consentito restare nell’ombra.
D’altronde lo abbiamo già verificato con Gigi Sabani: che sarà mai portarsi a letto due o tre ragazzine in cerca di
notorietà? Per qualche puttanella dobbiamo perderci le imitazioni di Sabani? Invitato qui, al "Costanzo Show",
Sabani ha ricevuto un caloroso tributo di affetto e caldi applausi. Assolto. Via, come se non sapessimo che una
delle persone coinvolte indirettamente nel caso Sabani era l’amante di un alto dirigente Rai. È un mondo così,
inutile fare le verginelle.

L’industriale Enrico Preziosi è titolare di una nota ditta di giocattoli, la "Giochi Preziosi", possiede anche Junior
Tv, una syndacation che raggruppa alcune emittenti specializzate in programmi per bambini (era il maggior
inserzionista, ne è diventato il padrone pur non leggendo Karl Popper) ma per mesi ha occupato le cronache dei
giornali perché voleva comprare una squadra di calcio: una gloriosa e sfortunata compagine. Il Torino. Non l’ha
comprata. Almeno finora. C’è chi ha parlato di farsa, chi di virtualità, chi di bufale estive. Il re dei giocattoli non
compra e fin qui la storia potrebbe interessare quei quattro gatti, per giunta sfigati, che sono i tifosi del Torino che
da un po’ di anni hanno trovato altre occasioni per soffrire: i presidenti. La storia invece riguarda chi si occupa di
comunicazione perché esiste il fondato sospetto che Enrico Preziosi con le squadre di calcio da comprare ci sappia
giocare a meraviglia.
È il terzo anno che si impegna in estenuanti trattative per far sua una squadra di calcio: prima con una provinciale,
poi con il Genoa e infine con il Torino. Un genio: per un mese all’anno riesce a far parlare di sé spendendo
pochissimo: la benzina per i suoi collaboratori, qualche modesta parcella a un consulente, una decina di pasti. Li
avrebbe spesi comunque quei soldi lì. Per un mese all’anno i giornali sportivi e anche quelli cosiddetti politici
regalano paginate al signor Preziosi, il più clamoroso caso di pubblicità a costo zero.
Se fossi Maurizio Costanzo mi porrei questi due problemi filosofici. Il primo: la vita - questa prosopopea del c...o.
Il secondo: che peccato che per arrivare alla notorietà si debba passare attraverso i media.
Invitarli o non invitarli?
Danco Singer
Progetto

A distanza di vent'anni gli organismi militari e le vacanze estive hanno nuovamente portato fortuna ai nazisti.
Allora era Kappler il fortunato: fuggì dall’ospedale militare di Roma; oggi è Priebke a poter immaginare per sé un
futuro da libero cittadino del mondo.
E’ cambiata la forma, meno truffaldina e grottesca, è rimasta la sostanza: i criminali nazisti è meglio lasciarli liberi.
Si sono spese molte parole attorno a questo evento: sulla correttezza giuridica della sentenza, l’autonomia dello
Stato, la forma. Poche, troppo poche sull’enormità , l’eccezionalità, la intollerabilità dei crimini commessi non da
un’idea astratta, ma dalle persone , da queste persone.
Di fronte all’intollerabilità - come ha scritto Umberto Eco il 4 agosto scorso su Repubblica - cadono i distinguo
sulle intenzioni, la buona fede, la correttezza formale. C’è solo la responsabilità "oggettiva".
L’Olocausto è stato un effetto deliberato, una creazione del nazismo, ed una esperienza unica nella storia, che
nessuna revisione potrà mai giustificare.
Non possiamo abbassare la guardia di questa intollerabilità. Non dobbiamo dimenticare quanto è successo e come è
successo, né smettere di interrogarci su come un simile orrore abbia potuto avere luogo.
Come ha ben scritto Furio Colombo perdere l’identità e la coscienza di sé, con la memoria, non è ammissibile.
Golem è un piccolo magazine , ma propone ai suoi lettori e ai suoi collaboratori un progetto ambizioso, un lavoro
in questa direzione, con il quale intende unirsi a tutti quelli che costruiscono la memoria della Storia: individui,
associazioni e istituzioni.
Da questo numero Golem apre un forum permanente dedicato alla memoria dell’Olocausto, una storia che a
cinquant’anni suonati è ancora attuale, calda e dolorosa.
Sarà uno spazio a disposizione delle Vostre storie e riflessioni; entro la fine dell’anno Golem dedicherà un numero
monografico a questi temi. Vorremmo che diventasse uno strumento vario e articolato non solo per raccogliere e
comunicare le nostre esperienze, ma anche per trasformarle, per quanto possibile, nella rete e fuori dalla rete, in
esperienza di tutti.

Per non dimenticare


Autogolem
Stefano Bartezzaghi

(Soluzione dei giochi del numero precedente)

1. SUGLI SPORT ESOTICI NON MI INGANNATE

Non vendetemi del fumo!.


Non son scemo, io, presumo!
Le menzogne io frantumo!
Non è lotta: quello x xxxx!

2. AMMETTO I MIEI LIMITI POETICI

Le mie rime son confuse.


Le mie odi sono ottuse.
Mi profondo in mille scuse:
poetastro son, x Xxxx.

3. CONCEDETEMI IL DIVORZIO, VOSTRO ONORE

Preparava il consommé
che bolliva dalle tre.
"Qui il mestolo non c’è",
disse. Quindi, xxx xx.

4. MI BASTA POCO

Non è nuova: "Sei Perseo?"


La risposta è "trentaseo".
Cosa farci? Io mi beo
con battute da xxxxx.
5. CARTEGGI MONTALIANI

"Glielo dico lemme lemme


(la maggiore ho fra le flemme):
i miei Ossi sono gemme.
Mi stia bene. Xxx X.X."

6. SCOORDINATO CARTESIANO

Svaccato nel living room,


credendosi Leopold Bloom,
sorseggiando del buon rum,
fa: "cogito, x / x xxx".

7. CUCCIOLO, COSI’ NON VA

Se non vuoi essere escluso


dal mio desco, com’è d’uso
(d’esser sporco io t’accuso)
vai a lavarti zampe x xxxx.

8. MELENSE RITROSIE

"Caramelle non vuoi tu?"


"No, non insistere più"
"Deh suvvia insomma orsù!"
"Cedo, ma solo x’x xxx"

9. MANOVRO TEMIBILI DOSSIER

Sei un potente? Io ti lumo,


e annuso il tuo profumo.
Ti ricatto, spenno, spiumo:
vecchie storie tue xxxxx.

10. NEGLI UFFICI SERPEGGIA LA PAURA


(o: CHI RISICA E CHI ROSICA)

Buio nella software house.


S’ode un urlo: "Giuda faus!"
"Che succede, caro Klaus?"
"Che spavento! Ho visto un xxxxx!"
SOLUZIONI

1. è sumo
2. o Muse
3. usò me
4. museo
5. Suo E.M.
6. e/o sum
7. e muso
8. s'è mou
9. esumo
10. mouse
Un tranquillo venerdì di paura
Giovanna Grignaffini

Quando scendono le luci sul giovedì il deputato-della-maggioranza-che-regge-il-governo precipita a grandi passi


sulla via della passione.
Abbandonato su un treno o su un aereo+auto, direzione casa, potrebbe dedicarsi ad una serena valutazione della sua
concitata tre giorni romana e cercare di far quadrare sulla sua agenda gli impegni di collegio e famiglia per il week-
end. Ma è proprio da quell’agenda che lo trafigge inesorabile una certezza: domani è venerdì.
Inutile cercare di nasconderselo: non riusciranno ad unirsi, ancora una volta, di venerdì, e a far uscire da quella
nobile gara tra pari tutte le cose buone di cui il paese abbisogna: normali provvedimenti anti-spreco e grandi
riforme di struttura, gesti di ordinaria razionalizzazione e vere e proprie rivoluzioni necessarie. La scuola e
l’esercito, il sistema delle telecomunicazioni e quello dei beni culturali, l’università e la finanza locale, la pubblica
amministrazione e il fisco, grandi opere da aprire e piccoli privilegi da chiudere: non c’è territorio della vita
pubblica che non risulti attraversato da quel ciclone del venerdì che le cronache chiamano Consiglio dei Ministri.
Ora, il deputato-della-maggioranza-che-regge-il-governo, è del tutto orgoglioso di stare dalla parte di un governo
che finalmente governa, e condivide in larga parte la sostanza di tutti I provvedimenti grandi e piccoli adottati di
venerdì, ma si rammarica di non averne potuto condividere il processo di costruzione visto che già dal sabato li
dovrà motivare e sostenere, e si chiede soprattutto con sgomento chi come e quando porterà a termine il loro iter
parlamentare. Perché è consapevole il deputato in questione del fatto che, antico maniero in cui non può far breccia
il solo spirito del venerdì, il Parlamento potrà continuare a contemplare, dall’alto della sua olimpica democrazia, il
vano agitarsi delle cose umane.
L'aria addosso
Rossana Di Fazio

Manuel de Oliveira è l’anzianissimo Signore del cinema portoghese e i suoi film hanno un senso del Tempo che si
esprime in azioni ampie, dense e pensose.
I Misteri del convento è da poco sugli schermi italiani, ma è un film del 1995 e mi sembra bello vederlo in piena
estate.
È un racconto che si svolge nelle due ore regolamentari, non oceanico come capolavori quali Fransisca o La valle
del Peccato, ma comunque ambizioso. Il riferimento fondamentale infatti è il Faust di Goethe, una pietra miliare
della letteratura occidentale che ha ispirato autori come Murnau (Faust) e René Clair (La bellezza del diavolo).
In una misura discreta, abbastanza lontana dalla imponenza che pure Oliveira non teme, il film trasferisce in un
racconto semplificato il nodo cruciale della vicenda faustiana, ma questa trasposizione avviene non tanto in virtù di
una rigida fedeltà al testo, ma per una via propriamente cinematografica.
La coppia Deneuve-Malkovich giunge in un convento che si direbbe abbandonato da secoli dagli eremiti per
consultare un importante archivio che il professore (Malkovich) considera essenziale per verificare le proprie
ipotesi su Shakespeare.
I due vengono accolti da una specie di custode che insidierà presto la bella Heléne (Deneuve), mentre una diversa
attrazione unisce il professore e Piedad, giovane e immacolata direttrice dell'archivio. A queste due coppie, che
ricalcano per certi aspetti anche i protagonisti de Le Affinità Elettive, si aggiunge quella dei due servitori, una
specie di corrispettivo nel registro basso/comico che commenta gli eventi come farebbe in una tragedia
shakespeareana. Questa, molto in breve, la situazione del racconto.
I riferimenti al Faust avvengono esplicitamente attraverso due significative citazioni; tuttavia quest'opera di
straordinarie parole viene trasfigurata in una storia semplice, in pochissimi dialoghi, ma in uno spazio scenico e
cinematografico denso, che genera stupore.
Non il dialogo incalza, né il montaggio, che in alcuni momenti arranca, ma una qualità dello sguardo che lo
spettatore affina nel corso del film, come i due protagonisti che arrivano al convento.
Il convento è uno spazio chiuso la cui struttura è del tutto incomprensibile, fatto di cunicoli, passaggi, scalette,
aperture che non si sa dove conducano. Conoscerne le articolazioni non serve allo spettatore, non ad anticipare gli
sviluppi dell'intreccio.
È uno spazio che nell'essere attraversato genera sospensione, e che insiste sullo schermo; è un ritmo che ci
costringe a interrogare l'inquadratura e il luogo che rappresenta, a guardarlo, a incuriosirci ad esso e ai suoi
misteriosi abitanti di pietra: statue mozzate, curiosi rilievi.
Le parole nel film sono davvero poche, ma c'è molta azione; c'è un movimento continuo dei personaggi nello
spazio che si traduce in movimento delle loro anime: lo spazio genera stati d'animo. C'è insomma un vero racconto,
ma il suo sviluppo è tutto sul piano delle sensazioni.
Il cinema di Oliveira è sempre sensibile alle sensazioni, cioè a tutti quei fenomeni per i quali sentiamo e
percepiamo noi stessi e il mondo.
Rumori di ogni specie, porte che sbattono, fruscii di foglie, ritmi di acque, passi, eco, sono corredo essenziale degli
spazi siano essi naturali o no, e consentono di far essere quegli spazi nelle sensazioni degli spettatori, come in
quelle dei protagonisti; costruiscono uno spazio cinematografico globale e coinvolgente, attraversato da un Eros
inquieto senza che vi sia una sola scena di amplesso.

Quando i due visitatori si aggirano per il convento le loro teste fanno capolino dall'esterno di una grotta; il
controcampo che in qualunque racconto mostrerebbe l'oggetto della loro attenzione, ritarda ad arrivare e così i due
guardano noi, in platea, lungamente; quando il controcampo arriverà, molto più tardi, non ci importerà più nulla
della grotta, ma avremo appreso quella qualità curiosa dello sguardo e sapremo anche noi guardare con quella
calma, quella lentezza che osserva e può sorridere anche dell'abisso.
La tentazione di Mefistofele avviene dunque su un piano di terrena bellezza e meraviglia, e pur senza riprendere
puntualmente il racconto goethiano, Oliveira ripropone su piano sensoriale quel desiderio di pienezza e di vita che
Mefistofele conosce e alimenta in Faust.
Introducendo i suoi visitatori nel cuore di una natura parlante e dionisiaca, Oliveira coltiva spettatori in grado di
riascoltare le proprie facoltà: occhi, orecchie, odorato; spettatori sensibili, ma saggi, che hanno anni, mi verrebbe
da dire, in grado di sentire su di sé le tentazioni del mondo e di volgerle a favore del proprio cuore, senza paura e
con non poca ironia. Come la bella Helène- Deneuve appunto , che sa come si trattano i diavoli.
Fermo-immagine
Carlo Bertelli

Uno storico dell’arte è qualcuno che si occupa di immagini ferme. Non è, il suo, un lavoro paragonabile a quello di
uno storico del cinema che si basi sulle still photographs, ma certo lo storico dell’arte suppone che la storia sia
altrove, nel Vangelo, nella Leggenda Aurea o nelle Metamorfosi. Capita, invece, di mettere improvvisamente a
confronto un certo modo di analizzare le immagini con altre possibilità di osservazione e volgendosi ad altri campi.
L’altro giorno, entrato in una libreria, ho incontrato un cliente che era ammirato da quanto aveva visto in
televisione. La formidabile vincitrice della gara di mountain-bike, asseriva, si era chiusa la cerniera lampo e poi
aveva fatto il segno della croce. Espressi i miei dubbi sulla sequenza, e il mio interlocutore mi rispose che l’aveva
vista tre volte. Non ne ero convinto, e poiché la sequenza venne trasmessa in più occasioni, ho potuto constatare
che avevo ragione.
La successione degli avvenimenti non mi sembra da poco. Se la ragazza si fosse chiusa la cerniera lampo e, quindi,
avesse fatto il segno della croce avrebbe dimostrato di ritenere che cerniera aperta e segno della croce non fossero
compatibili. Poiché, invece, prima si è segnata e poi si è chiusa, dobbiamo ritenere che il segno della croce fosse un
gesto liberatorio alla fine dello sforzo compiuto e non una richiesta di perdono per aver pedalato con la blusa
aperta. Nello stesso tempo la ricostruzione del mio sconosciuto interlocutore dimostra che la sua percezione degli
avvenimenti era fortemente condizionata dalle sue prevenzioni circa quel tanto di nudo femminile che la corsa della
campionessa aveva permesso di vedere e di apprezzare.
Dico apprezzare perché tutta la poesia e la scultura dedicate agli atleti greci ci confermano l’apprezzamento della
bellezza del corpo, anche se per gli atleti greci si tratta esclusivamente di quello maschile. Mi sembra, così che
anche le Olimpiadi costituiscano una rivincita della cultura del corpo, anche dove il tributo alla religione cattolica è
evidente. Non ho mai amato lo spirito di competizione del motto "citius, altius, fortius" di de Cobertin, ma non
posso non riconoscere a queste ultime olimpiadi televisive il merito di aver portato all’attenzione di milioni di
persone il corpo e l’uso che la mente ne può fare, Come storico dell’arte, mi ritiro ordinatamente, augurando a tutti
buone mostre e buone escursioni, ma con la consapevolezza che l’immagine, concetto spaziale, non può essere
separata dalla connessione temporale, e non vuole essere fraintesa.
Fumetti
a cura di Comix

Cemak

Mora
Internet e gli altri
Giulio Blasi

(da leggere con Netscape 2.0 o Internet Explorer 3.0)

Se Internet è un nuovo medium allora se ne comprendono le caratteristiche specifiche cercando di capire in che
modo esso interagisce con la configurazione dei media già esistenti. Studiare in che modo un nuovo medium
costruisce le sue relazioni con i media preesistenti è facile a dirsi ma si tratta di una prospettiva di analisi ancora
poco sfruttata (nonostante gli inviti e gli esempi forniti da studiosi come Meyrowitz, Ortoleva e tanti altri).

Per ciò che riguarda Internet, un modo per avvicinare il problema consiste nell’osservare in che modo gli "altri
media" usano Internet. Il modo in cui la TV, la stampa, la radio, il cinema usano Internet ci insegna in che modo gli
operatori dei media tradizionali vedono le comunicazioni on-line e che tipo di relazioni cercano instaurare tra i
diversi mezzi.

Il rapporto tra la TV e Internet è senz’altro suggestivo. I discorsi sulla TV digitale, sulla TV interattiva, sulle
comunicazioni a banda larga, alludono all’idea che il modo in cui oggi fruiamo dei servizi televisivi potrebbe in
futuro trasformarsi sino ad assomigliare a qualcosa di non troppo diverso dal sistema di browsing on demand del
World Wide Web. In breve: la rete Internet che usiamo oggi costituirebbe una sorta di prototipo tecnologicamente
povero della televisione del futuro.

Ma a prescindere dai discorsi futurologici (provate a cercare "television" nel sito di HotWired o a consultare
l’archivio di "Mediamente"), in che modo si comportano gli operatori televisivi su Internet?

Per un vostro sondaggio personale vi consiglio di partire dall’indice di Yahoo sulle risorse relative alla televisione.
Io mi concentrerò qui esclusivamente sul caso italiano. All’estero esistono già esempi importanti che nascono da
investimenti consistenti in genere non paragonabili all’entità del mercato italiano (MSNBC, CNN, Channel 4, ecc.).

La RAI offre servizi singolarmente interessanti. Buono il servizio dei TG regionali in Real Audio. Interessante
l’idea dell’archivio storico della radio on-line. I due programmi principali che hanno sfruttato la rete sono
"Mediamente" e "Tempo Reale" (in collaborazione con Italia On Line).

Francamente più povero il panorama di Mediaset sebbene venga annunciato per settembre un servizio on-line del
TG5 che si preannuncia interessante. Difficilmente competitivo il palinsesto delle tre reti.
Anche le TV di Cecchi Gori hanno una presenza in rete di basso profilo.

A parte poche eccezioni (in RAI), gli obiettivi di chi ha progettato i servizi Web dei grandi network televisivi
italiani sono paradossali: distribuire il palinsesto delle reti (cosa che già avviene attraverso la TV stessa e la stampa,
quotidianamente, con decine di milioni di contatti), offrire informazioni globali sulle società (ma anche qui si tratta
di un obiettivo meglio raggiunto con altri mezzi).

Pochissimi programmi televisivi usano attivamente Internet. Forse il caso più interessante è quello di
"Mediamente" (un programma di Renato Parascandolo condotto da Carlo Massarini) che già dall’interfaccia sceglie
un obiettivo chiaro (anche se non l’unico) per il sito web del programma: diventare la "biblioteca digitale" dei
materiali distribuiti via etere. Anche nel caso dei Giornali Radio regionali distribuiti on-line dalla RAI siamo in
presenza di un obiettivo ben delimitato che punta ad offrire un servizio altrimenti difficilmente ottenibile:
un’interfaccia di navigazione unica verso l’informazione distribuita nella singole regioni. Può darsi che i navigatori
siciliani (poniamo) interessati all’informazione regionale ligure siano una nicchia ma si tratta di una nicchia che
trova nel web un modo di accedere all’informazione del tutto peculiare.

Un elemento cruciale della programmazione televisiva è il tempo: la scansione delle fasce orarie, le relazioni
competitive e di appoggio tra le varie reti, la delimitazione settimanale e stagionale dei palinsesti. Chi produce oggi
servizi on-line per Internet non ha ancora preso decisioni chiare sul modo di "temporizzare" i propri servizi. Ed è
allora probabile che gran parte delle novità dei prossimi mesi, nel rapporto tra TV e Internet, consisteranno proprio
nella sperimentazione di diverse strategie di "sincronizzazione" (o meglio di gestione coordinata del tempo) tra i
due media. Proprio perché la TV (almeno quella generalista) ha un suo tempo così peculiare e radicalmente
differente da quello di ogni altro medium, l’entrata in campo degli operatori televisivi nel mondo di Internet
potrebbe rivelarsi un fattore innovativo rilevante.
Carillon Stars
Roberto Caselli

Dando una scorsa ai festival musicali estivi di casa nostra ci si accorge di una costante interessante: a farla da veri
padroni sono ancora una volta le star over forty. È vero, gruppi come Oasis e Blur si contendono il primato di
vendite tra i giovanissimi, ma non è un caso che finiscano col richiamare le vecchie rivalità tra Beatles e Rolling
Stones e non è neanche strano che Nirvana e Smashing Pumpkins, sconquassati dal suicidio di Kurt Kobain e
l'overdose di Jonathan Melvoin, vengano subito rimandati ai Doors di Jim Morrison e a Jimi Hendrix o che il lato
oscuro del mondo femminile esplorato da PJ Harvey sia, fin troppo banalmente, ricondotto a quello di Patty Smith.

Sembra quasi che quei dieci anni compresi tra le prime metà dei sessanta e settanta abbiano già espresso
musicalmente tutto quello che era possibile dire e finiscano col rivelarsi una maledizione destinata a togliere luce
propria a tutti gli artisti venuti dopo. Forse molta responsabilità è da attribuire a quei critici, che, viaggiando pure
loro sull'onda dei quaranta, non riescono a svincolarsi da certi parametri, ma è anche certo che le richieste del rock
storico, del blues e del jazz tradizionale non sono solo una prerogativa degli adulti. È come se il dialogo tra padre e
figli sul piano del costume si sia giocato anche in questo ambito e un po’ d'influenze siano passate alle nuove
generazioni . È così che i cinquantenni Bob Dylan e Carlos Santana, Lou Reed, David Bowie e Patty Smith hanno
già riempito le piazze di molte città e la sempreverde Tina Turner, dopo i successi di Roma e Cava Dei Tirreni, ha
già esaurito le prenotazioni per il suo concerto milanese di settembre. Ma attenzione, non è la storia del rock che sta
a cuore alla generazione adulta, piuttosto la speranza di uniformare i gusti con i più giovani per creare un cerchio
che possa, ripercorrendolo di continuo, impedire al tempo di scorrere orizzontalmente.
Guai infatti se queste stelle di prima grandezza, durante le loro esibizioni, si permettono di stravolgere i pezzi del
loro repertorio, il pubblico perde il ritmo e il castello dei ricordi rischia di frantumarsi miseramente, l'alchimia che
permette di fermare il tempo e rimanere giovane per sempre non può più verificarsi e il concerto invece di
trasformarsi in una sorta di macchina del tempo ritorna ad essere un semplice happening, un abito che si indossa, si
usura e si getta via. Un momento come un altro che non lascerà grande traccia emotiva, che potrebbe addirittura
rivoltarsi su se stesso e far definitivamente crollare un mito, appositamente coltivato nell'inconscia speranza di
restare giovani anche quando giovani non si è più.

foto di Nino Romeo


Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:
Umberto Eco, Furio Colombo, Giovanna Grignaffini, Altan, Stefano Bartezzaghi, , Rossana Di Fazio, Renato
Mannheimer, , Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Roberto Caselli, Giulio Blasi, Ranieri Polese, Mario Calabresi, COMIX.

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo


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Golem 03 discute in primo luogo di giornalismo e verità.
Su questo numero Gianni Riotta avanza l'idea che solo una versione "umile" della verità può servire davvero nel
mondo dei media. Mario Calabresi ha raccolto i pareri di Montanelli, Mauro, Rossella, Anselmi, Borrelli;
aspettiamo cari lettori la vostra opinione, tanto nel Forum, quanto nel sondaggio in diretta online curato da Renato
Mannheimer.
Secondo tema di Golem il lavoro che non c’è: ne discutono Sylos Labini e Martino.
Di un nuovo dissocupato eccellente, Arrigo Sacchi, scrivono Grasso e Casadio.
La gestione dei beni culturali del nostro paese è sempre al centro della nostra attenzione : un duello tra Carlo
Bertelli e il Touring Club Italiano mostra quali e quante concezioni si possano esprimere attraverso piccolissime
scelte.

Poi le rubriche: Grignaffini, Bartezzaghi, Blasi, Di Fazio, Comix, Blob, ma soprattutto Alda Merini per la Poesia,
con due brani inediti che ascolterete dalla sua stessa voce spessa e calda. Le siamo molti grati.
Novità su Golem non ne mancano mai: questa volta c’è una storiella yiddish di Moni Ovadia.
Contenti? Noi sì.
Gianni Riotta
Sisifo on-line

Il bestiame dell’eroe Sisifo era continuamente depredato da un vicino un po’ brigante. Per quanti sforzi facesse,
Sisifo non riusciva mai a cogliere il lestofante con le mani nel sacco. Poi ebbe un’idea: intagliò negli zoccoli delle
mucche la forma delle lettere, vi versò del metallo fuso, cosi che, seguendo il ladro gli animali stampassero sul
sentiero sabbioso la denuncia "Sono stata rubata".
Qualche secolo prima di Gutenberg è dunque il mitico Sisifo l’inventore della stampa. E imprime al Dna della
professione un codice di denuncia delle malefatte e dichiarazione di verità. Quando però un cronista, dal più
imberbe alla migliore veterana, si accinge a fare i conti con la verità cominciano i guai.
Non ragiono qui sull’obiettività, tema assai discusso. Ma proprio della verità. Tanti anni fa il logico polacco Alfred
Tarski scrisse su "Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati", la logica, la matematica. E si avvide presto che,
quando passiamo a ragionare delle lingue parlate tutto si complica. È possibile, è legittimo, cercare un concetto di
verità nei linguaggi dell’informazione?

Nei giornali, in tv, alla radio, ci sono vari livelli di "verità" prevista dal consumatore, lettore o spettatore che sia.
Chi leggeva "Lotta continua", o chi oggi si abbona al "Giornale", accetta la sua verità nel momento in cui compie la
scelta. Chiede al suo foglio una funzione "fatica", chiede cioè di essere ogni giorno confermato in quello di cui è
già convinto. Come il militante che va al comizio o il credente che va sotto il pulpito ad ascoltare la predica.
Chi, invece, compra la stampa di informazione si aspetta ogni giorno notizie, commenti da cui può, volta a volta,
dissentire, di cui può essere convinto o restare incerto. Ma qual è la verità nell’informazione? Fino a che punto è
possibile raggiungerla?
Prendiamo, ad esempio, un caso che da anni divide l’opinione pubblica: la questione dell’aborto. Per me la "verità"
sta in questa semplice proposizione: la scelta non è tra "aborto" e "no all’aborto". Se cosi fosse, la stragrande
maggioranza delle persone sarebbe per il "no all’aborto". La scelta è in realtà tra "aborto legale" e aborto
clandestino". Il movimento per la vita confonde la scelta e, si allontana dalla verità.
Ma "l’aborto legale male minore" resta sofferenza orribile e una pena. Allora: il continuo tam tam, spesso in
malafede, spesso ideologico, spesso strumentale che gli antiabortisti fanno (in Italia meno che in altri paesi)
costringe gli abortisti a non dimenticare che, malgrado il buonsenso della loro posizione, l’aborto resta un dramma
e una pena. Una parte è (a mio avviso) più vicina alla verità dell’altra, ma chi si informa attingendo ad entrambe le
fonti si avvicina alla verità più di chi leggesse solo un foglio schierato pro o contro.

