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Potrete così raggiungere tutti gli articoli pubblicati precedentemente, mentre troverete sempre il
Golem attuale nel "Presente".
Presentazione
Furio Colombo
Vivere senza regole
Roberto Maragliano
Videogiochi per analfabeti
Sylvie Coyaud
La scienza senza regole nè regoli
Aldo Grasso
Per un servizio pubblico perfetto
Paolo Palazzi
Economia, scienza divina
Carlo Boccadoro
Bach e la viabilità
Gianni Granata
Aristotele veleggia su Internet
Giuseppe Pontiggia
Decalogo della società letteraria
Giochi politici
Stefano Bartezzaghi
Dal dado di Giulio Cesare al flipper di Fabio Mussi
Campus di tensioni
Domenico Fiormonte
L'Università, serva del paradosso
Sala giochi
Umberto Eco
Esercizi tipografici
Soluzioni dell'Autogolem n. 15
In miniera
Guarda la fotografia:
Lo sguardo remoto del Prof. Di Bella
Marco Belpoliti
Liam Email
Se la gatta va al lardo
Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Walter Fontana
Battute fuori tempo
Cinzia Leone
Il diamante dell'Haganah
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Perdono
Ugo Volli
Identità a confronto
Riccardo Di Segni
Sul perdono
Giampaolo Urso
Il concetto di purificazione nella polemica anticristiana
La nuova scuola
Franco Cardini
Su una commedia degli equivoci
Paolo Palazzi
Se 35 ore vi sembran poche
Claudia Winkler
Il Nuovo Rinascimento
Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Francesco Siliato
Un medium saturo
Sala giochi
Forum: Giochiamo!
Rubriche
Arte:
Luca Beltrami e Milano
Carlo Bertelli
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Donne di potere o del potere
Roberta Ribali
Musica:
Spirito e Materia
Roberto Caselli
Science-links:
Il mago Leonardo, i conigli e i sospetti infondati
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Barriere
Furio Colombo
Secessione
Valentina Pisanty
La negazione della Shoah
Massimo Ghirelli
Immigrati e malattie: epidemia di pregiudizi
David Meghnagi
Pluralità e diversità
Ugo Pirro
La "finzione" della Rai
Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Umberto Eco
Come salvare capra e tavoli
Forum: Giochiamo!
Rubriche
Arte:
Protagonismi
Carlo Bertelli
Links:
E' possibile una biblioteca multimediale? (3)
Giulio Blasi
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Paure collettive
Roberta Ribali
Film:
Dall'idea al film (Tano da morire)
Rossana Di Fazio
Musica:
Strano come gira il mondo
Roberto Caselli
Science-links:
Che tempo fa?
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Ugo Volli
Giustizia
Fabrizio Tenna
Caro Palazzi
Paolo Palazzi
Replica
Paolo Palazzi
Finanziamento pubblico della scuola privata
Ugo Pirro
Dopo Hitchcock
Beppe Severgnini
I rinonauti
Links d'estate
Redazione
Rubriche
Arte:
L'Asso portante di Milano
Carlo Bertelli
Parlamento:
Dialogo tra un deputato e un collegio
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Andare dallo Psicoterapeuta
Roberta Ribali
Film:
Postazioni (Trees Lounge)
Rossana Di Fazio
Musica:
Omaggi
Roberto Caselli
Science-links:
Statistica
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Sala giochi
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Furio Colombo
Messaggi
Ugo Volli
Giusti Poteri
Carlo Donolo
Deformare le istituzioni
Beppe Severgnini
Un caso clinico-storico-comico-mistico-magico
Premessa
Carlo De Benedetti
Questioni di budget
Antonio Martino
Ancora sull'occupazione
Paolo Palazzi
Welfare, domanda sociale e spesa sociale
Giornali e giornalisti
Maurizio Chierici
Decalogo
Piero De Chiara
Una rivoluzione senza contenuti
Dino Lorimer
Webgrafia ragionata
Ruggero Pierantoni
Passione e morte della terza dimensione
La nuova scuola
Domenico Parisi
Quali sono i veri problemi della scuola?
Peppino Ortoleva
Educazione e formazione continua nell'età digitale
Franco Recanatesi
Che giorno è?
Rubriche
Arte:
I tesori del monte Athos
Carlo Bertelli
Links:
E' possibile una biblioteca multimediale? (2)
Giulio Blasi
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Media e tabù
Roberta Ribali
Film:
Perversioni femminili e non
Rossana Di Fazio
Musica:
Operazione nostalgia
Roberto Caselli
Science-links:
L'evoluzione
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Sala giochi
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Sylvie Coyaud
Farsi capire
Renato Giannetti
Promemoria con divagazioni
Giancarlo Scarpari
In nota a Ruggiano
Forum: Scienze, libertà, società
Globalizzazione e disoccupazione
Paolo Palazzi
La politica
Aldo Grasso
Immortalità della televisione
Renato Mannheimer
Sondati
David Meghnagi
Distinguere
Italia 1938
Le leggi razziali
Università
Domenico Fiormonte
Italiano in campus
Rubriche
Arte:
Les Immortels
Carlo Bertelli
Links:
E’ possibile una Biblioteca Multimediale?
Giulio Blasi
Parlamento:
Per forza e per amore
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Sessualità dopo i 40
Roberta Ribali
Film:
Nuvole in viaggio
Rossana Di Fazio
Musica:
Jimi
Roberto Caselli
Science-links:
La complessità
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Sala giochi
Marco Sabatini
G.i.o.c.h.i.
Forum: Giochiamo in rete
Forum: Acrostici
Colophon
Presentazione
Giornali e giornalisti
Umberto Eco
Non scrivete sui giornali: nessuno se ne accorge
Antonio Calabrò
Il "mestiere" del giornalista
Oliviero La Stella
Catena di montaggio
Anna Masera
La battuta pronta
Proposte di legge
Globalizzazione e disoccupazione
Paolo Palazzi
L'utopia
Antonio Martino
Ruspe, pale, cucchiaini
Università
Giovanni Bachelet
No, questa legge no!
Maurizio Bettini
I misteri di Eleusi
Aldo Schiavone
Le buone intenzioni
Ugo Pirro
Il tempo segmentato
Carlo Bertelli
Golem d'aprile
Ranieri Polese
L'Oscar, Sanremo e la democrazia
Rubriche
Arte:
Olfatto e conoscenza
Carlo Bertelli
Links:
Thesauri ad hoc...
Giulio Blasi
Parlamento:
Il nome della cosa
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Biotechfobia
Roberta Ribali
Film:
Una storia troppo semplice
Rossana Di Fazio
Musica:
Appendi lo scettro al chiodo
Roberto Caselli
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Sala giochi
Presentazione
Umberto Eco
L'Opus Dei smentisce che io sia l'Anticristo!
La proposta Berlinguer
Franco Cardini
Alcuni ingenerosi e tendenziosi rilievi
Domenico Starnone
E il piacere?
Collettivo del Liceo Tasso, Roma
Contraddizioni e ambiguità
Giulio Blasi
Links: 1000 miliardi per le scuole.....
Enzo Restagno
La musica all’ombra dell’Ulivo
Carlo Bertelli
Via col vento
Aldo Grasso
Considerazioni di un impolitico sulla Rai
Furio Colombo
Rappresentare i giovani
Ranieri Polese
Ricordo di Sanremo
Danco Singer
Opinioni
Le risposte
Sala giochi
Rubriche
Parlamento:
Doppio Sogno
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Musica:
Tempo e denaro
Roberto Caselli
Film:
Premesse?
Rossana Di Fazio
Fumetti
a cura di Comix
Forum: Pollicino
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Renato Ruggiero
"Paese miope..."
(Corriere della Sera 29/12/96)
Paolo Fulci
Prospettive
Piero Sansonetti
"Il giornalismo italiano è provinciale"
(intervista a cura di Mario Calabresi)
Lucio Caracciolo
Europa: un futuro che non c'è
Antonio Martino
Che succede in Europa?
Mario Deaglio
L’Europa necessaria
Alberto Flores
Il piccolo mondo dei media italiani
Beppe Servegnini
Il "sistema operativo" del mondo
Rocco Cotroneo
Tecnoglobali, ma non tutti uguali
Stefano Cingolani
Livelli di realtà
Aldo Grasso
Il sogno sognato di una televisione europea
Ranieri Polese
Rendersi invisibili: il cinema italiano in Francia
Furio Colombo
Globalizzazione?
Intervista a
Francesco Chirichigno, Silvio Scaglia, Ernesto Pascale
Gianni Granata
La rete replica
Carlo De Benedetti
Radici
Giancarlo Bosetti
Goldhagen: gli Attori della Storia.
Rubriche
Arte:
Chimere: cronache sul mito del Museo Autonomo
Carlo Bertelli
Parlamento:
Domani accadrà
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Musica:
Per Luigi Tenco
Roberto Caselli
Film:
Paragoni
Rossana Di Fazio
Fumetti
a cura di Comix
Links:
Locale e globale su Internet
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Quale '97?
Umberto Eco
Gioco di famiglie (per tutti)
Forum: Giochiamo in rete
Giulio Sapelli
Alto e Basso capitalismo
Edward Luttwak
La Sindrome della Banca Centrale
Aldo Grasso
Sciopero: volontà o rappresentazione?
Renato Mannheimer
Simboli e opinione pubblica
Furio Colombo
Riflessioni sul Forum
Rubriche
Arte:
Verdi, moderni o contemporanei
Carlo Bertelli
Parlamento:
Miseria e nobiltà
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Musica:
L’affare Beatles
Roberto Caselli
Film:
Libere associazioni
Rossana di Fazio
Fumetti
a cura di Comix
Links:
Un Capodanno digitale
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Furio Colombo
Le Tribù giovani
Paolo Palazzi
Fame e Democrazia
Vittorio Gregotti
Lettera al Ministro per i Beni Culturali
Ranieri Polese
Le riscoperte di Liberal
Gianni Granata
Chi legge Golem (come e quando)
Aldo Grasso
Riflessioni per un libro. Anzi due, o forse tre.
Maurizio Costanzo
Ad Aldo Grasso
Aldo Grasso
Replica
Riccardo Bocca
Commento (05/12/96)
Rubriche
Arte:
Sacre uova
Carlo Bertelli
Parlamento:
Dieci incredibili giorni
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Musica:
L'anima del commercio
Roberto Caselli
Film:
Riflessi di un romanzo: Ritratto di signora
Rossana di Fazio
Turismo:
Sorprese dal Golfo
Silvana Rizzi
Fumetti
di Comix
Links:
Oltre il web
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Renato Mannheimer
Principi ricostituenti
Mario Deaglio
Capitalismo italiano: crisi di sistema
Forum: Capitalismo Impossibile
Giuseppe Turani
Tangentopoli 2: la vendetta
Blob Gradara
di Marco Giusti
Raffaele Simone
Sei Sapienze
Ranieri Polese
Bell'Europa
Aldo Grasso
No comment
Adriano Sansa
Genova, la realtà irrilevante
Giochi:
Rime esagerate
Umberto Eco
Parlamento:
Come le foglie
Giovanna Grignaffini
Film:
Un matriarcato piccolo piccolo
Rossana Di Fazio
Arte:
Per Antonio Cederna
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix
Links:
Atenei nella rete
Giulio Blasi
Musica:
Il prezzo, il valore, il diritto
Roberto Caselli
Fuori porta:
Ritorno al Frutteto
Caterina Zaina
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Il giornale sincero
Danco Singer
Il dibattito continua
Il punto sul dibattito e tre nuovi interventi per Golem
di Vittorio Feltri, Ferdinando Adornato e Enzo Biagi.
Umberto Eco
Caro Sisifo
Furio Colombo
Fuga dalla rilevanza
Renato Mannheimer
Sondati
Estate
Ranieri Polese
Istruite Istruzioni
Aldo Grasso
A ciascuno il suo mezzo
Danco Singer
Progetto
Rubriche
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Parlamento:
Un tranquillo venerdì di paura
Giovanna Grignaffini
Film:
L’aria addosso
Rossana Di Fazio
Arte:
Fermo-immagine
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix
Links:
Internet e gli altri
Giulio Blasi
Musica:
Carillon Stars
Roberto Caselli
Colophon
Presentazione
Il giornale sincero
Gianni Riotta
Sisifo on-line
Senza lavoro
Nano Blob
di Marco Giusti Antonio Martino
Perchè disoccupati?
Aldo Grasso
Sacchi è un capro?
Giorgio Casadio
La rovina dei romagnoli
Le poesie
di Alda Merini
Vittorio Gregotti
Comunicare o proporre
Aldo Schiavone
Ancora sui concorsi
Ranieri Polese
Cine-estate
Duello
Carlo Bertelli
Musei a tre forchette?
Adriano Agnati
Perché no?
Oylem Goylem
di Moni Ovadia Rubriche
Giochi:
Addio my darling
Stefano Bartezzaghi
Parlamento:
Deputati e no
Giovanna Grignaffini
Film:
Sorrisi e crucci
Rossana Di Fazio
Arte:
Strade interrotte, strade aperte
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix
Links:
Informazione (personalizzata) sul WWW
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Cattedra, o cara!
Raffaele Simone
Ricercatori e posto fisso
Umberto Eco
Posto fisso e ricercatori
I due Bossi
Furio Colombo
Caro Bossi ti scrivo
Renato Mannheimer
Le ragioni di Bossi
Nano Blob
di Marco Giusti
Aldo Grasso
Il silenzio di Pippo
Sandro Parenzo
Le affinità elettorali
Paolo Palazzi
I Tartassati
Vittorio Gregotti
Pull-it-down
Rubriche
La Poesia
Giochi:
di Nanni Balestrini
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Parlamento:
E se lo scambio fosse in sè delizioso?
Giovanna Grignaffini
Film:
Distanze ravvicinate
Rossana Di Fazio
Arte:
Buone notizie
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix
Links:
Il WWW generalista e tematico (con Java...)
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
A destra o a manca?
Franco Cardini
Il profumo della pantera
Umberto Eco
Alle armi, o mansueti!
Renato Mannheimer
Destra, centro, sinistra
Gianni Riotta
Il futuro di Babbo Natale
La lettera
Vittorio Gregotti
La telefonata
Caro Di Pietro ti scrivo
di Renzo Arbore
Gli italiani
Mario Deaglio
Lo specchio vuoto
Giorgio Casadio
Pedalare (W Maenza)
Alessandro Baricco
Le Pagine Gialle
Pierluigi Cerri
Cosa divide i californiani
La televisione
Maurizio Costanzo
Contemplare lo shaker
Aldo Grasso
Lo spettro della tv
Rubriche
Giochi:
Dieci anagrammi in linea
Stefano Bartezzaghi
Parlamento:
Disposizioni transitorie
Giovanna Grignaffini
Film:
L'esercito delle 12 scimmie
Rossana di Fazio
Arte:
Beni culturali
Carlo Bertelli
Fumetti
A cura di Comix
Colophon
Da questo numero al direttore responsabile Danco Singer si affianca in qualità di direttore editoriale Stefano
Bartezzaghi.
Vivere senza regole
Furio Colombo C’è chi reclama, nelle città italiane, il diritto di vivere senza regole. Si
considerano "ribelli", avanguardia, negazione. Dicono che non si vendono,
che sono estranei al sistema, che non accettano alcuna regola, che il mondo
è sbirro. "La sveglia è il tuo sbirro, la fabbrica è il tuo sbirro". Dicono
"Nessuna schiavitù". Dicono "Faccio quello che voglio, quando voglio, dove
voglio. Decido io".
Si sentono eroici perché sono temuti, appaiono cattivi, spaccano, rompono,
urlano, minacciano, vandalizzano.
Nelle città italiane forse si sentono minoranze assediate dagli "sbirri". Ma
nel secolo sono una enorme maggioranza. Come i soldati giapponesi rimasti
armati, nascosti, pronti a colpire nell’isola perché non si erano accorti che la
guerra era finita, vogliono continuare a fare ciò che si è sempre fatto da
parte di maggioranze violente, per decenni e decenni.
Sono conformisti che ripetono gesti già fatti con lo slancio di chi è persuaso
di fare cose nuove, e di stupire per la straordinaria diversità. Non si sono
accorti che in questo secolo la diversità è stata solo dei non-violenti. Dei
laboriosi, di coloro che fanno cose per altri. Di coloro che danno invece di
esigere, che amano invece di odiare, che tollerano invece di aggredire. Che
cercano di sapere e capire invece di urlare, che rispettano la dignità
dell’altra persona, il lavoro degli altri, le cose che appartengono a tutti.
Coloro che non mitizzano la propria unicità, volontà e diritto di ognuno.
Infatti
Secondo assioma
- E sulla stampa normale, Wennerås e Wold sono state citate più o meno di
Dolly?
- Molto, molto di meno.
La tesi è fragile. E' più istruttivo, allora, interrogarsi sul perché Costanzo
abbia più volte sentito il bisogno di invocare il servizio pubblico,
espressione che fino a ieri era sinonimo di noia e di pedagogismo. Non
rottura del palinsesto ma più crudamente "rottura di palle".
La Rai - è la loro tesi - deve vivere con il solo canone e lasciare alle TV
commerciali la pubblicità. Se invece gode ancora di introiti pubblicitari lasci
alle TV commerciali una porzione del tributo o la possibilità di stringere
rapporti di convenzione con alcuni ministeri o, ancora, l'opportunità di
produrre programmi per le singole regioni, fuori dal tetto pubblicitario.
6. Servizi pubblici deviati: settori della Rai che deviano dal compito
istituzionale e si rendono responsabili o complici di attività destabilizzanti
nei confronti dell'azienda.
8. Vai a fare quel servizio pubblico: invito con cui un direttore del Tg
permette a un redattore l'esplicazione dei bisogni corporali.
Quale miglior modo per gli economisti di avvicinarsi a Dio che quello di
individuare, spiegare, interpretare, diffondere "leggi economiche" naturali,
immutabili ed incontrollabili? Quindi sogno e pratica di molti economisti è
quella di presentare leggi, comportamenti, relazioni oggettive e naturali
attraverso le quali studiare e interpretare i fenomeni economici.
Il grosso problema per gli economisti è però, da sempre, che ciò che si
aspetta da loro è una spiegazione di quello che avviene nella realtà
economica, e anche la proposta di eventuali strumenti per modificare e
migliorare una realtà considerata non soddisfacente o non giusta.
La scienza economica, come tutte le scienze sociali, si interessa delle
relazioni tra gli uomini, e gli uomini, si sa, sono un po’ imprevedibili e
litigiosi, hanno comportamenti che non rientrano nei comodi schemi di
razionalità ipotizzati dagli economisti: in realtà spesso va per proprio conto
non rispettando la teoria economica. Insomma la realtà non rispetta le leggi.
Questo fenomeno porta a due conseguenze, di segno opposto, ma entrambe
gravi. La prima è relativa a un crescente distacco dell’analisi teorica
economica dalla realtà, il sistema economico di riferimento dell’analisi
diventa cioè sempre più astratto, e le ipotesi semplificatrici diventano uno
strumento che, invece di avere come fine quello di isolare da una situazione
complessa i problemi più importanti, hanno come fine a sé la possibilità di
applicazione degli strumenti analitici, con un ribaltamento della relazione
strumento-obbiettivo.
Il secondo fenomeno è che, mentre tali livelli di sofisticazione rimangono
ristretti al dibattito accademico, la società civile si trova ad affrontare
problemi e domande sul funzionamento di una economia reale. Si è quindi
sviluppata una tendenza, senza dubbio da parte dei mass-media e molto
spesso anche della classe politica, ad appropriarsi, divulgare e
malauguratamente e tramutare in interventi di politica economica alcuni dei
risultati provenienti da ricerche che si basavano sulla costruzione di sistemi
economici e di individuazioni di leggi comportamentali del tutto irrealistici.
I risultati così "volgarizzati", che spesso diventano luoghi comuni di massa e
di mass-media, sono strettamente dipendenti dalle ipotesi irrealistiche che
stanno alla base del modello utilizzato per ottenerli.
Siamo quindi in presenza di un fenomeno che da una parte vede una sempre
maggiore astrattezza ed estraneità ai problemi reali da parte della letteratura
economica accademica, e dall’altra una volgarizzazione di queste teorie e
leggi che, isolate dal proprio contesto, diventano inutili luoghi comuni o veri
e propri errori.
Le ragioni di ciò possono essere ritrovate, a mio avviso, in due ordini di
motivi:
La via alternativa non è facile: la cosa migliore dovrebbe essere, per gli
economisti che non si riconoscono in questa tendenza, quella non tanto di
parlarne ma di praticarla; se un approccio alternativo è veramente efficace
avrà in sé la capacità di affermarsi.
Purtroppo un meccanismo del tipo: "le idee buone automaticamente
cacciano quelle cattive", non si adatta al mondo politico e al mondo
accademico. La possibilità in astratto di discernere ciò che è buono da ciò
che è cattivo è molto difficile se non impossibile: spesso in economia, come
in tutte le relazioni tra gli uomini, ciò che è per gli uni può essere male per
gli altri, le verità oggettive sono ben poche.
Sta di fatto che i meccanismi di selezione delle idee seguono percorsi
tortuosi, conflittuali e di potere ben diversi da un confronto ideale e aperto.
Forse ciò è inevitabile, basta però ricordare che le idee che vincono e
dominano in economia non rappresentano improbabili leggi oggettive e
immutabili, ma solamente quelle che meglio rispecchiano i rapporti di forza
istituzionali, politici e accademici.
1. Pirsig R. M., Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi, 1981, p.
171
Bach e la viabilità
Carlo Boccadoro Le nefaste conseguenze dell’inquinamento acustico che vengono
periodicamente ricordate su giornali, trasmissioni radiofoniche e televisioni
sono a tutti ben note. Raramente si pensa, però, al disastroso effetto
retroattivo che automobili, camion e motorini senza marmitta hanno avuto
sulla Storia della Musica. Che c’entra il traffico con il regno dei suoni, vi
chiederete (forse)? Apparentemente nulla. Chiunque si trovi bloccato in un
ingorgo automobilistico, magari costretto a una lunga attesa in coda,
difficilmente si metterà a pensare a Bach o a Vivaldi; semmai passerà il
tempo a imprecare contro gli altri automobilisti.
(Esempio:)
D’Alema: "C'è un quiz logico, uno classico per il quale elaborai una
soluzione diversa da quella consueta. E' uno di quei giochi di logica binaria,
in cui c'è un pellegrino che cerca la città della verità, arriva al bivio, da una
parte c'è la città della verità, dall'altra quella della menzogna, incontra uno
che viene e può fargli una sola domanda, senza sapere se l’interlocutore è
bugiardo o sincero. Normalmente in un gioco di questo tipo la soluzione
comporta una domanda, del tipo: "Se tu fossi bugiardo e io ti chiedessi…?"
eccetera. Io ne avevo escogitata una diversa, molto più elegante, in cui
l’elemento binario era implicito: il pellegrino diceva: "Scusami, buon uomo,
da che parte si va per andare alla tua città?"
- E resiste a ogni…
D’Alema: "Resiste a ogni! Se lui dice il falso, mente su quale sia la sua città
e dunque indica quella della verità. Se invece è sincero indica la città della
verità. Questa soluzione incorpora nel "tua" la binarietà, senza
quell’ineleganza del dire al pellegrino: "Ma se tu fossi…" eccetera."
- Nel Risiko ogni giocatore pesca una carta dov'è scritto dove andare.
Quando lei parla di obiettivi politici precisi, intende qualcosa che si
potrebbe scrivere in due parole su una carta, la soluzione segreta
dell'enigma? Per fare un esempio, "Palazzo Chigi"?
D’Alema: "Questi sono aspetti importanti, ma ancora strumentali."
- Lei gioca con i videogiochi. Non è preoccupato, magari per i suoi figli,
da quelle cose che si sentono, la videodipendenza, la presunta epilessia
da videogioco…?
D’Alema: "Quello che è sgradevole è la violenza, la forte componente di
aggressività che almeno per i bambini dovrebbe essere ridotta. Mio figlio,
ha sette anni, è un appassionato di questi giochi e ce ne sono alcuni
francamente orribili: quest’idea del massacro… con spadoni… che
squartano… "
lo dice non voluttuosamente ma con un certo gusto, nel
disdegno
D’Alema: "… oltretutto credo che tanta violenza non sia affatto necessaria,
perché poi uno non si innamora della raffigurazione ma della dinamica del
gioco. Quello che viene raffigurato nella forma di un duello mortale, di
squartamenti, eccetera, in fondo potrebbe essere un normale incontro di
boxe, perché poi il gioco ha sempre quel meccanismo, devi muovere una
certa levetta per alzare un braccio, devi avere una certa destrezza."
- Nella teoria dei giochi è importante separare le regole che servono per
giocare da quelle che servono per vincere. In politica la distinzione è
sempre chiara?
D’Alema: "Noi abbiamo detto che il problema del Paese era duplice. Dopo
il crollo della Prima Repubblica era finito anche un tipo di gioco, erano
cambiate regole come la legge elettorale, erano cambiati i giocatori. Il primo
aspetto era impostare le nuove regole per giocare, ricostruire il campo di
gioco. Questo si fa insieme all’avversario e dirlo è stato un punto essenziale,
una grande intuizione strategica… "
Quel che segue è elencato con voce neutra, come fosse una
verità risaputa e indiscutibile, la ricetta per fare l’uovo sodo:
- E i famosi valori?
D’Alema: "Questo modo di spiegare le cose può attirare delle tirate
moralistiche. Ma in realtà avere questa visione della struttura del gioco
politico, anche nei suoi aspetti persino logico-matematici e di teoria dei
giochi, non significa affatto non avere una forte tensione morale. Non
c’entra nulla. La tecnica esiste, e secondo me può essere interpretata in
modo giocoso e quindi appassionante. Ma poi è evidente che questa partita
ha un contenuto economico, sociale, etico, civile. E’ chiaro che ci sono le
motivazioni."
- Ma non restano un po' nascoste, dietro all'agire politico, al "teatrino
della politica", alle strategie e controstrategie?
D’Alema: "Secondo me occorre un equilibrio che consenta di non prendere
due direzioni opposte, tutte e due sbagliate: il pragmatismo o la retorica.
Quando i valori sono enunciati in un modo che è totalmente
decontestualizzato rispetto all’agire politico, quando la retorica delle
motivazioni soffoca il nucleo del gioco, allora diventa una retorica della
sconfitta. Gli italiani sono convinti che la retorica sia il sentimento,
l’idealità, invece non è vero. La retorica è il peggiore inganno: è la
simulazione dell’idealità."
- Manca molto?
D’Alema: "Abbiamo fatto molta strada, in relativamente poco tempo.
Abbiamo stabilità di governo, e questo dà molto fastidio a molti: però è
accaduto. Abbiamo conti pubblici in media con quelli europei, ed eravamo
alla bancarotta… Abbiamo dei soggetti politici che progressivamente
somigliano a quelli che ci sono in Europa… Tra un po’ avremo anche la
riforma costituzionale… E' un processo accelerato e noi siamo tra i
principali protagonisti. Ce ne renderanno merito: quando ci leveremo dalle
scatole. Cosa che accadrà non tardissimo: ci renderanno merito per avere
contribuito a dare una situazione più serena ai nostri figli."
c'è un però…
D’Alema: "… il nucleo del gioco, il piacere del gioco prescinde dalla posta.
La posta può essere il denaro, può essere il successo, può anche essere un
obiettivo di grande valore civile e morale ma il meccanismo profondo del
gioco è un piacere in sé."
1.
Gli ultimi sei mesi - dall’esternazione di Violante sull’università di massa
all’occupazione di alcune università tedesche fino alla decisione dei laburisti
del Regno Unito di far pagare parte del costo della matricola ("tuition fees")
agli studenti - sembrano confermare che la crisi dell’università è una crisi di
dimensioni europee. L’11 giugno scorso Keith Devlin riportava sul
Guardian on-line la discussione avvenuta alla riunione della confindustria
britannica (CBI), il cui direttore generale così si esprimeva: "Le università
devono mantenere alta la qualità, altrimenti gli imprenditori porteranno
altrove i propri affari." Almeno un’impresa, Unipart, ha già investito 4
milioni di sterline nella creazione di una università "interna" alla quale verrà
affidata la formazione del proprio staff. L’attacco dell’industria alle già
assediate ("beleaguered") università britanniche, ufficialmente giustificato
dalla preoccupazione "per la qualità", nasconde in realtà il terrore, diffuso in
genere nelle élite, di un’università di massa massicciamente finanziata dallo
stato. È chiaro allora che perfino la serie - a tutt’oggi ininterrotta - di articoli
inglesi sull’Italia acquista un sapore ben diverso. Difficile comprendere
altrimenti l’attenzione che il Times Higher Educational Supplement ha
dedicato a una notizia relegata in Italia alle pagine di cronaca: le elezioni del
rettore dell’ingovernabile per antonomasia mega-ateneo d’Europa: "La
Sapienza" (THES, 31 ottobre 1997, p. 10). Per quanto la cosa possa
sembrare comica il Times ha schiaffato un’enorme faccia di Tecce (a colori)
sopra l’ennesimo articolo di Pacitti (dopo il Guardian ora anche il Times:
"Italy in EU dock over ban"); il titolo suggeriva un plot sthendalian-
scespiriano: "Usurped rector loses ungracefully". Ma le pagine principali del
THES come del Guardian HES non dipingono una realtà interna priva di
drammi e narratives. L’annuncio del nuovo governo laburista di introdurre
le cosiddette tasse "di rabbocco" ("top-up fees") ha scatenato la reazione
delle associazioni studentesche e un dibattito a 360 gradi sui giornali e su
Internet. Punta avanzata della discussione è Nexus, il think-tank telematico
progressista, dove si possono leggere opinioni d’alto livello e dati scambiati
dalla mailing list "Hedu" (dedicata cioè alla higher education). Il panico e la
"passione" (da queste parti merce rara) che riflettono la maggioranza di
questi interventi è comprensibile: fino ad oggi in Gran Bretagna l’università
era completamente gratuita; persino a Cambridge e Oxford (Oxbridge), una
volta ammessi, non si pagano tasse. Ma oggi anche questo sistema è in crisi.
La prima doccia fredda è stata il rapporto Dearing (dal nome del presidente
della Commissione, Sir Ron Dearing), una inchiesta sul sistema
dell’istruzione ordinata dal precedente governo e conclusasi quest’estate con
la pubblicazione di un voluminoso dossier. Le conclusioni di Dearing non
sono certo riassumibili in poche parole, ma la parola d’ordine era già nota
prima di iniziare: "tagliare" - possibilmente facendo pagare agli studenti il
25% della loro istruzione. Il rapporto Dearing cade nelle braccia laburiste
come manna dal cielo. Il Labour Party, che aveva promesso di non toccare
ma anzi di aumentare i finanziamenti all’istruzione e alla formazione, si
trova in mano una formidabile scusa per calare la scure sulla pubblica
istruzione. Il governo ufficialmente vuole comunque (come la CBI) più
iscritti e più diplomati e intende spendere i soldi pagati annualmente alle
università (le "tuition fees") in maniera diversa: ad esempio introducendo un
sistema di prestiti d’onore per gli studenti o magari investendo di più a
monte, nella scuola. Agli studenti universitari - ma il governo assicura che
saranno solo quelli più abbienti - verrà richiesto perciò di versare una
somma contributiva che non copre l’intera tuition e che si aggirerà in media
sulle mille sterline all’anno. Le "top-up fees" hanno gettato nello sconforto
molti potenziali studenti che allibiscono di fronte all’eventualità di dover
pagare cifre che in alcuni casi (ad esempio per medicina) supererebbero le
duemila sterline annue. Si teme poi una "americanizzazione", cioè il
passaggio a un sistema di università di serie "B" (o "C") e di serie "A" che
produrrebbe discriminazioni (Oxford e Cambridge) ancora peggiori di
quelle presenti. Di conseguenza i sondaggi hanno segnalato un calo delle
domande di ammissione all’università - le cosiddette "applications" che gli
studenti inviano durante il corso dell’anno (si veda "Opportunities lost",
THES, 24 ottobre 1997, p. 1).
2.
Negli ultimi tre-quattro anni si sono susseguiti in USA una serie di studi e
pubblicazioni sulla crisi dello "higher educational system" - definizione
sotto la quale vengono compresi i college (che forniscono solo diplomi
quadriennali - 2125 istituzioni, di cui 1530 private) e le università (le quali
offrono anche Master e Dottorati). Molti sono gli studi seri, come quello
curato da Arthur Levine (Higher Learning in America, 1980-2000, Johns
Hopkins University Press, 1994), e i libri di inchiesta (Shameful Admissions:
The Losing Battle to Serve Everyone in Our Universities di Angela Browne
Miller, Jossey-Bass, 1996), ma innumerevoli sono le guide alla giungla dei
campus. Uno sguardo ai titoli in libreria dà un quadro efficace della
dimensione dei problemi (e del disagio): The Real Guide to Grad School:
What You Better Know Before You Choose Humanities & Social Sciences, a
cura di Robert E. Clark e John Palattella, Lingua Franca, 1997; The Gay,
Lesbian, and Bisexual Students' Guide to Colleges, Universities, and
Graduate Schools, di Jan-Mitchell Sherrill e Craig A. Hardesty, New York
University Press, 1994; The Black Student's Guide to Colleges (4a edizione),
a cura di Barry Beckham, Madison Books, 1997; ed infine l’imperdibile The
Truth About College: 50 Lessons for Parents Before They Start Writing
Checks, di Will S. Keim, Chalice Press, 1997.
Avevo appena citato la volta scorsa uno dei libri più discussi, Bright College
Years: Inside the American Campus Today (Simon & Schuster, 1997), della
giornalista Anne Matthews. Il taglio del libro della Matthews è quello
classico (e bisogna ammettere avvincente) della "spregiudicata denuncia".
In sette agili capitoli che riprendono le stagioni (i mitici "term") del campus
l’autrice, che è anche "figlia d’arte" (cioè di accademici), ci conduce
attraverso il mondo dell’università americana messa in ginocchio
dall’esplosione delle immatricolazioni e dai tagli (statali e federali) alla
spesa per l’istruzione. Le cifre fornite dalla Matthews sono poche, ma tutte
significative: il sistema universitario americano è una impresa da 200-300
miliardi di dollari ("it’s a little larger than the computer industry, a lot
smaller than the restaurant industry", p. 28) e impiega circa due milioni e
mezzo di persone, più personale che nel settore automobilistico, tessile e
siderurgico messi insieme. Nel 1970 solo un americano su quattro andava al
college, oggi sono quasi uno su due. In Francia e Giappone solo uno
studente di scuola secondaria su dieci arriva all’università. I dati a
disposizione per l’Italia sono di difficile comparazione, ma la percentuale di
iscritti sul totale della popolazione fra i 19 e i 23 anni era nell’anno 1991-92
del 32,6%, ma si scende al 26.9% se consideriamo il numero di laureati su
totale degli iscritti al primo anno (dati Istat). In America, nello stesso
periodo, si diplomava il 44,3% della popolazione di razza bianca e il 23,9%
di neri (fonte: William G. Bowen, "No limits", in Ronald G. Ehrenberg (a
cura di), The American University. National Treasure or Endangered
Species?, Cornell University Press, 1997, pp. 18-42).
Circa nove milioni sono gli studenti iscritti ai corsi di diploma quadriennale
("baccalaureato") in USA, ma la durata media degli studi reali è oggi più
vicina ai sei che ai quattro anni. Sempre più frequenti sono gli abbandoni e
sempre più studenti sono costretti a lavorare a tempo pieno con conseguenze
negative sulla frequenza e sul rendimento. Il linguaggio adottato dalle
università-impresa per attrarre questa massa di adolescenti è quello delle
shopping mall: patinate brochure avvertono che "nel nostro campus ogni
stanza è dotata di "free cable TV service" (Utica College), dove gli studenti
possono rilassarsi in "expanded personal fitness facilities" (p. 27); "nel
nostro college", avverte un altro depliant, "anche le lezioni di arte e
letteratura hanno un taglio da business-studies." Uno studente intervistato
assicura che a Santa Cruz (California) il vestirsi è un optional ("it is a
clothing-optional campus"). Ogni riga di questi pieghevoli è attentamente
soppesata, ogni aggettivo accuratamente selezionato: il college è (deve
essere) una strada in discesa, "fun, intimate, improving but nonthreatening",
dove parole come studio, lavoro e fatica sono bandite: "You will be
painlessly prepared for a high-paying career." L’Università della Florida è
anche più diretta: "Disney World e spiagge meravigliose ad un’ora di
macchina."
Se dalla lettura della Matthews si esce stremati ben diverso è l’effetto che fa
The American University (citato più sopra). La miscellanea curata da
Ehrenberg non è certo un’inchiesta: qui è la crema dell’establishment
universitario americano e il grande potere accademico - dal presidente del
MIT a quello di Princeton, da quello di Cornell al direttore del National
Science Foundation - a salire in cattedra e a discettare sui "tesori" nazionali
americani. Il tono è quello delle grandi occasioni, le conclusioni scontate:
siamo in difficoltà, ma ce la faremo; issate le vele, si parte per una nuova
battaglia, eccetera. Insomma, la classica retorica alla Amasa Delano che
sprizza ottimismo sul povero Benito Cereno ("But the past is passed; why
moralize upon it? [...] Forget it. See, your bright sun has forgotten it all, and
the blue sea, and the blue sky; these have turned over the new leaves.")
Eppure anche fra questa messe di proclami jeffersoniani non mancano le
pagliuzze d’oro della critica. Hanna H. Gray, presidente emerito e
professore di storia alla Chicago University, sfiora nel suo intervento
("Prospects for the Humanities", pp. 115-127) i temi dell’università di massa
e del futuro delle facoltà umanistiche. L’articolo di Gray è una lucida,
orgogliosa e allo stesso tempo pacata rivendicazione del valore degli studi
umanistici in un mondo dominato dalla visione "scientifica". "Le università
esistono in parte", scrive Gray, "per mantenere e nutrire campi e modi di
pensare che non saranno mai di moda ma che sono di fondamentale
importanza [...]. Allo stesso modo esse esistono per incoraggiare e rendere
possibile la libertà intellettuale e il rischio che ci si assume nello scoprire
nuovi problemi, nuove risposte, nuove discussioni - qualsiasi pena consegua
a questo risveglio." (p. 124). Infine, riprendendo una riflessione di
Tocqueville, l’autore si domanda se la discussione sul "controllo"
dell’istruzione superiore (e sull’allontanamento della società dalle
università) non sia legata a un classico dilemma: è possibile conciliare
l’ethos democratico con quello che possiamo definire "the fundamental
quest for knowledge", ovvero l’immersione in una vita contemplativa? Gray
risponde con le parole di Tocqueville (che diventeranno poi quelle di John
Dewey): "A forza di aderire alle mere applicazioni si perderebbero di vista i
principi, e quando i principi fossero persi, i metodi non potrebbero essere
inventati, e l’uomo continuerebbe senza intelligenza e senza arte ad
applicare processi imparati ma non più compresi."
3.
Questi si chiamano…
A. … Esercizi tipografici
B. Esercizi tipografici si chiamavano quelli che Massin fece per l’edizione
illustrata degli Exercices de style di Raymond Queneau,
C. il libro di Queneau è stato tradotto da Eco,
D. Eco oggi dedica a Queneau uno dei suoi primi…
[ricomincia da A. ad libitum].
Umberto Eco
Lo sguardo remoto del Prof. Di Bella
Marco Belpoliti La faccia di Luigi Di Bella è diventata rapidamente nota alla maggior parte
degli italiani. Il suo viso e la sua testa, coronati dai capelli bianchi, sono un
simbolo inequivocabile per tutti coloro che in questi anni hanno
sperimentato su se stessi o sugli altri l'esperienza della malattia e della morte
per tumore. Tra questa esperienza e il volto del professor Di Bella c'è una
forte omologia che aiuta ancor di più l'identificazione tra il fisiologo
modenese e il dolore. Nelle fotografie che lo ritraggono sui giornali Di Bella
non sorride quasi mai. L'unica immagine ridente è quella che lo ritrae con
l'oncologo Umberto Veronesi, celebre luminare della lotta contro il cancro,
che invece ride sollevando il labbro superiore e socchiudendo leggermente
gli occhi, le braccia conserte e lo sguardo rivolto all'obiettivo, come a dire:
"Tutto va bene". Di Bella no, il suo sorriso è quasi una smorfia, la testa
reclinata e le mani in tasca (un altro dettaglio di questa foto colpisce: mentre
Veronesi ha infilato nel taschino della giacca un fazzoletto di seta dello
stesso tessuto dell'elegante cravatta, Di Bella reca nel taschino un fazzoletto
bianco e soprattutto delle penne, mentre la cravatta è annodata in modo
tradizionale, come si usava prima della guerra). L'idea che la persona di Di
Bella suggerisce è certamente quella di un uomo antico - ha più di
ottant'anni - ma anche di un uomo perplesso, non a proprio agio nei contesti
pubblici. In un certo senso Di Bella è, almeno nel campo dei media, un
"dinosauro", un essere appartenente ad altre ere geologiche. Basta guardare
come si comporta davanti all'obiettivo delle macchine fotografiche e delle
telecamere: la testa reclinata, lo sguardo tra il sorpreso e il perplesso, ma
soprattutto non guarda mai dritto verso l'obiettivo: traguarda. E' come se
abbassasse lentamente lo sguardo e poi lo alzasse di colpo verso chi lo
ritrae. Si direbbe che il professor Di Bella ci guardi di sottecchi, ci spii; il
suo è uno sguardo sospeso. Ci guarda, ma lo fa passando attraverso
qualcosa. Dire cosa sia questo qualcosa non è facile; forse è una distanza: è
uno sguardo remoto, di chi, da un'era trapassata, getta uno sguardo perplesso
sul presente; o forse è una forma di saggezza che si comunica con gli occhi
(sempre appannati come da un umor vitreo, ma anche stranamente vitali), o
meglio: uno sguardo di perplessità (la testa è sovente piegata, di poco, in
avanti o indietro). L'espressione degli occhi è accompagnata da una leggera
smorfia delle labbra, del labbro inferiore, perché quello superiore è nascosto
da un baffo bianco, tagliato secondo una consuetudine anche questa desueta,
per cui si rade la parte superiore e si lascia solo quella inferiore, quasi a
coronare la bocca. Nelle foto in bianco e nero dei giornali la folta
capigliatura bianca diventa come un alone, una criniera, alta sulla fronte,
quasi un'aureola che avvalora ancor di più il senso di estraneità che la figura
di Di Bella suggerisce nel lettore dei fogli quotidiani. In alcune istantanee è
colto nell'atto di parlare, ma la sua bocca non è mai aperta: si capisce che sta
quasi sussurrando, come se stesse parlando vicino al nostro orecchio,
dandoci l'impressione di una confidenza; più spesso i fotografi, che
sembrano in questo interpretare un desiderata del professore, lo immortalano
accanto a chi sta parlando, ad esempio il Ministro della Sanità, Rosy Bindi,
fotografata mentre accompagna la parola con un gesto: una mano aperta con
il palmo rivolto verso l'alto e il braccio sospeso in aria. Di Bella è
assolutamente composto; solo in una fotografia ha la mano destra alzata, ma
il palmo è rivolto verso il basso come a suggerire una moderazione, e
soprattutto indossa il camice bianco, segno che qui è investito dell'autorità
di medico. Che sia un uomo antico ce lo dice anche il modo in cui indossa i
calzoni; in una immagine che lo coglie con la giacca slacciata si vede
chiaramente che il taglio dei pantaloni è fuori moda, anni Cinquanta, con i
calzoni alti all'altezza della cintola, tutto il contrario dei calzoni moderni
indossati dai suoi interlocutori (l'abito fa il monaco, si dovrebbe dire
vedendolo accanto al professor Veronesi, elegante, spigliato, sicuro di sé).
La sicurezza che emana questo "omino bianco", come è stato subito definito
dai giornalisti e dai commentatori, è molto diversa da quella che siamo soliti
leggere nella persona fisica degli uomini pubblici; in una certa misura
assomiglia a quella della passata classe dirigente democristiana, così
inelegante nel suo abbigliamento anni Cinquanta (solo Andreotti, l'ex
ministro, è rimasto a ricordarci come vestivano quegli uomini grigi che ci
hanno governato per un quarantennio, ma anche lui si è aggiornato e il taglio
dei suoi abiti, quasi sempre in doppio petto, si è fatto più moderno). Forse
l'unico a cui si può paragonare lo sguardo di Di Bella - ma si tratta di una
casualità suggerita da un triste anniversario - è Aldo Moro nella prima foto
diffusa dalla Brigate Rosse, a tre giorni dal sequestro; anche Moro ci
traguarda, perplesso, con la testa reclinata, la camicia aperta e la canottiera
bianca ben visibile. Posseggono entrambi - il professore anticancro e lo
statista sequestrato - qualcosa che ci inquieta. Forse quel qualcosa è uno
sguardo incerto, non una insicurezza o un dubbio, ma una perplessità. Moro
ha lo sguardo di chi sta sospeso in una dimensione che non è più quella del
prima e non sarà mai quella del dopo: è già altrove. Ecco, probabilmente
anche Di Bella ha il medesimo sguardo dell'altrove. Egli sembra infatti
appartenere a una dimensione diversa, che non sappiamo bene quale sia, ma
che per questo possiamo interpretare come attinente al dolore o alla morte.
Forse, più semplicemente, il suo sguardo è quello di un uomo che si è
trovato, contro la sua volontà, al centro di un gioco più grande di lui,
costretto a confrontarsi con poteri e sistemi che gli sono estranei (per questo
si sottrae), o forse è solo a disagio davanti agli obiettivi delle macchine
fotografiche; la sua è una timidezza ritrosa di chi si rassegna a diventare,
nonostante tutto, una icona pubblica, ma in fondo non lo vuole; dice:
"Eccomi qui, ma non è questo che desidero per me". Nonostante tutte queste
ragioni a chi lo guarda può sembrare che Di Bella rechi nel suo sguardo il
segno di un passaggio, di una soglia che sembra aver attraversato; ma al
tempo stesso porge questo sguardo senza alcuna allegria o sicurezza, non
ostenta la forza e l'ottimismo di chi ha percorso il regno del dolore, non ha
la sicurezza di chi afferma: "Vi libererò dal male". Insomma, egli è profeta
triste, proprio come questi tempi di perplessità e stentato ottimismo
richiedono a chi sembra detenere le chiavi di una salvezza che non
contempla la possibilità di un miracolo.
Perchè lo fai?
Oliviero Ponte di Pino Per spiegare che cosa sia il World Question Center, bisogna innanzitutto
presentare il suo inventore. Ma non è facile etichettare John Brockman. Per
chi lavora nell'editoria è soprattutto un agente letterario - o meglio, l'agente
di molti tra i migliori scienziati oggi in attività, che progetta
instancabilmente potenziali bestseller sulla teoria dell'evoluzione, sulla
fisica della particelle, sulla nascita del linguaggio, sull'ingegneria genetica,
sul rapporto mente-corpo... Chi avesse incontrato Brockman negli anni
Sessanta, invece, avrebbe conosciuto un artista-organizzatore che gravitava
intorno ad Andy Warhol e a quelli che allora venivano definiti "mixed
media" (che secondo alcuni rappresenterebbero un'anticipazione profetica -
e senza computer - dell'attuale multimedialità). Per chi invece spulcia i
cataloghi delle biblioteche, Brockman è autore di una serie di saggi e libri-
intervista: tra i più recenti, La terza cultura, una serie di conversazioni con
scienziati, partendo dal presupposto che i recenti sviluppi in diversi settori
della scienza stiano cambiando - e cambieranno - i nostri paradigmi
"filosofici" ed esistenziali; e Digerati, una panoramica di interviste con la
nomenclatura della nuova cyber-frontiera sul futuro di Internet (per la
cronaca, Digerati è stato il primo libro pubblicato da Hard Wired, la casa
editrice della rivista Wired).
In tutto questo, l'attivissimo Brockman non poteva non avere uno sbocco in
rete, al sito Edge (http://wwvv.edge.org). E su questo sito, qualche tempo fa,
ha aperto una rubrica di notevole fascino ed effetto: partendo dal
presupposto che l'importante non è tanto quel che si trova, quanto quello che
si cerca, e riprendendo un'idea di un suo amico (James Lee Byars, alla cui
memoria è dedicata l’iniziativa), ha infatti chiesto ad alcune personalità che
lavorano ai confini più avanzati della ricerca di sintetizzare il senso del loro
lavoro in una domanda.
L'idea originale di Byars (nel 1971) era questa: raccogliere le 100 menti più
brillanti del pianeta, chiuderle in una stanza e fare in modo che i partecipanti
ponessero anche agli altri le domande che ponevano a se stessi. In teoria,
quello che avrebbe dovuto uscire da quella mega-discussione sarebbe stata
la sintesi del pensiero umano.
Il World Question Center riprende e rilancia l'idea, con tutte le sue generose
ingenuità, ma superando tutte le difficoltà logistiche grazie alla potenza di
Internet.
Dice Brockman citando un suo testo del '69, "il nostro tipo di innovazione
non consiste nelle risposte, ma nell'autentica novità delle domande; nel
porre i problemi, non nelle soluzioni... La sintesi della totalità del sapere
umano non consisterà in un incredibile ammasso di dati, o in enormi librerie
sovraccariche di libri. Non hanno più valore la quantità, la spiegazione. Per
una sintesi totale del sapere umano, usate l'interrogativo. Chiedete alle più
sottili sensibilità del mondo le domande che stanno facendo a se stesse".
Insomma, al World Question Center non si trovano risposte, ma solo
domande. Ma a farsi queste domande sono - per l'appunto - alcune tra le
menti più interessanti che circolano nel cyberspazio. Scienziati, ricercatori,
filosofi, pensatori, critici, saggi...
Un piano del progetto e un primo risultato di questo inedito sondaggio via
Internet è apparso sul numero 31 di The Edge.
Qualche esempio?
"Qual è la differenza cruciale tra la materia inanimata e una entità che può
agire come un ‘agente’, manipolando il mondo a proprio vantaggio? E come
avviene questo cambiamento?".
PHILIP ANDERSON, Premio Nobel per la fisica, Princeton.
"Qual è l’esatta quota di natura che possiamo buttar via e bruciare facendola
franca?".
NATALIE ANGIER, giornalista scientifica del New York Times, autrice di
Natural Obsessions, The Beauty of the Beastly.
"Come possiamo costruire una nuova etica del rispetto della vita che vada
oltre la sopravvivenza individuale per includere la necessità della morte, la
conservazione dell'ambiente e le attuali e future conoscenze scientifiche?".
MARY CATHERINE BATESON, antropologa, George Mason University,
autrice di Composing a Life e Peripheral Visions.
"Come evolverà la mente, nel momento in cui sapremo come il cervello crea
la mente?".
WILLIAM H. CALVIN, neurofisiologo teorico, University of Washington,
autore di The Cerebral Code e How Brains Think.
"Che aspetto potrebbe avere un secondo esemplare del fenomeno che
chiamiamo vita?".
RICHARD DAWKINS, biologo evoluzionista, Oxford, autore di Il gene
egoista, River Out of Eden e Climbing Mount Improbable.
"I1 crollo delle grandi civiltà del passato ha qualcosa da insegnarci sul
nosko futuro?".
JARED DIAMOND, biologo, UCLA Medical School, autore di The third
Chimpanzee e di Guns, Germs and Steel.
"Qual è la frontiera?".
W. DANIEL HILLIS, computer scientist, vice-presidente ricerca e sviluppo
alla Walt Disney Company e autore di How Computers Think.
"Perché‚ no?".
LINDA STONE, direttrice del Virtual World Group alla Advanced
Technology and Research Division della Microsoft.
O meglio:
A questo punto, credo di aver giocato la mia carta sul tavolo del World
Question Center. Ma sono convinto che molti altri possano avvertire il
desiderio di giocarsi, anche loro, con la domanda che li ossessiona.
Se la gatta va al lardo
Liam Email Uno dice "Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino". Bene, ma se
uno lo chiede al Web che succede? Se uno butta dentro, alla rinfusa (rin/
fusa), gatta, lardo e zampino in un motore di ricerca, cosa gli torna indietro?
E se uno li butta tutti e tre? Internet e la gatta che va al lardo, insomma,
hanno un senso comune, una storia da raccontare?
La risposta è no. Ma non è il caso di scoraggiarsi. Perché se Internet rifiuta
il senso della gatta che va al lardo e ci lascia lo zampino è colpa della sua
natura, se uno crede in Internet vuol dire che non crede che andando al lardo
ci si debba lasciare lo zampino per forza. Vuol dire che comunque ci va,
zampino o non zampino. Se lo fa, in questo caso, viene anche premiato. A
un certo punto, l'enorme Altavista, il motore di ricerca che tutto comprende,
concede una piccola soddisfazione finale. E dice: "Perché non dai
un'occhiata al capitolo XI dei Promessi Sposi?" Uno va a leggere, e legge:
"Ci ha messo uno ZAMPINO quel frate in quest'affare, - disse il cugino, dopo
aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello
così balzano. - Quel frate, - continuò, - con quel suo fare di GATTA morta, e
con quelle sue proposizioni sciocche...".
Lo zampino, in tutta questa storia, ce l'ha messo il Manzoni tra Don Rodrigo
e il conte Attilio.
Si naviga, comunque, a vista. Si naviga per andare al largo invece che al
lardo, come in celebri rifacimenti popolari del famoso detto. Zampino, per
esempio, comunque terminologia animale: sul sito http://www.sofit.it c'è
un notevole triplo salto interpretativo a riguardo dei cani di razza: "La
corporatura massiccia gli deriva dal Blood hound, l'incrocio con il Fox
hound ha contribuito a migliorare l'ossatura e a rialzare la spalla e
sicuramente anche il Boxer ci ha messo lo zampino". Che il Boxer, in questo
caso, ci abbia messo lo zampino è opinione dell'estensore, che per di più sia
proprio il Boxer è malizia che perfino lo spregiudicato Web fatica ad
accettare.
Zampino, si diceva. Il guaio è che Internet ha archiviato una quantità
spropositata di articoli di stampa che raccontano le partite di calcio.
Effimero purissimo, a meno che non sia opera di grandissime firme. Quindi
quasi mai. Sono centinaia le segnalazioni di Altavista al proposito: zampino,
nel senso di metterci lo zampino, ormai lo usano soltanto più i giornalisti
sportivi, per dire che Collocurta ha messo lo zampino nell'azione decisiva
della partita o che nel risultato finale c'è lo zampino del portiere Pagliuzzi
autore di straordinarie parate.
Nomi, pochi i rilevanti: l'architetto Giuseppe Zampino, soprintendente ai
beni ambientali e architettonici di Napoli, tale David Zampino che lavora in
una società americana di informatica, ma soprattutto un notevole Philip
Zampino, vescovo della Church of the Resurrection di Hollywood,
California.
6 scamponi, puliti, privati del guscio e delle teste 6 fette di lardo di Arnad o
della migliore qualità timo tritato pizzico di sale aceto balsamico. Accendete
il forno a 180 gradi. Avvolgete ogni scampone in una fetta di lardo e
deponetelo su una pirofila leggermente unta di olio e cospargete sopra il
timo e un pizzico di sale. Infornate per circa 8/10 minuti fino a quando lo
scampone si sarà cotto nel grasso del lardo disciolto.
Quando cotti, bagnateli con qualche goccia di aceto balsamico e mangiateli
ancora caldi.
Vale anche per coppie un po' attempate che si attardano nel ricordare i
momenti di fuoco ormai lontani (Vecchio scampone, quanto tempo è
passato).
Ma quello che conta, qui, è l'universalità del lardo. Confermata anche
dall'esperanto: vedi il sito http://www.esperanto.mv.ru, che riporta la
seguente frase: Kiel la koridoro, tiel ankam la tuta ambro estis frotita per
lardo.
In effetti chi l'avrebbe mai detto.
La gatta, si diceva. E' chiaro che un vocabolo di uso così comune, si porta
ovunque nel Web. Volendo, gatta lo si ritrova in una mezza dozzina di siti a
leggero sfondo pornografico, come sinonimo secco, allusione,
caratterizzazione precisa. Con parecchia fatica lo si potrà trovare - ne siamo
certi - anche come felino, e qui ci si ferma. Abbiamo scelto quindi due cose
che si discostano nettamente dalle altre: su tutti, la presentazione in http://
www.fanzine.net dell'ultimo album del gruppo: Tonio Scatigna e la gatta
da pelare. Sono toscani, vagamente demenziali, ma il loro album ci consente
un abbinamento insperato con il lardo. L'album si chiama infatti Fronte del
porco. L'album contiene una cover di Paranoid dei Black Sabbath che in
italiano diventa una strepitosa Alvaro il metallaro. E ancora, non fosse altro
che per la presenza ossessiva nelle segnalazioni di Altavista. l'industria di
materiali per l'aeronautica La gatta S.r.l., di Pomigliano d'Arco, 65 anni di
attività, 20 anni in collaborazione con l'industria aeronautica.
D'accordo, troppo materialista. E quindi si approda su http://www.tqs.it, e la
gatta, animale simbolo della filosofia Zen, trova la sua consacrazione in una
poesia di Dilys Laing. Che recita così
Applausi
Baudo Non fare ...
Chiusura Odori
Darsi del tu Pagina
Emblematico Quantità
Fanciullino Rai
Gente Saucissonnage
Hamburger Telecamera
Immagini Una volta
Linea Virgolette
Microfono Zoccolo
Pubblichiamo la terza e ultima parte dell'Enciclopedia di Aldo Grasso.
Vi chiediamo ancora di integrarla con le vostre voci. Raccoglieremo tutto e ne faremo un'unica
enciclopedia che sarà disponibile su Golem. Promesso.
Direttore responsabile:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Gianni Granata, Mario Calabresi, Furio Colombo, Roberto Maragliano, Sylvie Coyaud, Aldo Grasso,
Paolo Palazzi, Carlo Boccadoro, Giuseppe Pontiggia, Domenico Fiormonte, Umberto Eco, Marco Belpoliti,
Oliviero Ponte di Pino, Liam Email, Walter Fontana, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Silvia Cristin, Emilia Audino,
Massimo Amato, Stefano Mazza, Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
Vi offriamo questa volta un numero molto vario; la parte più sostanziosa è nata dalle riflessioni intorno al
concetto di perdono nell'Ebraismo e nel Cristianesimo: Di Segni e Urso ce ne spiegano i principi fondamentali,
anche nella prospettiva storica. La questione è legata alle recenti esternazioni del papa, al Mea Culpa:
provocherà crisi di identità? Ne parla Ugo Volli.
Nel frattempo, Cardini discute di scuola e Palazzi della riduzione dell'orario di lavoro. Claudia Winkler ci offre
un nuovo spunto: data l'importanza sempre maggiore dell'Information Technology, è ancora attuale la pretesa
superiorità della cultura umanistica ed è questa in grado di adeguarsi alla necessità di una Nuova Cultura?
Siamo curiosi di sapere cosa ne pensate voi, infatti abbiamo aperto un forum.
Infine, un po' di televisione: Siliato cerca di fare luce intorno all'argomento ascolti TV mentre con la seconda
parte dell'Enciclopedia della Televisione di Aldo Grasso rinnoviamo l'invito a inserire le vostre "voci", per
crearne una che sia di tutti (voi e noi).
Per esempio che cos'è oggi essere ebrei? La legge religiosa è al proposito
molto precisa e - alla maniera di certe definizioni matematiche - ricorsiva: è
ebreo chi è figlio di madre ebrea. I padri non contano qui: pratica della
diffidenza. Si va dai figli alla madre, su per le generazioni, fino a Sara,
moglie di Abramo. Che naturalmente non era ebrea di nascita. Come le
mogli di tutti i patriarchi e anche di Mosé, e quella Tamar, moglie di Jehuda,
da cui discende il re Davide e deve venire il Messia: paradossi del
patriarcato.
Sarò molto franco a rischio di parere grossolano. E non dirò cose tutte e
sempre piacevoli per alcuni: me ne dispiace e me ne scuso, ma ogni tanto
parlare chiaro non fa male.
Credo anzitutto che il problema della scuola e dell’insegnamento non vada
disgiunto da altri due, più vasti, che enumero in senso crescente di ampiezza
e di importanza, correndo per intero - conscio di farlo - il rischio di cadere
nella discussione dei Principi Primi laddove si dovrebbe restare aderenti a
una discussione importante, sì, ma in fondo circoscritta.
Gli aumenti di salario orario possono essere riassorbiti dalle imprese in due
modi: attraverso l'aumento dei prezzi o attraverso l'aumento di produttività
oraria. Un incremento dei prezzi sicuramente diminuirebbe la competitività,
rimane quindi come strategia possibile l'aumento di produttività. A questo
proposito si possono fare due ipotesi:
Applausi Hamburger
Baudo Immagini
Chiusura Linea
Darsi del tu Microfono
Emblematico Non fare ...
Fanciullino Odori
Gente Pagina
Pubblichiamo la seconda parte dell'Enciclopedia di Aldo Grasso. La terza e ultima, nel
prossimo numero.
Vi chiediamo ancora di integrarla con le vostre voci. Alla fine raccoglieremo tutto e ne faremo
un'unica enciclopedia che sarà disponibile su Golem. Promesso.
1. FORUM TELEMATICO
Ti consente di discuter
digitando sul xxxxyyyy.
2. FAMIGLIA MODERNA
5. ORNITOLOGIA MONDANA
7. L'INQUINAMENTO
Soluzioni
1. COMPuter
2. uterINE
3. INEdia
4. diaVOLI
5. VOLIera
6. EraSMO
7. SMOg
8. gIACIMENTO
=COMPIACIMENTO
Donne di potere o del potere
Roberta Ribali Un intrigante quesito che passa per la mente di tutti quanti leggano il testo
del Riccardo III è: come può l’orrido Gloucester, assassino del giovane re,
marito della buona Lady Anna, convincere in pochi minuti quest'ultima,
distrutta dal dolore e dal furore, a sposarlo? Come può, con poche frasi,
indurla davanti al cadavere dell’amato sposo a capovolgere i suoi sentimenti
e a neutralizzare le sue maledizioni?
Certamente Riccardo è diabolicamente intelligente ed abile a manovrare le
persone che lui bene conosce, attivando meccanismi automatici che fanno
leva sulle nevrosi, i bisogni e le debolezze degli interlocutori per asservirli
inesorabilmente al suo volere. E certamente Anna è donna di spessore
d’animo e di sentimenti intensi, una vera regina. È proprio ciò che lei è, che
ci può dare una chiave di lettura: Anna è donna del potere, appartiene
pienamente ad esso, non esiste al di fuori del suo ruolo di regina. È sì una
buona persona, sensibile e capace di relazionarsi, così come viene descritta
nello svolgersi della sua tragedia, ma è altrettanto consapevole del suo
destino: capisce che verrà usata finché servirà all’immagine di Riccardo e
poi sarà eliminata. Ma appartiene al Potere, il suo ruolo è già scritto; al di
fuori di esso non esiste una sua identità e non è possibile per lei alcuna
ribellione. Verrà uccisa.
Quante Lady Anna conosciamo? Alcune le individuiamo facilmente nella
cronaca, le loro dinamiche psicologiche ci appaiono simili, ed evocano in
noi una moltitudine di sentimenti complessi: possono chiamarsi Dimitra
Papandreu, Jaqueline Kennedy Onassis, Stefania Ariosto ecc., ma possono
essere anche donne del nostro mondo, magari a noi molto vicine. Il Potere,
seducente padrone, utilizza queste donne in modo a volte sottile: esse
credono infatti di cavalcare la tigre, potendo spendere molto denaro,
suscitando invidia ed ammirazione, usando la loro influenza sui veri Potenti
per ottenere piccoli privilegi, raccomandazioni per gli amici, interviste in
TV. In scala minore, le conosciamo altrettanto bene: la moglie o la sorella
dell’uomo politico, la segretaria del grande medico, ma anche la compagna
del vicino di casa arricchito o la donna del bullo del quartiere.