Consideriamo un altro esempio. C’è un uomo politico potente, abile, corrotto, sprezzante delle regole e delle buone
maniere, attento solo al suo potere e al suo clan. Buona parte della popolazione, però, è attratta dal suo carattere, ne
condivide in parte il programma e non è affatto persuasa dalle ragioni dell’opposizione. La stampa dell’opposizione
svolge un lavoro egregio nel denunciare la verità, le malefatte del Politico, gli abusi del suo clan. Ma dimentica la
simpatia di cui gode, il consenso che riceve. Il risultato è che parte dell’opinione pubblica risulta semplicemente
non ricettiva di quella verità. Ascolta e rigetta, anzi viene confermata nella tesi di una congiura contro il Potente.
Un’altra parte dell’informazione fa una scelta differente: racconta si degli abusi di quel Potente, ma senza
malanimo, senza astio preventivo, pronta a dargli atto di quel che fa di buono e, soprattutto, attenta a raccontare una
verità meno pura, meno assoluta, meno perfetta, però recepibile anche da quella parte dell’opinione pubblica che,
senza essere compromessa, non è ostile pregiudizialmente al Potente.
Dunque: da una parte una verità scintillante ma poco efficace, dall’altra una verità più umile ma micidiale. Qual è
migliore? Quale deve usare un cronista onesto? Una denuncia, l’altra mina, ma servono entrambe. Perché, senza la
stampa radicale (non importa qui , se di destra o di sinistra) la stampa equanime si stancherebbe presto, sarebbe
presa da mille prudenze e opportunismi, finirebbe vittima dei furbi che il Potente infiltra al suo interno. Ma senza
l’informazione equanime, i radicali finirebbero presto rauchi: odiando il Potente ne vedrebbero le trame ovunque,
anche dove non sono, anche al proprio interno, cominciando una serie di faide settarie.
Chi si avvicina più alla verità? L’editorialista che usa la mazza, atterra gli avversari e elogia gli amici, o quello che
impugna il fioretto, cercando di cogliere in fallo (la Mossa del Gabbiano, la chiama Eco nel suo ultimo libro) amici
e avversari?
Questione di stile, certo. Io ho sempre preferito il secondo, anche quando lavoravo per la stampa militante. A lungo
ho creduto che il fioretto, lo stile equanime, fossero superiori, migliori, più onesti e vicini alla verità dello stile
passionale militante.
Oggi credo piuttosto che sia uno stile più efficace per capire che cosa succede, e me lo terrò caro fino alla morte.
Ma solo chi si nutre sia delle urla passionali che dei ragionamenti, va vicino all’elusiva verità. Una stampa in cui
tutto fosse "Foglio" e "Liberazione" sarebbe la fiera degli slogan. Una stampa con "Corriere" e "Repubblica"
ristagnerebbe.
Capita spesso ai cronisti alle prime armi un’esperienza che tempra. Vanno per fare un articolo, raccontano con
minuzia e onestà, poi tornano a chiedere il giudizio dei protagonisti. Ricevono insulti e delusioni, hai saltato questo,
hai dimenticato quello, non hai scritto che... La verità è che il giornalismo è una deformazione, come la fotografia
che riduce la realtà in due dimensioni. Ogni cronaca taglia, riduce, trasforma. Chi c’è dentro lo sente e si ribella.
Ma per gli altri è un’approssimazione sufficiente.
Spinoza diceva "né ridere, né piangere ma capire". Credo vada inteso secondo quanto precisava, secoli dopo,
Gregory Bateson "le lacrime sono un fatto intellettuale". On-line e off-line la verità non viaggia in linea retta, nè si
ferma solo tra gli adepti di un’idea o le vestali dell’obiettività. Emigra, svolazza, concede i suoi favori in giro,
perfino le religioni non ne hanno appannaggio.

Il giornale sincero
Verità e giornalismo
Quale rapporto c’è e quale dovrebbe esserci tra verità e giornalismo e come
convivono oggi queste due realtà nel mondo dell’informazione?

Indro Montanelli Corriere della Sera


La verità è un ideale, non è una realtà, ce ne sono tante di verità, non ne esiste una unica. Sarebbe certo facile se
fosse una cosa oggettiva, sicura, ma non esiste una verità con queste caratteristiche.
Esiste, invece, la ricerca della verità, e il giornalista ha il dovere di cercarla, deve fare il possibile per
raggiungerla, anche se non ci riuscirà mai. La verità, infatti, ha infinite facce impossibili da raccontarsi nella loro
totalità, non si possono riprodurre tutte.
C’è una grande varietà di giornalisti, spero che in futuro aumentino quelli che tengono presente questo
imperativo di ricerca, che va perseguito anche contro e a costo delle proprie convinzioni.
Oggi questo non viene fatto e ai lettori non resta che lo scetticismo, la scarsa ricerca della verità è certo uno dei
motivi della disaffezione verso i giornali.

Giulio Borelli TG1 RAI


Verità è un concetto molto grosso, di tipo filosofico, religioso, ma se la intendiamo in senso laico e in relazione
al giornalismo allora la verità è la maggior approssimazione al fatto, a come si sono svolti i fatti, in questo senso
la verità è l’obiettivo, lo scopo.
Oggi questa ricerca è molto problematica, viene messa a dura prova dal giornalismo delle chiacchiere, perché
rispetto al giornalismo d’inchiesta che fa ricerca, va alle fonti, approfondisce, prevale il giornalismo delle
affermazioni contrapposte, basato solo sulle interviste, sulle repliche. La verità è ricerca ed è proprio la ricerca
che nel giornalismo è andata perduta; perdendo le inchieste il giornalismo è diventato sedentario, raccoglie e
aizza contrapposizioni e chiacchiere creando un teatrino.

Ezio Mauro La Repubblica


La verità è più semplice e più ricca dell’invenzione. Solo il cattivo giornalista può pensare di poterne fare a meno.
Oggi l’esigenza dei lettori è una sola: avere il massimo di informazione possibile. In questo senso i giornali di
oggi soddisfano i lettori più di quelli del passato.
Giulio Anselmi Corriere della Sera
Tra verità e giornalismo, c’è lo stesso rapporto che c’è tra obiettività e giornalismo, c’è una linea di
approssimazione. Tra la realtà e ciò che i giornali raccontano c’è una certa approssimazione per svariati motivi,
che vanno dalla militanza politica per alcuni giornalisti ai limiti culturali per altri, fino alle ragioni tecniche, cioè
i modi in cui si produce un quotidiano o un telegiornale, per esempio i tempi di lavoro.

Carlo Rossella La Stampa


La funzione principale dei giornali è quella di raccontare la verità, guai se non cercassero di farlo.
L’etica del giornalismo consiste nel raccontare cose vere e non verosimili.
Io sottoscrivo in pieno il motto presente sotto la testata del New York Times: "All the news fit to print", bisogna
raccontare, fare una corretta informazione, guai a tacere le cose che accadono.
Non si dovrebbero mai manipolare i fatti e le notizie, mai adeguarli alle proprie ideologie, al proprio credo. Ma
soprattutto bisogna tenere i fatti separati dalle opinioni, cosa assai difficile da farsi. Mescolarli è un grave
affronto alla verità e all’etica, perché il lettore viene orientato secondo l’opinione di chi scrive. La spiegazione e
l’interpretazione devono rimanere separate dal racconto dei fatti.
So che questo è un utopia, ma è un utopia a cui bisogna tendere.
Ho illustrato le fantasie, le cose come dovrebbero essere, nella realtà la verità è spesso violentata e manipolata
dalle ideologie politiche o anche dalle simpatie o antipatie personali. Nessuno da questo punto di vista è
innocente, tutti abbiamo peccato, vale la pena di dire: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra". Ma questo
non ci esenta dall’obiettivo di raccontare la verità tal qual è.

Bisogna puntare ad ottenere la massima approssimazione possibile, quelle che vediamo oggi sui nostri giornali
sono foto un po’ sfocate della realtà che si vuole raccontare.
Il giornalista deve puntare a raccontare quello che accade, ci deve essere un resoconto fedele dei fatti. L’ostacolo
maggiore ad un buon grado di approssimazione sono le molte mediazioni attuate dalle fonti. Ma soprattutto
bisogna evitare che a queste mediazioni naturali non se ne aggiungano altre che possono nascere dalla militanza,
dalla trascuratezza, dalla malafede o per la pigrizia dei giornalisti.

Il giornale sincero
Nano Blob
di Marco Giusti

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Alda Merini
Due poesie

Amico, non ho più parole


Amico, non ho più parole
il senno della Rosselli
se n'è andato col cuore
e sto morendo anch'io.
Era il nostro baluardo migliore
Formato WAV
lei, il nostro migliore poeta.
50 sec. 585 kilobyte
Se ne andò per colpa di qualcuno
che non osò sfidare la legge
Formato AIFF e neanch'io lo posso più fare…
50 sec. 585 kilobyte per amore soltanto per amore
si potrebbe scendere in basso
e non per altro.
Ma però rimane l'Italia
col cuore sofferto
rimangono le nostre braccia
i nostri puri pensieri
rimane l'accordo segreto fra Dio e il poeta
a cui il poeta s'ispira
a guardare il baratro fondo
in cui cade l'Italia.
Ci sono giorni bianchi
Formato WAV Ci sono giorni bianchi
30 sec. 345 kilobyte ci sono giorni neri
giorni che come velieri solcano le pareti
Formato AIFF e allora di colpo la casa
30 sec. 345 kilobyte diventa bianca di attesa
si pensa a una brutta resa
di un povero poeta,
ma poi il poeta risorge
e mette mille foglie.
Il poeta è un albero stanco
ma il poeta è un albero bianco.
Antonio Martino
Le cause della disoccupazione

A mio avviso, la disoccupazione di cui tanto si parla non ha origine in fattori internazionali né macroeconomici, ma
è, invece, imputabile a cause microeconomiche. Vorrei chiarire questa affermazione con riferimento alla
disoccupazione giovanile, che è di gran lunga la più significativa.
E’ forse opportuno premettere una considerazione ovvia ma importante. Il termine "disoccupazione" ha oggi un
significato per molti aspetti diverso da quello che aveva 30 o 35 anni fa. Se nel 1960 mi fosse stato chiesto se fosse
possibile che il numero di disoccupati superasse i 2 milioni, avrei risposto che una disoccupazione così elevata
avrebbe determinato uno scontro sociale violentissimo. In realtà, i disoccupati, secondo i dati ufficiali, hanno
superato quota due milioni nel 1982 ed in diversi anni hanno sfiorato i tre milioni, ma lo scontro sociale non c’è
stato. La spiegazione è semplice: il disoccupato del 1960 era, in genere, un capofamiglia che, avendo perso
l’impiego, restava senza reddito; il disoccupato tipo dei nostri giorni, viceversa, è, per lo più, un giovane che
attende di trovare un impiego adeguato al livello di istruzione che ha ricevuto. Può permettersi di attendere grazie
al reddito della sua famiglia. Si spiega così come l’aumento enorme del numero dei disoccupati abbia avuto luogo
contemporaneamente alla scomparsa di molti tipi di occupazione un tempo assai diffusi.

Dico questo non perché ritenga la disoccupazione giovanile meno grave, ma perché non tenere conto di queste
differenze non ci aiuta a comprendere la situazione. Perché è così elevata la disoccupazione giovanile, specie al
Sud? Delle varie cause, quella prevalente a me sembra l’inadeguata creazione di posti di lavoro: si tratta di persone
che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro, non di lavoratori che vengono costretti ad uscirne. Tanto per
dare un’illustrazione: la crescita della disoccupazione in Italia è cominciata nel 1973, quando il tasso di
disoccupazione era pari al 2,8%. Dal 1973 al 1990 il numero dei disoccupati è aumentato di oltre due milioni di
unità, ma il numero degli occupati, lungi dal diminuire, è aumentato anch’esso, di ben un milione e settecentomila
unità. I due milioni di disoccupati in più, quindi, non erano persone che avevano perso l’impiego, ma giovani
entrati nel mondo del lavoro che non trovavano occupazione. Nello stesso periodo (1973-1990), mentre in
Giappone il numero degli occupati è aumentato del 19% e negli Stati Uniti di un incredibile 37%, in Italia è
aumentato solo dell’8,7%. La conclusione è ovvia: la nostra disoccupazione, specie giovanile, è dovuta alla
insufficiente creazione di nuovi posti di lavoro.
Delle cause che determinano la scarsa creazione di nuovi posti di lavoro mi limiterò ad indicarne solo tre, che a me
sembrano prevalenti. La prima è ben nota: dato il livello degli oneri fiscali e parafiscali che gravano
sull’occupazione, perché un datore di lavoro possa assumere un dipendente deve pagare una "multa" di quasi un
milione e centomila lire per ogni milione di remunerazione che corrisponde al lavoratore. Questa "multa" enorme,
com’è ovvio, scoraggia le assunzioni ed ha conseguenze particolarmente devastanti nelle regioni meno prospere,
che non possono permettersi livelli di fiscalità così elevati. Inutile aggiungere che questa "penale sul lavoro" ha
anche l’effetto di far prosperare il lavoro nero, l’economia sommersa, perché è interesse sia del datore che del
lavoratore cercare di evadere questo insostenibile balzello. Il lavoro nero, a sua volta, crea gravi problemi di
competitività alle imprese che operano alla luce del sole e devono sopportare costi enormemente maggiori delle
loro concorrenti che si nascondono nell’economia sommersa.
Il secondo fattore che determina una scarsa creazione di nuovi posti di lavoro è rappresentato dai vincoli ai
licenziamenti ed alle assunzioni. Quando deve decidere se assumere un certo numero di dipendenti o uno maggiore,
l’imprenditore opera in condizioni di incertezza: non sa se la sua decisione di espandere si rivelerà saggia o meno.
Se, quindi, lo Stato gli impedisce di correggere un eventuale errore, adotterà una strategia prudente: sapendo che
non potrà poi licenziare, preferisce non assumere. Abbiamo così un’occupazione forse più stabile, ma certamente
minore di quanto avremmo se assunzioni e licenziamenti fossero liberalizzati. Inoltre, data questa sclerosi del
mercato del lavoro, se è forse vero che l’occupazione è più stabile, diventa tristemente vero che la disoccupazione
dura più a lungo. In Italia, i disoccupati cronici, che restano in questa condizione per più di 12 mesi, sono il 70%,
contro il 15% del Giappone e l’11% degli Stati Uniti.
Una terza causa importante di disoccupazione, specie giovanile, è da individuarsi nelle norme che, per nobili
ragioni, hanno inteso imporre le stesse condizioni di lavoro a tutto il territorio nazionale. Due italiani che svolgono
lo stesso lavoro, in base a queste norme, devono essere remunerati nella stessa misura, indipendentemente dal fatto
che siano occupati in una regione del nord o del sud del Paese. Presentata in questi termini, sembra una decisione
saggia, ma basta un attimo di riflessione per rendersi conto della sua insensatezza.

Se fosse possibile, senza conseguenze negative, imporre alle regioni più povere le stesse condizioni di lavoro che
quelle più ricche possono permettersi, la povertà sarebbe immediatamente debellata. Basterebbe, per esempio, che
un organismo internazionale imponesse all’India gli stessi salari e le stesse condizioni di lavoro che valgono in
Germania, per far diventare l’India ricca quanto la Germania. Assurdo, vero? Enon è, forse, altrettanto assurdo
imporre alle regioni povere di uno stesso paese condizioni di lavoro che valgono nelle regioni più prospere? Alle
nobili intenzioni hanno fatto seguito conseguenze devastanti: il tasso di disoccupazione nelle regioni del sud è di 4-
6 volte maggiore che non nelle regioni prospere del nord. In compenso, i disoccupati meridionali hanno la (magra)
consolazione di sapere che, se avessero un lavoro, sarebbero remunerati come i loro connazionali del settentrione.
Ha senso tutto ciò?
I salari reali elevati sono la conseguenza della prosperità, non la sua causa; quando i paesi diventano ricchi possono
permettersi salari elevati, non il contrario. Imporre a regioni povere salari elevati significa condannare i lavoratori
di quelle regioni alla disoccupazione. Lungi dall’aiutarli, la decisione li rovina: preclude loro la possibilità di
trovare lavoro. Dovremmo rinunziare al più presto a questa insensatezza.
Che fare? Se vogliamo accrescere l’occupazione in generale, e quella giovanile e meridionale in particolare,
dobbiamo esentare per un congruo periodo, diciamo tre anni, i nuovi posti di lavoro da tutti gli oneri fiscali e
parafiscali, liberalizzare assunzioni, licenziamenti e condizioni di lavoro. Se, invece, continueremo a tartassare il
lavoro come accade adesso, i giovani meridionali continueranno ad essere esclusi dal mondo del lavoro e, prima o
poi, daranno vita a quello scontro sociale di cui parlavo prima. Conviene, quindi, a tutti che sindacati e partiti di
sinistra rinunzino ai loro pregiudizi ideologici nell’interesse del Paese.
Paolo Sylos Labini
Un'occasione perduta

L’incontro di Firenze di fine giugno, che ha concluso la presidenza italiana dell’Unione Europea, è stato
un’occasione perduta per la lotta alla disoccupazione. L’opposizione della Germania ha impedito qualsiasi intesa ed
ha imposto la politica dei due tempi: prima il risanamento finanziario e poi la politica per combattere la
disoccupazione.
Una tale politica oggi non può più essere di tipo keynesiano - espansione della domanda attraverso opere pubbliche
concepite in termini generici. Non può non essere una politica differenziata e articolata, anche sul territorio;
richiede quindi uno studio preparatorio, che poteva essere avviato subito, al livello europeo. Questo avremmo
dovuto proporre.
Possiamo tuttavia avviare subito lo studio preparatorio e predisporre diverse misure al livello nazionale. Le
principali linee sono due: infrastrutture di tipo particolare, alla Delors, e politica di sviluppo delle piccole imprese,
ben più robusta di quella comunemente prospettata, poiché, nella nuova fase del capitalismo industriale, le grandi
imprese, anche quando si sviluppano, non assorbono più lavoratori ed anzi li espellono, l’occupazione può crescere
solo con la crescita delle piccole imprese. Gli incentivi fiscali e finanziari cui di solito si fa riferimento sono del
tutto insufficienti. Occorrono sostegni reali diretti sia per far nascere sia per ridurre la mortalità delle piccole
imprese; ed occorre predisporre un organismo centrale, articolato sul territorio, per il trasferimento di nuove
tecnologie. Ma si tratta solo di un embrione: creare un organismo capace di promuovere una politica di
trasferimento di tecnologia su vasta scala, in modo che la crescita dell’occupazione che fa capo alla piccola impresa
raggiunga cifre socialmente significative. In una tale strategia va incentivata la creazione di imprese a mezzo
d’imprese- vanno cioè incentivati i dipendenti che sono disposti a mettersi in proprio.
Oltre le due linee ora ricordate, occorre pensare, nella lotta alla disoccupazione, a misure ausiliarie: tempo parziale,
lavoro interinale, riduzione degli orari (che tuttavia rappresenta una misura prevalentemente difensiva); ma le
principali linee di azione riguardano le infrastrutture alla Delors e il vigoroso impulso allo sviluppo di piccole
imprese innovative.
Aldo Grasso
Sacchi è un capro?

Arrigo Sacchi: " Muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera" (Gv., 11, 47-53).

Il linciaggio virtuale.
La scena aveva un che di già visto; alla folla radunata, il proconsole dell’Impero del calcio scandiva lento la
proposta: volete il barabba Cesare Maldini o il nazareno Arrigo Sacchi? La massa informe prese a urlare: "barabba,
barabba!" e poi, raccolte le pietre dello scandalo (ma anche la prima pietra, che non si scorda mai, e quella di
paragone), prese a lapidare il citì, colpevole di non aver vinto una partita ma più ancora di aver introdotto nel
mondo del calcio una teoria. Occorreva dunque linciarlo per esorcizzare la paura nel nuovo. Sacchi ha tentato di
dare forme nuove al gioco del calcio: in questa prospettiva la "zona" è solo il processo finale di un lungo
rivolgimento. La sua maniacalità, il suo rigore hanno creato sgomento e disagio: sono venuti a cadere i miti della
"squadra femmina" e archetipi socioculturali come il concetto di "palla lunga e pedalare". Racconta René Girard
che Lopez, il medico ebreo di Elisabetta d’Inghilterra, fu giustiziato per tentativo di avvelenamento e pratica della
magia proprio nel momento in cui godeva del massimo prestigio a corte (un contratto miliardario, si suppone). Al
minimo insuccesso, alla minima denuncia, il parvenu può cadere tanto più in basso quanto più in alto era salito.

Le pietre mediatiche.
Il linciaggio di Sacchi, caso curioso, è avvenuto più sulle pagine dei giornali che in Tv. Le trasmissioni televisive, a
parte le faziose telecronache, non si sono schierate a partito preso; i giornalisti sì. Forse perché sui giornali, per
convenzione, esistono gli editorialisti, i pensatori, i corsivisti gli unici cioè in grado di avere un pensiero e di
opporre il proprio a quello di Sacchi, al "culo di Sacchi". Quell’allenatore che per anni li aveva costretti a frettolosi
aggiornamenti, alla cancellazione di punti di riferimento (il terzino, il tornante, il libero), all’incrocio di discipline
adesso era lì, a portata di mano. Lo si poteva finalmente schiaffeggiare, dileggiare, crocefiggere. Ma l’aspetto più
sorprendente è l’inusitato grado di violenza con cui i giornali si sono scagliati contro Sacchi. E già che c’erano, i
giornalisti hanno approfittato per regolare alcuni conti in sospeso, fra di loro. In una prosa che esaltava l’antica arte
dello scaricabarili e della discesa dai carri dei perdenti. Un istinto rabbioso, che saliva dalle viscere, ha trasformato
il citì in un capro espiatorio. I persecutori finiscono sempre per convincersi che persino un solo individuo possa
rendersi estremamente nocivo all’intera società malgrado la sua debolezza relativa.

L’apostasia zonaiola.
Di che delitto ideologico si è macchiato Sacchi? Ha snaturato il calcio, ha esasperato gli schemi, ha sacrificato i
talenti. Lo ha sostenuto un’alta carica dello Stato, il vice presidente del Consiglio Walter Veltroni: "Mi preoccupa il
calcio ipervitaminizzato e muscolare visto agli europei: preferisco di gran lunga l’Inter di Mariolino Corso che si
chiudeva dietro e segnava un gol. Il calcio ha bisogno di fantasia, di miti ed anche la televisione necessita di questi
elementi. Occorre modificare le regole per riportare in campo lo spettacolo. Il calcio ingegneristico degli anni 90
non mi affascina". La Zona rappresenterebbe dunque l’eccesso di calcolo, di laboratorio, di schemi. Il Contropiede
invece la fantasia, l’invenzione talentosa, il più mancino dei tiri (Corso). Guai ad azzardare che la Zona è invece il
momento propositivo di un gioco, la visione globale (corrispondente alla nozione di flusso), l’esaltazione della
coralità (da questo punto di vista, la più sovietica delle teorie) e il Contropiede è l’arte di arrangiarsi, la furbizia, il
colpire di rimessa. E che regole bisogna modificare per riportare lo spettacolo: far battere i rigori a Gianfranco Zola
da 5 metri? E se i talenti latitano, se i Baggio sono in disarmo esiste una legge dello Stato per intervenire?
Giorgio Casadio
La rovina dei romagnoli

Pare che il Padreterno, una volta ultimata la Creazione, sia stato colpito dal dubbio che mancasse ancora qualcosa.
Dopo una breve riflessione, pestò il piede nel fango, ed ecco saltar fuori il Romagnolo: aso iqua me. La fonte di
questa notizia è autorevole, nientemeno che Ezra Pound. L’ultimo nato della Creazione, scrive sempre il poeta,
accompagnò la sua venuta con una bestemmia - che qui non è il caso di riportare - quasi a voler significare da
subito la sua totale autonomia da qualsiasi forma di potere costituito.
E bisogna dire che le generazioni a seguire di romagnoli hanno fatto del loro meglio per adeguare i propri
comportamenti a quelli dell’inquieto, irascibile Prototipo. Ribelli, ostinati, anticonformisti, geniali, sempre
esagerati, ostinati fino al masochismo; di volta in volta, anticlericali e antipapisti, repubblicani accaniti, socialisti
convinti, fascisti arrabbiati, comunisti con giudizio. Con picchi di livello ragguardevole, basti pensare al buon
Nullo Baldini "patrono" di braccianti e scariolanti, al Benito di Predappio, al genio Federico nato in quel di Rimini.
Per finire con Arrigo Sacchi da Fusignano, provincia di Ravenna.
Tutto questo preambolo sulla Romagna per arrivare a parlare di calcio, e in particolare dei guai della nazionale? Si,
perché c’è un filo che unisce gli ultimi trent’anni di storia calcistica italiana, un filo che parte da Middlesbrough,
Inghilterra, estate 1966, e raggiunge Manchester, Inghilterra, estate 1996.
Ricordate i maledetti mondiali del ‘66, quelli della Corea? La disfatta della squadra guidata da Mondino Fabbri?
Ormai è storia, probabilmente su quel tragico avvenimento sono state scritte perfino tesi di laurea. Ma val la pena
di ricordare che all’origine della disfatta, oltre alla sfortuna, all’imprevedibile velocità dei coreani, ci fu anche
testardaggine dell’omino di Castelbolognese, Ravenna. In quegli anni due erano le squadre che dominavano il
calcio italiano, l’Inter di Helenio Herrera e il Bologna di Fulvio Bernardini. Fabbri tentò un’azzardata miscela delle
due formazioni, lasciando però a casa, insensibile a critiche e consigli, il nocchiero dell’Inter, il cardine della difesa
Armando Picchi. E, in aggiunta, nell’incontro decisivo con i coreani si affidò al beneamato Giacomo Bulgarelli,
centrocampista di genio, sfortunatamente, nell’occasione, con ginocchio semirotto. Giacomino fu costretto ad
abbandonare e l’avventura finì come finì. Un tiraccio di un odontotecnico coreano fece fare anzitempo le valigie
agli azzurri.
Quattordici anni dopo, sulla panchina azzurra sedeva Azeglio Vicini, da Cesena. Si giocava in Italia, la squadra era
forte, la migliore e la favorita, e il mister ebbe la fortuna - e il merito certo - poter contare su un Baggio
straordinario, sostituto scintillante dell’infortunato Vialli. Ma nella semifinale con l’Argentina, per tutti una
formalità in attesa della finale con i tedeschi, anche il tranquillo Vicini ebbe l’alzata d’ingegno: fuori Baggio,
dentro Vialli. E Italia a casa, anzi a Bari per la finale di consolazione con l’Inghilterra, mentre la coppa volava in
Germania. Perché Vicini cambiò, insensibile al motto "squadra" che vince non si "cambia"? Perché anche lui fu
vittima dell’istinto atavico della sua gente di andare controcorrente, della maledetta voglia di dimostrarsi più
competente di tutti gli altri.
Ma è ancora nulla, tuttavia, al confronto di quel che ha combinato la presunzione di Arrigo Sacchi in Inghilterra.
Baggio e Signori a casa, la squadra destrutturata per l’incontro con i cechi, l’ostinata difesa che della sua teoria che
il calcio va nutrito esclusivamente di "schemi". Tutto per dimostrare che l’unico indispensabile nella compagine
azzurra è lui, Arrigo da Fusignano. Né vale a giustificarlo che tedeschi e cechi, le due squadre che hanno fatto fuori
l’Italia, si siano giocati la finale. Semmai, vista la loro modestia, è una prova di maggior colpevolezza. Gli
estimatori di Arrigo portano tuttavia, in sua difesa, l’esito del mondiale americano, con l’Italia battuta dal Brasile
solo ai calci di rigore. Ma quel Baggio "rotto" impiegato nella finale di Los Angeles, contro una squadra che aveva
tra i pali il portiere di riserva della Reggiana, esclude ogni forma di perdono.
No, Sacchi deve passare la mano, riportare in Romagna la sua lavagna con gli schizzi degli schemi. E la
Federcalcio, nella scelta del successore, dovrà stare bene attenta a non ripetere gli errori del passato: mai più un
romagnolo al potere su una panchina ai bordi di un campo di calcio. Si considerano troppo intelligenti, e forse lo
sono, ma non sono disposti ad ammettere il benché minimo errore. E così vincere diventa un’impresa.
Vittorio Gregotti
Comunicare o proporre

Si può dire che negli ultimi trent’anni si sia rovesciata, per le riviste di architettura, una tradizione che durava
dall’inizio del secolo. Per circa cinquant’anni le riviste di architettura hanno rappresentato un luogo di riflessione,
di discussione, sono state parziali, passionali, ma hanno sostenuto quasi sempre un punto di vista preciso sulla
disciplina, raccogliendo spesso proprio le scarse e quantitativamente insignificanti testimonianze delle tesi che
andavano sviluppando.
Negli ultimi trent’anni le riviste sono invece progressivamente diventate lo specchio di ciò che avviene; anzi, hanno
sempre più considerato loro principale dovere informare nel modo più ampio e neutralmente pluralistico intorno a
ciò che veniva prodotto. Naturalmente ciò ha aumentato di molto la quantità di cose pubblicate (ciò che corrisponde
peraltro ad una enorme dilatazione del costruito) ma reso sempre più incerto il principio qualitativo attraverso il
quale le selezioni possono avvenire. A questo ribaltamento ha naturalmente corrisposto una professionalizzazione
in senso giornalistico delle riviste di architettura ed una complessificazione (con il corrispondente aumento di
costo) delle staff redazionali relative. Da quando sono stato licenziato, all’inizio di quest’anno, dalla rivista
Casabella, che ho diretto per 14 anni, è sparito anche l’ultimo architetto operante che dirigesse una rivista
importante di architettura.
A tutto ciò si deve aggiungere che, contrariamente allo sforzo di unità metodologica delle varie scale di intervento
proposta dal moderno, si assiste oggi ad una divaricazione della nostra disciplina in specializzazioni sempre più
accentuate (dal "product design" alla pianificazione, dal landscape all’"urban design") che faticano sempre più a
ritrovare un fondamento unitario e che quindi producono pubblicazioni sempre più differenziate e scarsamente
comunicanti.
Casabella (Italia)
Abc (Svizzera)

Automaticamente lo spazio critico è stato parzialmente occupato dalle riviste universitarie o di fondazioni o di
piccoli gruppi, riviste con vite e periodicità incerte e soprattutto assai sovente con obiettivi nobilmente accademici
per chi vi scrive. Anche se si aprono così sovente poco utili esibizioni di citazioni di filosofia teoretica e gare per il
titolo più originale del pezzo, esse restano i soli luoghi dove si discuta, sia pure senza la pretesa della costituzione
di una comune base teoretica.
Il problema di un adeguato rapporto tra questioni nazionali (o meglio locali, poiché sovente ogni "nazione" è
costituita da territori con tradizioni, culture e condizioni notevolmente differenziate che possono costituire prezioso
materiale per la progettazione architettonica) si è ormai squilibrata del tutto verso modelli di avanzamento
internazionalisti (il che significa spesso oppositivi anche alla costituzione di una cultura multietnica) dominate dalle
nazioni economicamente e tecnologicamente, e quindi anche linguisticamente, più forti.
Quasi tutte le riviste sono in verità alla disperata ricerca dell’ultima novità offerta dalla moda, cioè ancora del
sostegno dell’opinione corrente dei gruppi più forti dal punto di vista della comunicazione. Peraltro questa
propensione va incontro al bisogno, ideologico oltre che pratico, degli architetti di accumulare con le pubblicazioni
un capitale simbolico da spendere poi sul piano professionale. Si forma così un circolo vizioso: chi ha raccolto
sufficiente capitale simbolico entra automaticamente in una accumulazione ridondante di libri, monografie e riviste
che lo introducono in un circuito internazionale; non sulla base quindi di un punto di vista sull’architettura ma di un
privilegio di gruppo. Dal quale peraltro la nuova moda all’orizzonte è in grado di espellerlo rapidamente.
Il caso Italia è del tutto speciale: esso, con i suoi 60.000 studenti di architettura, sia pure distratti e demotivati, offre
un mercato eccezionale alle pubblicazioni di architettura, nonostante copra un’area linguistica molto ridotta.