Essere una donna del Potere significa in realtà essere una vittima ed esistere
in relazione non a quello che si è ma per il ruolo che si ha. Certamente non
tutte le donne che si muovono nell’ambito di un Potere, massimo o minimo
che sia, sono da identificarsi così: da Cherie Blair, a Carla Voltolina, la
moglie di Pertini, vivono ed hanno vissuto la loro identità, al pari, oggi, di
moltissime altre donne che portano avanti, magari con tanta fatica, un loro
percorso dignitoso e libero.
Ho assistito, come psicoterapeuta che opera a Milano, al dopo Mani Pulite.
Adesso, a distanza di anni, ritrovo ancora alcune donne svuotate, attonite,
che non hanno capito: credono di avere perso tutto, denaro e prestigio
sociale. Si sentono come bambole buttate via. Per loro è stato difficilissimo
reinventarsi un’identità, delle relazioni, un lavoro, e sono persone
sostanzialmente innocenti, perché non capivano e non hanno mai capito,
appunto.
In contrapposizione, mi capita di osservare molte donne che hanno seguito
un percorso diverso e forse speculare. Entrate in contatto con delle
dinamiche di potere, se ne sono appropriate, riuscendo qualche volta a
manovrare le leve di sé e degli altri in modo tale da dare l’impressione di
possedere qualcosa di prezioso: denaro, prestigio, successo, ai vertici di
un’azienda o gestendo un negozio o un’attività benefica o culturale. Sono le
donne di potere. Muovono soldi, persone, imprese. In famiglia sono viste
come degli importanti riferimenti, non solo per il fatto che gestiscono loro il
denaro: a capo di un’azienda o di uno stato sono efficaci, hanno imparato
benissimo la lezione impartita nei secoli dal Potere maschile e lo
riproducono, aggiungendo finezza d’intuito e seduttività. Alcune di loro
(molto poche…) vengono nello studio dello psicoterapeuta perché sono
logorate, non dormono, hanno tanta rabbia, rancore e insoddisfazione.
Esattamente come per un personaggio shakespeariano, ci si può porre la
domanda se, anche nel loro caso, il Potere sia davvero addomesticato e
asservito a loro o se, in definitiva, sia comunque lui il perverso padrone.
Naturalmente qui non ci interessano i giudizi morali sul loro operato, che a
volte può essere splendido e ammirevole. La mia è la modesta prospettiva
dello psicoterapeuta, che si interroga soltanto sulla quantità di sofferenza
umana che si accompagna a queste due posizioni del femminile: la
sofferenza c’è, ed è sempre inversamente proporzionale alla consapevolezza.
Spirito e Materia
Roberto Caselli I Pink Floyd, o meglio, quello che rimane del celebre gruppo inglese,
compie trent’anni. Tre decadi tonde tonde per insegnare al proprio pubblico
cosa vuol dire rock, psichedelia, cultura lisergica e chissà cos’altro ancora.
Tormentati fin dal primo apparire sulla scena della Swinging London, hanno
incarnato nel corso del tempo tutte le follie, le contraddizioni, le maledizioni
e le catarsi di cui è capace il rock’n’roll. Persa, subito dopo il loro primo
album, la mente creativa della band, il chitarrista Syd Barrett, preda di un
uso sempre più massiccio di LSD e di altre sostanze bruciacervello che lo
portarono ad un’irreversibile catotenia, i Floyd corsero ai ripari ingaggiando
David Gilmour che risultò fondamentale per la loro ascesa irresistibile
culminata con il celebrato Dark side of the Moon (quasi venticinque milioni
di copie vendute). Ma i travagli non finirono certo lì. La personalità sempre
più introversa ed egocentrica di Roger Waters creò ulteriori problemi che
portarono alla defezione di Rick Wright e agli scontri furibondi con
Gilmour. Dopo battaglie legali senza esclusione di colpi, Waters fu
estromesso e i restanti tre membri si rimpossessarono del nome Pink Floyd,
unico vero baluardo in grado di resistere tutt’oggi all’usura delle circostanze.
A testimonianza di questi trent’anni di vita intensa e travagliata esce un libro
che trasforma in immagini il segreto della loro musica. Spirito e Materia –
L’Arte Visionaria dei Pink Floyd, edito da Arcana, è un elegante book che
propone duecento immagini a colori tra disegni, fotografie ed elaborazioni
al computer che dal 1967 in poi hanno rappresentato la veste grafica della
loro musica. Le immagini, che originariamente hanno costituito copertine,
poster e materiale promozionale, sono corredate da un testo redatto da Storm
Thorgerson, noto designer, scrittore e regista che fece capo al mitico studio
Hipgnosis, di cui i Floyd si servirono fin dall’inizio della loro carriera e le
cui opere hanno ricevuto ben sette nomination ai Grammy.
Arricchito da una prefazione di David Gilmour, Spirito e Materia è
un’occasione formidabile per rileggere la storia del gruppo partendo da un
aspetto parallelo alla musica, da quell’angolatura intrigante e forse un po’
trascurata della multimedialità a cui i Pink Floyd ci avevano argutamente
indirizzati già tanto tempo fa.
Il mago Leonardo, i conigli e i sospetti infondati
Sylvie Coyaud http://www.mcs.surrey.ac.uk/Personal/
R.Knott/Fibonacci/fib.html
C’è un ritorno di fiamma nei confronti del caro vecchio Leonardo Fibonacci,
l’uomo che ha trasformato il calcolo in un gioco da ragazzi quando ha
introdotto in Italia le cifre arabe e, insieme, il sistema decimale indiano.
Sospettavamo un anniversario, a torto: è nato di sicuro a Pisa, ma attorno al
1170-1175 ed è morto attorno al 1250.
In libreria, comunque, sono uscite tre nuove dichiarazioni d’amore. La
prima sta all’inizio di Concetti fluidi e analogie creative (Adelphi) di
Douglas Hofstadter. La seconda compare di sfuggita in L’ultimo teorema di
Fermat (Rizzoli) di Simon Singh, perché senza Fibonacci non ci sarebbe
stato Fermat. La terza, più inattesa, è Il mago dei numeri (Einaudi), un libro
per bambini scritto da Hans Magnus Enzensberger in cui Fibonacci è
doppiamente presente, nella veste del mago protagonista e in quella del
professor Bonaccione.
Sono libri affascinanti per motivi diversi - meno riuscito l’Enzensberger, la
sua fantasia non pare all’altezza, forse gli sarebbe venuto meglio in versi? -
bisognerebbe poterli leggere incrociandoli e rimontandoli seguendo i propri
umori. Ma con i testi di carta l’operazione non viene bene.
Con Internet sì, e così si può sperimentare di persona la magia dei numeri di
Fibonacci.
Fra i tanti siti che se ne occupano, questo qui suscita un senso di meraviglia.
Un professore dell’Università del Surrey, Ron Knott (sospettavamo uno
pseudonimo, dato che il knot, o nodo, è un tema caro ai matematici, invece
no), l’ha concepito per tutta la gente che ha bisticciato con la matematica da
piccola. Niente è dato per scontato, la progressione è semplice per cui si
riesce a non perdere il filo nonostante sbuchino da ogni parte personaggi,
fiori, architetture, sezioni auree, puzzles e tasselli, conigli e consigli utili per
farseli da sé. Le spiegazioni sono in inglese, ma le cifre non hanno bisogno
di traduzione. Saltano agli occhi le simmetrie e le successioni e le loro
strabilianti assenze. Anche i più impermeabili all’improvviso dovrebbero
riuscire a vedere perché certi numeri sono chiamati "buoni" e certe formule
"eleganti".
"Il mondo matematico ci rende felici perché è fatto di libertà, di verità e di
bellezze a prova di tempo" dice Imre Toth che in quel mondo è sempre
vissuto, e forse sopravvissuto, nelle carceri dove l’avevano rinchiuso i
fascisti rumeni come nelle ovattate stanze di Princeton.
Se vi viene il sospetto che Imre Toth esageri, andate da Ron Knott e ve lo
farà passare.
Appuntamenti
Presentazione e programma
Presentazione e programma
Wassily Kandinsky
Informazioni
L'Espressionismo tedesco
Informazioni
Informazioni
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer
Direttore responsabile:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Giampaolo Urso, Gianni Granata, Mario Calabresi, Ugo Volli, Paolo Palazzi, Aldo Grasso, Francesco Siliato,
Francesco Ranci, Claudia Winkler, Franco Cardini, Riccardo Di Segni, Carlo Bertelli, Roberto Caselli, Sylvie
Coyaud, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Valentina Pisanty, Massimo
Amato, Stefano Mazza, Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
I Forum
"Salvare" Golem
Ogni articolo di Golem può essere salvato ed esportato dalla rete. Le modalità
di tale operazione dipendono dal programma di navigazione che si utilizza.
Una volta esportato come file di testo, naturalmente, è possibile impaginarlo e
stamparlo utilizzando un qualsiasi programma di eleborazione testi.
Che altro? Da parte nostra, nulla. Ora tocca a voi nutrire Golem. Vi passiamo il testimone.
NOTE:
1)S. Freud (1920), Psicologia delle masse e analisi dell’Io, OSF 9, p. 290.
2)Su questi aspetti cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, OSF, 10 p. 602.
3)Per un’introduzione a questi temi cfr. J. Amati, S. Argentieri, J. Canestri,
La babele dell’inconscio (lingua madre e lingue straniere nella dimensione
psicoanalitica), Milano, Cortina 1990, prefazione di O. Kernberg,
introduzione di T. De Mauro; D. Meghnagi, Il padre e la legge (Freud e
l’ebraismo), pp. 83-86.
4)Cfr. W. R. Bion, Trasformazioni, Armando, Roma, 1973.
5)Cfr. S. Freud (1925), La negazione, OSF, 10; id. (1910), Osservazioni
psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto
autobiograficamente. (Caso clinico del presidente Schreber), OSF, 10.
6)Cfr. S. Freud, (1927), L’Umorismo, OSF, 10, pp. 507-508.
La "finzione" della Rai
Ugo Pirro Fra le intenzioni, tante volte illustrate, degli attuali dirigenti della Rai e la
pratica quotidiana c'è una contraddizione vistosa che pure nessuno sembra
scorgere. Da una parte, assistiamo al recupero del repertorio dei film italiani,
ai tentativi della dirigenza Rai di partecipare a ogni iniziativa tesa alla
rinascita del nostro cinema; dall'altra, alla conservazione, se non
all'esaltazione, di modelli narrativi di elementare fattura e concezione.
Esiste una zona d'ombra in cui ogni proposito di rinnovamento è ignorato e
di fatto tacitamente contraddetto. Mi riferisco ai programmi di "finzione"
che la Rai produce o fa produrre: i telefilm, le miniserie, vanno assumendo
sempre più la struttura narrativa delle telenovelas, anche nei casi in cui la
tematica che si propone intende essere alta ed edificante. Lasciamo pure
stare l'ovvia considerazione che un tema alto pretende una struttura in grado
di cogliere il senso e andiamo avanti. Come spiegare l'accettazione acritica
di un modello tanto arretrato sia tecnicamente che culturalmente?
Incredibile ma vero: la Rai ha istituito una vera e propria scuola in cui alcuni
tecnici americani e australiani, affiancati da sceneggiatori di scarsa
esperienza, insegnano a giovani sceneggiatori come ripetere all'infinito il
modello strutturale della telenovela, basato sulla ripetizione delle
informazioni, nella convinzione che lo spettatore televisivo abbia bisogno
della sublimazione dell'ovvio per legarsi appassionatamente alla vicenda,
per annoiarsi a sua insaputa. Ma non è tutto: affinchè nessuno osi
trasgredire, a tali corsi partecipano funzionari Rai i quali avranno poi il
compito di leggere, criticare, scegliere le sceneggiature che meritano il
finanziamento e la realizzazione, con la ovvia conseguenza che molti
produttori, pur di non perdere l'appalto, si adeguano. Quando fra i funzionari
Rai capitano delle persone intelligenti e disobbedienti si riesce a sfuggire a
quelle regole ferree, ma capita anche l'inverso, di trovarsi cioè, al cospetto di
persone la cui obbedienza è spesso causata dalla povertà immaginativa.
La conclusione è che si corre, nel silenzio, anche delle associazioni autori,
verso l'omologazione del gusto, all'ingabbiamento della creatività a favore
di un unico modello narrativo palesemente estraneo al nostro cinema, ma
anche a ogni ricerca di linguaggio, a un qualsiasi tentativo innovativo.
Questi insegnanti di telenovelas e affini, secondo quanto si sa, dividono il
film in tre atti che codificano la scansione degli eventi; così, la divisione in
atti, abbandonata persino dal teatro di parole, viene assunta dalla "finzione"
televisiva quale modello insostituibile. Non basta: la programmazione delle
riprese, dei tempi, dei fabbisogni produttivi determina, il più delle volte, lo
svolgimento del racconto e non viceversa. L'ovvia conseguenza è che la
produzione televisiva, finisce coll'assumere le forme proprie del lavoro in
serie, della "catena". Perfetto: la lavorazione seriale, superata nelle grandi e
piccole industrie, rispunta nell'industria dello spettacolo, nella fabbrica Rai.
Ciò che più inquieta, è constatare che nessuno sembra accorgersi dei
mutamenti del linguaggio, della celerità dei cambiamenti che si sviluppano
non solo nel cinema americano, ma anche nelle cinematografie orientali,
inglese, danese, ecc.
Ma c'è un altro paradosso che riguarda proprio il cinema hollywoodiano:
basta osservare con attenzione i film dei migliori registi americani per
scoprire che essi con un occhio seguono la macchina da presa e con l'altro
spiano il cinema italiano degli anni ‘60.
Non sono nostalgico del cosiddetto "cinema di papà", nè del neorealismo
che, in un certo senso è divenuto un ostacolo al rinnovamento del
linguaggio. Ciò che, infatti, manca al cinema italiano, del resto condizionato
dal modello televisivo oggi in auge, è proprio uno stile all'altezza dei tempi
che aiuti a penetrare e rappresentare una realtà così sfuggente e a ricercarne
il senso attraverso immagini significanti.
Qualcuno, infine, dovrebbe avvertire la dirigenza Rai che frequentare corsi
di sceneggiatura, quale che siano gli insegnanti, non significa acquisire
all'istante la capacità infallibile di giudizio sui copioni che sono chiamati a
leggere e giudicare. Ho sentito funzionari parlare con disinvoltura
imbarazzante di "linea narrativa" e imporre delle sciocchezze che, una volta
realizzate, restano sepolte negli archivi, a futura memoria. Non si tratta di
essere contro i corsi di formazione, ma di valutarne l'indirizzo, la validità e
il metodo; di sceglierne i maestri e gli allievi con un criterio serio e
trasparente. Modelli da studiare, da smontare, rinnovare, esistono: sono la
commedia all'italiana, il film di impegno civile. Se, poi, abbiamo bisogno di
guardare lontano dal nostro cinema, un corso su Hitchcock, su Wilder o su
Bergman e Renoir, pur se affiancato all'analisi comparata dell'opera omnia
Del Boca e di altri noti autori di telenovelas, potrebbe essere di qualche
utilità.
Il modello americano, o brasiliano, di cinema e televisione non c'è bisogno
di insegnarlo; è stato già introiettato, giorno per giorno, da milioni di
spettatori. Un compito arduo, ma indispensabile, consisterebbe, semmai, nel
disintossicare il telespettatore, passivamente costretto a ingoiare una
pietanza che non cambia mai.
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Aldo Grasso Si cambia canale. E' l'unica cosa che cambia.
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Fanciullino Odori
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3. fare una lista delle mie possibilità di salvezza filosofica (questo elenco).
10. l’"Orrore".
18 ...
19. ...
20. ...
25. ...
26. ...
27. ...
29. ...
31. l’immortalità.
35. ...
36. ...
37. ...
39. ...
40. ...
41. ...
42. dada.
45. ...
46. ...
47. ...
48. l’autenticità.
49. ...
50. ...
51. ...
55. ...
...
...
...
153. ...
...
...
...
...
...
...
...
...
...
190. fare filosofia dopo Auschwitz; scoprire perché il più grande filosofo del
secolo era nazista.
191. Hiroshima; fare filosofia dopo Hiroshima.
195. avere o essere? Essere ciò che sono, essere ciò che devo, avere più
dimensioni, eccetera.
196. l’engagement.
...
...
...
...
...
...
372. sperimentare tutte le droghe, tutti gli stati alterati della coscienza.
...
...
...
...
...
...
419. l’apocalisse; la società dello spettacolo.
...
...
...
448. dimostrare che Dio non gioca a dadi; dimostrare perché Dio non gioca
a dadi; studiare il caos per vincere ai dadi.
...
...
...
500. fare tutte queste cose insieme; farne una sola (cambiandola di tanto in
tanto); non farne nessuna.
...
...
...
...
...
...
...
...
...
1000. perché?
1001. perché.
1002. ...
...
...
...
1.000.000. vivere.
...
...
...
...
...
...
z + 1. un’altra.
...
...
...
...
...
...
...
...
...
Protagonismi
Carlo Bertelli Forse non c’è mai stato terremoto senza sciacallaggio. Forse non vi è mai
stata disavventura collettiva senza protagonismi. Qualcuno in un caffè sul
molo, leggendo del Titanic, avrà probabilmente dichiarato agli astanti che se
l’era sempre aspettato e spiegato a tutti perché quella nave non potesse
galleggiare. Un terremoto come quello che ha colpito Assisi non poteva non
sollecitare i pruriti dei protagonisti di sempre. Sgarbi doveva essere il primo
a entrare nella basilica, dopo essere sicuro di essere seguito dalle televisioni.
A fare che? Per dirci che la perdita di Cimabue era come se si fossero
perduti due canti della Divina Commedia? Avrebbe fatto meglio a dirci
subito quanta parte di Cimabue era perduto, dato che le notizie che
circolavano parlavano di perdita totale. E poi si sa bene che nessun canto
della Divina Commedia può essere perduto, neanche adesso che, nelle
scuole, si studia Dante con meno rapimento e reverenza d’un tempo. Vi è
infatti una insormontabile differenza fra la parola, che può essere trasmessa
anche oralmente, e la concretezza d’un dipinto antico.
Li ho lasciati nella forma originale senza alcuna forma di editing (ivi inclusi i refusi
dovuti all’uso di caratteri non facenti parte del set base dei caratteri ASCII nel corpo del
messaggio). Il tema credo meriti riflessioni ulteriori e mi pare utile fare una pausa per
dar conto del dibattito che si è sviluppato.
Oltre ai due pezzi di passati su Golem di cui sopra vi invito a rileggere il rapporto
strategico della Task Force on Archiving of Digital Information. Questo documento
costituisce ancora (almeno per lo stato del dibattito italiano) un punto di riferimento
importante per cogliere lo stato del problema. Altra fonte interessante di link
sull’argomento è la pagina della Library of Congress dedicata alle Digital Libraries.
Per i lettori su carta di questo articolo ricordo che possono contribuire al dibattito
spedendo i loro messaggi all’indirizzo arcade@horizons.it
Riccardo Ridi
Io non ho detto che di fatto la cultura analogica e cartacea abbia conservato TUTTI i
suoi documenti. Sostengo invece che quella cultura ci fa oggi considerare ogni
documento scritto del passato una fonte preziosa per la sua comprensione. Sostengo in
breve che la nostra cultura assegna un VALORE particolare alla conservazione dei
documenti scritti.
G Blasi
OK, sia la nostra cultura passata che quella presente che quella (presumo) futura,
attribuiranno un grande valore ai "documenti" e alla loro conservazione (fra l'altro lo
spero anche dal punto di vista "occupazionale", facendo di mestiere il bibliotecario).
Il primo punto e': cosa considerare "documento" e cosa no. A rigore potremmo
considerare "documento" (anche se non "pubblicazione") anche ogni appunto privato,
ogni lista della spesa, ogni post-it, ogni registrazione in segreteria telefonica (e volendo
potremmo anche registrare per intero OGNI conversazione telefonica), ogni e-mail
privato, ogni videoregistrazione amatoriale, ecc. Ovviamente conservare tutte queste
cose e' non solo impossibile pragmaticamente (lo e' sempre stato ma lo sara' sempre di
piu', vista la produzione crescente geometricamente) ma anche controproducente
informativamente (finiremmo per non trovare piu' nulla).
Si tratta di stabilire un discrimine fra cosa conservare e cosa no. Prima era piu' facile per
tanti motivi. Per esempio era piu' netta la differenza fra "ricchi/potenti" che potevano
eternare i propri archivi e "poveri/deboli", che magari non sapevano neanche scrivere,
producevano pochi documenti (testuali o grafici) e difficilmente riuscivano a proteggerli
e trasmetterli. Per esempio, con la stampa tipografica era piu' chiaro il confine fra
"documento pubblicato" e "documento non pubblicato" (il primo era manoscritto e il
secondo stampato). Adesso, una homepage personale sul Web a quale categoria
appartiene?
Il secondo punto riguarda il privilegio culturale accordato per secoli alla scrittura, al
testo, rispetto a documenti grafici, sonori, oggettuali, ecc.
Le immagini, ad esempio, si conservavano solo se belle e preziose, mentre per gli
stampati c'e' sempre stata una tendenza (ardua) alla completezza.
Per il suono poi per secoli non c'e' stato modo di conservare niente. Ora che i documenti
"non-testuali" hanno migliorato il loro status culturale, andranno conservati anch'essi
con la stessa attenzione dedicata in passato a quelli testuali (era questo, mi pare, uno dei
focus del suo articolo).
Allora, visti i punti 1 e 2 e visto che siamo tutti d'accordo che sarebbe bello conservare
(e, aggiungo - da bibliotecario - catalogare, altrimenti poi non si ritrova nulla) tutto, sara'
mai possibile farlo davvero? Questa, mi pare, la sua domanda.
Grazie per la risposta ulteriore. Ma allora rilancio ancora in cerca di stimoli: cosa pensa
del punto centrale del mio (primo) pezzo dedicato alle biblioteche multimediali e cioe' al
problema dei tempi di obsolescenza dei documenti digitali (almeno di parte di essi)?
Non si tratta qui di una differenza cruciale rispetto al passato? O si tratta di una
semplice illusione di prospettiva dovuta alla nostra posizione di osservatori di un
processo in corso ancora non ben definito?
Il punto per me davvero cruciale e' questo: l'idea di Nelson e' autocontraddittoria
esattamente perche' non include la freccia temporale dell'obsolescenza dei formati
digitali. In pratica presuppone un sistema informatico stabile (almeno) come il libro a
stampa nel suo rapporto con gli scaffali di una biblioteca. Io considero questo un grave
errore concettuale di Nelson a prescindere dal fatto che lo "spirito" di Xanadu ci piaccia
o meno.
Saluti
Giulio Blasi
Anche la sua (o tua, passiamo al tu?) ipotesi degli emulatori potra' aiutare, ma si trattera'
comunque di investire costantemente tempo e energie (quindi denaro) per mantenere
realmente accessibili i documenti.
Questa e' in effetti una grossa differenza rispetto all'era cartacea, in cui "bastava"
mantenere i libri lontani da luce, calore e umidita' per riutilizzarli anche solo una volta
al secolo.
Non sono invece d'accordo sulla tua critica a Nelson , perche' l'editoria elettronica in
rete (perche' in fondo di questo si tratta con Xanadu) e' radicalmente diversa da quella
su supporto portatile (in fondo piu' simile a quella tradizionale per tanti versi:
distribuzione, pagamento, copyright, ecc..) anche dal punto di vista della compatibilita'
dei formati. Per leggere un documento remoto in rete ho bisogno sempre dello stesso
modem, disinteressandomi se e' memorizzato su un hard-disk, un nastro, una cartuccia,
un cd o altro. Pensa poi a quanto ha fatto internet per lo scambio dei dati fra ambienti
operativi diversi.... Una volta che ho messo un documento html in rete, non e' piu' ne'
dos ne' mac ne unix...
Quindi il problema dell'obsolescenza digitale tocca molto di piu' i cd-rom che non
Xanadu o Internet (che comunque ha i suoi bei problemi).
Riccardo Ridi
Una volta che ho messoun documento html in rete, non e' piu' ne' dos ne' mac ne unix...
Quindi il problema dell'obsolescenza digitale tocca molto di piu' i cd-rom che non
Xanadu o Internet (che comunque ha i suoi bei problemi).
Riccardo Ridi
In sintesi: anch'io assegno (per varie ragioni) un privilegio alla rete rispetto al PC isolato
per cio' che riguarda la "durata" nel tempo degli standard. Pero' mi pare che a parte un
lieve privilegio non cambi molto la sostanza del problema che sollevavo a proposito
delle biblioteche multimediali. I documenti oggi disponibili in rete avranno seri
problemi di obsolescenza nel giro di qualche anno. Xanadu era pensata come una rete di
documenti "puri" ma la cosa e' resa piu' complicata dal fatto che quello che oggi evolve
e' il concetto di un ipertesto di documenti e applicazioni.
Ciao
Giulio Blasi
"i documenti HTML contengono extensions proprietarie, contengono codice non HTML
di vario genere [...] gli standard di programmazione cross-platform di Microsoft sono
completamente diversi da quelli di Netscape" [Giulio Blasi, 97-08-26]
Perche' tutti corrono in avanti per conto proprio, sperando di imporre de facto i propri
standard, invece di aspettare quelli de jure del W3C.
Padroni di farlo, ovviamente, perche' "il mercato e' il mercato" e perche' - come
giustamente dici - "perche' dovremmo attenderci dalla rete esiti diversi in termini di
standardizzazione rispetto a quelli che si sono evoluti per il PC?" ma spero che almeno
chi produce documenti "seri", che hanno pretese di durata, si attenga il piu' possibile
agli standard ufficiali, e per gli altri "speriamo bene".
"In sintesi: anch'io assegno (per varie ragioni) un privilegio alla rete rispetto al PC
isolato per cio' che riguarda la "durata" nel tempo degli standard. Pero' mi pare che a
parte un lieve privilegio non cambi molto la sostanza del problema che sollevavo a
proposito delle biblioteche multimediali. I documenti oggi disponibili in rete avranno
seri problemi di obsolescenza nel giro di qualche anno" [Giulio Blasi, 97-08-26] OK. Si
riaffaccia cioe' per i documenti elettronici (in rete e su supporti portatili) tutta quella
vasta serie di problemi tipici dei documenti cartacei (manoscritti e a stampa) e su altri
supporti non elettronici (microfilms, microfiches, ecc.) a cui i bibliotecari cercano
(senza mai riuscirci completamente) da secoli di opporsi realizzando due grandi utopie:
il "controllo bibliografico universale" (sapere esattamente cosa e' stato pubblicato nel
mondo) e la "disponibilita' universale delle pubblicazioni" (rendere accessibili a tutti -
copyright permettendo - tutti i documenti pubblicati in qualsiasi luogo, tempo e forma).
I documenti elettronici hanno proprie specificita' rispetto agli altri (ad esempio
l'obsolescenza delle tecnologie da cui siamo partiti) ma anche tante affinita'. Almeno dal
punto di vista concettuale credo convenga partire dalle affinita' per poi individuare le
differenze. Ad esempio, il concetto di biblioteca nazionale (un posto dove, per legge,
debba essere depositato TUTTO cio' che viene pubblicato in un determinato paese) non
scompare nel nuovo ambiente elettronico, ma va aggiornato ed adattato in modo
flessibile. La "biblioteca nazionale digitale italiana" potrebbe non essere collocata
fisicamente in un sol luogo ma essere decentrata (fra le varie universita? fra gli editori?)
e dovrebbe occuparsi fin da subito anche del problema dell'obsolescenza delle
tecnologie (con gli emulatori di cui parlavi, collegandosi a eventuali "musei delle
vecchie tecnologie", travasando periodicamente i dati dai vecchi supporti ai nuovi, ecc.).
Saremo in grado di affrontare questa sfida in un paese che non e' mai riuscito a gestire
decentemente neanche il proprio patrimonio bibliografico "tradizionale"? Ho dei forti
dubbi, ma dobbiamo assolutamente provare, per non uscire a priori dal novero dei paesi
civili.
Ciao, Riccardo
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)
PRELIMINARI
3. LA PAZZA FOLLA
Dalla metrò ne esce un fottìo
intorno a me è tutto un vocio.
Confondo ormai l’io con il non-io,
vertigine, vortice, xxxxxxxy
I. IL GENTILUOMO HI-TECH
IV. NATURA
Soluzioni
PRIMO LUCCHETTO:
1. InterNET;
2. NETturbini;
3. Turbini
O = InterO.
SECONDO LUCCHETTO:
1. CD-ROM;
2. DROMedario;
3. è Dario Fo;
4. foRESTA = CRESTA.
Paure collettive
Roberta Ribali Poco per volta ci sentiamo come circondati. Sono messaggi a volte sottili a
volte molto espliciti che ci trasmettono i media, con toni apparentemente
neutri o francamente allarmistici, a seconda dei contenuti.
Le ondate di paura iniziano come increspature insignificanti nel mare delle
informazioni. Possono riguardare sostanze di uso comune che
improvvisamente si scoprono "pericolose", per un avvenimento di cronaca o
per una scoperta scientifica, oppure si può trattare di un particolare gruppo
di diversi cui vengono attribuite potenzialità criminali o destabilizzanti. A
volte si tratta di abitudini antiche, cui non si fa caso per anni, e che si
ritrovano repentinamente demonizzate. Si legge che la fenolftaleina
contenuta in alcuni lassativi è cancerogena, quindi questi non si debbono più
usare. La moquette permette il proliferare degli acari, il bicarbonato nel
dentifricio corrode lo smalto dei denti, e così via. Lo sappiamo tutti. Ma per
alcuni, l’esistenza quotidiana diventa pian piano una specie di percorso ad
ostacoli, una gimcana fra paure, leggende metropolitane, rituali e divieti.
Certamente, un grandissimo meteorite può centrare la terra in ogni
momento, l’hamburger mangiato tre anni fa a Londra può provenire da una
mucca pazza, l’extracomunitario che ci segue ai giardinetti per venderci un
accendino potrebbe essere uno psicopatico sessuale.
All’interno di un flusso di informazioni veicolate da notizie-slogan in TV
l’elaborazione cognitiva è minima o assente: la notizia serve solo a
alimentare la quantità d’ansia e il livello di allarme. Un ragionamento critico
pacato non è né compatibile né possibile con la sostanziale irrazionalità di
una "leggenda metropolitana", ad esempio. Queste e altre paure ci
colpiscono a ondate, come delle formazioni reattive che giustificano ansie
collettive e comportamenti stereotipi ritualizzati.
Il malessere c’è ma è altrove: è la fatica di vivere, di relazionarsi con l’altro,
di venire a contatto con un mondo esterno percepito come ostile. Le paure
permettono di unirsi, di creare la tribù degli ansiosi, ci si riconosce e
rafforza reciprocamente, trovando nella paura un rifugio solidale. Se ne
parla per strada, sul tram, con i vicini: poche parole che permettono al
popolo dell’ansia di riconoscersi e rapidamente di rafforzare, attraverso
luoghi comuni e slogan veloci, lo stato di allarme. L’onda si allarga e si
intensifica: i media lo sanno, le audiences aumentano, ma in questo stato di
sofferenza collettiva forse ci sentiamo meno soli.
Dall'idea al film (Tano da morire)
Rossana Di Fazio Prima di tutto, una confessione: sono uscita prima della fine del film; è una
cosa che ho fatto, in vita mia, solo in un'altra occasione. Per Tano da Morire
sono uscita dopo il numero di canto, danza e verdura alla Vucciria,
riproposto spessissimo nei trailers.
Credo che non mancassero che una ventina di minuti alla fine, ma ero a
disagio, e molto stanca e, come me, il mio compagno di sala: ci siamo
trovati in corridoio, e ci siamo risolti per l'abbandono della sala.
Se ho deciso di scriverne lo stesso è perché credo che molti di voi abbiano
visto Tano da morire e, a parte i favori unanimi della critica che ho
verificato successivamente, sono veramente curiosa di conoscere il vostro
giudizio e le vostre impressioni.
Riconosco alla regista il coraggio e l'originalità dell'associazione fra il tema
e il genere, rispettivamente mafia e musical. E' un'associazione che una
volta innescata genera idee decisamente spettacolari e anche divertenti. E a
parte molto gusto "Almodovar", ho riscontrato, specie nella prima parte del
film, una spiccata attenzione per inquadrature peculiari e movimenti di
macchina interessanti, o soluzioni curiose, come quella dell'altare a forma di
Monte Calvario dedicato ad ogni morto che passa dal film.
E' vero del resto che è proprio del musical affrontare questo genere di
questioni e trovare, e inventare, soluzioni per mettere in forma il racconto
coniugando testo, musica, danza e immagine. Il musical è uno spettacolo
che deve anche sorprendere gli occhi, e questo spinge il linguaggio
cinematografico a inventarsi, a immaginare soluzioni meno "realistiche" o
prevedibili: a misurarsi, insomma.
Ero curiosa di vedere come il genere musical fosse messo al servizio di un
tema greve e serio come la mafia, quasi un tabù nella nostra cultura. Mi sto
facendo l'idea che a questo genere si stia guardando con grande interesse da
parte di registi molto diversi. Il ricorso alla musica (e alla danza) come
elemento strutturante esplicito, sembra favorire una distanza che consente di
mantenere un livello più teorico e meno diretto, di stabilire una non totale
coincidenza fra il racconto del film e il discorso del film, valga per tutti
Everyone says I love You, di Woody Allen, che organizza grazie, e
attraverso il genere, discorsi sull'amore fra le persone, sull'amore per il
cinema, e sull'amore per un cinema che non si potrà mai più rifare. Ma
questa è un'altra storia.
Non sono certo le idee di allestimento che mancano in Tano da morire; anzi,
forse ce ne sono troppe. Troppe canzoni, troppi balletti, troppi movimenti di
macchina, troppe trovate ammiccanti, troppo grotteschi i personaggi, i loro
volti e i loro vestiti. Invece che mostrare, semplicemente, la loro specialità,
vengono mascherati e coinvolti in performances che dopo i primi venti
minuti del film divengono del tutto prevedibili. Facce come le loro non
avrebbero bisogno di forzature (gli occhiali, i vestiti, le mossette) che,
piuttosto che caratterizzarli, li uniformano.
Una latitanza di sceneggiatura e di ritmo pesa inesorabilmente sul film,
nonostante un soggetto "forte". Alcune finezze registiche (il combattimento
nel teatro della Vucciria fra Tano e gli ammiratori della sorella) si diradano,
tanto che si direbbe che il film non sia finito, non sia rifinito. Da un certo
momento si accumulano senza ritmo danze, flash-back, canzoni e ritmi alla
moda e i personaggi vengono soffocati dalle maschere in cui sono costretti.
Vedi Anche:
cinema.it
Strano come gira il mondo
Roberto Caselli Uno scrive una canzone per onorare un mito giovanile, una donna bella e
fragile, un sex symbol massacrato dal successo e dalle ingerenze esterne di
mariti e amanti potenti e poi, quasi venticinque anni dopo, si ritrova a
reinterpretarla in una chiesa, cambiando appena qualche frase e qualche
nome, per commemorare un’altra persona, un’amica, un’ex principessa
dagli affetti altrettanto tribolati, morta in un modo assurdo. Nonostante il
consenso generale e il successo della nuova versione di Candle in the Wind
che ha portato la sola città di Londra a esaurire in pochi minuti le prime
duecentocinquantamila copie stampate, non si può dire che quella di Elton
John sia stata una dimostrazione di grande sensibilità. A parte le ovvie
differenze fra Marilyn Monroe e Diana Spencer, accomunate forse solo
dalle sfortunate vicissitudini amorose (ma quante altre donne hanno vissuto
e stanno condividendo la stessa sorte), non è carino dedicare davanti al
feretro di un’amica una canzone pensata e costruita originariamente per
un’altra persona. Passi il plagio di un ragazzino che a corto di creatività
dedichi all’amichetta, per stupirla, una poesia presa chissà dove, ma per un
autore celebrato e prolifico come Elton John, per una volta a corto di piglio
compositivo, sarebbe stato meglio un dignitoso silenzio, se non altro per non
dare adito a maliziose considerazioni commerciali. E’ vero che tutti i
proventi della vendita del singolo, a parte le spese di produzione della casa
discografica che verranno recuperate, saranno devoluti alle organizzazioni
benefiche a cui Lady Diana era ufficialmente legata, ma è anche vero che la
pubblicità ricavata è enorme e che insieme a Candle in the Wind, guarda
caso, finirà sul singolo anche Something About the Way You Look Tonight, il
pezzo di punta del nuovo album appena uscito. Una promozione eccellente
che la casa discografica certamente non ha sottovalutato. Con questo non si
vuole naturalmente puntare l’indice su Elton John che finisce per diventare
uno strumento come un altro del business, ma magari fare riflettere che tutte
le operazioni di questo tipo, benefit e Aid vari, se da un lato funzionano, con
la passerella delle grandi star, da encomiabili serbatoi di ossigeno per gente
bisognosa, dall’altra sono un impareggiabile veicolo di promozione, a costo
bassissimo, attraverso il mondo intero che nessun altro mezzo di
comunicazione potrebbe altrimenti garantire.
Che tempo fa?
Sylvie Coyaud http://www.globe.gov
Che dramma.
Informazioni
Presentazione e programma
Wassily Kandinsky
Informazioni
L'Espressionismo tedesco
Informazioni
Informazioni
Informazioni
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer
Direttore:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Furio Colombo, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Valentina Pisanty, Massimo Ghirelli, Ugo Pirro,
Umberto Eco, David Meghnagi, Oliviero Ponte di Pino, Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Giulio Blasi, Rossana Di
Fazio, Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
State bene.
Giustizia
Ugo Volli E' importante cercare di riflettere ancora sulla questione giustizia al di là
delle scaramucce politico-giudiziarie che occupano le prime pagine dei
quotidiani giorno dopo giorno. Si tratta infatti di una questione unitaria che
ovviamente ha grande importanza e che è soggetta a numerosi tentativi di
confusione e disinformazione.
I dati di fatto sono questi. La lotta contro il terrorismo, avvenuta per via
giudiziaria più che politica o militare, ha determinato la crescita di una
nuova generazione di magistrati di grande esperienza e professionalità.
Questo gruppo di magistrati e la successiva generazione che ha preso da
loro, hanno dimostrato nel corso degli ultimi cinque anni che è possibile
vincere per via giudiziaria pure la mafia e combattere efficacemente la
corruzione, anche quando essa occupa il vertice istituzionale dello Stato. Ma
tutto il personale politico sopravvissuto a Mani Pulite, tanto quello
direttamente impegnato a difendersi da accuse di illegalità e corruzione,
quanto quello non colpito da queste accuse, cerca ora di ridimensionare
l'indipendenza e la capacità di azione della magistratura, in particolare di
quella inquirente. Lo fa in parte per motivi personali, come è evidente per
Berlusconi e suoi; in parte perché - così dice - la magistratura ha "esorbitato
dai propri limiti" e perché "bisogna assicurare la parità fra accusa e difesa".
Entrambi questi argomenti vanno letti con molto senso critico. Una
magistratura decisa a reprimere la corruzione e la criminalità organizzata
non intende con ciò affatto prendere il posto del potere legislativo ed
esecutivo. Li può costringere però a stare alle leggi (che essi stessi hanno
scritto), per esempio a non finanziarsi in maniera scorretta e a evitare
contatti ambigui con la criminalità organizzata. Queste forme di controllo
sono però intollerabili al potere politico e amministrativo, che ha cercato
spesso nel corso dell'ultimo anno di affrancarsene; per esempio, con la
"riforma" che ha praticamente eliminato il reato di abuso d'ufficio, con i
ripetuti tentativi di depenalizzare il reato di finanziamento illegittimo, con il
testo della Bicamerale, tutto organizzato per rafforzare il controllo politico
sul Consiglio Superiore della Magistratura; da ultimo con la famosa riforma
dell'articolo 513, che renderà molto difficile l'uso dei pentiti nei processi di
mafia. La ragione di fondo di queste mosse è ovvia: tutto il Parlamento
intende evitare che possa ripetersi un fenomeno come Mani Pulite il che,
significa che prevede un certo grado di inquinamento "fisiologico" del
sistema, tanto con la corruzione che con la mafia, e che intende evitare che
esso sia combattuto.
Anche la famosa "parità" di accusa e difesa è uno slogan che va letto
criticamente. Non esiste nessuna parità logica fra chi rappresenta l'intera
società e il singolo cittadino accusato di un reato. In caso contrario l'accusa
non sarebbe pubblica e il diritto penale sarebbe solo una sezione di quello
civile, come nelle società senza stato, regolate da faide ordalie e duelli. C'è
un bisogno di garanzie, naturalmente, e per questo procuratori della
Repubblica accusano e non condannano né rinviano a giudizio, i gradi di
giudizio sono tre, eccetera eccetera. Ma non vi è nessuna ragione per cui un
magistrato inquirente, il cui scopo è la difesa della legge, debba essere
"pari" all'avvocato del mafioso, il cui legittimo scopo è quello di evitare, con
qualunque cavillo, la condanna del suo assistito. Semmai potrebbero essere
pari difesa e accusa privata (parte civile). Dunque chiedere questa parità
significa semplicemente volere una pubblica accusa che indaghi di meno,
magari che stia sotto il controllo di parte del governo, riducendosi quindi a
un ruolo privatistico.
E i cittadini? Non avranno anch'essi interesse innanzitutto a questa parità,
essendo potenziali futuri accusati? Intanto va detto che, se leggiamo le
statistiche, essi sono più probabili future vittime di un reato. Ma il punto
principale è un altro. I cittadini hanno un interesse primario e personale per
la giustizia, anche se non sono né vittime né accusati. Per capirlo, basta
guardare l'impressionante sovrapposizione fra le regioni del Sud
abbandonate alla criminalità organizzata (Sicilia, Calabria, Campania, in
parte Puglia) con la parte del paese più economicamente depressa. Vi è un
Mezzogiorno capace di decollo economico, ma è esattamente quello in cui
non ci sono la Mafia e la Camorra.
Per quanto riguarda la corruzione, essa colpisce un interesse comune
fondamentale: l'imparzialità dell'Amministrazione Pubblica. Questa è un
bene molto raro nel paese delle raccomandazioni. E' anche difficile
distinguere la corruzione vera e propria da più o meno innocenti
raccomandazioni, quelle su cui si è costruito il potere di tanti notabili della
politica; e questo spiega in parte il rancore della corporazione dei politici.
Ma è interesse generale che queste pratiche siano limitate e represse, in
particolare quando alimentino il gioco politico. E' necessario che la vita
politica democratica sia attentamente controllata da check and balances
(controlli e contrappesi) perché non degeneri nell'oligarchia e nella
tirannide, come spesso è accaduto. Opponendosi con un referendum al
finanziamento pubblico dei partiti, negando più di recente il loro appoggio
alla legge del 4 per mille che aggirava quel referendum, appoggiando con
entusiasmo Mani Pulite, i cittadini hanno espresso una diffidenza per il
sistema politico che dovrebbe far riflettere.
Mentre il Polo era dall'inizio dalla parte degli imputati di corruzione e reati
analoghi (semplicemente perché era stato fondato dal più ricco e potente di
tali imputati), l'Ulivo aveva raccolto le speranze di chi voleva la legalità, la
repressione della criminalità organizzata e della corruzione, l'imparzialità
dell'amministrazione, una giustizia efficiente e combattiva. Ora è evidente
che restano delle differenze fra Polo e Ulivo, ma un accordo sulla
limitazione dell'attivismo della Magistratura è stato raggiunto, proprio sulla
base degli interessi corporativi del ceto politico cui ho accennato e delle
convinzioni che gli corrispondono. Insomma, dietro la posizione della
sinistra non vi è solo il costo dell'inciucio con Berlusconi: vi si aggiungono
una cultura giacobina del comando assoluto della politica, una cattolica
dell'indulgenza nei confronti del peccatore, specie se è "uno di noi",
un'antica abitudine a rispettare i poteri reali, anche se magari criminosi.
Questa posizione così radicata danneggia profondamente il paese (cioè tutti
noi), perché ridà spazio e possibilità di difesa alla Mafia e alla corruzione.
Combatterla è importante. Soprattutto in seno all'Ulivo, che vive una
contraddizione importante fra i suoi interessi di gruppo dirigente e
governante (cui convengono le mani libere) e quelli del suo elettorato, che
ha bisogno della legalità. Queste contraddizioni spiegano le oscillazioni e le
contraddizioni dell'Ulivo. E' essenziale continuare a fare pressione su di
esso, almeno per limitare i danni.
Caro Palazzi
Fabrizio Tenna Sono tre i temi centrali da approfondire, anche se in parte Palazzi li ha
toccati nei suoi articoli precedenti.
● dare ai privati
● contiene al suo interno anche il tema della privazione, qualcosa che
prima era della collettività diventa privato
c)"Che non è prevista alcuna operazione per limitare la spesa per interessi
se non attraverso una politica di rigore economico che favorisca
l'abbassamento del tasso ufficiale di sconto."
Non è prevista perché non credo esista. Le frontiere sono aperte (ai capitali)
e non c'è nulla da fare.
"Tutto questo a parer mio andrà a beneficio solo delle imprese (che stanno
richiedendo questa politica di tagli unitamente alla flessibilità del mercato
del lavoro)."
Probabilmente è vero nel breve periodo. Nel lungo la scommessa è che
questa politica della spesa pubblica possa stimolare l'occupazione senza
passare attraverso una flessibilizzazione selvaggia del mercato del lavoro.
Non è detto che ciò avvenga in quanto l'occupazione non si inventa (ma su
questo ho scritto le mie opinioni su due interventi su Golem).
Le lettere nascoste delle due ics iniziali di questo Autogolem sono uguali
alle lettere nascoste dalle due ipsilon finali: assieme compongono un
accorciativo che si usa per alcuni nomi maschili (se fossero M,I,- e non lo
sono - il risultato sarebbe Mimì, cinematografico metallurgico; se fossero T,
O, e continuano a non esserlo - il risultato sarebbe Totò). Le altre sequenze
di x o di y si ripetono, di strofa in strofa.
L’automobile è a rate
In ufficio non andate
perché al sole vi scottate.
Questa dunque è x’xyyyyy
2. CHI LI HA VISTI?
3. TECNOGALANTERIA BELGA
5. TRESETTE
Se di coppe non ne ha
e finì le spade già,
o bastoni scarterà
oppur xxx xx xxyy
6. POLITICO CONCILIANTE
Soluzioni
1. L’Estate;
2. state BENE;
3. BENElux;
4. l’uxORICIDA;
5. ORI CI DARà;
6. raMO D’ULIVO
7. MODULI Volanti;
8. l’antiCA ROMA;
9. CARO MAstella;
10. stella COMETA;
11. COME TAle
(=Lele)
Andare dallo Psicoterapeuta
Roberta Ribali E’ una decisione fondamentale: si tratta di investire tempo, fatica, emozioni
e denaro su ciò che di più importante abbiamo, noi stessi. Eppure, anche
quando ne sentiamo la necessità - a volte preferiamo mascherarla da
curiosità - manifestiamo resistenze di ogni genere, che vanno dalla
banalizzazione del nostro malessere alla rimozione, dall’adozione di rimedi
ingenui e semplicisti, come spendere in nuovi abiti, auto o computer, alle
decisioni drastiche e violente, come abbandonare una persona amata o un
corso di studi. Ma lo star male aumenta ad ondate: sotto forma di ansia
sottile che pervade ogni momento della giornata, o di crisi di panico e di
fobie, o di depressione del tono dell’umore, di malinconia che ottunde ogni
entusiasmo e gioia di vivere e che spegne anche il corpo e i suoi piaceri.
Trovare uno psicoterapeuta adatto con cui focalizzare correttamente i
problemi e cercare le soluzioni è certamente la via più ragionevole: ma un
malinteso senso del "fai da te" porta a perdere tempo e a impaludarci sempre
più in noi stessi. I più fortunati possiedono un amico - o un’amica - con cui
si può parlare, ed è già un bene prezioso. Ma questi dialoghi si risolvono in
genere con una serie di consigli affettuosi che lasciano il tempo che trovano.
A volte, è proprio l’amico che suggerisce di rivolgersi a uno che lui stesso
conosce, con cui ha avuto una buona esperienza, diretta o indiretta.
Questa è una valida strada, perché già si parte con un atteggiamento di
fiducia indotto, che aiuta a maturare una decisione e a compiere il passo di
telefonare per un appuntamento. A volte si preferisce fare tutto da soli,
magari guardando le Pagine Gialle o telefonando a caso a qualche
Associazione. In questo caso è opportuno prendere delle precauzioni,
chiedendo ampie informazioni, che è dovere di un serio psicoterapeuta
fornire: che tipo di laurea ha, se cioè è psicologo, psicologo medico o
psichiatra, che tipo di lavoro svolge, se opera privatamente o in qualche
struttura. Il lavoro in uno studio privato è naturalmente più costoso di quello
offerto da un Consultorio Pubblico. Nel pubblico si viene a contatto con
psicoterapeuti qualificati, che però lavorano inquadrati nelle maglie di un
servizio che necessariamente prevede priorità, orari prestabiliti e rigidi, turn-
over degli operatori: disponibilità insomma in qualche modo limitate, che
vanno prese per ciò che possono dare. Il fattore di importanza reale è
comunque la persona dello psicoterapeuta: che operi nel pubblico o nel
privato, deve comunque darci la sensazione di poter lavorare bene insieme.
Non dobbiamo stupirci se, a volte, è necessario girare alcuni studi prima di
trovare la persona che fa per noi: qualcuno che magari ha tutte le carte in
regola e ci è stato ben introdotto può non ispirarci quella sensazione di poter
collaborare reciprocamente che è alla base del successo terapeutico. Non sto
assolutamente parlando di simpatia o antipatia: il senso del lavorare bene
insieme è tutt’altra cosa. A volte un terapeuta che va bene per noi può essere
taciturno, o di aspetto modesto, o di modi un po’ ruvidi; ma la domanda che
ci dobbiamo porre, dopo il primo colloquio, è solo una. Cioè: con uno -o
una- così io me la sento di aprirmi e di procedere nel mio mondo interiore?
Anche il fatto che il terapeuta possa essere uomo o donna è sostanzialmente
irrilevante, salvo casi particolarissimi; l’importante è che si tratti di una
persona esperta e sostanzialmente per noi positiva, che permetta l’incontro
intellettuale ed empatico, al di là di inevitabili discrepanze culturali e
ambientali. Decidere di consultare uno psicoterapeuta è qualcosa che, a
volte, già basta a far stare meglio; la prospettiva di essere ascoltati a
trecentosessanta gradi senza essere oggetto di giudizio o rimprovero è un
pensiero che dà speranza e rassicurazione.
Oggi questa prospettiva capita un po’ a tutti, almeno una volta nella vita:
difficoltà con l’ambiente o con la scuola, problemi di coppia o di identità
sessuale, depressione, paura ad affrontare un’esistenza sempre più
complicata. Ed infine i disturbi e le malattie psicosomatiche, che sono un
complesso linguaggio attraverso il quale il nostro corpo traduce i nostri
disagi profondi. Tutti questi segnali di malessere ci sono amici,
paradossalmente, e dobbiamo dare loro retta. Crisi d’ansia o di depressione
sono importantissimi e utili campanelli d’allarme che dicono che c’è
qualcosa di molto importante che non va in noi stessi, e che ce ne dobbiamo
occupare al più presto, senza nascondere la testa sotto la sabbia
trangugiando tranquillanti e lasciando che tutto vada avanti. Un
cambiamento a volte è indispensabile per ritrovare la propria armonia
interiore perduta ma è spesso così difficile che è necessario un sostegno
qualificato e amico per smantellare resistenze e retaggi conservatori.
Investire in noi stessi, sempre, ma tanto più quando occorre, fermarsi a
riflettere, ridare spazio alle priorità fondamentali: possiamo anche servirci di
un buon psicoterapeuta, senza pregiudizi e con un po’ di pragmatismo.
Postazioni (Trees Lounge)
Rossana Di Fazio A me piace l'estate; mi sembra che, nonostante tutti gli sforzi per ridurla ad
una parentesi sempre più esigua di vacanza forzata e di malata iperattività
alternativa, luci, colori e temperature, espressioni di una Natura contaminata
finché si vuole, impongano al corpo andature diverse, ritmi adatti a
sopravvivere, un certo armonioso torpore.
Non sto venendo meno ai miei compiti, perché è soprattutto di un modo di
rappresentare e vivere il Tempo che intendo scrivere.
Me ne offre l'occasione il film ben diretto e molto ben interpretato da Steve
Buscemi, Trees Lounge (in italiano Mosche da bar : ogni commento mi
sembra superfluo), presentato lo scorso anno e in programmazione da
qualche settimana in Italia.
Ha l'aspetto di un film leggero nelle forme, benché decisamente
drammatico, come sanno essere certi film indipendenti, la cui freschezza
sembra inversamente proporzionale alla dovizia di mezzi e denari.
Il film è ambientato in una piccola città americana; si prende, nel corso del
film, una certa confidenza topografica con questo posto e questa è una
sensazione curiosa, perché è difficile che questa familiarità con lo spazio
percorso dai personaggi sia rilevante in un racconto; ma il giro che Tommy
compie fra i meccanici e il bar, e poi quello che ripercorre con il furgone dei
gelati mostra sempre le stesse strade e villette, e prospettive sempre uguali
che fanno di un luogo una provincia, un posto finito, concluso, facile da
conoscere. Non c'è nessuna avventura nello spazio, né direzione da
esplorare.
Mi è venuto in mente un film che ormai ha più di vent'anni, bellissimo,
L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, molto diverso, ma ambientato in
una analoga cittadina, circoscritta, un'isola di spazio e di persone , senza
folle, senza persone da scoprire e senza Tempo.
Nel suo ritratto di provincia Bogdanovich delegava ad un bianco e nero
rigorosissimo (e allora niente affatto inflazionato) la restituzione di un
effetto anni cinquanta molto accentuato nel quale il Cinema e il Racconto
combaciavano perfettamente, trovando una loro unità drammatica e
narrativa straordinaria. Sembrava una specie di incantesimo.
In Trees Lounge sono pochi gli elementi che consentono di datare
perfettamente il racconto, come se questo non fosse molto importante. C'è
piuttosto un certo gusto nel mischiare le carte, nell'introdurre musiche molto
datate (il juke box alimentato dal vecchio Billy manda solo vecchie canzoni)
o certi abbigliamenti eccessivi delle avventrici del bar, o nel sottolineare
l'assenza, nel bar, di uno straccio di videogioco. Lo stesso furgone dei gelati
di Zio Hal, che Tommy prenderà in consegna, sembra un mezzo di altri
tempi, quelli che la giovane Debbie rievoca ricordando Il mago di Oz, e che
i bambini in attesa del gelato agli angoli della strada non devono sentire
come troppo diversi dai propri.
Non è solo l'eclettismo ammiccante e citazionista a cui siamo molto abituati:
credo che questa ricerca di varietà e identità temporali sia fondamentale per
una specie di poetica, che esprime una spiccata sensibilità per una
dimensione ampia del Tempo, una specie di disponibilità a sentirne, nel qui
e ora, l’espansione, la compresenza di passato e futuro. E' un effetto fin
troppo evidente nella simmetria e coincidenza dei volti del vecchio Billy e
del giovane Tommy, ritratti che insistono sullo schermo rispettivamente
all'inizio e alla fine del film, e rimarcato da una specie di identità
fisiognomica fra i due personaggi che può disorientare lo spettatore.
Ma sarebbe un errore non cercare nell'alcool, e soprattutto nel bar come suo
sacrario, il centro di questo discorso sull’esperienza del Tempo.
Alcool, fumo, eroina: Trees Lounge, Smoke, Trainspotting sono tutti film
indipendenti e piuttosto importanti di quest'ultimo anno. In forme, e a gradi
molto diversi, hanno proposto in primo luogo una situazione, una postazione
da cui guardare il mondo: il negozio, il bar, la stanza dove ci si fa, dalla
quale si prendono o si accorciano le distanze con tutt’altre accellerazioni.
Bene, a me pare che tutte queste prospettive abbiano anche saputo proporre
senza moralismi una visione asciutta e dialettica, e non solo nichilista di
queste tre dimensioni esistenziali.
In Smoke, Trees Lounge, Trainspotting a variare è il grado drammatico del
racconto, non la centralità del rito e la conoscenza che esso custodisce.
Questi paradisi artificiali che divengono oggetti e organizzatori del racconto
servono anche in quanto metafore del Tempo vissuto, di cui il cinema si
appropria.
"Scegliete di marcire o scegliete la vita", propone il narratore di
Trainspotting, ma in quel marcio sembra esserci molta verità e nell'alcool la
tentazione sublime di non cedere all'azione, saggia o stupida che sia. Quella
sensazione del tempo ampia, multipla, che ho provato a descrivere, sembra
avere come condizione una certa immobilità. Ma movimento e inazione
sono anche qualità del discorso cinematografico. Questo cinema, anche
produttivamente diverso, impone altri ritmi alla narrazione, dettati da regole
diverse dall'azione rutilante e incalzante della grande produzione
commerciale, che teme la stasi come la morte e deve descrivere un Tempo
sempre pieno, e muoversi continuamente per trasformare ogni vuoto in
soluzione spettacolare, dando vita ad un’ unica e sfaccettata dimensione di
un Presente interminabile: anche questo è un modo di esorcizzare il niente,
il pericolo, l'horror vacui; forse per questo quando deve mettere in scena il
Tempo che passa ricorre volentieri, e con una certa commovente ingenuità,
alla maschera della vecchiaia, che appare sempre posticcia e inverosimile.
Come se il sentimento del Tempo fosse questione di trucco.
Vedi Anche:
http://www.treeslounge.com/ontap.html
Omaggi
Roberto Caselli Pochi mesi fa lo davano per spacciato, ora esce addirittura il primo disco
della sua nuova etichetta: la Egyptian Records. Dylan, come al solito,
spiazza tutti perché nessuno pensava che il progetto fosse così prossimo a
realizzarsi. Sorprende anche la scelta, un vero atto di umiltà, che affida
l’inaugurazione della label ad un disco-tributo dedicato a Jimmy Rodgers, il
padre della country music, piuttosto che a un proprio lavoro. Certo Rodgers
non è un personaggio qualsiasi, da lui comincia a evolversi quella musica
che passando attraverso la Carter Family e soprattutto Woody Guthrie,
segue un filo diretto che porta agli anni sessanta e in particolare al giovane
Dylan, allora folksinger poco più che ventenne e di belle speranze, che dal
Greenwich Village newyorkese, parte alla conquista del mondo.
Jimmy Rodgers nacque a Meridian, nel Mississippi, nel 1897, il suo lavoro
era quello di frenare e deviare i treni sulla strada ferrata della sua città,
mestiere che lo mise in contatto con una vasta schiera di hoboes, quei
vagabondi alla continua ricerca di lavori avventizi che si spostavano da nord
a sud dell’America viaggiando in modo clandestino sui vagoni merci. Fu
grazie a loro che venne a contatto con i blues, i work songs e le tecniche
espressive della musica del Sud; imparò a suonare il banjo e la chitarra e fu
presto in grado di elaborare uno stile musicale molto particolare che aveva
in sé i germi della musica nera, ma anche il fascino avvolgente della musica
hawaiana, spesso tanto dolce da apparire mieloso, ma anche ricco di
struggimento o nostalgia. I testi delle sue canzoni non erano particolarmente
significativi per il periodo storico in cui furono scritti, infatti, nonostante i
guai della Grande Depressione, Rodgers preferì sempre centrare la sua
attenzione sugli aspetti più retorici e patetici che ne derivavano, dando
un’idea piuttosto grossolana della realtà. Ben presto si ammalò di
tubercolosi e l’inizio della carriera discografica gli risparmiò fatiche
insostenibili. Incise il suo primo disco nel 1927 e, nonostante la scomparsa
prematura avvenuta nel ’33, riuscì a effettuare parecchie registrazioni di
successo che eseguì spesso con il classico uso dello yodel. Jimmy Rodgers
ha avuto un’influenza determinante nello sviluppo successivo della musica
country e gli artisti delle generazioni successive gli hanno sempre conferito i
giusti onori che sono culminati nella deposizione di una lapide nella
Country Music Hall Of Fame di Nashville. Più recentemente, con la
raffigurazione della sua effige su un francobollo emesso dalle poste
americane, c’è stato anche il riconoscimento ufficiale della sua opera. Ora a
settant’anni dalla nascita, Bob Dylan dà il suo contributo personale al
ricordo del grande maestro concependo questo tributo in cui figurano
quattordici musicisti che interpretano altrettante canzoni del repertorio più
famoso di Rodgers. Hanno dato il loro assenso a questo progetto anche
personaggi del tutto impensabili come Bono degli U2 che per l’occasione
ritorna all’acustico per una splendida ballata, Dreaming With Tears in My
Eyes, e Jerry Garcia che ha registrato insieme a David Gisman il suo pezzo
poco prima di morire. Scontata invece la partecipazione degli artisti del
nuovo country come Steve Earl, Dwight Yoakam e Mary Chapin Carpenter
o di quello tradizionale come Willie Nelson. Tra i molti altri figurano anche
Van Morrison, John Mellencamp, Aaron Neville e naturalmente lo stesso
Dylan che si mette in evidenza con My Blue Eyed Jane.
Le anime delle nuove generazioni cercano e spesso trovano corrispondenza
con quella del vecchio Jimmie, un’operazione mediata da un evento
commerciale, ma dettato sicuramente anche da tanto affetto.
Statistica
Sylvie Coyaud http://nilesonline.com/stats/index.shtml
Giugno 1997. E’ a Milano per il convegno Futuro del sapere, futuro del
lavoro, organizzato dall’agenzia Hypothesis, Burton Richter, un fisico molto
simpatico che ho conosciuto cinque anni fa. Ha scoperto una nuova
particella e ha ricevuto il premio Nobel per la Fisica nel 1976, quando aveva
45 anni. Dal 1984 dirige lo Stanford Linear Accelerator Center in
California. In questo momento è felice perché sta costruendo una grandiosa
macchina per produrre degli anti-mesoni B, una "fabbrica di anti-materia"
che dovrebbe funzionare a regime nell’estate del 1998.
Dopo che mi sono informata del suo lavoro si informa lui del mio e siccome
è gentile, fa di più. Suggerisce dei temi da trattare, dei libri da leggere, dei
suoi colleghi da interpellare, e raccomanda:
— Cerca di familiarizzare i tuoi ascoltatori con il ragionamento statistico. Se
vogliono agire da cittadini pensanti, devono capire quello che le statistiche
dicono e non lasciare che siano gli altri, i politici ma anche gli scienziati, a
interpretarle al posto loro.
— Eh sì, lo so.
Lo so davvero. La statistica si trova nella cassetta degli attrezzi di qualsiasi
scienziato. Esiste in tante versioni, dal semplice cacciavite di cui parla
Burton Richter al Black & Decker multiuso, più difficile da montare
dell’intera missione Pathfinder.
— Devi fare qualcosa.
— Ci proverò.
Per radio, ancora non so come farò. Per Golem, no problem.
Un sito web spiega in un inglese terra terra la media, la mediana, la
percentuale, la deviazione standard, il margine d’errore - sottotitolo "come
non farsi fregare dai sondaggi" - l’analisi dei dati, la rappresentatività di un
campione. C’è una biografia di Robert Niles, giornalista scientifico che va
congratulato per questa sua iniziativa di salubrità pubblica. E una
bibliografia concisa ma eccellente, alla quale io aggiungerei soltanto un
saggio emozionante: Stephen Jay Gould, The Median Isn’t the Message.
Gould racconta che, malato di cancro, gli avevano dato ancora otto mesi da
vivere, la mediana del suo caso. Sapere di statistica gli ha letteralmente
salvato la vita. In italiano La mediana non è il messaggio è nella raccolta
Risplendi grande lucciola pubblicata da Feltrinelli, Milano 1994, 45.000 lire.