Disk (Cecoslovacchia)
Blok (Polonia)

Alla tendenza generale allo scivolamento verso le costruzioni di mitologie in rapido rinnovo corrisponde
puntualmente un modo di pubblicare i progetti e le realizzazioni per immagini sintetiche e parziali (spesso vere e
proprie falsificazioni della realtà dell’opera) con disegni di progetto scarsi ed insufficienti, senza alcuna
contestualizzazione né culturale, né visiva.

L'Architecture d'Aujord'hui
(Francia)

Questa mia non è una perorazione a favore di riviste di neoavanguardia: quelle che hanno circolato in questi anni
hanno dimostrato quasi tutte la loro fatua fragilità: non vi sono più regole da infrangere ma invece regole da
ricostruire. Si tratta piuttosto di mirare a riprendere in modo nuovamente parziale la guida dello sviluppo
disciplinare, aperti ad ogni contributo e suggestione delle altre discipline a partire però da un centro interno al
proprio fare che costituisca, con nuova capacità di lentezza e di stabilità, un solido punto di vista sul mondo per
mezzo dell’architettura.
Aldo Schiavone
Ancora sui concorsi

Ogni discussione sulla riforma dei concorsi universitari italiani, se non vuole trasformarsi subito in un esercizio di
architettura normativa del tutto astratto, deve partire da alcune considerazioni elementari, che mi proverò qui di
seguito a ordinare.
Primo. Un sistema perfetto, vale a dire in grado di assicurare comunque il reclutamento dei migliori, e di essere
completamente impermeabile a qualunque ingiustizia, non esiste. A rigor di termini, non esistono nemmeno in
assoluto "i migliori", perchè il giudizio di eccellenza nella ricerca scientifica è sempre storicamente e
soggettivamente condizionato.
Secondo. Qualunque sistema di reclutamento dei professori universitari non può che reggersi, in ultima istanza, su
un meccanismo di cooptazione; e quindi non può che fondare la sua garanzia, in ultima istanza, sul livello
scientifico ed etico-professionale dell’intero ceto cooptante. Non c’è procedura che tenga: professori universitari di
basso livello e di scarso senso professionale tenderanno a reclutare nuovi colleghi simili a loro, o peggiori; mentre
professori molto qualificati e con un forte spirito pubblico tenderanno ad avere accanto a sè figure di eguale livello.
Detto questo, si tratta di trovare un metodo efficiente e ragionevole, che metta al riparo dalle aberrazioni più gravi,
e favorisca invece il formarsi di circoli virtuosi .
Terzo. Il meccanismo di reclutamento in vigore a tutt’oggi in Italia è pessimo: esso unisce ai capricci del caso
(sorteggio dei giudici) l’inefficienza di burocrazie sovraccaricate, e l’arroganza e le manovre delle grandi
consorterie, in un contesto in cui potere accademico e valore scientifico tendono a coincidere sempre meno.
Qualunque nuovo sistema ha quindi molte probabilità di essere comunque migliore di quello esistente. Insomma,
sarebbe difficile far peggio.
Quarto. Qualunque metodo di reclutamento che spinga verso l’accentramento burocratico dei concorsi è un metodo
cattivo. L’attuale sistema italiano, fondato su una centralizzazione che arriva al mostruoso, è senza eguali al mondo.
Quinto. Una selezione dei docenti fondata sulla libertà di scelta delle singole Università risolve e semplifica più
problemi di quanti non ne crei, ed è compatibile con quel sistema di autonomie e di concorrenza fra le sedi, il cui
completamento è l’unica garanzia di futuro per il nostro insegnamento superiore. A parole, tutti sono d’accordo con
questa diagnosi, ma nei fatti (a cominciare dai concorsi) molti cercano in ogni modo di bloccare la trasformazione.
In questa prospettiva, le osservazioni di Umberto Eco sembrano condivisibili e pertinenti.
Ranieri Polese
Cine-estate

Chiardiluna, Arena Estiva Don Bosco, Arcobaleno, Arena Giardino Colonna: in città, d’estate il cinema si faceva
all’aperto. E i locali avevano nomi che dovevano far capire che la proiezione sarebbe stata sotto le stelle. Se
pioveva nel primo tempo, regola voleva che il biglietto fosse rimborsato. Sennò, amen. Io, però, i primi film
all’aperto non li ho visti in città, a Firenze. Finite le scuole, con i miei fratelli mi portavano in campagna, a
Latignano, comune di Cascina provincia di Pisa. Fu qui, sul muro di una casa di contadini, che ho visto i primi film.
Ormai son solo fotogrammi sbiaditi e incoerenti. Forse, stando ai racconti dei fratelli più grandi, uno doveva essere
Il segno della croce di De Mille (circolava nel dopoguerra la nuova versione aggiustata dallo stesso regista, con due
religiosi che davanti alla Roma moderna raccontavano vita morte e miracoli dei primi apostoli & martiri). Più tardi,
al mare, in Versilia, in un cinema di Fiumetto, tra un campo da tennis e il Bagno Firenze, vidi un western cupo e
vagamente inquietante. Era L’avamposto degli uomini perduti, con Gregory Peck, un biancoenero con gli Apache
che per molto tempo ho associato nella memoria un po’ a Ombre rosse e un po’ all’Assedio delle sette frecce che
invece era a colori. Il capitano Gregory Peck, "severo ma eroico", mi sembrò cattivissimo e da allora mi è rimasto
per sempre antipatico.

Secondo tempo. Molti anni dopo. 1975 e dintorni, a Firenze come in altri posti, le nuove giunte di sinistra decidono
di popolare di avvenimenti l’estate di chi resta in città.
Mostre, concerti rock, teatri. Ma soprattutto cinema. Se la Roma di Nicolini fu Massenzio, Firenze è stata il Forte di
Belvedere. Era gestita, l’estate del Forte, dalla cooperativa l’Atelier, di cui facevo parte. Due schermi, quattro film
per sera, da un lato i titoli della stagione appena trascorsa (riparazione estiva per chi d’inverno non era andato al
cinema), dall’altro una programmazione sul genere film-studio, arditi ripescaggi, insolite anteprime, vizi e manie da
cinéfili disposti a quasi tutto. Di quelle notti molte sono rimaste memorabili: un ferragosto con Novecento uno e
due, cinque ore e passa, distribuzione gratuita di cocomero, e per il gran finale, quello con la sconfitta dei fascisti e
l’immensa bandiera rossa, venne giù un diluvio universale sugli spettatori. Che, impavidi, non si mossero. Altre
notti che non si dimenticano, quelle in cui si riproponeva Via col vento (non permetterò a nessuno di dire che non è
un capolavoro!), o quando c’erano le maratone di Guerre stellari (uno, due e tre) o quelle di Indiana Jones. Cari
ricordi, pensieri stupendi sotto le stelle del cinema. Gli anni Ottanta, fra tante scempiaggini, furono anche questo...
Poi, si sa, tutte le cose appassiscono. Cambiano, e come cambiano. Arrivato a Milano, sul finire del decennio del
look, feci in tempo a veder morire il glorioso Obraz, in corso Garibaldi (l’ultimo film che andai a vedere lì fu Vivre
sa vie di Godard, versione malandata, ma pur sempre fascinosa).
D’estate l’Obraz era comunque chiuso, figurarsi, ci si soffocava anche d’inverno. Così, negli anni Novanta
cominciai a frequentare la Rotonda della Besana dove l’assai più famoso, l’Anteo, si trasformava (e si trasforma
ancora) in ARIAnteo.
Simpatico posto, caldissimo, programmazione senza guizzi (solo ripasso della stagione precedente). Zanzare,
invece, eccezionali. Le prime volte, mi ricordo, c’era una solidarietà militante fra spettatori che si passavano
amichevolmente fiaschette di Autan (da qualche anno è in vendita accanto ai gelati e alla cocacola). Ho visto così
Miller’s Crossing dei fratelli Coen: forse sarà per l’Autan, ma ritengo che sia il miglior film di quei due.

P.S. Le cose, però, non solo cambiano. A volte finiscono pure. Così quest’estate a Firenze, per la prima volta dopo
diciassette anni, al Forte Belvedere non si farà più il cinema all’aperto. Trasloca verso altre arene, altri luoghi. Ma
sotto quelle mura antiche, basta, mai più. Bye bye cinema.
Carlo Bertelli
Musei a tre forchette?

Ho appreso la democrazia dal Touring Club. Non avevo ancora l’età per votare quando guardavo mio nonno e mio
padre, entrambi soci del Touring, compilare la scheda delle votazioni per il consiglio nazionale del club. Dal
Touring ho anche imparato tantissime cose sull’Italia; talvolta fondamentali, talaltra curiose, come, per esempio,
quei dati statistici in una vecchia edizione della guida della Sicilia che informavano su quanti asini e muli vi fossero
nell’isola e che mi facevano immaginare un tempo in cui da quegli elementi ci si poteva configurare una società. Si
capisce dunque che voglia bene al Touring e che comprenda la sua difficoltà di tenere la rotta in tempi di
divaricazione delle domande turistiche e di prevalenza delle forme più incolte e selvagge.

Da qualche tempo il Touring cerca una nuova visibilità. Fra le nuove armi vi sono ora le pagelle per i musei.
Purtroppo questa non si è dimostrata una trovata felice.
A parte la crisi in cui è caduto l’istituto del voto scolastico, i parametri di giudizio sono del più piatto consumismo
e quindi agiscono più a favore del turismo selvaggio della concorrenza che del turismo consapevole che è sempre
stato fra gli obiettivi del Touring.
Le votazioni riguardano solamente i servizi che il museo offre. Dio sa se i nostri musei ne sono carenti, ma con
questa scelta le votazioni del Touring possono essere paragonate a una guida Veronelli che, anziché dalle pietanze,
giudicasse dal tipo di aria condizionata dei locali visitati.
Per la Lombardia, per esempio, troviamo il massimo di forchette per la pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia.
Benissimo; ma la pinacoteca fa parte del complesso dei musei civici, in ristrutturazione da anni. Proprio a causa dei
lavori in corso, fino a pochi anni fa in pinacoteca erano esposti anche alcuni importanti cimeli del museo cristiano,
come la lipsanoteca detta proprio di Brescia, la croce di Desiderio, il dittico dei Lampadi, i mosaici da
Sant’Ambrogio. Da qualche anno tutto ciò è in cassaforte. Dunque la visita offre meno ora di quanto offrisse prima.
Ma per i giudici del Touring questo non conta.
Dare le pagelle ai musei è un atto arrogante rivolto al direttore e al personale del museo ed equivale a quello del
viaggiatore che litiga con il controllore facendolo responsabile di tutte le disfunzioni delle ferrovie. Non aiuta a
migliorare la situazione.

_________________

Vorrei ancora accennare a un altro tema della settimana. Sabato scorso il ministro Andreatta ha dichiarato che,
essendo passati, per ragioni demografiche, da 300 mila uomini sotto le armi a 100 mila, molte caserme resteranno
vuote e vi dovrà a essere una conseguente riduzione del demanio militare. Alle migliaia di ettari delle aree
industriali abbandonate se ne aggiungeranno così altri delle aree militari declassate. Si offre dunque un’occasione
storica per ristrutturare il territorio nazionale.
E’ noto come in molti casi il vincolo militare sia riuscito, sia pure involontariamente, a proteggere dalla
speculazione zone del più alto interesse paesistico e ambientale. Quelle stesse zone sono ora in pericolo, se non
vengono immediatamente censite e bloccate con altri vincoli.
Nelle città, moltissime caserme occupano antichi conventi. Roberto Longhi attendeva sempre il 4 novembre,
quando le caserme erano aperte ai cittadini, per andare con gli studenti in visita ai grandi chiostri militarizzati di
Firenze, dove era possibile studiare ampi brani della pittura fiorentina del tardo Cinquecento e del Seicento. Si
pensi, per esempio, che una gran parte del convento di Santa Maria Novella è occupato dai carabinieri.
Persuadere i carabinieri a lasciare i palazzi storici e i conventi che occupano nel cuore delle città antiche non sarà
cosa facile. Oltretutto perché gli stessi carabinieri collaborano con il ministero per i beni culturali nella protezione
del patrimonio artistico. Eppure in alcuni casi sottraggono alla fruizione edifici di grande rilievo.
Un esempio: Parma. Parma è città dei Farnese e dei Borbone; eppure, a parte il teatro di corte, non è più in grado di
dare un’idea di che cosa sia stata, per l’arte e per gli stili di vita, la presenza della reggia. Il palazzo ducale del
giardino, posto in mezzo ad un parco grande quasi quanto tutta la città antica, edificato nel Cinquecento e ampliato
due secoli dopo, che si fregia degli affreschi del Bertoja dedicati alle glorie farnesiane, è infatti occupato dalla
Regione dei Carabinieri, che ha anche trasformato il giardino all’italiana in parcheggio. Liberare il palazzo ducale
non sarà cosa facile (l’esperienza di palazzo Barberini, a Roma, insegna), ma sarebbe bene che i ministri Andreatta
e Veltroni mettessero sin d’ora questo obiettivo, e altri simili, nel loro comune programma.
Purtroppo l’esperienza passata è del tutto negativa. Il castello di Vigevano, immenso, fu lasciato dall’esercito oltre
vent’anni or sono. Poiché apparteneva al demanio militare, non fu incluso nel piano regolatore. In attesa del nuovo
piano, e nonostante le tante agitazioni e proposte della città, la soprintendenza per i beni ambientali e architettonici
ha incominciato da tempo a spartirlo fra vari uffici, senza nessun piano generale e senza che sia stato valutato
l’enorme potenziale culturale di un complesso eccezionale, forse del più grande castello che esista in Italia. Come
si vede, è indispensabile evitare di procedere alla spicciolata. Occorre invece comprendere i grandi complessi
militari dentro un piano generale di riordino del territorio.
Oylem Goylem
di Moni Ovadia

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Adriano Agnati - Touring Club Italiano
Perché no?

Il Touring riceve, spesso e particolarmente da persone importanti, lusinghieri apprezzamenti per la sua attività, la
sua storia, i suoi meriti, la sua stessa coerente esistenza.

Però in genere, osserviamo, tutti vorrebbero un Touring modellato sulle loro esigenze, i loro interessi, la loro
mentalità: il Touring è grande e meritorio, finché, come una vecchia zia, porta pazienza, sorrisi e consensi. Appena
esce da questa oleografica e innocua immagine, allora le cose cambiano.

Così è anche per alcuni (per fortuna non molti) storici dell’arte: il Touring ha il grande merito di aver fatto le guide
rosse, di aver sostenuto e diffuso un turismo culturale rispettoso e consapevole, di aver sostenuto le ragioni del
nostro patrimonio artistico e di chi, con impegno, lo custodisce. Punto e basta. Il suo compito filantropico finisce lì.
Se solo si azzarda, in nome e per conto di quelle generazioni di turisti che ha raccolto, rappresentato, "educato" (se
si può usare questo termine), a dire quel che funziona e che non funziona, allora cambia la musica, e la vecchia zia
cerca "nuova visibilità", sbaglia, resuscita persino il vecchio e desueto "istituto del voto scolastico".

No, caro professor Bertelli, non ci stiamo. E con tutto il rispetto e la stima che Le portiamo, giudichiamo
profondamente ingiusto che, evidentemente irritato oltre misura, Lei arrivi ad accusarci di favorire, indirettamente,
"il turismo selvaggio della concorrenza".

I paragoni valgono quel che valgono, qualche volta sono efficaci, qualche volta meno. E’ il caso di quello che usa
Lei, sostenendo che "le votazioni del Touring possono essere paragonate a una guida Veronelli che, anziché delle
pietanze, giudicasse dal tipo di aria condizionata dei locali visitati". Perché Veronelli è un gastronomo, mentre il
Touring non fa lo storico dell’arte: Veronelli dice "questa pietanza non è buona", noi non diciamo "questo dipinto
non vale e va tolto dalla parete".

Da avventori/visitatori tuttavia, rivendichiamo il diritto di dire che in quel ristorante, dove si potrebbero gustare
cose deliziose, il caldo soffocante e l’aria impregnata di odori di cucina non consentono una cena
complessivamente gradevole.

Nessuna arroganza dunque, tantomeno verso il direttore e il personale del museo: difatti si arrabbiano soltanto
coloro che, sotto sotto, si sentono (loro sì, con estrema arroganza) dei santoni intoccabili.

Il fatto che, per qualsivoglia motivo, una parte consistente di una raccolta non sia visibile da anni o che sia male
esposta, è un danno per la comunità: ed è legittimo e doveroso che il Touring lo segnali alla gente. Dunque, per il
Touring questo conta eccome. Non è detto che in conseguenza di ciò il direttore e il personale debbano sentirsi in
colpa; anzi, al contrario, se come quasi sempre accade loro stessi si battono instancabilmente per superare gli
ostacoli, avere fondi necessari, affrettare lavori interminabili, dovrebbero sentire, nel Touring e nella sua azione, un
alleato.

Purché siano convinti, come noi siamo, che i musei, le collezioni, i luoghi d’arte siano un patrimonio universale che
appartiene ed è destinato alla comunità e che il loro compito è di conservarlo per porgerlo al visitatore, nel migliore
dei modi possibili.
Addio my darling
Stefano Bartezzaghi

(Soluzione dei giochi del numero precedente)

0.
(intro)
Sette vizi trovo, ahimé,
e zero virtù: sicché
qui l'amore più non c'è:
me ne vado xxx xx xx.

1.
(tua lussuria)
Ti pensai morigerata:
sessualmente sei xxxxxx

2.
(tua avarizia)
Ti pensai modesta e pavida:
soldi sol vuoi per xx, xxxxx

3.
(tua invidia)
Ti pensai pavida e schiva:
lodi vuoi sol x xx, xxx.

4.
(tua superbia)
Ti pensai una santa Rita:
tu t'ispiri xx Xxxxx.

5.
(tua accidia)
Ti pensai studiosa e brava:
la cultura ti xxxxxxx.

6.
(tua ira)
Ti pensai di rancor priva:
sangue in testa ti saliva
se scordavo una missiva,
tasse varie, xxxx X.X.X.

7.
(tua gola)
Ti sperai preraffaellita
penitente, dimagrita:
tu alla tavola imbandita
adorando la xxx Xxxx
come un tronfio sibarita
mangi il pollo con le dita.

(8. FINE PAGINA


Questa è stata
la malnata
xxxxxxx.
L'ho pensata,
anagrammata,
digitata,
controllata,
inviata.
Ti è piaciuta?)

SOLUZIONI

0. via da te
1. deviata
2. te, avida
3. a te, diva
4. ad Evita
5. tediava
6. date I.V.A.
7. dea Vita
8. videata
Deputati e no
Giovanna Grignaffini

Il deputato-e-basta arriva in Transatlantico carico di carte, competenze e concreti problemi di collegio da risolvere:
diffida di voci, passeggiate e capannelli, saluta con complicità commessi e funzionari e guarda con sospetto la sala
stampa, così come i colleghi sempre dichiaranti che stazionano perennemente nei suoi paraggi.
Il deputato-e-basta, quello orgoglioso di non essere perennemente on line con le varie "centrali esterne di potere",
ama l’interazione faccia a faccia e detesta l’immaterialità dei lanci d’agenzia, così come i sequel simulati che ne
derivano.
Trova che la logica postmoderna della dichiarazione-replica-rettifica sia aliena al suo mandato popolare e preferisce
consumare il suo tempo in azione.
Quotidianamente infatti (in aula magna o in commissione, in spazi pubblici o privati) egli interagisce, discute,
riceve, è ricevuto, ascolta, propone, conviene e promuove intese con tutti gli attori chiamati in causa dai
provvedimenti di sua competenza : dai rappresentanti di governo ai colleghi, dalle forze sociali, ai tecnici, alle varie
categorie implicate.
Il deputato in questione ama anche dilettarsi di una sorta di relazione pre-tecnologica con i testi relativi ai
provvedimenti di sua competenza (disegni di legge e studi di settore, dossier e ricerche, dati statistici e analisi
comprate sulla legislazione internazionale, ) : li legge, studia, sottolinea, compara, ritaglia, analizza, emenda,
riarticola.
Il deputato-e-basta è del tutto consapevole che la sua fatica non è per nulla ascrivibile al nobile campo della Politica
(quella del Grande Progetto, Grande Alleanza, Grande Riforma, che si consuma sempre fuori dal Parlamento) ma
visto che da quel suo continuo agire e interagire, compulsare, analizzare, dialogare, mediare, riarticolare, finiscono
poi per dipendere molti frammenti di vita e altre storie, al deputato in questione piace pensare che nella vita
quotidiana del Parlamento continua ad abitare una qualche sostanza della vita politica. Una sostanza che il deputato-
e-basta ama spesso contrapporre alla volatile inconsistenza del discorso politico.
Ma c’è soprattutto una cosa che il deputato-e-basta non riesce a capire: perché La Politica non passi o non si fermi
mai, almeno qualche volta, lì dentro, in Parlamento. Oppure perché la vita quotidiana del Parlamento, non arrivi
mai, almeno qualche volta, a toccare là fuori, La Politica.
E si accanisce, il deputato-e-basta, nel non capire che il dentro e il fuori non stanno più da tempo nello stesso luogo
e che anche lui, reso leggero e immateriale dalla sua stessa competenza, abita ormai da tempo, là fuori.
Sorrisi e crucci
Rossana Di Fazio

Quando un classico della letteratura diventa un soggetto cinematografico faccio sempre una faccia smorfiosa: è una
espressione di paura contenuta verso le riduzioni e le scelte che necessariamente vanno fatte in questi casi.
Per questo ho compreso benissimo Sandro Parenzo quando in Golem02 ha descritto così brillantemente il suo
brivido, al cinema, provocatogli da Le affinità elettive dei fratelli Taviani, anche se non avevo visto ancora il film,
per via appunto di quella sottile resistenza.
Contrariamente alle aspettative l'ho visto volentieri: il film concentra il racconto sulla storia delle due coppie, ma è
piuttosto rigoroso nel riportare i dialoghi originali fra i personaggi ; mostra inoltre molte belle invenzioni,
ricostruzioni convincenti e una regia forte e sicura.
Anche la platea mi è sembrata attenta e contenta: ho visto Le affinità due volte ed è successo sempre così.
L'ho visto due volte per verificare una ipotesi sorta dopo la prima visione: infatti in alcuni momenti particolarmente
drammatici mi veniva da ridere. Nel film alcuni eventi luttuosi o negativi hanno luogo a causa o nei pressi di una
piccola imbarcazione. Così, dopo i primi due disastri, non appena qualcuno si avvicina alla barca parte del pubblico
non può fare a meno di prevedere guai sicuri e il fatto che questo puntualmente si verifichi fa un po’ ridere. Anche
le parole dei protagonisti, in rapporto alla loro situazione, non si sottraggono talvolta al ridicolo. Mi ha incuriosito
però notare che questo fatto nulla toglie alla credibilità del racconto e alla sua capacità di coinvolgimento. Quel
ridicolo involontario infatti finisce per assomigliare tanto a quei tratti dell'amore-passione che si manifestano
quando i turbamenti interiori si traducono in azioni teatrali, comiche qualche volta per chiunque non sia risucchiato
dalla stessa sorta di inquietudini.
Così mentre nell'originale letterario l'ironia fa capolino spesso (sarà stata la età avanzata di Goethe ad introdurre
quella distanza che fa sorridere delle cose del mondo?) nel film secondo me non ce n'è affatto; eppure quei
momenti di ridicolo involontario finiscono per diventare una qualità del film, che fa diventare il clima volutamente
letterario come più credibile, più simile alla vita: fa contaminare un genere "alto" con un po’ di commedia e non lo
fa apposta.

Ci sono invece commedie che fanno apposta il procedimento inverso. È il caso di Ferie d'agosto di Paolo Virzì,
che, al di là di qualche morettismo di troppo, raccoglie la tradizione della commedia all'italiana (e anche mi sembra
un po’ dello spirito di un bel film di Luciano Emmer, Una domenica d'agosto, 1950) con un cast nutrito e affiatato.
Coincidenze di cartellone, anche in questa storia contemporanea si parla di incroci e di scambi amorosi, di affinità e
attrazioni inevitabili, ma appunto secondo le regole della commedia.
Microcosmo della società italiana spaccata in due: la sinistra intellettuale da una parte e quella che ama definirsi
gente comune (quell'area cui probabilmente ci si riferisce quando si dice "alla gente piace"): teledipendenza, barca
a motore, telefonino, ostentazione di buon senso e intolleranza ; ma queste definizioni sono di comodo e mentre
istintivamente sono chiarissime è difficile poi nominarle correttamente, il che è degno di interesse.
In entrambi gli schieramenti non mancano le sfumature di carattere, ma quello che conta è lo scontro fra questi due
modi di essere, che non avviene nella vita quotidiana, ma in vacanza, nello spazio ideale che per ciascuno le ferie
rappresentano: non si può essere finalmente padroni del proprio tempo e realizzare l'esistenza che si desidera ? No,
le vacanze non esistono: nell'isola felice i vicini di casa non potrebbero essere più opposti, ed è molto divertente il
fatto che sia sempre la "gente" ad invadere continuamente lo spazio degli altri, a non consentire loro l’instaurazione
della repubblica ideale, fatta, per esempio, di famiglie di fatto e non istituzionalmente riconosciute.
Salvo poi scoprire che sarà lo schieramento di sinistra a smuovere l'ordine costituito, ad introdurre elementi
disturbatori nell'apparente armonia altrui e a ricondurre ciascuno alle proprie autentiche disposizioni e
responsabilità. Moralisti? Un pochettino sì, e anche questo amaro lieto fine mi è sembrato un po’ forzato, pur
suonando come un ovviamente auspicabile invito al confronto.
Certo, è solo una commedia, ma una commedia che fa rientrare i propri personaggi nell'ambito del genere solo
dopo averli condotti dentro un numero discreto di conflitti insanabili; penso per esempio all'episodio dello sparo al
senegalese, che introduce un elemento drammatico altissimo che non si dimentica.
Forse, più che di due schieramenti, nel film si tratta di due anime della società italiana, immutabili, costitutive e
destinate a convivere e a disturbarsi perpetuamente, vanificando la realizzazione delle reciproche società ideali.
Ma se il film fosse questo, un impietoso e divertito ritratto d'Italia, vorrei sapere qualcosa di più di quella Sabrina.
È l'adolescente e sensibile primogenita del terribile Ruggero, appiccicata per malinconia ai telequiz, con
apparecchio ai denti, insofferente verso i valori arroganti della sua famiglia.
Se lei è il nostro futuro, io vorrei sapere, cosa farà dopo l’urlo tirato al suo innamorato alternativo("Stronzo, io ti
amo!")? Vorrei sapere: Sabrina, chi diventerà e cosa vorrà da grande?
Strade interrotte, strade aperte
Carlo Bertelli

All’inizio dell’anno accademico si svolge in un’università della Svizzera occidentale la geance informatique, che
non ha nulla a che vedere con l’informatica e che, anzi, in qualche altro paese di lingua francese immagino che si
direbbe informative. Di fatti la riunione ha lo scopo d’informare i nuovi studenti sul carattere dei vari corsi e di
permettere loro una prima valutazione dei docenti.
Da diversi anni è tradizione che uno dei professori di storia dell’arte parli, di propria iniziativa, per scoraggiare le
matricole dal seguire i corsi di quella materia. L’argomento principale è che la storia dell’arte non offre sbocchi di
carriera. I musei sono pochi e i loro direttori sono relativamente giovani e in buona salute, la carriera del
monuments historiques è praticamente chiusa e comunque frustrante dato che non riesce a salvare un monumento,
il restauro non ha bisogno di diplomati in storia dell’arte e vi sono ottime guide turistiche che guadagnano bene
senza aver mai messo piede all’università, l’insegnamento secondario della storia dell’arte è ammesso, con
difficoltà, soltanto in alcuni cantoni e in nessuno di lingua francese, le borse di studio sono scarse e certo nessuno
può contare di vivere con quelle, che, oltretutto, non sempre sono rinnovabili anche la volta che uno le ha ottenute;
in quanto al mercato, o ci si è già dentro, e allora non c’è neanche tanto bisogno di venire all’università, oppure non
vi si accederà mai e, in ogni caso, ha sempre margini di incertezza.Questi sono più o meno gli argomenti ripetuti
con qualche variante ogni anno e con maggiore insistenza man mano che si constata la mancanza di risultati pratici,
poiché il numero di iscritti a storia dell’arte è sempre in aumento, denotando così una colpevole distrazione degli
iscritti verso un futuro sicuro e una loro distorta curiosità verso studi disinteressati.
Mi chiedo ora se il professore tanto amico del giaguaro ha letto la notizia che è apparsa sui giornali di questa
settimana e che deve essere vera, poiché finora non ne ho letto una smentita. Alla soprintendenza dell’Aquila, si
apprende, oltre a un numero sterminato di fotografi, evidentemente allertati per qualche possibile sisma, vi
sarebbero ben 45 storici dell’arte, quanti quell’università elvetica sforna in un considerevole numero di anni.
Non ho sott’occhio l’ultima edizione del ruolo di anzianità del ministero per i beni culturali, ma, anche se le altre
soprintendenze hanno forse meno storici dell’arte di quella dell’Aquila, l’impressione è che di funzionari esperti nel
ramo il ministero ne conti parecchi.
A questi dati si possono applicare annotazioni diverse. Nota leghista: il Sud è privilegiato, Roma fa e disfà a modo
suo etc. ... Nota efficientista: ci vuole mobilità, occorre licenziare etc. ... Oppure: tutti questi storici dell’arte
possono essere una risorsa da utilizzare. È difficile che siano stati impiegati al loro intero potenziale nelle strutture
esistenti e dentro i compiti che spettano tradizionalmente alle soprintendenze, ma possono essere messi alla prova
in un progetto nuovo.

A parte gli ingrandimenti burocratici, la struttura delle soprintendenze è quella post-risorgimentale immaginata da
Gian Battista Cavalcaselle. Da oltre un secolo ha avuto ritocchi; mai cambiamenti. Il sistema dei musei, a parte gli
scavi e i musei archeologici, è quello napoleonico incrementato dalle espropriazioni risorgimentali dell’asse
ecclesiastico. Esiste un solo museo (che non è statale) della scienza e della tecnica. La trasformazione agraria ha
dato luogo a una serie di piccoli musei detti della civiltà contadina; la gigantesca ristrutturazione industriale non ha
prodotto nulla. I musei del risorgimento si sono allargati a comprendere la storia della resistenza. Ma non vi è
niente di paragonabile al Museum of American History della Smythsonian, non un museo dell’elettricità o della
chimica, della transumanza o delle ferrovie e delle strade, niente che documenti progressi e ritardi, che offra ai
giovani temi su cui riflettere per capire la società in cui sono vissuti i loro genitori e immaginare quella in cui
vivranno loro. La cosa singolare è che simili musei costerebbero poco come investimenti, ma sarebbe
assolutamente necessario farli in tempo, prima che il materiale che dovrebbe comporli andasse perduto e
utilizzando subito le tecniche nuove d’informazione e di comunicazione. Allora i 45 storici dell’arte dell’Aquila
sembrerebbero pochi.
Fumetti
a cura di Comix

Una storia di Cinzia Leone

avanti
Informazione (personalizzata) sul WWW
Giulio Blasi

(da leggere con Netscape 2.0 o Internet Explorer 3.0 b1)

Geoffrey Nunberg ha suggerito che la distribuzione di rete mette in crisi il concetto tradizionale di
"informazione" (potrete leggere il suo pezzo in un volume di prossima pubblicazione a cura del Centro di Studi
Semiotici e Cognitivi di San Marino, edizioni Brepols). E insieme al concetto di informazione entra in crisi il
concetto di "opinione pubblica". Notate che "crisi" non vuol dire che c’è qualcosa che non va, significa
semplicemente che qualcosa sta cambiando.

La nostra idea di informazione è basata, tra gli altri, su un presupposto chiave : l’unità dell’informazione per tutti
gli osservatori. La prima pagina del quotidiano e la sigla di apertura di un TG sono eguali per tutti. Questo
presupposto è così rilevante che il "framing" delle notizie (il modo in cui esse vengono "incorniciate" all’interno di
un palinsesto generale) costituisce un importante tema di ricerca per gli studiosi dei media. E’ difficile dire cosa
cambia se il framing delle notizie diventa un compito del lettore/telespettatore invece che delle redazioni
giornalistiche (con un semplice clic, ad esempio, passate ora al manifesto di Unabomber, senza framing...). Qui mi
limito a mostrare operativamente in che modo potrebbe avvenire questa inversione.

Sul WWW, infatti, il presupposto tacito dell’unità dell’informazione per tutti gli osservatori tende ad essere sempre
meno rilevante e le possibilità di framing da parte delle testate giornalistiche sempre minori. Intanto è possibile lo
"zapping" tra testate diverse in modo poco dispendioso. Con il mio browser navigo in fretta tra un bel po’ di testate,
agenzia di stampa e addirittura giornali radio regionali (per questi ultimi è però necessario fare il download del
software di Real Audio). Posso decidere di leggere le diverse sezioni di un giornale su testate diverse, lo sport qui,
la politica interna lì ecc. (potete fare qualche tentativo con i bookmarks che aggiungo qui di seguito).

· L’Unità
· La Repubblica
· Unione Sarda
· La Stampa
· Il Manifesto
· Corriere della Sera
· Il Sole 24 Ore
· Panorama
· Televideo
· Adn Kronos
· ANSA
· Reuter
· Giornali Radio

Una volta individuati gli indirizzi precisi delle diverse aree tematiche per testata potreste organizzare un "personal
Tour" (giornaliero magari) attraverso di essi utilizzando uno strumento creato da Darryl Stoflet. Lascio a voi la
responsabilità di decidere se le 2 ore dedicate a costruire il giochino sono ben spese o meno.

Posso cercare informazioni in modo più indiretto, ad esempio utilizzando motori di ricerca come Altavista.
Facendo click qui - ad esempio - trovo un bel po’ di documenti su Romano Prodi distribuiti senza altra
specificazione in rete (si tratta di una ricerca molto generica ma potrei limitarla opportunamente).

Posso leggere le reazioni dell' "opinione pubblica" nei newgroups. Comincio a filtrare (inserite "it.politica" nel
campo "Newsgroup" e cliccate sul bottone "Submit Filter") le sole cose discusse nel newsgroup "it.politica" - ad
esempio - e poi faccio una ricerca su "Romano Prodi". In questo modo ottengo visibilità sulle reazioni dell'opinione
pubblica senza filtri redazionali.

Posso leggere la stampa in modo verticale usando gli archivi. Il che rende possibile una sequenziazione cronologica
degli articoli e delle notizie impensabile per il lettore "cartaceo".

Posso infine usare vari strumenti per personalizzare il "menabò" del mio giornale. Questo è un servizio offerto - a
vari livelli di complessità - da alcune testate. L’Unione Sarda permette di filtrare le sole informazioni relative alle
aree di interesse del lettore. Ma uno strumento davvero sofisticato è FishWrap (qui ne leggete una descrizione), un
sistema realizzato dal Media Lab. Questo software è usato dal San Francisco Cronicle e dal San Francisco
Examiner per la loro testata on line, The Gate. Qui il lettore può costruire un proprio profilo che verrà registrato dal
server e genererà ad ogni collegamento un giornale calibrato sulle vostre richieste.

Qualunque sia il giudizio sulla qualità degli esempi che ho utilizzato (ma ne ho dimenticato uno importante) è certo
che il lettore modello che ho descritto compie operazioni abbastanza atipiche rispetto al lettore/spettatore degli
organi di informazione tradizionali. Tutto è "on demand" e comunità anche ristrette potrebbero essere costituite da
individui che non hanno un repertorio quotidiano di "notizie condivise" o che magari leggono le medesime notizie
all’interno di palinsesti differenti. Questo tipo di lettore (ammesso che mai si affermerà o ammesso che non si sia
già affermato con lo zapping, il satellite e la TV via cavo) ha un’immagine nuova dell’opinione pubblica e ne è
parte in un modo nuovo.
Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala :

Umbria Jazz '96

Perugia, 12-21 luglio

In Particolare: il 12 luglio alle h.21, ai Giardini del Frontone, Keith Jarret,


Gary Peacock e Jack DeJohnette.

Olimpiadi

Atlanta, 19 luglio - 4 agosto


Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Antonio Martino, Giovanna Grignaffini, Altan, Stefano Bartezzaghi, Moni Ovadia,
Rossana Di Fazio, Paolo Sylos Labini, Indro Montanelli, Giulio Borrelli, Ezio Mauro, Giulio Anselmi, Carlo
Rossella, Alda Merini, Renato Mannheimer, Marco Giusti, Vittorio Gregotti, Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Adriano
Agnati, Giorgio Casadio, Giulio Blasi, Ranieri Polese, Aldo Schiavone, COMIX.

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Moreno Naldi, Stefano Mazza, Annalisa Galardi,
Massimo Amato e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo


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E siamo al secondo numero: come il secondo film, il secondo romanzo e il secondo figlio, Golem 02 trova una sua
collocazione nella rete e sviluppa le proprie attitudini, anche grazie a nuovi collaboratori e iniziative (Links di
Giulio Blasi, Nanoblob di Marco Giusti, uno spazio per la poesia dedicato questa volta a Nanni Balestrini).
Sensibili a questo cruciale "02" anche gli interventi di questo numero sembrano risentire di una problematica
spaziale.
Il "posto" all'Universita', gli emisferi di Umberto Bossi e le sue utopie geografiche sono gli argomenti dei Forum: e
poi i posti (quanti?) in parlamento "adatti" agli uomini e alle donne; il disagio di stare tutti (a forza e contenti) sul
carro culturale dei vincitori, l'eccezionale spostamento di Pippo Baudo dal video al lettino, un evento lieto
nell'ambito dei beni culturali altrettanto eccezionale.
Insomma, a fronte di uno spazio -culturale, istituzionale, di rappresentanza- che non e' disponibile a tutti, e' grande
il bisogno di ristabilire i criteri di gestione degli spazi della "sfera pubblica".
Il dibattito e' aperto.
Raffaele Simone
Ricercatori e posto fisso

Il gran chiasso che si fa a intervalli sui concorsi universitari può far pensare che irregolarità ci siano solo ai livelli
alti della carriera accademica, quelli che portano alla cattedra. Converrebbe invece ispezionare anche gli altri,
partendo dal più basso, quello dei concorsi per 'ricercatore', che hanno finito per sfigurare una funzione essenziale
per lo sviluppo della scienza e della cultura.
Può non sembrar vero, infatti, ma perfino nel paese di Berlusconi e Craxi sono molti i giovani che intendono
dedicarsi alla ricerca. A loro dovremmo gratitudine: senza ricerca un paese non va avanti, e si sa che l'innovazione,
la scoperta e l'originalità nella ricerca sono soprattutto affare da giovani. Ma non è detto che chiunque voglia darsi
alla ricerca ne abbia davvero la stoffa. In molti paesi, perciò, il giovane che aspira a fare il ricercatore ottiene un
contratto breve, che serve proprio a verificare la sua vocazione e le sue capacità. In Italia no: se uno sia adatto o no
a una vita di studio si decide una volta sola e per sempre! Chi vince il concorso per ricercatore rimane 'dentro' a
vita, anche se si dovesse accertare subito che la ricerca e lo studio non sono per lui.

Perciò i concorsi per ricercatore sono contesi con particolare asprezza. I posti sono pochi, i giovani che possono
accedere pochissimi rispetto al totale degli aspiranti. La selezione dovrebbe quindi essere oculatissima. Invece no, è
quasi un gioco di carte tra amici. Ecco come. La legge stabilisce che la commissione giudicatrice sia formata da tre
membri sorteggiati dal CUN. Il CUN (ancora lui!) produce sì dei nomi, ma nessuno può giurare che siano
sorteggiati davvero: molti sospettano che siano designati secondo le richieste di questo o quel professore. Solo così
si spiega che le commissioni siano sempre fatte di persone che la pensano allo stesso modo, e che possano perfino
esser composte dal paterfamilias accademico e da suoi allievi devoti. Chi può opporsi a triumvirati così compatti?
Infatti, da commissioni di questo tipo esce vincitore, infallibilmente, il candidato per il quale il posto era stato
chiesto, e che spesso, come gli eroi eponimi dell'antica Grecia, dà il proprio nome al concorso ("come è andato a
finire il concorso di X?"). Gli altri, possono anche non presentarsi affatto. Può succedere così che un giovane, non
avendo ius loci da nessuna parte, si piazzi anche tre o quattro volte secondo in concorsi fatti per altri - segno sicuro
che poteva vincerli tutti, ma che un diritto più potente glielo ha impedito. Abbiamo così l'università pullulante di
ricercatori che non ricercano niente, e di giovani bravi che aspettano fuori del recinto.

Non sorprende che il ricercatore, nato in questo modo, abbia finito per diventare una delle figure più ambigue.
Originariamente, la legge lo destinava ad una vita quasi virginale: non più di due ore di 'presenza' in facoltà,
nessuna didattica se non di supporto, e così via. Tutta la sua giornata doveva essere dedicata allo studio. Ora questa
vita claustrale si è aperta alle tentazioni del mondo, e in che modo! Le pressioni corporative hanno procacciato al
ricercatore diversi privilegi: può infatti (a) prendere per supplenza, anche per anni, il posto vacante di un professore
(è in pratica l'incaricato di una volta: una funzione contesissima), (b) ottenere fondi di ricerca da solo e utilizzarli
senza chiedere la valutazione di nessuno; (c) ottenere congedi per periodi di studio esattamente come i professori.
Intanto, nessuno è tenuto a verificare se ricerchi alcunché o se piuttosto si dedichi alla coltivazione del ligustro
texano. Si vede, da questa descrizione, che il ricercatore non è più un giovane inesperto di cui bisogni verificare
l'attitudine alla ricerca, ma un 'professorino' vero e proprio, che accumula vested interests in attesa che qualcosa
(un'ope legis?) lo faccia diventare 'professore vero'.

Che fare? Siccome non mi pare che la mafiosità nativa del sistema di selezione possa essere cancellata d'un tratto,
credo che si possa solo tentare di legalizzarla, ma in modo che il professore paterfamilias sia esposto a qualche
rischio. Lasciamo pure che sia lui a designare ad nutum un suo ricercatore, ma facciamo che questo possa tenere il
posto solo per un anno (o due). Dopo questa prova, il giovane verrà pesato per vedere se ha imparato davvero
qualcosa: se sì, verrà confermato per un altro biennio; se no, potrà davvero darsi al ligustro texano. Ma in questo
secondo caso, il professore che lo ha nominato 'pagherà' qualcosa per la sua scarsa preveggenza: ad esempio, con
una riduzione di stipendio o di prerogative. Basterebbe un meccanismo come questo a far sì che gli errori nella
selezione dei giovani venissero pagati non (a vita!) dallo stato, ma dalla persona che li ha commessi.
Cattedra, o cara!
Umberto Eco
Posto fisso e ricercatori

Sono fondamentalmente d'accordo con la pars destruens di Simone. Ma chiediamoci per intanto perché accadono
certe cose. In tutto il mondo, al posto del nostro Ricercatore c'è l'Assistent Professor (che non è ancora Associato).
Il vero Ricercatore lavora se mai in altre istituzioni, come i centri di ricerca, dove non si fa didattica. E' che da noi
la parola Assistente è stata abolita perché una tradizione baronale aveva reso l'assistente un portaborse da
barzelletta. Eppure molti di noi ricordano con gratitudine alcuni assistenti di una volta, che ci sono stati compagni e
maestri a un tempo, e ci hanno insegnato più del professore.
In Italia l'Assistente non esiste. Esiste il Dottorando di Ricerca, che per legge deve stare ben lontano da ogni
esternazione didattica (in America il dottorando viene pagato proprio per fare lezioni ai più giovani, così almeno
impara qualcosa che un giorno gli servirà, visto che per vocazione si avvia, oltre che alla ricerca, all'insegnamento).
Ed esiste il Ricercatore, che per legge dovrebbe solo ricercare, anche lui senza aver rapporti con gli studenti (poi un
giorno vincerà un concorso, diventerà professore, e alla vista di uno studente darà manifestazioni di stupore, come
il capitano Cook quando vide il primo ornitorinco).
Poi viene il Professore (di prima o seconda fascia) il quale in certi posti deve seguire anche mille studenti: e la
legge non concepisce che abbia un vice, un collaboratore, un Assistente (diciamo questa brutta parola!) che lo aiuta
per i seminari, per seguire le tesi, per i colloqui di orientamento con gli studenti. Allora è ovvio che si usino come
assistenti, e come docenti per corsi scoperti, architettando i marchingegni più svariati, i Ricercatori, e talora i
Dottori di ricerca (con borse post-dottorali) e addirittura di straforo i Dottorandi.
Come si assumono i Ricercatori (chiamandoli col nobile nome di Assistent Professor)? Simone ha ragione, la
finzione del concorso nazionale, con due commissari su tre che vengono da fuori, ma sono portati a valutare anche
le esigenze locali, evapora di fronte alla forza dello ius loci. Però cerchiamo di essere ragionevoli: si deve dare a
uno o più docenti locali chi li aiuterà a parlare con gli studenti, a indirizzare le loro tesi, e anche chi farà ricerca in
un certo istituto, dove ci saranno dei temi e dei metodi assestati, una tradizione, una scuola - che è un'altra brutta
parola, ha detto una volta un personaggio illustre, e non è vero, ci sono scuole dal tempo di Platone, e per fortuna;
che senso avrebbe avuto mandare un allievo di Newton a far calcolo infinitesimale con Leibniz? si sarebbero
sbranati a vicenda senza produrre nulla. Quindi c'è una certa logica nel fatto che un dato dipartimento voglia
mettersi in casa persone che per formazione e tendenza lavorino bene con chi ci lavora già. Si badi che questo non
significa necessariamente tirar dentro l'allievo stupido. Mi permetto di proclamare con soddisfazione che nel nostro
dottorato di semiotica si fa un concorso annuale e succede ogni anno che vi vengano ammessi candidati che
vengono da fuori (a scapito di concorrenti interni) perché sono bravi, e non abbiamo dovuto pentircene.
Ma insomma, per non fare ipocrisie, si riconosca anche per i Ricercatori il criterio di una autonomia decisionale
dell'ateneo. Non valgono tutte le lamentele che si odono, circa la proposta che i concorsi di fascia superiore si
svolgono formando una lista nazionale di idonei, in base alla quale poi le facoltà sceglieranno i professori che
desiderano. La lamentela è: nella lista non potranno non entrare anche delle mezze calzette (nessuno può dirlo, se la
lista viene fatta con rigore, ma ammettiamo pure che entreranno, coi bravi, anche dei meno bravi); le facoltà di
serie C, fedeli ai loro maneggi clientelari, sceglieranno sempre il meno bravo perché è cugino o amante del preside,
e così la facoltà diventerà sempre più di serie C. Mentre con un concorso nazionale c'è sempre la possibilità che una
commissione onesta mandi in quella facoltà un professore di serie A. Che ipocrisia: sappiamo bene che il
professore di serie A, quando arriva nell'università periferica, ci va qualche giorno al mese, e appena può scappa, e
questa è una delle ragioni per cui quella facoltà è di serie C. L'unico modo di diventare di serie B, se vuole, è di
cercarsi da sola professori di serie A attraverso delle incentivazioni (lo stipendio è quello che è? E noi ti ci
aggiungiamo l'alloggio con vista, due segretarie, Internet e due assistenti). La facoltà non vuole diventare di serie
B? Cavoli suoi. Come se già adesso, coi concorsi nazionali, non esistessero facoltà di serie A e facoltà di serie C, e
quelli che si laureano nella facoltà di serie A trovano subito posto in grandi aziende mentre gli altri rimangono
disoccupati. Ma chi stiamo prendendo in giro? Tanto vale istituzionalizzare la differenza, e scatenare una libera
competizione.
E qui veniamo alla crudele pars construens di Simone. L'ateneo si prende il ricercatore che vuole, ma se dopo un
anno o due quello non ha ricercato, si penalizzi il professore che lo ha chiamato. Forse è troppo, anzi troppo poco,
perché il professore, per non perdere lo stipendio, è capace di scrivergli lui la ricerca, ai suoi fallimentari protetti.
Piuttosto: l'Assistent Professor viene chiamato, si sa che per legge dovrà svolgere un certo servizio didattico (da
documentare) e condurre ricerca. Un anno è poco, per sapere se ha lavorato, visto che se ne danno tre a un
dottorando per produrre la sua tesi, e senza far niente altro. Ma in capo a tre anni, a quel punto scatta il controllo
nazionale: si valuti se quello che il Ricercatore-Assistente ha prodotto è sufficiente, non basta che abbia pubblicato
tre recensioni, il prodotto deve giustificare tre anni di lavoro - e non è neppure necessario che sia a stampa, a tutti i
costi, perché se una ricerca è buona lo si vede anche da un elaborato al computer. Se la commissione nazionale
giudica che il lavoro è insufficiente, il Ricercatore-Assistente perde il posto. Mi sembra un ottimo deterrente.
Si noti inoltre che in questo caso una commissione nazionale non ha da giudicare tantissimi aspiranti, come avviene
ora, ma solo i Ricercatori-Assistenti già scelti dalle facoltà, e quindi la valutazione può essere condotta con agio e
rigore.

Cattedra, o cara!
Nano Blob
di Marco Giusti

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Formato AVI - 22 sec. 1050 kilobyte

Formato MOV - 22 sec. 1450 kilobyte

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Formato MOV - 13 sec. 900 kilobyte


Formato AVI - 26 sec. 1100 kilobyte

Formato MOV - 26 sec. 1750 kilobyte

Formato AVI - 44 sec. 1900 kilobyte

Formato MOV - 44 sec. 2900 kilobyte


La Poesia
di Nanni Balestrini

Formato WAV
1 min. 697 kilobyte

Formato AIFF
1 min. 697 kilobyte

lei che è sempre così imprevedibile


lei che è sempre così impraticabile
lei che è sempre così imprendibile
lei che è sempre così implacabile

Lei che attraversa sempre col rosso


lei che è contro l’ordine delle cose
lei che è sempre in ritardo
lei che non prende mai niente sul serio

lei che fa chiasso tutta la notte


lei che non rispetta mai niente
lei che litiga spesso e volentieri
lei che è sempre senza soldi

lei che parla quando bisogna tacere


e tace quando bisogna parlare
lei che fa tutto quello che non bisogna fare
e non fa tutto quello che bisogna fare

lei che si trova sempre così simpatica


lei che ama il casino per il casino
lei che si arrampica sugli specchi
lei che adora la fuga in avanti

lei che ha un nome finto


lei che é dolce come una ciambella
e feroce come un labirinto
lei che é la cosa più bella che ci sia
Furio Colombo
Caro Bossi ti scrivo

Caro Onorevole Bossi,

ci sono state poche occasioni di incontro nel nostro comune impegno parlamentare, per lei ormai di routine, per me
del tutto nuovo. Prima di incontrarla alla Camera c'erano state un paio di conversazioni negli studi della RAI. La
mia impressione è sempre stata di buon senso e di senso pratico. Il Bossi che conosco, sia pure attraverso piccoli
lampi di incontro fortuito, è quasi un cliché di caratteristiche dell'uomo del Nord legato al lavoro; niente astrattezza,
molto impegno, abilità intuitiva e logica, sempre con i piedi per terra, capace di collegare il progetto con la realtà,
la trovata con i limiti. In altre parole, un cliché venato di simpatia a causa dei modi espressivi diretti, un poco
brutali, privi di ornamento e sempre diretti a dire cose chiare, senza perdere tempo.
Tutto ciò che le sto dicendo non corrisponde in nulla al Bossi che, insieme a milioni di italiani e di stranieri,
sorpresi e anche un po' divertiti (il problema non li riguarda) vedo ogni giorno in televisione.