Appuntamenti
Presentazione e programma
Direttore:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Paolo Palazzi, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Beppe Severgnini, Ugo Volli, Carlo Bertelli,
Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio, Cinzia Leone, Fabrizio Tenna, Ugo Pirro,
Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
Cari lettori, lo sappiamo (e ce lo ricorda anche uno dei nostri collaboratori in questo stesso numero) che i
tentativi dell’uomo di dare una scansione al tempo riposano su assunti assolutamente relativi. Tuttavia ci
sentiamo di festeggiare questo primo compleanno di Golem da una parte perché siamo consapevoli che tutto il
mondo riposa su assunti relativi, dall’altra perché sentiamo questo Golem come una creatura vivente, nostra e
vostra, frutto del pensiero e dell’opera dei collaboratori, dei lettori, della redazione.
Al piccolo Golem (e ai nostri lettori), come è d’uso, abbiamo fatto due regali. Il primo è uno strumento di
conoscenza: un sistema di indici che permette di individuare agevolmente tutto ciò che su Golem è stato
pubblicato su un certo argomento o da un certo autore. Il secondo è più un regalo a chi ancora non naviga in
Internet: questo numero di Golem, infatti, sarà presto disponibile anche su carta, nelle librerie Feltrinelli.
Giustizia, educazione, telecomunicazioni, giornalismo, occupazione, welfare, riflessioni sul nuovo millennio
sono solo alcuni degli argomenti che Golem 12 propone.
Augurandovi ogni bene, attendiamo vostre notizie.
Messaggi
Furio Colombo Qualcosa cambia, ma cosa? E’ la troppa velocità o la troppa lentezza del
cambiamento che ci stordisce? Che senso ha una giornata, la durata di una
giornata, la scansione di una giornata, di un minuto, di un’ora o la sequenza
degli anni?
Per esempio, il calcolatore non vede il 2000 e tutti i computer del mondo
dovranno essere riprogrammati a un costo immenso, altrimenti rifiutano di
entrare nel nuovo millennio. Non sarà un segnale? E se tutti fossimo intenti
a guardare dalla parte sbagliata? Se il lavoro fosse venuto improvvisamente
a mancare come manca il latte alla madre quando non è più necessario per
sopravvivere?
Siamo sicuri di dover essere pagati per un lavoro - probabilmente sempre lo
stesso - che deve durare fino a che siamo stanchi e andiamo in pensione?
Non è una notizia curiosa questa che dice: non si va più in pensione alla tale
età, si va alla tal altra, come se fosse l’ora per andare a dormire dentro una
istituzione? Se la vita sociale avesse cominciato a darci segnali che non
comprendiamo, come ha fatto invano per secoli la vita della natura, lo
sguardo degli animali, l’incupirsi e lo schiarirsi dei cieli, l’alzarsi e
l’abbassarsi dei mari?
Che senso ha una giornata quando comincia? Serve a muovere altri passi di
un lungo cammino? Quale? Per andare dove? E’ ragionevole sospettare che
lo scopo di quella giornata (andare, tornare, trovare, incontrare, imparare,
dire, far sapere, comunicare) non sia che un falso scopo, come una busta
chiusa da aprire in volo, secondo la disciplina imposta ai piloti del B 52
durante la guerra fredda, in modo che nessuno possa sapere e dire prima del
tempo quale è il vero obiettivo? Mi stanno mandando messaggi? Chi? Gli
schizofrenici sostengono di riceverli, i mistici sentono le voci, entrambi
sacrificano la propria vita e quella degli altri per rispondere alle voci. Noi
(molti di noi) li consideriamo pazzi. Lo sono davvero o hanno dei terminali
più affinati dei nostri e sentono ciò che noi non sentiamo (o facciamo finta
di non sentire)?
Quanti di noi considerano imperfetta e inadeguata la vita di coloro che sono
altrimenti dotati ovvero portatori di handicap? Lo sono davvero? Che cosa
sappiamo della normalità noi che veniamo da un mondo persuaso che la
forza sia la chiave di tutte le soluzioni? Quale forza? C’è forza in un
pensiero, forza che muove le cose e le cambia, le piega, le trasforma? Un
pensiero d’amore? Una ossessione, una ripicca, una vendetta, un amor
proprio negato? Dov’è che si coordinano tutti i miei nervi fino a diventare
un sistema perfetto di comunicazione che però a me sembra vuoto, pronto
per funzionare ma senza una ragione per farlo?
E’ salute fisica, salute mentale, oppure un misterioso liquido detto "spirito"
che mette in movimento una macchina pronta e passiva che non ha suoi
progetti ma può solo riceverne? Da chi? C’è qualcuno o qualcosa che a mia
insaputa mi comunica perché amare, come organizzare il flusso dei miei
pensieri e verso che cosa? La fantasia è una distrazione, una febbre, un
gioco fine a se stesso o una macchina di rivelazione che non posso mettere
in moto e non posso fermare a costo di restare per giorni davanti a pagine
bianche, per notti inseguito da immagini che rifiutano di fermarsi? Quando
immagino, vedo? In che senso ciò che immagino non esiste, perché non
esiste, chi lo dice? Non saremo in mano a ingegneri un po’ aridi che ci
parlano continuamente di fini concreti perché hanno paura di ciò che non si
tocca con le mani?
Ma ciò che si tocca con le mani esiste? Se esiste, che cosa dimostra? Che mi
posso fidare solo di ciò che le meni constatano? Non è troppo poco? Perché
qualcosa mi fa pensare che accanto a qualcosa di grande ci sia qualcosa di
ancora più grande e mi impedisce di credere che sia tutto qui?
Si chiama fede oppure è la memoria passata e semisepolta di sequenze
naturali la cui traccia è andata smarrita? Che cosa è la salute, uno stato
normale (normale come?) o un semplice stato d’attesa fra alterazioni e
cambiamenti che sono messaggi, linguaggi, di fronte a cui siamo ciechi?
E di cosa mi avverte il dolore? Perché uso la stessa parola per raccontare
l’avvertimento che ricevo dai terminali nervosi e per dire il senso di
squilibrio, disorientamento, pena, che non hanno alcuna sede nel corpo, non
sono nessun male ma sono male, tanto da farmi sentire immensamente
infelice? Da dove viene una infelicità tanto sproporzionata da farmi sentire
indifeso perciò disperato? Perché un punto, un luogo, un ente
immensamente più forte dovrebbe esercitare tutta la sua potenza sulla
evidente inadeguatezza di chi riceve il messaggio di disperazione? Se c’è un
senso, un segnale, perché va perduto? Chi ha perduto, quando, la lista dei
codici?
Perché alcuni ricevono ordini, come far il bene o fare il male, e altri no?
Oppure tutti li ricevono ma molti non ubbidiscono? Chi fra i due gruppi
produce la confusione nella quale abbiamo l’impressione di vivere? Ci
manca il coraggio di ubbidire o ci serve l’audacia di trasgredire gli ordini,
sfidando la punizione? La persona che improvvisamente ha posto fine alla
sua vita, senza un messaggio o, come fanno i ragazzi, mostrando un broncio
o un pretesto ridicolo tipo un destino di un eroe del rock, a chi sta dando con
fedeltà disperata il suo assenso? Ha visto una rivelazione o ha capito che
non ci sarà mai alcuna rivelazione, che il messaggio sarà sempre atteso e
l’attesa sarà sempre negata?
Controllare, gestire, ordinare, definire, recintare, immagazzinare, fabbricare,
è una serie di fatti veri, di cose che accadono? O il frutto di una nevrosi che
costringe ad agire per non prendere atto del vuoto intorno? Perché,
nonostante quel vuoto e quella nevrosi, continuo a sospettare che ci sia
un’altra strada, un’altra ragione, un altro messaggio? Se c’è, perché non
riesco a leggerlo? Sono più lontano o più vicino quando mi astengo dal fare
e mi siedo al margine della strada, indebolito, invecchiato, senza risorse? Le
risorse, poi, che cosa sono? Il denaro che scambio, il talento che presto, il
pensiero geniale che mi è venuto e che mi porta a dire che ho trovato la
"soluzione"?
Perché non è mai la soluzione, o mi è impedito di crederlo?
Giusti Poteri
Ugo Volli Esiste in Italia un problema reale intorno alla giustizia. Come sa chiunque si
sia trovato coinvolto in qualunque causa civile o penale, per lo più i tempi
sono lunghissimi, le procedure eccessivamente complicate, i risultati
aleatori. Insomma, è difficilissimo ottenere quel servizio elementare dello
Stato che è la giurisdizione.
Ed esiste poi un problema inventato della giustizia. Ci sarebbero alcuni
procuratori della Repubblica (guarda un po', quelli che lavorano bene e
ottengono risultati, per esempio a Milano e a Palermo) che avrebbero troppo
potere, invaderebbero campi altrui, non si accontenterebbero di stare alla
pari con la difesa.
Questa seconda falsa questione sulla giustizia è stata sollevata inizialmente
da alcuni politici e da alcuni organi di stampa (legati prima al vecchio PSI e
poi a Berlusconi), ma ormai è patrimonio comune delle forze politiche. Con
qualche abuso formale rispetto al mandato ricevuto, un'intera sezione di
lavoro della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali si è
occupata di questo problema, che ha affaticato anche il Parlamento in seduta
normale (con la riscrittura dell'art. 513 bis del Codice di Procedura Penale),
il Ministro della Giustizia e tutta la stampa.
Secondo una linea molto significativa, la Bicamerale è intervenuta non sui
principi processuali, ma sull'organizzazione dell'ordine giudiziario, tentando
nei limiti del possibile di stabilire (o di ristabilire) un controllo politico su di
essa: in particolare si è tentato (riuscendoci parzialmente) di separare i ruoli
dei giudici da quelli dei pubblici ministeri, di aumentare la quota dei politici
nel CSM (organo di controllo della magistratura), di stabilire poteri di
indirizzo del Parlamento sul lavoro dei giudici, eccetera.
Da questo elenco di temi si vede che la questione è politica: non il
funzionamento della giustizia, ma il suo controllo, non lo svolgimento del
processo, ma le nomine e il potere disciplinare. Una domanda a questo
punto è ovvia: perché‚ questa volontà dell'intero universo parlamentare di
stabilire un controllo sulla magistratura e, in particolare, sul potere dei
pubblici ministeri (che indagano, accusano, ma non possono condannare)?
Dopotutto, almeno tre storici successi dello stato sono dovuti a questi
magistrati (spesso le stesse persone): la sconfitta del terrorismo di vent'anni
fa, lo smascheramento della corruzione ai vertici dello stato (Mani pulite) e
le gravi sconfitte subite dalla mafia negli ultimi dieci anni. Perché dunque,
voler colpire e controllare una magistratura così più efficiente degli altri
organi dello stato?
Una risposta appare probabile: proprio perché‚ è così efficiente. Una buona
parte del sistema politico e del potere economico è stata coinvolta (e forse lo
è ancora) in pratiche ai limiti della legalità. Alcuni di questi potenti sono
stati condannati (come tanti uomini politici, dirigenti pubblici e anche
manager privati come il presidente della Fiat, Cesare Romiti). Altri sono
sotto processo (come Berlusconi e Dell'Utri); moltissimi altri ancora
indagati a vario grado e titolo. Per la prima volta nella storia del nostro
paese, la magistratura ha preso sul serio il motto che appare in tutte le aule
giudiziarie ("la giustizia è uguale per tutti") e ha violato le tradizionali zone
di impunità del potere. Questo appare intollerabile, oggi e per il futuro, ai
detentori del potere politico ed economico. Si tratta a questo punto di
ristabilire un sistema di impunità. Per farlo è necessario riprendere in mano
il controllo della magistratura, se serve agitando lo spettro di abusi di potere
e idealizzando l'uguaglianza di accusa e difesa nel processo. Ma soprattutto
incidendo sui rapporti di potere reali nel luogo in cui la magistratura è
controllata, il CSM.
Di fronte a questo progetto o necessità del mondo politico, conta poco il pur
probabile gioco di scambi, di favori e di ricatti che si è intrecciato su questo
tema fra Polo e Ulivo. E' il mondo politico nel suo complesso che vuole
fortemente rimettere le mani sulla giustizia, per riaffermare il craxiano
"primato della politica" - che in questo caso vuol dire impunità - dei politici.
E' un disegno estremamente pericoloso. Perché destabilizza uno dei rari
luoghi identificati dall'opinione pubblica di effettiva esistenza e
indipendenza dello stato, e propaganda anzi l'idea di uno stato - parte. Il
conflitto di interessi, che è la vera malattia del nostro sistema politico, viene
teorizzato come ideologia positiva. E' pericoloso anche perché questo
disegno viene perseguito dalla sinistra (non dalla destra che vi avrebbe un
interesse più immediato). Realizzandolo, la sinistra sacrifica quegli strati
(illuministi o azionisti) del suo elettorato che hanno minore connotazione di
classe e più importante radice di opinione. Ma soprattutto dimostra la sua
incapacità di rifondare per davvero lo stato, non con grotteschi teatrini
istituzionali, ma rispettando la neutralità dell'amministrazione.
Io credo che a questo disegno bisogna opporsi con tutte le forze. Penso che
tutti gli elettori dell'Ulivo dovrebbero opporsi a questi disegni sul terreno
politico, visto che quello dell'opinione è insufficiente: fondando movimenti,
preparandosi a votare no al referendum sulle riforme, perfino boicottando i
partiti che appoggiano questa politica sulla giustizia.
Perché penso che la giustizia, la giustizia uguale per tutti, sia il primo
requisito della convivenza civile e il luogo di fondazione dello stato.
Perché considero che la svendita del principio di moralità alla Realpolitik
sia l'inizio di tutti i totalitarismi.
Perché mi pare che il disegno di restaurare il dominio dei partiti con la forza
delle riforma costituzionale vada verso l’instaurazione di un consolato.
Perché credo che questa sia una battaglia essenziale per la democrazia.
Deformare le istituzioni
Carlo Donolo 1. In Italia sono in corso lavori di riforma istituzionale. Questo lo sanno
tutti, almeno da quando è all’opera la Commissione Bicamerale del
Parlamento che deve elaborare proposte e progetti entro stretti limiti di
tempo. Siamo forse alla fase finale di un processo iniziato negli anni Ottanta
con la Commissione Bozzi e proseguito con vicende alterne per venti anni.
Il ceto politico si è reso conto che riforme erano necessarie, ma in pratica è
risultato sempre difficile, e lo è ancora oggi, trovare per le riforme una base
di consenso sufficientemente ampia e convinta. Si è dovuti arrivare alla
caduta del Muro di Berlino, a Tangentopoli, al disfacimento di DC e PSI e
alla metamorfosi del PCI, alla Lega, per mettere all’ordine del giorno
riforme istituzionali e costituzionali di ampio respiro. Un fattore di
accelerazione anche più imperativo è costituito però dal vincolo esterno,
cioè dal processo di unificazione (monetaria) europea, con tutte le sue
implicazioni per il rigore nelle politiche di bilancio, la stabilità degli
esecutivi e il miglioramento delle performance amministrative ed
istituzionali. Ormai non c’è scampo: riforme istituzionali, anzi
costituzionali, sono necessarie. Anche perché, dopo tanto discutere, la
Costituzione del ’48 appare delegittimata o svilita in molte delle sue parti.
Inoltre, molte voci chiedono interventi anche sulla prima parte della
Costituzione, quella relativa ai principi e ai diritti-doveri. Nel quadro di un
attacco allo stato sociale e del culto idolatrico del mercato come panacea per
tutti i mali e fonte di tutti i beni, è chiaro che sono a rischio acquisizioni
storiche in termini di diritti di cittadinanza.
4 luglio 1997: la missione Pathfinder fa scendere sul suolo marziano un piccolo robot esploratore, il rover
Sojourner.
14 luglio 2027 (virtuale, nella realtà 10 giorni dopo) su Popolare Network, una rete di radio italiane, avverrà la
cronaca in diretta del primo ammartaggio di astronauti su Marte.
Richiesta di aiuto:
Vogliamo chiedere a voi che siete già nella Rete e quindi cittadini del XXI secolo, di partecipare a un
sondaggio. Breve, e scherzoso.
Diteci la vostra.
Sylvie Coyaud
Sondaggio, a cura di Renato Mannheimer e Arnaldo Ferrari Nasi, in collaborazione con Radio Popolare
1) Riguardo alla discesa del primo uomo su Marte che avverrà il prossimo 14 luglio 1997, alcuni intervistati ci hanno riferito che non
è giusto "spendere tanti soldi per andare in quel postaccio dal quale non si ricava una lira". Altri ci hanno riferito che invece è meglio
fare tutti gli sforzi necessari per essere i primi a scendere su Marte, potenze aliene potrebbero soffiarci nuovi territori che sono nostri
di diritto.
2) Come lei sicuramente saprà, esiste una proposta degli abitanti e delle autorità cittadine del paese di Cerro Maggiore, secondo i
quali Marte sarebbe il luogo ideale su cui spostare, ampliandola, la discarica comunale. Questo, secondo i relatori della proposta,
contribuirebbe in forte misura allo smaltimento dell'enorme quantità di rifiuti urbani provenienti da Milano.
molto d'accordo
abbastanza d'accordo
poco d'accordo
per nulla d'accordo
non so
3) Recentemente hanno aperto agenzie di viaggi specializzate in voli interplanetari. Alcune persone hanno espresso il desiderio di
passare le ferie di Agosto su Marte. Altre preferiscono in ogni caso passare il loro mese di vacanza a Rimini.
4) Al convegno mondiale degli otto paesi più industrializzati, è stato proposto dall'amministrazione americana in accordo con gli
alleati della NATO, di ridipingere Marte. Essendo rosso il pianeta, si rischierebbe di sbilanciare le nuove probabili alleanze con
eventuali nativi, verso la sfera d'influenza russa.
molto d'accordo
abbastanza d'accordo
poco d'accordo
per nulla d'accordo
non so
Infine, alcune domande personali che ci servono per le nostre elaborazioni statistiche.
Sesso
Maschio
Femmina
Età: 0
Istruzione
Professione
altro
Ampiezza stimata del centro abitato
Provincia:
(due lettere, sempre maiuscole, con il codice della targa automobilistica, Roma=RM)
Invia Annulla
Per leggere nella giusta luce qualche considerazione sugli ultimi sviluppi a
Washington è forse bene ricordare che le elezioni americane dell’8
novembre 1994 hanno determinato il più grande spostamento a destra del
baricentro politico del paese, con la conquista della maggioranza
repubblicana sia all Camera sia al Senato per la prima volta in quasi mezzo
secolo; una coabitazione americana fra presidente democratico e
maggioranza parlamentare repubblicana che è utile avere in mente quando
in Italia si discute di riequilibrio dei poteri tra esecutivo e legislativo.
Con l’accordo bipartitico raggiunto questo mese per eliminare il deficit del
budget federale entro il 2002, per la prima volta in dieci anni quello che era
il tema più scottante della politica statunitense non è più al primo posto in
agenda. Anche se l’accordo sul budget non verrà ricordato come atto di
coraggio, esso è riuscito a superare la prova più immediata, quella dei
mercati finanziari, a far guadagnare qualche anno e a consolidare la
posizione del presidente Clinton.
Può sembrare eccessivo tanto rumore per un accordo che riduce il deficit
americano di solo l’uno per cento del PNL. Ma si tratta di molto di più di
quanto esprimano i semplici numeri. Il Congresso Repubblicano, che aveva
messo il pareggio del budget al centro del proprio programma legislativo,
voleva ridurre il ruolo del governo tagliando le imposte e le spese. Il
presidente Clinton, che aveva cambiato la propria posizione e accettato nel
1995 il principio del pareggio del budget, voleva raggiungere tale obiettivo
senza sacrificare l’impegno dei Democratici a mantenere un ruolo attivo del
governo in alcuni settori chiave.
Il fattore decisivo che ha reso possibile il compromesso è stato la pura forza
dell’economia americana. Le trattative sul budget erano sull’orlo del
collasso quando nuove previsioni di crescita hanno introdotto una novità:
ulteriori 225 miliardi di dollari di entrate fiscali. Questo inatteso sviluppo ha
consentito da una parte, un aumento dei tagli alle imposte voluti da
repubblicani e, dall’altra, un incremento delle spese nelle aree indirizzate dai
programmi Democratici permettendo comunque di eliminare il deficit
nell’arco di cinque anni. Le nuove entrate hanno inoltre permesso a tutte e
due le parti di evitare decisioni veramente dolorose nei settori sanità e
previdenza per contenere il deficit nel lungo termine.
Il compromesso, che sembra solido e stabile, ha rafforzato la posizione del
presidente sotto tre aspetti fondamentali:
I salari reali elevati sono la conseguenza della prosperità, non la sua causa:
quando i paesi diventano ricchi possono permettersi salari elevati, non il
contrario. Imporre a regioni povere salari elevati significa condannare i
lavoratori di quelle regioni alla disoccupazione. Lungi dall’aiutarli, la
decisione li rovina: preclude loro la possibilità di trovare lavoro.
10. I soldi. La busta paga sintetizza le virtù sopra indicate. Ogni volta che
trasgredite, spariscono bigliettoni. Fate bene i conti.
C'era solo una settimana di tempo; non c'è stato quasi dibattito, nè in
commissione, nè in aula. La legge è stata scritta dai consulenti del ministero,
pressati da vicino dalle imprese. Stavolta, e qui sta la novità, non dalla sola
Stet che dettava i suoi calcoli, ma da tutte le imprese potenzialmente
interessate a investire in Italia.
Per fortuna non c'era tanto da sbagliare; nel dubbio si poteva dare
un'occhiata alle freschissime leggi tedesca e francese, e copiare.
Non bisogna credere che a fronte di politici frastornati siedano lucidi poteri
aziendali. Anche le imprese, viste da vicino, appaiono lacerate da culture
interne che fanno fatica a comunicare. Gli ingegneri sostengono di potere
servire messaggi comunque impacchettati su differenti bande di frequenza
via etere, oppure su cavi diversi, in vari modi compressi. Wired o wireless,
le alternative tecnologiche sono molteplici, anche troppe; qualcuna resterà
teorica.
Il marketing segnala che i prezzi ai quali si vende la capacità trasmissiva
stanno crollando. Occorre sviluppare servizi, che trovino un pubblico
disposto a pagare. Che non è facile, in un momento nel quale la piattaforma
più dinamica, le reti che accettano il protocollo Tcp-Ip, è caratterizzata dalla
comunicazione gratuita.
Gli uomini delle relazioni esterne dichiarano trionfanti: tutti i mercati sono
simultaneamente aperti, Europa e Cina compresi. Troppo, per i gestori dei
fondi di investimento, ai quali spettano le decisioni finali: dove investire,
vendendo che cosa e puntando su quale tecnologia?
Negli ultimi anni le principali multinazionali del settore hanno spedito in
Italia i loro lobbisti e hanno costruito società di carta con qualche decina di
miliardi di lire. Nelle prossime settimane chi vorrà giocare seriamente dovrà
investire migliaia di miliardi in società vere.
Intanto già a Natale compreremo ai nostri figli un telefonino da trecentomila
lire e ci abboneremo a qualche decina di canali satellitari. Poi arriveranno
servizi più sofisticati, meno strettamente derivati dai tradizionali servizi
televisivi e telefonici. C'è anzi da scommettere che il vero motore di questa
offerta deriverà da altre industrie, quella del cinema e, soprattutto, quella
dell'informatica.
E' interessante notare che almeno fino a qualche tempo fa NON esisteva
nessun sito pubblico che riportasse in modo sistematico le leggi vigenti. Vi è
un sito privato che riporta la Gazzetta Ufficiale così come vi sono banche
dati a pagamento che riportano la legislazione vigente.
E' possibile che in futuro l'autorithy metta a disposizione il testo della legge
sulla falsa riga di quanto fa già l’autorità garante della concorrenza e del
mercato. Per adesso però è interessante notare come ad esempio il servizio
editoria della presidenza del consiglio non si prenda la briga di mettere in
rete le leggi amministrative .
Per un confronto è utile sottolineare che in Francia il Ministero
dell'Informazione ha un web-site ben fornito della documentazione
necessaria . Il raffronto purtroppo non si può fare con il Ministero delle
Poste e Telecomunicazioni perché questo ministero è fra quelli che ancora
non hanno attivato un Web http://poste.quandomai.it ....
Ma dei siti visitati il più interessante è forse quello della FCC, la Federal
Communcation Commission, non solo per la quantità di materiale messa a
disposizione, ma anche per i link ad altri siti governativi dove è possibile
reperire altro materiale sul Communication Act, fra questi da segnalare
http://www.state.wi.us/agencies/ per la ricca serie di rimandi, tra cui, in gran
quantità, i documenti relativi alla nota vicenda del Decency Act.
Per chi ritiene che l'utilizzo della rete è possibile non solo per la
pubblicazione delle leggi ma anche per la messa a disposizione del materiale
preparatorio, sarà senza dubbio affascinato dalla ponderosa relazione
preparata da una commissione del senato francese per l'esame delle
prospettive di France Telecom .
Per chi volesse un punto di vista ancora più ampio ecco la International
Telecommunication Union . Il rischio però è che si legga sempre e solo il
giudizio dei potenti del mondo, e allora un salto nell'emisfero australe può
offrire dei buoni punti di partenza .
Italia
Francia
Germania
Inghilterra
Passione e morte della terza dimensione
Ruggero Pierantoni Una storia assai singolare è quella delle molteplici ma infelici, e a volte
catastrofiche, battaglie condotte dal cinema per impossessarsi della terza
dimensione. Lungo circa un secolo si sono succeduti tentativi spesso assai
intelligenti, quasi sempre immensamente costosi, di proporre al pubblico
immagini che potessero avere anche una evocativa parvenza di pretendere di
essere tridimensionali. I sistemi escogitati, per quanto ingegnosi, sono quasi
sempre naufragati sulla estrema sensibilità che il nostro occhio (o, meglio, il
sistema visivo nel suo complesso) ha per piccolissimi disallineamenti
spaziali, discontinuità temporali, sfasamenti acustico-visivi e instabilità
della percezione cromatica. Anche nelle soluzioni più sofisticate si doveva
contare sull’utilizzo della proiezione simultanea con almeno due proiettori e
mediante due o tre pellicole scorrenti indipendentemente le une dalle altre.
E’ immediato individuare tutta una serie di quasi inevitabili "scollamenti"
percettivi tra le tre immagini che si sarebbero dovute sovrapporre l’un l’altra
assolutamente in registro sia temporale che spaziale. Il cinema sembra aver
ormai rinunciato alla sua terza dimensione per puntare su di una spazialità di
tipo acustico o "ambientale" piuttosto che su di una illusione di profondità
visiva ottenuta con questi mezzi.
E’ questa una storia assai complessa perché in qualche modo essa coinvolge
quella curiosa creatura tecnologica ma anche filosofico percettiva (e forse
anche esteticamente feconda) che è, o forse solo era, l’olografia. Come è
ben noto l’olografia ha avuto una storia assai infelice e il marchingegno non
è riuscito a conquistare i mercati anche se gli apparati ottici per produrre
straordinarie illusioni spaziali siano estremamente economici e quasi
elementari mentre la visione di oggetti quasi completi nella loro
tridimensionalità non è operazione né costosa né troppo impegnativa
tecnologicamente. Ogni possessore di "gioielli olografici", che ebbero la
loro voga circa dieci anni fa, sa come le immagini che essi custodiscano,
vascelli, conchiglie, visi umani, sculture siano enormemente evocative e non
abbiano nessun competitore derivante da altre modalità di rappresentazione.
La televisione sta definitivamente enfatizzando la propria bidimensionalità
ampliando lo schermo con il renderlo enfaticamente piatto, espandendolo
sulla parete sino ad occuparla completamente. Lo schermo a grande
superficie che sarà o di già è a cristalli liquidi, e quindi a controllo digitale,
ha anche rinunciato alla parvenza di rotondità che caratterizzava i "vecchi"
schermi e si presenta assolutamente planare in ottemperanza morfologica gli
schermi dei PC portatili. Inoltre, la peculiare qualità della luce emessa dai
cristalli liquidi che non si distribuisce nello spazio con la omogenea
diffusione della luce "naturale" impone una stazione di osservazione assai
centrale e una progressiva drastica riduzione della qualità di osservazione
sotto angoli anche di poco lontani dalla normale allo schermo. Questo
effetto è ben noto a chi cerchi di seguire cosa appare sullo schermo a
cristalli liquidi operato da un’altra persona.
Con una straordinaria e parallela corsa alla imitazione la cartellonistica
pubblicitaria ha adottato i rapporti proporzionali degli schermi televisivi e
ampliato al massimo la conquista della parete. Ogni forma di pubblicità
"tridimensionale" è praticamente scomparsa o resa impensabile, non
esistono, detto in breve, forme pubblicitarie tridimensionali perché le grandi
e grandissime scritte luminose hanno una decisa tendenza alla
bidimensionalità e ogni effetto spaziale viene accuratamente evitato. Se per
opportunità architettonica una torre può portare in alto un messaggio che
deve essere visibile dai "quattro orizzonti" allora la ditta progetta e
costruisce quattro schermi piatti ognuno fronteggiante un punto cardinale.
Ma non verrà in mente di progettare e costruire un cubo luminoso con scritta
tridimensionale. E’ ben nota l’antipatia che la scrittura ha per la terza
dimensione. Quasi immediatamente dopo "l’invenzione" delle "bullae" di
terracotta del primo periodo di Ur che registravano nello spazio fisico della
"bulla" la distribuzione reale di oggetti tridimensionali l’appiattimento che
determina la pagina bifronte delle tavolette mesopotamiche. E da allora,
quale che sia stata la procedura di scrittura, i simboli si sono andati
allineando su superfici planari. Una scrittura tridimensionale non ha senso e,
quando si hanno monumenti o altri oggetti a grande scala che mostrano una
consistente terza dimensione in realtà portano il messaggio scritto
chiaramente sulla "facciata". Il necessario abbinamento tra parola e
immagine che caratterizza ogni forma di propaganda ha, come dire,
trascinato l’immagine entro lo spazio "scrivibile" e l’ha asservita alla
disposizione dello spazio piatto ad essere sottodiviso in stringhe quasi
monodimensionali.
Vorrei per brevissimi cenni alludere a questa interessante perdita della terza
dimensione che ha caratterizzato la cultura umana e il suo sviluppo storico.
Non è il caso, né il luogo naturalmente, per una indagine accurata e una
disanima storica ricca di esempi. Basteranno pochi accenni perché il
semplice assunto sembri presentato: la terza dimensione è una variabile
perdente nella storia della cultura umana.
Quasi fosse una sorta di estrema sintesi a questa semplice osservazione
vorrei notare che questo scritto non solo, naturalmente, non occupa terza
dimensione, ma non lo fa neppure virtualmente. Non esisterà infatti neppure
il sottilissimo supporto di carta che lo sostenga e che, assieme ad altre
"pagine" può finire per costituire un vero e proprio "volume"
tridimensionale. Il fatto che la direzione di Golem preveda una stampa dei
testi è solo un fenomeno secondario e del tutto irrilevante dinanzi alla
qualità assolutamente primaria di questi testi di essere stati concepiti, scritti
e immessi in rete solo su supporto informatico.
Se questo scritto per Golem dovesse, infatti, restare filologicamente corretto
secondo le intenzioni e le modalità di questa forma di comunicazione esso,
letteralmente parlando, esisterebbe solo come fluttuazione di luminanza su
di un certo numero di schermi di vetro. Fuggevole e immediatamente
eliminabile. Quasi istantaneamente trashabile senza i fumi e le urla e le
fiamme dei falò di qualsivoglia religione o ideologia. La perdita della terza
dimensione, la occupabilità dello spazio da parte di un supporto reale e
fisico, il suo deposito direi quasi anatomico e massivo in luoghi dedicati
rende questi "scritti" estremamente fragili .Ma allo stesso tempo
invincibilmente indistruttibili, così pare almeno a primo sguardo. Infatti se è
facile bruciare il Mein Kampf per esempio o l’Opera Completa di Alberoni o
le Pagine Gialle di Chicago, Illinois, non dovrebbe essere altrettanto facile
fare lo stesso con la distribuita e liquida qualità degli scritti su Golem che
dovrebbero diffondersi istantaneamente nella "rete" divenendo isotropi con
il pianeta. Allo stesso tempo la diffusività assoluta dello scritto che assicura
loro una perfetta "solubilità" spaziale mentre li distribuisce omogeneamente
sulla "rete" li nasconde alla vista immettendoli in una immensa discarica di
idee il cui ordine e architettura non sembra essere regolabile e che si
sviluppa cresce o collassa secondo strategie temporali ancora non
prevedibili. Discarica immensa e dalla quale le procedure di "retrival"
possono essere estremamente costose in termini di tempo e di energia.
Comunque vorrei ritornare alla questione iniziale concernente il difficile
cammino che la terza dimensione sembra seguire accanto allo sviluppo della
cultura umana. Non è quantificabile per nulla il tempo trascorso ad
osservare una immagine bidimensionale da un individuo umano in varie
tappe della civiltà e una valutazione anche estremamente imprecisa in
termini quantitativi sarebbe solo un falso ideologico. Ma proviamo ad
immaginare alcuni casi ricostruibili con una certa ragionevole
approssimazione.
Un uomo del Neolitico ha occasioni assai rare di osservare una immagine
bidimensionale, dovrebbe essere proprio il creatore di queste immagini per
stabilire una significativa percentuale del proprio tempo destinato alla
osservazione (e alla produzione) di tali immagini. Tutto il tempo andrà
invece speso nella terza dimensione ma non in modo "sportivo" o
"turistico". Ogni atto nello spazio diviene un atto di sopravvivenza, la
precisione di un lancio, la valutazione di una distanza, il calcolo mentale di
una profondità, di una velocità o di una accelerazione può essere fatale se
errato o salvare la vita se corretto. Quindi non solo le due dimensioni
occupano un ruolo infinitamente ristretto, quanto ad esposizione temporale,
ma l’abitare la terza dimensione ha una importanza primaria come dialogo
diretto con essa e non puro esercizio formale.
Un greco colto del quinto secolo avanti Cristo con molta probabilità
spenderà un tempo assai più elevato nel leggere un papiro, nel guardare le
immagini dipinte sulla superficie di un vaso, nell’esplorare un affresco o una
serie di bassorilievi. Ma certamente il dialogo con la terza dimensione deve
essere ancora assolutamente prevaricante come esperienza sia quotidiana
che di vita. Al medesimo tempo il rapporto di diretta sopravvivenza dovuto
alla corretta o incorretta soluzione di infiniti problemi sulla terza dimensione
continuerà ad interessare strettamente il guerriero, il navigante, il pastore, il
costruttore ma sempre meno il legislatore, il poeta, il pittore, l’avvocato, il
pediatra, il decoratore eccetera.
Questo gioco di valutazione episodica e aneddotica del "tempo trascorso
nella terza dimensione" può essere continuato ma non è qui il luogo per
farlo se non accennando a certi passaggi assai critici. A me sembra assai
interessante la transizione tra vetrate dipinte medievali e pareti affrescate. In
entrambi i casi si tratta dell’esposizione a vastissime superfici
bidimensionali colorate e quindi entrambe riconducibili entro la qualità della
bidimensionalità. Ma si consideri la vetrata. Essa in realtà impone al suo
osservatore di camminare nella sua luce colorata, i santi, i martiri, i re
saranno ben piatti e bidimensionali ma la luce colorata si presenta come
volume tridimensionale entro cui fisicamente camminare. La
contemplazione di un vastissimo affresco non solo concentra l’attenzione su
di una superficie piatta ma la rende remota, irraggiungibile, veramente e
solennemente ottica. E’ un fatto ben noto, ma ancora non ben compreso, il
meccanismo della scomparsa delle vetrate alla fine del Gotico. Non si
comprende bene come una tecnologia così sofisticata, una serie di soluzioni
tecniche ed estetiche di estrema eleganza, un sapere così sottile e diffuso
sulla lavorazione e colorazione del vetro venga così improvvisamente
obliterato lasciando solo alla parete il compito di narrare le Storie della
Chiesa o dei vari altri Poteri.
Si potrebbe assai facilmente ricostruire una giornata "fiorentina" o "senese"
o in Utrecht in cui un mercante o legale o religioso potrebbe passare una
notevole parte del suo tempo in contatto con documenti (quindi oggetti
rigorosamente bidimensionali), mentre una porzione sempre più ridotta dei
suoi concittadini, sellai, orefici, muratori, mulattieri, mercanti, questuanti
continuano ad avere rapporti stretti ma non vitali con la terza dimensione.
L’avventura della prospettiva occuperebbe, di natura e d’imperio, una
porzione centrale in questa storia della perdita della terza dimensione.
L’aver codificato la sua morte reale ed averla sostituita con un algoritmo
illusorio di enorme potenza e precisione evocativa rappresenta un punto
assai critico in questa strana storia. Ma vorrei che la velocità della storia
andasse accelerando assai per giungere al momento, quasi attuale, della
assoluta vittoria della coppia X-Y e la quasi scomparsa dell’imbarazzante Z.
Il cinema ha rappresentato una frazione non trascurabile di tempo sociale
inteso a osservare oggetti strettamente bidimensionali. E non si deve
dimenticare che il teatro che, strutturalmente, rappresenterebbe un’arte dello
spazio in realtà, con il costringere gli attori a muoversi entro una ben
limitata frazione illuminabile del palcoscenico, aveva di già predisposto una
potente anticipazione della perdita della terza dimensione. In un certo senso
il nascente cinema delle origini non fa altro che certificare la morte dello
spazio teatrale con il drappo bianco e piatto sul quale vanno a proiettarsi i
vari treni in arrivo. In arrivo più che in partenza.
L’esplosione sociale della televisione viene a concludere la storia portando
il tempo fisico, espresso in minuti e ore (in questo caso siamo certo ben
serviti da infiniti dati statistici di ogni tipo) destinato alla visione di oggetti
tridimensionali a livelli mai esperimentati prima nella nostra storia. A
questo dato si accompagnano altri fenomeni che sono stati molto spesso
analizzati e con grande acutezza: la bidimensionalità della visione di
paesaggi, luoghi, città, strade eccetera dovuta ai mezzi di trasporto che
fanno vedere benissimo l’esterno, ma attraverso un diaframma trasparente
infrangibile e inattraversabile. La perdita di competenza spaziale di noi
attuali umani è enorme. Basti pensare alla continua, ma assolutamente
giustificata, lamentazione di genitori e di insegnanti su bambini e giovani
che non manifestano nessuna capacità, non solo alla resistenza fisica del
camminare, ma neppure alla orientazione, alla soluzione di anche
semplicissimi problemi spaziali. Non ultimo caso da analizzare è l’enorme
incidenza degli incidente stradali la cui natura è assai spesso derivata da
gravissimi errori di valutazione nelle distanze, nelle velocità e nelle
accelerazioni.
Ma un dato diviene ulteriormente interessante e certo allarmante. Non solo il
tempo destinato alla contemplazione passiva di immagini bidimensionali
colorate e mobili è aumentato in modo straordinario, ed è caduta nel
contempo la competenza spaziale di adulti e bambini, ma la superficie piatta
si è ristretta in modo estremo. Un apparecchio televisivo viene osservato
sotto un angolo visivo di circa 30 gradi o poco più. Tutto il resto diviene
"background" e perde valore, significato, nome e funzione. Una ulteriore
frustrazione ne deriva al nostro accuratissimo sistema visivo costruito sulla
estrema precisione delle valutazioni spaziali e che ha permesso per molti
millenni a poche decine di umani di abbattere un mammut a mani nude, di
catturare sott’acqua i pesci senza attrezzi, di colpire una gazzella in fuga con
una lancia (o un nemico in corsa), di centrare un piccolo disco di pietra
perforato come ben possiamo ricostruire dai "campi di gioco "della civiltà
azteca, ma anche di risolvere interessanti problemi spaziali come nella
"giostra del Saracino" o altre prove spaziali che adesso impongono
lunghissime prove, esercizi e spesso amare sconfitte a pochissimi e
superallenati campioni locali. La frustrazione deriva dal fatto che la nostra
complessa attrezzatura biologica per vedere la terza dimensione viene
completamente bypassata e non ne utilizziamo più che alcune potenze
vestigiali.
Si può aggiungere, in fase di chiusura, che si è anche stabilita una ulteriore
diciamo pure perversione percettiva: l’abbinamento del suono alla immagine
piatta. Come si sa, l’apparecchio televisivo contiene in sé la propria sorgente
di rumore e quindi la direzione lungo la quale ci proviene l’immagine
coincide, spesso del tutto assurdamente, con quella lungo la quale ci
perviene il suono da essa generato, o ad essa arbitrariamente associato.
Questo interessante, ma piuttosto fatale, cocktail percettivo fa si che noi, di
anno in anno e sempre di più, consideriamo solo i rumori che "vengono da
davanti" trascurando tutte le altre ecologie sonore che ci avvolgono e che ci
inviano una infinità di segnali assai utili, anche per la nostra sopravvivenza.
Pare che solo due categorie di umani continuino pervicacemente a fare uso
della terza dimensione: i boy scouts e i criminali.
Quali sono i veri problemi della scuola?
Domenico Parisi 1. La società cambia, la scuola no.
2. Quali sono i veri problemi della scuola.
2a. Le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione
2b. Immagini contro parole
2c. La scuola e la globalizzazione
2d. La scuola e la cultura di massa
3. Conclusioni
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La scuola crea oggi molto disagio in tutti coloro che hanno a che fare con
essa: studenti, insegnanti, famiglie, amministratori, politici, la società nel suo
complesso. La scuola è vista come una istituzione in crisi, piena di problemi,
bisognosa di riforme e cambiamenti. Mentre è difficile non consentire con
valutazioni di questo tipo, individuare quali sono i "veri" problemi della
scuola non è facile. In questo articolo vogliamo sostenere che i problemi che
oggi sono oggetto di discussione pubblica (ad esempio sui giornali) e di
decisione politica (ad esempio i recenti interventi del ministro Luigi
Berlinguer), ma anche quelli indicati e discussi da studiosi e pedagogisti non
sono i veri problemi della scuola. Se anche immaginassimo che tutti questi
problemi venissero risolti, l'istituzione "scuola" continuerebbe a trovarsi in
uno stato di crisi e a produrre disagio.
I "veri" problemi della scuola sono più radicali di quelli attualmente discussi
in quanto sono connessi con le grandi trasformazioni che stanno avvenendo
nelle società industrialmente avanzate e di conseguenza, data l'influenza che
queste società hanno sul resto del mondo, in tutto il mondo. Per sua natura
l'istituzione "scuola" è in presa diretta con la società in quanto prepara a
vivere nella società. Perciò ogni tipo particolare di società richiede il suo tipo
particolare di educazione e di scuola. Se la scuola non cambia mentre la
società cambia, è inevitabile che la scuola entri in una crisi radicale. Essa
prepara i ragazzi a una società che non c’è più. Il limite degli sforzi attuali per
cambiare la scuola è che essi per lo più sono diretti a colmare ritardi e
inadeguatezze della scuola rispetto alla società che esisteva fino a ieri. Questi
sforzi sono meritori ma nella sostanza inutili. Il problema, specie per
un’istituzione che verifica i suoi "prodotti" a distanza di anni, cioè quando gli
attuali "ragazzi" saranno adulti inseriti nel mondo sociale, culturale e del
lavoro dei prossimi decenni, è che oggi la società pone problemi
completamente nuovi alla scuola, e li porrebbe anche a una scuola che non
avesse antichi ritardi e inadeguatezze.
I cambiamenti più importanti della società dal punto di vista della scuola sono
(a) i cambiamenti nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione,
cruciali per la scuola in quanto essa è un meccanismo fondamentale di
trasmissione culturale e quindi lavora proprio sull’informazione e sulla
comunicazione (b) i cambiamenti legati all’emergere per la prima volta di una
società globale al livello dell’intero pianeta e al diffondersi capillare
dell’economia di mercato e della cultura di massa, cambiamenti fondamentali
per la scuola perché richiedono una revisione radicale degli stessi contenuti di
ciò che è insegnato.
Questa confusione e crisi si riflettono tra l'altro proprio nel fatto che i
problemi della scuola che oggi si discutono e che si cerca di risolvere non
sfiorano neppure le ragioni profonde della crisi della scuola. La radicalità
della crisi è mostrata dal fatto che la scuola non riconosce neppure quali siano
i suoi problemi.
Per fare degli esempi concreti, questo è un elenco di problemi che oggi sono
oggetto di discussione e decisione politica (elenco tratto dal quotidiano La
Repubblica del 4 ottobre 1996):
Riteniamo veramente che si possa trarre la scuola fuori da quella che ha tutte
le caratteristiche di una crisi storica affrontando e risolvendo questi problemi?
Ma se non è così, allora quali sono i veri problemi della scuola?
2. Quali sono i veri problemi della scuola?
Per orientarsi riguardo a questo problema c’è una storia passata che dovrebbe
insegnarci qualcosa. La mente umana non è qualcosa di universale, unico,
fisso, astorico. La "forma" che di volta in volta essa assume dipende
dall'ambiente in cui si sviluppa. Siccome questo ambiente cambia, in buona
misura perché l'ambiente in cui vivono gli esseri umani è creato e
incessantemente cambiato da loro stessi, di conseguenza cambia la mente
delle persone che ci vivono dentro. Ora, se vogliamo capire gli effetti
dell’ambiente sulla mente dobbiamo guardare soprattutto alle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione, cioè alle tecnologie con le quali
registriamo su supporti fisici esterni e conserviamo, modifichiamo,
recuperiamo e comunichiamo le nostre conoscenze e le nostre idee, sotto
forma di linguaggio verbale o di immagini. Queste tecnologie cambiano
storicamente e i loro cambiamenti influenzano non solo il funzionamento
della mente individuale, cioè che cosa ognuno di noi pensa, come pensa,
come si comporta e come interagisce con gli altri, ma anche l'organizzazione
sociale e politica della società.
Vi sono stati momenti nella storia delle società umane in cui le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione sono cambiate più velocemente e gli
studiosi (Mithen, Havelock, Goody, Ong, Eisenstadt, Donald) hanno mostrato
che sempre a questi cambiamenti hanno corrisposto fondamentali
cambiamenti nella mente e nella società. Alcuni momenti importanti di questa
storia di mutazioni tecnologiche sano stati i sistemi preistorici di registrazione
di immagini su pareti di roccia e su oggetti, i primi sistemi di scrittura,
l'alfabeto, la stampa, le tecnologie visive novecentesche (cinema, televisione).
Questi cambiamenti delle tecnologie comunicative e culturali hanno avuto un
ruolo importante o addirittura decisivo nell’emergere dell’arte, della filosofia,
della scienza, dello stato e della democrazia, delle società/culture di massa.
Oggi ci troviamo nel bel mezzo di una nuova e radicale trasformazione delle
tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Si tratta dell'introduzione
di quelle che vengono chiamate le nuove tecnologie dell'informazione e della
comunicazione, cioè le tecnologie basate sul computer quale potente
strumento di conservazione e di manipolazione nel formato universale del
codice digitale di ogni sorta di informazione. I nomi che indicano le nuove
tecnologie sono noti: basi di dati, sistemi di recupero delle informazioni,
ipertesti, grafica computazionale, multimedialità, reti telematiche, realtà
virtuale, modelli di simulazione. Queste nuove tecnologie sono in uno stato di
flusso, di trasformazione e innovazione continua - in effetti sono uno dei
settori in cui meglio si esprime oggi la creatività degli esseri umani. Ma esse
hanno già un impatto, che cresce letteralmente ogni giorno, su ogni aspetto
dell’attività umana, individuale e sociale. E basta un minimo di riflessione e
di analisi per capire che esse avranno conseguenze importanti per il
funzionamento della mente e della società, forse più importanti di quelle che
hanno avuto le tecnologie precedenti.
avanti
Educazione e formazione continua nell'età digitale *
Peppino Ortoleva Già nel titolo stesso di questo incontro si trovano sollevati, insieme, due
ordini di problemi, che forse è utile discutere separatamente, per poi
renderci conto che sono in realtà intimamente connessi.
Quanto spazio da dare al primo aspetto, cioè agli usi sostitutivi di queste
tecnologie rispetto alle istituzioni scolastiche tradizionali, e quanto al
secondo, cioè agli usi complementari, è oggi uno dei problemi di fondo della
politica della scuola: certo è che l'ipertesto, più di altri modelli tecnologici,
sembra prestarsi a un equilibrio fra i due aspetti.
48
Sono favorevole all’abolizione
26
Sono contrario all’abolizione
26
Non ho ancora un’idea precisa al riguardo
Totale
125
Base (casi)
La metà di chi ha risposto al sondaggio è d’accordo con l’abolizione
dell’Ordine dei Giornalisti, mentre il rimanente sottoinsieme, cioè l’altra
metà, si divide in parti uguali tra chi non ha un’opinione e chi è contrario
all’abolizione.
Confrontando le diverse categorie degli intervistati si può cercare di
comprendere chi è maggiormente bendisposto verso la soppressione
dell’Ordine dei Giornalisti.
Innanzi tutto il 50% degli uomini, contro il 37% delle donne, esprime
un’opinione in favore dell’abolizione.
Per l’età una leggera accentuazione si trova nella categoria dei 26-35enni
(55%) così come nel titolo di studio tra i laureati (54%) e nel Nord come
regione di residenza (53%).
La professione ottiene una percentuale molto alta tra gli imprenditori e liberi
professionisti (63%), mentre chi si pone al centrosinistra nello schieramento
politico ritorna su una quota del 53%.
Ne emerge una figura del tutto simile a quella che abbiamo prima definito
come rispondente ai nostri sondaggi. O meglio, sono presenti le stesse
caratterizzazioni ma, se possibile, in maniera ancora più accentuata tra i 25-
34enni, laureati, imprenditori o liberi professionisti residenti al Nord e con
un’opinione politica di "centrosinistra".
Analizzati
Arnaldo Ferrari Nasi e Renato Ecco, sembra che ci siamo.
Mannheimer Pare che la nostra area dei sondaggi on-line sia visitata da una serie di
"autointervistandi" che comincia ad assestarsi attorno a delle quote
omogenee, sia in quantità che in qualità.
Il primo passo è stato fatto un po’ per caso, ma il metodo di porre alcune
domande nel sondaggio di Golem 8 è stato lo stesso utilizzato per quello di
Golem 10, per cui i risultati sono confrontabili. E’ metodologicamente
corretto!
Mi sto riferendo ai dati "strutturali" dei lettori di Golem che rispondono
all’intervista interattiva, cioè a quelle variabili sociodemografiche che per
prime ci aiutano a capire con che tipo di campione ci dobbiamo confrontare.
Innanzi tutto, un dato che oserei definire positivo: al sondaggio di Golem 10
(pubblicato con data 3/4/97) hanno risposto 126 persone. A quello di Golem
8, pubblicato all’inizio dell’anno, 116.
La cifra è abbastanza simile, sebbene non sia molto elevata, e può già essere
visto come un primo segnale di omogeneità. Un "plus" è dato dal fatto che
la seconda rilevazione conti 10 casi più della prima, è poco, ma su un
numero totale di 116, i rispondenti sono aumentati di circa il 9% (al primo
sondaggio, pubblicato su Golem 1 nel maggio ’96, risposero 51
"navigatori").
GOLEM
GOLEM 10
8
% %
88 85
Maschio
12 15
Femmina
Totale
116 126
Base (casi)
GOLEM
GOLEM 10
8
% %
6 6
meno di 20 anni
7 7
20-24 anni
27 03
25-34 anni
31 35
35-44 anni
22 22
45-54 anni
7 7
55 anni e più
Totale
116 126
Base (casi)
GOLEM 10
56
laurea/post laurea
37
maturità
4
licenza media
3
nessun titolo/licenza elem.
Totale
126
Base (casi)
% %
43 48
Sinistra
28 24
Centro-Sinistra
2 3
Centro-Centro
5 3
Centro-Destra
3 3
Destra
19 19
Non so/Nessuna di queste categorie
Totale
116 126
Base (casi)
GOLEM 8 GOLEM 10
% %
56 58
Nord
33 33
Centro
11 9
Sud e Isole
Totale
116 126
Base (casi)
● individui maschi
● tra i 25ed i 54 anni di età
● con titolo di studio elevato o molto elevato
● residenti in maggioranza al Nord ed in parte minore al Centro Italia
● politicamente collocati su posizioni di sinistra o centro-sinistra
Certamente un risultato del genere non stupisce, visto il taglio della rivista.
Eppoi bisogna considerare che Inernet in Italia è ancora uno strumento
d’élite , soprattutto in alcune sue funzioni.
Sarebbe certamente interessante se ci fosse una maggiore rispondenza dal
Sud Italia ed un più grande equilibrio sulla scala del posizionamento politico.
I tesori del monte Athos
Carlo Bertelli Incurvato, scuro come si conviene all’uomo di affari o al professionista che
deve comunicare a tutti che, se ora prende l’aereo Roma-Milano, non è
perché sia stato al Sud a divertirsi, il mio amico salì con me la scaletta. Il
destino computeristico mi aveva affidato il posto dietro al suo. A lui era
toccato un tre posti vuoti. Uno dei tre fu occupato, prima della partenza, da
una hostess. Era un fiore di ragazza, e subito i colori tornarono sulle guance
del professionista o uomo d’affari o giornalista. Purtroppo la ragazza era
americana e sembrava che avesse introitato la formula NO SEX
HERASSMENT.
Sulla rampa di Milano il mio amico cercava di essere disinvolto. "Che
mostre ci sono in giro?" Mi chiese, con l’aria del celebre diplomatico che, a
Giava, chiede all’accompagnatore, per evitare un simile imbarazzo, "Quand
avez vous les elections?" Per sentirsi rispondere: "Toujouls, toujouls".
Bene, dico. Ci sarà presto un’occasione straordinaria: i tesori del monte
Athos esposti a Salonicco.
Vidi la delusione sul volto non più roseo. Cercai di dirgli che era un evento
culturale, per la prima volta occhi femminili avrebbero visto ciò che era
stato loro interdetto e che sarebbe tornato nell’oscurità vigilata da monaci
maschi subito dopo. La risposta fu quasi volgare: E che mi frega? Io tanto
sono un uomo.
Non pensai tanto alla mancanza di sensibilità verso l’altra metà del genere
umano quanto al fatto che se avessi detto che a Salonicco ci sarebbe stata
una grande mostra di Alberto Savinio con i mobili delle stanze borghesi
collocati su zattere fluttuanti, una grande rivisitazione della Grecia con gli
occhi dei fratelli De Chirico, l’avrei sollevato dalla passeggera frustrazione.
C’è un’avversione perdurante nella nostra coscienza italica verso il mondo
bizantino. Ai Bizantini si rimprovera veramente tutto. Di non essere greci
classici, per prima cosa. E poi di avere fatto tante storie per non inserire nel
credo la formula filioque, che del resto, il papa, a Roma, non accettò se non
nel XI secolo, su pressione dell’imperatore Enrico II. Così accade che la
concezione ortodossa dell’umanità di Cristo non si scuote attraverso un
estremo romanzo greco, ma per via di un film di Martin Scorsese.
Non so prevedere se la mostra di Salonicco avrà successo. Spero di sì.
Salonicco è Macedonia e visitarla significa sgombrarsi la testa di molte idee
convenzionali sulla Grecia. Davanti a questa grande città moderna
ricostruita dopo l’incendio che la devastò nel secondo decennio del nostro
secolo, stazionerà una corazzata della marina ellenica per garantire lo Stato
del Monte Athos, che è una repubblica monastica indipendente, della
protezione dei tesori prestati. Architetti di tutto il mondo hanno progettato i
nuovi debarcaderi che consentiranno trasporti rapidi via acqua, come a
Istanbul e a Venezia.
Io stesso non sono mai salito al Monte Athos. Per mille e una ragioni, non
ultima l’esperienza di quanto tempo sia richiesto per ottenere di vedere i
manoscritti che interessano; guardare le icone più venerate e farlo più di una
volta; aprire gli scrigni dei tesori.
Avevo però il sospetto che una placca con il Redentore, che in tutte le
pubblicazioni era descritta come uno smalto renano, capitato laggiù chissà
come, fosse in realtà una pittura sotto vetro, veneziana, del Duecento.
Scrissi all’archimandrita del convento di San Paolo e ne ebbi la risposta. Sì,
ad un’attenta ispezione, non vi erano dubbi che la placca fosse di vetro. La
cosa che, dopo la conferma, più mi colpì, fu però la firma della lettera. Il
capo della lavra, l’archimandrita di cui purtroppo non ricordo il nome, si era
firmato syn adelphois emou, con i miei fratelli.
E' possibile una biblioteca multimediale? (2)
Giulio Blasi Il pezzo dello scorso numero sulle biblioteche multimediali e sulla
preservazione dei materiali digitali ha suscitato reazioni interessanti da parte
dei lettori (che possono continuare ad inviarmi suggerimenti e commenti).
Val la pena insistere ancora un po’ sull’argomento, dunque.
Mi risparmio un abstract del pezzo precedente supponendo che il mio lettore
ipertestuale faccia poco sforzo a rileggerlo.
Fatto? Bene.
Questo documento è molto utile anche per noi qui in Italia e ne consiglio a
tutti la lettura. Il problema della progettazione di Biblioteche Multimediali
coincide con il problema di elaborare complesse strategie di "migrazione"
per differenti tipologie di documenti digitali.
1. DEDUZIONE
3. BLOCCHI LINGUISTICI
6. AL VIGNAIOLO NEGHITTOSO
La proboscide è eccitante:
così yyy yyy’yyyxxxxx.
9. ULTRA’ SHAKESPEARIANO
Vedi Anche:
cinema.it
Operazione nostalgia
Roberto Caselli La prima notizia è arrivata improvvisa e insinuante: Bob Dylan è stato
ricoverato in ospedale, in condizioni di salute precarie per problemi di
cuore. Robert Zimmerman, nato a Duiuh, Minnesota, nel 1941, cinquantasei
anni appena compiuti, dice il bollettino medico, soffre di pericardite e
quindi deve abbandonare per un po’ di tempo il palcoscenico, il suo Never
Ending Tour deve segnare il passo, il grande maestro deve assolutamente
riposare. La notizia viene ovviamente ripresa dai media e rimbalza in fretta
in tutto il mondo. I giornali importanti, che hanno da anni nei loro cassetti i
necrologi di tutti i grandi nomi della cultura, dello spettacolo e di chissà che
altro, spulciano l’archivio della lettera D e in breve pubblicano stralci di
biografie, commenti critici sulla sua opera, poesie e canzoni. L’operazione
nostalgia prende il via in pompa magna, ma si spegne in breve tempo perché
il vecchio Bob via via si riprende fino a lasciare l’ospedale. Il carrozzone
dell’informazione nel giro di una settimana lascia cadere tutto nell’oblio: le
belle parole spese, gli elogi della sua sensibilità e del ruolo fondamentale
nella controcultura si smontano in attesa di ritrovare forma alla prossima
occasione. Dylan del resto, non è nuovo a far parlare di sé come artista
maledetto, l’incidente motociclistico del 1966 lo diede per spacciato, ma se
la cavò con qualche giorno di commozione cerebrale; molto peggio andò ad
alcuni suoi giovani colleghi del Greenwich Village, come Richard Farina,
Phil Ochs, Paul Clayton e Peter La Farge che non ressero a droghe e
depressioni.
Quei cinque o sei anni degli inizi, che elessero Dylan a mito, sono in realtà
ancora oggi ciò che rimane di davvero importante della sua opera e anche se
tutto il resto non è certamente da sottovalutare, non ha comunque mai più
raggiunto l’intensità lirica di quegli album che arrivano fino a Blonde on
Blonde, probabilmente il suo ultimo momento di genialità. Profeta
annunciato dei tempi che stavano cambiando, Dylan, dopo avere detto le
cose giuste al momento giusto, ha dovuto vedersela con i problemi destinati
ad essere patrimonio dei comuni mortali: gestione sempre più difficile della
popolarità, mantenimento di una creatività che gli permettesse di essere
all’altezza della sua fama e soprattutto crisi esistenziali che non erano
risparmiate nemmeno a chi aveva saputo sviscerare il problema
generazionale nella sua ampiezza. Il personaggio Dylan, più che nell’ovatta
del suo mito, va proprio considerato in questa dimensione molto umana che
ci fa comprendere la sua scontrosità e ce lo rende più simpatico e
abbordabile, dietro quegli occhiali neri che nascondono occhiaie e
stanchezze dovute a una perenne corsa on the road, alla ricerca di nuove
piazze e emozioni sempre più difficili da trovare. Nel prossimo necrologio,
giusto per evitare banalità e qualche sottile ipocrisia che non gli rendono
giustizia, sarebbe bene sviscerare un po’ meglio l’uomo e spiegare come, al
contrario di tanti altri, la grandezza della sua opera sia solo un’ovvia
conseguenza della sua consapevolezza della sua fragilità.
L'evoluzione
Sylvie Coyaud http://alife.fusebox.com/
http://alife.fusebox.com/
http://www.spasoft.demon.co.uk/blindwatch.html
Appuntamenti
parlano di
moderatore
Antonio Calabrò, vicedirettore del Sole 24 Ore
un’iniziativa di
JERUSALEM LINK
Israeli Palestinan Women’s Joint Venture for Peace
JERUSALEM LINK organizza a Gerusalemme, dal 17 al 21 giugno 1997, 30 anni dopo l’annessione di
Gerusalemme Est da parte di Israele, un fine settimana denso di eventi culturali, politici e sociali in entrambe le
parti della città con lo slogan:
"Condividere Gerusalemme: le donne rivendicano Due Capitali per Due Stati"
MYSTFEST
Ente gestore
Comune di Cattolica
Direzione
piazza Nettuno 1
47033 Cattolica (RN)
http://www.cattolica.net
e-mail: mystfest@cattolica.net
La Biennale di Venezia
Il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
e
l’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea
presentano
Incontro
V Programma Quadro di R&ST dell’Unione Europea (1998-2002)
Direttore:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Paolo Palazzi, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Domenico Parisi, Maurizio Chierici, Piero De
Chiara, Peppino Ortoleva, Dino Lorimer, Beppe Severgnini, Franco Recanatesi, Furio Colombo, Ruggero
Pierantoni, Ugo Volli, Carlo De Benedetti, Antonio Martino, Carlo Donolo, Arnaldo Ferrari Nasi, Renato
Mannheimer, Carlo Bertelli, Giulio Blasi, Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio,
Cinzia Leone, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
Opera Multimedia Stylo Italia Online
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Un caro benvenuto a tutti.
Il numero 11 di Golem apre una nuova sezione: Scienze, libertà, società dedicata al tema del controllo
democratico delle scienze. Attraverso la consapevolezza, la conoscenza dei problemi e dei linguaggi, da una
parte (come sottolinea Sylvie Coyaud), ma sicuramente anche attraverso differenti regole e strutture istituzionali
(come drammaticamente evidenzia la testimonianza di Maria Grazia Ruggiano), la scienza e le sue applicazioni
devono diventare un patrimonio comune, un bene condivisibile e condiviso. Renato Giannetti amplifica la
riflessione alle scienze economiche e sociali, regalandoci un’analisi del concetto di rete.
La sezione Per non dimenticare si arricchisce di un intervento chiarificatore di David Meghnagi, e di un
contributo documentario: le leggi antirazziali promulgate nel 1938 di cui si è tanto sentito parlare in questi
giorni. Per non dimenticare, appunto, e per non sminuire, tra l’altro.
Aldo Grasso pone la questione dell’immortalità televisiva e chiama i lettori a scatenarsi in ardite classificazioni,
Renato Mannheimer analizza l’ultimo golemiano sondaggio, Paolo Palazzi prosegue la sua riflessione sulla
globalizzazione; la sezione rubriche, infine, si arricchisce del contributo di Sylvie Coyaud, che ci condurrà alla
scoperta dei siti scientifici della grande rete.
State bene!
Farsi capire
Sylvie Coyaud Ci sono voluti anni di trasmissioni settimanali perché gli ascoltatori di Radio
Popolare facessero domande in diretta agli scienziati. Pensare che,
normalmente, si tuffano in onda a discutere di qualunque argomento, per
niente inibiti dalla presenza dell’esperto. Ma la scienza...
Non riuscivo a renderla discutibile e questo mi preoccupava. Un po’,
immagino, per gli stessi motivi che hanno spinto Golem a riflettere sul tema
"scienza in una società libera": continuiamo a essere intimoriti dalla
comunità scientifica, casta sacerdotale protetta dai propri formalismi. Che
libertà abbiamo mai, se proprio ora che ci scombussola di continuo le
certezze, la vita e i pensieri, ci fa pure ammutolire?
Da quando si sono abituati a dibattere, anche tra di loro, gli ascoltatori non
solo fanno felici i ricercatori che li vengono a trovare per interposto studio,
ma sono anche capaci di dare una mano alla scienza, per esempio sposando
la campagna degli astronomi per abbassare l’inquinamento luminoso e
innescando un movimento nazionale in occasione del passaggio di Hale-
Bopp.
INTRODUZIONE
CONCLUSIONI
Introduzione
Lo scopo di questo articolo è di fornire una rassegna ragionata delle
riflessioni sulla nozione di rete condotte da economisti e sociologi nel
terreno di confine tra le due discipline. Tale rassegna intende essere uno
strumento agile cui far riferimento per chiarire la terminologia ed i concetti
utilizzati nelle varie proposte operative che possono così essere ricondotte a
linee teoriche riconoscibili.
L’opportunità di una rassegna di questo tipo è altresì dettata dalla
considerazione che una crescente letteratura segnala la riorganizzazione di
molti processi economici e sociali secondo logiche di rete. Ciò comporta la
messa a punto di strumenti di analisi diversi da quelli tradizionalmente
utilizzati dall’economia e dalla sociologia; non a caso la riflessione sui
rapporti tra queste due discipline ha avuto proprio nei problemi relativi alle
reti e alla loro analisi uno dei punti critici più importanti.
La rassegna è organizzata in tre parti. Nella prima parte si considera
l’introduzione in economia della nozione di rete e di effetti di rete; nella
seconda parte si considera la letteratura sull’innovazione, specie di impronta
sociologica, che ha utilizzato la nozione di rete nella prospettiva
costruttivista; nella terza infine si considerano le recenti applicazioni della
nozione di rete all’ambito territoriale ed istituzionale indagando come la
letteratura ha trattato il problema della dualità tra forme statali e reticolari di
organizzazione istituzionale.
avanti
Perchè non accada mai più
Maria Grazia Ruggiano A mio figlio
per ricordo e per amore
17 marzo 1997
In Italia non c'è una legge che stabilisca per il medico il dovere
all'informazione e un suo preciso comportamento - graduale e senza
brutalità - nell'avvicinare alla verità il malato che lo chiede.(I)
Una volta c'era la comunità del piccolo paese che piangendo e senza
parole ...., il prete confessore che man mano....
Sì, non sono sfortunata. Sono stata operata ad agosto da uno dei migliori
chirurghi che - per pura combinazione - aveva ritardato le ferie; sono
affidata ad un clan di amici professionisti tra i più noti; l'allergia continua i
suoi danni violenti per tutti i cinquantacinque giorni della "cobalto" e
oltre .... ma comunque ogni mattina riesco ad andare ai giardini a passeggio
con le amiche prima della terapia; poi c'è il "turn over" di altre amiche che
mi accompagnano all'ospedale e mi aspettano per il ritorno a casa. Poi il
pomeriggio tante (troppe) telefonate, tanti (troppi) regali.
Consulto un altro grande medico per l'allergia: in realtà continuo a seguire il
mio corpo così come ero abituata, cercando di capirne ogni segnale e
organizzarne la difesa. Ma ignoro la vastità del male.
A ottobre la pelle del cranio è defoliata e abrasa; viene medicata ogni giorno
ma il chirurgo rifiuta (perché troppo grande il pericolo di infezioni e
meningite) qualunque incisione per l'immissione del catetere.
Per la prima volta sono a pezzi. So che dopo le cure tradizionali resta una
possibilità di raddoppiare la durata di vita con l'esperimento della medicina
nucleare e degli isotopi. Se non posso far introdurre la sonda per la cura
nucleare il mio destino è segnato? E gli anni in più ... e le scoperte continue
dei ricercatori sul cancro... ?
Cerco cure parallele (quanta gente attorno ai tumori!): inizio una terapia
alternativa per l'allergia; parlo con la Presidente dell'associazione "Metodo
Kousmine"; telefono ad un medico svizzero che lavora con medicinali il
fegato.
Scelgo le sedute di pranoterapia con un'amica sensitiva e i massaggi
orientali dell'energia.
A fine ottobre decido una gita a Venezia, la mia preziosa città del nord, per
vedere mostre e amici. La delusione è cocente. Dov'è la mia allegria nel
passo, la velocità dei desideri, le mille idee che trascinavano gli altri a
giornate eccessive da ricordare?(mi chiamavano la "Regina del tempo"!).
Così comincio a "sapermi" malata.
Così continuo a insistere con il medico per la sonda. Mi promette che dopo
la prima risonanza magnetica di controllo di novembre, in due giorni mi
preparerà per la cura radioattiva.
Ecco, sono certa che fino a questo momento avevo bisogno di una verità
parziale anche se durissima. Ci si abitua in fretta a ragionare sulla breve
distanza (2 anni / 4 anni) anche per chi come me si considerava ancora
immortale e con mille progetti da chiudere.
Il tempo dei sani è così diverso da quello del malato! Io da agosto ho perso
quasi del tutto la dimensione temporale, ferma al mare di Licosa non avuto,
stretta da un mutamento di vita completo, tesa a riorganizzare anche
inconsapevolmente le nuove tappe del viver breve.
E d'altronde nulla dal punto di vista terapeutico c'era da decidere se non
subire il protocollo internazionale di cure rispettato anche dai medici della
ricerca clinica: la massa di "cobalto" e l'attesa della pelle risanata.
E' vero; sto così bene - l'allergia sta finendo, il viso è tornato piacevole; le
forze sono ancora scarse ma vado a Villa Ghigi la domenica con le amiche e
mi stanco quasi come loro. Vado anche a cena fuori. Continuo a farmi
medicare la pelle dal Santo chirurgo che un giorno - non potendone più delle
mie domande, precisazioni, richieste, delucidazioni - mi fa incontrare con il
neurochirurgo che ha lavorato per sei anni con il Dott. Riva della medicina
nucleare di Cesena. Ci lascia soli nel suo studio e io comincio a capire la
tecnica di questo esperimento non perfezionato a base di ittrio e proteine del
ratto immuno - depresso.
Il medico evidentemente non sa nulla di me se non che sono un'amica di
Claudio con tumore al cervello. Mi chiede ad un tratto: "Ma lei cos'ha?".
Rispondo sicura: "Astrocitoma 2/3 grado all'emisfero destro".
Il tono della conversazione subito si alleggerisce: "Ah signora, ma allora c'è
un po’ più di calma, un po’ più di tempo. Noi lavoriamo sull'emergenza del
gliobastoma che dà 12 mesi di sopravvivenza.
Per l'astrocitoma io penso addirittura che fra un anno avrò messo a punto
un'altra ricerca; ora sono solo a 2 casi, non posso proporgliela ... ma
vediamo ... vediamo....".
Di nuovo esco dall'incontro serena. Il mio caso è grave ma l'atmosfera di
calma che c'è intorno a me si comprende - ho un po’ di tempo in più per
sottopormi ad una cura che tutti dicono pesantissima come quella nucleare.
Posso prendermi un po’ di giorni per me sola. Torno anche in ufficio a
lavorare.
Mi sottopongo alla prima risonanza di controllo dopo la "cobalto" (il 16
novembre 1996) senza alcuna agitazione.
So che la pelle è in ordine per immettere il catetere ma dentro di me ho
l'idea di cercare di aspettare ancora un po’ e fare un Natale piacevole e
rasserenante con i miei. Dopo, un po’ di Grecia al sole con Cristina?
Il chirurgo esce invece dalla sala della risonanza scuro in volto: la cavità
dove è stato asportato il tumore si è chiusa; c'è una fessura virtuale nella
quale non è possibile mettere sonda né iniettare alcunché.
Non capisco bene ciò che dice perché sono stordita dall'anestesia. Il giorno
dopo chiamo sia lui che Anna per farmi spiegare di nuovo ciò che è
successo.
Il cratere vuoto non c'è più; le pareti si sono collabite all'interno. Anna è
incerta, può esserci ripresa della malattia ma spera invece sia effetto della
forte dose di cobalto che ha irritato tutto. Prima di uno/due mesi non si può
chiarire la situazione. Al mio ritornello sulla cura nucleare dice che farla per
profilassi non ha senso (ma come, non era questo il progetto terapeutico
stabilito da tempo, penso senza più coraggio di parlare? perché ora è così
perplessa sull'esperimento e lo sconsiglia?).
Ancora insisto l'indomani con Claudio: dice che la cura radioattiva è una
"suggestione", così come confermano i medici internazionali famosi
consultati dagli amici. Certo, il futuro del trattamento dei tumori al cervello
è nella direzione del nucleare ...ma il futuro!.
Mi confondo; ancora sono assolutamente dipendente dalle parole tecniche
del medico.
Una tenera amica mi telefona da Napoli: ha sette giorni liberi per me! Mi
sento bene, anche se la gamba sinistra morde. Prendo l'aereo e mi precipito
la mattina dopo nella mia città: sette giorni di sole continuo, raro a
novembre anche laggiù: spaghetti al Borgo Marinaro, cenette e chiacchiere
continue, i pastori di Natale a S. Gregorio, le Chiese ....la nuova futura
Coroglio, Capodimonte restaurato....Il mio ritmo di prima con tanti amici
intorno per sostegno e togliere la paura...Che bello! Le foto mostrano una
donna sana, solo un po’ più gonfiotta nel viso tondo.
Mi sento il corpo tranquillo, più debole alla sera quando sbando per
stanchezza.
Appena torno a Bologna tormento il chirurgo: "Quando rifacciamo la
risonanza?" "Decidi tu - risponde - o prima o dopo Natale". "Oh Dio,
Claudio, è chiaro che mi piacerebbe essere sicura che va tutto bene prima di
Natale e avere allegria in casa in quel periodo; però se poi il referto è incerto
perché è troppo presto?". Il chirurgo - con eccezionale pazienza - di nuovo
mi visita a lungo. La risposta è positiva: "stai benissimo, se ci fosse qualcosa
si vedrebbe negli occhi come un tappo di champagne che fa bollicine. Vai a
Napoli; facciamo l'altra TAC all'inizio di Gennaio".
Potevo non credere? Potevo immaginare che la sua logica era di concedermi
in serenità l'ultimo periodo buono della mia vita?
Natale è con l'amata amica di gioventù, con mio figlio e la sua ragazza che
io adoro; figli mezzi miei anche quelli delle amiche che partecipano alle
feste.
Coccolatissima dal mattino alla sera, ma è normale nei nostri incontri
trentennali. Riesco persino a far suonare la "tammurriata nera" così come
facevamo al mare (in tanti ragazzi e noi quarantenni) sotto i pini e la luna di
Punta Licosa.
Quando torniamo in aereo il 2 gennaio 1997 qualcosa nel mio corpo è
cambiato. Le gambe si irrigidiscono con crampi al mattino come dopo una
pesante camminata in montagna, la testa ha una inconsueta compressione
sulla fronte che non si alleggerisce con gli antinevralgici.
Partecipo pallida e stanca alla tombola per l'Epifania dell'unica amica che,
nei mesi passati, mi aveva creato ansia e urgenza per il mio tumore in ogni
incontro e che perciò avevo allontanato un po’ a fatica.
Mentre mi lavo al mattino mi accorgo che i movimenti sono sempre più
scoordinati: non lavo il mio corpo ma strofino tra loro due pezzi di sapone.
Avverto il chirurgo che la confusione mentale è ogni giorno in aumento e
così l'instabilità : non posso più passeggiare (come a Napoli pochi giorni fa)
da sola. La risposta tecnica non mi placa l'ansia: è l'edema cerebrale;
coincide con i tempi della cobaltoterapia; è effetto dunque delle sue dosi
massicce; forse mi darà di nuovo il cortisone.
Questi i fatti, abbastanza dettagliati, forse troppo per chi non subisce una
vicenda così grande.
Dopo venti giorni dalla verità, sono già prenotata a Milano per il secondo
intervento al cervello.
Passo i giorni di attesa continuando a lavorare e a dettare l'intervento sugli
istituti d'assistenza per l'istruttoria pubblica che si terrà al Comune di
Bologna il 17 gennaio.
Non voglio rinunciare.
Al mattino della conferenza sto malissimo. Ho un attacco di labirintismo e
vertigini paurose che mi fanno temere la fine mentre grido "aiuto, aiuto,
aiuto".
Se non avessi saputo la mia diagnosi crudele non avrei mai trovato la forza
di alzarmi dal letto, farmi aiutare a vestire in tailleur, andare, con mille
medicine in corpo, l'amica fidata dell'ufficio per continuare magari la
relazione, la macchina fin sotto l'ascensore (praticamente non cammino)...
Alle 17 sono lì; inizio a leggere...fino alla fine..bene..con calma,... con le
pause espressive volute.
Nel brutto ospedale milanese con ottimi medici chiamo ad assistermi per la
prima notte l'amica napoletana.
Il tradimento c'è stato ma io non l'ho ancora elaborato nell'animo; dice
"faremo la fondazione Maria Grazia Ruggiano per i bambini". La frase mi
rimbomba ogni giorno..."la fondazione.."
Prendo il telefono e urlo la mia rabbia ai tre amici colpevoli; poi scrivo,
scrivo, e mi contorco nella sofferenza della loro perdita; scrivo e nessuno
trova rimedio per il mio amore lacerato.
Eppure mi ero affidata a voi con tranquillità senza mai dubitare che io e
Francesca, io e Giulio, io e Mario eravamo altro da Lino e Sandro sconvolti
e disperati.
Ha deciso tutto un medico: e voi avete accettato subito, senza neppure
discutere con Lino (ma Claudio è come Grazia? che cosa ha dentro? cosa
vuole dalla sua vita?)
Senza quello strano infermierino del 7/1, oggi che sarebbe di me?
Avevo bisogno di voi per condividere questo avvenimento straordinario che
è la morte vissuta ad occhi spalancati, accanto alla luce, al golfino rosa di
mio figlio, al pranzo quotidiano.
Avevo bisogno di sentirmi belva insieme a voi - voi belve più di me - per
vincere, per vivere, per stringervi al cuore nell'unico modo che ho sempre
conosciuto.
Al mattino seguente mi preparo con cura perché so che rimarrò a letto forse
per tutto il giorno e la notte. L'instabilità rimasta dopo l'operazione di
quindici giorni fa mi costringe a chiedere aiuto.
A letto cerco di respirare contro la forte emozione dell'attesa. Metto le mie
preziose cassette di musica portate con il registratore; muovo i piedi per
l'energia.
Alle 11 viene l'infermiera per iniziare la flebo di cortisone; ovviamente si
rompe la vena; Marta (che è timida e delicata) fa come la mia amica Marina
- le vengono chiazze rosse sul collo e sul viso. Riprova: sa che è molto
doloroso questo ago con catetere su vene fragili e sottili come le mie. Per
fortuna il secondo tentativo sembra reggere e fissa l'ago.
Alle 12 comincia un movimento grosso nelle stanze accanto; io posso solo
ascoltare; non siamo visibili reciprocamente perché i muri di tufo sono di
oltre 30 cm. tra una stanza e un'altra.
Anche nella mia capisco che viene preparato molto materiale di emergenza
al di là del muretto del letto. Riva mi avvisa che stanno lavorando prima su
altre tre persone (l'ittrio ha una validità di due giorni ed è stato faticosissimo
procurarselo per il medico: bisogna usarlo subito; hanno chiamato anche un
paziente a casa, di emergenza, per trattarlo immediatamente).
Mi da' i tempi come l'avevo pregato di fare, per controllare l'ansia. Il
chirurgo sta trovando problemi con l'altro ammalato, perciò ritarda.
All'una meno qualche minuto sono nella mia stanza.
Franco Fornari scrive: "un proverbio lucano dice che quando un bimbo
nasce, piange per annunciare che la morte è entrata nel mondo. Sarebbe però
più corretto dire che piange perché - nascendo - ha incontrato la morte".
Sono certa che il grande psicanalista abbia voluto dire ....perché - nascendo -
ha incontrato la sua morte. Nessuno ha il diritto di togliere a quel bimbo che
nel corso degli anni così a fatica è diventato persona (fragile o resistente,
che importa?), a quel vecchio che lo chiede, il confronto con la sua morte.
Il ricordo di tutto se stesso.
NOTE:
Non è sempre stato così. Ariés ci ha ricordato che l’uomo del Secondo
Medioevo e del Rinascimento "teneva a partecipare alla propria morte,
perché vedeva in essa un momento eccezionale in cui la sua individualità
riceveva la forma definitiva. Non era padrone della propria vita che nella
misura in cui era padrone della propria morte"(I).
NOTE:
(I) P. Ariès, Storia della morte in occidente, Milano, 1994, p. 195.
Molto
Abbastanza
Poco
Per Nulla
Non so
REGIO DECRETO-LEGGE
7 settembre 1938-XVI, n. 1381
•Art. 2. Agli effetti del presente decreto-legge è considerato ebreo colui che
è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione
diversa da quella ebraica.
•Art. 4. Gli stranieri ebrei che, alla data di pubblicazione del presente
decreto-legge, si trovino nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell'Egeo e
che vi abbiano iniziato il loro soggiorno posteriormente al 1í gennaio 1919,
debbono lasciare il territorio del Regno, della Libia e dei Possedimenti
dell'Egeo, entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente decreto.
Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro il termine suddetto
saranno espulsi dal Regno a norma dell'art. 150 del testo unico delle leggi di
P.S., previa l'applicazione delle pene stabilite dalla legge.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto
nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando
a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
------------------------------------------------------------------------
Le leggi razziali
Sulla proposta del DUCE, Primo Ministro Segretario di Stato, Ministro per
l'interno, di concerto coi Ministri per gli affari esteri, per la grazia e
giustizia, per le finanze e per le corporazioni;
Abbiamo decretato e decretiamo:
CAPO I
Provvedimenti relativi ai matrimoni
•Art. 6. Non può produrre effetti civili e non deve, quindi, essere trascritto
nei registri dello stato civile, a norma dell'art.5 della legge27 maggio 1929-
VII, n. 847, il matrimonio celebrato in violazionedell'art.1. Al ministro del
culto, davanti al quale sia celebrato tale matrimonio, è vietato
l'adempimento di quanto disposto dal primo commadell'art.8 della predetta
legge. I trasgressori sono puniti con l'ammenda da lire cinquecento a lire
cinquemila.
•Art. 7. L'ufficiale dello stato civile che ha proceduto alla trascrizione degli
atti relativi a matrimoni celebrati senza l'osservanza del disposto dell'art. 2 è
tenuto a farne immediata denunzia all'autorità competente.
CAPO II
Degli appartenenti alla razza ebraica
•Art. 12. Gli appartenenti alla razza ebraica non possono avere alle proprie
dipendenze, in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. I
trasgressori sono puniti con l'ammenda da lire mille a lire cinquemila.
•Art. 13. Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti
alla razza ebraica:
a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato;
b) il Partito Nazionale Fascista e le organizzazioni che ne dipendono o che
ne sono controllate;
c) le Amministrazioni delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza e degli Enti, Istituti ed Aziende,
comprese quelle dei trasporti in gestione diretta, amministrate o mantenute
col concorso delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza o dei loro Consorzi;
d) le Amministrazioni delle aziende municipalizzate;
e) le Amministrazioni degli Enti parastatali, comunque costituiti e
denominati, delle Opere nazionali, delle Associazioni sindacali ed Enti
collaterali e, in genere, di tutti gli Enti ed Istituti di diritto pubblico, anche
con ordinamento autonomo, sottoposti a vigilanza o a tutela dello Stato, o al
cui mantenimento lo Stato concorra con contributi di carattere continuativo;
f) le Amministrazioni delle aziende annesse o direttamente dipendenti dagli
Enti di cui alla precedente lettera e) o che attingono ad essi, in modo
prevalente, i mezzi necessari per il raggiungimento dei propri fini, nonché
delle società, il cui capitale sia costituito, almeno per metà del suo importo,
con la partecipazione dello Stato;
g) le Amministrazioni delle banche di interesse nazionale;
h) le Amministrazioni delle imprese private di assicurazione.
•Art. 14. Il Ministro per l'interno, sulla documentata istanza degli interessati,
può, caso per caso, dichiarare non applicabili le disposizioni dell'art 10,
nonché dell'art. 13, lett. h):
a) ai componenti le famiglie dei caduti nelle guerre libica, mondiale,
etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista;
b) a coloro che si trovino in una delle seguenti condizioni:
1.mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle
guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola;
2.combattenti nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola che abbiano
conseguito almeno la croce al merito di guerra;
3.mutilati, invalidi, feriti della causa fascista;
4.iscritti al Partito Nazionale Fascista negli anni 1919-20-21-22 e nel
secondo semestre del 1924;
5.legionari fiumani;
6.abbiano acquisito eccezionali benemerenze, da valutarsi a termini
dell'art.16.
Nei casi preveduti alla lett. b), il beneficio può essere esteso ai componenti
la famiglia delle persone ivi elencate, anche se queste siano premorte. Gli
interessati possono richiedere l'annotazione del provvedimento del Ministro
per l'interno nei registri di stato civile e di popolazione. Il provvedimento
del Ministro per l'interno non è soggetto ad alcun gravame, sia in via
amministrativa, sia in via giurisdizionale.
•Art. 16. Per la valutazione delle speciali benemerenze di cui all'art. 14 lett.
b), n. 6, è istituita, presso il Ministero dell'interno, una Commissione
composta del Sottosegretario di Stato all'interno, che la presiede, di un Vice
Segretario del Partito Nazionale Fascista e del Capo di Stato Maggiore della
Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale.
•Art. 17. è vietato agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in
Libia e nei Possedimenti dell'Egeo.
CAPO III
Disposizioni transitorie e finali
•Art. 18. Per il periodo di tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente
decreto, è data facoltà al Ministro per l'interno, sentita l'Amministrazione
interessata, di dispensare, in casi speciali, dal divieto di cui all'art. 3, gli
impiegati che intendono contrarre matrimonio con persona straniera di razza
ariana.
•Art. 19. Ai fini dell'applicazione dell'art. 9, tutti coloro che si trovano nelle
condizioni di cui all'art.8, devono farne denunzia all'ufficio di stato civile
del Comune di residenza, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto. Coloro che non adempiono a tale obbligo entro il termine
prescritto o forniscono dati inesatti o incompleti sono puniti con l'arresto
fino ad un mese e con l'ammenda fino a lire tremila.
•Art. 20. I dipendenti degli Enti indicati nell'art.13, che appartengono alla
razza ebraica, saranno dispensati dal servizio nel termine di tre mesi dalla
data di entrata in vigore del presente decreto.
•Art. 21. I dipendenti dello Stato in pianta stabile, dispensati dal servizio a
norma dell'art.20, sono ammessi a far valere il diritto al trattamento di
quiescenza loro spettante a termini di legge. In deroga alle vigenti
disposizioni, a coloro che non hanno maturato il periodo di tempo prescritto
è concesso il trattamento minimo di pensione se hanno compiuto almeno
dieci anni di servizio; negli altri casi è concessa una indennità pari a tanti
dodicesimi dell'ultimo stipendio quanti sono gli anni di servizio compiuti.
•Art. 24. Gli ebrei stranieri e quelli nei cui confronti si applichi l'art.23, i
quali abbiano iniziato il loro soggiorno nel Regno, in Libia e nei
Possedimenti dell'Egeo posteriormente al 1° gennaio 1919, debbono lasciare
il territorio del Regno, della Libia e dei possedimenti dell'Egeo entro il 12
marzo 1939-XVII. Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro
il termine suddetto saranno puniti con l'arresto fino a tre mesi o con
l'ammenda fino a lire 5.000 e saranno espulsi a norma dell'art.150 del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 18 giugno
1931-IX, n. 773.
•Art. 27. Nulla è innovato per quanto riguarda il pubblico esercizio del culto
e la attivita delle comunità israelitiche, secondo le leggi vigenti, salvo le
modificazioni eventualmente necessarie per coordinare tali leggi con le
disposizioni del presente decreto.
•Art. 28. è abrogata ogni disposizione contraria o, comunque, incompatibile
con quella del presente decreto.
Chi non è iscritto a quelle liste non sa però che alla mia prima lettera, citata
integralmente nel lancio, ne sono seguite altre dove chiarivo il mio punto di
vista sull’università (italiana e non). La prima lettera dunque deve essere
considerata nel suo contesto di discussione aperta, perché tale è la natura dei
messaggi diffusi sulle liste attraverso la posta elettronica. Il tono e il
contenuto della mia prima lettera avevano scatenato reazioni contrastanti. Io
ed altri colleghi (non solo qui a Edimburgo) avevamo giudicato l'articolo del
Guardian offensivo e superficiale. Giulio Lepschy, durante la biennale
conferenza degli Italianisti britannici a Glasgow, mi aveva poi messo sulla
tracce di un altro articolo di Pacitti, ancora più offensivo del secondo e al
quale Bendetta Bini addetta culturale a Londra aveva risposto
pubblicamente.
All'invio della mia prima mail molti degli iscritti, non conoscendo i
precedenti, si sono arrabbiati o stupiti, pensando che io volessi difendere a
ogni costo l’università italiana da giuste critiche o attaccare i lettori stranieri.
Qualcuno mi ha dato del sindacalista della CGIL. Un pensionato-poeta
dell'Indiana mi ha risposto commosso citando Canetti e Frost. Fabio Girelli-
Carasi ha scritto che la mia difesa era comprensibile, ma non giustificabile,
rientrando nella categoria "solo io prendo a calci il mio cane". Un amico
incredulo mi ha risposto privatamente, sostenendo che in realtà, in un
accesso Stevenson-Flaubertiano (l'aria di Edimburgo), Pacitti Domenico era
moi, vittima e carnefice dell’università italiana a un tempo. Eccetera. In
generale, eccetto Nanda Cremascoli (preside di una scuola di Clusone),
pochi hanno avuto la bontà di analizzare a sangue freddo la situazione ed
andare al di là delle issues of contention del momento (lettori e caso
Erasmus).
Nella mia lunga replica, comunque sia, cercavo di spiegare la mia posizione,
frutto non tanto (o non solo) di un soprassalto d'Italico orgoglio, ma di una
consapevolezza maturata attraverso gli anni delle mie esperienze all'estero.
Qui sotto ne propongo ai lettori di Golem una sintesi, non senza ribadire
però che la pars destruens qui sotto dedicata al sistema americano non vuole
essere, nonostante la durezza delle mie denunce, una condanna integrale
verso quel sistema universitario, né una difesa trasversale dei difetti di
quello italiano.
[...]
1)«Tutta altra musica gli ottimi articoli di Burton Bollag e Andrew Gumbel
(citati da Girelli-Carasi, e apparsi sull'americano Chronicle of Higher
Education fra l'ottobre e il febbraio 1996), che si riferiscono sempre a casi
specifici e riportano correttamente nomi e cognomi delle fonti citate.
Insomma ammettiamolo: il Guardian ha preso una bella toppa pubblicando
l'articolo di un giornalista che è parte in causa (anche se la causa dei lettori è
una causa giusta). (n.b. poco sopra riportavo un messaggio del Pro-rettore
dell'Università di Siena che mi informava del fatto che Domenico Pacitti è
lettore nel dipartimento di Lingue di quella Università )».
[...]
I) L'UNIVERSITA' AZIENDA
A livello specifico la competizione su base commerciale e i tagli sempre più
duri alla spesa per l'education hanno in parte già prodotto:
a) un abbassamento del livello dell'insegnamento;
b) un livellamento della retribuzione;
c) il congelamento implicito del passaggio a "tenured" per moltissimi
insegnanti.
Già solo questi tre (quattro, compresi i tagli) fattori - come sa chiunque
abbia lavorato in un università americana - sono la causa di un aumento
inverosimile del livello di stress e di logoramento sociale all'interno dei
campus.
Ci troviamo di fronte a una crisi globale dei sistemi educativi e nel mettere
mano a questa crisi io intravedo una spaccatura e un bivio. Sul campo si
affrontano due forze, a sua volta riflesso di delicati equilibri economici,
storici e culturali che stanno lentamente venendo al pettine: un modello
anglosassone, rappresentato dal sistema americano (e dai suoi cloni più o
meno temperati) e un sistema europeo, il cui modello non esiste, ma che è
giunto il momento di inventare. Molto si sta muovendo in UK, un sistema
selettivo con ossatura pubblica, ma vedo più analogie fra il sistema
americano e quello britannico (nelle sue ultime tendenze) che fra
quest'ultimo e quello francese. Si attendono con trepidazione le mosse del
nuovo governo laburista che, ricordiamolo, durante la campagna elettorale
ha messo al centro dei suoi programmi riformatori proprio scuola e
università.
ADDENDUM
Carlo Testa, della British Columbia a Vancouver, a proposito di questa mia
frase commentava: "Bisogna essere grati alle critiche da dovunque vengano.
Non lo dicono anche i cattolici che i sacramenti valgono anche se
amministrati da un prete indegno? E allora, per quanto "indegni" possano
essere gli anglosassoni, si faccia buon uso di ciò che di utile essi possano
rivelare". Sono assolutamente d'accordo. Ma un conto sono delle critiche, un
conto una campagna diffamatoria che tutto distrugge e tutti mette sullo
stesso piano, critici, giornalisti, baroni, corrotti - e persino i poveri lettori.
Les Immortels
Carlo Bertelli L’Immortel cinse la sottile spada al fianco, s’inchinò leggermente agli altri
suoi simili e pronunciò il discorso d’insediamento. E’ d’uso da tempo
immemorabile all’Académie che il nuovo entrato celebri le virtù di colui cui
è succeduto. In questo caso l’immortale entrante era il più popolare e il più
televisivo degli storici dell’arte italiana mentre il suo predecessore era stato
un popolarissimo presidente degli Stati Uniti, Richard Milhous Nixon.
Cavallerescamente Federico Zeri attribuì le disgrazie di Nixon all’infame
televisione, senza la quale lo scandalo Watergate non vi sarebbe stato e la
nostra storia sarebbe andata diversamente. Ricordò che Nixon era stato
amico della signora Frick, ossia della proprietaria della più splendida
galleria d’arte antica, aperta al pubblico e dotata d’una importante fototeca -
ancora direi la più importante - di New York.
L’amicizia fra Nixon e la signora Frick è ben documentata. I Fricks sono da
generazioni repubblicani e durante l’ultima campagna elettorale cui
partecipò, il futuro presidente fu accolto nella galleria con un sontuoso
ricevimento cui presero parte gli invitati più qualificati. Nixon era molto
stanco. Era la prima volta che metteva piede nella Frick. Fu accompagnato
nel salone, quello in cui alcuni fra i massimi capolavori dell’arte italiana e
olandese ti guardano. Adocchiò l’ampio divano, vi si sprofondò
pesantemente e pronunciò una frase che subito circolò negli ambienti
democratici di New York: "What a nice place for a snap downtown!".
Può darsi che fossero maligne voci messe in giro dai democratici, anche se
la storia assomiglia molto a quel poco che sappiamo di lui.
Ritengo comunque che la successione a Nixon sugli scanni dell’Académie
abbia certi aspetti di nemesi. Lo dico perché durante un viaggio a Palm
Springs mi fermai in un albergo, fra Palm Springs e Spring Desert, costruito
come una missione spagnola. Nel patio si poteva ammirare una torre bianca
con un complesso carillon. Alle mezz’ore da una porticina usciva un lungo
corteo di figure meccaniche che rappresentavano un monaco, un vescovo,
un indio convertito, un soldato spagnolo, la Morte. Mi ero fermato a
osservare la scena e quando tutte le figure erano sfilate ed erano state in
parte assorbite da un’altra porticina, lasciando visibile sul posto soltanto la
Santissima Trinità, un cameriere mi chiese premurosamente se volevo
visitare le catacombe, che sarebbero state sul prezzo della mia
consumazione.
Scese due rampe di scale mi trovai in un corridoio fiancheggiato di arcosoli
con pitture di vago sapore catacombale. La maggiore sorpresa, per che abbia
qualche esperienza delle catacombe romane, non stava però nell’imitazione
più o meno felice dei temi reperibili nelle cartoline illustrate che si vendono
in quei luoghi ricchi di storia, ma nel lusso sfrenato di quelle catacombe
alberghiere.
Tutto era marmo e del marmo più lucido. Spessi vetri proteggevano le
pitture e l’illuminazione artificiale era degna della Funerary Home di
Madison. Lastre di marmi colorati artificialmente chiudevano i finti loculi e
l’occhio scorreva sulle iscrizioni: Christos Soter, Martyri Benemerenti....
Superato un diverticolo e poi un altro, ci trovammo in un’area più ampia,
una vera cappella. Ancora arcosoli, ancora nomi di martiri e, sulla parte di
fondo, un altare con regolare fenestrella confessionis. Dietro, sul muro, una
grande lastra di marmo nero con l’iscrizione in oro: IN THIS CHAPEL
MARRIED RICHARD MILHOUS NIXON LATER TO BECOME
PRESIDENT OF THE UNITED STATES.
Avevo già sentito il racconto della visita alla collezione Frick e, dopo quella
mia ispezione catacombale, fui sempre più portato a credere che fosse vero.
Tempus ulter, almeno nelle piccole cose, avrà pensato qualche accademico
come me al corrente di quanto ho riferito.
E' possibile una Biblioteca Multimediale?
Giulio Blasi Il dibattito (insulso) sulla morte (vera o falsa, presunta, annunciata,
imminente o meno) del libro e sui rapporti tra editoria tradizionale e editoria
multimediale ha dimenticato sinora un tema di grande rilievo: è possibile
immaginare una Biblioteca Multimediale che, al pari delle biblioteche
tradizionali, raccolga, mantenga utilizzabili e consultabili nel tempo le opere
oggi realizzate su supporti elettronici?
Potete allora immaginare lo storico del futuro (del 2100, poniamo) in una
biblioteca multimediale dotata di computer un po’ particolari sui quali
girano sistemi operativi un po’ diversi dal normale perché sono in grado di
emulare grandi quantità di sistemi del passato. Il nostro ultranipote troverà
in un catalogo on-line il titolo "Encyclomedia" attribuito ad un noto
poligrafo del secolo precedente, tale Umberto Eco. Il suo sistema operativo
(MS Windows 2100, appunto) sarà in grado di "datare" il software con il
quale il prodotto è stato realizzato un secolo prima e di attivare l’emulatore
giusto che ne permetterà la consultazione.
Questo per ciò che attiene ad ipotesi futuribili e che in fondo ci riguardano
poco. E’ invece certo che dovremo occuparci, sempre più nel futuro
prossimo, di elaborare progetti e strategie al riguardo, di costruire modelli
operativi e sperimentazioni efficaci, di sottoporre il problema alla comunità
internazionale degli editori multimediali affinché finanziamenti adeguati
siano destinati alla ricerca in questa direzione.
Se non faremo questo (cosa che non possiamo escludere a priori) vorrà dire
che l’editoria multimediale di cui oggi ci occupiamo è destinata a tempi di
sopravvivenza brevissimi, incomparabilmente più brevi di quelli degli altri
media. I bit oggi codificati con tanto dispendio di denaro ed energie si
trasformeranno in inutili atomi.
Per forza e per amore
Giovanna Grignaffini Ordine, disordine, armonia. Stabilità, crisi, nuovo equilibrio.
Volendo leggere le recenti vicende della vita politica italiana, secondo uno
schema capace di contenerne le incessanti fluttuazioni, la struttura
elementare del racconto si presenta come particolarmente appropriata. Dalle
varie finanziarie alla crisi albanese, dai ripetuti voti di fiducia alle deleghe
concesse al governo, dal progetto di riforma del welfare ai lavori della
Commissione bicamerale, dalle esternazioni di Bertinotti a quelle di Dini,
dalle ordinarie tenute del Parlamento agli improvvisi crolli del numero
legale, è infatti tutto un aprirsi, sciogliersi, riaprirsi di crisi. Con l’unica
certezza di un provvisorio lieto fine e di una instabilità permanente che ha
accelerato i propri ripetuti movimenti. Fino al punto di trasformare un calmo
governo che si pensava di legislatura in semplice e movimentato governo ad
horas.
Ma lungo la soglia esilissima che separa e collega il ciclico andamento delle
crisi secondo scansione ritmica sempre più incerta ed abbreviata e un
modello narrativo apparentemente sempre più solido, qualcuno comincia ad
interrogarsi circa la capacità di interpretazione che la struttura elementare -
lineare ed orizzontale - del racconto offre rispetto al presente della nostra
vita politica.
Perchè, per esempio, potremmo trovarci di fronte ad un movimentismo di
superficie che non altera la stabilità di una scena profonda il cui ordine,
indelebilmente fissato dal voto dell’aprile 1996, non presenta alternative
possibili almeno a medio termine.
Ma, aggiungere la dimensione spaziale dalla profondità a quella
esclusivamente temporale implicita nel concetto di crisi, non modifica i
termini della questione, visto che i conflitti in atto potrebbero essere radicati
in ben altra sostanza rispetto a quella esilissima che appare quotidianamente
nelle diatribe della scena pubblica.
Il fatto è che i modi per dare forma a una complessità (che tali sono sia la
società italiana contemporanea sia l’alleanza di governo uscita vincitrice
dalle ultime elezioni) non si lasciano facilmente rappresentare dalle logiche
lineari o binarie: quelle in cui o c’é conflitto o c’é ordine, o ci sono riforme
di struttura o c’é governo dell’esistente, o c’é perfetta identità di vedute o
c’é differenza inconciliabile di punti di vista, o c’é "per forza" o c’é "per
amore".
No, potrebbe essere molto più semplice - non risolta, ma più semplice da
analizzare, valutare e risolvere - la situazione politica italiana se solo
qualcuno cominciasse a "pensare almeno due cose contradditorie
contemporaneamente" senza disporle lungo la catena ordinatrice dello
spazio e del tempo: per esempio, conflitto e convivenza, identità e
differenza, governabilità e utopia.
Sarebbe molto più semplice se qualcuno cominciasse a pensare che, in
questa storia, Rifondazione Comunista sta con il governo Prodi per forza e
per amore. E viceversa.
In attesa che cominci un’altra storia.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)
1. ESPERTO IN CABALA
2. FALSE ETIMOLOGIE
Il cronista è al cronicario.
Chi è campione ha il campionario.
La lambada ha il lambadario.
Chi va lemme ha il suo yyyxxxxx.
3. FALSO DIMINUTIVO
4. EAU DE CHE
Non sarò molto à la page:
non capisco quel battage
che riguarda il maquillage.
Che vuol dire? Yyy y "Yyxxxxx"?
5. ACINI IN ASPIC
6. AMMIRO MARZIALE
7. A LUME DI CANDELA
9. HO FAME!
Soluzioni
1. golem
2. lemmario
3. Mario Chiesa
4. Chi è "sauvage"?
5. uva gelatinosa
6. latino salace
7. la cenetta d'amore
8. netta da more e bolli
9. ebollizione
10. zio nero
Sessualità dopo i 40
Roberta Ribali Certamente, la vita sessuale cambia: ma declina o progredisce?
Vedi Anche:
cinema.it
Jimi
Roberto Caselli Una storia infinita. Da quel fatidico 18 settembre 1970, giorno in cui Jimi
Hendrix morì in circostanze mai del tutto chiarite, la sua eredità musicale è
passata attraverso complicate traversie, quasi sempre finalizzate ad
arricchire chi se ne occupava, più che a realizzare una pubblicazione
definitiva che mettesse finalmente chiarezza nella sua opera. Fino ad oggi,
tra dischi ufficiali, edizioni economiche, greatest hits e pubblicazioni più o
meno clandestine, i titoli attribuiti a Hendrix arrivano tranquillamente al
centinaio. Dopo la sua morte, infatti, negli archivi degli Electric Lady
Studios, furono trovate centinaia di ore di musica registrata dallo stesso
chitarrista che furono affidate dagli eredi al produttore Alan Douglas, uno
degli ultimi collaboratori di Hendrix. Da quel momento vennero date
periodicamente alle stampe registrazioni frammentarie, spacciate per nuove,
che hanno, in realtà, solo creato una gran confusione. Nel 1993, dopo aver
più volte manifestato la propria contrarietà verso questo tipo di gestione, la
famiglia Hendrix ha fatto causa a Douglas per il cattivo lavoro da lui
effettuato e per l’ambiguità con cui si è mosso. A due anni di distanza, papà
Al e sorella Jane vincono la causa e si riprendono il diritto di sfruttamento
dell’opera di Jimi. La mossa successiva è quella di affidare il ripristino
definitivo del catalogo hendrixiano all’ingegnere del suono Eddie Kramer e
all’esperto John McDermott, con l’esplicito compito di ricostruire anche
l’identità di un disco, finora mai uscito, ma che sembra fosse praticamente
pronto, prima che Hendrix morisse. La Universal MCA, che nel frattempo si
è aggiudicata la licenza mondiale per le registrazioni di Hendrix ha
cominciato, proprio in questi giorni, a immettere sul mercato i primi frutti di
questa revisione. Il risultato è la nuova disponibilità dei primi tre storici
lavori: Are You Experienced? (1967), Axis: Bold As Love (1968) e Electric
Ladyland (1968) e finalmente del nuovo album, First Rays Of The New
Rising Sun, che contiene 17 brani, già tutti ascoltati, ma mai ordinatamente
raccolti. I lavori sono disponibili sia su vinile che su CD. In autunno si
prevede la pubblicazione di Band Of Gypsys (1970) e per il prossimo
gennaio addirittura di un disco fatto solo di inediti. Non è tutto, voci
abbastanza ufficiali giurano anche sull’individuazione di altri nuovi brani
che usciranno con una scadenza fissa di due anni dal 2000 in poi. Come
dire? Hendrix will never die.
La complessità
Sylvie Coyaud http://www.exploratorium.edu/complexity/menu.html
Le idee che lungo un intero secolo hanno portato a una nuova "dinamica, a
un modo più fluido e globale di concepire i rapporti tra le cose, animate o
meno, osservate o solo ipotizzate, sono sul Web dell’Exploratorium, sotto il
titolo "Paesaggi turbolenti: le forze della natura che danno forma al
mondo" (Turbolent Landscapes).
http://www.exploratorium.edu/complexity/menu.html
Nota tecnica: bastano dei normali browser. Il "Tour" audio dell’argomento,
accessibile per chi dispone dell’apposita scheda, non è indispensabile alla
comprensione.
Nota critica: occorrono almeno tre passaggi, a partire dal pagina Menu per
arrivare a certi oggetti della mostra "Paesaggi turbolenti", e siccome non
c’è un catalogo (o non l’ho visto) è difficile ritrovarli per una seconda visita
più sistematica. Suggerimento: salvate nei bookmarks quelli che vi sono
piaciuti di più.
Orari migliori: 8-11 del mattino. Dopo, rallentamento generale.
Appuntamenti
PRE-VISIONI
I registi di domani alla prova
spettacoli degli allievi del IV anno del corso di regia della Scuola d’Arte
Drammatica Paolo Grassi in collaborazione con il Teatro Franco Parenti ed il
Teatro Verdi
Come osservava Cecilia, e' più difficile del primo, perché devi operare su
una sola parola, anziché su una frase. Poi e' passato il momento
dell'entusiasmo iniziale per un gioco in rete, quindi rimangono solo gli
"appassionati" (i maniaci). Giocare in due e' deprimente, ed ho pensato ad
un paio di cose che - forse - potrebbero migliorare la situazione:
Non e' necessario inventare gli acronimi: a volte li si trova nei giornali o nei
libri. Cosi' si tratta solo di leggere, non di creare. Qualche esempio dai titoli
di libri:
Ma, più che nei titoli, e' nei testi che gli acronimi potrebbero nascondersi.
PRISENCOLINENSINAINCIUSOL
Ah.......G.I.O.C.H.I.:
G iochiamo
I nsieme:
O spitiamo
C hi
Ha
I mmaginazione
Golem è giunto al numero dieci. Sarà, ma i numeri tondi fanno sempre un certo effetto. Grandi sorprese stiamo
preparando, comunque, per il compleanno di Golem.
Intanto, vi proponiamo gli argomenti di Umberto Eco sul perché è più utile scrivere su Internet che sulla carta,
argomenti che inducono a varie considerazioni sul ruolo dell’informazione e sul senso della professione
giornalistica.
Il referendum sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti viene affrontato direttamente dagli interventi di Calabrò
e La Stella, nonché attraverso le proposte di legge a favore o contro l’abolizione.
Le nuove tecnologie porteranno con sé un nuovo modo di fare informazione , di fare giornalismo? In quali
direzioni e con quali modalità possiamo comprendere e dirigere questo mutamento?
Si parla, poi, di ruspe, pale e cucchiaini, ovvero del rapporto tra produttività e occupazione, di come dovrebbe e
di come non dovrebbe essere rinnovata l’Università in Italia e della relazione tra il premio Oscar, il Festival
della canzone italiana e il fondamentale concetto di democrazia.
Tra le rubriche, oltre ai nostri affezionati collaboratori, vi segnaliamo una nuova entrata: Roberta Ribali, che ci
intratterrà ogni mese con una riflessione sulle trappole che ci tende la nostra psiche.
Augurandovi una buona e costruttiva lettura, restiamo in attesa delle vostre sempre stimolanti reazioni.
Non scrivete sui giornali: nessuno se ne accorge
Umberto Eco Non è che Internet serva solo ai deliranti per ricevere messaggi dagli
extraterrestri (li ricevevano anche prima di Internet, magari via posta). Spero
serva anche ai terrestri, per dire delle cose che è ormai inutile dire sulla
stampa.
Ecco la storia. Sabato 29 marzo i giornali informano che Emma Bonino, in
un accesso di sdegno, di fronte alla tragedia dell’Albania, si chiede perché
Bobbio ed Eco (è lei ad usare questa sineddoche adulatoria, specie per me,
per indicare tutti gli intellettuali) non si pronunciano sull’Albania, così
rendendosi complici e forse responsabili diretti del disinteresse verso i
profughi albanesi.
Trascuro il sentimento un poco kitsch che sta dietro a questi sfoghi: come se
in una tragedia in cui l’ONU, la Comunità Europea, una dozzina di governi
non riescono a trovare una soluzione, e gran parte del paese reagisce con
razzismo istintivo, un alato appello di Anime Belle potesse risolvere la
situazione. Immagino che, secondo Emma Bonino, se Bobbio firmasse un
appello per affermare che gli albanesi sono buoni, la Pivetti ne
accoglierebbe duecento a casa propria. Ma se fosse così, basterebbe che la
Pivetti avesse letto non dico Bobbio, ma il Vangelo.
Trascuro il fatto che come commissario europeo la Bonino dovrebbe sentirsi
responsabile (se non soggettivamente, almeno oggettivamente) della
latitanza della Comunità Europea su questo argomento; lo ha notato
giustamente Cacciari su Repubblica di domenica, osservando come sia per
lo meno spudorato cercare altri responsabili invece di dare le dimissioni
dalla propria carica, a quanto pare inutile. Ma pazienza, i tempi sono duri e
possono saltare i nervi a chiunque.
Più singolare mi pare il fatto che la Bonino riceva in ritardo i giornali, o non
li legga. Altrimenti si sarebbe accorta di due cose. Primo, che proprio il
giorno prima che lei parlasse usciva sull’Espresso una mia riflessione
sull’Albania in cui invitavo a considerare una serie di cose. Secondo, due
giorni prima a Parigi aprivo un Convegno internazionale sull’intolleranza e
parlavo specificamente dell’Albania e del razzismo strisciante (o talora
rampante) che si sta verificando in Italia; ne ho riparlato il giorno dopo, e tre
giorni prima avevo sollecitato l’Academie Universelle des Cultures a
formulare un appello alla Comunità Europea. I giornali francesi (per non
dire di radio e televisione) hanno dedicato a questi eventi il massimo rilievo,
il Figaro ha trascritto tutto il mio intervento, l’Unità lo ha riportato in gran
parte, compreso l’accenno all’Albania e alla situazione italiana.
Il fatto che persino la Bonino (che avrebbe da citare questi eventi per
lanciare un appello a una maggiore partecipazione) non lo sapesse è proprio
la prova che gli appelli intellettuali servono a poco in tragedie come queste,
e quindi sarebbe inutile chedere agli uomini di cultura cose su cui essi hanno
poco potere.
Tuttavia, ancora una volta, la Bonino c’entra sino a un certo punto. Ha detto
una stupidaggine, pazienza, può accadere a tutti, la stampa avrebbe potuto
dedicarle un trafiletto ironico e la cosa sarebbe finita lì. Nossignore, la
stampa l’ha presa sul serio. Ho dovuto staccare il telefono perché a casa mi
avevano avvertito che vari quotidiani volevano sapere che cosa avrei
risposto. Mi sono detto che la stampa aveva tutti gli elementi a sua
disposizione per rispondere, l’Espresso era nelle edicole, a Parigi c’erano
tutti i corrispondenti italiani, tutto esisteva su fonti pubbliche.
E invece sui giornali di domenica ho ritrovato la sparata della Bonino
ripresa, affannosi interrogativi sul perché Bobbio ed Eco non salvano gli
albanesi, e nessuno - dico nessuno, neppure quelli che avevano parlato degli
eventi parigini il giorno prima - che si ricordasse di quello che ho riassunto
poco sopra.
La stampa non ha più memoria, non ha più archivi, né di giornali italiani né
di giornali esteri, non si ricorda delle notizie dei giorni precedenti, salta
addosso all’ultimo scandalo pur di riempire colonne.... Per quel che ne
sappiamo, Bobbio potrebbe avere fatto chissà che cosa venerdì, ma
domenica la stampa l’avrebbe dimenticato, e solo perché sabato ha parlato la
Bonino. E questa è la dimostrazione di quanto la Bonino abbia torto: non
vale affatto la pena che gli intellettuali scrivano e parlino, anche se quel che
dicono potesse contare qualcosa, perché intanto ogni parola verrebbe
cancellata il giorno dopo.
Visto che ormai la carta viene macerata nottetempo, mi affido alla rete. Non
si è forse scoperto che vi sono dei siti non più aggiornati da un anno e forse
più? Sulla rete c’è forse ancora un culto della memoria.
Il "mestiere" del giornalista
Antonio Calabrò Lo si può perdonare, Michelangelo Antonioni, per aver usato quella parola
un po’ solenne, "professione", accosatata a "reporter". Lo si può perdonare
perché era un maestro del cinema. E perché ancora, in quel ’74, non era
dilagata fastidiosamente la tendenza a parlare di "professionalità",
"professionisti", "professionismo", magniloquenze tanto più insistentemente
declamate quanto più sono emersi, collegati a quelle parole, corporativismi,
giochi di privilegio, intolleranze nei confronti di chi, "professionista"
appunto, faceva poco e male il suo lavoro (avvocati, medici, notai,
saltimbanchi, operatori TV, tecnici dell’informazione tutti pronti a
scandalizzarsi per gli "attacchi alla professionalità" senza aver mai voglia di
riflettere se e quanto le critiche, nel merito, fossero fondate).
Preferisco, dunque, parlare di "mestiere", per il giornalismo. Come una sorta
di "mestiere di vivere". Perché se ne sottolinea il carattere tutto sommato
artigiano: fare bene un lavoro, con precisione, accurata ricerca del come e
del perché delle cose, attento rispetto delle persone, umiltà. E perché dà
bene la dimensione d’una fatica: di capire, raccontare, redigere
puntigliosamente un giornale per cercare periodicamente di dare un senso a
quello che succede nel mondo. Mestiere artigiano, quindi, indifferente, nel
suo significato più profondo, alle tecnologie, le più moderne e sofisticate,
per scrivere, impaginare e trasmettere parole, suoni e immagini: un morto è
pur sempre un morto, una guerra una tragedia, un’operazione finanziaria
un’avventura con vantaggi e costi, uno spettacolo un evento da descrivere e
interpretare.
Giornalista è dunque chi ogni giorno fa un tale mestiere. E non certo
soltanto chi è iscritto ad un albo "professionale", ad un ordine di categoria
che negli anni ha finito per assumere troppe caratteristiche di corporazione.
Di un "Ordine", privilegio quasi esclusivamente italiano, si potrebbe
insomma benissimo fare a meno. A condizione, naturalmente, di difendere
invece i valori di fondo cui si deve ispirare il mestiere e le regole per poterlo
esercitare bene a cominciare dai contratti di lavoro (rafforzando quindi
compiti e ruoli del sindacato dei giornalisti).
C’è un gran bisogno, oggi, di una profonda riflessione proprio sui valori e
sulle regole del giornalismo: sulla cultura e sulle tecniche di cui è necessario
essere padroni, sul rapporto fra giornalista e fonti di informazione,
sull’autonomia nei confronti dei tanti poteri pubblici, politici, culturali ed
economici, sul ruolo di chi informa all’interno delle aziende giornalistiche
(giornali stampati, radio e TV o notiziari Internet che siano). Sulla
preparazione necessaria per evitare superficialità, cialtronerie e subalternità
di cui il giornalismo italiano offre purtroppo pessimi esempi.
Ci saranno infatti pesanti colpe dei giornalisti se oggi il referendum
sull’abolizione dell’ordine rischia di trasformarsi, impropriamente, in un
giudizio populista pro o contro i giornalisti in quanto tali, la loro funzione, il
ruolo politico e sociale. E se in certe aziende editoriali prende corpo l’idea
che il giornalista sia un factotum privo di identità particolare e buono ad
essere "flessibilmente" usato oggi per un settimanale Tv, domani per una
rivista di cucina, doman l’altro per una rassegna di moda impasticciata con
la pubblicità. E dunque, più che difendere l’anacronistico Ordine, varrebbe
la pena ragionare innanzitutto sull’etica dell’informazione e sui contenuti
del mestiere in questi difficilissimi tempi di grandi trasformazioni.
Recuperando, tra l’altro, l’orgoglio d’un lavoro ben fatto. Come sa bene
ogni buon artigiano.
Catena di montaggio
Oliviero La Stella L'informazione oggi in Italia è al livello forse più basso da vent'anni in qua.
La gente è insoddisfatta e trasferisce puntualmente nei sondaggi la scarsa
fiducia che nutre nei confronti dei media. Credo che su questo aspetto ci sia
poco da aggiungere, dopo le riflessioni e le provocazioni di Umberto Eco.
Alla crisi del sistema dell'informazione, la politica risponde con un
referendum che ha l'obiettivo di abolire l'Ordine dei Giornalisti. A mio
parere, questo modo di affrontare il problema è assolutamente disonesto.Si
fa credere all'opinione pubblica che i giornalisti siano i responsabili
dell'informazione quando invece lo sono solo in minima parte. La loro
autonomia nel corso degli ultimi anni si e infatti drasticamente ridotta. I
promotori del referendum, e chi apertamente o silenziosamente lo sostiene,
fingono di ignorare che l'informazione è oggi saldamente nelle mani dei
padroni dei media, ovvero di gruppi industriali e partiti politici. I giornalisti,
ahimè, oggi come oggi sono - a qualsiasi livello - elementi di una catena di
montaggio che sforna quotidianamente un prodotto scadente (superficiale e
talora manipolato), che si tenta di rendere appetibile con la "panna
montata" (scandalismo, pettegolezzi e frivolezze). Credo che i giornalisti
italiani, almeno quelli che hanno vissuto altre stagioni professionali, siano
tutti profondamente frustrati da tale situazione. E ritengo che ad essi si possa
soltanto imputare, individualmente e collettivamente, una mancanza di
coraggio, ovvero l’incapacità (e in alcuni casi la non volontà) di rifiutare
questo svilimento della professione.Ora con un referendum si punta a
delegittimare definitivamente la figura professionale del giornalista, per
renderla del tutto simile a quella della "scimmia ammaestrata" dell'ingegner
Frederick Winslow Taylor, il padre della catena di montaggio.Non sono mai
stato un fanatico dell'Ordine dei giornalisti. Da giovane, essendo un
cosiddetto "figlio del Sessantotto", ritenevo che avesse un sapore
corporativo e che quindi, per ciò stesso, fosse da abolire. In età più matura
ho fatto parte del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti e mi sono
sorbito centinaia di ore di chiacchiere inutili, su temi e da parte di oratori
spesso lontani dalle gravi questioni dell'informazione in Italia. Ma devo dire
che, ciò nonostante, qualcosa di buono l'Ordine l'ha fatto, insieme con la
Federazione Nazionale della Stampa: come la Carta di Treviso (a difesa dei
minori) e la Carta dei Doveri del Giornalista (per cercare di imporre
un'informazione più corretta); due documenti importanti ma che purtroppo,
per una serie di ragioni, ancora non sono entrati nelle redazioni come cultura
diffusa. Così pure, l'Ordine si è battuto - finora invano, per l'opposizione
degli editori - perché chi accede alla professione abbia un'alta
qualificazione, ottenuta al termine di un ben definito percorso formativo.Da
queste esperienze ho tratto la convinzione che l'Ordine debba esistere, ma
radicalmente riformato. Occorre che esso diventi più pienamente un
organismo di difesa del cittadino nei confronti delle distorsioni e delle
prevaricazioni dei media e che, quindi, attraverso strumenti di legge venga
dotato della possibilità di esercitare con efficacia questo ruolo. Ciò significa,
ad esempio, che bisognerà trovare il modo di sanzionare in maniera rapida e
rigorosa le scorrettezze dei giornalisti. In sostanza, sono per un Ordine con
più poteri, ma non a beneficio della "corporazione" bensì della gente.Non
vedo perché, così come si avverte l'esigenza di istituire authorities che
tutelano la libera concorrenza sul mercato o la privacy del cittadino, non si
possa pensare a un organismo che si preoccupi dei requisiti di correttezza
dell'informazione. Creare e far funzionare un'istituzione di questo genere
significherebbe, a mio parere, aprire una stagione nuova: la Seconda
Repubblica dell'informazione. E' comprensibile che a qualcuno faccia paura.
La battuta pronta
Anna Masera Cari amici di Golem, vi ringrazio del vostro invito a riflettere su alcune
considerazioni che sono emerse dal forum in diretta sul futuro del
giornalismo che avete ospitato sul vostro sito giovedì 13 marzo scorso alle
17.00 e a cui sono stata invitata a partecipare, insieme a Rocco Cotroneo del
Corriere della Sera e Enrico Pedemonte dell'Espresso. Il forum è stato
stimolante, ma temo che sia stato poco utile per approfondire il tema: la
comunicazione è stata sconnessa, un po' per motivi tecnici, un po' perchè le
chat tendono a favorire chi ha la battuta pronta, e non necessariamente lo
scambio di idee.
Vi scrivo dopo aver letto lo scambio vivace e polemico di questi giorni tra
Riccardo Staglianò (che ha scritto l'articolo di copertina «Poveri noi se il
web è idiota come la tv!» su Reset), Riccardo Chiaberge (che ha scritto
«Internet, la sinistra ci ripensa» sul Corriere della Sera del 19 marzo) e
Franco Carlini (che gli ha risposto per le rime sul Manifesto del 20 marzo).
Nel frattempo, il mio giornale, Panorama, ha pubblicato nel numero 11 del
14 marzo scorso l'articolo-inchiesta di Luca De Biase su «L'edicola al tempo
dell'online» (utile al lettore che vuole capirci qualcosa e che potete andare a
leggere su http://www.mondadori.com/pan1197/
mag/inc_1197_1.html) con a lato, purtroppo, un contraddittorio commento
firmato con la sigla del «tricheco» (del nostro condirettore Pierluigi
Battista), che tanto per cambiare prende le distanze da Internet con il tipico
snobismo e il tipico attaccamento al «vecchio» contro tutto ciò che è
«nuovo» dei principali direttori di giornali italiani.
Tutto questo serve per contestualizzare il mio intervento, che vorrei
sintetizzare in tre punti:
2) Non ha senso, per noi che «di sinistra» siamo quantomeno di provenienza
storica, demonizzare tutto ciò che è commerciale, «privato» e produce
«soldi». Sì, Internet non è più solo la grande rete anarchica dove tutto era
libero e gratis: oggi su Internet si commercia, ci si guadagna da vivere, si fa
pubblicità. E con questo? Ma le strade secondo voi sono state costruite per
favorire lo scambio di merci o solo per permetterci di andare in vacanza?
Non siamo ridicoli: meno male che Internet sta maturando e che le
informazioni arrivano anche grazie al «push» e non solo al «pull» (quello,
tra l'altro, per i «puristi della Rete» ci sarà sempre); meno male che Internet
diventa più accessibile a chi cerca informazioni ma non ha tempo di
navigare; e meno male che Internet diventa un luogo di opportunità, non
solo per chi vuole imparare, ma anche per chi vuole guadagnarsi da vivere
inventandosi un nuovo mestiere. Le imprese commerciali, con le loro
iniziative e i loro banner pubblicitari, simili agli spot della tivù, sono solo
benvenute se favoriscono tutto questo.
Quali delle seguenti affermazioni si avvicina di più alla tua opinione sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti?
Caratteristiche personali:
Genere:
Maschio
Femmina
Età: 0
Titolo di studio
Professione:
altro
Ti "senti" di:
Sinistra
Centro-Sinistra
Centro-Centro
Centro-Destra
Destra
Nessuna di queste categorie
Non so
Si
No
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L'utopia
Paolo Palazzi Il fenomeno degli ultimi decenni della globalizzazione internazionale dei
mercati ha alcune importanti caratteristiche di novità rispetto alla situazione
precedente in cui in realtà i mercati erano già abbondantemente globalizzati
(addirittura alcuni studiosi affermano che, dal punto di vista del peso degli
interscambi internazionali sulla produzione, la globalizzazione era più
elevata all'inizio del secolo).
In sintesi, con uno slogan, si può dire che bisogna incorporare nei prodotti il
benessere sociale e la qualità della vita. Slegando in qualche modo il
benessere dalla quantità dei prodotti e legandolo alla qualità.
Come credo tutti ormai sappiamo, questa trasformazione non può avvenire
con una modificazione dell'assetto politico e ancor meno con una
rivoluzione: poichè tale trasformazione deve avvenire nelle coscienze e dal
basso, non è sufficiente propagandarla né può essere imposta.
Ruspe, pale e cucchiaini
Antonio Martino Negli ultimi 20 anni, mentre gli Stati Uniti hanno creato 36 milioni di nuovi
posti di lavoro, di cui 31 milioni nel settore privato, nell’Unione Europea ne
sono stati creati soltanto 5 milioni, di cui appena 1 milione nel settore
privato. Da questo dato discende una conseguenza ovvia: se vogliamo creare
occupazione produttiva, dobbiamo consentire agli investimenti privati di
farlo, il che implica la rimozione dei troppi vincoli che oggi lo impediscono.
Ho avuto modo di illustrare questa tesi in un precedente articolo, ma credo
che valga la pena riprenderla perché mantiene intatta la sua validità. Il
problema della disoccupazione attuale non può essere risolto con politiche
di stimolo della domanda, come aumenti della spesa pubblica o politiche di
moneta facile. No, la disoccupazione che rappresenta l’incubo di milioni di
nostri giovani, specie al Sud, è dovuta quasi esclusivamente a cause
"strutturali", ai vincoli ed alle distorsioni che impediscono ai mercati del
lavoro di funzionare. In conseguenza di ciò, è semplicemente illusorio (per
non dire velleitario) supporre, come fanno in tanti, che l’intervento pubblico
diretto possa creare occupazione. Vediamo di chiarire.