Quel Bossi è fumoso, indiretto, allusivo, parla per proclami irrealistici, con toni sarcastici, a una distanza
impressionante (meridionale, direbbe lei) con la realtà. Dice cose che non sono vere, cose che non sono accadute,
cose che non possono verificarsi perchè negate dai dati e dai fatti. E finge di non vedere la mancanza di nesso
logico fra una frase e l'altra. Bossi 2 punta sul fare impressione piuttosto che sul comunicare, sulla esagerazione
piuttosto che sui fatti, sulla sorpresa paradossale piuttosto che sull'argomento, su un certo oscuro rinvio a qualche
altro fatto che sul momento non viene enunciato. Si renderà conto che ho elencato i tratti peggiori di alcuni luoghi
comuni a carico del "tipo meridionale", che lei fisicamente incarna, agli occhi dei nostri vicini svizzeri, austriaci,
tedeschi, ma che certo non ama.
Credo di poter immaginare un argomento difensivo del secondo Bossi: i due sistemi televisivi, quello pubblico e
quello privato, gli stanno addosso in modo ossessivo e registrano ogni minimo scatto di nervi. Montano di
preferenza le frasi che gli riescono meno sensate. O forse le scorporano da un contesto più ampio.
Non è bastato che Bossi 2 cacciasse le troupes di entrambi i sistemi di informazione additandoli al disprezzo del
"popolo del nord" (che per fortuna è cauto ed educato e non ha dato un seguito a quel grido lugubre, "rauss!").
Benché descritti con una aggettivazione che avrebbe potuto provocare violenza i televisivi ritornano con una
tenacia che viene in buona fede scambiata con il "dovere di informare", cui si potrebbe assolvere con buoni testi
scritti, restando a distanza dalle scenate, con dignità.
Ma il secondo Bossi, quello di cui sto parlando e che vedo costantemente in televisione, non solo è diverso
dall'altro perchè manca di realismo e senso pratico.
Il secondo Bossi sembra anche indifferente al dato democratico con cui si misurano le proposte e le idee. Il secondo
Bossi sembra non sapere che parla a nome di una base molto piccola rispetto al Paese che propone di dividere, ma
anche alle regioni che, a suo dire, desiderano la separazione.
Il Bossi televisivo propone di rivolgersi alle Nazioni Unite per chiedere il diritto all'autodeterminazione.
Bossi 1, quello del buon senso, con i piedi per terra, quello che io conosco, potrebbe dire a Bossi 2 che occorrono
certe condizioni per andare all'ONU. Una è di parlare a nome di una maggioranza che una parte minoritaria e
antidemocratica vuole negare.
Un'altra è di rappresentare una identità etnica segnata dalla cultura, dalla religione, dalla storia, che viene ignorata e
oppressa.
Il primo Bossi vede benissimo che sarebbe difficile costruire per i funzionari dell'ONU il tipo etnico del cittadino
del Nord-Est oppresso. E capirebbe al volo che la "fuga per tasse" non è consentita dalla Carta della Nazioni Unite.
Ma il secondo Bossi ha dalla sua un grande argomento per rispondere: perché non dire cose che non stanno né in
cielo né in terra se me le mandano in onda subito e le replicano sei o sette volte al giorno quando sono
particolarmente prive di riferimento alla realtà?
La ragione di questa breve lettera è semplice. Mi rivolgo al primo Bossi, l'uomo tutto buon senso del Nord, abituato
a non sprecare parole in discorsi inutili, affinchè persuada il secondo Bossi a essere più asciutto , più sensato, più
nordico (mi riferisco al cliché) e ammetta che - a parte il teatrino televisivo e il travestimento delle camicie - non si
può giocare da soli, stabilire da soli le regole del gioco e cambiarle di colpo la mattina dopo aver perso tutti i
sindaci di tutte le città bandiera della immaginaria Padania. Prego vivamente il primo Bossi di ricordare al secondo
che le ultime elezioni politiche hanno dato mandato al settantacinque per cento dei deputati e senatori del Nord di
andare a Roma a tenere l'Italia unita (cercando di risolvere, intanto, i molti ostacoli al raggiungimento di una
legittima autonomia). E che le ultime elezioni amministrative hanno pacamente ammainato molte altre bandiere
nello schieramento del secondo Bossi.
E' al primo Bossi che molti, in parlamento e fuori, vorrebbero continuare a rivolgersi per approfondire seriamente il
discorso del Nord e del Sud e di tutta l'Italia.
Lei crede che sarà possibile? Con i cordiali saluti del Suo Furio Colombo.

I due Bossi
Renato Mannheimer
Le ragioni di Bossi

Caro Colombo,

mi permetto di rispondere anch'io alla sua lettera a Bossi. Non perché il leader leghista abbia bisogno di un
avvocato difensore o perché io sia animato da particolari sentimenti di simpatia verso di lui. Ma perché il contrasto
tra Bossi1 e Bossi2 richiama un problema più generale ed alcuni interrogativi sul futuro.
In realtà, la contraddizione tra il Bossi1, pratico, perfino ragionevole, che si incontra in parlamento (ma anche,
come a me personalmente è capitato, ai dibattiti televisivi, non appena si è dietro le quinte) e il Bossi2, esagitato,
con slogan palesemente irrealistici e non negoziabili (quindi al di fuori dal dibattito politico), caratteristico dei
comizi e della gran parte delle occasioni "pubbliche", è solo apparente e corrisponde ad una precisa (e, nel caso di
Bossi, necessaria) strategia di comunicazione politica.
Bossi ha, da ormai più di dieci anni, deciso di far assumere al suo movimento l'immagine di "nuovo", di "diverso"
dalle forze politiche tradizionali. Si tratta di una scelta che ha dato, sin qui, molti frutti. Essa infatti risponde ad un
sentimento di disaffezione verso le forze politiche "storiche", presente in una quota non piccola di elettori e, ciò che
è più importante, maturato e pian piano accresciutosi sin dalla metà degli anni settanta (prima, cioè dell'apparizione
della Lega e prima, naturalmente, di tangentopoli).
Tutti i primi slogan della Lega vanno letti nel senso di una DIFFERENZIAZIONE dall'establishment "romano".
Anche il linguaggio scurrile di un tempo serviva, sul piano comunicativo immediato, a sottolineare questa
differenza e ad "avvicinarsi" ai cittadini che, a torto o a ragione, si sentivano delusi dai partiti tradizionali ("Bossi
parla come me", ci dicevano i leghisti nelle interviste, "non come quei politici che non si capisce niente").
Attraverso questa immagine - e soprattutto grazie ad essa - Bossi ricevette i primi consensi di massa (ricorda il
1992?). Le ricerche hanno mostrato che le motivazioni di voto di gran parte degli elettori leghisti di allora erano
legate più al fattore protesta e disaffezione dai partiti tradizionali che a elementi di carattere etnico, antimeridionale
(che veniva letto dagli elettori come anti partiti romani) o altro.
Ed è ancora una volta questa immagine che ha permesso a Bossi di ottenere il recente successo elettorale alle
politiche. Ancora una volta le ricerche (in corso) mostrano come i voti al Carroccio non siano legati a radicate
convinzioni secessioniste, ma siano in larghissima misura giunti all'ultimo momento, al fine di dare un segnale di
protesta, di votare qualcosa di "diverso".
Bossi2 serve dunque come strategia elettorale. Ma, sfortunatamente per Bossi, per pagare elettoralmente,
l'immagine di diversità deve essere continuamente reiterata e ricordata. Occorre ogni volta sorprendere, sempre di
più, come in certe pubblicità. Ciò permette di andare sulle prime pagine dei giornali e di essere di conseguenza
sempre ricordati. Il fare dichiarazioni provocatorie costituisce cioè un modo per continuare a sottolinerare il proprio
carattere, la propria immagine di "diversità".
Bossi ha bisogno di questo per sopravvivere politicamente. Se non ci fosse il Bossi2, Bossi1 non avrebbe ottenuto il
successo alle ultime elezioni e non potrebbe incontrarsi con lei alla camera dei deputati. Se non ci fosse il Bossi2,
in breve tempo nessuno si ricorderebbe più di lui e nessuno lo voterebbe più.
Bossi2 è dunque necessario alla Lega. Perché quest'ultima non possiede in realtà un vero programma di governo,
ma punta a conquistare i voti derivati dallo scontento, dalla disaffezione verso i partiti tradizionali. E, come si è
visto, continua ad ottenerne in gran quantità, perché, sin qui, i partiti tradizionali le hanno dato - con le loro non
realizzazioni - molti argomenti a favore.
E il futuro? Questo governo suscita grandi attese e speranze da parte di molti cittadini. Mi dica Colombo, lei che
incontra ministri tutti i giorni, c'è speranza che tolgano argomenti a Bossi? Cioè che realizzino (o diano almeno
l'impressione di realizzare) almeno una parte di ciò che gli elettori leghisti e tanti altri si aspettano?
La saluto cordialmente.
Suo
Renato Mannheimer

I due Bossi
Aldo Grasso
Il silenzio di Pippo

Incappato in guai giudiziari, Pippo Baudo è stato costretto a fare scena muta. Come da copione o da destino. Le
corde vocali, il suo strumento di lavoro, hanno ceduto in perfetto sincronismo con gli avvisi di garanzia. Ma che
garanzia abbiamo noi di un suo ritorno? La domanda è proprio questa: il silenzio farebbe bene a uno che ha
occupato da signore incontrastato la scena per tanti anni? Il suo silenzio farebbe bene a noi?

Il silenzio di Baudo è come quello delle Sirene, nel celebre racconto di Kafka. Si suppone che Baudo abbia
un’arma ancora più terribile del suo canto, e sia il suo silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto
inconcepibile, che qualcuno si possa salvare dal suo canto, ma dal suo silenzio certo no

Il silenzio replay. Se Baudo non dirà niente, ci sarà sempre chi gli chiederà di ripeterlo.
Il silenzio della giustizia. Chi acconsente, tace.
Il silenzio della corda vocale. Giù di corda.
Il silenzio Auditel. Questa tacita protesta contro le chiassose frasi fritte così ben accette alla folla dei telespettatori.
Il silenzio Blob. Solo il silenzio è grande, tutto il resto è silenzio.
Il silenzio complice. Un presentatore prende la parola. Un indiziato viene preso dalla parola.
Il silenzio della congiura. Quello che Baudo non potrebbe mai tollerare è che non la giustizia ma una corda vocale
lo ha ridotto al silenzio.
Il silenzio di tomba. Caduto nel silenzio, passò sotto silenzio.
Il silenzio dei giusti. Baudo ridotto male o ridotto al male?
Il silenzio fuori ordinanza. Dopo il silenzio radio, e il silenzio stampa, per Baudo è suonato il silenzio Tv.
Silenzio, si gira... Top Down. Bottom Up.
Sandro Parenzo
Le affinità elettorali

INCUBO
Lo abbiamo avuto, lo abbiamo superato. L'invasione degli UOMINI-BLAZER non c'è stata e ci siamo ritrovati il
22 aprile come gli agricoltori che hanno visto il ciclone annunciato passare a molte miglia dalla loro proprietà.
Bossi, benedetto lui e chi lo capisce, ci ha salvati per la seconda volta, forse senza accorgersene, forse senza
volerlo. L'incubo è passato.

SPERANZA
Un gran clima quello che si è poi visto, tutti buoni e volenterosi, si è guardato controluce il tessuto del Nuovo Stato
e, pur constatandone la deplorevole conservazione e il sostenuto numero di buchi e danni, si è detto: "Orsù, giovani
rammendatori, al lavoro! Rammendiamo!" Insomma, davvero un bel clima.

DUBBIO
Un po' è venuto alla presentazione dei giovani rammendatori che somigliano ad anziane ricamatrici già viste e
tristemente sperimentate in passato; note nel Veneto per lavori sommari o raggruppate sotto il motto "Peso il taccon
del buso" (Peggio il rammendo del buco). Ma si è anche detto: ci vogliono pure le anziane con esperienza per far
crescere i giovani volenterosi. A qualcuno, però, il dubbio è rimasto.

BRIVIDO
Qui si passa dal generico allo specifico e si racconta di una serata a Cannes in occasione della Mostra del Cinema.
Si era andati un po' pimpanti per via dei noti risultati e con la serenità che questa volta l'incredulità dei francesi nei
nostri riguardi non ci sarebbe stata. Insomma, eravamo anche noi con un governo presentabile, senza funamboli:
eravamo davvero EUROPEI.
E la sera di venerdì 17, senza le stupide superstizioni mediterranee, bensì con un senso europeo di piacevole attesa,
molti italiani si accomodavano nelle poltrone della sala per sostenere entusiasti la proiezione de "Le affinità
elettive", capolavoro annunciato dei celeberrimi fratelli Taviani che, per non voler strafare, veniva presentato fuori
concorso.
Trascorsi I primi 30 minuti, che per lo spessore dell'opera parvero ad alcuni un paio d'ore, mi volsi verso il mio
vicino, Angelo Guglielmi. Anche lui mi guardava. Fu lì, in quel momento, che un brivido mi corse lungo la
schiena. Quel brivido che segna questo capitoletto e che giurerei aveva provato in simultanea lo stesso Guglielmi.
Dimmi, Angelo, quel lampo visto dietro le note lenti, era un brivido?
DIAGNOSI
Il brivido non era generato dalla temperatura (ottima), né da problemi di natura bassamente corporea.
Quindi? Era un brivido di paura. Nel buio di quella sala si erano materializzate alcune immagini, dei fantasmi
inquietanti.
Li elenco in disordine:

a) foto sgualcita del CIRCOLO DEGLI SCRITTORI SOVIETICI. Alcuni in divisa, altri in
borghese, tutti con doppia fila di medaglie e decorazioni, somiglianze impressionanti di alcuni con
Breznev;
b) scena inquietante di Romero con lapidi che si scoperchiano e noti cadaveri che saltano fuori e si
incamminano verso la città;
c) regolamento incorniciato e severo per l'ammissione ad un esclusivo circolo, una sorta di Rotary,
ma tremendamente di sinistra, con deroga esclusiva per gli ex-democristiani che, come per gli ex-
combattenti, hanno diritto sempre a un posto a sedere.

Le paure sono sempre irrazionali e, senza dubbio, anche quella lo fu, anche se da allora, a riprese, mi assale. E a
nulla valse la prosecuzione del film e il meritato successo che ebbe da quel momento in tutte le sale
cinematografiche.
A nulla valse il poderoso dibattito per il Ministero della Cultura, nè (anzi!) il generoso incontro di tutte le categorie
del cinema con il neo-Ministro Veltroni. A nulla valse.
Che sia un virus? Che sia contagioso? la diagnosi non c'è.

CAUSE ED EFFETTI
Diciamo la verità, per evitare il ciclone abbiamo fatto un bel mucchio, mica tanto omogeneo, e adesso che stiamo
tutti nella stessa fattoria qualche diversità innervosisce.
Le affinità elettorali hanno creato il gruppo, le affinità culturali sono tutte sa vedere o forse da inventare. Le cause
le conosciamo, gli effetti sono da verificare. Ma qualcosa si è già visto con le prime nomine (vedi Governo e Enti
vari). Le affinità che legano il gruppo che ha vinto sono legate alla conferma del vecchio.
Le novità potrebbero dividere, il vecchio unisce. Speriamo che siano solo i primi effetti.

INCUBO
E come si conviene a un racconto circolare, si torna all'inizio. Ma non è un incubo, è una forzatura per amore della
simmetria. È una lieve preoccupazione. Così come si è preso come mero pretesto il film (per molti versi
encomiabile) dei Taviani per segnalare quella sensazione, quel brivido.
Ma una cosa è certa: che è proprio dalla sinistra che si dovranno sentire voci fuori dal coro. Che una cultura senza
dissenso ricorda il regime. Ma quale sarà la cultura all'ombra dell'ulivo?
Per quanto riguarda l'audiovisivo (quindi non solo il cinema) il timore/incubo è quello di un catastrofico ritorno -
anche qui - del vecchio. Una produzione geriatrica e piena di acciacchi per rispondere ai nuovi linguaggi e alle
vitali opere che vengono persino dai paesi europei. È bene ricordare che opposti eccessi del pragmatismo USA
fecero andare in pensione prematura quel genio assoluto di Billy Wilder che ci aveva appena regalato "Prima
pagina" e "Buddy-Buddy".
Questo non lo perdoneremo mai a quei mascalzoni, nemmeno facendo la fila ogni settimana davanti ai cinema per
vedere quei loro dannati bellissimi film scritti e diretti da trentenni sempre nuovi e vitali. E i nostri trentenni?
Se ci saranno mai dei Tarantino, degli Stone italiani, questi saranno cresciuti all'ombra dell'ulivo o in opposizione?
Temo, se mai ci saranno, che non usciranno certo dalle associazioni esistenti.
Dio ci salvi dal cinema assistito, dagli articoli 28 e da tutti quegli orrori.
Se la nuova cultura prenderà coscienza che un certo cinema non è stato emarginato negli ultimi anni dalla politica,
bensì dal mercato, ci sarà speranza.
Guardiamo a quanto sta accadendo da un paio di stagioni nell'editoria, dove l'investimento per far uscire un libro è
di poche decine di milioni. Dove esistono leggi di assistenza e ciscun titolo si batte alla pari con tutti gli altri. C'è
stata una fioritura di nuovi scrittori, divisi tra "buonisti" e "cattivisti", tra giovanissimi e meno giovani.
Trasversalmente tra essi si sono visti talenti, magari ancora rozzi, ma che fanno ben sperare. Grande vitalità. Così è
accaduto nelle arti visive.
Perché solo nell'audiovisivo brilla così poco il nuovo? Io qualche idea ce l'avrei, ma in omaggio alla particolarità
del magazine che mi ospita, finisco qui. Continuate voi. Il dibattito è aperto.
Paolo Palazzi
I Tartassati

Se si dovessero fare due esempi su quale è il problema economico che unisce gli italiani e quale è quello che più li
divide, la risposta sarebbe semplice: il problema fiscale in tutti e due i casi.
Tramite il fisco si redistribuisce il reddito, o meglio si preleva reddito da chi paga le tasse e si trasferiscono reddito
e/o servizi ai cittadini non necessariamente in proporzione alle tasse pagate.
A parte il caso, teoricamente possibile, in cui il valore delle tasse pagate da ogni singolo cittadino sia esattamente
eguale all’ammontare di reddito e servizi ricevuti da quel cittadino stesso, in pratica ciò che si riceve è diverso in
quantità e qualità da ciò che si paga.

Di che tipo siano, quanto elevate siano e come si distribuiscono queste differenze, sono tutte cose che dipendono
dal sistema di tassazione e dalla struttura della spesa pubblica vigente.
Sia la spesa pubblica che la tassazione hanno una quota molto elevata di rigidità, anche nel lungo periodo, in
quanto dipendono sia da fattori strutturali (economici, demografici e sociali) del paese, sia dall’accumularsi di
decisioni politiche prese nel passato e che hanno portato a situazioni di fatto difficilmente modificabili nel medio
periodo (si pensi ad esempio agli interessi sul debito pubblico). Ciononostante la tassazione e la spesa pubblica
vengono fatte apparire e appaiono agli occhi dei cittadini come variabili decise in larga misura politicamente e
quindi facilmente modificabili attraverso l’azione politica.
Ciò che unisce gli italiani è senza dubbio la sensazione che il prelievo fiscale abbia raggiunto un livello troppo alto.
Le ragioni di questa sensazione sono ben note e riguardano da una parte il fatto che negli ultimi anni vi è stato un
incremento molto elevato della tassazione e dall’altra la constatazione che ciò che ritorna in servizi pubblici ai
cittadini è considerato insoddisfacente e comunque non adeguato a quanto si è pagato.
Ma quando si passa a discutere su come e con quali misure porre rimedio a tale situazione ecco che comincia la
divisione.

1) Le tasse
Tracciare la mappa delle posizioni relative al problema fiscale è molto difficile, per il semplice e
banale motivo che le tasse colpiscono i redditi in modo differenziato secondo il livello del reddito,
secondo il tipo di reddito, secondo le caratteristiche familiari, ecc. Ma è la persona fisica che paga
le tasse e il reddito della persona fisica può essere, e in genere è, composto da diverse fonti di
reddito, e ancora più composta e complessa può essere la struttura del reddito familiare. Questo fa
sì che gli interessi prevalenti dei cittadini siano difficilmente classificabili, e soprattutto sia
impossibile e sbagliato appiattire le posizioni "politiche" sulle questioni fiscali, utilizzando
categorie quali lavoro dipendente o indipendente, possessori di patrimoni o nullatenenti, ecc.
2) La spesa pubblica
Ancora più complessa è la mappa delle posizioni relative alla spesa pubblica. La struttura della
spesa pubblica in Italia (ma anche in ogni paese sviluppato) ha raggiunto un livello di complessità
elevatissimo. Calcolare come si suddividono i benefici della spesa pubblica è molto complicato, e
praticamente impossibile è riuscire a fare una classificazione particolareggiata delle categorie e
gruppi sociali secondo i benefici che ricevono dalla spesa pubblica.

La combinazione di queste due complessità fa sì che nel dibattito attuale su fisco e spesa pubblica tutti dicano cose
diverse e ognuno sembra aver ragione; i punti di vista sono numerosi quanto numerosi sono gli elettori.
Un politico che si trova di fronte a questo arcipelago di posizioni o di interessi ha due vie per cercare di unificare ,
nel voto, questa complessità:

a) la prima via, senza dubbio più facile ed allettante per i politici, è quella di partire
dall’elemento unificante iniziale e proporre di ridurre le tasse a tutti, buoni e cattivi, belli e
brutti e, se proprio si vuole esagerare, si può anche proporre di aumentare la spesa pubblica
a favore di ogni gruppo o categoria di cui in quel momento si chiedono i voti. Come si
fanno a quadrare i conti? Eliminando non ben definiti sprechi e riducendo la spesa pubblica
a favore di parassiti e ladri, categorie in cui nessuno si identifica e che, quindi, non sono
rilevanti dal punto di vista del voto.
b) la seconda via è quella di affrontare la complessità chiarendo i principi di base, gli
obbiettivi che ci si propone con la spesa pubblica e le categorie che si vogliono privilegiare;
nello stesso tempo si deve avere il coraggio di dire come si debbono reperire le risorse, in
modo tale che anche il sistema di tassazione sia coerente con gli obbiettivi di spesa
pubblica. E’ una strada ovvia, ma difficile, che si basa sulla onestà intellettuale e sulla
chiarezza, ma è l’unica che, facendo leva sull’intelligenza e capacità di progettazione dei
cittadini, può al contempo contribuire ad aumentarne le capacità e la consapevolezza.
Vittorio Gregotti
Pull-it-down

Sempre più spesso settimanali e quotidiani interrogano specialisti e non su che cosa si debba demolire in Italia.
Nelle risposte vi è naturalmente una concentrazione di avversione contro l’edilizia pubblica economica e popolare,
soprattutto quella ad alta concentrazione. I risparmi di suolo e la loro relativa attrezzatura a verde e servizi, che è un
vantaggio che da essa dovrebbe derivare, sono infatti stati realizzati in generale pessimamente o non realizzati
affatto, con il risultato disastroso che conosciamo. Ma soprattutto l’edilizia popolare è il simbolo di alcuni valori,
come l’uguaglianza, la collettività solidale, la condizione proletaria, che sono oggi tra i più avversati.

Solo che nel 90% dei casi le responsabilità delle disastrose condizioni abitative che esse sovente rappresentano non
derivano quasi mai dalla soluzione architettonica, buona o cattiva che sia, ma dalla condizione monoclasse degli
abitanti, dal loro comune livello di reddito basso e spesso assai incerto e dalla conflittualità interna che da ciò
deriva. Inoltre sono da attribuire alla mancanza di articolazione nelle destinazioni d’uso funzionali, alla scarsità dei
servizi e dei trasporti e soprattutto alla pessima gestione degli immobili e degli spazi aperti da parte delle pubbliche
amministrazioni; al fatto, infine, che tutto questo rende estraneo, anzi nemico, il patrimonio pubblico.
Provate ad infilare e poi abbandonare duecento famiglie di poveri, di disoccupati e di arrabbiati dentro ad una villa
del Palladio ed in pochi anni l’effetto di degrado non sarà meno terrificante.
A Londra due quartieri popolari costruiti quasi nello stesso periodo trent’anni or sono da ottimi architetti hanno
avuto destini divergenti. Il quartiere di Roehampton è un paradiso, quello del Golden Lane è divenuto un inferno di
delinquenza e di degrado, per pure ragioni di gestione. La Francia sta facendo da anni una politica di ricostruzione
dei suoi "grands ensembles", politica di ricostruzione dei tessuti, dei servizi e di utilizzazione sociale degli spazi
aperti, politica che ha conseguito qualche successo. In Germania alcuni quartieri popolari sovvenzionati costruiti
negli anni Venti sono divenuti addirittura monumenti nazionali.
Anche per quanto riguarda l’Italia ed in particolare il quartiere ZEN, di cui ho avuto la responsabilità di progetto e
che è in questi casi molto citato, anch’io lo abbatterei ma per poterlo rifare come era stato pensato: sui suoi principi
progettuali ho scarsi pentimenti. Non solo l’esecuzione, del tutto al di fuori del mio controllo, è stata pessima, non
solo non è stato realizzato nessuno dei servizi previsti (scuole, centro di commerci, attrezzature sportive, spazi per
la piccola produzione, trasporti, ecc.), ma il Comune non ha nemmeno fornito le infrastrutture essenziali, come le
fognature, la luce, l’acqua potabile. Il quartiere è stato sin dall’inizio lasciato occupare abusivamente ed il suo
tessuto sociale si è così ridotto al suo stato peggiore.
La ricerca su ciò che può essere demolito andrebbe comunque estesa; anzi, andrebbero posti in primo piano non
solo gli orribili edifici che hanno distrutto intere parti delle nostre città storiche con la propria presenza (ai quali
occorrerebbe dedicare un intero libro solo per farne l’elenco) ma la sordida periferia della speculazione edilizia che
ha degradato senza possibilità di riscatto e con enorme estensione quantitativa le periferie delle nostre città,
opprimendole con una densità edilizia e senza valore, una mancanza di spazi aperti e di servizi senza possibilità di
riscatto ed una qualità architettonica di infimo ordine nel novanta per cento dei casi. Le possibilità di
miglioramento offerte da qualsiasi quartiere pianificato, anche il più scadente, sono infinitamente più alte di quelle
dell’espansione senza regole guidata dal profitto e dal cosiddetto "libero mercato" senza regole. Capisco molto
bene che è più facile additare alla demolizione il patrimonio pubblico piuttosto che quello dei singoli ma questa è
solo una condizione storica.
Tutto ciò per non parlare dello scempio ambientale compiuto dalle discariche, dalle cave, dall’occupazione delle
coste, dagli insediamenti diffusi senza regole che operano distruzioni di interi paesaggi e delle stesse organizzazioni
produttive della campagna.
Tutto questo non significa che la classe professionale degli architetti sia senza colpe, tuttavia quelle maggiori
stanno dalla parte di chi si è posto al servizio della speculazione volgare piuttosto che dalla parte di chi ha cercato,
magari ingenuamente o magari sbagliando, di fondare un modo di abitare la città ragionevole e civile, anche se
utopico.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi

Per motivi non dovuti solo all’assonanza fra gol e Golem, ma anche in omaggio alla chiusura del famoso semestre
europeo e all'apertura del cruciale campionato europeo, le dieci strofe di questo numero costituiscono nel loro
complesso il più classico degli Autogolem.

Ogni strofa contiene una sequenza cifrata di sei lettere, sempre le stesse sei lettere anagrammate.

1.
VIVA LE DILAZIONI
Acquistate e non pagate
merci molto raffinate:
se voi a soldi scarseggiate
sono comode xx xxxx.

2.
DOPPI SENSI
(politically uncorrect)

Ti stupisci? E' cosa vera,


la mia lingua è assai sincera:
pur s'è grassa, è leggera
(la cicciona fa x'xxxxx).

3.
VITA DA PASCIA'
Oziare e farsi da parte;
oziare e giocare a carte;
oziare e insidiar le sarte:
Di Michelaccio x x'xxxx.

4a.
MESSAGGIO DA ITACA
"Qui le porte sono aperte.
Torna pure. Tuo Xxxxxx".

4b.
CONTRO-MESSAGGIO DA BABELE
Qui the door is not ouverte:
Achtung! Be careful! xxxxxx!

5.
PANE,VOLPE E MARMELLATA
Bestie che sembrano scaltre:
aquile, volpi x xxxxx.

6.
FINALISMO
Con un filo puoi filare.
Pur coi piedi puoi filare.
Tutti in fila per filare.
Verso il telos puoi xxxxxx.

7.
E FU COSI' CHE EBBI L'ERGASTOLO
"Davvero un brutto carattere
mostrò quel giudice a xxxxxx"

8.
SACHER-MASOCH TORTE
(facciamoci del male)

Amo le donne severe,


forti, sdegnose e xxxxxx:
l'eloquio da carettiere,
la frusta sul mio sedere.

9.
PRONTI PARTENZA
"Dico ‘uno’, ‘due’, x xx ‘xxx’
voi correte verso me".

10.
AVVISO AI NAVIGANTI
Se andate in gol la farete,
se siete in Golem la siete:
Golem o gol, net o mete,
trappola è sempre xx xxxx.

Anche questa volta le soluzioni verrano pubblicate nel prossimo numero di Golem.