Sembra che qualche anno fa un uomo d’affari occidentale, durante una sua
visita in Cina, vide un centinaio di lavoratori che, armati di pale, scavavano
un terrapieno, una sorta di piccola diga. L’uomo d’affari non poté trattenersi
dal commentare che un lavoratore solo con una macchina scavatrice avrebbe
potuto agevolmente svolgere lo stesso lavoro in mezza giornata. Al che il
caposquadra gli rispose che, così facendo, si sarebbe creata disoccupazione.
"Ah!", rispose l’uomo d’affari occidentale, "non avevo capito. Credevo che
voleste costruire un terrapieno. Ma se, invece, volete creare occupazione,
perché non gli togliete le pale e li armate di cucchiaini?".
Un’illustrazione abbastanza efficace di una differenza fondamentale: quella
fra occupazione fasulla ed occupazione produttiva. La prima non è difficile
da creare con l’intervento pubblico, com’è ampiamente dimostrato
dall’esperienza, non solo in Italia. Assumete un certo numero di persone,
mettetele a scavare buche, ed incaricate poi un altro gruppo di "lavoratori"
di riempirle. Pagate i due gruppi con denaro "pubblico" (cioè con quattrini
prelevati con le tasse da tasche private) ed avrete creato il tipo di occupati
che l’intervento pubblico sa creare così bene.
Il problema tuttavia, con questo tipo di occupazione è che essere occupati
non significa percepire un reddito, significa produrre un reddito. Ora,
quando uno percepisce un reddito che non produce, qualcun altro produce
un reddito che non percepisce e non percepirà mai. L’occupazione "creata"
dai politici, in altri termini, è anzitutto null’altro che un trasferimento di
reddito di chi produce a chi non produce. Coloro i quali hanno dovuto
pagare le tasse per finanziare gli stipendi dei "lavoratori" pubblici avranno,
in conseguenza di ciò, meno reddito da risparmiare o da spendere. Al
sistema produttivo, quindi, affluiranno meno risorse sia per minori vendite
di prodotto che per minore risparmio da investire. L’occupazione nel settore
produttivo sarà, quindi, minore: l’intervento pubblico da un lato ha creato
occupazione (sono aumentati gli scavatori ed i riempitori di buche, i
"buchisti"), dall’altro ha distrutto posti di lavoro nel settore produttivo dal
quale ha dovuto prelevare le risorse per pagare lo stipendio dei "buchisti "
pubblici.
Anche supponendo per assurdo che il numero dei lavoratori occupati grazie
all’intervento pubblico sia uguale al numero di quanti, in sua assenza,
avrebbero trovato occupazione nel settore produttivo, l’effetto netto
dell’intervento pubblico è sempre negativo, perché i posti di lavoro creati
sono improduttivi, mentre quelli distrutti sarebbero stati produttivi. In
conseguenza, stiamo tutti peggio perché il reddito complessivo prodotto sarà
minore di quanto avrebbe potuto essere.
L’analisi surriferita, anche se schematica, è lungi dall’essere caricaturale:
l’esperienza di questo secolo, infatti, dimostra aldilà di ogni ragionevole
dubbio che l’intervento pubblico non è in grado di creare occupazione
produttiva. Se , infatti, grazie ad illuminati piani quinquennali o altre forme
di intervento pubblico si potesse creare occupazione produttiva, il
comunismo avrebbe avuto successo. Se è miseramente fallito è proprio
perché non è riuscito a creare occupazione produttiva. D’altro canto, è
altrettanto certo che la fiscalità eccessiva - le troppe tasse e i troppi onerosi
balzelli imposti al sistema produttivo - distrugge l’occupazione. Non è un
caso che i paesi in cui il carico fiscale è più basso sono anche quelli con
minore disoccupazione: Svizzera, Stati Uniti, Giappone o paesi emergenti
del sud-est asiatico hanno tassi di disoccupazione trascurabili, specie se
confrontati con quelli dei paesi ad alta fiscalità, come il nostro.
La morale è semplicissima (anche se le nostre sinistre continuano a non
capirla): se vogliamo accrescere l’occupazione produttiva dobbiamo ridurre,
non aumentare, sia le tasse che le spese pubbliche. Dobbiamo cioè smetterla
di chiedere al governo di fare quello che nessun governo è mai riuscito a
fare: creare occupazione produttiva. Quello che il governo, invece, può e
deve fare è proprio l’opposto di quanto sta facendo: deve liberare risorse che
possano essere investite, assicurando finalmente ai nostri giovani quella
speranza nel futuro che oggi viene loro negata.
No, questa legge no
Giovanni Bachelet 07/03/97 Può darsi che mi sbagli, ma mi pare che da molti mesi non ci siano più
commenti su "Cattedra o cara" e sul DDL di riforma dei concorsi. Eppure
fra pochissimo il DDL andrà in aula dopo le modifiche apportate in
commissione. L'estate scorsa ero patriotticamente convinto che la
combinazione dei dispositivi inizialmente previsti dal DDL (idoneità,
concorsi locali e "obbligo della deportazione" cioè divieto per i candidati
locali di concorrere nella stessa sede dove già sono) potesse funzionare.
Qualche maligno suggeriva già allora che i vincoli sembravano scritti
apposta per essere poi massacrati in aula: dopo l'iter parlamentare, dicevano,
sarebbe rimasta la sola idoneità nazionale a numero aperto, con conseguente
ope legis di massa di tanti falsi validi - come li definiva mesi fa Paolo
D'Iorio della Scuola Normale - entrati senza mai affrontare un concorso, e
spesso meritevoli semmai di una retrocessione e non di una ulteriore
promozione gratis. Purtroppo ci siamo arrivati: il testo attuale (come
osservava Paolo Sylos Labini su La Repubblica di sabato scorso primo
marzo) per un insieme di infernali dispositivi transitori e incastri diabolici di
tempi e scadenze avrà per effetto, se passa cosi' com'è, quello di sistemare e
promuovere più o meno automaticamente tutti quelli che già sono dentro
l’università, e lasciar fuori tutti gli altri, a cominciare dai giovanissimi in
gamba (l’età media del ricercatore pare sia oggi superiore ai 40 anni) fino ai
medio-giovani bravissimi che almeno nel mio campo (Fisica) sono in gran
numero ormai all'estero, e non torneranno per meno di una cattedra. Ormai,
come dice Sylos Labini, l'unica speranza è abolire del tutto idoneità (che
prevede tempi lunghissimi, non verrebbe negata a nessuno e preluderebbe
fatalmente a un ope legis di massa) e lasciare la parte buona della legge: i
concorsi locali. Nel chiedere a Umberto Eco, che tutti a torto o a ragione
considerano l'ispiratore di questa legge, e a tutti quelli che vogliono evitare
che di qui al 2010 non entri più nessuno nell’università, di rifiutare
pubblicamente la versione attuale della legge e aderire all'appello di Sylos
Labini contro idoneità a numero aperto, segnalo che io sono Professore
Associato, entrato con uno dei due concorsi liberi (nel 1988) e quindi
probabile fruitore dell'ope legis mascherato se questa legge passa cosi'
com'è. Se chiedo ai colleghi di ribellarsi, è perché credo che tutti debbano
avere pari opportunità nell'accedere ai posti di ricerca e insegnamento: non
solo per un democratico principio di equità (che non dovrebbe peraltro
suonare strano per chi ha creduto nell'Ulivo), ma anche perché la qualità
dell'ambiente scientifico in cui vivo vale per me più di molte altre
gratificazioni. Credo che quanto più amiamo il nostro governo, quanto più
abbiamo lavorato per farlo vincere un anno fa, tanto più dobbiamo aiutarlo a
non fare provvedimenti iniqui e stupidi. E sono convinto, come Sylos
Labini, che con un paio di emendamenti semplici questa legge possa tornare
a diventare uno strumento di rinnovamento dell’università e di opportunità
per tanti che non hanno voce, stanno fuori dal sistema universitario e sono
più bravi di molti che stanno dentro per effetto di precedenti...riforme dei
concorsi.
I misteri di Eleusi
Maurizio Bettini Tra le molte cose che ci aspettiamo da una nuova legge sull'università, c'è
anche una riforma del cosiddetto "Dottorato di ricerca". Una delle istituzioni
più assurde, bizzarre e comunque meno soddisfacenti che la fantasia
mitologica della burocrazia ministeriale italiana abbia mai partorito.
Vediamo brevemente di che si tratta. Il "Dottorato di ricerca" è stato istituito
quindici anni fa, nel seguente modo: le università o i consorzi fra università
a cui è stata riconosciuta la capacità di concedere il dottorato, ricevono ogni
anno tre posti (in media) da destinare a giovani laureati. Le apposite
commissioni sottopongono perciò i candidati a un esame, dopo di che
indicano i tre prescelti. Essi riceveranno per tre anni uno stipendio annuale
non alto, e in cambio saranno tenuti a seguire dei seminari specialistici e a
redigere una tesi di dottorato. Alla fine dei tre anni una commissione
nazionale giudica se concedere o meno il titolo di "dottore di ricerca" ai
singoli candidati.
Cosa c'è che non va in questo sistema? Cominciamo dalla fine. Forse non
tutti sanno che, se la dissertazione conclusiva è giudicata insufficiente dalla
commissione nazionale, il dottorando perde per sempre la possibilità di
ricevere il titolo. Ci si aspetterebbe che i professori della commissione
avessero la possibilità di dare dei consigli al candidato, e di invitarlo a
ripresentare una nuova versione del suo lavoro. Invece no. In questo modo il
conseguimento di un titolo scientifico piuttosto raffinato, l'equivalente del
PhD americano o britannico, rassomiglia un pò troppo all'interrogazione di
storia e geografia: se lo studente non è preparato vada a posto con
l'insufficienza. Inutile dire che lo stato ha comunque speso l'equivalente di
tre anni di borsa dottorato per quella persona, salvo privarsi della possibilità
di averla poi come dottore di ricerca.
Scorriamo indietro nella carriera del dottorando, e andiamo al principio. In
un dottorato di tipo umanistico (quelli di cui ho esperienza) i candidati al
concorso iniziale sono in genere un centinaio: di questi se ne prendono di
media tre. E gli altri novantasette? Ammettiamo pure che molti di essi
facciano il concorso senza particolari motivazioni. Ne resta comunque un
buon numero che dispiace escludere dai corsi di dottorato per il solo fatto
che "non c'è posto". A questo punto ci si chiede: ma perchè? Che bisogno
c'è di fare così? Lo stato ha certo il diritto di non concedere più di tre borse
l'anno a un certo dottorato: questo non implica però che chi non riceve la
borsa debba per questo essere escluso dalla frequentazione dei corsi e dalla
possibilità di conseguire il titolo. In tutti i paesi del mondo una persona, se
ritenuta idonea, ha il diritto di frequentare i corsi di PhD pagando le tasse
richieste, e di sottoporre la sua dissertazione a un giudizio finale. In Italia
no. All'inizio, per la verità, non era così. Nella legge 382 si ammetteva
almeno la possibilità che, oltre ai titolari della borsa potessero essere
ammessi ai corsi "dipendenti da enti pubblici e professori di ruolo delle
secondarie superiori". Poi però questo comma è stato abrogato, e anzi, in
una circolare del 1986 si legge quanto segue: "è fatto assoluto divieto di
consentire la frequenza alle attività previste per il dottorato a qualsiasi
persona che non vi sia stata formalmente ammessa...è altresì vietata la
presenza dei cosiddetti studenti osservatori, auditori, volontari, o altrimenti
denominati. Dell'inosservanza di tale divieto sarà ritenuto responsabile il
coordinatore". In questa circolare, oltre il tono minaccioso e l'uso
dell'avverbio "altresì" (che bisognerebbe proscrivere dal linguaggio
burocratico sotto la minaccia delle armi), spiace soprattutto la visione
iniziatica del dottorato a cui l'estensore si ispira. Un osservatore esterno si fa
l'idea che i nostri corsi di dottorato siano come i misteri di Eleusi. Non solo
viene tolta la possibilità di conseguire il titolo a coloro che non sono titolari
di borsa, ma azzardati a frequentare in qualunque altra forma i seminari!
Il Dottorato di ricerca avrebbe potuto essere una grande occasione per
innalzare il tono culturale del nostro paese. Almeno per ora, non è stato così.
Avere a disposizione più persone che hanno conseguito un PhD è una
ricchezza per la nazione, qualunque cosa facciano queste persone dopo aver
conseguito il titolo. Invece noi alleviamo dei "dottori di ricerca" dotati di un
"titolo accademico valutabile unicamente nell'ambito della ricerca
scientifica": come esplicitamente dice la legge 382. Cioè persone che,
almeno nel settore delle discipline umanistiche, non possono che essere
destinate a svolgere ricerca nell'università. Salvo che nell'università non c'è
posto per loro, come purtroppo si sa. In questo modo viene raggiunto un
obiettivo davvero paradossale: continuiamo ad avere un numero basso di
persone in possesso del titolo di dottorato, e nello stesso tempo ne abbiamo
troppe. In un'altra circolare, stavolta del 1994, veniva affrontato il tema
delle "tendenze internazionali e europee" in materia di dottorato. Vi si legge
quanto segue: "in tali paesi si formano...molti più dottori di ricerca di quanto
ancora non avvenga in Italia. Tali dottori vengono solo in parte minore usati
per il reclutamento accademico, ma vengono invece usati nel sistema
produttivo e nelle istituzioni...Anche il nostro paese dovrebbe poter muovere
in tali direzioni". L'estensore di questa circolare sembra avere molta più
confidenza col mondo del PhD di quanto non l'avesse colui che immaginava
il dottorato come i misteri di Eleusi. Però, se si continuano a prendere solo
tre persone per volta, come si fa ad aumentare il numero dei dottori di
ricerca? E se si considera il dottorato un "titolo accademico valutabile
unicamente nell'ambito della ricerca scientifica", come si può pretendere che
i dottori di ricerca vengano poi impiegati nel sistema produttivo e nelle
istituzioni?
Le buone intenzioni
Aldo Schiavone Dopo quasi un anno dal suo insediamento, la politica del governo Prodi
verso la scuola, l’università e la ricerca sembra fatta ancora molto più di
annunci e di proclami di intenti che di risultati raggiunti. La grande svolta in
cui molti di noi confidavano dopo gli impegni della campagna elettorale, è
per adesso mancata e nulla lascia pensare che sia imminente.
Per quanto riguarda l’università, il segnale più preoccupante va considerato
certamente il rinvio a tempo indeterminato della riforma dei concorsi. Il
ministro Berlinguer era partito bene, con un progetto di legge che
raccoglieva i frutti di un lungo dibattito e che avrebbe potuto essere
rapidamente approvato, eliminando una delle distorsioni peggiori della
nostra vita accademica e ridando finalmente una prospettiva alle giovani
generazioni di studiosi. Ma l’iniziativa si è arenata subito in un estenuante
dibattito all’interno della Commissione Pubblica Istruzione del Senato, che
ha impiegato circa sette mesi per varare - senza modifiche rilevanti - un
testo che avrebbe potuto essere licenziato in pochi giorni. Ora siamo ancora
in attesa che inizi la discussione in aula ed è impossibile fare previsioni.
Potranno passare anni. E, intanto, il ministro è costretto a bandire i concorsi
(oggi per gli associati, domani per gli ordinari) con le vecchie regole,
circondate di generale discredito, per cui è facile prevedere che l’esito delle
prove darà luogo a contenziosi infiniti.
Anche sul fronte della politica della ricerca, non è stato fatto nulla di
significativo. S’era parlato di un progetto per le cosiddette "scuole di
eccellenza" e di una revisione profonda della struttura e del funzionamento
dei grandi enti (Cnr, Enea, ecc.), ma l’unico atto finora compiuto riguarda il
rinnovo della presidenza del Cnr, con una scelta che ha tutta l’apparenza di
continuare nelle vecchie pratiche spartitorie di democristiana memoria.
Infine, qualche parola sulla scuola: qui le dichiarazioni di intenti si
succedono in modo incalzante, mescolate a più modeste decisioni già
operative, alcune senz’altro buone (come la prospettata riforma dei cicli
d’insegnamento, che va considerata l’idea migliore elaborata dal governo
nel campo dell’istruzione e dell’insegnamento), altre più discutibili (come la
riforma dell’insegnamento della storia e l’abolizione, senza prevedere nulla
al loro posto, dei "corsi di recupero"), altre ancora senza dubbio pessime
(come la bozza di statuto sui diritti delle studentesse e degli studenti).
Le ragioni di questa situazione di stallo sono molte e per la verità la maggior
parte di esse non possono essere direttamente attribuite a responsabilità del
ministro. Ma rimane il fatto - gravissimo - che il nostro sistema educativo si
sta deteriorando sempre di più, sta perdendo forze e risorse e si sta
allineando su rendimenti sempre più bassi, dalla scuola dell’obbligo fino
all’università, e tutto ciò proprio nel momento in cui appare sempre più
evidente che saranno la competitività e la concorrenza fra i sistemi scolastici
a decidere le future gerarchie fra i paesi europei.
Il tempo segmentato
Ugo Pirro Il quesito che pongo é il seguente: è ancora possibile rappresentare quello
che siamo, il mondo com'è, ricorrendo a strutture narrative per così dire,
lineari, cioè che procedono per analogie e associazioni, in previsione di un
arco narrativo dall'andamento cronologico?
I flash all'indietro e in avanti non rompono l'unità temporale, al contrario, la
confermano, affollano l'antefatto?
I modelli più seguiti sono ingannevoli.
La suspense, ad esempio é un inganno giacché spinge lo spettatore a
condividere sentimenti ed emozioni che, in realtà, rifiuta. Possiamo essere
indotti a sperare che un assassino riesca a farla franca e così via. Lo
spettatore riacquista la proprietà dei suoi convincimenti soltanto quando
esce dal buio della sala.
Eccovi una piccola tabella di espressioni con o link ai "Live Topics" relativi
(per browser con e senza Java).
Ricerca base sul Live Topics con Java Live Topics senza
termine: Java
"scuola elementare" LT LT
"scuola media" LT LT
"liceo" LT LT
"istituto tecnico" LT LT
"università" LT LT
Buona navigazione!
Il nome della cosa
Giovanna Grignaffini Chissà se, dopo aver attraversato per almeno una stagione i rituali del
Parlamento, ai deputati capita di interrogarsi sul senso e sul valore del gesto
che più abitualmente compiono e che consiste nell’apporre da qualche parte
la propria autentica e pregiatissima firma. Infatti, è principalmente in quel
riconoscimento di paternità simbolica connesso ad ogni nominazione che sta
racchiusa ampia parte del loro potere, così come del loro dispendio
energetico. A cominciare da quei più nobili e convinti attestati di paternità
che si producono quando si firmano proposte di legge, emendamenti,
interpellanze, interrogazioni, mozioni, appelli, petizioni. Per continuare con
quell’impegno più anonimo, diffuso e quasi svagato quando si firma per, si
firma contro, si chiede grazia, sia auspica dura condanna, si prende
posizione, si sollecita, si intercede, si promuove, si prende atto. Per non
parlare del panico che può circolare quando rischia di farsi incerta
l’attribuzione di paternità: prima firma, seconda firma, firme a seguire in
ordine alfabetico, logica di gruppo, logica trasversale, l’intero Parlamento
sottoscrive. Un lavoro duro, oscuro e continuo, fonte d’ansia e irto di
trabocchetti, capace tuttavia di fissare indelebilmente su carta e a futura
memoria, quella dissipazione di gesti e parole che si perpetua ogni giorno
dentro l’aula. Un segno di potenza, nel luogo della fragilità; un segno di
continuità, nel luogo dell’eterno presente.
E’ facile allora immaginare cosa succede quando quel segno, la firma, si
trasforma nell’unica certificazione disponibile di esistenza, quando
l’umanissimo sogno di onnipotenza e continuità si trasforma in vera e
propria ossessione. Si apre la stagione degli inseguimenti e i deputati
rinunciano alle loro prerogative e al loro vero potere (nel senso di "poter
fare") per farsi esclusivamente cacciatori. Con i lunghi appostamenti nei
polverosi archivi del Parlamento alla ricerca di vecchie proposte rinnovabili
con una firma; con le incursioni presso le sedi di categorie e associazioni per
impossessarsi di nuovi interessi da rappresentare e sottoscrivere all’istante;
con le notti trascorse in commissione a spulciare e siglare centinaia di
emendamenti di bandiera; con antiche ferite da riaprire, basta una firma; con
l’occhio eternamente puntato sulla cronaca per avvistare almeno un fatto su
cui produrre debito nome e interrogazione, "a risposta scritta", se proprio la
materia non consente un adeguato dibattito parlamentare.
Ora, non c’è alcun dubbio che l’iniziativa legislativa, la possibilità di
emendare le proposte del governo, così come l’azione di controllo sugli atti
di quest’ultimo, costituiscono le attività fondamentali di un Parlamento
degno di questo nome. Ma dovrebbe essere altrettanto indubbio che tale
nome sarà veramente degno, quanto più la sua azione, svincolandosi dal
furore nominalista che la caratterizza oggi, saprà abbracciare a pine mani
un’etica della responsabilità: il che significa innanzitutto assumere fino in
fondo la fatica che trascinano con sé termini come scelta, priorità, processo,
procedura, risultato. Il che significa secondariamente rinunciare al piacere
purovisibilista che ogni rappresentanza parcellizzata, moltiplicata,
interscambiabile e mai confutabile può dare. Il che significa, da ultimo,
alleggerire il peso che continua ad avere, in molti luoghi, "il nome della
cosa".
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)
Lucchetto: una strofa eredita dalla precedente una manciata di lettere e altre
ne aggiunge, da lasciare poi alla conseguente. Il cerchio della vita? Magari!
Qui si finisce dopo nove anelli, con un impasto di acqua e sabbia che
simboleggia la caducità della condizione umana. Data la casuale
coincidenza di rime, sono state unificate le quartine 7-8-9 in una dozzina di
versi pulp (ma non splatter).
2. PARAMEDICI E NEFROLOGIA
3. DIMMI I RETROSCENA TV
(x da 1; y da 9)
SOLUZIONI
1) Multimediali
2) ultime dialiSI
3) SItuazione RAI
4) tu azionerai LEVE
5) L'EVErest
6) restAR MALE
7) ARMA LEtale
8) tale E QUALE
9) EQUA LEaltà
10) Malta
Biotechfobia
Roberta Ribali L’immagine di una mite pecorella , rimbalzata dai quotidiani alle copertine
dei più prestigiosi settimanali e alle reti tv di tutto il Pianeta ha evocato in
tutti noi inquietudini e reazioni con un unico denominatore: la paura. Paura
che, al pari di ogni percorso fobico, appare razionalmente sproporzionata
alla reale pericolosità dell’oggetto in sé: è la nostra immaginazione la reale
protagonista, capace di produrre una catena associativa che parte dalla
parola "biotecnologia" e arriva rapidamente a quadri apocalittici, visioni
perverse di legioni di Hitler, schiavi, produttori di organi da trapiantare
clonati e così via.
Si ha il terrore di ciò che potrebbe essere, non di ciò che è: e le ipotesi si
scatenano in presa diretta con il nostro inconscio, capace di immaginare gli
scenari più ripugnanti, annidati nel profondo di tutti noi. Queste dinamiche
oscure affiorano e si oppongono alle visioni razionali e serene di un utilizzo
dignitoso e corretto delle biotecnologie. I media e la science fiction - film e
romanzi miliardari - danno voce alle paure profonde, in un meccanismo di
esorcizzazione collettiva, che porta alla luce scenari sostanzialmente
irragionevoli ma anche infinitamente affascinanti.
Il confronto con la realtà è faticoso, implica una critica acuta, una libertà di
pensiero cui i più non sono abituati.
E la realtà ci propone il confronto con il Cambiamento. Ci troviamo di
fronte alla nostra conflittualità primaria; una parte della nastro natura umana
ci porta in avanti, a trasgredire superando il limite, in un percorso di
evoluzione e ricerca. L’altra parte sostiene la resistenza al cambiamento, la
certezza delle regole, l’affidarsi al dogma, rassicurante e protettivo, che non
può e non deve essere messo in discussione, pena l’angoscia e il terrore
dell’ignoto.
Il diktat autoritario e repressivo interviene dunque a questo punto; il No
viene gridato in nome del no perché no, poiché la ragione non lo sosterrebbe.
L’etica viene monopolizzata dai moralisti.
Le biotecnologie vengono messe al bando: dalla coscienza di molti, che
rifiutano di esaminarne gli usi, caso per caso, con pacatezza. Gli uomini di
potere, i politici, cedono alla demagogia del divieto: per ora proibiamo, poi
si vedrà. Non mi risulta che nessun Ministro della Sanità abbia aperto
democratiche discussioni o proposto referendum. In Italia, l’Ordine dei
Medici senza neanche degnarsi di consultare i suoi iscritti, si è pronunciato
"contrario", screditando con anatemi gli "uteri in affitto", ignorando
qualunque proposta di dibattito. Niente di nuovo sul Pianeta, dopo tutto:
dovremmo essere abituati dalla nostra Storia a sorridere e ad aspettare. Ma
in questo caso aspettare non si può: la velocità delle nuove scoperte cresce
in modo esponenziale. L’opinione pubblica dimentica anche a grande
velocità: molto rumore per la maternità di alcune signore sessantenni, fatto
clamorosamente irrilevante per l’ecosistema umano e metabolizzato senza
drammi.
Ad ogni nuova notizia in materia si produce un quantitativo maggiore o
minore di ansia, proporzionale alla minaccia di Cambiamento che si
percepisce: la tentazione di un Acting-out è grande. Definiamo come Acting-
out quell’azione immediata e poco elaborata che permette a ciascuno di noi
di risolvere le proprie situazioni ansiose in modo clamoroso, riducendo così
la tensione in modo irrazionale e sostanzialmente inutile: ad esempio
eliminando bruscamente un’amicizia o un amore che ci creano conflittualità,
troncando sui due piedi un rapporto di lavoro frustrante, agendo in modo
definitivo, rapido, tranchant. L’acting-out alla lunga non serve a niente: se
non elaboriamo profondamente le nostre conflittualità, le riprodurremo tali e
quali e ce le ritroveremo di fronte nelle prossime relazioni realizzando una
classica coazione a ripetere.
Una fobia non si risolve con i divieti: non si prende più l’ascensore, non si
va in aereo o in metropolitana. La nevrosi non fa altro che limitare la nostra
esistenza.
Il recupero dell’io, nella sua pienezza, avviene attraverso l’elaborazione del
conflitto.
Le biotecnologie caratterizzeranno lo sviluppo nei prossimi decenni e sarà
un processo inarrestabile. Sarà inutile frapporre dighe: ci sarà sempre
qualche piccolo laboratorio, da qualche parte del pianeta, che potrà sfuggire
a qualunque regolamentazione. Non a caso possiamo osservare che di
biotecnologie si interessano moltissimo i media economici: tutte le grandi
aziende farmaceutiche finanziano piccole consociate in cui si fa ricerca
avanzata nel settore. Piccole ditte usate con sapienza dai colossi
dell’industria, facilmente manovrabili, quindi sostanzialmente
incontrollabili.
Non resta quindi altro che la strada del confronto aperto e democratico per
ritrovare, nel rispetto della sensibilità di tutti, delle soluzioni ragionevoli che
regolamentino e promuovano un utilizzo "buono" delle biotecnologie.
Evitando, possibilmente, le trappole di un certo tipo di bioetica, facilmente
manipolabile da forme di potere che tendono a perpetuare le disuguaglianze.
Il dialogo, l’opinione di tutti può far elaborare rapidamente il conflitto e
superare l’angoscia della nevrosi.
Una storia troppo semplice
Rossana Di Fazio Larry Flynt di Milos Forman ha vinto l’Orso d’oro a Berlino poche
settimane prima che Hollywood si preparasse ad ignorarlo per incoronare
discorsi sull’Amore Rosa.
Cerco sempre di non aspettarmi niente, quando entro in sala. Però, mentre
vedevo Larry Flynt, non potevo fare a meno di avvertire un senso di
mancanza.
Questa piega di genere il film la prende solo nel secondo tempo. La prima
parte è all’insegna di altre questioni: i primi locali di Flynt, le spogliarelliste,
la ricerca di nuovi sbocchi a questo mercato, l’incontro con la bella Altea.La
vicenda qui viene inquadrata nel clima della rivoluzione sessuale dei primi
anni Settanta e, anche attraverso la figura della Festa Libertina, Larry e
Altea incarnano il cambiamento di costumi che valorizza la rottura dei tabù
sessuali.
C’è una sequenza molto dura e densa, assurda in un certo senso: è quella in
cui ad una convention autoprodotta per promuoversi come difensore della
libertà d’opinione, Flynt alterna diapositive tratte dal meglio della sua rivista
alla più triste iconografia di morte che si conosca: foto di guerra e di lager;
questo curioso contrappunto gli serve per interrogarsi e provocare il proprio
pubblico: cosa è veramente osceno? E’ l’unico punto (molto improbabile e
rozzo nella sua scarsa articolazione), ma cruciale, in cui ci si interroga sullo
statuto delle immagini e le cose, e soprattutto sulla loro funzione e la loro
strumentalizzazione.
Se si esclude questa sequenza, le cui premesse peraltro potrebbero
facilmente essere smentite, l’articolazione del discorso è molto elementare,
e davvero non capisco come abbia potuto il film sollevare critiche e censure,
visto che ad un certo punto abbandona completamente il piano cruciale,
quello che avrebbe potuto "muovere" davvero questioni che rimangono
sempre intrappolate nell’aut aut del duello frontale (e scontato) fra censura e
libertà.
Vedi Anche:
cinema.it
Appendi lo scettro al chiodo
Roberto Caselli Certo ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, nei primi anni settanta,
partecipare ad un concerto rock voleva dire indossare una divisa da
combattimento e rischiare l’incolumità tra lanci di sassi e bottiglie da una
parte e lacrimogeni dall’altra. Il tempo dell’autoriduzione selvaggia è finito
probabilmente per sempre tra la felicità degli organizzatori e la
rassegnazione degli spettatori; i figli degli anni novanta possono contare su
mance mensili più sostanziose e togliersi più di uno sfizio senza passare per
la porta di servizio. Di sicuro c’è ancora chi non può permettersi di spendere
cinquantamila lire per vedere i propri beniamini, ma il tempo del "tutto e
subito" fa parte della cultura di un’altra generazione e il giovane randagio di
oggi preferisce organizzarsi nel suo branco, crearsi un proprio giro
alternativo fatto di band di provincia che suppliscono alle star del momento.
Non è un caso che molti organizzatori abbiano intuito le potenzialità di
guadagno che comunque riservano queste sacche di periferia e cavalchino
oggi il fenomeno dell’heavy metal. Il costo di un concerto rimane comunque
un problema aperto soprattutto quando le strutture e spesso gli stessi artisti
non garantiscono la professionalità che, con quel che si paga, si ha il diritto
di esigere. Nelle grandi città non esistono spazi a misura per la musica rock,
le acustiche raramente sono all’altezza della situazione e la sicurezza delle
strutture spesso non è adeguata al numero di persone che possono contenere.
Recentemente è passato qui da noi in tour Chuck Berry, il re del rock’n’ roll,
un nome in grado di attirare un vasto pubblico di ogni età. L’attesa
ovviamente era grande, ma poiché le prevendite non garantivano il tutto
esaurito si è pensato bene di cambiare, nella stessa giornata del concerto
milanese, il luogo dell’esibizione. Il risultato è stato ovviamente disastroso
con l’aggravante che ad accompagnare Chuck Berry non c’erano certamente
fior di musicisti, ma dei dilettanti reclutati sul posto a mala pena in grado di
sostenerlo. Il sound check non è stato fatto e i fischi degli strumenti durante
il concerto hanno costretto gli stessi musicisti a spostare a caso gli
amplificatori e per completare l’opera il re del rock’n’roll si è concesso per
la miseria di cinquanta minuti, pause comprese.
I fischi impietosi del pubblico non hanno smosso più di tanto gli
organizzatori, nessuno si è neppure degnato di chiedere scusa. I re saranno
anche bizzarri, forse a una certa età avranno anche vita dura, ma per alcuni
sarebbe certo meglio posare lo scettro con più dignità. La storia è quella di
sempre, chi ha dato ha dato, chi non ha avuto, si arrangi.
Appuntamenti
PRE-VISIONI
I registi di domani alla prova
spettacoli degli allievi del IV anno del corso di regia della Scuola d’Arte
Drammatica Paolo Grassi in collaborazione con il Teatro Franco Parenti ed il
Teatro Verdi
via Pastrengo 16
tel. 02/5696786
LE SERVE Teatro Franco Parenti
da Jean Genet 11-20 aprile 1997
progetto e regia ore 21, domenica ore 16
Emanuele Bottari ingresso £ 10000
Dopo tanti pensieri e rubriche, un saltino in Sala giochi non sarà che salutare: se ne apre uno nuovo, si rinfresca
quello vecchio, frequentatissimo, a furor di popolo.
Come vedete, ogni spazio di questo sommario merita la vostra attenzione: crediamo di meritarci la vostra
opinione, che nutre e dà senso alla rivista. Un’ultima cosa: guardatevi intorno, perché c’è un appuntamento.
0. Premessa
0.1. Approccio globale 0.2. Idee guida 0.3. Obiettivi
1. Scuola di base
2. Scuola secondaria
2.1. Orientamento e conclusione dell’obbligo scolastico 2.2. Scuola superiore
3. Istruzione post-secondaria
4. Il sistema della formazione professionale
5. Insegnanti e formatori
6. Itinerario
7. I bambini che nasceranno....
8. Tavole:
8.1. Il sistema scolastico italiano in vigore
5. C’è poi da chiarire meglio il rapporto fra studenti e mondo del lavoro
(agenzie formative e centri di formazione professionale). Il documento di
riforma prevederebbe in merito la possibilità per lo studente di svolgere
un’attività lavorativa, nell’ultimo anno della scuola dell’orientamento, sotto
il controllo della scuola e più specificamente del suo "tutor" (una nuova
figura poco definita che lo dovrebbe seguire nel corso del suo ciclo
scolastico). Questa possibilità, oltre ad essere guardata con le dovute
precauzioni relative all’ingresso dei privati nella scuola, non ci pare
corrispondere all’idea della democratica scuola dell’obbligo perché
introduce il lavoro specializzato là dove si dovrebbe garantire un’istruzione
comune fondamentale per la formazione del cittadino.
Ecco una mappa per cogliere le differenze tra i paesi del G7 in questo
ambito di problemi.
● USA
● Canada
● Giappone
● Germania
● Francia
● Gran Bretagna
● Italia
Penso tuttavia che il Ministero faccia molto bene a limitare il suo intervento
alla delineazione di un semplice quadro di regole e standard minimi per la
spesa di questi 1000 miliardi e lasciare le scuole (le singole scuole) libere di
orientarsi autonomamente nella spesa.
Una scuola dedicherà la sua attenzione alla computer grafica mentre un’altra
si concentrerà sul multimedia per la didattica. Alcune sceglieranno di
investire in connessioni di rete più potenti, altre di dotarsi di dispositivi
hardware migliori e di periferiche più avanzate. Alcune utilizzeranno il
computer solo per il word processing, altre si spingeranno ad integrare
applicazioni più complesse nella didattica della matematica e delle scienze.
Chissà. Vedremo.
Vi fate un’idea più precisa dello stato attuale dell’arte in Italia (e all’estero )
sfogliando questo indice preparato dagli autori del progetto bolognese
Kidslink .
"C’era un avvoltoio che menava colpi di becco contro i miei piedi. Aveva
già lacerato stivali e calze e ora già beccava i piedi. Continuava a menar
colpi, poi volò più volte irrequieto intorno a me e riprese il lavoro. Passò un
tale che stette a guardare e dopo un poco domandò perché tolleravo
quell’avvoltoio. "Sono inerme" risposi. "E’ venuto e ha cominciato a
beccare. Naturalmente volevo cacciarlo via, tentai persino di strozzarlo, ma
un animale così ha molta forza e poiché stava già per saltarmi in viso ho
preferito sacrificare i piedi. Ora sono quasi straziati".
"Come si fa a lasciarsi torturare così?" disse quello. "Uno sparo e
l’avvoltoio è spacciato". "Davvero?" esclamai. "E ci vuole pensare lei?"
"Volentieri" rispose. "Devo soltanto andare a casa a prendere lo schioppo.
Può aspettare ancora mezz’ora?".
"Non lo so" dissi e stetti come irrigidito dal dolore. Poi soggiunsi: "Per
favore, tenti in ogni caso".
"Sta bene" disse lui, "cercherò di far presto". Durante questo colloquio
l’avvoltoio aveva ascoltato tranquillo guardando ora me, ora lui. Ora vidi
che aveva capito tutto, si sollevò, piegò la testa all’indietro per prendere
slancio e come un lanciere affondò il becco attraverso la mia bocca, dentro
di me. Cadendo all’indietro sentii, liberato, che nel mio sangue straripante,
di cui erano piene tutte le cavità, l’avvoltoio affogava irrimediabilmente".
Nel rapporto fra Ulivo e Rai ci si attendeva, prima ancora delle nuove
nomine, un progetto sulla nozione di Servizio pubblico. Progetti non se ne
sono visti, l’ambiguità sul ruolo della Rai si è fatta cocente; in compenso si
è pensato di organizzare la situazione con la solita, avvoltoica lottizzazione.
In molti chiedevano, ingenuamente, idealità. Non utopia, che spesso è
risibile e dannosa, ma un poco di idealità sì. Pareva, quella dell’aspirazione,
la via più nobile per sottrarsi all’incubo dell’audience. In questi casi però si
rischia di fare la figura di Francesca Borri, l’adolescente delusa che al
recente congresso del PDS ha chiesto a Massimo D’Alema di poter ancora
sognare, desiderare, volare. Nel frattempo, D’Alema e Berlusconi si sono
messi d’accordo sul futuro assetto della TV.
L’ETI. Analogamente a quanto sta accadendo per gli enti lirici, Lang e
Veltroni hanno preannunciato la creazione di una fondazione che dovrebbe
aprire le porte del Piccolo ai privati. Il Piccolo è stato il primo teatro
pubblico italiano, il modello al quale si sono ispirati tutti gli stabili e anche
molti teatri di più recente formazione. Aprirlo ai privati, significa decretare
la chiusura di un ciclo iniziato nel 1947: sarebbe un segnale di enorme peso
politico.
Ma se proprio bisogna andare verso la privatizzazione del patrimonio
pubblico, perché non cominciare dall’Ente Teatrale Italiano, uno dei grandi
carrozzoni del sottogoverno? Generosamente finanziato dallo Stato, l’ETI
gestisce da decenni alcune delle più prestigiose sale italiane (Quirino,
Pergola, Duse, eccetera) a tutto vantaggio degli impresari privati, che in
questo mercato distorto ottengono le piazze migliori, sovvenzioni anche
indirette e dunque un inaccettabile strapotere. Malgrado i recenti tentativi di
moralizzazione, malgrado l’attenzione al nuovo (sostanzialmente di facciata
e ghettizzante), in questi decenni l’ETI ha costantemente sostenuto gli
interessi dei cosiddetti imprenditori del teatro, accollando le spese allo Stato
(nella miglior tradizione di certo "privato all’italiana").
Chi copia chi? L’elenco, ancorché provvisorio, dei supposti plagi è già
lungo. E minaccia di infoltirsi sempre più. Primi, naturalmente, i Jalisse e la
loro "Fiumi di parole", subito accusata - via Internet - di essere un furto da
"Listen to Your Heart" degli svedesi Roxette. Poi è toccato a Toto Cotugno:
la trasmissione "Mai dire gol" sostiene che la sua "Faccia pulita" altro non
sarebbe che la fotocopia di "Canzoni stonate" interpretata da Gianni
Morandi. La reazione di Toto non si è fatta attendere: "Maiali, deficienti,
bastardi, vigliacchi".
Anche la canzone di Leali ("Non ami che te") non pare del tutto esente da
sospetti: in particolare si dice che sarebbe troppo simile a "Sterile" di Renato
Zero. Senza contare l’incidente (subito aggiustato) occorso a "E dimmi che
non vuoi morire" cantata da Patty Pravo: si è fatto vivo un secondo autore
della musica, che ha ottenuto di vedere il suo nome - Ferri - citato accanto a
quello di Curreri.
E per concludere, Pippo Baudo ha citato per plagio l’intero Festival, che
riprenderebbe pari pari lo schema da lui usato per le precedenti edizioni.
Raccomandati - Anche qui, la tempesta si è abbattuta sui poveri Jalisse.
Perché la loro canzone è scritta e prodotta da Carmen di Domenico. Che è la
compagna di Sergio Bardotti. Che è l’autore dei testi della trasmissione
televisiva del Festival (oltre che delle parole del nuovo "Canto" del Pds). E
dunque ...
Ora, ammesso e non concesso che raccomandazione ci sia stata, la lista dei
sospettati di raccomandazioni non si ferma mica ai soli Jalisse. Proprio no. E
allora andiamo un po’ a curiosare. Apre la sfilata Siria, figlia di Elio
Cipressi, discografico assai influente. C’è poi Marina Rei, figlia di un
professore d’orchestra della Rai. E Niccolò Fabi ha un padre discografico,
mentre da parte di madre è quasi nipote di Arbore. Maurizio Lauzi è
naturalmente figlio di Bruno. Anche Domino è figlia di un direttore
d’orchestra abbastanza noto. Ci sono poi i Ragazzi Italiani, promossi fra i
Big per via della trasmissione "Domenica in". Meno potenti gli sponsor
(Maria De Filippi, "Amici", Mediaset) di Alessandro Errico, che è rimasto
nel limbo delle nuove/vecchie proposte del ’96. Anche Randy Roberts ha un
padre, diciamo così, famoso: Rocky Roberts, quello di "Stasera mi butto".
Ma non gli è servito poi più di tanto. E chiudiamo la passerella con Greta,
ragazza del Sud, venuta a cantare con i New Trolls dalla natia Catanzaro:
dicono che dietro a lei non ci fosse né padre né fratello, ma tutta la Regione
Calabria, sponsor ufficiale di Sanremo ’96.
Saluti.
si aprirà una pagina che dovrete far scorrere fino in basso, dove troverete
diverse parole; Voi dovete cliccare su 'Circolo della Stampa', e da lì potrete
scegliere a quale giornale accedere: Zapata, Vocioff... Altri e Sottovoce.
Purtroppo devo salutarVi: io non ho ancora lasciato miei pareri su Golem,
perchè m'intimidisce sempre un pò, leggere tutte quelle opinioni così colte...
E' tutto, con simpatia e gratitudine per l'aver appoggiato questa iniziativa,
cordialmente mi congedo.
One Eye Jack Gentile Redazione di Golem, credo che quello che state facendo non sia
27/02/97 corretto, chiunque, Neonazista o non Neonazista abbia il diritto di
esprimersi, con questa E-Mail state violando la prima legge della rete la
libertà di espressione dando origine ad una forma pubblicitaria di censura
(chi unque iniziera a mandare E-mail per la rete chiedento agli altri
navigatori di votare NO per chissa che cosa).
Credo pertanto che sia più interessante e democratico aprire un altro gruppo
di discussione sul quale si informi la gente su che cos'é il Neonazismo, ed
utilizzare la rete per per comunicare l'apertura di un nuovo Gruppo di
discussione (alimentando cosi la rete di informazioni) invece di utilizzare la
rete per incitare la gente ad appoggiare l'aborto di un Gruppo.
Io avrei inviato una E-Mail nell'incitare la gente a partecipare al gruppo di
discussione Neonazzista per farsi una idea del contenuto, ed a parteciparvi
esprimendo la propria opinione (anche se sappiamo che certa gente della
nostra opinione sene sbatte), ma una cosa é importante non dobbiamo fare
censura come facevano loro, altrimenti non saremmo diversi.
Tengo a precisare che non sono ne un Nazzista ne un Razzista ne un
Religioso ma credo che questi abbiano il diritto di esprimersi come noi
(anche se noi non la pensiamo come loro).
Danco Singer Non sono assolutamente d'accordo con quanto affermato e proposto.
direttore di Golem Non mi convince la distinzione fra il"dire" e il "fare", fra la libertà di
27/02/97 espressione e la libertà di mettere in atto le idee espresse, che sarebbe invece
sottoposta alle limitazioni del vivere in società e quindi all'eventuale
repressione; sappiamo bene, e Umberto Eco ce lo ha insegnato, che dire è
fare, che le parole sono fatti di grande importanza e portata, che con il
piombo degli articoli si possono fondere le pallottole dei fucili e che è
possibile UTILIZZARE LE PAROLE PER COSTRUIRE LAGER E
CAMERE A GAS.
Chi può ritenere il creatore di parole e di opinioni Goebbels meno
responsabile degli sciagurati aguzzini che, fidicamnete e materialmente,
provvedevano allosterminio?
Il rifuto del nazismo, in tutte le sue forme e le sue espressioni, non è un
gesto di "correttezza" o un tardivo senso di colpa verso i sopravvissuti o le
vittime ai campi di sterminio; o peggio ancora unresiduo del passato
destinato ad attenuarsi prima e a scomparrire poi.
Io sono convinto che chi vuole dimenticare, vuole solo ricominciare. Ma il
problema non è solo questo.
Esiste un limite alla libertà degli individui? Esistono dei valori talmente
fondamentali e importanti da dover essere anteposti perfino alle libertà
individuali?
Io penso che il nazismo e l'antisemitismo vada PROIBITO, appartenga cioè
a quelle vergogne che l'umanità non può e non deve tollerare.
Gli stati democratici hanno tutti gli strumenti per impedire la propaganda,
non la conoscenza e l'informazione, di queste forme incivili, totalitarie e
violente di discriminazione e di razzismo.
La nostra scelta di boicottare l'iniziativa nazista su internet è tra queste.
Roberto Villani Come già scritto in altri gruppi di discussione, la libertà di parola è un bene
27/02/97 irrinunciabile e da difendere anche quando parlano gli stronzi.....
NON SI PUO' VOTARE CONTRO UN NEWSGROUP!! oltretutto non è
detto che il software automatico conti un messaggio come quello riportato
come voto favorevole.
Inoltre è semplicemente impossibile costringere qualcuno a leggere un
newsgroup!
Perciò se non si vuole un certo newsgroup basta ignorarlo.... basta il
buonsenso!
Teatri di vita Ma come? Una volta tanto che sarebbe possibile controllare passo dopo
27/02/97 passo i neonazisti, ci impediremmo questa possibilità? Partendo dal
presupposto che i neonazisti hanno molte altre occasioni più o meno
clandestine per scambiarsi informazioni e che impedire la libertà di parola in
un gruppo non significherebbe altro che spostarla e non rimuoverla
definitivamente (con quel che ne segue di vittimismo-eroismo, senza parlare
poi del fatto che tappare la bocca a un altro è esattamente una delle
caratteristiche dei nazisti), approfittiamo almeno dell'unica occasione "alla
luce del sole" per seguirli da vicini, controllarli ecc. Piuttosto, sarebbe da
informare subito polizia, Digos, investigatori, procuratori e quant'altri
perché anche loro non si lascino scappare questa occasione.
Carla Pellegatta Cari amici di Golem, aderisco senza problemi alla vostra iniziativa alla
27/02/97 quale spero ne seguiranno altre analoghe in futuro. Grazie e cordiali saluti.
Paolo Benanti Purtoppo la procedura da voi indicata e' inutile e serve solo a far circolare di
28/02/97 più il nome di questo NG e, forse, a prolungare la sua sopravvivenza che e'
dovuta al traffico che esso genera.
Tutto cio' non toglie che anche io sia contrario al NG in questione e che
consideri il tutto come una mortale offesa alla dignità delle persone e ritenga
che la libera circolazione di bugie (per non usare termini meno fini) storiche
e il libero accesso di folli invasati a mezzi di comunicazione così potenti sia
da ridiscutere e da deprecare.
Restando in ascolto per eventuali notizie e discussioni sull'argomento e
sperando di essere stato utile vi saluto cordialmente.
Alcune definizioni vanno bene sia per un gioco che per l'altro:
Clavicembalo/Clavacembalo: strumento musicale dell'uomo preistorico
P:S.: Per amore di qualità sono proibiti accrescitivi e diminutivi ("il portone
e' un grosso porto", "il postino e' un piccolo posto"), "mogli", "mariti" e
"figli" ("il battaglio e' il marito della battaglia", e cosi' via).
Doppio sogno
Giovanna Grignaffini Il terreno appariva ricco di insidie perché la legge speciale detta "par
condicio"- già capace di irrigidire toni e posture delle campagne elettorali-
se applicata agli ordinari tempi che corrono troppo alla lettera e, soprattutto,
fuori da ogni ragionevole orizzonte di senso e di realtà, avrebbe popolato di
vecchi mostri e nuovi replicanti le nostre già meccaniche giornate televisive.
Ma il presidente della Repubblica aveva parlato, il Garante dell’Editoria
fatto eco, il Presidente della Commissione di Vigilanza tuonato, il
Presidente e il CdA della RAI concordato e provveduto per quanto di loro
competenza.
Il Parlamento non poteva restare insensibile a tanto richiamo: ci voleva un
documento sul pluralismo nell’informazione. Possibilmente severo, senza
diventare invadente; in qualche modo vincolante, senza apparire
prescrittivo; aperto, dinamico, leggero, "di indirizzo" , come ormai si
conviene ad ogni documento liberal.
Certo un documento sul pluralismo emanato dalla Commissione
Parlamentare di Vigilanza sulla RAI doveva anche risolvere alcuni "nobili"
rebus istituzionali e politici. Per esempio, quello di conciliare direttive
parlamentari in materia di informazione con l’autonomia dei giornalisti,
delle testate e più in generale dell’azienda RAI; ma anche quello di
dichiarare il pluralismo virtù unitaria del sistema radiotelevisivo, senza
distinzioni tra operatori pubblici e privati. Per non parlare dell’esigenza di
sottrarre l’intera questione all’ineffabile regola del cronometro e della
performance ginnica del leader.
Lo stesso termine di pluralismo avrebbe dovuto inoltre ricercare una sua più
sensata definizione alla luce della transizione politica in cammino verso un
sistema bipolare, ma non bipartitico, disposta a sostituire il termine
"rappresentanza" con quello di "rappresentazione", capace di far emergere
soggettività e società politica fuori dai tradizionali recinti dei partiti.
Insomma, c’era molto da riflettere e da sciogliere, ma la tentazione segreta
che si respirava nelle notti fumose della Commissione di Vigilanza era di
abbandonarsi a un altro sogno. Che atteneva molto da vicino al desiderio di
trasformare l’intera Commissione in regista occulto della programmazione
RAI, regista severo e inflessibile che, con la sua partitura di ricette, codicilli
e misurini, governasse da monarca assoluto un’azienda strategica per la
democrazia, nel democratico nome della par condicio.
Anche questo sogno mostruoso, un vero e proprio incubo, muore all’alba,
lasciando sul tappeto antichi e nuovi rebus la cui soluzione resta affidata a
quell’altro sogno che continuiamo a chiamare politica.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)
Lucchetto? Sì. Le sette ipsilon che stanno per la fine del cognome del
ministro1., diventano la parte iniziale dei compiti sadici inflitti dal
professore di 2., la cui parte terminale, sequenza di sei x, inaugurerà il
vocativo delle mucche pazze di 3. E così via, e così via: fino a incontrare un
nuovo ministro. Rima e metrica aiutano, come sempre, gli aspiranti solutori.
1. LA PATATA BOLLENTE
4. ALLENAMENTO AZZURRO
In attacco i Serafini,
e yyyyyy y Yyyxxxxxx.
7. AVVISO AI TURISTI
I Benigni li teniamo,
x Xxxx xx yyyyyyyyyyy.
SOLUZIONI
1) BERlinguer
2) lingue rOMANZE
3) O MANZE paranoiche!
4) parano i cheRUBINI
5) RUBINI e diamanti
6) è di amanti LA META
7) LAME TAglienti
8) gli enti INUTILI
9) i Nuti li CANCELLIAMO
10) CANCELLI AMOrosi
11) Rosi BINDI.
Tempo e denaro
Roberto Caselli Quanto dura il successo di un disco? Se si fa riferimento alle classifiche che
compaiono più o meno in tutte le riviste specializzate non si può fare a meno
di notare che il metodo di valutazione che si utilizza è un parametro di
difficile uniformità. I campioni che vengono utilizzati sono spesso differenti
tra loro e molto dipende dalla specializzazione del negozio interpellato.
Grosso modo, con un po’ di ottimismo, si può ipotizzare un fluttuare di
qualche mese tra le prime venti posizioni. E poi a che destino vanno
incontro i vecchi successi? L’iter previsto in questi casi è la permanenza per
qualche anno sugli scaffali dei negozi, fino a che è ipotizzabile pensare che
qualcuno possa richiederli ancora. Infine il destino può essere quello di
finire fuori catalogo o di andare a ingrossare le file delle collane economiche
(vendute a un prezzo che va dalle 22.000 alle 25.000 lire) che ogni etichetta
discografica si è da tempo organizzata. Un disco di successo mantiene
comunque un potenziale di vendita piuttosto buono e può rendere bene per
molto tempo, ma questo vale soprattutto per i generi pop e rock che vantano
un mercato commerciale molto ampio; sicuramente funzionano meno bene
le nicchie marginali come per esempio il blues, il folk e entro certi termini
anche il jazz. E’ dunque lecito chiedersi perché non si possano diversificare
i prezzi di vendita dei vari dischi, in fondo anche il CD, come ogni altra
merce, rientra in una logica di domanda-offerta e quindi dovrebbe essere
soggetto a un normale abbassamento dei prezzi nel momento in cui la
richiesta si mantiene bassa. L’escamotage del medio prezzo della collana
economica entra in funzione solo quando le potenzialità si sono quasi del
tutto esaurite e il prodotto è inevitabilmente vecchio. La cultura, si potrà
obiettare, non ha tempo, ma allora perché non incentivarla con un marketing
più attento? Siamo sicuri che cercare di vendere più dischi di certi generi
musicali a minor prezzo renda meno di spellare il pollo a prima vista?
Premesse ?
Rossana Di Fazio Il film di Antonio Albanese Uomo d'acqua dolce, è accurato sotto molti
aspetti: fotografia, montaggio, recitazione. Il racconto è quasi inesistente,
ma la sceneggiatura diligente di Cerami e Albanese e qualche trovata di
buon gusto, ne sostengono con grazia lo sviluppo. E' un film al quale si
adatta l'aggettivo "ben confezionato": è confezionata la città, una Milano
completamente ripulita e anonima, la casa, convenzionale nella sua
eleganza. Nonostante questo cellophane, la cura tutta professionale fa onore
agli autori, per non aver delegato esclusivamente al comico Albanese i
destini del film. La musica di Piovani ricalca una certa, virale, nel cinema
italiano, tendenza dolciastra, ma questo è un argomento a cui tengo, e non
vorrei bruciarne l'articolazione in poche battute, anche perché vorrei parlare
d’altro.
Questa rivelazione è avvenuta, nel tempo, a vari livelli: da una parte, come
già detto, sono gli strumenti stessi del cinema a incuriosirsi, a rimanere
ingaggiati nel colloquio con il volto e il corpo degli attori. Per altro verso
però sono stati alcuni attori a imporre la propria "corporalità" allo schermo,
e fra questi, parte molto rilevante l’hanno avuta gli attori comici. Ora non
voglio richiamare Charlot, Totò, Groucho Marx, o Jacques Tati per metterli
sullo stesso piano di Antonio Albanese. Solo ho notato che è sempre più
raro nel cinema, non solo italiano, ritrovare il senso di un corpo totale, nel
quale l'essere si esprime completamente, persino semplicemente, non solo
nella gestualità facciale, ma anche negli stili della camminata, in segni del
corpo che trasformano un personaggio in personaggio totale, in una
maschera cinematografica. Antonio (nel film e nella vita) usa la camminata
come effetto di uno stato d'animo (c'è la camminata risoluta: passo lungo e
deciso; quella da tapino: con la testa incassata fra le spalle), e rispetta alcuni
piccoli riti per sedersi, per cominciare a parlare, per cantare e ballare...
Se anche all'origine di queste trovate gestuali c'è il teatro, il cabaret, o la
rivista o, in altri casi, il funambolismo vero e proprio del circense (mi viene
in mente Leo Carax) è vero che il cinema cambia completamente il senso di
quelle invenzioni e di quelle espressioni, sia per il fatto di inserire il
personaggio in un racconto, conferendogli una dimensione esistenziale
(quindi etica etc...), sia per quella visibilità totale, strutturale che il cinema
presta alle sue figure.
Importando le figure del saltimbanco o della macchietta, il cinema integra,
staglia e rivela queste creature spurie (o purissime), pesanti come persone e
leggere come pupazzi, sempre diverse da tutti gli altri personaggi; esseri che
sanno farsi tradire da un corpo che parla al loro posto, che coincide con la
loro anima al punto da muoversi con lei. Uomo d'acqua dolce mi sembra
essere un ritratto di questa specie di viventi: se Albanese volesse
intraprendere questa strada parallela, squisitamente cinematografica,
potrebbe trovare molto bene qualcosa che, mi sembra, da molto tempo
nessuno sa o vuole cercare.
Vedi Anche:
cinema.it
Fumetti
a cura di Comix
Altan
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L’Università degli Studi di From database networking to the digital library: a European perspective
Padova promuove:
Giovedì 6 Marzo ore 16.00
Aula Magna CIS Vallisneri
Viale G. Colombo, 3
(ex Viale Trieste)
Padova
Editori Elettronici:
Piero Migli, De Agostini Multimedia
Danco Singer, Opera Multimedia
Albino Bertoletti, Giunti Multimedia
Distributori:
Luca Buriano, E.S. Burioni Ricerche Bibliografiche
Fabrizio Ligi, D.E.A. Librerie Internazionali
Paolo Sirito, Cenfor International
Teatri '90. La scena ardita dei nuovi gruppi,
6-16 marzo 1997 a cura di Antonio Calbi Milano,
Teatro Franco Parenti
via Pier Lombardo 14
tel. 02.5457174
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer
Direttore:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Mario Calabresi, Gianni Granata, Giulio Blasi, Umberto Eco, Gianni Riotta, Domenico Starnone, Franco Cardini,
Ranieri Polese, Giovanna Grignaffini, Aldo Grasso, Enzo Restagno, Carlo Bertelli, Furio Colombo, il Collettivo del
Liceo Tasso di Roma, Rossana Di Fazio, Oliviero Ponte Di Pino, Stefano Bartezzaghi, Roberto Caselli, Luca
Sabatini, Comix, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
«Certo. E' per questo che ne soffro. Hanno una logica esclusivamente
domestica. Mentre al Paese servirebbe un colpo d'ala collettivo per misurarsi
coi problemi del mondo, con la globalizzazione dell'economia, con le sfide
che arrivano dai Paesi avanzati e da quelli emergenti. Alcontrario, l'Italia dà
l'impressione di avere perso sia i valori e gli ideali suoi propri, senza i quali
una società non può vivere, sia il senso del mondo in cui sta. Nonostante sia
una grande entità economica integrata con le altre, il sesto Paese del pianeta
per import e per export. Non c'è il senso della necessità di questo colpo
d'ala».
«E' vero e va chiarito. Non solo in Italia. Noi cercheremo di spiegarlo. E'
importante, perché mentre l'economia diventa globale, la politica resta
locale».
«No, l'italiano non è provinciale. E' che gli manca chiarezza. Ma soprattutto
gli manca il messaggio su quello che succede nel mondo».
In altri termini?
«In altri termini gli studenti, i sindacati, i politici ritengono che si possano
fare delle scelte al di fuori del contesto globale. Ed è un errore, perché la
globalizzazione significa interdipendenza e l'interdipendenza accresce le
opportunità ma nello stesso tempo diminuisce le capacità di scelta».
Esempio?
«Oggi si dice che per una grande azienda o per un grande Paese come
l'Italia, il mercato non è certo più quello nazionale e neppure solo quello
europeo: il mercato è il mondo, sono 6 miliardi di possibili consumatori.
Questa è un'enorme opportunità. Ma nello stesso tempo anche la
concorrenza non viene più solo dall'ambito nazionale o continentale, ma da
qualsiasi altro possibile concorrente nel mondo. E questo limita le scelte».
Però?
Renato Ruggiero ha dunque ragione da vendere quando dice che noi italiani
continuiamo ad essere affetti da un radicato provincialismo.
Detto ciò però su alcune cose Ruggiero ha ragione, per esempio quando
parla del mio lavoro, perché credo che il giornalismo italiano sia di un
provincialismo che fa pena.
I giornali italiani, così come i politici italiani sono miopi. In tutto il dibattito
sulle riforme istituzionali ho notato una non conoscenza del dibattito
politico e della situazione istituzionale che c’è negli altri paesi, e questa
penso sia un’ignoranza molto grande e recente, perché l’Italia da questo
punto di vista era un paese molto più preparato, la generazione politica
precedente era molto più ferrata da questo punto di vista, era certamente più
immobile e aveva altri difetti, ma adesso il dibattito politico su queste cose è
impressionante.
Però io credo che il popolo italiano abbia delle cose geniali, non credo che
sia sulla via del declino. La stampa italiana in alcune momenti è stata una
grandissima stampa, anche se adesso mi pare faccia veramente pena e sia
molto provinciale.
Per esempio, credo che la struttura dei giornali italiani fatta con molti
corrispondenti e pochi inviati sia errata e da rivedere. Dovremmo viaggiare
e raccontare una parte molto più grande del mondo. In futuro i
corrispondenti dovrebbero sparire e noi all’Unità ci prepariamo ad abolirli,
perché sono uno strumento del passato. Bisognerà usare molto di più gli
inviati e le nuove tecnologie.
Per concludere penso che non ci siano dubbi che i giornali e il mondo
politico siano provinciali, ma che questa sia una condanna o un destino
irreversibile per il Paese non ci credo, perché l’Italia penso possa essere
capace di riprendersi e di correggersi, più di quanto possano fare altri paesi.
Europa: un futuro che non c'è
Lucio Caracciolo L’Europa è oggi un progetto senza futuro. Si è incagliata sulla questione
dell’euro, quella che dovrebbe essere la moneta unica europea e che invece
non lo sarà. Infatti, i casi sono due: o questo progetto si fa, e allora
riguarderà essenzialmente Germania, Francia e alcuni paesi minori, con
l’Italia esclusa ed emarginata; oppure non si fa, e allora la costruzione
europea dovrà indirizzarsi lungo percorsi nuovi e sperabilmente meno
divisivi e insensati.
Fatto è che nei media si continua a parlare di moneta unica europea pur
trattandosi eventualmente di una moneta di una parte dell’Unione. A
conferma di una deriva semantica del termine "Europa", del quale si è perso
ogni significato perché si è voluto caricarlo di ambizioni eccessive e spesso
contraddittorie. Così si può parlare impunemente di "Europa delle regioni",
che è una perifrasi per delegittimare a un tempo l’Europa e gli Stati
nazionali e far fiorire, invece, una pletora di staterelli più o meno "etnici" e
certamente illiberali. Oppure di "Europa delle nazioni", che vuol dire
lasciare le cose come stanno o anzi dar nuovo peso agli Stati nazionali
rispetto all’Unione europea.
Altra curiosità semantico-politica: oggi passano correntemente per
"europeisti" i sostenitori della moneta europea, cioè di un progetto che,
concretamente, non può che dividere l’Unione europea. Mentre passano per
"euroscettici" se non per "antieuropeisti" coloro che questa stramberia
criticano. Colmo dei paradossi, la tesi per cui occorre fare l’Europa (leggi:
l’euro) perché ce lo impone la globalizzazione. E’ vero che anche la sfera
semantica di quest’ultima espressione si è alquanto allargata, ma un minimo
di consenso esiste sul fatto che si tratta di un fenomeno liberista, di apertura
delle frontiere alle merci, ai capitali, alle persone. Ora non si vede come si
possa contemporaneamente volere l’Europa e la globalizzazione, il primo
essendo, se la parola ha ancora un senso, un blocco regionale, dunque un
progetto protezionista e mercantilista. Ciò è particolarmente vero
nell’interpretazione francese dell’euro, inteso come un rivale del dollaro,
come un grimaldello per aprire alle merci europee i mercati americani e per
condurre una guerra commerciale contro gli Usa. Chissà, forse qualcuno
sosterrà che liberismo (globalizzazione) e protezionismo (Europa) sono nel
frattempo diventati sinonimi...
Perché questa confusione? Per la perdita di controllo dei media e dei governi
sul loro linguaggio? Anche. Ma si può tentare un’interpretazione meno
benevola. In effetti, questo brouillage semantico serve ad evitare una
discussione seria e concreta sull’Europa. E serve ai vari governi per
utilizzarla come foglia di fico per quelli che ritengono essere i rispettivi
interessi nazionali.
Ad esempio, per i francesi il progetto euro è essenzialmente destinato a
togliere ai tedeschi il marco, in modo da riequilibrare i rapporti di forza in
Europa, e per lanciare la sfida commerciale agli Usa. Per i tedeschi, quello
che conta non è l’euro, che infatti per i due terzi di loro è un’idea perversa e
punitiva, ma l’applicazione dei parametri di Maastricht, in modo da
"germanizzare" le economie europee e per gestire una politica dei tassi di
interesse che garantisca un flusso di capitali esteri verso la Germania, senza
del quale la ricostruzione dell’ex DDR, già spaventosamente difficile,
sarebbe impossibile.
E noi italiani? Uno dei grandi misteri della Prima Repubblica è la ragione
per cui Andreotti e De Michelis posero la loro firma sotto il Trattato di
Maastricht. Si trattava in tutta evidenza dell’atto di morte della finanza
allegra e quindi della stessa Prima Repubblica. Probabilmente entrambi
pensavano che quel Trattato sarebbe rimasto un pezzo di carta. Ma si
sbagliavano.
Ora noi italiani rischiamo di essere esclusi dall’Europa grazie all’euro
franco-tedesco. Nostro interesse vitale è quindi che tale progetto non vada in
porto. Tanto più che anche in Francia e soprattutto in Germania sempre più
voci contestano la sensatezza di questo progetto.
Si può dare Europa senza Italia? Credo e spero di no. Ecco perché sarebbe
urgente un dibattito pubblico e senza tabù sul nostro interesse nazionale
riguardo al progetto euro, e sulle possibili alternative. Sapendo che alla fine
per noi non ci sono che due possibilità: restare dentro l’Europa, rinviando
l’euro e demonetizzando il progetto europeo, oppure esserne esclusi in nome
dei "superiori interessi" di chi attraverso l’euro vuole mettere le basi di una
nuova Europa. Più piccola, più omogenea, meno europea. Soprattutto, senza
l’Italia.
Che succede in Europa ?
Antonio Martino Il momento storico suggerisce l’opportunità di alcune considerazioni in
tema di unificazione monetaria dell’Europa. Ho più volte ribadito che la
strategia di unificazione monetaria attualmente perseguita in ossequio al
dettato di Maastricht sembra condurci ad uno dei seguenti due sbocchi,
entrambi fortemente preoccupanti. O prevale una interpretazione permissiva
dei "criteri di ammissione", quella sostenuta fra gli altri dalla Francia, e si fa
finta di credere che abbiano le carte in regola anche paesi (come l’Italia) che
non le hanno e li si ammette fin dall’inizio, ma in questo caso si fonda la
moneta europea su basi finanziarie dubbie, fragili e precarie, col rischio di
gravi crisi future. Oppure si segue una interpretazione "rigorosa", come
vuole la Germania, e si ammettono solo i paesi che hanno veramente
risanato i propri bilanci pubblici affrontando le radici strutturali del dissesto,
ma in questo caso si spacca l’Europa, perché la si divide in due (o, più
correttamente, tre) gruppi di paesi, con un gruppetto di paesi più uguali degli
altri anche sul piano politico, destinato ad assumere una sorta di leadership
sugli altri, gli esclusi.
Allo stato dei fatti, secondo le stime più affidabili, entrerebbero a fare parte
del sistema fin dall’inizio otto paesi (Germania, Francia, Olanda, Belgio,
Lussemburgo, Austria, Finlandia ed Irlanda); resterebbero fuori Portogallo,
Italia, Grecia e Spagna (con un acrostico velenoso, questi paesi vengono
indicati come i PIGS - porci in inglese); infine, Svezia, Inghilterra e
Danimarca, al momento non sembrano interessate ad entrare, neanche se
avessero le carte in regola. Una frantumazione, quindi, dell’Unione
Europea, con la creazione di fatto di un direttorio dominato dall’asse franco-
tedesco, se non addirittura dalla Germania: un esito esattamente contrario
alle aspirazioni dei padri fondatori dell’Europa unita.
In secondo luogo, tuttavia, l’idea che un paese membro del sistema a moneta
comune sia disposto a sottoporre il proprio bilancio all’esame degli altri
paesi, senza contraccolpi nazionalistici, appare dubbia. Per comprenderlo,
basti pensare alla reazione del governo, del parlamento e dell’opinione
pubblica ad una eventuale "bocciatura". Né sembra credibile che un paese,
reo di aver ignorato il vincolo di bilancio, accetti di buon grado di pagare
una penale di dimensioni cospicue (come ricordavo due mesi orsono, per
l’Italia si tratterebbe di cifre fino a 10 mila miliardi). E che dire delle
conseguenze della penale? Il paese che ha un deficit eccessivo si troverebbe
a dover fare i conti pure col pagamento della multa, il che certamente non lo
aiuterebbe a risanare i suoi conti.
I motivi per stare assieme sono quindi oggi più cogenti che mai e sarebbe
preferibile che smettessimo di litigare per assurdità come le quote-latte e
anche per cose meno assurde come i patti di stabilità. Le recenti vicende del
commercio internazionale mostrano come l’unità e la fermezza europea (per
esempio contro le sanzioni minacciate dagli Stati Uniti a chi investe nei
Paesi a loro non graditi) sono in definitiva efficaci. Se si vuole nel mondo
un liberalismo dal volto umano, c’è bisogno di un’Europa unita. E questo è
vero, Maastricht o non Maastricht, moneta unica o non moneta unica, quote
latte o non quote latte.
Il piccolo mondo dei media italiani
Alberto Flores Per chi si occupa di questioni internazionali è fin troppo facile essere
d'accordo con quanto dichiarato da Renato Ruggiero. Passata l'ubriacatura
seguita al crollo del Muro e alla guerra del Golfo lo spazio dedicato dai
media (giornali e tv) alle notizie provenienti dal mondo è stato
drasticamente ridotto.
Se negli anni ‘92-‘94, con l'imperversare di Mani Pulite e della cosiddetta
"rivoluzione italiana", tutto ciò poteva essere giustificato, oggi non ci sono
più alibi.
Si tratta dunque di una scelta: dettata da un provincialismo "cronico" - che
accomuna da sempre la classe dirigente italiana - e dall'intreccio di interessi
e di affari che legano il mondo dell'editoria e dell'informazione al potere
politico. Intreccio talmente radicato che spesso i direttori finiscono per
essere scelti non sulla base delle loro capacità professionali ma per le loro
frequentazioni con il Palazzo e la loro "fedeltà" politica. Da qui nasce
l'incredibile e innaturale spazio dedicato da giornali e televisioni alla
politica e soprattutto ai pettegolezzi della politica, sempre più lontani dai
reali interessi della gente comune e quindi dei lettori.
Ma c'è un secondo punto, a mio avviso ancora più grave:
l'omogeneizzazione di tutti i media, la creazione di una sorta di "capo
redattore unico" che impone le stesse notizie, in un circolo vizioso per cui i
quotidiani rincorrono le tv, che a loro volta rincorrono i quotidiani. Con la
conseguenza che le prime pagine sono tutte uguali - negazione di uno dei
principi basilari del giornalismo - e che le notizie divengono tali solo
quando arrivano dalle agenzie o dalla televisione.
Questo "caporedattore unico" ha decretato negli ultimi tempi che la politica
estera e in generale ciò che avviene nel mondo è "noioso" e che non piace
alla cosiddetta "gente". Per cui dai giornali (e dai telegiornali) italiani stanno
progressivamente scomparendo le notizie, i reportages, le inchieste, cioè
tutti quegli articoli che possono aiutare meglio il lettore a comprendere ciò
che avviene fuori dall'Italia, e che nel mondo "globale" interessa
direttamente anche l'Italia e gli italiani.
In cambio si riempiono le pagine di banalità, fino ad arrivare all'estremo che
una non-notizia, sette righe pubblicate nella pagina dei "pettegolezzi" del
New York Post, diventano venti righe dell'Ansa e, dopo il visto del
"caporedattore unico", mezza pagina di quotidiano. Alla faccia della famosa
"gente": che sono poi gli italiani che leggono i giornali, che viaggiano in
tutto il mondo, che commerciano e fanno affari in tutti i continenti.
Under western eyes
Il "sistema operativo" del mondo
Beppe Servegnini Il 12 luglio dell'anno 1900, a bordo del piroscafo Prinz Heinrich diretto in
India e in Cina, Luigi Barzini lanciò questo grido di dolore: "La civiltà è una
cosa bellissima, ma orribilmente monotona. La sua luce potente, ovunque
arriva a proiettarsi, rende tutte le cose del medesimo colore scialbo, come fa
un raggio di luce elettrica. I paesi più lontani diventano eguali; a poco a
poco le differenze di costumi, di usi, perfino di linguaggio e di razza vanno
scomparendo. Tutto quanto vi è di più incantevole, la varietà, si appiana, e il
mondo finirà col non presentare più attrattive di una immensa palla da
biliardo. "
Come j'accuse contro la globalizzazione è perfetto: non c’è soltanto l'arringa
contro l'Occidente, ma anche l'aspetto sferico (la palla da biliardo). Da allora
il lamento di Barzini - con meno stile, ma con qualche giustificazione in più
- è risuonato di continuo. L'Occidente - diamo il termine per scontato, anche
se non dovremmo - in questo secolo ha riempito il pianeta di macchine,
modelli, miti, mode e motivi. Non tutti buoni. Ma non tutti cattivi.
L'argomento è talmente vasto che diremo subito quello di cui NON
parleremo. Non parleremo di commerci, che pur tra errori e prepotenze,
hanno portato benessere e corroso dall'interno le dittature (quanto
resisterebbe Fidel Castro senza l'embargo USA, alle prese con un’economia
aperta?). Non parleremo di modelli politici, per non essersi sommersi di e-
mail da Singapore, dove sostengono le virtù del paternalismo autoritario.
Non parleremo di modelli culturali, anche perché in Italia siamo ormai
importatori netti (c'è il rischio di diventare una Corea bianca, che duplica
video-cassette e scopiazza programmi TV).
Parleremo, invece, di un'esportazione minore. Potremmo chiamarla - giusto
per capirci - il "pacchetto delle convenzioni quotidiane". E' una
globalizzazione apparentemente secondaria; ma, come vedrete, sorregge
quell'altra, e la rende possibile.
Cosa sono le "convenzione quotidiane"? Facciamo qualche esempio. Gli
uomini d'affari, in tutto il mondo, parlano una lingua comune, prenotano gli
aerei nello stesso modo, prendono i taxi con l'identica fretta, dormono in
alberghi simili, telefonano e pagano con le stesse carte di credito.
Queste abitudini sono un prodotto che abbiamo esportato con successo:
abbiamo fornito al mondo gli strumenti per lavorare insieme. Questo non
vuol dire - come lamentava Barzini (estetizzando) e sostengono i
terzomondisti (esagerando) - che l'Occidente abbia distrutto le culture locali.
L'uomo d'affari libanese e il ministro cinese non devono vergognarsi (e
infatti non si vergognano), se parlano e telefonano come noi. Hanno
semplicemente accettato "il kit da viaggio" offerto dall'Occidente (diciamo
pure: dall'America), e lo usano quando serve.
Le differenze tra le diverse culture restano grandi, per fortuna (e sarebbe ora
che imparassimo ad apprezzarle). Ma per lavorare insieme, il mondo ha
bisogno di un "sistema operativo" che tutti siano in grado di comprendere e
utilizzare. Non ci sono solo quelli dei computer (Windows), di Internet
(TCP/IP), della navigazione aerea (IATA). Anche la lingua inglese è un
sistema operativo: era l'idioma dei britannici e degli americani; oggi, nella
sua forma-base, è un codice per trasmettere e ricevere informazioni. Lo
stesso si può dire delle catene alberghiere internazionali; di alcune carte di
credito; della televisione via satellite e di qualche giornale. Aggiungerei, a
costo di provocare qualcuno, una certa tolleranza di stampo anglosassone.
Un’ "etica aeroportuale" che può sembrar fasulla, ma è il minimo comun
denominatore tra persone che hanno idee, propositi, storie e religioni
diverse: non spingere, fai la coda, non urlare, chiedi per favore, ringrazia,
saluta.
Badate: questa non è l'apologia di un mondo di plastica. E', invece,
l'ammissione che la plastica è meglio del fango, del cartone, del sudore e del
sangue. Lo scrittore americano P.J. O'Rourke, dopo una dozzina di viaggi
nel Terzo Mondo, scrisse che "la civiltà è un enorme miglioramento rispetto
alla mancanza della suddetta". Intendeva dire che qualsiasi turista, anche il
radical-chic più caparbio, è arrivato ad ammettere ciò che fino a qualche
tempo fa non era per nulla scontato: "Gli abitanti dei villaggi cinesi e delle
favelas brasiliane non possono rimanere poveri per fornire a noi ricchi une
atmosphère très primitive , e hanno il diritto di sognare prima la luce
elettrica, e poi la televisione a colori". Anche questi sono "standard"; anche
questa è globalizzazione.
Questa presa di coscienza - facilitata dal fatto che, come sostiene O'Rourke,
"dove resiste une atmosphère très primitive la gente si spara addosso, e le
docce funzionano male" - è stata lenta, e non è ancora conclusa. In
Occidente, i falsi romanticismi sono sempre in agguato. Samuel Johnson
scriveva che "i viaggi erano una delusione, perché città e paesi si
somigliavano tutti"; però viaggiava. John Ruskin si dichiarava
"inconsolabile per la scomparsa della diligenza"; poi si è consolato. Il
già citato Luigi Barzini, quando sosteneva che "traversare una nazione o un
continente" era divenuto "perfettamente uguale a traversare un corridoio",
forse non si rendeva conto che l'esotismo di pochi è un piccolo prezzo da
pagare, se aiuta la vita di molti.
In conclusione: noi occidentali possiamo andare orgogliosi d'aver fornito al
mondo un buon "kit da viaggio". E' una piccola cosa? Forse.
Ma le piccole cose che significano molto per tanta gente sono, in effetti,
grandi cose, per cui la storia ci darà credito. Le colpe dell'Occidente sono
ben altre. Sono le guerre cui assistiamo indifferenti; la silenziosa
accettazione del lavoro infantile; un turismo sessuale sfrenato e incosciente;
l'esportazione della pedofilia. Ora non dite che alla prima globalizzazione (il
"sistema operativo") segue per forza la seconda (sfruttamento e
colonizzazione culturale). Perché non è vero.
Tecnoglobali, ma non tutti uguali
Rocco Cotroneo George Gilder, visionario americano, sostiene che la rivoluzione digitale
investirà tutta l'umanità, e non solo i ricchi, per un motivo strettamente
economico: il costo. Le materie prime della nuova era, la sabbia (silicio), il
vetro (fibre ottiche) e l'aria (etere) si trovano in natura e non rischiano di
finire, o di essere monopolizzate da qualcuno. Tutto il resto conta poco, dice
Gilder, che è di destra, iperliberista e ha una visione così estrema del futuro
da far sembrare Negroponte uno scettico pieno di dubbi. La convinzione che
il sol dell'avvenire sarà digitale, tecnoprofeti a parte, è abbastanza diffuso. I
primi segnali di globalizzazione guidata dalle nuove tecnologie
sembrerebbero confermare la tesi della bontà intrinseca del nuovo. Già oggi
l'ultimo dei problemi di un turista in Malesia è trovare un telefonino, perché
quel Paese ha la più alta concentrazione di cellulari del mondo. Ed è
talmente meno costoso costruire una rete di telefonia mobile rispetto ad una
tradizionale, che buona parte dell'Africa subequatoriale sta inseguendo la
modernizzazione saltando a pie’ pari gli stadi di tecnologia dell'Occidente.
Esempi simili si trovano nel Terzo Mondo nella televisione, nella
radiodiffusione, nelle reti telematiche. Al posto dell'accumulazione forzata
di industria e capitale, di marxiana memoria, lo ‘storage’ vorticoso di chip e
bits.
Il punto che sembra sfuggire agli ottimisti ad oltranza - o meglio, sul quale
mancano conferme così illuminanti - è che difficilmente cambiamenti
epocali sono avvenuti nella storia dell'umanità per meri nuovi paradigmi
tecnologici. Le tecniche di navigazione del XIV secolo hanno consentito di
colonizzare l'America, ma non sono certo state la ragione per lo sterminio
dei Pellirossa o degli Inca. I bassi costi che consentiranno allo studente di
Lagos di ricevere la stessa mole di informazioni del suo collega di Harvard
non lo metteranno automaticamente sullo stesso piano. Anzi. L'interattività
o comunicazione a due vie, rischia di accentuare il potere culturale di chi sta
seduto sull'estremo ‘giusto’ del cavo.
La storia recente dell'informatica mostra già chiaramente che la palla sta
passando decisamente dai fornitori di macchine (hardware) a quelli di
contenuti (software), proprio perché i costi delle prime calano
continuamente. E mai come adesso il potere si sta concentrando nelle mani
dei ‘fornitori’ di contenuti, si chiamino Bill Gates o Columbia Pictures.
Prendiamo il caso del Dvd, il dischetto ottico grande come un cd rom ma
potente dieci volte tanto, che dovrebbe sostituire cd musicali, cd rom, audio
e videocassette nei prossimi anni. La tecnologia è pronta da anni, ma il
lancio sul mercato continua ad essere rinviato per la pressione delle major
hollywoodiame. Sono i produttori di film, musica, cartoni animati che ne
determineranno il successo, sono loro che vogliono essere certi di
controllarne la tecnologia, non certo il titolare della fabbrica di Taiwan che
li produrrà in milioni di pezzi all'anno.
Che la globalizzazione culturale, la caduta delle barriere e delle
ineguaglianze segua la curva della legge di Moore o le previsioni di Gilder,
insomma, è tutto da vedere. Per ora le nuove tecnologie stanno prendendo
piede nei diversi Paesi con modalità più familiari ai sociologi che agli
ingegneri: gli italiani impazziscono per il telefonino, i nordeuropei per le
chiacchierate solitarie al computer, ai francesi non va giù questo English
pervasivo sulla Rete, gli inglesi hanno scoperto la televisione grazie a
Murdoch (mentre il resto del mondo magnifica la BBC). E vogliano parlare
di Internet? Non bastano tutti i libri di tutte le Business School per spiegare
la crescita spontanea, su base sostanzialmente volontaristica e gratuita, del
più grosso fenomeno di fine secolo, e proprio nel culmine del trionfo del
capitalismo. Buone notizie, insomma. Ai tecnofobi il mondo fa sapere di
non avere alcuna intenzione di trasformarsi in un tribù di replicanti, ai
signori dei Contenuti dice di stare molto, molto attenti, ai loro investimenti
in fantastilioni di dollari.
Livelli di realtà
Stefano Cingolani Quel piccolo nucleo di irriducibili che da anni, sepolto nella giungla dei
videoterminali, si ostina a seguire le notizie internazionali, è ormai
accerchiato da due nemici diversi, ma ugualmente pericolosi. Davanti,
attaccano le forze d’élite guidate dal club di Davos; da dietro arrivano le
truppe, ben più numerose e "popolari" ammassate dal club dei Passi Perduti.
Per chi deve ogni giorno a far uscire le pagine esteri di un grande giornale,
muoversi in questa tenaglia sta diventando impossibile.
Andare all’assalto sarebbe donchisciottesco, chiudersi in trincea diverrebbe
un suicidio.
Il club di Davos è composto da quel gruppo di industriali, grandi manager,
politici, guru dell’economia e della diplomazia che ogni anno si riunisce
nell’ "amena località" sulle Alpi svizzere per analizzare i destini del mondo,
intrecciare relazioni, scambiarsi informazioni di prima mano. Parlano
international english, condividono gli stessi valori (con qualche variante),
sono i profeti della globalizzazione e del villaggio-mondo.
Il club dei Passi Perduti, invece, si incontra a Montecitorio tutti i giorni dal
lunedì al venerdì mattina. Ne fanno parte parlamentari, giornalisti, lobbisti,
velinisti, candidati alla direzione dei telegiornali pubblici e privati. Sono i
sacerdoti del primato della politica per i quali ogni fiato del Palazzo vale più
di un boom a Wall Street.
I primi influenzano le decisioni dei Potenti, i secondi condizionano le scelte
dei Potentini. Ma sono questi ultimi ad avere in mano oggi i massa media
italiani. Si avvia così un arido gioco di specchi in cui ciascuno rimanda
l’immagine dell’altro.
I sommi sacerdoti di Davos hanno reso il pianeta più piccolo scambiando
dollari e informazioni alla velocità della luce. Ma si sono illusi che il crollo
delle frontiere nazionali avrebbe creato un mondo omogeneo, unificato dal
mercato, dalla lingua inglese e dall’hamburger: il McWorld guidato dalla
convinzione che i paesi dove sorge un McDonald’s non si combattono tra
loro. Allo slogan hippie "facciamo l’amore non la guerra" si contrappone
quello yuppie "non fate la guerra, mangiate un Big Mac". La realtà è, al
contrario, che all’economia globale si contrappongono dieci, cento, mille
tumulti locali, le tante "jihad" provocate dai nuovi fondamentalismi
ideologici, religiosi, etnici e via via combattendo.
Gli alfieri di Montecitorio rivendicano che, finita la Guerra Fredda, l’Italia è
pienamente libera di determinare il proprio destino. Così, negli ultimi
quattro anni si è scatenato un terremoto politico, istituzionale, etico che non
ha paragoni in tempo di pace. Non farne il centro dei propri interessi sarebbe
sciocco e colpevole. Ma hanno creduto davvero che ci possiamo muovere da
soli.
Roma non deve più attendere l’okay degli Stati Uniti per formare un
governo, è vero, ma ha più che mai bisogno del viatico di Bonn e Parigi,
oltre che del benign neglect degli altri alleati. La destra ha scoperto che non
era amata in Europa e ha usato i suoi telegiornali per gridare al Grande
Complotto. Ora tocca alla sinistra dimostrare che è maturata sul serio. E i
mass media, tutti protesi a registrare ogni sospiro dei Passi Perduti, non si
accorgono che il governo Prodi non cadrà per un’intervista di Fini o
Berlusconi, ma se Helmut Kohl negherà all’Italia l’ingresso nel primo
cerchio dell’unione monetaria.
Milano/Mondo: un Piccolo grande Teatro
Oliviero Ponte di Pino Come si sa, nella riunione in cui ha nominato Jack Lang direttore del
Piccolo Teatro, il consiglio d’amministrazione ha anche deciso di offrire una
consulenza a Fatma Ruffini. Dirigente della Fininvest-Mediaset, la signora
Ruffini ha portato al successo (spesso adattandole da format stranieri)
numerose trasmissioni televisive. Certamente la sua esperienza (grazie alla
sapienti regie di Giorgio Strehler) riuscirà a dimostrare che la tradizione
culturale di un’istituzione come il Piccolo Teatro e il successo di pubblico
del Piccolo Schermo presso giovani e anziani si possono conciliare con
grande facilità (trovando per di più molti sponsor che possono miracolare il
bilancio del teatro).
"Un po’ Bertolucci, poi soprattutto Moretti. Palombella rossa e Caro diario
sono osannati dalla critica, anche esageratamente: ne hanno fatto una
specie di nuovo Fellini. E’ piaciuto Tornatore, con il film che loro chiamano
Paradisio, Oscar e gran premio speciale a Cannes; ma non va dimenticata
l’intelligente testardaggine del produttore Franco Cristaldi (un altro che
purtroppo non c’è più) che riuscì a imporlo. Infine, due nuovi autori sono
passati di recente. Martone, con L’amore molesto: è andato a Cannes e poi
ha avuto una buona distribuzione nonostante la perplessità della critica. E
l’altro è La seconda volta di Calopresti, con Moretti protagonista".
E il resto è silenzio. Uno strano silenzio. Curioso, per un paese come l’Italia
che fa registrare record d’incassi miliardari per dei film (è il caso, per
esempio, del Ciclone di Pieraccioni) che nessuno vedrà mai oltre le Alpi.
Globalizzazione?
Furio Colombo Globalizzazione: tutto è grande come il mondo (globo). Il pensiero nascosto
è che la misura sia ancora più grande, perché il globo può essere percorso
più volte in tutte le direzioni e in modi diversi (fisico, virtuale, terrestre,
aereo, formale, reale, etc).
Basta ascoltare quasi ogni discorso sulla globalizzazione per rendersi conto
che globalizzazione significa infinito, ovvero una nuova misura infinita
delle cose. Ogni cosa può crescere a dismisura. Ogni movimento, viaggio,
spostamento, è senza limiti.
Non solo non esistono più frontiere, ma lo spazio senza frontiere è mille
volte più grande di quello che c’era prima, con muri, divisioni e controlli.
Nascono di qui due percorsi, quello dell’euforia e quello della paura.
Il primo ci porta alla persuasione che grande è bello, perché coincide con
libero. E suggerisce che all’ingigantimento dello spazio corrisponda anche
un allargamento nel tempo.
Ciò avviene non perché pensiamo che il tempo rallenti e che nello spazio
vasto le cose avvengano piano. Al contrario sappiamo benissimo (e anzi lo
ripetiamo con vero trionfalismo) che globalismo vuol dire spostare qualcosa
(per esempio masse di ricchezza finanziaria) in un istante, cosicché persino i
fusi orari tradizionali vengono annullati e otteniamo una giornata continua,
lunga ventiquattrore. Il fenomeno avviene già nella vita finanziaria, chiude
Wall Street e apre Londra, chiude Londra e apre Tokio e così via.
Il fatto è che l’istante è la più persuasiva metafora dell’eternità. E dunque il
fatto che nello spazio globale ogni cosa possa avvenire in un instante ci dà la
doppia nozione di spazio globale e di tempo globale e un senso di mancanza
di limiti che dà alla testa. Induce persino a intravedere un punto di incontro
fra materiale e spirituale o almeno fra l’immaterialità del pensiero e la
fisicità dell’azione.
La paura è la naturale conseguenza del troppo: troppo vasto, troppo veloce,
troppo illimitato, come un effetto di luce continua e senza ombre .
Agorafobia.
Sto parlando di una paura che è solo il volto negativo dell’euforia, una sorta
di effetto depressivo che deriva dalle stesse cause: l’aver percepito dai
media che non ci sono più limiti e barriere e che gli spazi non hanno confini.
Raramente qualcuno sembra volersi confrontare con la domanda: ma il
globalismo esiste davvero? Gli entusiasti non si lasciano scoraggiare dalla
constatazione dei fatti. Se tutto è globale, come spiegare che giornali e
televisioni sono sempre più locali, che qualunque editore chiude o
ridimensiona i suoi uffici di corrispondenza estera, che molte aziende
riducono le spese per le filiali estere, che molti Paesi, compresi gli Stati
Uniti, tagliano invece che aumentare, il numero dei consolati e nominano
sempre più frequentemente un solo ambasciatore responsabile per diversi
Paesi?
Perché, rispondono gli euforici, la chiave del globalismo è nelle nuove
tecnologie, come questa, il computer, e nella sua connessione, la rete. Tutto
in Internet avviene in tempo reale e con minimo spessore temporale. La
tecnologia provvede direttamente a informare e a rappresentare, rendendo
anziane, dunque indesiderabili, le precedenti forme di comunicazione e
rappresentanza.
Qui si situa la pattuglia dei catastrofisti. Anch’essi prendono sul serio la
globalizzazione, ormai avvenuta e dominante. E vedono in essa un
complotto. Esiste, funziona, ma ti priva della libertà, agisce prima della tua
decisione, al modo di una bocca che preceda nella conversazione il pensiero.
Svuota i processi democratici di legame col territorio. E’ certamente al
servizio di qualcuno.
Propongo un’altra strada, lontana dall’euforia, dalla paura e dal complotto.
La globalizzazione di cui parliamo si è realizzata in uno solo dei mondi
interconnessi in cui viviamo, quello finanziario. E’ vero e provato: le
ricchezze percorrono il mondo senza ostacoli e in tempi così brevi da
consentire di creare o spostare nuovi equilibri fisici di ogni zona attraversata.
Quando vi dicono che esiste la globalizzazione culturale, che sarebbe
dimostrata dal fatto che noi sappiamo tutto degli Stati Uniti dall’ultimo
programma TV di quel Paese all’ultimo condannato a morte, domandatevi
quanti sanno negli Stati Uniti delle nostre vicende o di quelle dei Baschi o se
Tutsi e Watussi siano o no la stessa leggendaria popolazione passata dalla
forma più elegante e colorata di tribalismo a quella più sanguinaria. La
globalizzazione economica? E’ un vento che spinge i più forti a prevalere
dovunque sui più deboli. Viene dai secoli, e nei secoli è sempre stato
"globale".
La globalizzazione politica è un fenomeno rallentato e faticoso, reso
scarsamente percorribile dal sempre più confuso concetto di "interesse
nazionale" di ciascun Paese, esempio: ci vogliono tre anni di massacri prima
che alcuni Paesi europei decidano di intervenire nella ex Jugoslavia (e ciò
contro i sondaggi di opinione e le pressioni di rilevanti parti politiche di quei
Paesi). E non basterà la fine del secolo a fare di un gruppo di stati
estremamente somiglianti e abituati da decenni alla stessa vita e allo stesso
benessere, il Paese Europa.
A guardarlo da vicino il fenomeno della globalizzazione non solo è parziale
e riguarda quasi solo la finanza e l’informazione personale raggiungibile
attraverso Internet (non poco, ma non tutto quello che ci dicono). La festa
nasconde una contraddizione grave e poco discussa: alcune cose si muovono
in massa e in fretta (informazioni finanziarie e comunicazione in rete).
Queste altre cose sono rimaste inchiodate al territorio. Sono le persone.
Direte, ma il turismo? In apparenza è la grande eccezione, se si pensa che
masse di esseri umani attraversano il mondo in ogni momento per vedere
un’altra parte di mondo.
Però ricordate la notizia dell’italiano rispedito a casa da un aeroporto
americano perché "albanese" o simile a un albanese?
Il fatto non è isolato, benché non sia ancora tipico. Le polizie di frontiera di
paesi aperti e amici non ci pensano due volte. Al minimo dettaglio non
convincente rimandano a casa. Non le cose. Solo le persone.
Volete un esempio più convincente? La superstizione contro le
immigrazioni. Gli USA, paese tutto costruito dagli immigrati, stanno
dibattendo la proposta di elevare un muro di mille chilometri che lo divida
dal Messico.
Troppe infiltrazioni. Eppure, nello stesso periodo ha firmato un trattato di
"mercato comune" delle merci col Messico.
Sentite dire spesso che si esporta il lavoro. E’ vero. Si licenzia nel posto A
per dare lavoro a condizioni più convenienti a persone del posto B. Ma ciò
si può fare perché sia il posto A, più evoluto, che il posto B, ovviamente in
condizioni più precarie, esportano e importano la convenienza (dunque il
margine economico di convenienza) del lavoro, ma non le persone. Esse
restano - come ai tempi antichi - legate al territorio, hanno solo il permesso
di compiere brevi scorrerie turistiche. Nessun Paese permette più agli
stranieri di lavorare, solo di portare, durante un rapido passaggio, soldi in
cambio di servizi nell’avventura chiamata turismo. Dunque siamo tutti
turisti e tutti stranieri. Se volete, questa è la definizione che vi propongo di
globalismo. Dite che è restrittiva? Ne aspetto un’altra.
Sondaggio, a cura di Renato Mannheimer
Renato Ruggiero, capo della World Trade Organization ha sostenuto che, dal suo osservatorio esterno al nostro paese, l'Italia appare
proprio un paese provinciale, tutto interessato ai propri (spesso piccoli e, appunto, "provinciali") problemi interni, senza un'ottica e un
respiro di più ampia portata.
Vorremmo sapere cosa pensano i lettori di Golem di questa affermazione, in che misura la condividano o meno e perchè. A questo
fine, vi preghiamo di rispondere dapprima alla domanda "chiusa" e poi, nello spazio sottostante, dirci i motivi della risposta. Infine,
per consentire alcune elaborazioni statistiche, vi preghiamo di darci alcuni dati su di voi. Nel prossimo numero di Golem saranno
pubblicati i risultati di questo sondaggio tra i lettori, confrontati con quelli rilevati da un campione rappresentativo della popolazione
italiana nel suo complesso.
Molto
Abbastanza
Poco
Per Nulla
Non so
Perchè?:
Genere:
Maschio
Femmina
Età: 0
Ti "senti" di:
Sinistra
Centro-Sinistra
Centro-Centro
Centro-Destra
Destra
Nessuna di queste categorie
Non so
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Il futuro delle telecomunicazioni
intervista a Francesco Chirichigno amministratore delegato Telecom
Quali conseguenze potrà determinare l’accordo British Telecom - MCI per
le aziende italiane impegnate nel settore?
Alcune delle grandi imprese che vediamo sulla scena oggi vi saranno anche
domani; ma la crescita del mercato creerà certamente spazi per nuovi
protagonisti. In questo settore le previsioni sono difficili: ricordiamoci che
solo dieci anni fa vivevamo in un mondo senza telefonica cellulare, senza
Internet, senza satelliti digitali. Estrapolare i trend del futuro dalle
esperienze passate è un esercizio assai pericoloso quando si opera in un
mondo caratterizzato da straordinarie dinamiche tecnologiche e da una
crescente necessità di disporre di informazione a valore aggiunto, nel
momento giusto, nel luogo giusto e nel modo giusto.
Quali ricadute potranno esserci sulle comunicazioni on line e, in
particolare su Internet?
L’accordo tra British e MCI è solo un altro passo verso le mutazioni che
stanno attraversando le telecomunicazioni nel mondo. Lo scenario che si sta
delineando è quello di una molteplicità di mercati; vi trovano spazio grandi
gruppi come quello nato da questa acquisizione o all’europea Global One,
spazio anche per operatori soltanto nazionali o in mercati di "nicchia" in
contesti più articolati come quello statunitense. Per i grandi e per i piccoli
sono necessarie comunque creatività e flessibilità oltre alla capacità di
adattamento alle diverse esigenze dei clienti. Le grandi aziende devono stare
attente proprio a questo: non perdere la capacità di risposta immediata alle
richieste del cliente. Anche in Italia si dovrà tenere conto di queste
situazioni.
Gruppi di queste dimensioni hanno al loro interno know-how e risorse che
possono mettere a frutto in ogni momento e in ogni mercato. Mi sembra di
poter tranquillamente affermare che Omnitel, con le alleanze e gli azionisti
qualificati che ha, possa competere ad armi pari con i migliori operatori del
mercato delle telefonia mobile e penso che anche Albacom, da quello che
leggo sui giornali, abbia quell’insieme di know-how che ne fa un
concorrente qualificato. Per quanto riguarda i gruppi pubblici credo che
debbano drammaticamente aumentare la loro velocità di adattamento verso
il concetto di mercato concorrenziale. In questo primo anno di concorrenza
nelle telecomunicazioni credo che sia chiaro per tutti, clienti e operatori, che
la concorrenza non può che portare benefici per tutti e nel futuro prossimo
anche gli operatori di origine monopolistica dovranno focalizzare la loro
attenzione e le loro energie più verso i clienti che verso la difesa ad oltranza
dei privilegi del monopolio, altrimenti rischiano di essere irrimediabilmente
sconfitti se non altro dalla storia economica.
2. Come vede il futuro delle telecomunicazioni da qui al duemila?
"Strettamente legato a quello che accadrà in Europa e nel resto del mondo.
Nei prossimi anni possiamo avere un forte sviluppo della società
dell’informazione, con grandi benefici per i cittadini, da un lato grazie ai
progressi della convergenza tra telecomunicazioni, informatica e media che
renderanno disponibili i prodotti e i servizi innovativi e dall’altro grazie al
diffondersi della concorrenza per effetto della liberalizzazione. Molto però
dipenderà dalle regole che a questo processo verranno date. Se per esempio
si legheranno le mani a Telecom con l’obiettivo di farla colpire più
facilmente dai suoi concorrenti, come propone Elserino Piol nell’intervista
rilasciata a Golem, non credo che i consumatori ne trarranno benefici. Penso
al contrario che se vogliamo si sviluppi davvero il mercato della
multimedialità, la regolamentazione migliore sia quella priva di vincoli e di
asimmetrie tra i vari settori, sul modello di quelle americana e francese.
Certo qualcosa nell’atteggiamento del sistema paese verso l’innovazione
dovrà cambiare: non è bloccando per mesi la partenza del Gsm, come è stato
fatto, né osteggiando il cablaggio, né, ancora, guardando con sospetto ogni
singola mossa del nostro service provider Stream che si può pensare di
costruire la società dell’informazione. Che cosa si vuole, che stiamo fermi?
Certo, paradossalmente faremmo utili molto più pingui gestendo il nostro
business tradizionale che non affrontando le nuove iniziative che portano al
futuro, ma a perderci sarebbe il paese".
"Sul mercato italiano operano da tempo numerosi soggetti forti del calibro
di At&t, Bell Atlantic, Bt e Cable and Wireless. Già oggi il 57% dei ricavi
di Telecom Italia verso le maggiori aziende proviene da servizi liberalizzati
e, al tempo stesso, la domanda di accesso e servizi da parte di individui e
famiglie è soddisfatta per circa il 20% dei volumi e il 30% del valore da
servizi in piena competizione (dal radiomobile, alle carte telefoniche, a
Internet). In un contesto sempre più liberalizzato e globale i grandi operatori
stranieri entreranno sempre più attivamente sul mercato italiano, anche
grazie alla collaborazione coi detentori delle reti alternative, come l’Enel.
Analogamente, l’operatore italiano diventerà sempre più internazionale. Ma
soprattutto mi auguro che emergano fornitori di servizi e di contenuti in
numero tale da far decollare davvero il mercato dei nuovi servizi. Da questo
punto di vista, un grande attore che non può mancare è il regolatore
pubblico, il quale può fare almeno tre cose fondamentali: dare, come dicevo,
buone regole, fornire linee guida per la società dell’informazione, creare una
fiducia e una confidenza collettive verso le nuove tecnologie anche
attraverso l’opera di alfabetizzazione della scuola".
La Rete replica
● Stet sarà tagliata fuori dal gioco oligopolistico mondiale , salvo che
si privatizzi e che cambi le politiche di alleanza;
● in Italia avremmo certamente i rappresentanti degli oligopoli
mondiali, e Albacom e Infostrada sono tra questi;
● non si vede come possano nascere nuovi operatori significativi, e
non di nicchia, che non siano legati ai monopoli mondiali.
Vedi anche:
http://www.ispo.cec.be/ispo/press.html
http://www.mci.com/
http://www.bt.com/
http://www.altavista.digital.com/cgi-bin/query?
pg=q&what=news&fmt=.&q=%22bt+mci%22
Radici
Carlo De Benedetti Da più parti oggi si chiede a gran voce un forte impegno morale e politico
per non dimenticare l’olocausto. Le nuove generazioni non sanno - si dice-
mentre negli adulti e negli anziani di oggi il ricordo si indebolisce sempre
più; con il passare del tempo si è fatta strada la tentazione di considerare
l’olocausto come un incidente di percorso nella storia dell’umanità. Un
brutto ricordo, un episodio e niente più.
Di fronte all’eventualità che questa tentazione prenda (o abbia già preso)
corpo reale, non posso rimanere indifferente. Vi sono vicende e persone che
nella vita non si possono dimenticare; immagini che rimangono impresse in
modo indelebile; interrogativi che si ripropongono ogni giorno perché non
riescono a trovare risposte razionali e convincenti.
Nella mia esperienza di vita, il ricordo dell’olocausto mi ha accompagnato
costantemente; né poteva essere diversamente. Era il settembre del ’43;
avevo nove anni. Con la mia famiglia si era deciso di fuggire in Svizzera;
c’erano anche i miei zii e i loro figli. Due famiglie in cerca di salvezza,
abbandonando tutto alle proprie spalle per conservare quel supremo bene
che è la libertà. Tirammo a sorte; toccò a noi cercare per primi di passare il
confine; andò tutto bene. Poi fu la volta degli zii e dei cugini; furono
scoperti. Ho ancora negli occhi l’immagine di una tragedia; una tragedia che
segna la vita e che non si può dimenticare.
Perché, come tanti altri, siamo stati costretti a dover scegliere tra la fuga e la
prigionia? Perché tanto accanimento contro chi era giudicato colpevole per
il semplice fatto di essere considerato diverso da chi era al potere?
Si può tentare di dare una risposta storica; capire il momento politico, la
cultura prevalente dell’epoca, i rapporti di potere tra le nazioni e all’interno
delle nazioni, ecc. Un esercizio doveroso ma pericoloso, perché rischia di
portare a conclusioni errate; rischia di far apparire l’antisemitismo e
l’olocausto come i frutti di una "congiuntura" politica e culturale
sfavorevole; un incidente di percorso, appunto.
In realtà i fattori che hanno determinato l’olocausto sono tuttora
profondamente radicati nella storia e nella coscienza degli uomini:
"l’incidente di percorso" può ripetersi in qualsiasi momento. Ne sono
convinto per almeno un paio di considerazioni.
La prima è che l’olocausto degli anni ’30 e ’40 rinnova forme di violenza e
di intolleranza antisemita che non sono per nulla nuove nella storia.
Periodicamente riemerge il destino di sopraffazione e se l’ultimo olocausto
appare più drammatico dei precedenti è solo perché è l’ultimo in ordine di
tempo ed ha assunto proporzioni enormi perché il conflitto ha raggiunto le
dimensioni mondiali.
La seconda considerazione riguarda la capacità dell’umanità di imparare
attraverso la storia e il progresso della società. Il passato ci racconta storie di
inaudita violenza e crudeltà; rispetto a certe barbarie medioevali, rispetto a
certe oppressioni del fanatismo religioso e politico, la civiltà di oggi ha fatto
grandi progressi. Quasi dovunque nel mondo più sviluppato si sono
dimenticati i tempi della servitù della gleba, dell’Inquisizione,
dell’oppressione dispotica dei signori del Medioevo, delle crociate, della
colonizzazione, ecc. L’umanità è cambiata: viviamo in una società dove c’è
più cultura, più razionalità, più conoscenza e informazione. Eppure in questa
società l’antisemitismo ha egualmente attecchito fino a esplodere
nell’olocausto. Come è stato possibile arrivare a tanta violenza irrazionale e
fanatica in un mondo che pure era così avanti nella cultura, nella tecnologia,
nel benessere economico?
Non credo allora che basti un viaggio nella congiuntura della politica per
rintracciare le cause dell’olocausto; quello che serve è un viaggio nella
coscienza dell’umanità. Una coscienza che non sempre migliora e
progredisce di pari passo col progredire della tecnologia, della conoscenza e
dell’economia.
Oggi si deve ricordare il passato per evitare che l’olocausto possa ripetersi o
possa - come è avvenuto e come continua ad avvenire - assumere altre
forme: il razzismo, il genocidio, lo sterminio dei più poveri perpetrato
nell’indifferenza o nell’impotenza della comunità mondiale.
E’ giusto che le nuove generazioni possano e debbano vedere le immagini
che stigmatizzano gli orrori di un’epoca. Ma il ricordo fine a se stesso non
basta; le immagini del passato (come quelle delle sopraffazioni che ogni
giorno avviliscono l’umanità) devono accompagnarsi a uno sforzo di
educazione delle coscienze, in senso morale e politico. Un’educazione al
rispetto degli altri, dei diversi, degli avversari; nella società, nelle relazioni
internazionali, nella politica, nella religione, nello sport.
Con gli anni mi sono sempre più convinto che i fattori che hanno scatenato
l’olocausto sono difficili da rimuovere perché sono radicati dentro l’uomo e
quindi sono potenzialmente dovunque: se ne trovano tracce nell’intolleranza
che abita in tante aule di parlamento, negli stadi, nei quartieri delle
metropoli, nei consessi internazionali, nei luoghi di culto, ecc.
Se ne potrebbero trarre conclusioni pessimistiche: è difficile cambiare la
coscienza dell’uomo, ci vuole troppo tempo. Ma queste sarebbero
conclusioni affrettate, che trascurano alcuni importanti motivi di fiducia.
Innanzitutto non si può ignorare che il sacrificio dell’olocausto non è stato
inutile: molti hanno dimenticato o non sanno, ma molti ricordano o hanno
preso coscienza di quanto certe idee, certa cultura, certi partiti possano
nuocere alla convivenza civile. E poi dall’olocausto è nato uno stato che per
la prima volta dopo secoli, se pure tra mille conflitti e tensioni, ha dato al
popolo ebraico un territorio, una base di riferimento.
Né infine si può dimenticare che la tecnologia sta spingendo sempre più
rapidamente l’economia e la società verso un mondo globale, dove le
possibilità di comunicare e di accedere alla conoscenza e all’informazione
diventano pressoché illimitate. In un mondo globale non mancano motivi di
conflitto, ma è più facile prendere coscienza delle diversità politiche,
culturali e religiose ed accettarle; prendere coscienza delle carenze di
democrazia e di libertà, delle disuguaglianze economiche e sociali, e
combatterle.
Ho fiducia nella tecnologia e nella sua capacità di trasformare il mondo in
un villaggio globale; ma soprattutto ho fiducia nella capacità dell’uomo di
trasformare la convivenza in questo villaggio in una convivenza civile, dove
non ci sia più spazio, culturale, politico o religioso, per alimentare la pianta
degli antisemitismi.
A partire da un libro. Ombre della psicanalisi.
Maria Irmrgard Wuehl L’editore Vivarium di Milano (esseffe@iol.it) sta preparando per il marzo
prossimo un volume dedicato a Jung, Freud e l’antisemitismo, dal titolo
Ombre sospese.
Questo volume prende spunto da un convegno tenutosi a New York nel
1989 sul tema "Ombre sospese: junghiani, freudiani e l’antisemitismo".
Scopo del convegno era esaminare, lanciare una sfida o porre fine a una
persistente disinformazione riguardo l’atteggiamento di Jung verso gli ebrei
e riguardo le sue cosiddette attività politiche svolte durante gli anni che
precedettero la seconda guerra mondiale.
La questione è di particolare importanza perché, sin dalla rottura tra Freud e
Jung, l’accusa di antisemitismo rivolta a Jung è stata di ostacolo a una
riconciliazione tra le due grandi scuole della psicologia del profondo. Gli
junghiani si sentirono in dovere di tentare un dialogo: scrutare nell’oscurità,
sia in quella personale sia in quella collettiva, è, secondo Jung, la pietra
angolare di una vita autenticamente ed eticamente vissuta.
La ricerca si è concentrata su tre aree importanti: la prima riguarda la
relazione personale e professionale tra Jung e Freud, relazione breve ma
feconda. Fu quando si ruppe questo rapporto che Jung fu per la prima volta
accusato di antisemitismo; la seconda area riguarda le attività e
l’atteggiamento di Jung a partire dalla rottura con Freud nel 1913 fino
all’inizio della seconda guerra mondiale; la terza area, infine, si muove
intorno alle possibili motivazoni consce e inconsce che furono alla base
dell’atteggiamento di Jung.
Freud fu attirato dal giovane Jung per la sua mente curiosa e acuta nel
comprendere la psicoanalisi, e per il fatto che non fosse ebreo: In molte
occasioni Freud ha affermato che "fu solo per la sua apparizione [quella di
Jung] che la psicoanalisi evitò il rischio di diventare una questione nazionale
ebraica". Freud e Jung erano coinvolti in una relazione padre-figlio,
caratterizzata da una proiezione massiccia che poteva dar luogo a una
collaborazione creativa ma anche a una competizione e a una inimicizia
distruttiva.
Freud e Jung collaborarono intensamente: centinaia di lettere, numerosi
incontri e un lungo viaggio in nave verso gli Stati Uniti lo testimoniano.
Freud sostenne la candidatura di Jung alla presidenza dell’Associazione
Psicoanalitica e alla carica di redattore-capo degli "Annali di ricerche
psicoanalitiche"; e Jung guardava a Freud con grande stima e ammirazione
considerandolo "il primo uomo veramente importante" per la psicologia del
profondo.
Malgrado ciò, c’erano molti aspetti che li dividevano fin dall’inizio della
loro relazione. Non si trovavano d’accordo, per esempio, sull’importanza
psicologica di indagare sui cosiddetti fenomeni occulti: Freud considerava
l’occultismo pericoloso e regressivo, mentre Jung era fortemente attratto dai
misteri della vita psichica. Come è noto, lo scoglio maggiore alla loro intesa
era dovuto al disaccordo sul ruolo da attribuire alla sessualità nel
funzionamento della psiche. Jung, dapprima in modo cauto e in seguito
molto più apertamente, espresse dubbi sulla teoria freudiana della libido e
negò il primato della pulsione sessuale.
A un livello più personale Jung aveva sicuramente qualche difficoltà ad
accettare l’autorità paterna di Freud. Da figlio ribelle, che aveva colto molto
precocemente i dubbi religiosi di suo padre, pastore protestante, Jung
interpretava con insofferenza e disagio la parte del "figlio adottivo", "erede"
di Freud, docile nel seguire le orme tracciate dal padre-mentore. La strappo
definitivo con Freud avvenne con la pubblicazione di "Trasformazione e
simboli della libido", un’opera che sfidava apertamente la teoria del maestro
sul desiderio incestuoso infantile per il genitore di sesso opposto. Jung sentì
che questi desideri erano espressioni simboliche di un’energia psichica e che
non dovevano essere presi alla lettera.
Fu in questo periodo, alla fine della loro relazione nel 1914, che emersero
pubblicamente le prime accuse di antisemitismo nei confronti di Jung;
sebbene già nel 1908 Ernest Jones, il biografo di Freud, avesse colto in Jung
aspetti di antisemitismo, queste sensazioni furono tenute nascoste. Senza
dubbio il fatto che Freud avesse riposto fiducia in Jung perché cristiano (per
stornare in tal modo il sospetto che la psicoanalisi fosse una scienza
esclusivamente ebraica) fu il primo germe da cui sarebbe poi scaturita
l’accusa di antisemitismo: finché c’era stata una sana e fattiva
collaborazione nella comunità psicoanalitica, non era sorto alcun
disaccordo, ma non appena Jung si allontanò da Freud e dagli altri membri
della comunità, ecco che l’accusa di antisemitismo si fece avanti con una
rapidità allarmante. Freud, nel suo testo "Per la storia del movimento
psicoanalitico", accusò Jung di non essere stato fedele alla psicoanalisi a
causa di "certi pregiudizi razziali". Essendo stata scritta di pugno dal
maestro ed essendo apparsa su un documento pressoché ufficiale, questa
affermazione dette inizio a quella controversia storica che che si è protratta
fino a oggi con risultati disastrosi.
Nel 1917 apparve uno scritto di Jung nel quale egli fa una distinzione tra
psicologia ebraica e psicologia tedesca. Egli riteneva che la psiche ebraica,
anche se ricca ed estremamente sofisticata, non fosse in relazione con "le
forze ctonie profonde", mentre la psiche germanica lo era a tal punto da
diventare pericolosa, barbarica. Dieci anni dopo, nel 1928, Jung si espose
all’accusa di antisemitismo strisciante sostenendo che in tutte le razze si
riscontrano specifiche caratteristiche diverse; riconoscere la specificità della
"razza ebraica" non equivale a essere antisemiti. E’ anche possibile che i
commenti di Jung scaturissero da sentimenti negativi nei confronti di Freud
ed evidenziassero le proiezioni che continuavano a persistere in lui (e nello
stesso Freud) come risultato della loro rottura traumatica.
Agli inizi degli anni Trenta accadde un fatto molto significativo che mise
ulteriormente Jung sotto una luce antisemita. Rispondendo a una richiesta
dei suoi colleghi, Jung accettò la presidenza della società generale di
psicoterapia, sostituendo Ernst Kretschmer che aveva dato le dimissioni
quando i nazisti presero il potere.
Divenne inoltre redattore-capo del Zentralblatt fuer Psychotherapie,
pubblicato in Germania. Nel 1933 apparve un articolo filonazista dello
psichiatra Matthias Goering, cugino del leader nazista Hermann Goering.
L’articolo avrebbe dovuto apparire solo su un supplemento destinato a
essere diffuso esclusivamente in Germania, ma, per una negligenza, il
manifesto di Goering apparve, all’insaputa di Jung, anche sul numero del
Zentralblatt da lui firmato come redattore-capo. A complicare le cose, sullo
stesso numero apparve anche il saggio di Jung "Situazione attuale della
psicoterapia", nel quale veniva fortemente sottolineata la differenza tra la
psicologia ebraica e quella "ariana". Il suo articolo, inoltre, paragonava gli
ebrei ai "nomadi" e alle donne, perché, come quest’ultime, "fisicamente più
deboli". Questo testo infelice, affiancato per giunta a quello di Goering, fu
inopportuno e dette naturalmente adito a una cattiva interpretazione
mettendo Jung nella peggior luce possibile. Divenne infatti il principale
documento teorico che gli accusatori di Jung esibivano a dimostrazione del
suo antisemitismo.
Jung ha sempre dichiarato di non essere mai stato un antisemita ma che il
suo scopo è sempre stato quello di esplorare e illuminare la complessità
della psiche umana. Le riflessioni di Jung sulla Germania e su Hitler
caratterizzano il suo frequente tentativo di applicare i princìpi della
psicologia individuale alla psiche collettiva, allo scopo di comprendere le
nazioni, il carattere nazionale e l’azione politica, guardando quindi alla
Germania come un medico guarda a un paziente. Ammise poi, in molte
circostanze, di aver preso un abbaglio nel credere che l’emergere delle forze
inconsce in Germania avrebbe potuto portare a risultati positivi e a una
trasformazione spirituale e culturale del paese.
Molti degli autori ebrei che hanno conosciuto Jung personalmente, James
Kirsch, la Jaffé, la Hannah, tracciano una sorta di apologia del loro maestro
e amico scomparso nel 1961, dichiarando con certezza che non si è mai
macchiato di antisemitismo; altri autori non ne sono però così sicuri.
Più problematica appare la questione delle motivazioni consce e inconsce,
che hanno indotto in Jung un atteggiamento che ha sollevato contro di lui le
accuse di antisemitismo. La ragione più plausibile del suo passo falso è
forse legata ai suoi sentimenti irrisolti verso Freud, la figura del padre, del
mentore e dell’amico dal quale Jung si era sentito deluso e tradito. E’ anche
possibile, come molti hanno ipotizzato, che Jung avesse voluto prendere il
posto del padre, identificandosi inconsciamente con gli eventi della
Germania e forse addirittura con il potere di Hitler. Intrappolato in questa
identificazione inconscia, egli può aver colto l’opportunità negli anni
Trenta, quando Freud e la psicoanalisi vennero banditi dal regime tedesco,
di promuovere la propria psicologia e se stesso diventando "lo psicologo
delle nazioni".
Quali che siano state le ragioni che hanno condotto Jung verso tali
atteggiamenti, possiamo certamente affermare che in quel terribile periodo
storico egli ha mostrato una certa dose di insensibilità verso la condizione
degli ebrei e una ingenuità rispetto alle conseguenze politiche e personali
che le sue parole scritte e dette avrebbero potuto suscitare. E’ senza dubbio
noto che Jung ha aiutato diversi amici e colleghi ebrei a sfuggire al pericolo
nazista. Fu egli stesso, in modo drammaticamente umano, a trovarsi
vulnerabile di fronte agli effetti di quelle forze insidiose che aveva cercato
di rendere apprezzabili e di fronte alle profondità inesplorate del suo passato
che l’avevano visto come il figlio ribelle di un pastore svizzero e come
l’erede fallito di una "scienza ebraica".
Nel 1944, durante una crisi cardiaca, Jung ebbe alcune visioni di natura
squisitamente ebraica. Una sorta di redenzione? Vide se stesso accudito da
una nutrice ebrea e nutrito con cibo "kosher", preparato secondo il rito
ebraico; in un’altra visione partecipò al matrimonio cabalistico di Malchut e
Tifereth: Inoltre, con il suo libro "Risposta a Giobbe", che apparve nel 1952,
Jung forse scoprì ciò che non c’era stato nel suo incontro con l’ateo Freud: il
giudaismo che, collegandolo alle sue radici originarie, avrebbe potuto
"nutrirlo" nel modo che gli fu penosamente negato dalla vuota religiosità del
padre biologico.
Goldhagen: gli Attori della Storia.
Giancarlo Bosetti E' il 24 marzo 1938 a Vienna. La foto mostra un gruppo di ebrei (se ne
vedono quattro, se ne possono immaginare altre decine) che, accucciati o in
ginocchio, strofinano la strada con le spazzole. Dietro di loro fanno corona,
chi guardando nell'obiettivo, chi guardando l'azione, soldati, poliziotti, uno o
due SS. Nessuna arma puntata. La maggioranza degli astanti sembra
soddisfatta della situazione. E serena. La parola più corrispondente
all'umore di questo capannello è "compiacimento". Per la precisione si
riescono a distinguere quindici facce. Su almeno dodici di queste è netto il
sorriso, del genere "sono contento di esserci" (quello che ci siamo abituati
adesso a vedere alle spalle dei telecronisti). L'SS sembra più serio e
compreso, come cosciente del significato, della "missione storica" che in
quel momento sta prendendo forma e concretezza. Un maturo signore col
pizzetto è addirittura divertito, ma più di tutti emana vera gioia una donna
grassa, una faccia da popolana che guarda inequivocabilmente gli ebrei
chini con la spazzola. E dal guardarli si sente ripagata di chissà quante cose.
Daniel Jonah Goldhagen ha scelto questa tra le immagini poste al centro del
suo libro, I volonterosi carnefici di Hitler (Mondadori) perchè il centro del
suo interesse sta lì, nella gente comune che fu parte attiva, partecipe,
convinta dell'Olocausto. I "willing executioners" furono reclutati non su un
altro pianeta ma in mezzo alle folle anonime e Goldhagen vuole scomporre
e illuminare l'atteggiamento mentale, la cultura, la situazione soggettiva che
rese possibile tante scelte individuali che consentirono di mettere in atto la
"soluzione finale" della questione ebraica. Goldhagen avversa tesi del
terrore, quella della cieca obbedienza agli ordini, quella della macchina
anonima di morte e tutte le altre che dal processo di Norimberga in poi sono
state tentate.
Il fatto storico, in quanto tale, rimane una sfida permanente ad ogni
interpretazione, perchè - Goldhagen lo sa benissimo - "nessuna spiegazione
legata ad un'unica causa potrà mai essere adeguata per l'Olocausto", ma
l'autore americano si avvicina al problema ponendo il suo sguardo sugli
"agenti" e sulle loro motivazioni. E la sua scoperta è che lo fecero
"volentieri". Perchè? Perchè il terreno era stato lungamente preparato sul
piano ideologico di massa. Goldhagen scopre, sezionando lettere,
dichiarazioni e ogni genere di testimonianza di soldati, ufficiali, poliziotti e
manovali della macchina nazista, che la "forma mentis eliminazionista" era
così diffusa da far dire che tra i tedeschi, colti e non, la Judenfrage non
riguardava più il "se" ma il "come" eliminare gli ebrei.
Si può dire che in questo modo Goldhagen scioglie definitivamente il
problema storico dell'Olocausto? Direi di no. Anzi, a ben vedere lo
complica, confermando l'insufficienza sia delle tesi "eccezionaliste" che di
quelle "normaliste". E' vero infatti che ce lo restituisce nella sua dimensione
quotidiana, comune, casalinga, quella dello sguardo della popolana di
Vienna: qualcosa che non aveva bisogno di uomini e donne
straordinariamente crudeli, ma soltanto di tanti "normali" antisemiti,
seriamente convinti che "Die Juden sind unser Ungluck" (Gli ebrei sono la
nostra infelicità). D'altra parte Goldhagen ci spiega che questa tremenda
"normalità" non avrebbe avuto le stesse conseguenze senza la somma
eccezionale di altre circostanze. Perchè il virulento antisemitismo
eliminazionista diventasse un progetto politico, dopo la Prima Guerra
Mondiale, erano necessari Hitler ed il suo partito. Perché diventasse realtà,
occorreva poi che questi prendessero il potere (il che non sarebbe avvenuto
senza una disastrosa crisi economica). Ma non bastava. Per il compimento
era necessario ancora che la potenza armata tedesca si allargasse su tutta
l'Europa e creasse condizioni di assoluta impunità internazionale, almeno
fino al 1945. Solo in Germania questa somma di fattori, ciascuno dei quali
non inevitabile, fu messa insieme. Goldhagen non poteva e non voleva
liquidare questo problema storico, che mantiene qualcosa di inattingibile,
voleva però abbattere lo schermo della "colpa collettiva" per dimostrarci che
anche il crimine maggiore del secolo e forse di tutta la storia ebbe bisogno
del sì di tanti individui, che vi parteciparono con le loro idee, la loro
intelligenza, le loro mansuete convinzioni, la loro personale responsabilità.
Chimere: cronache sul mito del Museo Autonomo
Carlo Bertelli In un celebre romanzo di Mishima il maestro Zen sbalordisce gli allievi
affidando alla loro meditazione frasi enigmatiche e apparentemente prive di
senso, del tipo: egli si mise i sandali sulla testa.
Non so se il soprintendente ed ex ministro Antonio Paolucci sia un lettore di
Mishima. Ma certo anch’egli segue gli stessi metodi pedagogici del maestro
del romanzo. Come ministro, infatti, affermò di volere l’autonomia di alcuni
grandi musei italiani, fra i quali gli Uffizi.
Gli interpreti trovarono faticoso capire in che consistesse quell’autonomia.
Poiché l’organico del ministero, come il ministro sapeva, non comprende il
personale dirigente e amministrativo, che quell’autonomia avrebbe richiesto.
Nello stesso tempo il ministro Paolucci con un atto concreto metteva in
chiaro che non dava nessuna importanza all’autonomia scientifica dei musei.
Infatti procedette all’acquisto, per diversi miliardi, di due opere significative
senza interrogare i direttori dei musei cui, come ministro, le destinava.
Si trattava di "sbloccare", secondo un verbo caro all’efficientismo di
sempre, il lascito Bardini. L’antiquario Bardini aveva donato allo Stato
italiano un intero museo a Firenze con la condizione che in cambio lo Stato,
con una somma di alcuni miliardi messa a disposizione dal donante,
compisse due importanti acquisti di opere, per il Bargello e gli Uffizi, cui
legare il suo nome. Così il ministro comprò una targa marmorea con lo
stemma Martelli attribuita a Donatello (ma ignorata nelle più recenti
monografie) e due scomparti di un polittico di Antonello ridotto allo stato di
rudere.
La direttrice del Bargello protestò per non essere stata interpellata, mentre la
direttrice degli Uffizi, oltre a trovare singolare la propria esclusione
dell’acquisto di opere importanti per il suo museo, osservava che comprare
due tavole terribilmente logore non era il modo più corretto di rispettare la
volontà del Bardini. Tanto più poiché i cataloghi d’asta pubblicati in quei
giorni offrivano occasioni estremamente più interessanti per un grande
museo italiano. Nel frattempo gli interpreti trovano che con questa mossa il
ministro aveva ancor più oscurato il senso da lui attribuito all’autonomia dei
musei.