Soluzioni
1. le rate
2. l'etera
3. è l'arte
4. Laerte
5. Alerte
6. e altre
7. telare
8. latere
9. altere
10. e al 'tre'
11. la rete
E se lo scambio fosse in sè delizioso?
Giovanna Grignaffini

La frase è di quelle destinate a sciogliere la tensione in una risata liberatoria, proprio come nel finale di Speriamo
che sia femmina. In realtà, l’ufficialità del tono e della circostanza la rendono del tutto surreale :
"Per riequilibrare la rappresentanza di genere abbiamo deciso che tutti i segretari d’aula proposti dall’Ulivo saranno
donne". E visto che anche il Polo fa la sua parte, applicando alla lettera, ma solo per il ruolo di segretario d’aula, la
parità tra i sessi, nell’ufficio di presidenza della Camera dei Deputati, le donne si presentano nella seguente
formazione: sei segretarie su otto, un questore su quattro, nessun vicepresidente, figuriamoci il presidente.
Ma a rendere questa piramide del tutto surreale non sono solo le cristalline leggi della matematica, unitamente a
insormontabili problemi di lessico ( segretario si può coniugare al femminile; con questore, vicepresidente e
presidente si aprono problemi di parola: meglio eliminare direttamente la cosa).
E’ soprattutto quel sentimento che avvolge molti fatti e parole. Un sentimento e un’immagine generale che ci
proiettano in un’epoca di subalternità contrattata tra uomini e donne.
Di quell’epoca ci parlano infatti molte frasi scambiate tra le parti. "Le donne ministro saranno almeno tre". "Non
possiamo collocarci al di sotto della Spagna di Aznar che ha portato al governo quattro donne" . "Ci serve ancora
un sottosegretario, donna, e possibilmente del Sud ".
Così come a quell’epoca risultano del tutto aliene domande del tipo: quali donne, cognome e nome, quali storie,
quali competenze, per quale ruolo, per quale governo, per quale politica. Quale autonomia e libertà femminile per
ciascuna di loro, quale rapporto con quell’autonomia e libertà femminile che vive nel paese. Domande inessenziali,
visto che lo scambio tra le parti si è realizzato, visto che le donne al governo sono proprio tre, non facciamo una
questione di portafoglio e potere, e non solleviamo sopratutto questioni sul fatto che siano tutte rigorosamente
confinate in quegli spazi della "cura" che anche ogni brava segretaria sa abitare con agio.
Distanze ravvicinate
Rossana Di Fazio

Di Spike Lee mi piacque Lola Darling (1986). C'era lì quello di cui vorrei parlare e che riguarda molti film di
questi e dei prossimi giorni.
Nel nuovo film di Spike Lee, Girl 6- Sesso in linea, la protagonista è un'attrice; cambia continuamente vestiti,
parrucche, persino lenti a contatto: è quasi difficile riconoscerla. E' sempre molto bella, ma riesce a trovare lavoro
solo rimuovendo il proprio corpo e introducendo la propria attitudine di attrice nei cavi di una hot line. Nel corso
della storia si vedrà che la sparizione del corpo è insostenibile e non promette niente di buono. Mentre Spike Lee
esalta l'abbraccio non virtuale sotto una pioggia di telefoni di ogni forma e colore (romantica e bella invenzione), il
suo film segna l'ennesima sparizione del corpo dal suo cinema. Non del corpo come oggetto di rappresentazione,
ma del corpo come strumento di comunicazione.

E' sempre più raro trovare il senso della presenza della persona che è aldilà e dentro lo schermo; quel senso realizza
una vicinanza con il pubblico ai limiti della discrezione e trasforma lo schermo in uno specchio nel quale lo
spettatore interroga il volto dell'altro in una distanza ravvicinata, la stessa che quotidianamente trasforma una
relazione qualunque in una relazione intima e confidenziale. Ricordate le protagoniste di Butterfly Kiss (1994) di
Michael Witterbottom? Lì c’erano persone. Negli ultimi tempi, al cinema, è molto facile trovare maschere ed è
difficile conoscere persone.

Blondie è mora, ma solitamente si tinge i capelli come Jean Harlowe; Carolyn appare nel film con una maschera di
bellezza che si tiene per un pezzo. Il marito di Blondie è uno squattrinato che si scurisce la faccia per rapinare un
boss, nero. Sono i protagonisti di Kansas City, di Robert Altman ; il più anomalo e solitario fra i registi americani
gioca spesso sulla pelle dei suoi protagonisti: è un continuo travestimento, scambio di identità, facce alterate. Lui sa
che il cinema pone questa faccenda e lo pensa così, come un circo.

Sto osservando da qualche tempo quali elementi fanno passare l'altro aldiqua dello schermo e possono renderlo
vivo per me. Non dipende dalla vicinanza della macchina da presa, ma sicuramente da un suo indugiare, insistere
sulla pelle e soprattutto sulla faccia; poi dipende senz'altro dalla presa diretta, cioè dalla qualità del suono , delle
voci e dei rumori, che qualificano in modo essenziale lo spazio filmico e fanno sentire lo spazio nel quale agiscono
i personaggi; anche il grado di patinatura dell’immagine misura una certa astrazione dalla corporeità.
Mi sono fatta un’idea su questa poetica della relazione, che considero, ovviamente, solo una fra le tante poetiche
del cinema e espongo la mia ipotesi, in tutta la sua discutibile genericità; credo che sicuramente questo interesse
"prossemico" sia del tutto assente, oggi, nel cinema dominato prevalentemente da scopi commerciali e che quando
usiamo istintivamente e anche impropriamente "americano" come aggettivo che designa tanto un luogo geografico
quanto uno stile produttivo, noi operiamo anche il riconoscimento di un racconto che interpone fra sè e lo spettatore
una barriera insuperabile: divi e divine, certo, ma dietro il vetro; attori, mai facce che si avvicinano davvero.
Anche il cinema commerciale (e mi sforzerò di trovare un termine più preciso) deve stabilire un legame patemico
con il pubblico; per trovare lo spettatore punta su una storia che funzioni sempre e comunque, e mobilita gli stati
d'animo al livello della sceneggiatura. Non si può rischiare. In questa prospettiva l'immagine, il montaggio, deve
essere soprattutto spettacolare e percorrere altre avventure.
La stanza di Cloe di Rolf de Heer è la storia di una bambina che smette di parlare con i suoi genitori per protesta e
cerca nel loro abbraccio quella vicinanza che esprime l’affetto più di qualunque parola. Tanto nel racconto quanto
nei modi in cui si sviluppa sullo schermo, quel film valorizza quella specie di comunicazione che ho cercato di
indicare.
Vorrei concludere con due osservazioni: la prima è che molti teorici del cinema (da Bela Balàzs a Roland Barthes)
hanno esaltato l'immagine cinematografica come strumento di scoperta del corpo; avevano esempi diversi davanti
agli occhi, ma sospetto che ne avessero di più vari, che la curiosità per il linguaggio producesse più esperimenti in
questo senso; la seconda è che intuisco una valenza morale nel proporre questa prossimità in platea: prima
dell'attore, essa mostra storie di personaggi/persone che esistono e sentono attraverso un corpo (unico e irripetibile)
e induce, per la naturale empatia che suscita nello spettatore, curiosità, comprensione e rispetto per quella integrità.

Su tutti i film citati potete trovare sulla rete moltissime informazioni con i normali sistemi di ricerca (naturalmente
la maggior parte dei siti è in inglese). In particolare potreste visitare questo sito di Girl 6, molto colorato e ricco di
informazioni. Buona navigazione.
Buone notizie
Carlo Bertelli

Un mercoledì di giugno a Varese. Meglio: il prossimo mercoledì a Biumo, sopra Varese. E già questo non è un
buon inizio giornalistico, perchè, come si sa, il giornale riporta i fatti, non li anticipa. Eppure, come in un
programma distribuito alla Scala, merita di descrivere la scena prima che si alzi il sipario. L'evento è infatti
importante e singolare. Si celebra la donazione al FAI della villa Menafoglio, poi Litta e infine Panza, con dentro la
celebre collezione d'arte degli anni ‘60-'70. La villa risale al 1751, e quindi ha il principale requisito per interessare
quella forma di National Trust che è il FAI, il quale si sta estendendo specialmente fra Piemonte e Lombardia con
una collana preziosa di abbazie, castelli, ville, case alto borghesi. La villa Panza dà certo un'impressione di
ricchezza, ma non trasmette nessuna di quelle evocazioni del buon tempo antico che solitamente appagano i
visitatori delle residenze aperte dal National Trust. L'invito è qui a una prolungata meditazione; meditazione sulla
vita e la morte, sull'identità di energia e materia, sull'ambigua risonanza delle parole, la presenza del non
rappresentabile. Un percorso nell'arte del nostro tempo che provoca la domanda: ma questa è arte? e che cosa è
l'arte?
In modo sottile ma perentorio le nostre normali percezioni e reazioni sono qui messe a nudo come forme di cultura
e quindi contraddette o almeno allertate. Ciò che si vede da una finestra può sembrare un quadro luminoso e poi
stupire con la propria evidenza reale; una sala in penombra può apparirci occupata da un immenso cubo inesistente;
una coppia di apparecchi televisivi ci fa smarrire il senso di dove stavamo andando. Oppure le tele di Robert
Mangold, Brice Marden, Robert Ryman, Peter Joseph, distribuite sulle pareti con la solennità riservata ai grandi
dipinti barocchi, sono perfetti monocromi che negano decisamente le seduzioni correntemente richieste all'arte.
La raccolta Panza ha riunito, della ricerca artistica soprattutto newyorkese e californiana, i momenti della massima
tensione intellettuale. Il piacere che dà è quello dell'intelletto, un godimento spirituale del tutto agostiniano. E
Biumo non è tanto distante da Casciago, il rifugio letterario di sant'Agostino.
La raccolta è stata chiamata una collezione made of uncollectable art, e infatti il suo disegno è di rigore filosofico,
d'una filosofia che, anzichè per segni verbali, si costruisca per proposizioni spaziali. Una parte delle opere è stata
realizzata qui e spostarla sarebbe diminuirla gravemente, come poniamo, lo studiolo di Gubbio trasferito al
Metropolitan Museum di New York. Altre sono state volutamente accostate ai camini neoclassici, a preziosi mobili
intagliati del Quattrocento, a famiglie di piccole statue africane di antenati.
L'idea è stata, infatti, di sottolineare il contatto nuovo che dal moderno si stabilisce con l'antico, permettendone
un'interpretazione non convenzionale in un lungo cammino a ritroso; mentre i gruppi di antenati ci rammentano
come gran parte del discorso dell'arte verta sulla relazione fra la vita e la morte, sul tempo fermato e quello che
fugge, sull'effimero e sul durevole. Insomma, quella che si offre ora al pubblico non è soltanto una raccolta, è la
casa trasformata da un proprietario che in vent'anni di collezionismo, dal 1956 al 1975, ha voluto vivere insieme
alle opere d'arte amate, o, come dice lui stesso, dentro le menti degli artisti. E' questa la ragione principale per la
quale di un solo artista sono proposte più opere, spesso con lievi dissonanze fra di loro, chiedendo così una visita
non affrettata, sostenuta dalla volontà di immedesimarsi nelle ripetizioni, cogliendone varietà e identità.
Giuseppe Panza è nato nel 1923. Ha un sorriso gentile, leggermente ironico, ma la sua apparente timidezza è in
realtà una forza sicura. Sua moglie, madre di quattro figli, è più esuberante. Quando i Panza visitarono la galleria
d'arte moderna del Vaticano, Giovanna Panza non riuscì a frenare la propria indignazione. Scrisse al Papa per
spiegargli che c'è più intensità religiosa in un monocormo di Rothko che in una qualsiasi delle opere accumulate
nell'appartamento Borgia; offrì l'opera di suo marito per formare una vera raccolta corrispondente alla religiosità
del nostro secolo, degna di stare nel palazzo affrescato da Raffaello e dall'Angelico. Giuseppe Panza non la fermò,
e anzi sono sicuro che avrebbe considerato un simile compito il più alto della sua vita.
Occorrerà ancora molto entusiasmo per far avvicinare alla raccolta un pubblico del tutto impreparato e nello stesso
tempo sollecitarne una reazione convinta e non una superficiale risposta alla moda. Come nel convento di San
Marco a Firenze, si preferirebbero le scritte SILENTIUM a spiegazioni petulanti.
Come è noto, una parte della raccolta è emigrata a Los Angeles. Purtroppo si tratta di quella (Rosenquist,
Rauschenberg, Lichtenstein...) che per il suo carattere prevalentemente figurativo avrebbe meglio introdotto il
pubblico alla più esigente sezione ambientale e concettuale. Il modo in cui l'Italia perse la collezione, che il
Museum of Contemporary Art di Los Angeles comperò nel 1984 per 11 milioni di di dollari, è un bell'esempio di
una legislazione sbagliata e nello stesso tempo rigidissima, anche se ora in parte sorpassata. Ne parleremo un'altra
volta.
E' infatti già molto che questa parte della collezione sia salva e affidata a chi la saprà mantenere e far visitare. Vi
sono però altri "pezzi" importanti che non hanno casa. Si tratta di diverse centinaia di progetti di artisti ambientali e
concettuali che Panza ha comperato e che attendono di essere realizzati. Per collocare queste opere si sono fatti
molti tentativi. Quando chi scrive era soprintendente per i Beni Artistici e Storici di Milano, Giuseppe Panza aveva
promesso di donare 100 opere allo Stato perchè fossero sistemate nel Castello di Vigevano. Immaginavamo, allora,
negli anni ‘80, che cosa sarebbero stati i lavori con tubi fluorescenti di Dan Flavin e Bruce Nauman nella lunga via
sotterranea, o la monumentalità delle piccole sculture in ferro di Joel Shapiro sui pavimenti di pietra del Castello.
Purtroppo il collega soprintendente per i beni ambientali e architettonici bocciò la proposta senza alcun esame, con
la semplice affermazione:"Ci starebbero da cani!".
La consegna al FAI della villa di Biumo è forse il più grande avvenimento nel collezionismo pubblico di arte
contemporanea degli ultimi decenni, accanto alla Fondazione Burri. Il FAI, per merito anche dei più giovani nel
suo staff, specie di Marco Magnifico, si apre all'arte contemporanea e compie un enorme salto di qualità, poichè
d'ora in poi sarà conosciuto in tutto il mondo come il custode di una collezione che gode d'un prestigio
internazionale.
Possiamo anticipare che, a questo punto, il possesso e la conservazione non basteranno. Saranno indispensabili
programmi di collaborazione con le università e con gli altri musei, mentre il peso della raccolta non potrà non
sbilanciare gli equilibri di quieto vivere delle nostre soprintendenze.
All'inaugurazione sarà presente, secondo gli annunci, il ministro Veltroni. Il ministro sarà così testimone di un
grande evento per l'arte contemporanea per il quale il suo ministero non ha nessun merito, che anzi ha in proposito
qualche rimorso. Vedrà anche come l'Italia si sia sganciata dal centralismo dell'età di Bottai, che pur ancora
chiudeva l'orizzonte di un critico illuminato come Giulio Carlo Argan e che è rimasto nel patrimonio genetico
ministeriale. Avrà così modo di riflettere sulla necessità di trasformazioni profonde e ormai irrinunciabili per un
paese moderno.
Fumetti
a cura di Comix

Ciaci Kama & Seele Quino

Comix Home Page


Il WWW generalista e tematico (con Java...)
Giulio Blasi

Questo pezzo può essere navigato solo da chi possiede :

a) un broswer WWW in grado di supportare Java (ad esempio Netscape 2.0 per Windows 95)
b) un po’ di pazienza...

Gli altri dovranno evitare quasi tutti i link ma può darsi che questa "interdizione" spieghi ancora meglio dei link il
senso di ciò che sto per dire...
A confronto dei servizi di chat, news, mailing lists sviluppatisi a partire dagli anni ’70 nell’ambito delle comunità
accademiche o comunque a partire da aree di interesse estremamente "segmentate" (si pensi alle conferences di The
Well), il WWW degli anni ’90 presenta caratteristiche profondamente differenti. In particolare, il grado di
"interattività" (cioè di relazionalità tra gli utenti, secondo un’accezione ristretta del termine) della pagina WWW è
profondamente limitato.

Come ha suggerito Emilio Pucci, anziché sviluppare lo sviluppo e l’integrazione di gruppi delimitati di utenza, il
WWW (a partire dal 1993, anno in cui vengono diffusi i primi browser grafici per il web) ha generato un’offerta
"generalista" di contenuti, sul modello della televisione pubblica e commerciale italiana (sto pensando a siti come
Yahoo che vi offrono accesso a informazioni di ogni genere, dalla a alla z).

In qualche modo, ciò costituisce un "tradimento" della struttura originaria della comunicazione su Internet ma può
darsi che si tratti di un cambiamento di rotta solo passeggero e prodotto dalla recente espansione demografica della
rete.

Con l’avvento di Java (vi rimando a un dizionario on line per una definzione tecnica) avverrà probabilmente un
ritorno all’idea dei gruppi delimitati (ma non necessariamente chiusi) di utenza. Vediamo come.

Nel mondo dei giochi, questa trasformazione prodotta da Java sul WWW è già pienamente visibile. Il sito
scacchistico realizzato da Francesco Bosia (uno studente di Milano) ne è un esempio brillante. Il sito di Bosia
permette a scacchisti di tutto il mondo di giocare a scacchi tra loro (posso giocare anche più partite in simultanea),
di osservare le partie giocate da altri, di memorizzare le partite fatte, di chiachierare in tempo reale con il mio
partner di gioco, di partecipare a un forum di discussione. E tutto ciò a partire da una singola pagina del web
"attorno" alla quale ruota una piccola comunità di utenti.

Passando ad ambito del tutto diverso, la rivista Wired ha introdotto una beta release di un sistema di chatting che
sostituisce il vecchio accesso via telnet. La cosa rende decisamente più dinamica e interessante la partecipazione ai
forum della rivista e soprattutto non richiede software aggiuntivo rispetto al browser WWW.

Centinaia di altri esempi di applicazioni Java sono reperibili al sito di Gamelan che monitorizza tutti gli sviluppi
delle applicazioni Java per il WWW.

In sintesi : abbiamo avuto sino agli inizi degli anni ’90 una Internet tematica e organizzata in "comunità
virtuali" (Rheingold) di utenti che utilizzavano applicazioni di rete in grado di delimitare le aree di interesse dei
partecipanti alla comunicazione. Lo sviluppo commerciale di Internet e l’avvento del WWW hanno modificato
questa struttura e hanno stimolato un’offerta più generalista e meno "interattiva" di contenuti. A questo punto si
aprono due strade : o siamo di fronte ad un nuovo "loop storico" (di quelli descritti da Umberto Eco in una recente
Bustina di Minerva) o strumenti come Java ci permetteranno di "recuperare" il vecchio modello di Internet con
strumenti e potenzialità nuove.

Ridate un’occhiata alla storia di Internet per farvi un’idea.


Appuntamenti

In questo numero Golem vi segnala due appuntamenti:

Milano, Foro Buonaparte 50

21 giugno - 22 settembre 1996

Provincia di Milano, Assessorato alla Cultura


Fondazione Antonio Mazzotta
Regione Lombardia, Settore Trasparenza e Cultura

Orario: 10-19:30; giovedì 10-22:30; chiuso lunedì


Metropolitana: MM1 Cairoli, MM2 Lanza
Tram e autobus: 3-4-12-14-57-70-73
Festival internazionale di poesia contemporanea performance musica danza teatro
video multimedia

Venezia, Campo S.Margherita

2 / 6 luglio 1996

Promossso dall'Assessorato alla Cultura di Venezia

Home page di Venezia.poesia


Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Furio Colombo, Giovanna Grignaffini, Altan, Stefano Bartezzaghi, Sandro Parenzo,
Renato Mannheimer, Marco Giusti, Vittorio Gregotti, Rossana Di Fazio, Carlo Bertelli, Giulio Blasi, Nanni
Balestrini, Giorgio Casadio, Giuseppe Turani, Pierluigi Cerri, Paolo Palazzi, COMIX.

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Moreno Naldi, Stefano Mazza, Annalisa Galardi,
Massimo Amato e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo


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Golem discute in questo primo numero di culture e paesi: che cosa divide la cultura di Sinistra da quella di Destra,
almeno nel nostro paese, l'Italia. E discute di che cosa tiene insieme questo paese: i libri, le Pagine Gialle o lo
sport?
Golem e' un giornale quotidiano, perche' ogni giorno potete collegarvi e dire la vostra. Un settimanale, perche' si
rinnovera' periodicamente. Ma anche un mensile: cambia insomma quando c'e' ragione e quando ci sono idee.
Prodigi online per vecchi malati di carta stampata.
Nulla o quasi tiene insieme i collaboratori e le collaboratrici di Golem, niente se non l'idea che le idee contano. Che
la tradizione di sberleffo, cinismo, polemica e indifferenza che pesa sulla nostra comunicazione -e tanto e' di moda-
sia inutile a capire un mondo mutato.
Golem quindi vi parla di idee, idee di persone diverse, idee con cui voi potete dilettarvi, confrontarvi, scontrarvi.
Ma con un' umile persuasione: che sapere sia una parte sempre crescente di potere.
Golem e' convinto che, come gli enigmi dell'ottimo Bartezzaghi che siete invitati a sciogliere, solo aguzzando il
cervello usciremo dai guai di oggi. Per incontrare quelli di domani, ovviamente: ma questo e' un altro paio di
maniche.
Benvenute e benvenuti dunque nel Golem: leggete, rispondete, pensate.
Grazie.
Franco Cardini
Il profumo della pantera

"Uno spettro s’aggira per l’Europa", si è potuto dire più o meno un secolo e mezzo fa di qualcosa di molto serio,
nel bene e nel male. Oggi, quel che pare si aggiri per l’Europa non è certo un’immaginee sanguinoso spettro; al
confronto ci fa la figura di Casper, il fantasmino dei cartoons. Altre cose sono state definite delle tigri di carta:
questo non è nemmeno un gattino. E, se è una pantera come quella del mito, lascia una scia profumata molto
superiore alla sua stazza. Ma allora, vale davvero la pena di parlarne?

Si tratta della cosiddetta "cultura di destra". Se n’è discusso e se ne sta discutendo fin troppo anche perchè il
discuterne faceva (fa) comodo a molti: se non altro per agitare l’altro fantasma, quello della "cultura di sinistra" (a
onor del vero un po’ più consistente, per quanto equivoco anch’esso); o per spargere qualche allarme utile
all’organizzazione del consenso. Col risultato, magari, di riscoperte e di rivalutazioni sacrosante; ma anche col
pericolo di finir per trattare quasi come fossero altrettanti Ermeti Trismegisti dei carneadi che, quanto a dignità
intellettuale, potrebbero invidiare il mago Otelma.

Proviamo a far un po’ di chiarezza in più sul problema (se è tale) cominciando con l’azzerare alcune consuetudini
ormai diventate poco più che fraseologiche. Che cosa vuol dire, in fondo, "cultura di sinistra", un’espressione che
ancor oggi ha quasi il sapore dell’esorcismo da una parte, della formula tautologica dall’altra? Negli anni ruggenti
da Vittorini a Moravia, la cultura era - nel comune parlare di chi si definiva "intellettuale" - tutt’uno con la sinistra:
o era di sinistra, o non era cultura. Il dibattito socioantropologico sul "concetto di cultura" e poi, nella seconda metà
degli anni Settanta, le polemiche sorte attorno alla "Nouvelle Droite" francese e ad alcune sue periferiche italiche
hanno spostato i termini della questione. In Italia soprattutto, alla luce del "riflusso" seguito agli Anni di Piombo,
qualcosa si è mosso e qualcos’altro è stato sdoganato. Nell’Accademia come in certi ambienti della cultura
militante è cominciata a circolar la voce che il matrimonio tra cultura e sinistra non era più né insolubile, né
monogamico. Si riscopriva frattanto nel pensiero europeo una linea Hobbes - De Maistre parallela (e alternativa?)
rispetto a quella Rousseau - Marx, mentre soprattutto, da inquieti ambienti d’una sinistra "mutante", giungevano
segnali di rilettura e di rivistazione di Nietzsche, di De Unamuno, di Céline, di Schmitt, di Jünger.

D’accordo. Sono caduti molti cattivi tabù: e chi ne ha nostalgia si sbaglia. Erano forse comprensibili, nel clima
dell’indomani della seconda guerra mondiale, più o meno irrevocabili forme di damnatio memoriae nei confronti di
studiosi o di scrittori che avevano in un modo o nell’altro appoggiato i fascismi, o ne avevano subito il fascino, o
erano stati da essi strumentalizzati. Ma ora tutto ciò ha il sapore dell’anticaglia: e d’altronde è improponibile
l’assimilazione tra fascismo e destra e la riduzione di questa a quello. D’altro canto, la compromissione con i
fascismi non recava nessun segno coerente, non aveva radici comuni: essa era nata in una pluralità di percorsi e di
esperienze, sull’onda di provenienze e di contingenze eterogenee e irripetibili.

Anni or sono Furio Jesi provò a definire il campo della cultura di destra: ma fu un’impresa disperata. Anche le
proposte di chi ci ha provato in seguito - da Galli a Cofrancesco, da Bobbio a Galli della Loggia - non paiono
convincenti. La cultura di destra resta una galassia dai contorni indefiniti e sovente contraddittori: anche perchè
almeno dal 1848 esistono molte destre o, se si preferisce, molti modi non solo di esser di destra, ma anche di stare
a destra e di pensare la destra. Il che, intendiamoci, in modo forse più attenuato si può dire della stessa sinistra. Si è
provato a onor del vero a definire destra e sinistra sulla base delle coppie di opposti e della metodologia dell’aut
aut: ma non è che ci si sia proprio riusciti. Prendiamo il tema della libertà: si è detto che è di sinistra la Liberté, di
destra le libertates. Ma a quale delle due sfere si avvicina di più la crociana "religione della libertà"? Oppure,
prendiamo la Nazione: un classico tema forte della sinistra nelle sue connotazioni giacobine che lo
contrapponevano al Trono e all’Altare; e un non meno classico tema forte delle destre nella sua successiva
evoluzione storica.

Proviamo allora a disincantare quello che fino ad oggi è stato un concetto non solo predicabile, ma incontestabile.
Proviamo a sostenere che di per sé la cultura, al pari di quel che si dice faccia il danaro, non oleat. Lo so che tale
ipotesi potrebbe sembrar qualunquistica. Ma proviamoci lo stesso. Supponiamo che sia un nonsense attribuire di
per sé alle diverse forme di cultura una posizione all’interno dell’arco che convenzionalmente distingue le varie
posizioni politiche. Non esiste una "cultura di destra" (e magari nemmeno una "di sinistra"). Esistono studiosi,
scrittori, intellettuali che stanno di qua o di là, sia pur dall’una più spesso che non dall’altra parte. Ma questo
significa solo che esiste un "uso di destra della cultura" (o più usi di destra, irriconducibili gli uni agli altri: Croce
non è Gentile, Borges non è de Maetzu). Significa che esistono differenti politiche culturali. E differenti possibilità
di lettura degli autori. E’ noto che Nietzsche è stato letto "da sinistra": ormai, del resto, il brigantaggio di Elisabeth
Forster è stato smascherato da tempo. Ma Claude Lévi-Strauss ha potuto impunemente proclamarsi "anarchico di
destra"; e, a estrapolare certi confronti tra feudalesimo e capitalismo contenuti nel Das Kapital, si potrebbe
confezionare una crestomazia reazionaria marxiana da far invidia al De Bonald più scatenato, al più incanaglito
nipotino di Charles Maurras. Decontestualizzazioni, appropriazioni indebite, si dirà,. Come se, tra Parnaso ed
Elicona, queste armi non fossero mai state usate.

E allora? Allora, nulla. Si fa per provocare. Mischief, thou art afoot. Intellettuali di sinistra di tutto il mondo,
difendetevi.
A destra o a manca?
Umberto Eco
Alle armi, o mansueti!

Caro Cardini, tu sei forse l'unico rappresentante "colto" della destra italiana (non nel senso di "dotato di
informazione", ma di "capace di criticare anche te stesso") e quindi non menare il can per l'aia. Tu sai benissimo
che cosa vuol dire essere davvero di destra, perché sei uno dei pochi che lo è realmente. Non cercare di nascondere
la tua verità agli altri.

Berlusconi non è di destra (né di sinistra): è uno che vuole fare i propri interessi e quelli della propria azienda. E' un
cow boy che lotta contro i coltivatori, puro western, e con l'ideologia non ha nulla a che fare. Fini non è di destra: è
un politico professionista, capitato da piccolo tra i fascisti perché aveva visto un film piuttosto che un altro; poi ha
capito che a fare il fascista prendeva il cinque per cento e a non farlo poteva aspirare al venti, e ha fatto i suoi conti.
I conservatori classici non sono di destra, sono dei conservatori, e cioè persone che ritengono che salvaguardando
un certo ordine sociale fanno il bene collettivo, anche se questo può avere alcuni costi per le classi meno
immediatamente fortunate. Ci sono conservatori come Nixon che, di fronte alla prova dei fatti, sono andati in Cina
e hanno fatto una politica di apertura che nessuna testa d'uovo liberal (nel senso americano, e dunque di sinistra) si
era mai sognato.
E neppure sono di destra i dandies. Il maggiore esempio di dandysmo è stata la serie di dichiarazioni rilasciata a
Diorama (marzo 1996) da alcune persone provenienti da diverse origini (Tarchi, Acquaviva, Cavalli, Pellicani,
Zolla, Borrega), che dichiaravano perché non si schieravano e non si attendevano nulla da queste elezioni.
All'ingrosso, il sentimento dominante era la pochezza e degli uomini e della posta in gioco: e il vero dandy si
sottrae, per mostrare che i valori sono altri. Certo, un alto dandysmo può parere di destra, perché si basa sul
disprezzo delle persone comuni; ma talora può essere necessario, proprio per illuminare - attraverso la
provocazione dandystica - gli insipienti. Chi era quell'architetto socialista a cui è stato rimproverato di viaggiare in
Bentley e ha risposto: "Perché per me tutti dovrebbero poter avere una Bentley"? Era un dandy, certo, lanciava una
provocazione.
No, la vera destra, quella storicamente radicata, e con un grande e illustre albero genealogico, è un'altra, è il
pensiero reazionario della Tradizione. La sua quintessenza è che, per tante cose che i piccoli uomini di oggi
possano cercar di sapere e scoprire, le verità sono state dette all'origine dei tempi, quando erano carne e sangue dei
popoli; e a esse occorrerà tornare. Poi questa disposizione fondamentale può essere sviluppata da un pasticcione
incolto, come Evola, o da un grande pensatore, come Heidegger. Ma il nucleo è lì. L'odio, che talora ne consegue,
per il mondo moderno o le masse, è un effetto collaterale. Il grande reazionario può anche usare l'aereo e
l'automobile, immondi prodotti della tecnica, e votare (ultima illusione di potere dei poveri), ma sa che non è
questo che conta, la risposta viene da altrove. L'unica cosa che occorre rifiutare è che la verità sia una lenta e umile
accumulazione collettiva (trial and error), dove vale, passo per passo, il consenso della comunità, e gli altri sono lì
perché da essi potremo ricevere forse il dono del dubbio.
Viste queste premesse, è abbastanza comprensibile perché manganellatori, censori, teste rapate e croci uncinate
abbiano trovato roba da rodere e buoni strumenti nel mare magno della Grande Destra - quasi sempre scegliendo gli
effetti collaterali, e le idee più accessibili alla loro mente, e quindi le più rozze. Ma se è solo per questo, è anche
vero che arruffapopoli, scontenti, facinorosi, abbiano trovato roba da rodere a sinistra, e anche lì scegliendo il
peggio.
Però lo sai che la grande lotta tra la destra eterna (orgogliosa, sicura della rivelazione che otterrà interrogando le
profondità della storia e dell'antropologia, dei miti e dei riti) e quella che proprio non chiamerei sinistra, né
orgoglio progressista, ma senso di una verità che si fa giorno per giorno confrontandosi anche con i meno dotati
(non come oggetti d'amore, ma come interlocutori), sta lì. Non c'è armistizio possibile. Perché la vera destra è
necessariamente pagana, e adora dèi spietati, anche se talora finge di prestare orecchio al discorso della montagna.
Alle armi, o mansueti!

A destra o a manca?
Renato Mannheimer
Destra, centro, sinistra

Ma ha ancora senso, oggi, parlare di sinistra, centro e destra per descrivere e collocare gli orientamenti ideologici,
politici, elettorali?
Come si sa, il quesito viene posto ripetutamente e, secondo molti, la risposta è negativa: sinistra, centro, destra
avrebbero perso ogni capacità descrittiva od evocativa di contenuti, e sarebbero addirittura, secondo alcuni, simboli
privi di significato reale.
Ma pare non sia così per la maggior parte dei cittadini. Si può discutere a lungo sulla capacità dei sondaggi di
opinione di rilevare effettivamente gli atteggiamenti e gli orientamenti degli elettori (e magari una volta o l’altra
potremmo farlo su Golem), ma è certo significativo il fatto che, in tutti i questionari su temi politici, il quesito su
cui gli intervistati rispondono più facilmente e in quota maggiore è proprio quello sulla "autocollocazione" sull’asse
sinistra-destra. Come si sa, si tratta di un quesito in cui si chiede, attraverso una raffigurazione grafica, di indicare
la propria posizione politica su di un segmento che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, passando per il
centro. Mediamente si "autocollocano" con facilità l’85-90% degli intervistati, mentre sono assai inferiori, ad
esempio, le quote di chi risponde alla domanda "secca" sulla scelta di partito, sia per reticenza che per sincera
indecisione. Molti, in altre parole, dichiarano di non sapere, sino alla vigilia delle elezioni, per quale partito votare,
ma indicano, con relativa precisione, la loro posizione sul continuum sinistra-destra.
Oltre a costituire, per la gran parte degli elettori, uno degli strumenti più facili per orientarsi nel mare della politica,
la dimensione sinistra-destra appare anche uno dei principali elementi su cui il cittadino medio fonda la scelta di
partito al momento delle votazioni. Una volta, si sa, la scelta elettorale era, per molti, più semplice. Uno si
"sentiva" comunista, democristiano o quant’altro e votava di conseguenza. Oggi con la scomparsa (o il mutamento
radicale) dei partiti tradizionali e il correlato erodersi delle appartenenze, la scelta appare assai più complessa. Chi
non segue molto la politica si trova in difficoltà con tutte queste nuove sigle. Ma, come si è detto, sa bene di essere
di destra, centro-destra, centro-sinistra, sinistra, ecc. e cerca quindi spesso di individuare quelle forze politiche che
più si avvicinano alla propria personale posizione sul continuum sinistra-destra.
Certo, il significato dei termini sinistra e destra è molto mutato nel tempo. "Sinistra" evoca oggi, per molti elettori,
valori, contenuti, ideali assai diversi da quelli che lo stesso termine simboleggiava per i loro padri. E lo stesso vale,
naturalmente, per "destra".
Uno degli elementi che, forse, differenzia maggiormente il significato di sinistra, centro, destra oggi rispetto al
passato è la pluralità dei contenuti possibili. Una politica di "sinistra" può legittimamente significare oggi cose
assai diverse, talvolta addirittura contradditorie tra loro.
In particolare, sia in "sinistra" che in "centro" che in "destra" possono convivere (e, di fatto, convivono) i poli
dell’altra dimensione che caratterizza le scelte politiche ed elettorali dei cittadini italiani: l’antitesi tra "vecchio" e
"nuovo", tra "consenso" e "protesta".
Ma ha ancora senso, oggi, parlare di sinistra, centro e destra per descrivere e collocare gli orientamenti ideologici,
politici, elettorali?
Come si sa, il quesito viene posto ripetutamente e, secondo molti, la risposta è negativa: sinistra, centro, destra
avrebbero perso ogni capacità descrittiva od evocativa di contenuti, e sarebbero addirittura, secondo alcuni, simboli
privi di significato reale.
Ma pare non sia così per la maggior parte dei cittadini. Si può discutere a lungo sulla capacità dei sondaggi di
opinione di rilevare effettivamente gli atteggiamenti e gli orientamenti degli elettori (e magari una volta o l’altra
potremmo farlo su Golem), ma è certo significativo il fatto che, in tutti i questionari su temi politici, il quesito su
cui gli intervistati rispondono più facilmente e in quota maggiore è proprio quello sulla "autocollocazione" sull’asse
sinistra-destra. Come si sa, si tratta di un quesito in cui si chiede, attraverso una raffigurazione grafica, di indicare
la propria posizione politica su di un segmento che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, passando per il
centro. Mediamente si "autocollocano" con facilità l’85-90% degli intervistati, mentre sono assai inferiori, ad
esempio, le quote di chi risponde alla domanda "secca" sulla scelta di partito, sia per reticenza che per sincera
indecisione. Molti, in altre parole, dichiarano di non sapere, sino alla vigilia delle elezioni, per quale partito votare,
ma indicano, con relativa precisione, la loro posizione sul continuum sinistra-destra.
Oltre a costituire, per la gran parte degli elettori, uno degli strumenti più facili per orientarsi nel mare della politica,
la dimensione sinistra-destra appare anche uno dei principali elementi su cui il cittadino medio fonda la scelta di
partito al momento delle votazioni. Una volta, si sa, la scelta elettorale era, per molti, più semplice. Uno si
"sentiva" comunista, democristiano o quant’altro e votava di conseguenza. Oggi con la scomparsa (o il mutamento
radicale) dei partiti tradizionali e il correlato erodersi delle appartenenze, la scelta appare assai più complessa. Chi
non segue molto la politica si trova in difficoltà con tutte queste nuove sigle. Ma, come si è detto, sa bene di essere
di destra, centro-destra, centro-sinistra, sinistra, ecc. e cerca quindi spesso di individuare quelle forze politiche che
più si avvicinano alla propria personale posizione sul continuum sinistra-destra.
Certo, il significato dei termini sinistra e destra è molto mutato nel tempo. "Sinistra" evoca oggi, per molti elettori,
valori, contenuti, ideali assai diversi da quelli che lo stesso termine simboleggiava per i loro padri. E lo stesso vale,
naturalmente, per "destra".
Uno degli elementi che, forse, differenzia maggiormente il significato di sinistra, centro, destra oggi rispetto al
passato è la pluralità dei contenuti possibili. Una politica di "sinistra" può legittimamente significare oggi cose
assai diverse, talvolta addirittura contradditorie tra loro.
In particolare, sia in "sinistra" che in "centro" che in "destra" possono convivere (e, di fatto, convivono) i poli
dell’altra dimensione che caratterizza le scelte politiche ed elettorali dei cittadini italiani: l’antitesi tra "vecchio" e
"nuovo", tra "consenso" e "protesta".

A destra o a manca?
Gianni Riotta
Il futuro di Babbo Natale

La cosa piu' deprimente nel battage Destra-Sinistra in Italia e' la trasformazione del passato in idolo e l'indifferenza
per il futuro. Sono accadute buone cose negli ultimi anni, la diversa comprensione del fascismo (De Felice), lo
studio della destra conservatrice come sconfitta dal fascismo insieme alla sinistra (Foa), la considerazione della
Resistenza come divisione di guerra civile e la difficolta' conseguente dell'Italia di essere paese con valori condivisi
(Pavone e Galli della Loggia).
Senza questi studi, probabilmente, la trasformazione delle forze classiche di destra e sinistra, Pci e Msi, in Pds e
An, non si sarebbe determinata e la rispettiva maturazione "democratica" tarderebbe a compiersi.
Quel che e' pero' piu' importante, e che viene del tutto trascurato nella discussione, e' come "nuova destra" e "nuova
sinistra", l'una vincitrice delle elezioni '94, l'altra delle elezioni '96, possano affrontare il futuro. Da questo
passaggio dipende il nostro futuro, eppure non se ne parla.
Nelle democrazie occidentali, almeno dagli anni Venti, la vittoria e' costantemente andata a chi era in grado di
costruire coalizioni elettorali interclassiste. Il presidente Roosevelt aggancia operai, contadini, ceti urbani e
immigrati per il suo New Deal. I laburisti inglesi battono Churchill quanto uniscono la piccola e media borghesia,
stanca di guerra, ai sindacati. In Germania Adenauer cementa cristiani, anticomunisti, lavoratori e imprese: i
socialisti della Spd andranno al potere solo quando riusciranno a loro volta a duplicare questa coalizione, partendo
dalla base operaia.
In Italia e' la Dc ad avere dentro di se', chiavi in mano, la coalizione sociale. Le basta agganciarsi ai partiti di
coalizione, il Psi soprattutto dal centrosinistra in poi, per governare.
La ragione per cui questo schema non e' piu' riproducibile e' il mutamento sociale. La societa' dei servizi, che
produce informazione, non merci, crea un effetto clessidra. In alto chi ha il sapere, chi ce l'ha fatta. In basso chi
resta ai margini e decade.
Oggi Edward Luttwak, ex consigliere del presidente repubblicano Ronald Reagan, si dice convinto che presto negli
Stati Uniti tornera' il fascismo.
Letteralmente.
Finora era solo il linguista di sinistra Noam Chomsky a sostenere tesi analoghe. Se il reaganiano Luttwak lo imita e'
perche' gli fa paura la societa' divisa in due: che senso ha, si chiede, che io guadagni abbastanza per comprarmi una
Mercedes, se poi la parcheggio e me la ruba subito uno dei milioni di disoccupati?
Il profitto e' importante, dice il superfalco Luttwak, ma non serve se non creo, attraverso una redistribuzione del
reddito, le condizioni per godermelo.
Lo chiama dunque "turbocapitalismo", una societa' divisa in due, Alto-Basso. Difficile, impossibile, creare
"coalizioni". Vince chi pesca abbastanza elettori in Alto e Basso, per raggiungere il 51%. Piu' le due semisfere della
clessidra si allontanano, piu' sara' difficile.
La vera dialettica nel "turbocapitalismo" sfugge alla definizione classica di Destra e Sinistra, per passare (e' un
concetto su cui lavorano sia l'economista Mario Deaglio che il sociologo Arnaldo Bagnasco) alla dialettica
"inclusione-esclusione". Nel futuro la battaglia (io non credo affatto al fascismo incipiente di Luttwak, pur
bravissimo coniatore di slogan) sara' tra le forze politiche convinte che la via d'uscita sia l'inclusione di soggetti
nella maggioranza, il consenso per trovare soluzione nel micidiale mercato unico, e forze politiche che insistono
nell'esclusione, cercando la vittoria a danno degli avversari.
Come si deduce da questa favoletta:
il 25 di Dicembre, Babbo Natale sale su un autobus, dove viaggiano venti passeggeri. Dopo gli auguri Babbo
Natale dice "Ora io passero' tra voi il mio cappello rosso. Metteteci dentro diecimila lire a testa, se vi va, altrimenti
niente. Nessuno degli altri sapra' se mettete o no la banconota. Poi, per miracolo, io moltiplichero' il raccolto per
dieci e lo distribuiro' tra voi tutti. E, siccome e' Natale, avra' la sua parte anche chi non ha contribuito.
Pronti?"
Se ognuno mette diecimila lire il raccolto sara' duecentomila lire, moltiplicato da Babbo Natale a due milioni, con
guadagno per tutti. Messe diecimila lire, infatti, ogni passeggero incassa centomila lire. Guadagno novantamila.
Ma, ragiona un passeggero parsimonioso anche a Natale, se io non metto le diecimila lire, ne incassero' comunque
95.000: un migliore affare.
Giustissimo: ma se tutti i passeggeri ragioneranno come lui, Babbo Natale non avra' nulla da moltiplicare e
dividere. Capita la morale? Ognuno di noi dovra' fare una scelta analoga presto. Questo e' il futuro

A destra o a manca?
La telefonata di Renzo Arbore

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Vittorio Gregotti
Caro Di Pietro ti scrivo

Gentile Signor Ministro,

Non vi è dubbio che i problemi che riguardano le trasparenze degli appalti pubblici rappresentino una questione
importante, specie nella prospettiva di un ampliamento dell’intervento pubblico, e tutti riteniamo che è con questo
obiettivo che Lei è stato invitato a partecipare dal Governo quale Ministro dei Lavori Pubblici.
Tuttavia vorrei segnalare alla sua attenzione due questioni che mi sembrano altrettanto importanti: anzi, dal mio
punto di vista di architetto, assai più importanti. La moralità pubblica è solo la condizione necessaria a tali obiettivi.
L’architettura è un bene assai durevole ed i suoi effetti, positivi o negativi, sull’ambiente e sulle sue qualità,
tecniche ma soprattutto morfologiche, sono la testimonianza più importante che un gruppo sociale lascia al futuro.
Quindi il primo dei due obiettivi di cui voglio parlarle è quello della qualità dei manufatti che le istituzioni
pubbliche devono finalmente promuovere, qualità che deve anche servire di esempio e di indirizzo per i manufatti
privati: un compito a cui in questi quarant’anni il governo italiano è stato assai poco sensibile, specie se paragonato
a nazioni europee come la Francia e la Germania.
La questione della qualità architettonica dei manufatti non è un problema di gusti personali ma di confronto critico
con lo stato della cultura: di essa si può, quindi (anzi si deve), razionalmente discutere dotandosi degli strumenti
culturali adeguati per farlo.
Il problema della qualità architettonica è quindi anche un problema di istruzione generale come di preparazione
disciplinare specifica. E su queste due questioni molte sono le cose che il suo ministero può fare. Esiste in Italia,
come tutti sanno, una grande tradizione nel campo dell’architettura ma questo naturalmente non basta, anche se tale
tradizione ha costruito nei secoli un patrimonio che costituisce una grande ricchezza ed insieme un grande
problema, non solo per conservarlo ma soprattutto per utilizzarlo come elemento di forza delle nostre città e del
nostro territorio. Costruire qualitativamente (non solo sul piano tecnico, ciò che è naturalmente indispensabile)
significa dare nuova vita anche a quella tradizione. E ciò apre alla seconda questione, o meglio al secondo obiettivo.
Come è ormai da più di un secolo patrimonio comune, le questioni della qualità architettonica non si limitano certo
agli edifici, né solo ad alcune categorie di edifici. Essa è un problema globale che investe l’insieme dell’ambiente
fisico. "Tutto ciò che è visibile - diceva una grande personalità della storia dell’architettura più di un secolo fa -
appartiene al dominio dell’architettura" (e questo certo non significa solo alla categoria professionale degli
architetti). Rendere qualitativo tale ambiente significa sciogliere un enorme groviglio di contraddizioni sempre nel
nome della qualità: conservare, trasformare, migliorare funzionalmente l’ambiente fisico in nome della qualità è
quindi uno degli obiettivi principali del suo ministero.
Questo significa che strade, ponti, viadotti, ferrovie, fiumi, coste, foreste, insediamenti industriali, case sparse, non
meno delle vie di una città, non meno di una nuova università, sono protagoniste fondamentali del processo di
formazione della qualità ambientale.
Anche il solo progetto di riordino della condizione presente piuttosto disastrosa è già un compito immenso, poiché
tale riordino si compie solo attraverso progetti di mutamento adeguato e necessario capace di migliorare l’esistente
dialogando con esso. E questi sono attributi fondamentali della qualità del progetto architettonico. Naturalmente per
far questo è indispensabile rendere meno lunghi e tortuosi i cammini burocratici, renderli aperti, sicuri e trasparenti:
è necessario avere fiducia nei nuovi processi di programmazione urbana e territoriale, è necessario aprire più
concorsi pubblici aperti )in modo specifico ed adeguato rispetto alla complessità delle questioni) alle giovani
generazioni è necessario richiedere elaborati progettuali più moderni ed articolati, avere obiettivi certi sia sul piano
finanziario che su quello dei tempi, promuovere un rapporto tra progetto ed esecuzione che garantisca il primo
rispetto alle deformazioni del secondo ma anche che garantisca quest’ultimo con la completezza del primo; e molte
altre questioni potrebbero essere enumerate.
Tuttavia non bisogna dimenticare che questi sono solo strumenti, indispensabili ma strumenti e che l’obiettivo della
qualità architettonica e la discussione su che cosa essa debba essere come fatto e come processo è ciò per cui anche
il suo operato sarà giudicato.
Mario Deaglio
Lo specchio vuoto

A metà degli anni Ottanta, Ferruzzi, De Benedetti, Pirelli acquistavano imprese estere a piene mani e le grandi
riviste internazionali li mettevano in copertina, esaltando le virtù del "modello italiano" di impresa. Poi Ferruzzi
entrò in crisi, a De Benedetti fu impedito di acquistare il colosso belga SGB, Pirelli dovette cedere la sua
partecipazione nella tedesca Continental. E il "business" italiano - un aspetto importante dell’identità nazionale in
un sistema di mercato - ha subito un grave indebolimento generale.Le difficoltà di Ferruzzi si riflessero su
Montedison, costretta nel 1994 a vendere l’Erbamont a un gruppo svedese, il che decretò l’uscita dell’Italia dai
vertici dell’industria farmaceutica. Il settore materie plastiche, fiore all’occhiello della stessa Montedison è ora
italiano solo al 50% per cento; l’Enichem è stata ceduta a un gruppo tedesco. E per continuare con qualche esempio
tra i tanti, gli aperitivi sono passati pressochè tutti sotto controllo estero, come gli alberghi della CIGA e l’olio
Bertolli.

Pur dotata dei migliori cibi, vini e ingredienti alimentari, l’Italia non riesce a mettere insieme un’industria
alimentare di levatura mondiale e addirittura smantella quella che ha; pur disponendo di uno dei maggiori patrimoni
artistici e naturali del pianeta, è quasi assente dal turismo organizzato.
L’assenza italiana è evidente nell’informazione-spettacolo, dove Mediaset rimane largamente periferica rispetto
alla spettacolare riorganizzazione di questo settore in Europa, una riorganizzazione cruciale per l’assetto della
cultura di domani, ma non è certo l’unico caso.
Giova citare un piccolo, ma significativo episodio. La grande casa editrice olandese Elsevier, nota in tutto il mondo
per le sue edizioni tecnico-giuridiche, ha comprato il 60 per cento della Giuffré, piccola e prestigiosa casa editrice
milanese dello stesso settore: gli olandesi hanno una lingua più difficile e meno diffusa dell’italiano, eppure si son
scavati una solida nicchia nell’editoria mondiale, come del resto i tedeschi, altro popolo dalla lingua difficile.
Gli italiani non sono stati capaci di fare altrettanto. Sono troppo occupati ad autocontemplarsi, troppo convinti di
essere l’ombelico del mondo; i mezzi di informazione si ripiegano sul pettegolezzo politico per accorgersi di essere
ormai all’estrema periferia del mondo avanzato. Con le banche che non mettono più il naso fuori dai confini, i
laureati che proseguono gli studi all’estero, le contrattazioni di titoli italiani che passano sempre più frequentemente
da Parigi o Londra anzichè da Milano, l’Alitalia che appassisce nei cieli del mondo, è il concetto stesso di
"italianità", dal punto di vista economico, che viene messo in discussione.

A questo si aggiunge l’indebolimento culturale di un Paese che recepisce modelli dall’esterno ma è sempre meno
capace di far apprezzare all’estero idee, libri, opere d’arte e ricerca scientifica. Ormai, solo il design e il calcio
italiani hanno un corso veramente mondiale. E per quanto riguarda il calcio, la Nazionale attira sempre meno: ai
mondiali del ‘90 i tifosi al San Paolo la fischiarono nella partita contro l’Argentina, perchè lì giocava Diego
Armando Maradona.
Come si può vedere, il fenomeno Bossi si inquadra in una tendenza alla perdita di identità che ha radici lontane e
manifestazioni multiformi: se la Padania dovesse veramente prender corpo, quest’aridità culturale, che si traduce in
debolezza economica, ne costituirebbe la premessa appropriata

Gli italiani
Giorgio Casadio
Pedalare (W Maenza)

La sera dell’11 luglio 1982 l’unità d’Italia parve finalmente compiuta. Nelle fontane delle mille piazze italiane gli
italiani si bagnavano per festeggiare gli azzurri di Bearzot, freschissimi campioni del mondo di calcio, dopo il 3 a 1
alla Germania. Le strade di Castelfranco Veneto si mutarono in contenitori di folla festante non diversamente da
quanto accadeva a Lentini. In quella estate, sulla gran parte delle auto circolanti in Italia, e a maggior ragione, in
quelle che si aggiravano fuori dai confini, fece la sua comparsa, accanto alla targa, il tricolore. Vuoi sotto forma di
scudetto, vuoi sotto forma di bandierina, ma sempre tricolore. Se non ricordo male, perfino una nota marca di
brandy italiano, che fino alla vigilia della finalissima del Santiago Bernabeu aveva basato le sue fortune su una
campagna pubblicitaria rigidamente in inglese, avviò una repentina conversione al tricolore.

E ci fu chi, infastidito da quelli che considerava eccessi, si chiamò fuori dal coro, mettendo in guardia contro il
risorgere di rigurgiti nazionalisti. Forse che, nel ventennio, il regime fascista non aveva fatto proprie le vittorie
degli azzurri di Pozzo? Peccato che, nel giro di pochi giorni, le torme di nazionalisti se ne andarono in vacanza,
appagati del successo calcistico, ma già pronti a interessarsi d’altro. Con il fresco settembrino, il popolo del calcio
tornò a dividersi, ognuno per sè e Dio pure. Dimenticato l’azzurro tornarono di moda i colori dei club. E nella loro
accanita, insuperabile faziosità calcistica, gli italiani si ritrovarono uniti più che mai da quel mastice inattaccabile
che si chiama "Campionato". Quel grande Palio tra le contrade d’Italia vive di rivalità e antagonismi inconciliabili
che possono sfociare, come accade sempre più spesso, nella violenza; eppure, come accade in piccolo (mi
perdonino i senesi) nella città toscana, nulla è più unificante di quel crogiuolo di particolarismi esasperati.
Poche cose possono essere noiose in tv, come un gran premio di automobilismo. Soprattutto da alcuni anni, da
quando, per motivi misteriosi che sfuggono a noi profani, nessun pilota cerca più di sorpassare gli avversari.
Eppure, se la macchina rossa con il cavallino si avvicina alle posizioni di testa, l’auditel segnala un’impennata negli
ascolti. Ma la Ferrari, si può obiettare, conta migliaia di spasimanti anche fuori dei confini della penisola. Vero, è
facile trovare un tedesco o un francese, o chi vi pare, che tifa per le "rosse". Ma vi è mai capitato di incontrare un
italiano (sardo, romagnolo, piemontese, ecc. ecc.) che impazzisca per la Maclaren e per la Williams? Ovvio, no. Un
giorno di molti anni fa l’ingegner Ferrari (perchè non è mai diventato senatore a vita?) confidò che in certi momenti
di difficoltà stava per cedere alla tentazione di mollare tutto, solo l’entusiasmo che vedeva nel nostro paese attorno
alle sue auto gli impedì di compiere un simile sacrilegio.
Manca poco, quattro anni, poi il miracolo potrebbe ripetersi. Alle Olimpiadi del 2000 occhi puntati su una corsia
dei 200 metri piani. Ci sarà questa volta un ragazzo con la maglia azzurra? La stessa che indossarono a vent’anni
l’un dall’altro, Livio Berruti, elegante longilineo piemontese, e Pietro Mennea, piccolo grande uomo di Puglia.
Quelle due volate sono stampate nella memoria, la smorfia sul volto in quella curva interminabile, le braccia alzate
al cielo, il cuore in gola davanti al teleschermo. Si possono dividere, frammentare, ricordi del genere?
Per anni su un cartellone pubblicitario, sull’autostrada che porta dall’aeroporto di Fiumicino a Roma, è stata
visibile una scritta, ogni giorno più sfumata: "W Maenza e gli italiani della lotta". Maenza è uno scricciolo
romagnolo che è stato capace di vincere l’oro in due olimpiadi, in una disciplina cara a Garp ma ignota ai più.
Eppure, una mano ignota, dopo il secondo successo, passò una mano di vernice fresca su quella scritta. Solo i lavori
per i mondiali del ‘90 fecero sparire quel cartellone. Ma, forse non è un caso, quella era Italia di Tangentopoli.
In una recente intervista, l’ottantenne Gino Bartali ha confermato che nei giorni dell’attentato a Togliatti il
presidente del consiglio Alcide De Gasperi gli chiese di vincere al Tour. Doveva farlo, Gino, per salvare il suo
Paese dalla guerra civile. Gino vinse, e anche Togliatti, politico fine, apprezzò l’impresa e gli fece arrivare il suo
grazie. Ma quelli che oggi vogliono dividere l’Italia, hanno pensato a come la prenderebbe il vecchio campione?
Mah, se vogliono l’indipendenza vadano a guadagnarsela sul Vars o sull’Izoard...