A Firenze si ripeteva quanto era avvenuto mesi prima a Milano. Qui la
Regione aveva acquistato, e destinato al Castello Sforzesco, l’unica anta
intatta dello stesso polittico di Antonello, ma questo dopo un solido accordo,
che risaliva a circa tre anni prima, con la direttrice della pinacoteca.
Nel frattempo, però, il Comune aveva acquistato, sempre per il Castello
Sforzesco, due grandi tele del Canaletto. La direttrice del museo, che temeva
che quell’acquisto avrebbe compromesso l’altro dell’Antonello, cui
giustamente maggiormente teneva, osservò, parlando con una giornalista,
che i due Canaletto corrispondevano assai poco al carattere delle raccolte
del Castello.
La confidenza fu pubblicata e la direttrice venne addirittura censuarta in
pieno consiglio comunale. Si capisce perché. L’acquisto era stato fortemente
voluto da un consigliere leghista , dal cui voto dipendeva la sopravvivenza
della giunta. Dopo l’acquisto il consigliere uscì dal gruppo leghista e passò
all’opposizione.
Il bell’esempio di autonomia dei musei dato da Milano è stato ora seguito da
Firenze. Ritornato soprintendente, ossia a prendere ordini da quei dirigenti
generali cui prima li dava lui, l’ex ministro Paolucci ha estromesso la
direttrice degli Uffizi dall’elaborazione dei programmi di ampliamento del
museo.
Un funzionario che non è mai uscito dall’Italia, come il dottor Paolucci, ha
forse difficoltà a comprendere il carattere internazionale degli Uffizi. Forse
non ha visto che l’autorevole "Burlington Magazine" aveva dedicato
addirittura un editoriale a lode delle trasformazioni dovute all’attuale
direttrice, la dottoressa Anna Maria Petrioli Tofani, la stessa che è ora messa
alla porta.
Anche in questo caso il soprintendente parla di situazione "sbloccata" e non
dice nulla sulle ragioni obiettive, d’indirizzo e tecniche, del contendere,
mentre si appoggia al collega soprintendente per i Beni Architettonici,
attraverso il quale si perpetua la commedia di sempre dei musei italiani di
proprietà dello Stato, sui quali la Soprintendenza per i Beni Architettonici ha
molto più potere che non la direzione del museo.
Il soprintendente fa anche esplicito riferimento al carattere della direttrice,
descritto come ruvido e poco amabile. Non sembra un argomento
scientifico, ma gli interpreti ora pensano che la ventilata autonomia fosse
soltanto un marchingegno per togliersi dai piedi una collega scomoda.
Domani accadrà
Giovanna Grignaffini Le mani sono ancora piene dei gesti che hanno portato all'approvazione
della finanziaria e dei numerosi decreti che ostacolavano la vita del
Parlamento. La testa è già protesa verso l'istituzione della Bicamerale e la
nuova stagione di riforme che essa inaugura. Eppure l'incidente è nell'aria in
questo apparentemente tranquillo mercoledì 15 gennaio. Già lo avevano
annunciato ieri alcune verifiche del tabellone: 8,10,15,6. Sono 6 voti di
scarto tra maggioranza e opposizione. Per non parlare di quel clima troppo
rilassato che registra senza apprensione la presa di distanza di Rifondazione
Comunista e le troppe assenze nei banchi della maggioranza.
Eppure il provvedimento che chiude la giornata non è di poco conto rispetto
alle strategie di politica economica del Governo, visto che esso attiva gli
strumenti tecnici necessari per procedere alla privatizzazzione della Stet.
Ma tutto tace. Nessuna frenesia, trattativa, telefonate, conta, verifica, clima
d'attesa. Anche le dichiarazioni di voto finale ripetono uno stanco rituale. Le
decine di voti che l'hanno preceduto sembrano aver definitivamente
confermato un'antica leggenda che racconta del sogno di onnipotenza del
governo e della maggioranza così come della fragilità impotente
dell'opposizione.
Alcuni deputati lasciano improvvidamente l'aula. Molti altri, troppi,
altrettanto improvvidamente, non l'hanno mai raggiunta.
Quanti tra gli assenti e tra i presenti sanno? In quanti arrivano avvertiti di
fronte a questo ennesimo scontro?
Alcuni sguardi di paura attraversano l'aula come fendenti ma sembra solo
l'esercizio di un abituale esorcismo materno del pericolo. Ma, soprattutto, è
troppo tardi.
32 astenuti, 230 favorevoli, 234 contrari: La Camera respinge.
Ci vogliono alcuni istanti per attraversare tutto intero lo stupore, per farlo
esplodere, di là in entusiasmo, di qua in rabbia e rancore.
Si compulsano i tabulati, si inveisce col vicino assente, si deplora
l'incapacità di mediazione del Governo, si distribuiscono diversamente le
responsabilità tra i vari gruppi, si stigmatizzano i vuoti più inspiegabili, si
censura l'atteggiamento di Rifondazione: si cerca invano di ritrovare l'anima
dentro un giocattolo irrimediabilmente rotto.
Domani ci diranno che verranno comunque salvati gli effetti del decreto
bocciato, che Rifondazione aveva coerentemente avvisato, che molti assenti
erano giustificati, che le telefonate, i richiami, i contatti e le trattative si
erano sprecati. Insomma che tutto era stato tentato, è tutto in ordine, tanto
rumore per nulla.
E tuttavia resta dentro ognuno di noi la consapevolezza di essere più piccoli
di fronte all'alchimia di un giocattolo che può andare in mille pezzi ad ogni
occasione. La consapevolezza insomma che domani, come ogni altro giorno,
dovrà ogni volta accadere un piccolo miracolo perché non torni a ripetersi
ciò che è accaduto oggi.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)
2. POESIA A LUCCHETTO
Bravo cosmopolita
Sono onesto, sono probo:
vado in giro per il xyyyy.
Cuculo
Grave forma di pazzia:
mi fan la yyyyxxxxx.
Bibliomane disordinato
Leggo molto e tengo certi
ponderosi xxxx xyyyyy.
Tennis club
Sei a sei, caro Jack?
Si decide yyy yyx-xxxxx.
Comunanza Culturale
E’ la lingua di Mosé
posso dir, l’xxxxx xyyyy.
Avversari e gentiluomini
Son scacchisti cavalieri:
"scegli pur, voui i bianchi y y yyxx?"
Constatazione
Non ci vuole poi un gran fisico
per giocare bene a Xxyyyy...
Fama d’attrice
Claudia ha le physique du r“ le.
"Sai il cognome?" "yy:Yyxx"
Donna moderna
E’ attiva e non ha ignavia
la Carmen Xxyyy Yyyyyyy
Rubacuori parigina
La vedeste nei bistrot
yyy yyyy, yy yxxxxx.
Campagne abbandonate
Vivon solo quattro vecchi
fra terreni yyyyyy, xxxxxx.
SOLUZIONI
I paragoni fra le arti sono un tema prediletto della trattatistica, per esempio
cinque e seicentesca. Nell'inseguire il mito del primato il teorico compiva
uno sforzo non solo retorico verso la comprensione delle caratteristiche
specifiche delle singole Arti, spesso in concomitanza con mutamenti della
sensibilità che si esprimevano nel successo della pittura sulla musica o della
poesia sulla pittura.
Benché ipotizzare la superiorità di un'arte sull'altra sia per noi abbastanza
inaccettabile, non si può fare a meno di notare che, osservati a distanza, in
determinati contesti, alcuni linguaggi sviluppano poetiche e forme
espressive in modo più radicale di altri, il che non significa affatto che
riescano a mantenere a lungo questo primato (un primato sperimentale, di
ricerca potremmo dire, più che una gerarchia assoluta).
Quindi, in determinate congiunture, una forma espressiva è disponibile a
divenire formante più di un'altra o, in altri termini, un determinato contesto
pensa meglio attraverso certi linguaggi piuttosto che altri.
Non sto dicendo niente di nuovo: Panofsky, Lotman o Mac Luhan hanno
riconosciuto in analisi esemplari alcuni di questi processi.
In The Pillow Book Peter Greenaway stabilisce una identità fra lo schermo
cinematografico e la pagina: lo schermo diventa un supporto di scritture.
Anche se celebra il gesto manuale della scrittura, il film ostenta il carattere
elettronico della composizione figurativa; le finestre che si aprono
contemporaneamente negano l'illusione tridimensionale della scena
rappresentata e tutte le figurazioni rispettano e obbediscono alle dimensioni
verticale e orizzontale. Attraverso questa somiglianza fra le finestre con cui
lavoriamo quotidianamente sui nostri pc, Greenaway qualifica lo spazio
elettronico come dimensione multipla e fortemente bidimensionale. A suo
modo Greenaway riporta alla forma bidimensionale della Scrittura tanto lo
spazio cinematografico che l'idea dell'immagine elettronica. Non posso fare
a meno di aprire una parentesi ( ).
Vedi Anche:
cinema.it
Fumetti
a cura di Comix
Altan
Locale e globale su Internet
Giulio Blasi I romanzi di Bruce Sterling (si pensi a Islands in the Net del 1994) e molta
letteratura cyberpunk ci suggeriscono un’idea della rete come territorio nel
quale le differenze nazionali sono annullate e sostituite con altre "barriere" e
"soglie" (le grandi corporations, la topologia della rete, ecc.) che implicano
forme sociali interamente nuove.
Così, senza volere, assecondando l’interesse dei nostri collaboratori, il settimo Golem si è configurato
abbastanza precisamente come un ritratto del nostro Paese. Aspetti e umori che si rivelano in comportamenti
(Grasso sullo sciopero, Mannheimer sul caso Di Pietro); visioni reciproche di fasce della società (Colombo in
calce ad un forum molto partecipato; Caselli sui Beatles), analisi delle visioni e degli orientamenti che
l’Economia impone (ma lo sa?) alle regole della convivenza (Luttvak, Martino, Sapelli); osservazioni sulla idea
stessa di mediazione politica (Grignaffini) e sul senso di operazioni culturali discutibili e forse inutili (Bertelli).
Forse stiamo cercando qualcosa; i cervelli nel frattempo si esercitano in massa sui giochi proposti da Eco e
Bartezzaghi. Complimenti a tutti.
Con la collaborazione di Publifoto abbiamo preparato un piccolo omaggio a Marcello Mastroianni, un segno di
riconoscenza e affetto che speriamo apprezzerete.
Per tutti gli altri , oltre all’invito ad iscriversi al Club di Golem e a organizzare l’ultima sera dell’anno secondo i
saggi consigli di Blasi, noi auspichiamo Buone cose per questo e per il prossimo anno, di tutto cuore.
avanti
Giostra di fine anno
Quale '97? In collegamento con RAI International e il direttore artistico Renzo Arbore,
Golem invita i suoi lettori e gli spettatori della "Giostra di fine anno" a
partecipare al Forum "Quale '97?".
Edward Luttwak Il comunismo è morto, il socialismo è stato ripudiato dagli stessi socialisti,
sempre meno persone in Europa credono nella religione Cristiana, ma
nonostante tutto sembra che una nuova religione fanatica - praticata anche in
America - sia riuscita a sostituire tutti questi credo: il culto della banca
centrale.
La sua popolarità è dunque assai elevata non tanto (o, se si vuole, non solo)
per quello che ha fatto (né per come lo ha fatto), quanto per ciò che
rappresenta. Per questo la popolarità dell’ex magistrato difficilmente
diminuisce, almeno in questo periodo, e, naturalmente a meno che egli non
compia atti giudicati fortemente riprovevoli (tanto per dire, una rapina in
banca, lo stupro della gatta di casa, ecc.). Certo, l’opinione pubblica è assai
poco sensibile alle minute vicende giudiziarie dell’ex-magistrato e ai suoi
interrogatori. E ciò sia perché (contrariamente a quanto ritengono alcuni
commentatori) coloro che seguono giorno per giorno queste vicende sono,
tra il grande pubblico, relativamente pochi, sia perché vi è comunque, nella
gran parte degli estimatori dell’ex-magistrato, una radicata convinzione
della sua innocenza.
Appare dunque poco utile inseguire i livelli di consenso per Di Pietro giorno
dopo giorno, ipotizzando che cambino a seguito dei diversi interrogatori
giudiziari. Sia poiché i cambiamenti sono minimi, sia, specialmente, poiché
è assai più interessante ed importante comprendere I MOTIVI della sua
popolarità. Anche perché se il suo successo corrisponde ancora oggi a una
diffusa "voglia di nuovo", e se è vero che sta maturando una sfiducia
crescente nell’elettorato, le implicazioni politiche e pratiche di questi
fenomeni, potrebbero essere, con o senza Di Pietro, veramente dirompenti.
Riflessioni sul Forum
Furio Colombo 1. Leggendo gli interventi in rete su Le Tribù giovani, noto che solo uno dei
partecipanti indica la sua età (62). Tutti gli altri? Speriamo che siano
giovani. Questo dato spiegherebbe un tipico errore di metodo proprio
dell’immaturità. Ad una osservazione di linguaggio e costume rispondono
accumulando fatti e ragioni, tipica reazione generazionale. "Non è un
processo, è una conversazione", rispondono in questo caso i padri di fronte
alle reazioni eccessivamente vivaci dei figli.
3. L’autore, da mesi, non viaggia. Sta inchiodato a una sedia ribaltabile (nel
senso che il sedile si alza e si abbassa come al cinema) di Montecitorio dopo
essere stato eletto alla Camera dei Deputati, nella lista dell’Ulivo. Collegio 6
di Torino, il 21 aprile scorso.
Ma se viaggiasse quale sarebbe la differenza? Il gioco era proporre alcune
frasi per chiedere "vero o falso"? Nel caso si diceva che gli uomini italiani
fin quasi a quarant’anni chiamano se stessi "ragazzi". Mentre tutti i ragazzi
americani, anche a dodici anni, chiamano se stessi "uomini". Il gioco ora: è
vero? E se è vero, quale sarà la ragione di una così clamorosa differenza di
linguaggio. Se volete, il gioco continua.
Verdi, moderni o contemporanei
Carlo Bertelli Brevi appunti di fine d’anno. Nell’ultimo mese del 1996 fui molto
imbarazzato nel dover presentare un recentissimo libro di Renato Barilli,
dedicato a ciò che l’autore intende per moderno o per contemporaneo, e un
altro di una sua allieva, Anna Zanchi, che è un’agile monografia su Andrea
Appiani (1754-1813).
Fui sollevato dai due autori, che furono non dico loquaci, ma torrentizi. In
sintesi, Barilli estende le categorie di analisi formale di W” llflin (forma
chiusa contro forma aperta etc.) in un sistema aperto in cui moderno si
contrappone a contemporaneo. Lo schema è integrato dal metodo definito
come "il materialismo storico culturale o, meglio, tecnologico di Marshal
McLuhan e Marvin Harris".
Il contemporaneo si oppone al moderno in quanto quest’ultimo aveva
bisogno di certi strumenti rappresentazionali, come la prospettiva, di cui il
contemporaneo fa a meno in quanto obbedisce alle nuove logiche scaturite
dalla scoperta dell’elettromagnetismo, il quale avvicina i corpi sovvertendo
le norme generali di percezione dello spazio. L’elettromagnetismo fu
scoperto e perfezionato intorno al 1860-1870, ma ciò non toglie che potesse
essere presentito già da artisti di molte generazioni prima.
Purtroppo anche gli artisti "contemporanei" si rivelano a volte "moderni", in
una sindrome del tipo Dr. Jeckill e Mr. Hyde. Il gioco diventa così più
difficile e può generare infinite applicazioni, cui tutti sono invitati a
partecipare. Per esempio, chiedete ai vostri amici se portare la barba è
moderno o contemporaneo, se fare vacanze esotiche è contemporaneo o
moderno, quando la pelliccia ecologica è stata moderna e quando è divenuta
contemporanea.
Il secondo libro è un’apologia di Appiani come pittore contemporaneo.
Tanto contemporaneo da portare dritto dritto a Previati. Come diceva
Mefistofele a Faust: "Con questa pozione riconoscerai ogni femmina
Margherita".
6. GIOCATORE BURLONE
7. SCHEMA D’ATTACCO
9. ZAZZARAZZAZ
SOLUZIONI
1. ma è l’Inter
2. Milan: rete
3. me le tiran
4. il tre mena
5. in me l’arte
6. ilarmente
7. mentre ali
8. al termine
9. tra "meline" (la "melina) è il loffio titìc e titòc a cui a fine partita si
abbandona, a centrocampo, la squadra in vantaggio o comunque
desiderosa di giungere al termine della partita senza rischiare di
subire danni. Essendo la "mela" il pallone, secondo antica metafora,
"melina" significa "piccola mela", e ad alcuni farà perciò venire in
mente una canzone di Francesco De Gregori. In tale canzone ogni
verso veniva ripetuto due volte: "metto in tasca una piccola mela:
metto in tasca una piccola mela"; "la figlia del dottore sa cantare: la
figlia del dottore sa cantare"; e così via, come se il cantautore si
rivolgesse pazientemente a un sordastro).
10. terminale
Musica
Roberto Caselli Prima era il nulla, poi furono i Beatles.
Il trono che il rock’n’roll si è conquistato in paradiso, così come le mille
elaborazioni che si sono succedute musicalmente in questi ultimi trent’anni
sono gran parte conseguenza della loro comparsa in scena, avvenuta in quel
lontano ottobre del 1962. A ventisei anni dallo scioglimento ufficiale del
gruppo, il fenomeno Beatles presenta ancora oggi aspetti sociologici
irrisolti, non è infatti chiaro se tanto entusiasmo, tuttora dimostrato nei loro
confronti, sia il frutto di un capolavoro di marketing o di un effettivo
coinvolgimento intergenerazionale dovuto al richiamo di chissà quale
inconscio collettivo. Fatto è che i CD dei Beatles resistono da sempre a
prezzo pieno nei negozi e vantano comunque un profitto di vendita più che
soddisfacente, nonostante il loro ultimo album, Let it be, risalga al 1970.
Recentemente si è poi assistito ad una vera e propria corsa al cimelio. Oltre
alla riedizione di due antologie, costituite da doppi CD, che raccolgono quel
materiale selezionato ai tempi nei cosiddetti album rosso e blu, due anni fa
hanno visto la luce le registrazioni live fatte alla BBC durante i loro primi
anni di carriera. Ma il vero colpo di genio della casa discografica è stato poi
quello di annunciare l’edizione di tre ulteriori album doppi che avrebbero
inserito ben centocinqanta pezzi ripresi da prove, takes alternative e
artificiose ricostruzioni, la più famosa delle quali è rappresentata da Free As
A Bird, un vecchio pezzo di Lennon, miracolosamente reinciso postumo con
la partecipazione dei restanti tre Beatles.
Usciti questi ultimi lavori, l’ultimo dei quali il mese scorso, e visto che il
business Beatles macina ancora denaro a palate, dal mondo audio si è
passati a quello video. L’annuncio è sensazionale, un’Anthology Video
formata da otto videocassette, vendibili anche separatamente, è disponibile
in tutti i negozi. Verrà rivisitata la carriera dei Beatles dalla loro formazione
allo scioglimento, otto anni di musica, interviste e trasgressione che il road
manager Neil Aspinall, con l’aiuto del regista Chips Chipperfield, ha
confezionato cucendo tra di loro una montagna disordinata di filmati.
La macchina Beatles, come si vede, procede anche senza autisti. Non c’è
alcun dubbio che i rimanenti baronetti guadagnino più di diritti che non di
nuovi dischi; dal canto suo la casa discografica ha trovato i tempi e i modi
giusti per evitare un possibile oblio.
Con poco più di mezzo milione si possono acquistare gli ultimi quattro CD
doppi usciti e l’intera collezione video. Troppo caro? Vedete voi, è Natale.
Libere associazioni
Rossana Di Fazio Quando un film mi ispira o mi incuriosisce non voglio leggere niente che lo
riguardi prima di averlo visto.
Così sono andata a vedere Crash (Cronenberg) sforzandomi di non saperne
niente. Penso che sia un film perfettamente riuscito (regia, fotografia, attori,
colonna sonora...). Solo, mi è sembrato di essere andata all'inferno e la
sensazione ha pesato su di me per qualche giorno. Poi mi è scivolato via
tutto, l'odore di bruciato e la sensazione di aver subito un torto.
Questo fatto mi interessa. Giustifica, mi sembra, un sentimento di fastidio e
anche di noia che ho provato nel secondo tempo, di fronte ai primi piani
delle cicatrici, all'apoteosi delle protesi, alla ripetizione compulsiva di inutili
amplessi. Ho provato un profondo senso di ingiustizia di fronte alla
desolazione di un’aria spessa e odorosa di organi e secrezioni metalliche e
umane.
Qualcuno in platea, per difendersi da tanta tristezza, raccoglieva ogni
occasione per volgere in ridicolo brani di dialogo, per sopravvivere alle
conseguenze estenuanti di premesse che si verificano all'infinito. A questo
incubo non serviva una storia. Forse la forma del racconto, inteso come
evoluzione e sviluppo, non è adatta agli incubi; la sola catarsi dell’incubo è
il risveglio.
Molti osservatori hanno sostenuto contro la censura l’idea che la letteratura
(e il cinema) riflettono o amplificano aspetti barbari e malati che
appartengono al mondo prima che alla letteratura. Non mi sembra un buon
argomento. La letteratura (e il cinema, ma forse potremmo dire la
narrazione, perché anche l’informazione non è estranea da questo effetto)
genera realtà. Questa produzione di realtà porta con sé una questione etica
che i censori non conoscono e i libertari, giustamente occupati a contrastare
ogni forma di censura, preferiscono non riconoscere come problema.
Divisa fra le cronache di realtà insostenibili, la loro sublimazione artistica e
il rovescio di tutto questo (le macchine sentimentali di Hollywood sempre
più indistinguibili dall’immaginario pubblicitario) riconosco a me stessa un
grande bisogno di vera commedia o, potrei dire, di musica.
Ho notato infatti che in alcuni film che considero vere commedie la musica
è regina. Grace of My Heart (Allison Anders), Shine (Scott Hicks) sono film
molto diversi fra loro, ma il valore di gesti minuti, delle intonazioni della
voce (perdute irrimediabilmente nel doppiaggio), il senso di un racconto che
evolve: tutto questo viene tenuto insieme dalla Musica, che pure gioca un
ruolo diverso in tutti e due i film.
La Musica è un modo di parlare del Tempo, lo descrive e lo qualifica
agganciandolo a una storia individuale, di gruppo, di umane dimensioni.
Non importa che sia o no una musica sublime o originale: la musica
leggerissima di Grace of My Heart all’inizio del film è ai limiti della
stupidità, ma questa misura discreta in una buona commedia diventa degna
di essere raccontata. Il titolo è molto eloquente: grazia è una parola fuori
moda che ben si addice al carattere effimero e immateriale della voce. Alla
fine di Shine io non posso giudicare se l'esecuzione di David sia sublime o
soltanto decente: quello che conta è che lui è ancora lì a suonare. David fa
un bel gesto: si copre il volto con le mani, per il pudore di non mostrare la
sua grande contentezza e commozione. In questo mostrare e nascondere
vedo uno dei segreti della vera commedia e credo che sia davvero difficile
mantenere la misura di questo equilibrio senza diventare finti, sentimentali o
decisamente comici.
In una buona commedia c’è posto per tutto e non si rischia il ridicolo
involontario perché si sa sorridere.
Una buona commedia produce un senso denso e lieve dell’esistenza, che
permane nell’esperienza di chi ha la fortuna di vederla e contrasta i colpi di
durissima realtà che da ogni parte ci minacciano. Una buona commedia è
una cosa difficilissima che ha tante sfaccettature e che invece sembra
semplice.
Vedi Anche:
cinema.it
Fumetti
a cura di Comix
Altan
Un Capodanno digitale
Giulio Blasi Mentre auguro ai surfisti di Internet di respingere la loro tendenza all’onanismo
telematico la notte di Capodanno, voglio abbandonarmi a un esperimento futile per
questo ultimo Golem del 1996. E domandarmi cosa accadrà di speciale la notte del 31
dicembre 1996 su Internet.
In TV, al telefono, alla radio, al cinema, sulla stampa, immaginiamo già - con
ragionevole approssimazione - cosa ci attende nei giorni di festa. Su Internet la cosa è
decisamente più dubbia. Cosa offriranno i 500.000 web server sparsi per il mondo? Di
cosa andrà in cerca il 31 dicembre quella massa di 35-50 milioni di utenti di ogni paese
del mondo oggi connessi alla rete? Di cosa si discuterà nei newsgroup meno tecnici ?
Quali siti saranno preferiti dagli internettisti nei giorni di vacanza? Cosa faranno su
Internet per Capodanno le nostre maggiori emittenti nazionali (RAI, Mediaset, TMC,
Telepiù)?
Ora, sta di fatto che io non ho la minima idea di cosa rispondere ad alcuna di queste
domande. Ma potrei suggerirvi cosa farei io (tra il 31 dicembre e il 1 gennaio) se proprio
volessi togliermi alcune di queste curiosità.
Comincerei ad esempio a guardare quali sono stati i siti più visitati su Yahoo. Yahoo è
un servizio visitato da milioni di utenti al giorno e il dato è senz’altro significativo.
Passerei poi in rassegna i principali motori di ricerca, incerto sulla stringa di testo da
cercare ma certamente a partire dall’ovvio "New Year’s Eve", nella lingua della
maggiore etnia telematica (ma potete poi continuare con "Capodanno 1997" o
quant’altro verrà in mente a voi):
Altavista
Yahoo
Webcrawler
Hotbot
Infoseek
Excite
Andrei poi immediatamente a consultare i newsgroup italiani e non dedicati a temi non
troppo tecnici. Per chi non possiede un "news reader" (il software che serve a leggere le
bacheche elettroniche di Usenet) il solito Altavista farà una ricerca per voi
rimandandovi tutti i messaggi contenenti la stringa "new year’s eve".
Ma la mia vera curiosità (che temo di voler evitare di soddisfare) sarebbe quella di
incontrare gli alieni telematici connessi alla rete il giorno di capodanno per fare chatting
in tempo reale su IRC o su altri sistemi. Se non avete il software adatto potete scaricarlo
da qui. Se non ne avete voglia potete tentare di fare chatting attraverso il web con il
vostro solito browser: ad esempio collegandovi al Club di Italia OnLine o (per i palati
più cyberpunk) al sito di Wired che però richiede un browser Java-compatibile (se non
sapete cosa sia Java rileggete Golem 02).
Nella sua indubitabile demenzialità questo surfing di fine anno pone un problema
interessante: Internet è (o no) un mezzo di comunicazione abbastanza importante da
indurre i fornitori di servizi a considerare le feste di Natale un segmento di palinsesto
autonomo e bisognoso di contenuti specifici? Io personalmente ne dubito, ma non si può
mai dire.
Vorrei infine lanciare un invito ai lettori di Golem che, nonostante i nostri tentativi di
dissuasione, si trovassero a navigare in queste zone tra il 31 dicembre 1996 e il 1
gennaio 1997: mandateci un email per convincerci dell’esistenza (o dell’inesistenza...)
di un pubblico di Internet simile a quello della televisione, della radio, del cinema, della
stampa, della pay tv via satellite o via cavo. Un pubblico in cerca di intrattenimento
natalizio e post-natalizio sui media, ma questa volta "on demand", con il mouse al posto
del telecomando.
Quale '97?
Appuntamenti
Hanno collaborato:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Moni Ovadia, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio, Renato Mannheimer, Giulio
Blasi, Antonio Martino, Carlo Bertelli, Edward Luttwak, Giulio Sapelli, Furio Colombo, Roberto Caselli, Marco
Giusti, Giovanna Grignaffini, Aldo Grasso, Comix, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
Buon divertimento.
Le tribù giovani
Furio Colombo "Sono un ragazzo di 32 anni", dice al telefono l’interlocutore di una delle
tante trasmissioni radiofoniche che intrattengono rapporti col pubblico.
Noto la parola che riemerge martellante, con frequenza. "Sono un ragazzo"
anche quando chi parla ha superato da un pezzo la maggiore età ed è persino
oltre la soglia del servizio militare e della laurea.
Ma è la prima volta che sento la autodefinizione di "ragazzo" per qualcuno
di più di trent’anni.
Eppure ascoltando la telefonata ho dovuto rendermi conto del realismo della
frase. Non era un lamento. Era una descrizione di vita. Abitazione, presso i
genitori. Vita sentimentale: senza impegni. Lavoro: precario, svolto
comunque senza passione e senza attenzione, come il proseguimento della
scuola. Punti di attenzione e di fuoco sulla vita: la musica, ovvero le canzoni.
L’ospite di turno del programma di cui sto parlando era un cantautore. Di
quel cantautore il nostro "ragazzo di 32 anni" sapeva tutto, parole, musica,
concerti, cambiamenti di stile, affinità con cantautori stranieri, eventi del
mixaggio o studi di registrazione.
Il trentaduenne ha definito, in questo modo, una nuova categoria sociale,
quella del ragazzo a vita. O almeno per una lunga parte della vita.
Quella categoria esiste.
E’ più di una categoria, è uno stato della vita che si può definire così: il
treno della vita sociale è fermo. Se posso colorire un po’ la metafora, dirò
che è fermo fuori stazione., in un territorio senza segni particolari,
sconosciuto e irriconoscibile. Nei vagoni di testa, più comodi e arredati ma
altrettanto immobili, sono accomodati gli anziani, protagonisti di vite lunghe
e uguali nelle quali non accade più niente.
Fra le cose che non accadono c’è il fatto che nessuno scende dal treno.
Perché dovrebbe farlo visto che non siamo arrivati in stazione? Però, se
nessuno scende , nessuno sale, nei vagoni di testa. E gli altri vagoni restano
gremiti di "ragazzi" liberi da vere responsabilità, la casa, la famiglia, i figli,
il lavoro.
Voi direte: perché la famiglia, visto che al cuore non si comanda e certo non
lo comandano i ragazzi?
Perché, io credo, se tutto il resto diventa precario o la vita si trasforma in un
campeggio, anche la famiglia diventa più passatempo che impegno. E, se
possibile, senza impegni e senza figli. Che sia questa una delle cause della
denatalità di cui tanto discutiamo?
E’ probabile che "il ragazzo" di 32 anni tuttora occupato con la conoscenza
in dettaglio delle canzoni, sia poco incline a diventare padre. Se lo è
diventato, sarà probabilmente un simpatico amico più che un modello di
vita. Quale vita? Però non posso fare a meno di notare un clamoroso
contrasto linguistico, e mi domando se è solo linguistico. Sto pensando agli
Stati Uniti, Paese a cui tanto spesso ci riferiamo per confrontare, anticipare,
capire, ammirare, condannare.
Bene, negli USA da più di dieci anni, si è diffusa, in modo universale e
senza eccezione, l’abitudine di dire "uomo" tutte le volte che si diceva
"ragazzo". Tanto che la tipica espressione di meraviglia "oh boy" è diventata
senza eccezioni "oh man", e l’intercalare "man" ("listen man", "I tell you,
man") è diventato di uso esclusivo anche tra i bambini.
Allo stesso modo non chiedete mai alle giovanissime alunne di una prima
media "quante ragazzine (young girls) ci sono in classe?". La risposta sarà
"women", "donne", perché così le adolescenti chiamano se stesse negli
USA. E non azzardatevi a usare termini diversi da "uomini" e "donne" con
una classe universitaria. Apparireste ridicoli.
Serve come spiegazione di questa straordinaria e vistosa differenza di parole
la questione lavoro?
Serve (dieci milioni di posti di lavoro creati in quattro anni negli Stati
Uniti), ma non spiega tutto.
Perché il nuovo lavoro americano è quasi sempre precario e tipicamente
"giovane" e il più delle volte è un "posto", non una "carriera".
Forse fa luce il distacco irreversibile della famiglia. I piccoli delle tribù
americane lo sentono prossimo e inevitabile persino quando vivono ancora
in casa. Continuare a vivere in casa invece sembra essere il dato tipico della
lunga giovinezza italiana.
E’ questo il punto?
Perché non chiediamo ai "ragazzi" sopra i 32 anni di dirlo a Golem?
ALTRI SUGGERIMENTI
In vacanza a Samo: Turista per vaso. Campagna contro AIDS: I tre giorni
del condom. La gatta sul tetto che scotta: Miao, maschio. Rivalità tra attori:
Lupi della ribalta. Crisi valutaria: Per qualche dollaro in giù. Aumento
tasse in Usa: Privaci ancora, Sam. Brindisi per vincita alla lotteria: Prendi
i soldi e stappa. Portavoce berlusconiano: Il tamburo di Letta. Vita del
dottor Gibaud: La pancera rosa. In attesa di Gesù: Indovina chi viene a
Cana. Staff chirurgico a Casablanca: Operiamo, che sia femmina. Mania
di acquistar gioielli: Coazione da Tiffany. Ufficiale giudiziario da Flaubert:
Pignora Bovary. Sogno di Berlusconi: Fotto gli ulivi.
La risposta sembra, ovviamente, sì: secondo i calcoli della Fao oggi ci sono
circa 800 milioni di persone malnutrite nel mondo, e secondo le proiezioni
al 2020, effettuate dall'International Food Policy Research Institute degli
Stati Uniti, la situazione dovrebbe complessivamente in media migliorare un
po’, mentre per l'Africa Sub-Sahariana è previsto un drammatico
peggioramento.
Vedi Anche:
http://www.fao.org/
Lettera al Ministro per i Beni Culturali
Vittorio Gregotti Caro Veltroni,
Vi sono due aspetti della cultura architettonica italiana di cui mi piacerebbe
discutere con Lei e vorrei che Lei considerasse questa mia lettera solo un
avvio a tale discussione.
Il primo di questi aspetti riguarda alcune delle ragioni del deplorevole stato
di decadenza in cui versa la cultura architettonica in Italia.
Il secondo aspetto è l’ancor più deplorevole mancanza di sostegno che essa
riceve dallo Stato italiano, specie se questo viene confrontato con le
iniziative al riguardo
promosse dagli altri Stati europei, per non parlare degli Stati Uniti o del
Giappone.
Per il primo aspetto ho scritto qualche anno fa un piccolo libro nel quale è
dedicato un capitolo a questa questione: se avrà tempo di leggerlo, potrà
farsi un’idea delle molte questioni e ragioni. Comunque esse sono in larga
parte interne alla nostra disciplina e forse bisognerebbe rassegnarsi alle
ondulazioni della storia. Anche la Venezia del Seicento ha prodotto pittori
scarsi se paragonati al secolo precedente o a quello seguente.
Il secondo aspetto invece riguarda direttamente la Sua carica di Vice
Presidente del Consiglio ancor prima di quella di Ministro per i Beni
Culturali.
Dividerò la questione schematicamente in tre parti anche se sono in effetti
aspetti di un tutto.
La prima parte riguarda il disinteresse ormai storico del governo italiano a
rappresentarsi attraverso l’architettura. Sarà forse un tardo complesso nei
confronti
delle vaste operazioni fatte negli anni Trenta dal regime fascista in questo
campo, ma non riesco a ricordare neanche una riforma urbana o un edificio
significativo di
qualche qualità promosso dalla Repubblica italiana nel suo mezzo secolo di
vita.
Questo disprezzo della qualità architettonica ha fatto sì che gli unici sforzi
compiuti siano alla fine quelli corporativi. La preoccupazione di distribuire i
lavori, e non quella della qualità della cosa, ha spinto all’obbligo di
concorso per le iniziative pubbliche, concorsi peraltro assai scarsi di numero
rispetto a quelli europei, poco articolati per categorie di problemi e quindi
poco permeabili alle giovani generazioni.
Peraltro i primi sforzi dell’attuale Ministro dei Lavori Pubblici sono tutti
volti a riavviare, moralizzandoli, i grandi appalti pubblici. Cosa
importantissima, ma non una parola è stata spesa sul tema della qualità.
Inoltre si tende a concepire strettamente l’architettura come edilizia
singolare; questo esclude dalle sue competenze altre questioni
importantissime, per esempio il disegno delle infrastrutture o la regolazione
dei grandi spazi aperti collettivi o la localizzazione ed il disegno dei sistemi
di produzione dell’energia, ecc., ecc. Una direzione generale del Ministero
dei Lavori Pubblici responsabile della qualità degli interventi architettonici
ed urbani come quella che sotto la presidenza Mitterand ha
permesso di portare l’architettura francese in vent’anni ad essere una delle
più interessanti d’Europa, è certo un esempio da studiare.
La seconda parte riguarda l’insegnamento dell’architettura. In Italia ci sono
60.000 studenti di architettura contro i 13.000 medi degli stati della
Comunità. Nelle facoltà di architettura si ammucchiano inarticolate persone
che vogliono fare i designer, gli urbanisti, i landscaper, gli storici, i
restauratori, i grafici e moltissime che ormai frequentano per rimandare le
difficili scelte di lavoro; ma con il mondo del lavoro le facoltà di architettura
hanno quasi del tutto ridotto la comunicazione.
Naturalmente a questo fa riscontro il fatto che, al di là delle carenze
strumentali e funzionali, non vi sarebbero fatalmente buoni insegnanti per
più di quattro o cinque
facoltà, mentre ve ne sono quattordici.
L’insegnamento dell’architettura è in crisi in tutto il mondo, ma da noi
manca ogni base per ritrovare un senso al suo insieme.
La terza parte della mia piccola perorazione riguarda l’appoggio del nostro
governo al nostro lavoro internazionale di architetti. Non esigo che ci si
spinga, come hanno fatto Francia e Stati Uniti, a contrattare per esempio con
la Germania incarichi internazionali di prestigio, o a nominare “Sir” i
quattro o cinque architetti importanti inglesi. Ma quando qualcuno di noi ha
la fortuna di essere invitato a partecipare o di vincere qualche grande
concorso internazionale, si sente del tutto abbandonato dalle nostre
ambasciate o dai nostri istituti di cultura. Francesi, tedeschi, americani e
giapponesi fanno dei propri architetti, se non proprio degli eroi nazionali, un
elemento importante della diffusione della propria cultura: questo perché
riconoscono nell’architettura un ruolo di costituzione della propria identità
nazionale e quindi diffondono le proprie mostre, aiutano a tradurre i libri dei
propri protagonisti architetti, organizzano mostre, ecc., ecc. Questo per
trovarci a competere internazionalmente, se possibile, alla pari.
Mi rendo conto che vi sono per Lei e per il governo altre priorità da
affrontare ma credo che le speranze di una relazione nuova tra governo e
cultura italiana non debbano essere deluse e che sia necessario aprire un
canale di comunicazione e di collaborazione positiva con essa: specie con le
periferie del nord.
Vedi Anche:
http://www.altavista.digital.com/cgi-bin/query?
pg=q&what=web&fmt=.&q=%22vittorio+gregotti%
22
http://www.altavista.digital.com/cgi-bin/query?
pg=q&what=web&fmt=.&q=architettura
http://www.yahoo.com/Arts/Design_Arts/Architecture/
Le riscoperte di Liberal
Ranieri Polese Lo sapevate, lo immaginavate voi qual è stato il punto più buio, il momento
più ignobile del cinquantennio della Prima Repubblica? In senso cultural-
politico, s’intende, per quel che riguarda cioè la produzione di pensieri
parole opere romanzi musiche film ecc. che tradizionalmente si definiscono
cultura? Fortunatamente, con un articolo di Giuliano Zincone, il numero di
novembre della rivista "Liberal" viene a dircelo: è stata la mancata
comprensione delle canzoni di Claudio Baglioni, il cantante di Passerotto
non andare via, Questo piccolo grande amore e Strada facendo. Che avrà
avuto, sì, molti primi posti nelle hit parade e clamorosi riscontri di
popolarità. Ma è pur sempre rimasto un paria, un reietto. Uno insomma che
l’intelligenza di sinistra non voleva non voleva nemmeno ascoltare. Che
stupida cattiveria occorre, non vi pare?
Sondaggio Troppi maschi! E vero che tutte le ricerche più recenti hanno mostrato che il
pubblico di Internet in Italia (ma non altrove) è costituito in grande
a cura di Renato Mannheimer prevalenza di maschi, ma c’era da sperare che questa situazione non si
ripercuotesse necessariamente su chi segue Golem. Invece, hanno risposto al
questionario di Golem 516 maschi (il 90%) e solo 58 femmine. Per il resto,
le caratteristiche dei partecipanti rispondono a quanto ci si aspettava: una
‘punta’ tra i 26 e i 45 anni; prevalenza relativa di impiegati e dirigenti; una
distribuzione territoriale che vede una concentrazione al Nord Ovest, ma al
tempo stesso, una buona presenza al Sud.
Gli interessi espressi dai lettori di Golem paiono assai significativi. La
cultura (ma non la politica e l’economia) è al primo posto, con più dell’80%
di preferenze, con una maggiore presenza relativa delle (poche) donne
rispondenti.
Segue, come oggetto di interesse Internet., ‘votato’ prevalentemente dai più
giovani.
Fanalino di coda l’economia: interessa a meno della metà dei lettori con
‘punte’ tra i meno giovani e, significativamente, tra i rispondenti che
risiedono nel solito Nord-Est.
Maschi 89.9%
Femmine 10.1%
Imprenditori 7.1%
Libero professionista 20.4%
Dirigente 8.5%
Impiegato 22.5%
Operaio 1.0%
Studente 13.4%
Casalinga 0.3%
Pensionato 2.8%
Disoccupato 1.2%
Non indica 22.6%
Nord-Ovest 32.9%
Nord-Est 19.7%
Centro 24.6%
Sud-Isole 15.2%
Estero 3.3%
Non indica 4.4%
Gli interessi dei lettori di Golem (% che hanno espresso interesse per..)
Cultura 81.5%
Internet 78.7%
Informazione 75.4%
Politica 62.5%
Economia 43.7%
Riflessioni per un libro.
Anzi due, o forse tre.
Aldo Grasso Al crocevia della comunicazione, in Italia, c’è Maurizio Costanzo. Che
occupa lo schermo sette giorni su sette, che tiene un diario su un quotidiano
della Capitale, che collabora a una radio, che è titolare di rubriche su alcuni
settimanali, che è, si dice ancora così, titolare di un insegnamento sulla Tv
all’Università La Sapienza di Roma, che è il marito di una conduttrice
televisiva, che scrive libri a getto continuo per diverse case editrici, che è
consulente per D’Alema dell’immagine della Quercia, che insegna
comunicazione ai dirigenti d’azienda, che...
Kaos edizioni, la casa editrice che deve anche la sua fortuna a tre libri su
Silvio Berlusconi ("Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv", "Berlusconi, Gli
affari del presidente", "Le mazzette della Fininvest") pubblicizza sui
maggiori quotidiani il libro di Bocca con queste due frasi: "Il libro-inchiesta
censurato da tutti i mass media di regime"; "Non l’ho letto e non lo
leggerò... Lascio questo libro alla clandestinità cui è destinato". Firmato
Maurizio Costanzo.
La diffusione dei libri segue vie di comunicazione che, non di rado, esulano
da mass media tradizionali. I libri invisi al regime spesso godono di buona
fortuna editoriale.
http://www.altavista.digital.com/cgi-bin/query?
pg=q&what=web&fmt=.&q=%
22maurizio+costanzo%22
Ad Aldo Grasso
Maurizio Costanzo Caro Professore, si tranquillizzi: dalle infamie mi difenderò al momento
opportuno, nelle sedi più opportune. Non sono stato mai così tranquillo dal
momento che quando ho commesso qualche errore non ho avuto problemi a
parlarne pubblicamente. Se poi Lei ritiene attività scrupolosa un killeraggio,
La lascio ovviamente alla sua idea. Come Lei sa, Pirandello era solito
ripetere che le commedie si discutono al terzo atto. Lei è persona colta e
intelligente: non la sfiora il dubbio che il non fare cassa di risonanza a
operazioni scandalistiche rappresenti una valutazione nel merito
dell’operazione e non, come Lei adombra, una censura?
A presto, con molti cordiali saluti.
Replica
Aldo Grasso Il "possiamo ricominciare da capo?" era una domanda retorica e in quanto
tale ha subito ricevuto un’autorevole risposta, prima ancora di entrare in
Rete.
Io non volevo recensire il libro di Riccardo Bocca e infatti non l’ho
recensito. Né, tantomeno, mi sono prestato a fare da cassa di risonanza. Mi
interessava soltanto, di fronte ad una pietra gettata nello stagno del mondo
della comunicazione, rilevare alcuni comportamenti e modalità sulla
diffusione dei libri che parlano di comunicazione. Ho scelto la sede di
"Golem" per queste riflessioni perché mi sembrava la più opportuna, la più
mirata, la più tecnologicamente acconcia a ricevere arricchimenti. Si scrive
su Internet e non su un giornale quando si è disposti ad essere "penetrati"
dagli interventi di altri.
Ho usato un solo aggettivo che può sembrare sbilanciato, ed è "scrupoloso".
Mi pareva, per un libro che Galli della Loggia vuole candidare al premio
Pulitzer, più elegante di "ossessivo", "smodato", "imperversato". Non sono
entrato nel merito e non ci voglio entrare.
Commento (05/12/96)
Riccardo Bocca Abbiamo ricevuto da Riccardo Bocca un commento, che qui di seguito
pubblichiamo, ai temi sollevati da Aldo Grasso e Maurizio Costanzo su
questo numero di Golem.
Il 1992 era l’anno del quinto centenario dalla morte di Piero della Francesca.
Scrivendo su Piero, avevo guardato anche io con curiosità una forma
tondeggiante, nello sguincio d’una finestra, che non capivo se fosse un uovo
dipinto o una lampadina. Capisco che prendere un appuntamento con la
soprintendenza e andare a vedere sarebbe stata la cosa più facile. Ma in quel
tempo stavo a Losanna o a Milano e andavo su e giù a San Sepolcro e
Arezzo con mezzi pubblici (non posseggo un’automobile) e, confesso,
avevo un po’ paura di fare una pessima figura chiedendo di vedere una
lampadina.
Ma ora che i restauri sono finiti, è tutto chiaro. Nel cielo della finestra
centinata Luca Signorelli ha dipinto proprio un uovo, visto in prospettiva dal
basso e appeso a una catena.
Autogolem infilza collanine di testi in ognuno dei quali una parola viene
nascosta da una serie di ics. Tutte le parola nascoste della stessa collana
sono anagrammi l’una dell’altra. La prima collana è contraddistinta da
lettere; la seconda (stretta e assai soffocante), da numeri romani; la terza, da
numeri arabi. La terza è quella che darà meno dispiaceri ai puristi. I versi
enigmatici di B e di III sono "maltusiani". Così con imprecisa efficacia si
nominano i versi interrupti, quelli in cui viene troncato qualcosa che
vorrebbe tanto giungere a compimento: la parola finale. Grande poeta
maltusiano fu Petrolini: "puoi suonarla in mille mod" (la chitarra).
B. IL TOGATO SI PRESENTA
1. IL CAMERIERE PRUDENTE
Reggicalze o falpalà,
qualche cosa ti cadrà.
La raccolgo, eccomi qua:
ma sia chiaro: Honni xxxx..."
SOLUZIONI
LETTERE
A. punti
B. un tip
C. input
NUMERI ROMANI
I. output
II. tutù, op!
III. può tut
NUMERI ARABI
1. osti
2. ti so
3. Otis
4. soit
5. sito
Musica
Roberto Caselli
A ben guardare non c’è molto altro. Se in questi ultimi trent’anni togliamo
dalla musica italiana l’opera cantautorale, rimane qualche isolato tentativo
di fare del rock serio, peraltro spesso abortito, e tanta canzonetta che è ben
poca cosa se la si esanima appena aldilà dell’orecchiabilità. Lo zoccolo duro
della cultura musicale leggera è dunque ancora patrimonio di un pugno di
personaggi storici che ogni tanto palesa anche qualche stanchezza,
soprattutto quando è legato a scadenze contrattuali che impongono ritmi
troppo veloci rispetto a quelli che sarebbero necessari.
In questo ultimo mese, per una sorta di strano appuntamento, si sono trovati
a presentare l’ultimo lavoro quasi tutti i cantautori più quotati di casa nostra.
Le vetrine mostrano a stretto contatto i CD di Francesco De Gregori
(Prendere o lasciare), Fabrizio De André (Anime salve), Lucio Dalla
(Canzoni), Franco Battiato (L’imboscata), Francesco Guccini (D’amore, di
Morte e di Altre Sciocchezze) e del più giovane Vinicio Capossela (Il Ballo
di San Vito), una scala reale che creerà legittime difficoltà di scelta a tutti
gli appassionati con il portafogli non proprio gonfio. Ma il livello di questi
dischi è sempre all’altezza della fama di chi li ha registrati o c’è qualche
legittimo dubbio sul famoso salvataggio in corner dovuto al mestiere o al
cliché? In gran parte i lavori sono buoni, ma quasi mai eccellenti, se si
esclude De André che davvero ha dato molto (non a caso si è preso sei anni
di tempo), quasi tutti gli altri hanno pezzi molto belli che si alternano ad
altri decisamente più deboli.
La regola, si dirà. Certo, anche se rimane il dubbio che le pressioni dei
discografici e la necessità di non finire troppo obliati in faccia li faccia
puntare su pochi cavalli di battaglia per poi far seguire tutto il resto. La
critica in questi casi, in virtù di una specie di debito di riconoscenza che
porta ad essere tolleranti, glissa sul meno buono ed esalta ciò che merita
senza essere troppo obiettiva. Abbiamo, in verità, tutti imparato ad amarli
così tanto i nostri cantautori da permettere loro qualche caduta di stile senza
essere troppo severi. Il disco lo compriamo lo stesso e poi, a forza di
ascoltarlo, finisce che diventa anche carino.
Come al solito il problema è conciliare la creatività con la commerciabilità,
un bel dilemma che il povero acquirente, a meno di intrasigenze assolute,
può permettersi solo di subire.
Riflessi di un romanzo: Ritratto di signora
Rossana Di Fazio Indubbiamente Ritratto di signora sarebbe un caso interessante per
osservare i rapporti fra cinema e letteratura. Il romanzo d'origine è infatti
uno dei più belli e complessi del secolo scorso, e soprattutto la concezione
del racconto nella scrittura di Henry James è davvero imprescindibile dallo
stile, che si caratterizza, fra l’altro, per una certa distanza che il narratore
mantiene dai suoi personaggi, concedendo loro, con il mezzo di una scrittura
incredibilmente nitida, il massimo di profondità, senza mai divenire loro
complice e astenendosi dal mostrare comprensione o compassione per le
loro situazioni, delle quali però articola ogni possibile complessità. Li vede
completamente, ma senza indulgenza e questa peculiarità, questo sospendere
ogni giudizio e affetto verso il personaggio è, forse, all’origine di un effetto
pieno/vuoto grazie al quale tutto quello che il narratore non dice dei
personaggi dà loro uno spessore vivissimo, perché essi non coincidono mai
completamente con le cose che dicono e fanno.
In sala non si può fare a meno di soffrire la mancanza di tutto quel collante
di analisi, descrizioni, argomenti dai quali James fa scaturire ogni parola dei
personaggi.
In sala viene da pensare "ecco dove si capisce che un romanzo non è mai
solo una storia" .
Non lo so; ma, nonostante fossi abbastanza prevenuta nei confronti del film,
ho apprezzato l'imponenza del lavoro di messa in scena.
Ho apprezzato la scelta dei titoli di testa. Molti vi hanno riconosciuto un
tentativo di riannodare il destino della protagonista a quello delle donne di
ogni epoca. Non mi piace tirare questa specie di conclusioni; credo piuttosto
che questi titoli, tanto diversi da tutto il resto, formino una robusta cornice
del film, che ne distanzia il racconto e ne accentua il carattere di rilettura del
romanzo.
Questa ricerca rivela una concezione alta del lavoro della trasposizione,
anche quando realizza soluzioni non sempre convincenti (i numerosi ralenti
che modificano la percezione del tempo) perché interessa aspetti più
profondi di quelli legati alla trama e ricerca corrispondenze fra linguaggi
diversi, modi in cui immagini filmate e stili di scrittura riescono a
raggiungere analoghi effetti, ben sapendo che è dallo stile e dalla forma che
un racconto, un bel racconto, prende vita.
Vedi Anche:
cinema.it
Sorprese dal Golfo
Silvana Rizzi Un avvenimento d'eccezione porta a riscoprire la Spezia. Nel cuore della
città ligure, nell'ex-convento seicentesco dei Paolotti ristrutturato, il 30
novembre ha aperto le sue porte il Museo Amedeo Lia, evento
accompagnato da una storia degna del Rinascimento. La preziosa collezione
oggi visitabile dal grande pubblico è stata donata al comune solo un anno fa
dall'ottantaduenne imprenditore e mecenate spezzino Amedeo Lia che, in
cinquant'anni, ha messo insieme uno straordinario patrimonio artistico: oltre
mille opere che documentano l'arte italiana ed europea, dall'epoca classica al
Medioevo all'età moderna.
La raccolta, unica nel suo genere è, secondo lo storico dell'arte Federico
Zeri, la più importante d'Europa per qualità dei pezzi e per le scelte operate
dal collezionista. Annovera miniature, dipinti, sculture di bronzo, avorio e
legno, vetri, maioliche e oggetti d'arte di tutti i generi, come smalti, ferri
battuti e coralli. La quadreria occupa un piano intero dell'ex-convento. Tra i
capolavori esposti, i cosiddetti primitivi costituiscono il nucleo principale
con oltre settanta opere che spaziano dal XIII al XV secolo. Incantano per lo
splendore dei tratti e dei colori le tavole di Pietro Lorenzetti, Lippo di
Benivieni e Bernardo Daddi. Procedendo nel tempo, sono i veneti a far la
parte del leone con Tiziano, Tintoretto, Pietro Longhi fino al Tiepolo.
La visita al Museo Lia invita a visitare alla città. La Spezia non possiede
monumenti di particolare interesse, ma i bei palazzi ottocenteschi e stile
Liberty, allineati nella celebre via Chiodo, dal nome dell'ingegnere che
progettò l'arsenale militare voluto dal conte di Cavour, ricordano un periodo
di splendore. Tra la fine dell'Ottocento e gli anni Trenta, a la Spezia si dava
infatti appuntamento il bel mondo che ruotava intorno alla Marina militare,
e la città godeva di un grande sviluppo grazie ai cantieri navali, ora in forte
ripresa.
Oggi per gli appassionati di mare, meta d'obbligo è la visita al Museo navale
della Marina militare, in piazza Chiodo, ricco di cimeli, modelli, sezioni di
scafi, apparecchiature e materiali relativi a varie epoche: dalle zattere
primitive alle navi egizie, dalle galere romane a esemplari di navi dell'ultima
guerra. Merita una visita anche il neonato Porto Lotti, porto turistico
d'avanguardia, con La Baia, ottimo ristorante affacciato sul Golfo (tel. 0187-
532244, chiuso a mezzogiorno, prezzo medio 60 mila lire). Per gustare
tuttavia la vera cucina ligure si va da Caran, una trattoria tipica e
ultracentenaria dove, per un prezzo davvero conveniente, si possono gustare
ottime torte di verdure e minestre di ceci e fagioli.
Una gita a La Spezia è l'occasione per rivisitare tradizionali borghi marinari,
come Portovenere e le celebrate Cinque Terre: Riomaggiore, Manarola,
Corniglia, Vernazza e Monterosso, piccoli paesi di pescatori che, lontano
dall'affollamento estivo, ritrovano la loro anima di antico rifugio. Per
raggiungere Monterosso da La Spezia, oltre all'auto, il mezzo più comodo è
il treno (quasi venti collegamenti al giorno con un tragitto di una trentina di
minuti). Il paese vecchio, raccolto attorno alla bella chiesa di San Giovanni ,
con i carrugi (gli stretti vicoli liguri) e le ripide scalinate è pieno di
suggestione. Buona la cucina del ristorante La Cambusa (tel. 0187-817548,
chiuso il lunedì) con la zuppa di molluschi, mentre per le specialità liguri si
consiglia Il Gigante, a pochi minuti dal porto: ottimi il pesce al timo e gli
spaghetti ai moscardini (tel. 0187-817401, chiuso il martedì).
Una splendida passeggiata di due ore, adatta anche ai bambini, lungo un
sentiero in mezzo a boschi, vigneti e antichi orti, porta al delizioso paesino
di Vernazza, caratteristico per le case dai colori vivaci affacciate sul
porticciolo. Qui è d'obbligo una sosta da Gianni Franzi, trattoria famosa per
gli antipasti di pesce, le acciughe al limone e i muscoli ripieni. Da Vernazza,
in un quarto d'ora di treno, si arriva a Manarola, il paese più autentico delle
Cinque Terre con le case costruite sulla roccia e il porto più piccolo del
mondo. Una bella passeggiata tagliata nella roccia e chiamata
romanticamente Via dell'Amore, collega il paese con Riomaggiore. Ancora
la ferrovia riporta in pochi minuti a La Spezia o a Monterosso.
Nei mesi invernali si trova ottima accoglienza all'hotel Della Baia a
Portovenere, bellissimo borgo con promontorio panoramico e porticciolo
lungo il quale, da non perdere, sono le specialità marinare di Iseo (tel. 0187-
790610, chiuso il mercoledì, prezzo medio 60.000 lire).
DOVE MANGIARE
Caran
Dal 1880 gastronomia tipica spezzina e grande ospitalità.
Indirizzo: via Genova 1, La Spezia.
Telefono: 0187-703777.
Prezzi: da 20.000 lire, vino escluso.
Chiusura: martedì.
Carte di credito: tutte.
Guida Tci: 1 forch
Gianni Franzi
Specialità: antipasti di pesce e cucina ligure.
Indirizzo: via Visconti 2, Vernazza.
Telefono: 0187-812228.
Chiusura: mercoledì.
Prezzi: 45.000 lire, vino escluso.
Carte di credito: tutte.
Michelin: 1 cucc forch
DOVE D0RMIRE
Della Baia
Costruzione seicentesca ristrutturata di recente.
Indirizzo: Lungomare est 111, loc. Le Grazie, Portovenere.
Telefono: 0187-790797.
Fax: 0187-790034.
Prezzi: 140.000 lire la camera doppia, con prima colazione.
Carte di credito: tutte.
Michelin: 1 casetta
Guida Tci: 3 stelle
Animali: nessuno.
INDIRIZZI UTILI
Museo navale
Indirizzo: piazza Chiodo, La Spezia.
Telefono: 0187-783016.
Orari: martedì, mercoledì, giovedì e sabato 9-12 e 14-18, domenica 8.30-
15.30; lunedì e venerdì 14-18.
Chiusura: lunedì e venerdì mattina, domenica pomeriggio.
Ingresso: 2000 lire.
Fumetti
a cura di Comix
Altan
Oltre il web: Marimba, Castaneets and Bongosts
Giulio Blasi Sono 4 ex membri del team che ha sviluppato Java per la Sun Microsystems
i fondatori di una nuova società che propone un nuovo sistema per
distribuire programmi in rete, bypassando il World Wide Web e i browser
come Netscape ed Internet Explorer. Si tratta di Kim Polese, Arthur van
Hoff, Jonathan Payne e Sami Shaio. La società si chiama Marimba e si trova
a Palo Alto, in California.
Fuori o dentro il browser, con Netscape o con Marimba, Java sta senz’altro
abituandoci a una caratteristica nuova del concetto di "ipertesto" : gli
ipertesti non sono più semplicemente reti di "documenti" testuali e
multimediali ma anche (e in futuro soprattutto) reti di programmi,
applicazioni, codice. Questo davvero supera l’immaginazione dei pionieri e
dei teorici attuali dell’ipertestualità, da Vannevar Bush a Ted Nelson, da
Doug Engelbart a George Landow.
Appuntamenti
Hanno collaborato:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Mario Calabresi, Moni Ovadia, Furio Colombo, Elserino Piol, Paolo Palazzi, Vittorio
Gregotti, Ranieri Polese, Gianni Granata, Aldo Grasso, Maurizio Costanzo, Riccardo Bocca, Carlo Bertelli,
Giovanna Grignaffini, Stefano Bartezzaghi, Roberto Caselli, Rossana Di Fazio, Giulio Blasi, Silvana Rizzi, Comix,
Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
Sono successe tante cose sul fronte politico e culturale: la finanziaria, l’Europa, il futuro della Costituzione, sono
temi nei quali si esprimono le contraddizioni di una società in continua trasformazione, che fatica a riconoscersi
una identità e una direzione di marcia.
I nostri collaboratori hanno avuto carta bianca sulla scelta delle priorità, e così Golem 05 è assai articolato e vario.
Questa varietà di pensieri è come sempre a voi dedicata: restiamo in attesa di un Vostro cortese riscontro.
Bentrovati.
Renato Mannheimer
Principi ricostituenti
A quale organismo affidare la stesura delle riforme istituzionali? Ad una assemblea costituente, appositamente
eletta, o ad una commissione bicamerale formata da parlamentari già in carica? La discussione sembra essere al
centro del dibattito politico di queste ultime settimane. Dietro alle due opzioni contrapposte stanno opinioni e
interessi di varia natura, ma probabilmente legati soprattutto al tipo di maggioranza che si formerebbe
nell’organismo in questione. Una assemblea costituente non potrebbe essere eletta che col sistema proporzionale e
rifletterebbe i rapporti di forza tra i vari partiti da questo punto di vista. Ciò spiega forse anche perché le formazioni
di centro-destra paiono prediligere questa soluzione. Come si sa, infatti, alle ultime elezioni esse ottennero nella
quota proporzionale la maggioranza dei voti, trovandosi tuttavia in minoranza nella distribuzione dei seggi
parlamentari, a causa del diverso comportamento dei loro elettori nel voto maggioritario e della conseguente netta
prevalenza dei candidati dell’Ulivo in quest’ultimo (che, come si sa, "conta" in misura assai maggiore in termini di
seggi). Non è detto tuttavia che una nuova elezione porti oggi a questi stessi risultati.
D’altra parte una commissione bicamerale formata dall’attuale Parlamento, non potrebbe che rispecchiare le
proporzioni di quest’ultimo, favorendo la coalizione di centro-sinistra. Anche in questo caso ciò spiega, forse, la
preferenza in questo senso da parte dell’Ulivo.
Per risolvere la questione, alcuni esponenti politici hanno addirittura proposto di affidare il responso ad un
referendum o ad un sondaggio (di quelli seri) da condurre tra i cittadini. Abbiamo, per la verità, in corso una ampia
ricerca al riguardo. Ma è il caso di dire subito che sarebbe del tutto insensato affidare agli esiti di un sondaggio o di
un referendum una decisione del genere. Lo ha già giustamente sottolineato Giovanni Sartori sul Corriere qualche
giorno fa: se si vuole che i referenda o gli stessi sondaggi diano risultati cui si possa fare in qualche modo
affidamento, occorre che i cittadini interrogati siano, almeno in una certa misura, a conoscenza delle implicazioni
delle diverse alternative proposte. E quanti, oggi, lo sono davvero, sia sulla questione bicamerale/costituente che, in
generale, sulle diverse prospettive di riforma istituzionale?
Prima di sottoporre al giudizio popolare questioni quali la scelta tra bicamerale e costituente o, più in generale, la
riforma istituzionale, occorrerebbe che su di esse si sviluppasse nel paese un serio ed ampio dibattito che permetta a
ciascuno di cogliere veramente la natura e il significato delle diverse alternative.
C’è da chiedersi tuttavia se la discussione tra bicamerale e costituente abbia davvero senso. Il vero problema non
sta infatti in questa alternativa, ma nel tipo di discussione che si svilupperà nell’organismo prescelto e nella serietà
o meno delle soluzioni che lì saranno dibattute.
I precedenti in materia non sono incoraggianti ed è purtroppo diffusa l’impressione di una scarsa avvedutezza del
nostro legislatore. Ad esempio, molte delle scelte adottate per la legge elettorale in vigore (che giustamente viene
ridicolizzata - in primo luogo, ancora una volta, dallo stesso Sartori - e spesso derisa anche in sede internazionale
per la sua incongruenza) sono state adottate frettolosamente, talvolta quasi per caso (come la misura della soglia di
sbarramento al 4% anziché al 5%), o semplicemente riprese da normative precedenti (come la misura del 25% da
assegnare alla quota proporzionale).