Gli italiani
Alessandro Baricco
Le Pagine Gialle

Dice: dovresti scrivere qualcosa sui libri che uniscono gli italiani. Nel senso? I libri che uniscono gli italiani: che li
distinguono dal resto del mondo, e che ne fanno un Paese. Ah. Le Pagine Gialle, penso. Ma so che non è
precisamente quello che vogliono. Per quanto. Va be’, proviamo.
Le pagine Gialle. La novità è che adesso le farà anche Mondadori. Scatta la concorrenza pubblico-privato. Quasi
automaticamente scatterà un’escalation di imbecillità spettacolare. Tempo qualche anno e invece del tuo nome di
idraulico puro e semplice ti offriranno, per lo stesso prezzo, la possibilità di pubblicare una tua foto a colori con la
famiglia, un giudizio sul tuo lavoro firmato da Bevilacqua e un tuo pensiero virgolettato tipo "sereno nella
sconfitta, gradasso nella vittoria, stupefatto nel pareggio".
Ipromessisposidialessandromanzoni. Inflitto a tutti gli scolarizzati per una ragione sensata: era un modo di imparare
tutti la stessa lingua e diventare cosi nazione, e dunque italiani. Come gadget, regalava anche una certa fiducia nella
provvidenza indubbiamente utile per l’Italietta prima fascista e poi democristiana. Assolto il compito - assunto più
allegramente dalla televisione - è nondimeno rimasto al proprio posto, come un portiere fermo in porta dopo che da
ore si è già perso il pallone. Quando la si smetterà di considerarlo un totem si potrà tornare a leggere le sue pagine
più belle - anche strepitose, a volte - lasciare perdere il resto e studiare, se proprio si vuole capire cos’è il romanzo,
i francesi.
Tutto Pirandello. Nel vuoto più o meno reale della letteratura italiana a cavallo tra otto e novecento, una zattera di
salvataggio. Che sia teatro è un particolare trascurabile. Ma per noi italiani Pirandello è quello che ci ha permesso
di essere presenti nella collettiva acrobazia in cui si è esibita l’intelligenza europea nell’inaugurare quel nuovo
secolo che fra poco sarà vecchio. E poi: dal sedicenne coi problemi al settantenne definitivamente stanco, ce ne’è
per tutti: un indice del dolore, completo e formidabile.
Le Garzantine. Tutto il mondo per poche lire in cambio solo di qualche diottria. Enciclopedia compact: adesso è
banale, ma se pensi a quando l’hanno inventata è genio puro. L’unico libro che, in casa degli italiani, puoi trovare
indifferentemente a) in cucina, b) al cesso, c) insieme ai soldatini, d) tra i Tex. Comunque, lo si sarà notato, mai
nella libreria.
Cristo si è fermato a Eboli, i Malavoglia, Il barone, rampante, L’infinito di Leopardi, Paolo e Francesca (episodio
di una sitcom dantesca intitolata La Divina Commedia), Se questo è un uomo, SabaMontaleUngaretti. Dotazione
ufficiale dell’italiano scolarizzato. Con tutto il rispetto, ci vuole un ottimismo bestiale per credere che basti a
reggere l’onda d’urto della cultura di questo tempo e di questo mondo. Ma comunque, restano le armi ufficiali
dell’italica guerra contro l’ignoranza. Auguri.
TuttoGadda. Non importa se a conoscerlo è una minoranza di italiani. L’importante è che è degli italiani e solo
loro. Nessun traduttore e nessuna lingua saranno mai in grado di rubarcelo. Quella è roba per noi. E per sempre.
I libretti d’opera. La nostra letteratura Pulp: i librettini fatti di niente che svolazzano tra le cose lasciate dal nonno.
Roba vecchia, ma intanto com’è che ce l’hanno quasi tutti, in giro per casa? Lì sopra, tra l’altro, ci sono, messe in
rima, le radici della Nazione Italia: i libri erano noiosi, si è preferito custodire tutto in quei baracconi di spettacolo e
emozione. Decisione saggia: si sono ottenuti due risultati: convincere Angelo Guglielmi che gli italiani non sanno
scrivere romanzi, mettere in musica gli archivi dell’anima della nazione, rendendoli, cosi, indimenticabili.
Resterebbero gli album delle figurine Panini, Calvino, Buzzati, la Fallaci, i Bignami, Il nome della rosa, un po’ di
Moravia, i libri di storia di Montanelli, Frate Indovino, l’Atlante geografico De Agostini, le encicliche papali, la
Tamaro, De Crescenzo, Hermann Hesse, il Gabbiano Jonathan Livingstone, CarducciPascoliD’Annunzio... Fine
dello spazio, però. Un’altra volta, magari.

Gli italiani
Pierluigi Cerri
Che cosa divide i californiani

I primi segni di Los Angeles sono l’enormità del territorio e il groviglio autostradale. Una civiltà autocentrica che
fluidifica veicoli metallici in rivoli rettilenei o tortuosi con esasperante lentezza. Se avessero voce le parole guida
del codice stradale ridotte a sigle di consonanti imperative reciterebbero un poemetto beat. I primi segni di Los
Angeles, prima di capire dove sia Los Angeles, cosa sia la prediletta di Cedric Price, sono segni di inquietudine.
Los Angeles, luogo di nodi urbani e del laissez-faire, prima di lasciarsi scoprire ci mostra i segni del degrado
visivo, della contaminazione, del dissesto, dell’insopportabile opulenza, della drammatizzazione del nulla,
dell’occultamento del sublime nella pattumiera del banale. Niente pedoni, niente città visibile ma accentuazioni e
discontinuità: frammenti di figure virtuali proiettate dallo specchietto retrovisore del veicolo in corsa che si negano
a vicenda fluendo incessantemente così come schegge televisive.

Accentuazione e discontinuità: siamo attori di un charter iperrealista dentro la geometria infantile di una Reklam
Architektur, non più distratti da Similcase rosa + turchese, Palme, Oceano, Topolino, Strip, Valletti, Sushi Bar +
Limousine + Shopping Center, Microonde, Cinesi, Coreani, Nippo-messicani, Cupole, Lavaggi + Sale video,
Megainsegne, Grafica Suisse-California, Doppi Tubi di Scappamento, Frullati di Papaya, bizzarrie e stile
vernacolare-pittoresco eccetera. Tutto ciò è ormai nella coscienza dell’occhio di tutti (conosciamo Los Angeles,
Miami, New York e Singapore per assuefazione multimediale). Ora percepiamo un nuovo sistema di segni dove
invisibili ma impenetrabili confini delimitano i privilegi urbani e le porte dell’inferno. Del kitsch opulento e degli
estenuanti graffiti, conosciamo tutto da abbondante letteratura. Quando finalmente le tracce di un impianto urbano
simulano la città nei più minuti elementi costruttivi, ecco che, invece, siamo in un centro commerciale dove si
disvela la commedia dei pedoni che intrecciano la danza dello shopping. I costumi delle comparse, eccessivi e
segnaletici, il loro articolare frasi di conveniente stupore, l’artificialità del servizio in pompa magna, il nitore degli
sfondi scenografici sono l’identity design del luogo e del comportamento. Gli estranei al rito non sono pregati. Non
v’è traccia di homeless questuanti. Tutto è scritto sul manuale dell’immagine coordinata. I nuovi segni di Los
Angeles sono nell’aria, invisibili e provocano, nel viaggiatore curioso, un esaltante sentimento di disagio.
(Abitare - n. 329 - maggio 1994)
Maurizio Costanzo
Contemplare lo shaker

E’ difficile stabilire se la comunicazione televisiva in questi anni ha subito una evoluzione o una involuzione. E’
come la questione del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno: dipende dal convincimentodi chi lo osserva.
Certamente la comunicazione televisiva è cambiata contestualmente alla individuazione di uno specifico che via via
ha allontanato la televisione da altri generi costruendone uno proprio. Il flusso è ormai continuo ed è difficile
immaginare all’interno di questa comunicazione paletti, steccati o distinguo. E’ ancora una volta il telespettatore il
dominus che riesce, se riesce, a selezionare un proprio palinsesto. In realtà tutto è diventato comunicazione e molto
anche informazione pur se questa talvolta prospera tra le pieghe di programmi d’altro genere. Dal momento però
che i generi si sono contaminati l’un l’altro, è difficile garantirsi che le news siano soltanto news e il varietà
soltanto varietà. Chi studia comunicazione televisiva non può che analizzare l’insieme, cercando di individuare
all’interno del flusso alcune linee direttrici, alcune matrici che richiamano ad antiche denominazioni. La
comunicazione pubblicitaria in tutto questo è stata prima motivo di frammentazione e poi, almeno in alcuni casi, è
diventata tessuto connettivo. E’ sicuramente allarmante l’onda di piena del flusso continuo ma è altresì velleitario
pensare di interromperlo. Sarebbe già un successo riuscire ad analizzarlo fino in fondo per imparare a proteggerci,
data l’impossibilità di fermarla.
Aldo Grasso
Lo spettro della tv

Il libro più avvincente per capire quale rapporto intercorra oggi fra la cultura e la Tv lo ha scritto Maurizio Bettini,
che non è propriamente un esperto di televisione (un bel vantaggio), anzi insegna Filologia classica all'Università di
Siena e scrive come solo sapevano scrivere i grandi eruditi.
La via scelta da Bettini ne «I classici nell'età dell'indiscrezione» (Einaudi) è paradossale fin dal titolo: finge di
parlarci di classici, di autori dai lombi opimi, di cultura alta e invece, con sublime discrezione, ci impartisce una
gustosa lezione sul funzionamento degli archivi, dei computer, dei giornali, in particolare della Tv.
La quale Tv, come molti altri media, si regge su quattro fondamenti: i principi dell'occasione, della prosopopea,
dello sfizio e della casualità.

Principio dell'occasione. Il genere più praticato nei palinsesti televisivi è il talk show. Costa poco e si possono
tessere tante storie con la chiacchiera. Ma il talk show è anche il paradigma più felice di un bisogno antico e
insieme modernissimo, il consumo informativo: «Trasformare il mondo in tema di discorso, costituisce
un'operazione tanto facile quanto inesauribile. Basta creare l'"occasione" per parlare di una qualsiasi cosa, e il gioco
è fatt, l'informazione è suscitata». I grandi maestri del talk show non si preoccupano dunque di confezionare menu
di argomenti («oggi parliamo di ...») quanto piuttosto di vagliare i casi umani che incarnano iltema («c'è un bel
malato terminale disposto a venire in trasmissione e quindi parliamo di ...»). Per discorsivizzare la storia lo
strumento più idoneo è il calendario; sfogliandolo, si creano infinite possibilità di eventi e di anniversari.

Principio della prosopopea. Se chiedete a una persona di buone letture quale sia il programma culturale preferito
vi risponderà subito Piero Angela. Ma Angela non è un programma, è una persona. Il fatto è che noi abbiamo
bisogno di «personificare», di dare un volto alle miriadi di informazioni che scorrono sullo schermo. Non ci
interessano la musica, la fisica, i neutroni, le cellule, l'ideologia, la filologia; siamo soltanto attratti dal volto che
interpreta quell'idea o quel commento. Prosopopea, appunto, che è una celebre figura retorica, un artificio del
discorso che consente di dare audio e video a esseri inanimati. «La Tv funziona come un'unica, inesauribile
prosopopea. Nella cultura di tipo televisivo i fatti e le idee sono importanti, certamente, ma più ancora lo sono i
loro protagonisti». C'è il sospetto che anche buona parte dell'editoria funzioni così, ma c'è l'assoluta certezza che
biblioteche, archivi, repertoriuniversali si stiano trasformando in ville arzille dell'opinione e in centri di raccolta per
figuranti del pensiero televisivo.

Principio dello sfizio. Solo quando un tema culturale raggiunge il grado di «sfiziosità», riesce a varcare la soglia
del palcoscenico; altrimenti è giusto che dorma il sonno eterno dell'anonimato. Dopo aver scandagliato l'etimo
incerto di sfizio («provare dei battiti»), Bettini sancisce la norma metodologica: «Nel lessico televisivo, lo "sfizio"
si chiama "battuta". Parola fra le più ricorrenti in Tv, usata preferibilmente nel sintagma "ci dica in una battuta" e
capace di trasformare in sfizio, ovviamente da cavare, anche gli argomenti più dannatamente aggrovigliati di questo
mondo. L'anchorman di turno verisimilmente non lo sa, ma nel preciso istante in cui pronuncia questa espressione
("Professor Maritain, in una battuta, ci può dimostrare l'esistenza di Dio?") si comporta come una signora incinta
che sente desiderio di fois gras al buffet della stazione». Ecco, sapevamo come funzionassero le interviste televisive
ma non eravamo capaci di definirle: sfiziose.

Principio dell casualità. Tali sono gli argomenti importanti che incombono, tanti i personaggi pronti a
interpretarli, che duriamo fatica a stabilire quali siano più interessanti e quali meno: «Il grande archivio è talmente
grande che inocula la paralisi nei suoi propri fruitori. Siamo tutti alla ricerca di ciò che può essre definito un "buon
motivo" per scegliere una cosa al posto di un'altra». Per fortuna è stato inventato il telecomando, che è come una
retina per le farfalle. Leggiadramente libriamo lo strumento nell'aria in attesa di catturare preziosi esemplari.
Tuttavia la metafora butterfly dura poco perché i media conoscono un solo modo per frenare la frenesia del
telecomando: il pugno in faccia, il colpo allo stomaco. Solo ciò che ci colpisce attira la nostra attenzione: una volta
si scopre che Don Giovanni è omosessuale, un'altra che Omero è donna, un'altra ancora che Stefano Zecchi sa
scrivere un libro. Sono tutte invenzioni, supposizioni, ardite congetture eppure senza questi colpi proibiti il
telecomando continuerebbe a mulinare nell'etere.

Indiscrezione rima con televisione. Viviamo dunque in un epoca in cui la riservatezza non è più una virtù,
costituisce anzi un ostacolo alla messa in discorso del mondo, al gossip continuo. Persino i classici, i libri dei libri,
sono diventati in modo insospettabile ciarlieri, presenzialisti, brillanti. Chissà che non abbia ragione Bettini quando
indica in Sisifo il modello comportamentale di ogni moderna attività mediatica: più ti informi e più il sasso del
sapere, giunto alla sommità, rotola giù. Rotola, rotola, strada facendo rotola ...
Dieci anagrammi in linea
a cura di Stefano Bartezzaghi

Ognuna delle seguenti strofette, il cui valore poetico è letteralmente inqualificabile, contiene una sequenza cifrata
di sei lettere (in un caso le sequenze sono due). Sono anagrammi: le sei lettere sono sempre le stesse, diversamente
distribuite e spaziate. Sono anche dieci variazioni sul tema che è enunciato nell’ultima quartina.
Le due sequenze della quartina 2 sono state rese entrambe tronche (in due sensi diversi della parola "tronco"), una
per motivi di anagramma e l’altra per motivi di rima.
La sequenza cifrata nella quartina 5 non è in italiano, e la si ricava solo introducendo di straforo un particolare
segno diacritico.
La sequenza cifrata nella quartina 10 fino a qualche anno fa non era in italiano: oggi è da considerarsi cosmopolita,
come del resto il fenomeno a cui si riferisce (e il canale che, hic et nunc, gli sta consentendo di riferirsi ad esso).

1. NATURALISMO 2. ELOGIO AL CAPO

L’acribia ho di un Linceo, Bolscevico è il tuo fin


di tassonomie mi beo. e il coraggio hai xxxxxx.
Tu studiato m’hai al liceo: Hai ispirato Ho Chi Minh:
sono il celebre Xxxxxx. o Vladimir! x Xxxxx!

3. CARENZA PATRIOTTICA 4. I MIEI CARI


ELETTRODOMESTICI
Il cantar non è concinno
e t’ispira un gran cachinno. Nel mio frigo ci sta il frèon.
Del tuo riso ecco il tintinno Nella lampada c’è xx xxxx.
di Mameli questo x x’Xxxx.
6. DOLCE VITA 2000
5. BOSS UMBRO-ISPANICO
Della fine del millenio
Teneva in pugno Foligno, che direbbe, fra un quattrennio
somigliava a Lou Ferrigno (come dir: doppio biennio)
ma era dolce il suo sogghigno. il Flaiano, ovvero x’Xxxxx ?
Lo chiamavan tutti "xx Xxxx".
8. DOVE STA ZIZI’ ?
7. CAMPO SEMANTICO
Non l’ho visto lunedì:
(Sost. masch. plur. pop. volg.): papponi. l’ho cercato al duty free
(Pop. volg. evit.): magnaccioni. (patrimoni pei taxi):
(Agg. spreg. accresc.): ruffianoni. non è qui, e xxx x xx.
(Meno volgarm., des.): xxxxxx.
10 GRANDE COME IL MONDO
9. … SA CHI SONO IO
Metafisica e design.
"Non suo pari, son: cafón. Indonesia e Lichtenstèin.
Non son sig.: son prof., son on. ! Pornodive ed Einstèin.
Con me usi più bon ton, Siamo tutti qua, xx xxxx.
sennò incomincio: Xxx xxx …"

Soluzioni

1. Linneo
2. leonin / o Lenin
3. è l'Inno
4. il neon
5. el Niño
6. l'Ennio
7. lenoni
8. non è lì
9. Lei non
10. on line
Disposizioni transitorie
Giovanna Grignaffini

Sarà per quelle disposizioni transitorie che - come ci informano i commessi - consentono ad ogni deputato di
scegliere liberamente il proprio posto nell'emiciclo: "I posti definitivi saranno assegnati in seguito".
Sarà per quel riflesso condizionato che porta ciascuno di noi a ritornare nel luogo in cui è già stato.
Sarà per il loro indomito attaccamento all'idea di essere ancora maggioranza del Paese. Oppure per la nostra
vocazione ad esserne per sempre la minoranza più combattiva.
Il fatto è che il giorno dell'elezione del suo Presidente, nello spazio simbolico della Camera dei Deputati, si realizza
il primo vistoso rovesciamento del risultato elettorale.
Loro infatti, malgrado la sconfitta e il conseguente ridimensionamento, continuano ad occupare quasi i 2/3
dell'intero emiciclo. Noi, i 324 della nuova maggioranza, ci stringiamo nell'esiguo spicchio d'Aula tradizionalmente
assegnato all'opposizione.
Loro sono disposti a macchia: piccoli gruppi che si tengono a distanza, molti posti liberi e intere file deserte.
Noi rinserriamo compatti le fila: gomito contro gomito, almeno due per sedile, nessun vuoto tra noi, neppure lungo
le scale.
Ma non c'è tensione nell'aria. I piccoli gruppi non sono d'assalto: solo un po' attoniti e dispersi. La folla compatta
non sbanda e preme. Anzi, trasmette all'intera assemblea la propria interna compostezza insieme al senso di un
ordine finalmente ritrovato.
Domina, su tutto, il colore grigio-verde dell'ulivo. Senza inquietudini e sfumature.
Chissà se riusciremo a rovesciare quel sentimento comune che assegna a ciascuno di noi la propria storia come
destino.
Chissà se, rotto questo primo vincolo, noi riusciremo a muoverci con libertà e loro a ritrovare le ragioni dell'unione.
O ci disperderemo, tutti, come foglie al vento.
Per il momento il verde pallido e composto dell'ulivo smorza ogni nota dissonante di colore, ma le disposizioni
permangono transitorie.
L'esercito delle 12 scimmie
a cura di Rossana di Fazio

Questione di botteghino, di strategie di mercato in grado di mettere insieme un regista vivace (Terry Gilliam), un
cast di successo (Bruce Willis, Brad Pitt), un racconto avventuroso che parla di un futuro non lontanissimo e
fatalmente condizionato dall'oggi. Dell' Esercito delle 12 scimmie parlano e parleranno in molti.

Da Ritorno al futuro di Zemeckis (1984) a Pulp Fiction di Quentin Tarantino il cinema interroga con ostinazione il
Tempo. Nell' Esercito delle 12 scimmie il futuro è solo un pretesto per parlare del Tempo: non quello che riguarda
l'intreccio del racconto cinematografico, cioè la sua organizzazione, come nel caso di Pulp Fiction, ma il Tempo
come argomento. La vera macchina del tempo non è il trabiccolo di cellophane a sensori nel quale James Cole
(Bruce Willis) viene infilato, ma James stesso, ed è importante che ciascun viaggio, immateriale e improvviso, lo
porti a destinazione sempre ammaccato e infreddolito, con il sangue alla bocca, gettato nel Tempo con un corpo che
si fa male. E' un livello fisico che compensa la disinvoltura con cui si racconta uno spostamento così fantastico e
che traduce sul corpo e sulla testa rasata (ormai attributo tradizionale del prigioniero, molto adatta a esprimere un
grado zero dell'essere umano) lo shock psicologico di una esperienza insostenibile e innaturale.
Questo suo essere scaraventato avanti e indietro esprime efficacemente lo stato d’animo di un soggetto che fatica a
coincidere con l’imbuto cronologico della biografia individuale e una dimensione mentale del Tempo ampia e
discontinua, non lineare, che appartiene alla sensibilità contemporanea e che si sperimenta anche (forse da sempre)
nel sogno.
Forse per esprimere questa sensibilità si ricorre nel film ripetutamente alla figura onirica. Cole dubita della realtà di
quel che gli accade; ha poi un sogno ricorrente che coincide con un ricordo e insieme anticipa l'evento finale; in
modo non banale l'epilogo del film ammette che quella rimozione della morte era necessaria, rispettando una delle
regole del sogno.
Questo ricorso alla dimensione onirica ha una sua espressione formale. Nel primo tempo del film il punto di vista
della macchina da presa non rispetta mai una prospettiva centrale e fa ruotare gli assi orizzontali e verticali
ricercando uno straniamento spaziale molto accentuato, spesso alle spalle di primi piani su James; così, in assenza
di spazi intermedi fra il primo piano e l'orizzonte, lo spazio tridimensionale si schiaccia sullo schermo e genera
visioni bidimensionali, rese mutevoli e dinamiche dal ritmo incalzante del montaggio che associa prospettive
sull'azione molto diversificate, ma sempre eccentriche. Il punto di vista sull'azione torna regolare solo quando nello
schermo ci sono i tutori dell'ordine e quei personaggi che agiscono in una realtà normale, in una dimensione spazio
temporale uniforme.
La specialità dell'esperienza di James Cole si esprime dunque attraverso un'alterazione dell'immagine
cinematografica, come accade, generalmente, quando il racconto deve segnalare attraverso varie soluzioni (flou, b/
n, dissolvenze, etc) la differenza fra situazioni spazio temporali che spostano avanti (prefigurazione), indietro
(ricordo) o altrove (sogno) il qui e ora del racconto.
Tutte queste faccende sono state ripetutamente oggetto di racconto e di soluzioni interessanti, così come Gilliam e
David e Janet Peoples (già sceneggiatori di Blade Runner,1982 ) volentieri mescolano situazioni tipiche di molti
generi cinematografici secondo una poetica della contaminazione che conta anche diversi anni.
Niente di troppo nuovo, insomma, se è al nuovo che aspiriamo, se non fosse che quel racconto di andirivieni dal
passato sta perfettamente in piedi, che il finale si giustifica completamente, senza alcuna concezione al paradosso
gratuito, come raramente accade.
Il fatto è che il film è proprio bello quando diventa tanto simile al sogno: quando fa incontrare anche sul piano dello
Spazio oggetti ed esseri che appartengono a universi non attigui; è bello quando mostra in un grande magazzino
abbandonato come una rovina, una vetrina piena di scarpe da donna interessanti e straniate come reperti
archeologici; è bello quando fa percorrere lo spazio della metropoli dagli animali della savana, arcaici, pericolosi,
liberi, enormi; quando sulla cima dei palazzi si aggirano i leoni e vagano gli orsi.
Gilliam introduce queste visioni all'inizio del film, in una città monocolore e contaminata, e queste belve sembrano
gli ultimi esseri viventi di un cimitero. Ripropone questa visione degli animali in città nel secondo tempo del film, e
ne dà una spiegazione narrativa. La liberazione di elefanti, giraffe, aironi è così spettacolare, gratuita, secondo una
prospettiva rigidamente narrativa, e straordinaria come visione da svolgere essa stessa per lo spettatore una
funzione onirica.
Quelle dodici scimmie innocenti della catastrofe (che in un certo senso non giustificherebbero il titolo del film)
hanno rotto le gabbie, forzato le barriere ripetutamente ostentate nel film, liberato gli animali reali contro tutti gli
animali dei cartoons, o quelli fotografati, resi oggetto di pubblicità quando non torturati, sparsi da Gilliam in tutti
gli ambienti del film.
Si genera così una visione che suscita stupore e meraviglia, poiché associa universi difficilmente conciliabili e
rimette in circolazione quegli animali, arcaici, straniati e fortemente simbolici nella vita degli spettatori.
Nella scena che si svolge al cinema si parla, mi pare, di questa funzione del cinema: i due protagonisti scelgono il
buio di una sala cinematografica per travestirsi, mentre sullo schermo scorrono le immagini di Vertigo (La donna
che visse due volte, 1958) di Alfred Hitchcock. E' una scena del primo tempo del film, quella che precede la finta
morte di Madelaine (Kim Novak), il cui travestimento inganna in questa fase tanto James Stewart quanto lo
spettatore.
Questo travestimento parallelo è, aldiqua e aldilà dello schermo, necessario, tanto per Madelaine, ormai vittima del
proprio travestimento, quanto per i protagonisti del film, che si mascherano per sfuggire all'inseguimento, ma
assumono le identità del sogno fatale.
Quello stesso credere e travestirsi è però necessario anche allo spettatore che conosce le regole della fiction e della
messa in scena, ma desidera assumere anche identità altrui e chiede al cinema di essere nutrito di visioni e figure
che entrino a far parte di sé, che siano in grado per qualche strada di risvegliare e ripopolare il suo proprio zoo di
immagini sempre presenti, l'immaginario, appunto.
Beni culturali
Carlo Bertelli

"Per la prima volta dopo 50 anni, ha detto Citto Maselli all’incontro dell’ANAC con il ministro Walter Veltroni,
l’Italia ha un governo che corrisponde alle aspettative della maggioranza di noi", penso riferendosi al mondo del
cinema. Certo il giovane ministro Veltroni ha, nel campo dei cosiddetti beni culturali, una responsabilità che nessun
predecessore ha avuto. Ma anche grandi vantaggi. Primo, il ministero è sempre stato una pausa in una carriera
tumultuosa, oppure un’occasione di promozione. E’ stato sempre un luogo d’immagine. Ricordate i voli in
elicottero del fondatore Giovanni Spadolini? Le eliche resistettero al peso e lo portarono vicino alla presidenza
della repubblica. Dunque, per prima cosa, Veltroni non ha bisogno di autopromozioni. Anzi il suo posto di vice-
presidente del consiglio gli dà la possibilità di impostare la politica dei beni culturali (che è cosa diversa dalla
sola"cultura") come parte integrante di un progetto politico.
I suoi predecessori sono stati assillati dalla brevità del mandato. Se tutto andrà bene, Veltroni starà alla testa del
dicastero cinque anni. Chi l’ha preceduto ha dovuto rispondere all’urgenza. Talvolta trovando anche il tempo per
lanciare il sasso al dilà della siepe. Come fece Vincenzo Scotti con l’importante legge 512, che però da allora
aspetta il regolamento, superati gli ostacoli che frappone il ministero delle Finanze.
Anche il ministro Veltroni sarà incalzato, in questi mesi, dalle molte urgenze. Credo che riuscirà ad affrontarle
meglio se al più presto traccerà un indirizzo e darà segnali di un disegno più ampio. Immaginiamo, per esempio,
che dichiari che mai il suo ufficio si arrenderà alle proposte di condono come sanatoria alle violazioni delle leggi
urbanistiche e alla distruzione del nostro paesaggio.
I beni culturali sono una stratificazione che si è formata assai prima dell’unificazione politica del territorio e hanno
forte l’impronta della loro lunga gestazione. Qui il problema della regionalizzazione e del coordinamento delle
forze attive sul territorio s’impone. Sarebbe un vero guaio se fosse letto in senso burocratico, con passaggi di
deleghe e non con la formazione, innazi tutto degli strumenti locali qualificati e democratici, in breve della
impostazione alle regioni di formare i consigli dei beni culturali, elettivi e rappresentativi, sul modello del consiglio
nazionale.
Forse nessuno ha detto al ministro che vi sono in tutta Italia solo due scuole di restauro dello Stato e che un giovane
di Bergamo che voglia studiare in un istituto privato di Firenze paga nove milioni l’anno di retta. Solo di retta.
Modificare le storture cui ha portato l’accentramento operato dai ministri De Vecchi e Bottai sarà un compito
doveroso anche se arduo. Reso certo più pesante dalle recenti rivalutazioni di un passato che resta anche sotto
questi aspetti da criticare.
Fumetti
a cura di Comix

Quino Kama & Seele Ciaci


Comix Home Page
Direttore:
Danco Singer

Hanno collaborato:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Mario Deaglio, Giovanna Grignaffini, Vittorio Gregotti, Maurizio Costanzo, Rossana
Di Fazio, Giorgio Casadio, Aldo Grasso, Pierluigi Cerri, Renato Mannheimer, Alessandro Baricco, Renzo Arbore,
Stefano Bartezzaghi, Altan, Carlo Bertelli, COMIX.

Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti

Redazione:
Margherita Marcheselli, Moreno Naldi, Massimo Amato e Francesca Poppi

Software:

Opera Multimedia Stylo


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