C’è da augurarsi che, qualunque sia la sede in cui verrà discussa, la riforma istituzionale (e quella della normativa
elettorale che ne è necessariamente parte) sia il frutto di analisi e riflessioni serie, meditate e competenti e non,
com’è accaduto in passato, il confuso e contraddittorio coacervo di compromessi tra le richieste di questa e quella
forza politica, di questo o quel leader.
Costituente o Bicamerale?
Mario Deaglio
Capitalismo italiano: crisi di sistema
La Guardia di Finanza entra nel proverbiale salotto buono della finanza italiana. E ne esce portandosi via due
manager e inseguendone altri tre con ordini di custodia. Questo episodio, della seconda settimana di ottobre, è
un’altra tappa nel processo di disarticolazione del tradizionale sistema di governo dell’economia privata italiana. E
fa il paio con l’invito alle imprese di un autorevole rappresentante del mondo finanziario milanese affinché si
quotino a Wall Street e non già a Piazza Affari.
Si può far coincidere l’inizio dell’attuale travaglio del capitalismo privato italiano con la crisi del gruppo Ferruzzi
che lasciò un segno sul mondo bancario, chiamato ad assorbirne i debiti e obbligò alla rapida cessione di parti vitali
dell’industria chimica e farmaceutica italiana a imprese estere; tale fase negativa continua con la migrazione di
gruppi emergenti, come Luxottica, verso gli Stati Uniti e con il tentativo di ricompattamento del sistema
rappresentato dall’operazione SuperGemina, finito ingloriosamente in un incredibile "buco" contabile. Ha nella
crisi dell’Olivetti l’episodio saliente dell’autunno 1996; ma non bisogna passare sotto silenzio che, nello stesso
periodo, alle Generali viene impedito l’acquisto della banca viennese Kreditanstalt. Il motivo, al di là delle parole
di circostanza, è chiarissimo: le Generali sono un’impresa italiana e questo si ripercuote negativamente sulla sua
affidabilità. Tenendo in mente le accuse di falso in bilancio rivolte ai manager della Gemina e gli incredibili
"buchi" contabili apertisi nei conti di molte grandi imprese, non c’è da stupirsi di questa reazione straniera.
Questa serie, ormai purtroppo piuttosto lunga, di ritirate e capitolazioni ha sullo sfondo la dèbacle ancora maggiore
dell’IRI, sul punto del tracollo per debiti, un sistema bancario incapace di arginare la crescita inesorabile delle
"sofferenze", una Borsa che non riesce a diventare luogo di scambio di maggioranze azionarie, e nella quale
l’azione degli enti di controllo è debole e incerta. Si svolge sotto lo stimolo di un’Europa che incalza e con il freno
di una classe politica che, al contrario, non sa né capire né reagire. Comunque vadano le cose, gli anni novanta
saranno ricordati come una crisi di sistema, una sorte di processo disgregativo a conclusione di un secolo
tumultuoso ma nel complesso straordinariamente costruttivo.
Si tratterà di una crisi finale? Forse no, se vale il vecchio detto latino, Saeculum se renovat. Occorre però arrivare
ancora vitali al giro di boa, altrimenti potrebbe succedere che i fuochi d’artificio, i quali ritualmente annunceranno
l’arrivo degli Anni Duemila, rappresenteranno altresì la marcia funebre dei capitalismi nazionali, stemperati in un
unico grande mercato mondiale (o quanto meno in un meno vasto mercato europeo). In tal caso, quello italiano,
finanziariamente il più debole tra quelli dei grandi Paesi avanzati, appare il primo candidato alla dissoluzione. Le
imprese italiane dinamiche e di successo di dimensioni medio-piccole - e ce ne sono almeno diverse centinaia -
prenderanno la via dell’estero, nel senso che cercheranno i capitali necessari al loro sviluppo non più presso le
banche o la Borsa italiane ma nel resto d’Europa e del mondo. E sempre più sposteranno i loro investimenti (come,
del resto stanno già facendo) al di fuori dei confini nazionali, in Paesi nei quali, per avviare un’attività d’impresa,
bastano quattro documenti anziché i sessantaquattro dell’Italia e nei quali i profitti sono mediamente tassati dalla
metà a un quarto di quanto non lo siano nel Bel Paese e in cui è possibile licenziare i dipendenti oltre che assumerli.
In un’economia di mercato, gran parte dell’identità nazionale dipende dall’esistenza di un mercato nazionale,
dotato di regole proprie, non tributario degli altri ma anzi in grado di attirare operatori e capitali dall’estero. Questo
proprio non succede nell’Italia schiacciata dal debito pubblico, dalla burocrazia e anche dalla crescente debolezza e
incompetenza di una struttura capitalistica arcaica; ed è qui uno dei più seri motivi di rischio dell’identità a un
tempo economica e culturale del Paese.
Capitalismo Impossibile
Blob
Gradara
Ci si domanda se Tangentopoli 2 sia più grande o più piccola di Tangentopoli 1. Per quello che si è capito fino a
oggi si può dire che è più inquietante.
Lo schema di Tangentopoli 1, in fondo, era molto semplice. I partiti avevano bisogno di soldi, e quindi
rubacchiavano presso le ditte che, per qualche ragione, avevano contatto con la pubblica amministrazione. Nel fare
questo, erano obbligati a servirsi di intermediari che, già che erano lì, rubavano anche un po' (molto) per se stessi.
Fine dello schema.
Tangentopoli 2, invece, sembra essere una cosa tutta diversa. I partiti, almeno per ora, c'entrano poco. Qui siamo in
presenza di una banda di affaristi che, approfittando delle vecchie relazioni e di alcuni strumenti (come la banca
Karfinco), ha messo in piedi tutta una serie di traffici e di arricchimenti illeciti.
È impressionante che tutto ciò si svolga dopo che sulla corruzione sono state fatte tante indagini e che alcuni dei
protagonisti di Tangentopoli 2 arrivino direttamente da Tangentopoli 1.
Questo significa solo una cosa: e cioè che poco è stato fatto, da parte del potere politico, per bonificare l'area della
corruzione. Non ci sono nuove leggi e, probabilmente, alle inchieste penali (necessariamente limitate perché sono
tenute a inseguire le notizie di reato), non sono seguite indagini amministrative, trasferimenti di persone,
riorganizzazioni.
Insomma, Tangentopoli 2 lascia il sospetto che dentro la macchina dello Stato siano ancora al lavoro (e in posizioni-
chiave) discreti quantitativi di corrotti, in grado di far passare affari assai poco puliti. Impressione, peraltro,
confermata dalle indagini sul caso Squillante.
Raffaele Simone
Sei Sapienze
Avrete letto tutti che Luigi Berlinguer, il ministro dell'Università, con una determinazione che non ha precedenti in
questo paese così poco disposto ad azioni nette, ha deciso di scindere l'università la Sapienza di Roma in sei atenei,
ognuno caratterizzato da una qualche specializzazione. Non è una trovata a freddo, ma il tentativo estremo e
drastico di mettere ordine nel marasma: la Sapienza ha quasi duecentomila studenti e una qualità della vita tra le
più basse. Un esempio solo: nella Facoltà di Giurisprudenza ci sono quarantamila studenti (la popolazione di città
come Viterbo o Lucca), che vengono serviti da appena ottantatré professori, buona parte dei quali professionisti
benestanti, che all'università dedicano ovviamente meno tempo che possono.
Basta passeggiare, del resto, per mezz'ora nella città universitaria per capire che qualcosa si è rotto: trent'anni fa era
un bel campus all'italiana (magnifiche architetture fasciste e razionalistiche, prati, fontane e luoghi per ricrearsi);
oggi ha una densità edilizia pari a quello del Principato di Montecarlo: palazzi dappertutto, cantieri abbandonati,
automobili in sosta abusiva, masse umane vaganti, un incredibile mercatino di paccottiglia tutt'intorno alle mura
della città universitaria. Non parliamo dell'efficienza e i servizi e della didattica.
Un altro dato pesante è che la Sapienza è dominata dalla Facoltà di Medicina, che da sola ha quasi ottocento
professori sui milleduecento totali. Ciò significa che le volizioni accademiche riflettono perlopiù gli interessi di
questo gruppo, dal quale dipendono anche l'elezione del rettore e la sua fortuna, e che le logiche della facoltà
medica hanno gradualmente contaminato l'intera vita dell'Ateneo.
L'idea di Berlinguer comporta due passi. Anzitutto, scindere la Sapienza in sei atenei, ognuno col suo rettore e con
propri organi, lasciandoli nelle sedi in cui stanno: il vantaggio immediato dovrebbe essere quello di rendere
governabile un corpo che oggi sfugge a ogni controllo Poi, distribuire nella città alcuni di questi atenei, con nuovi
investimenti e impianti, anche per evitare che una enorme folla di persone si riversi ogni giorno nello stesso punto,
e rivitalizzare aree urbane che hanno perduto ogni contatto con la cultura.
Chiunque riconoscerebbe facilmente che l'unico modo per rendere vitale e civile una simile teratologia consista
nello smembrare il Gran Corpo. E invece no, anzi: apriti cielo! Il rettore ha indossato la corazza del crociato
dichiarando che l'autonomia dell'università non si tocca e che la Sapienza deve restare unita. I presidi delle sue
facoltà (tolto uno, quello di architettura, che evidentemente di problemi urbani ne capisce più degli altri) hanno
giurato solennemente che lotteranno fino alla fine per evitare lo sconcio smembramento. E così, al grido di parole
solenni ed eroiche (smembramento, unità, salvaguardia, autonomia, indipendenza, libertà, salvezza...) è cominciato
una specie di Lombardi alla Prima Crociata che non sappiamo come finirà. Berlinguer è una persona determinata e
andrà per la sua strada; ma la resistenza così testarda di un intero corpo accademico (tolti pochi) corre il rischio di
far marcire una questione urgente.
Non voglio però discutere della Sapienza in particolare, ma del problema che questa storia pone sul tappeto. E far
notare in particolare due cose.
Anzitutto che nessuno, in tutta questa discussione, si è preoccupato di domandarsi qual è l'interesse degli studenti. I
poveri iscritti alla Sapienza sono, infatti, tra gli universitari italiani più vessati, e avrebbero mille ragioni per
insorgere. Si alzano alle sei per trovare posto ad una lezione che comincia alle nove, perché altrimenti non
avrebbero alcuna speranza di sentir niente; fanno la fila dinanzi alle segreterie per ottenere un certificato perché il
sistema di segreteria elettronica, dopo molti guasti, è stato messo fuori funzione; sono rassegnati a non trovar posto
in biblioteca e a frequentare poco i laboratori; sono trattati come anime morte piuttosto che come persone nella fase
più delicata della vita, e così via continuando. Certo, sopportando una situazione così avvelenata qualcosa la
imparano anche: una pazienza da stilita, una santità da martire cristiano, una salutare mortificazione alla loro
superbia insomma, una smisurata sfiducia. Ma possiamo compiacerci che i giovani crescano così?
Il fatto che l'interesse degli studenti non stia a cuore a nessuno mi pare grave. Significa, secondo me, che lo
studente è ormai, nelle discussioni sull'università, una variabile indipendente: possiamo averne pochi o molti, e
questi possono essere contenti o completamente insoddisfatti del servizio che ricevono, ma questi fatti non faranno
mai né caldo né freddo a nessuno. Gli studenti sono diventati ormai un'entità irrilevante e marginale. Quale che ne
sia il numero, quale che sia la soddisfazione per il servizio che ricevono e la qualità di quel che imparano, i
finanziamenti dallo stato alle università arriveranno lo stesso. Magari tardi, ma arriveranno. I corpi accademici
preferiscono allora domandarsi come si possano moltiplicare i posti per perpetuare le proprie dinastie, più che come
fare per migliorare la qualità del loro insegnamento e della loro ricerca.
L'altra considerazione riguarda la semantica del termine autonomia. Quando si sente, sia pur da lontano, il timore
che i finanziamenti statali si riducano, i corpi accademici insorgono sostenendo che il senso dell'autonomia è
distorto maliziosamente. Quando invece si annunciano misure (come questa di Berlinguer) che sono forse l'unico
presidio terapeutico per sanare una escrescenza ormai inarrestabile, si sostiene che l'autonomia delle università
viene offesa e mortificata, e che bisogna invece proteggerla ad ogni costo.
Io credo che l'autonomia comporti anche la capacità di procurarsi finanze (perdendo gradualmente il vizio di
aspettarsi il biberon caldo delle finanze statali), e in questo quadro la salvaguardia degli interessi degli studenti
diventa cruciale. Lasciare insoddisfatti migliaia di studenti può significare, allora, perdere quattrini e perfino
trovarsi nella necessità di chiudere. Ma chi avrà il coraggio di farlo capire alle università italiane?
Ranieri Polese
Bell' Europa
"Nu, vulevòn" dicevano Totò e Peppino in Piazza del Duomo a Milano. Chiedevano l'indicazione di una strada per
arrivare da qualche parte. Ovviamente senza ottenere altro che il ridicolo. Era un film di tanti anni fa. Ma sembra
oggi, con le richieste di conoscere il modo per arrivare in Europa. E di sapere quanti migliaia di miliardi ci costerà
Maastricht. E ogni volta arriva qualcuno che fa salire il prezzo. Che ci boccia (Italia in serie B, Italia rimandata).
Che ci copre di vergogna.
Già, quanto ci costa l'Europa. Ma poi, ci piace ancora l'Europa? I tagli imposti da Kohl, la caccia ai sans papier
scatenata da Chirac, è questa l'Europa che ci si aspettava? Quella che si pensava tanto tempo fa, quando ci
raccontavano a scuola - nelle prime lezioni di educazione civica - dei trattati di Roma, quelli del 1950 e del 1951.
Senza contare le citazioni di Altiero Spinelli, che poveretto chissà come ci sarebbe rimasto male di fronte ai calcoli
degli esattori di Maastricht. Davanti ai tassi d'interesse, alle tasse, a tutto quello che ci sarà ancora da pagare per
entrare in quell'Europa dove fino a Maastricht credevamo di essere già. E invece no.
Ma quale Europa avevamo in mente, allora? Forse l'Europa dei primi viaggi da fare da soli, senza più parenti o
accompagnatori scolastici. Quando cominciò a bastare la sola carta d'identità e c'erano quei meravigliosi biglietti a
tariffa speciale per gli studenti. Ecco, l'Europa fu un Festival di Avignone e la scoperta del teatro di Ariane
Mnouchkine. E furono le mostre dei Medici a Firenze. Europa era Londra, Carnaby Street prima, King's Road con i
suoi punk poi, il ritrovarsi a Covent Garden, i mercatini di Camden Passage. E Parigi prima di Chirac. E Berlino
prima durante e dopo la caduta del Muro.
Oggi, che non c'è altra Europa all'infuori di Maastricht, tutto questo sembra così lontano. Così strano. Peccato,
perché era molto più bello.
Aldo Grasso
No comment
"Sono uno dei moltissimi italiani che ieri l'altro, ai telegiornali della sera, hanno sentito con le loro orecchie le
dichiarazioni del pm Alberto Cardino, il magistrato spezzino che ha aperto la botola sul caso Necci..." inizia così un
fondo di Gianni Rocca apparso sull'Unità del 19 settembre. Inizia così, non per colpa di Rocca, un altro clamoroso
caso di caduta di tensione morale nelle comunicazioni. È come se i vigili del fuoco, chiamati a spegnere un grande
incendio, rivolgessero le loro pompe contro un passante che si accende incautamente una sigaretta.
Ricostruiamo la scena incriminata. I magistrati di La Spezia mettono le mani sull'ennesimo intrigo di Tangenti &
Complotti, una seconda Tangentopoli, una perversione democratica e istituzionale resa ancora più malefica dal
senso di impunità che continua ad animare i traffici sporchi in Italia.
Un giovane pm, abituato finora a scambiare qualche impressione con il corrispondente del "Secolo XIX' di Genova,
improvvisamente si trova la strada sbarrata da una selva di microfoni e telecamere. Di fronte all'insistenza dei
cronisti ha un attimo di debolezza: invece di trincerarsi dietro un algido "no comment" (alzi la mano chi possiede
tanto sangue freddo), il povero pm cui era piombata fra capo e collo l'inchiesta della vita, balbetta probabilmente
frammenti di verità: "sì, qualche politico attualmente in carica risulta essere coinvolto...".
Apriti cielo! Ha cominciato Massimo d'Alema, il zelante D'Alema, a impartire regole di comportamento, lezioni di
buone maniere, consigli per gli acquisti. E poi, tutti gli altri. Compresi i giornali, che prima spingono i loro cronisti
a strappare notizie e poi moraleggiano su giudici ciarlieri.
I media soffrono di queste schizofrenie: per due giorni vengono solennemente sgridati i magistrati che,
nell'esercizio delle loro funzioni, si lasciano scappare qualche parola di troppo. E, in sottordine vengono anche
stigmatizzati i ladroni di Stato, gli appaltatori disonesti, i faccendieri collusi.
E così il Guardasigilli Giovanni Maria Flick, sorpreso a cena con l'avvocatessa di Necci, in casa di Luciano Rispoli
(che alte frequentazioni!), si attiva subito per prendere provvedimenti disciplinari contro chi "esterna" e detta regole
ferree: non violare il dovere della riservatezza sui procedimenti in corso, non esprimere pubblicamente giudizi di
assenso o dissenso su procedimenti in corso, non coinvolgere i politici in indagini relative a reati contro la pubblica
amministrazione. Sia chiaro: Flick ha ragione ma il suo intervento non soffre di strabismo mediatico? Per questa
goffa intempestività, il ministro si becca un puntuto "Senza senso" di Stefano Bartezzaghi.
"Mi chiamo proprio Flick
(sic!), son ministro
segnato ho il tuo cognome sul registro".
Se un magistrato esterna,
Flick (sic!): zac! si costerna:
"a te io quela lingua la salmistro".
E così il Presidente della Camera Luciano Violante, uno che quando c'è da parlare non si tira mai indietro, dice ai
magistrati: "imparate a tacere". E poi con un tocco di vera finezza: "Qui c'è la democrazia, non Khomeini". E anche
lui, per non restare indietro, detta regole ferree: sul segreto delle indagini, sulle dichiarazioni dei magistrati, sulla
pubblicazione delle intercettazioni. Anche Violante ha ragione, ma di fronte allo scandalo di un paese a corruzione
continua bisogna per prima cosa bacchettare chi fa con correttezza il proprio mestiere?
Certo, verrà il momento di dedicarsi non solo al rapporto fra magistratura e mafia, ma anche alla fenomenologia
della cimice e alla semiologia dell'intercettazione ambientale. Ma, per intanto, ci farebbe piacere che stampa,
televisioni e istituzioni riservassero più tempo, e più spazio, alla riprovazione dei malfattori e non a quella del
"circo mediatico-giudiziario". Di cui, tra l'altro, fanno parte a pieno titolo.
Adriano Sansa
Genova, la realtà irrilevante
Quando sono arrivato in Piazza Affari a Milano, per presentare il collocamento in Borsa dei titoli dell’Amga, gli
operatori finanziari mi hanno accolto dicendomi che ero il primo sindaco di una città italiana ad entrare in Borsa
con i titoli di un’azienda del suo comune. Era un evento, hanno sottolineato. I giornali economici ne hanno parlato
ampiamente.
Al di fuori di questa circostanza, trovo invece problematico l’aspetto della comunicazione. Ho passato la vita a
leggere moltissimo i giornali, ne ho sempre letti sei o sette al giorno, per poter avere una panoramica completa di
quello che accadeva, ho sempre avuto molta fiducia nella funzione della stampa, tra l’altro sono pubblicista e ho
una rubrica su Famiglia Cristiana da 25 anni, ma oggi mi sento fortemente deluso.
Noto una tendenza nuova, diversa. Pur sapendo quanto si sia lontani dal motto del giornalismo americano "i fatti
separati dalle opinioni", oggi spesso sui nostri quotidiani quasi non vedo più i fatti e neppure le opinioni, ma ci
sono rappresentazioni immaginifiche e la gente si sta abituando a questo giornalismo virtuale.
Di fronte a questo tipo di informazione, che risulta approssimativa, poco rigorosa, innamorata dell’effimero,
dell’evento ad effetto e che insegue l’insolito, non so come comportarmi, perché attira l’attenzione soltanto colui
che è capace di fare mosse a effetto.
Da quando sono sindaco ho cercato di evitare qualsiasi tipo di comunicazione mistificante, ma non so se sono
riuscito a farmi capire dai miei concittadini, perché nel tentativo di fare un’informazione onesta e non virtuale, di
resistere ad una comunicazione che rischiava di diventare fasulla, ho finito per comunicare troppo poco.
La sfida di una comunicazione corretta è difficile da vincere, mi sembra di non avere i mezzi necessari, con i
genovesi cerco un contatto diretto, cerco di stabilire rapporti personali, ma queste sono cose che possono bastare al
sindaco di una piccola città, ma Genova ha 700mila abitanti e in un mandato di quattro anni, pur passando tutte le
serate ad incontrare i cittadini per ascoltare, spiegare e discutere, si possono incontrare al massimo centomila
persone.
Oggi penso che si possa avere una comunicazione migliore in televisione, perché c’è meno intermediazione, è vero
che puoi venire tagliato, ma le parole che hai pronunciato restano quelle e il tono del discorso anche, quando vengo
intervistato dai giornali invece mi capita di vedere riportate cose diverse da quelle che ho detto, non ho garanzie
che il mio pensiero verrà rispettato, e non so che taglio avrà l’articolo. Il giornalista ha una grande responsabilità
perché credo abbia più possibilità di deformare la realtà rispetto alla televisione.
Voglio fare l’esempio dei Boc, i buoni ordinari del comune, i bot emessi dalle amministrazioni delle città, che oggi
vanno tanto di moda. Sono uno strumento interessante, ma io li farò solo se sarà conveniente per la città, fino ad ora
non lo è stato, ed anche se fare il Boc dal punto di vista dell’immagine e del ritorno pubblicitario è come fare i
fuochi d’artificio, se non sarà conveniente accenderò un mutuo, ma questo, lo so, non farà proprio notizia.
Genova è una città con un bilancio sano e limpido, quando sono arrivato era vicina al tracollo ma oggi i suoi conti
sono stati risanati e tra le grandi città è una di quelle che ha i bilanci più a posto. Questo i suoi cittadini devono
saperlo e la mia sfida è quella di trovare un nuovo modo di comunicare, che non mi obblighi a farmi fotografare in
barca o mentre accarezzo un bambino e a mistificare la realtà, ma che evidenzi il lavoro di una città.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Questa puntata di Autogolem è composta da due serie. La prima serie (ordinata per numeri) si crede poliglotta,
frequenta lettere esotiche e si mette nei pasticci. La seconda serie (ordinata per lettere) è tranquilla, italiana,
tradizionale, senza grilli o (si fa per dire) ipsilon per la testa. Dall'uno al cinque si anagrammano le stesse otto
lettere; dalla A alla E le stesse sette lettere, che però non sono quelle di prima. In 1. Le rime non sono perfette. Chi
lo è, del resto?
4. IL VERO COWBOY
Prova pure, fammi un test:
col cappello fo la siest;
agli indiani fo la fest
con la Colt io son the Best;
baro al gioco (disonest).
T'amo troppo, x Xxx Xxxx!
A. OCCHIATE IN BALERA
Quella bionda col toupet
che nel tango fa il casque
roteando sul parquet
guarda te, x xxxx xx?
C. ABITUDINARIO
"Per quest'anno non cambiare..."
Te la puoi pur figurare
quanta voglia ho di mutare
la mia spiaggia, il xxx xxxx.
D. IL COLLE SI RIBELLA
Non ci viene forse il C.A.I.
o l'inviato della R.A.I.
Compagnia, però, ne ho assai
Fui tranquillo. Xxxx, xxx.
SOLUZIONI
1. ‘sto wafer
2. forse T.W.A.
3. "W" foresta
4. o Far West
5. software
A. o mira me
B. o mimare
C. mio mare
D. Ermo, mai
E. memoria
Rime esagerate
Umberto Eco
LA TEMPESTA
Il grande anglista, in un momento prospero
scrisse un saggio su Ariele (e anche su Prospero)
"Ai miei lettori non importa un prospero,"¹
disse, "ma a me non può che far buon prò (spero)"
SEGNO DI ACHAB
Dopo aver catturato la balena
farei un busto con la sua balena¹...
Ed è nel viaggio che l'idea balena
da Basilea al Vesuvio (Bâle - NA).
DOLCE GABBANA
Sarto qual son, un giorno lesto abbordo
una dama assai bella e d'alto bordo,
e con mano leggera ecco le bordo
al fondo della veste un vago bordo
con una delicata tinta bordò.
E questo avviene in un incontro a bordo
del Transeuropa da Nimega a Bordeaux.
¹i: imperativo del verbo latino ire, andare. È noto l'equivoco sulla frase "I vitelli dei romani sono belli" (vai, o Vitellio, dio romano, al
suono della guerra). Due crittografie mnemoniche opponevano un tempo (Prima Repubblica, torna, è tutto perdonato) gli allora
organi degli allora PSI e PCI. La prima diceva: "I". Il solutore doveva capire che si trattava del "Corrispondente romano dell'Unità" (I
"corrisponde" nella numerazione "romana" al numero uno). La seconda diceva: "I". Il solutore doveva capire che si trattava del
"Corrispondente romano dell'Avanti!" (I corrisponde in latino a: "vai!", "adelante", "avanti")
FAN ESAGERATO
Siccome Pavarotti non è un cane
ed io gli son devoto come un cane,
l'affronto, del revolver alzo il cane
ed in latin gli grido: "Cane, cane!"¹.
¹cane: imperativo del verbo latino canere, cantare. La parola si presta a vari giochi italo-latini, della serie de "I vitelli..." (vedi sopra);
classico il "cane nero", che significa "canta o Nerone". Un bello scioglilingua latino dice: "Cane decane, canis? sed ne cane, cane
decane,/De cane; de canis, cane decane, cane" (Tu canti, o canuto vegliardo? Ma non cantare, o canuto vegliardo,/di un cane; canta,
canuto vegliardo, della canizie)
Questo nuovo gioco del professor Eco ha a che fare con la rima, ma con una rima onnivora, che deglutisce di tutto.
Su La Stampa - Tuttolibri l'ho chiamata: "rima esagerata" (in assonanza con la Vita spericolata, esagerata e piena di
guai di Vasco Rossi: voglio una rima come Steve McQueen). Le rime esagerate di Eco accettano:
la rima fra eguali, o "equivoca": prospero/prospero
la rima fra la stessa parola in due lingue diverse, o: "rima dei falsi amici": cane (italiano)/cane (latino)
la rima con spezzatura, o "franta": prospero/ pro, spero,
la rima solo fonetica, o all'orecchio: bar dò/Bardot
la rima trans-fonetica, o rima della Vacca Spagnola: scrupolo/screw Polo
la rima né fonetica né ortografica, né all'occhio né all'orecchio o rima guercio-sordastra: bordo/Bordeaux
la mia ricca, riccastra o come si chiama: bardo / lombardo.
L'importante è ripetere a ogni verso la sequenza di lettere o di suoni finali, cercando di non deragliare dalla metrica
o dalla parvenza di senso, giacché deragliamento d'asino non sale al cielo.
Un pallido epigono che temo di conoscere ha seguito l'esempio di Eco con la seguente strofa:
Non è difficile far meglio, anche perché qui si tratta, in realtà, di rima esagerata-moderata: la rima esagerata-
esagerata non avrebbe trascurato le parole che finiscono in "-lotto": agnolotto, cubilotto, borlotto, Pievano Arlotto....
Come le foglie
Giovanna Grignaffini
Non c'é allegria da rientro in questa rallentata riapertura del Parlamento dopo la breve estate del ‘96: solo una
stanca vocazione notarile che annota, registra e puntualizza i numeri.
"Sarà di almeno 50.000 miliardi. Non più di 100.000 sul Po. 200.000 a Milano. Almeno 300.000 a Modena.
20.000.000 al mese. Centinaia di migliaia in tutta Italia."
Parlano solo le cifre in aula e nelle commissioni, mentre tutti i colori e gli umori che campeggiano nell'aria
annunciano già l'autunno e la sua resa dei conti.
In attesa dell'autunno, un accogliente e ovattato immobilismo imprime una cadenza da ralenti anche ai concitati
movimenti provenienti da fuori: i sobbalzi di una finanziaria che ci porterà verso l'Europa, il vortice dei piccoli
incontri e grandi raduni che ci porteranno nell'Internazionale Socialista e nel sistema bipolare, la perigliosa marcia
lungo un fiume che ci porterà chissà dove, le nuove esplosioni di una polvere di scandali che ci porterà nel passato
più profondo, il vivo ritorno del blu sull'asfalto assorto delle piazze e delle strade.
Là tutto si agita e vive. Qui tutto attende, evapora e muore. Senza un sussulto, nè una impuntatura.
Ma, da dove viene questo sentimento così netto di una scissione irricomponibile tra lo scorrere, là fuori, delle
azioni e dell'incrostarsi, qui dentro, fianco delle parole?
Solo qualche punto fermo per una domanda che ha fin troppe ragioni.
Innanzitutto alcune antiche ragioni squisitamente tecniche: l'insostenibile peso del bicameralismo e dei regolamenti
interni delle due camere, unitamente alla vocazione pervasiva, frammentaria e pletorica della nostra legislazione.
Poi, contraddizioni consolidatesi nel tempo ma rese più vivide dai nuovi scenari della politica: lo schiacciamento
dell'attività del Parlamento sulla "ratifica" di decreti-legge e finanziarie; l'incerta definizione della rappresentanza
"di collegio" all'interno di un sistema rimasto nazionale; il mancato adeguamento del sistema parlamentare ad un
sistema politico ed elettorale che tende al bipolarismo. Per non parlare di quella nuova cultura delle istituzioni che
vorrebbe rendere indisponibile il Parlamento alla vecchia cultura dei partiti che lo abitano e governano.
Nell'insieme, una sostanza così vischiosa, compatta e pervasiva da rendere falso, qui dentro, ogni movimento.
Così, in attesa della Grande Riforma che verrà e che dovrebbe conferirgli nuovo slancio, diverso potere, nuove
funzioni, efficacia, vigore e, soprattutto, dignità il Parlamento "sta, come d'autunno sugli alberi le foglie".
Un Matriarcato piccolo piccolo: L'albero di Antonia
Rossana Di Fazio
L'albero di Antonia della regista W.Ammertrodv è nelle sale da molto tempo, segno che ha avuto successo; ne ho
sentito parlare solo bene: le donne che ho interpellato, entusiaste, gli uomini pure, con una riserva sulla propria
immagine, comprensibile, visto che non ne escono certo come tipi interessanti.
La traduzione del titolo è fuorviante rispetto alle intenzioni dell'autrice perché non esplicita il significato
genealogico di albero, nel quale risiede il vero senso del titolo originale (Antoniàs line), che ambiziosamente si
riferisce all'idea di generazione femminile e matrilineare.
Se ho scelto proprio Antonia per criticare (criticona!) alcuni aspetti che sono più che comuni nel cinema di oggi, è
perché questo film ha più ambizioni di altri, e perché ne ha su un fronte che mi sta a cuore e su un tema attuale
ormai da un decennio nella cultura femminista.
Questa felice comunità femminile che può fare a meno degli uomini tranne che per procreare non mi serve e non mi
attira, né mi rassicura il fatto che l'odioso stupratore possa per misericordia uscire di scena. Non è una visione
radicale, che immagina un'autentica autonomia lesbica, ma nemmeno curiosa di approfondire le complicazioni e
l'interesse di una nuova convivenza fra donne e uomini.
Non occorre divenire pesanti per intravedere questi orizzonti: per questo mi dispiace non poter abbondantemente
parlarvi di Grace of My Heart, perché in un contesto molto meno ambizioso, i personaggi e le loro relazioni sono
descritte con una grazia rara e si racconta con umorismo e discrezione di una cantante che non ha speranza in tempi
di gruppi maschili, di gelosie e amori per uomini e donne: senza pretenziosità, ma soprattutto senza retorica.
Speriamo che il doppiaggio non ce lo sciupi troppo.
Ecco, io ho trovato l'Albero di Antonia retorico e la retorica è un problema di forma che finisce per svuotare anche
il contenuto più condivisibile.
L'Albero di Antonia per il carattere di esemplarità ha un impianto ideologico che chiede di essere condiviso:
secondo me il pubblico lo ha acclamato per un'adesione sostanzialmente politica verso una serie di valori sempre
più diffusi, ma non ancora comunemente condivisi, più che per le sue qualità cinematografiche.
Io temo questa riduzione di complessità, nella forma e nei contenuti, questo didascalizzare, anche perché il mercato
premia e accetta di tutta la cinematografia femminile e femminista solo queste produzioni addolcite, forse proprio
perché sono innocue.
Passa, così, solo una retorica dei valori femminili, uno stereotipo delle identità e una riduzione di realtà che
oltretutto, in un contesto di discorsi così limitato, esige una adesione ideologica che personalmente mi disturba.
Questo appiattimento della forma sui buoni contenuti credo che finisca per non esprimere assolutamente nulla.
Dire, male, delle cose giuste è molto difficile: si finisce per dire cose sbagliate.
Mi hanno detto che il mio si chiama "complesso dell'arbitro di casa" e ammetto che forse è proprio così. Chissà
perché qualche volta mi fanno arrabbiare gli avversari relativi più di quelli assoluti?
Carlo Bertelli
Per Antonio Cederna
La morte di Antonio Cederna, malinconico eroe di tante battaglie, ha suscitato una questione omerica alla rovescia.
Le città greche si contendevano il titolo di aver dato i natali ad Omero, così come di Torquato Tasso ci si
domandava quale fosse la vera patria. Ricordate la commovente lapide dedicata al Tasso a Sorrento, in un lembo di
città che forse proprio le battaglie di Cederna contribuirono a risparmiare?
Ebbene a Cederna morto si sono invece disputati i luoghi, fra loro distantissimi, da dedicargli. Si chiamerà con il
suo nome la zona che l'Ilva di Bagnoli sta per lasciare, se sarà salvata dalla speculazione? oppure il parco
archeologico che dal centro di Roma, ossia dai Fori, raggiungerà la via Appia, se mai si realizzerà? Altre coste
marine, altre sponde fluviali sono candidate a prendere il suo nome. Con la morte Antonio Cederna si è innalzato
da amaro critico a luminosa speranza. E così sia.
Interessante, intanto, verificare come la stampa, apparentemente nazionale, ma di fatto di forte impronta cittadina,
ha commentato la scomparsa di questo personaggio scomodo. Pagine intere sul "Messaggero", sulla "Stampa", sulla
"Repubblica", sul "Manifesto", "Liberazione"... Sul "Corriere della Sera", cui Antonio Cederna aveva in passato
collaborato, una breve notizia firmata L.C. in taglio basso in una pagina interna.
La scelta del "Corriere" può apparire severa, ma è probabilmente il freddo riflesso di una situazione reale.
Milano, la città della giovinezza di Cederna, la capitale un tempo "morale" e motore del moralismo dello stesso
Cederna, ha cessato da diversi anni di essere un centro intellettuale; se per intellettuale si comprende chi assume,
consapevole della propria preparazione specifica, una posizione critica (diverse le definizione che ne dà il Lessico
dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, èra Cappelletti, che merita di andare a vedere). Se Milano fosse più critica
sarebbe impossibile apprendere dai giornali che il Comune intende convertire la centrale via Dante in un piccolo
campo di golf, con tanto di istruttori che introdurranno gli ignari ai segreti di questo sport. E sarebbe evidentemente
derisorio intitolare a Cederna il campetto di via Dante.
Cederna si è battuto per risparmiare dalla speculazione luoghi lontani della Calabria, del Lazio o dell'Abruzzo,
dove non va chi preferisce il tutto compreso alle Maldive. Eppure, poiché antropologicamente non esistono spazi
senza cultura, bensì culture diverse, c'è da chiedersi perché l'impeto di Cederna abbia a stento superato l'Appennino.
La stessa costituzione del Fondo Ambiente Italiano (FAI) appare allora come una rinuncia alle battaglie generali di
Italia Nostra per consolidare una linea di resistenza basata sull'acquisizione diretta e, quindi, su di una sostanziale
sfiducia verso le istituzioni pubbliche.
Invece le campagne di Cederna sono sempre state nell'ottica di una forte assunzione di responsabilità dell'ente
pubblico.
È verosimile che l'uditorio di Cederna, da Roma a Palermo, fosse diverso da quello che avrebbe avuto a Milano. Le
mobilitazioni di Cederna toccavano vasti settori dell'amministrazione pubblica, la scuola, l'università (nelle facoltà
di lettere, specialmente), il mondo dell'archeologia, ivi compresi gli autorevolissimi istituti stranieri presenti a
Roma. Il tessuto di Milano è diverso. L'istituzione milanese più tipica è la Triennale e le facoltà che hanno
maggiore impatto sull'opinione pubblica sono qui quelle degli ingegneri e degli architetti. È difficile mobilitare gli
architetti sulla rinuncia a costruire, mentre la sfiducia nel pubblico ha confinato in ambiti ristrettissimi problemi
grossi come il parco e la villa di Monza, il castello di Vigevano, il palazzo ducale di Mantova, la stessa
razionalizzazione del Castello Sforzesco... La stessa archeologia industriale non ha individuato a Milano nessun
oggetto degno di attenzione e capace di una prospettiva diversa da quella di un'area dismessa.
Mi sembra così che il silenzio intorno a Cederna attesti l'impossibilità di un dialogo, generata dall'incomprensione
delle differenze. Il FAI è una coraggiosa e lodevole fuga in avanti, ma vi è ancora un vasto territorio sul quale
l'interesse pubblico non riesce ad essere rappresentato.
Fumetti
a cura di Comix
Altan
Giulio Blasi
Atenei nella rete
Sarebbe davvero pretestuoso cercare di dedurre qualcosa sullo stato di salute delle università italiane a partire dal
modo in cui esse (in rapporto ad altri paesi) gestiscono la loro interfaccia Internet, ad esempio i loro siti WWW.
Però si può fare l'opposto osservando come lo stato di salute di Internet in Italia sia fondamentalmente
proporzionale al livello dei servizi on line forniti dalle nostre università.
Raccolgo qui di seguito una piccola lista di siti universitari italiani che vi invito a navigare. Il panorama che ne
emerge è secondo me desolante, salvo rarissime eccezioni "storiche" (tra le quali va menzionata l'Università di
Bologna). Interfacce di navigazione di livello "amatoriale", caos ipertestuale allo stato puro, interattività
praticamente inesistente, basso grado di aggiornamento delle pagine, incuria nel trattamento editoriale dei testi,
rarissima implementazione di sistemi di ricerca, la comunità accademica reale praticamente assente.
● Università di Palermo
● Università di Cagliari
● Università di Reggio Calabria
● Università di Salerno
● Università di Napoli
● Università di Roma "La Sapienza"
● Università di Firenze
● Università di Bologna
● Università di Parma
● Università di Padova
● Università di Venezia
● Università di Genova
● Università di Torino
● Università di Pavia
● Università di Milano
Cosa può mostrarci il surfing tra le risorse web delle nostre università? Il ragionamento è semplice.
Sino all'inizio degli anni '90 Internet è stata popolata essenzialmente da utenti accademici (negli USA la situazione
era in realtà più complessa già negli anni '80 ma non è questa la sede per esaminare le differenze). Lo sviluppo
"commerciale" di Internet degli anni '90 (cioè l'entrata in gioco delle imprese e di un pubblico generico di
navigatori non necessariamente accademici) ha preso le mosse dall' "infrastruttura" di dati, contenuti e servizi
preesistenti. I primi navigatori non-accademici di Internet, grosso modo tra il 1991 e il 1994, si affacciavano su un
mondo di informazioni gestito da e per professori, studenti e ricercatori (prevalentemente americani).
Oggi la situazione è radicalmente cambiata. I computer connessi a Internet delle istituzioni educative americane
(quelle che hanno indirizzi con il suffisso "edu") sono 2.114.851, mentre i computer connessi da organizzazioni
private e commerciali (quelle con il suffisso "com") sono 3.323.647 (dati del luglio 1996, Network Wizards . Se si
estende l'analisi oltre i confini degli USA, la forbice tra imprese ed istituzioni educative on line si allarga ancora di
più.
È tuttavia evidente che la qualità delle risorse distribuite on line dalle università è strettamente correlata ai tassi di
crescita della connettività nei vari paesi. La tabella che segue vi permette di fare una verifica diretta. Per ogni paese
ho raccolto il link a un indice di siti universitari (su Yahoo), il numero di computer (host) connessi a Internet
(numero che moltiplicato per 5 da un numero indicativo degli utenti Internet effettivi), gli abitanti di ciascun paese
in modo da avere un'idea delle proporzioni.
Lascio a voi l'interpretazione di questi dati. Ma almeno un'osservazione è necessario farla. Se il tasso di diffusione
degli strumenti telematici in Italia ha valori così bassi le università hanno in questo una responsabilità decisiva. La
diffusione commerciale di Internet inizia infatti in Italia solo nel 1994 (!).
Si potrà anche sostenere che gli investimenti privati italiani nei servizi telematici sono stati insufficienti ma è del
tutto evidente che le istituzioni che altrove hanno svolto un ruolo trainante nella cosiddetta "rivoluzione
telematica" (dalla fine degli anni '60 ad oggi) - le università, appunto - in Italia semplicemente latitavano (salvo,
ripeto, gloriose eccezioni). Senza giustificazioni, per semplice e vergognosa arretratezza culturale. È a partire da
quella poverissima infrastruttura di dati universitari che si va costituendo oggi il pubblico di Internet. C'è poco da
stupirsi, dunque, nello scoprire che i nostri tassi di connettività sono 10 volte inferiori a quelli della vicina Svizzera.
Roberto Caselli
Il prezzo, il valore, il diritto
All'inizio del '95, in un normale negozio di settore, un compact disc costava trentaduemilalire, a quasi due anni di
distanza, salvo qualche ulteriore ritocco natalizio, il prezzo è salito a trentasettemila lire, un 8% d'aumento annuo
che si attesta ben oltre il tasso d'inflazione. Se le vendite discografiche non subiscono da tempo impennate
significative, ma anzi fanno sempre più fatica a mantenere una soglia di minimo, è senz'altro anche perché i costi di
vendita sono elevati e vengono recuperati solo in parte da quel catalogo a prezzo speciale che rattoppa molti buchi.
Se si prova a chiedere ad un discografico come mai il costo di un CD sia così elevato, la risposta più plausibile è un
cenno del capo che sottende commiserazione per la disinformazione ostentata. "La verità", ci si sentirà rispondere,
"è che il costo al pubblico di un CD è troppo basso rispetto ai costi generali reali a cui è sottoposta la casa
discografica."
Andiamo allora ad indagare più a fondo scopriamo che ci sono tre figure chiave nella catena produttiva-distributiva
di un compact disc: la casa discografica stessa, che è proprietaria del master della registrazione, il distributore, che
provvede a recapitare nei punti vendita i vari prodotti e il rivenditore che infine ha a che fare con il pubblico (per
semplicità non consideriamo il caso in cui entri in gioco anche la figura del grossista, che si collocherebbe subito a
monte del rivenditore). Nel caso delle majors di settore (BMG-Ricordi, CGD East West, EMI, PolyGram, Sony e
WEA)
i dischi prodotti vengono distribuiti dalla stessa struttura per cui le prime due voci coincidono.
Analizzare i costi della casa discografica è il problema più complesso perché qui entrano in gioco una serie di
variabili difficili da standardizzare come le royalties percepite dall'artista, dal produttore e dall'arrangiatore, che
variano dipendentemente dalla possibilità potenziale di vendita che hanno, e i costi di registrazione che anche in
questo caso dipendono da quanto ci si aspetta dal prodotto finito. Ipotizzando un lavoro più che dignitoso portato a
termine da un cantante di discreto successo si possono quantificare i seguenti costi per ogni singolo CD venduto al
pubblico a 37000: Costi di Registrazione lire 1540 lire , Royalties Artista Lire 2550 , Royalties Produttore Lire
920 , Costi di Promozione Lire 865 , Spese Generali Lire 810 , Utile lire 970.
Il distributore si deve invece accollare i Costi di Fabbricazione Lire 2430 , i Costi di Distribuzione Lire1320 , i
Costi di Vendita Lire 1320, i costi SIAE Lire 2080 e le ovvie Spese Generali Lire 2420. L'Utile è di Lire 3295.
Il venditore acquista quindi ogni singolo CD a 20520 lire ai quali vanno aggiunti 3000 lire di ticket TV (un bonus
per sostenere parte della pubblicità televisiva che spetta alla casa discografica) per un totale di lire 23520. A questa
cifra bisogna aggiungere il 13% di IVA (lire 3055 arrotondate) e un'ulteriore costo IVA calcolato sul prezzo di
vendita al pubblico di lire 1170. Il guadagno del negoziante è dunque di lire 9255, a cui vanno poi sottratte le sue
spese generali che vanno dall'affitto del locale a quelle del telefono, e così via.
Come si vede i guadagni pro capite non sono vertiginosi, soprattutto perché album che vendono un milione di copie
sono pochi, ma certo un disco ben azzeccato assicura a tutti utili molto interessanti.
Di abbassare i prezzi non se ne parla neanche, una politica di abbattimento dei costi a favore di una possibile
maggiorazione delle vendite è giudicata troppo ardita da tutte le parti interessate; ancora una volta spetterà dunque
al fruitore la scelta di acquistare un disco piuttosto che di un altro bene di consumo. Il diritto alla cultura (quando di
cultura si tratta), per chi non ha grande disponibilità, si afferma solo rinunciando ad altri diritti.
Caterina Zaina
Ritorno al frutteto
Piante antiche a Torba / Mele, pere e frutti di ogni tipo, purché rari e introvabili, in un'insolita mostra-mercato
nell'antico complesso monastico. Un'occasione per riscoprire le località alle porte di Varese tra vestigia longobarde,
affreschi preziosi e sapori d'altri tempi
Ritorno al frutteto
Arrivano dai quattro angoli d'Italia e, spesso, sempre più spesso, dall'estero. La cornice, inoltre, non potrebbe essere
più appropriata. Tra le antiche mura del monastero di Torba presso Gornate Olona, alle porte di Varese, si danno
infatti convegno i vivaisti e gli studiosi di alberi da frutto oggi dimenticati.
Ai piedi della poderosa torre che segna il complesso abitato dalle monache benedettine fin dal 1049, i cultori della
botanica d'antan sembra vogliano ribadire che più la scienza progredisce più l'uomo vuole restare attaccato, là dove
può, a un appiglio sicuro. L'attenta opera di restauro del Fondo Ambiente Italiano, che ha profuso il meglio delle
proprie energie per restituire dignità a sale con affreschi altomedievali, usate per secoli come granaio, va quindi di
pari passo con l'attività di chi cerca di restituire al mondo le specie di frutta che la standardizzazione dei mercati
agricoli ha fatto sparire.
Il 12 e il 13 ottobre, a Torba, è perciò di scena La frutta antica, mostra-mercato giunta alla terza edizione e che vede
come protagonisti i frutti un tempo presenti nelle campagne e sulle tavole degli italiani. Saranno esposti alberi tra i
quali vale la pena ricordare il biricoccolo, un ibrido naturale tra l'albicocco e il susino, e il caco-pesca.Tra le tante
varietà di pere, il broccolino, la Mora di Faenza, la Principessa di Gonzaga.E fra le mele: tutte le renette, la Rosa
Mantovana, la Permain Doré, ma pure la Bella di Barge, la mustlot o la Edoardo VII, per far menzione di specie
originarie del vicino Piemonte.
Alla manifestazione partecipano sia associazioni sia comunità montane e produttori che propongono e vendono i
loro frutti. Primi fra tutti l'Erso, Ente ricerca e sperimentazione in ortofrutticoltura (via vicinale Monticino 1069,
Diegaro di Cesena, Forlì, tel.0574-29810), Pomona, l'Associazione nazionale per la salvaguardia e la tutela della
frutta antica, e la Comunità montana della Bassa Valle di Elvo (via Martiri della Libertà 29, Occhieppo Superiore,
Biella, tel.015-2593388). Poi Raffaele Bassi, vivaista che produce piante di castagno e si è fatto un nome anche con
le varietà frutticole antiche (Bassi Vivai, frazione Trucchi, Cuneo, tel.0171-402149 o 492850) oppure gli specialisti
emiliani dei vivai Flora 2000 (via Zenzalino Sud 19, Budrio, Bologna, tel. 051-800406).
La rassegna dà modo di ammirare tutte le forme assunte dalle piante nel corso della coltivazione, fino a diventare
veri elementi decorativi: dal melo a spalliera, al pero a palmetta o al pesco a fuso. Esemplari di alberi da frutto
antichi che valgono come nuove proposte di coltivazione, ma anche come soluzioni decorative per terrazzi o piccoli
giardini.
Non occorre, infatti, avere un frutteto a disposizione. E, in molte città, basta alzare lo sguardo oltre il semaforo per
veder spuntare alberi da frutto, belli sì, ma senza disdegnare la dolce produzione di albicocche o mele, ciliegie o
pesche. Una moda che vede non solo gli appassionati di botanica, ma pure semplici curiosi acquistare alberelli di
ogni genere. Come confermano gli oltre 2000 visitatori che, per due giorni, hanno affollato la scorsa edizione della
mostra-mercato di Torba.
La rassegna può rappresentare un'interessante occasione per visitare il complesso monastico, nato nel V-VI secolo
dopo Cristo come avamposto militare e che si presenta dalla strada sottostante con un severo torrione di
avvistamento. Adibito a convento in epoca altomedievale, probabilmente nell'VIII secolo, conserva ancora di quel
periodo affreschi visibili proprio all'interno della torre.E sono i temi rappresentati ad aver fatto pensare agli studiosi
che vi abbia soggiornato una comunità di monache benedettine. Se, entrando nel cortile, la torre si impone in fondo
a destra prima, sullo stesso lato, si trovano la rustica struttura dei depositi agricoli (di costruzione posteriore) e
quello che si ritiene fosse il convento delle monache. Vi ha sede il piccolo negozio del Fai che vende pubblicazioni
che riguardano la zona e i suoi luoghi da visitare, ma pure miele e altri prodotti di coltivazioni biologiche.
L'ingresso è in comune con Il refettorio, ristorante un pò fuori della norma, dall'arredo volutamente semplice e
dall'atmosfera severa, attivo a pieno titolo solo in occasione delle manifestazioni e con un menù unico che varia a
seconda della stagione e dell'estro della Badessa, com'è chiamata Raffaella Maestri, cuoca e moglie di Giuseppe
Luisi che con lei lo gestisce. Un esempio: risotto, o crespelle o timballo, arista alle prugne o stracotto con polenta,
contorno di verdure, dolce. Prenotare con una settimana d'anticipo, e in un gruppo di una decina d'avventori, è
l'unica alternativa per poter apprezzare la birra Kapuziner, i vini dell'Oltrepò, il pane di semola fatto fare in un
forno lì vicino e i molti ingredienti biodinamici con cui si lavora in cucina.
Tornando nel cortile, proprio di fronte si alza elegante la chiesa di Santa Maria la cui fondazione si fa risalire
all'VIII secolo ma che oggi, grazie alla paziente opera di restauro del Fai, si mostra nella veste della ricostruzione
romanica dell'XI secolo, con un'abside del XIII.
Da Torba, un viottolo tra i boschi di acacie, che sale uno dei terrazzi glaciali scavati dall'Olona, condurrebbe con
facilità fino a Castelseprio se le recenti frane e la generale incuria non l'avessero reso impraticabile. La zona, infatti,
era frequentata già nella tarda età del Bronzo e nella prima età del Ferro; in epoca tardoromana fu utilizzata come
punto di avvistamento e segnalazione integrato nel limes pedemontano, terra di confine che aveva il proprio perno
difensivo nel campo fortificato di Sibrium, l'odierna Castelseprio.
Con un giro più ampio si giunge all'area archeologica di Castelseprio, la cui visita, per i profani, può durare una
mezz'ora e si svolge come una passeggiata su un gran prato, costeggiando i resti di un ponte, di una grande basilica,
quella di San Giovanni Evangelista, di un serbatoio per l'acqua, di un fonte battesimale e ancora delle fondamenta,
o poco più, di un'abitazione medievale, e di una seconda chiesa, quella di San Paolo, a pianta esagonale.
Dirigendosi poi verso la parte che si affaccia sulla valle dell'Olona, si incontrano gli avanzi del recinto fortificato
del V-VIsecolo, che per oltre 700 metri di perimetro circondava il pianoro, mentre un'appendice scendeva sino a
racchiudere proprio il complesso di Torba.
Da non perdere, a poche centinaia di metri, il gioiello di Castelseprio, quella chiesina di Santa Maria foris portas
scoperta solo nel 1944 e che la menzione dell'arcivescovo di Milano, Arderico (936-48), graffita su un intonaco ha
fatto datare con certezza a prima del Mille. Luogo di incontro e di rifugio per molti viandanti, la costruzione in
ciottoli risalirebbe addirittura, secondo alcune ipotesi, al V-VI secolo dopo Cristo. All'interno (facendone richiesta
al custode dell'area archeologica) si possono ammirare i celebri affreschi dell'abside centrale, risalenti al VII-VIII
secolo.
La valle dell'Olona, peraltro, non esaurisce i suoi motivi d'interesse in Torba e Castelseprio. Risalendo di qualche
chilometro il corso del fiume si incontra infatti la straordinaria acropoli di Castiglione Olona.
Allungato su uno sperone a dominio del fiume, circondato in basso da un abitato poco allettante, l'antico borgo
deve la sua fama all'opera del cardinale Branda Castiglioni, esponente di spicco della nobiltà locale, giurista, legato
pontificio e vescovo di Veszprém in Ungheria. Tra gli anni Venti e Trenta del Quattrocento, ispirandosi ai canoni
rinascimentali appena introdotti in Toscana da Filippo Brunelleschi, il cardinale fece ricostruire pressoché
completamente il nucleo storico di Castiglione Olona, con esiti non solo eccezionali per l'epoca e l'ambiente, ma
ancor oggi emozionanti per chi sale, con calcolata fatica, dalla piazza fino alla Collegiata e al Battistero, custodi
degli straordinari affreschi realizzati da Masolino da Panicale.
Frutto dell'accostamento di un edificio trecentesco a un corpo quattrocentesco, il palazzo Branda Castiglioni
prospetta sulla piazza del borgo con un bel portale di pietra; di fronte la chiesa di Villa che nell'impianto si rifà agli
esempi fiorentini del Brunelleschi, particolarmente evidenti nelle profilature in pietra grigia su intonaco bianche,
integrato da statue legate ai caratteristici stilemi lombardi del periodo.
L'ascesa verso la chiesa prosegue tra antichi edifici che tradiscono l'origine quattrocentesca non solo nei dettagli ma
anche nelle ardite soluzioni, come la casa Magenta, dal bel passaggio aereo che scavalca la via.
Raggiunta la sommità, dove sopravvivono i ruderi del castello cui il borgo deve il nome, la Collegiata appare
improntata al gotico lombardo, con facciata profilata da un sottile frangia ad archetti. Ma è nell'ampia abside
poligonale che splendono le Storie della Vergine, affrescate da Masolino, capolavoro del Quattrocento italiano che
trova eco nel vicino Battistero, in realtà una elegante cappella ricavata da una torre dell'antico castello. Sulle pareti
e nella volta, con il ciclo di affreschi della Vita di S.Giovanni Battista, il grande artista toscano ha lasciato la più
importante testimonianza della sua maturità artistica quasi dieci anni dopo aver lavorato nella Collegiata.
È invece ridotta alle tracce dei disegni preparatori un'altra opera di Masolino, l'Annunciazione ai lati dell'ingresso.
Da non perdere, il piccolo, ma ben dotato, museo della Collegiata, accanto al Battistero.
COME ARRIVARCI
In auto: dall'autostrada A-8 Milano-Varese, uscita di Solbiate, seguendo le indicazioni per Castelseprio e per il
monastero di Torba.
DOVE MANGIARE
IL REFETTORIO
In occasione di manifestazioni, menù fisso a seconda della stagione in una sala a volta dell'ex monastero.
Altrimenti solo in piccoli gruppi
e su prenotazione.
Indirizzo: monastero di Torba, Gornate Olona.
Telefono: 0331-820301.
Chiusura: lunedì e domenica sera e dal 24 dicembre al 1_ febbraio.
Prezzi: 25-60.000 lire, vino escluso.
Carte di credito: nessuna.
DOVE DORMIRE
POSTA VECCHIA
Un piacevole due stelle di lunga tradizione, tra le colline alle porte di Varese.
Indirizzo: via Italia Libera 12, Gazzada Schianno.
Telefono: 0332-463333.
Fax: 0332-463160.
Chiusura: mai.
Prezzi: 55.000 lire la camera singola, 75.000 lire la doppia.
Carte di credito: CartaSì, Visa,
MC, EC.
Animali: tutti.
INDIRIZZI UTILI
MONASTERO DI TORBA
Informazioni sulle iniziative culturali del Fai e per la visita del complesso.
Indirizzo: Torba, Gornate Olona.
Telefono: 0331-820301.
Orari: sabato, 14-18 e domenica 10-18 per la mostra La frutta antica; negli altri giorni, 10-13 e 14-18.
Giorno di chiusura: lunedì.
Ingresso: 5000 lire.
POMONA
L'Associazione nazionale per la salvaguardia e la tutela della frutta antica.
Indirizzo: via Bramante 29, Milano.
Telefono: 02-3450751.
Orari: 9-13 e 14.30-18.
Chiusura: sabato e domenica.
Presentazione di
ENCICLOPEDIA ZANICHELLI 1997 MULTIMEDIALE
INTERATTIVA
Palazzo Baldassini
via delle Coppelle 35
Roma, 16 novembre 1996, ore 9,30
Direttore:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Umberto Eco, Mario Deaglio, Adriano Sansa, Moni Ovadia, Marco Giusti, Giuseppe Turani, Raffaele Simone,
Caterina Zaina, Giovanna Grignaffini, Altan, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio, Renato Mannheimer, Gianni
Riotta, Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Roberto Caselli, Giulio Blasi, Ranieri Polese, Mario Calabresi, COMIX.
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato, Elisa Mazzini e
Francesca Poppi
Software:
Il dibattito sulla verità nei giornali e sulla crisi della stampa, aperto da Gianni Riotta, Umberto Eco, Furio Colombo
nei numeri 03 e 04 di Golem e ripreso in parte anche da alcuni quotidiani, è continuato poi sull'Espresso e sulla
Repubblica con interventi di Umberto Eco, Nello Ajello, Curzio Maltese.
Ripubblichiamo sulla nostra rivista, in accordo con l’editore, tutti gli interventi, insieme a tre interviste, raccolte per
Golem da Mario Calabresi e Marcello Campo, a Vittorio Feltri direttore de Il Giornale, Ferdinando Adornato
direttore di Liberal, Enzo Biagi.
Ecco la cronistoria completa del dibattito. Potete leggere gli interventi on-line, oppure scaricare il testo in un
documento (formato Word).
Intorno a questo tema abbiamo realizzato, con la collaborazione di Renato Mannheimer un sondaggio, alimentato
anche da contributi proposti nel Forum.
Forum: Il giornale sincero
Quello dell’informazione è un tema cruciale su cui desideriamo continuare ad avere la vostra opinione.
Umberto Eco
Caro Sisifo
A proposito degli interventi che hanno fatto seguito alla provocazione di Riotta: i fronti si dividono nettamente: da
un lato lo scetticismo e la disaffezione dei "lettori", dall’altro le affermazioni ideali dei direttori di giornale. Come
se uno andasse dal dottore dicendogli che sta morendo e l’altro rispondesse che ha fatto il giuramento ippocratico.
Poche definizioni pratiche di verità "pubblica" (escludo le certezze interiori, come sapere che ci fa male al ventre o
che amiamo davvero qualcuno).
1. Verità di esperienza: se dico "piove" dico la verità non solo se, tendendo la mano, avverto delle gocce che
cadono (perché potrei essere malato, oppure stare stupidamente accostato al muro sotto un canale di scolo) ma
anche se un certo numero di persone accanto a me acconsentono.
2. Verità culturale: è vero che Napoleone è morto a Sant’Elena, che Berlino è in Germania, che l’acqua è H2O. Non
lo so in base alla mia esperienza, ma la mia esperienza mi ha convinto che devo dar fiducia ad alcune fonti che,
tutte, acconsentono intorno a un fatto.
Un giornale può muoversi solo tra questi due tipi di verità. La faccenda, citata da Riotta, dell’aborto, fa già parte
delle verità "filosofiche". Un giornale può occuparsene solo sotto forma di rassegna di opinioni. O presentandosi
esso stesso come veicolo di opinione, esplicitamente schierato.
Quanto al primo tipo, che sia davvero esplosa una bomba ad Atlanta il giornale lo potrebbe dire solo se vi fosse
stato là in quel momento un suo inviato speciale. Però, per convenzione, giornale e lettori accettano come verità di
esperienza la notizia di agenzia. Starà però al giornale l’onere di correggerla se non concorda con altre notizie di
agenzia. Tutte le altre notizie dovrebbero essere introdotte da "il Tale dice che" (il giornale garantisce solo che il
Tale lo ha detto davvero).
Tuttavia un giornale può "creare" notizie quando un fatto singolo viene proposto come segno evidente di una
tendenza generale. Accadono tre incidenti autostradali, uno a Agognate, un altro a Imola, il terzo sulla Roma
Napoli; se metto le tre notizie nella stessa pagina ho già trasformato tre fatti individuali in un fenomeno generale.
Dovrei apporre anche una finestrella statistica: se apparisse che tre incidenti autostradali al giorno sono la media
dell’ultimo decennio, la notizia avrebbe minor valore. Se ritengo che tre incidenti al giorno per dieci anni sono
troppi, allora articolo d’opinione.
Veniamo alle verità culturali. Esse possono sempre essere revocate in dubbio (Galileo ha scoperto che Tolomeo
aveva torto). Su una rivista pubblicata dall’università di Broz si scrive che, in base a esperienze sui topi, l’acqua
può causare il cancro. Dare la notizia può essere interessante, ma il giornale dovrebbe dire al tempo stesso (a) quale
è il credito di cui gode l’università di Broz (ma spesso l’articolo inizia con "l’autorevole università di Broz..."); (b)
se altri autorevoli centri di ricerca hanno reagito con scetticismo, o con interesse (ma spesso le eventuali riserve, se
sono citate, appaiono in coda); (c) quante volte negli ultimi cento anni qualcuno ha presentato teorie analoghe
(questo il giornale tenta disperatamente di non fare, altrimenti la notizia non sarebbe uno scoop). Così si spara a
quattro colonne la notizia diffusa da Broz, ed è fatta: il giornale ha praticamente garantito che l’acqua causa il
cancro.
Una categoria a parte è data dagli "indizi". Scalfaro appare in pubblico con una cravatta verde e blu, il Papa nel suo
ultimo discorso non cita la bomba di Atlanta. Potrebbero essere fatti casuali; potrei invece decidere di interpretare il
primo come una dichiarazione di neutralità tra il blu del Polo e il verde dell’Ulivo, e il secondo come disinteresse
polemico verso le Olimpiadi. L’unica soluzione onesta è parlarne nell’articolo di opinione; se sparo il titolo "Il
papa tace su Atlanta" ho già gonfiato qualcosa forse irrilevante trasformandolo in notizia.
Quello che preoccupa nella stampa odierna non è che dia notizie false (tutto sommato, accade di rado), ma che
mostri (e provochi) indignazione o stupore per fatti o tendenze "normali". Che nel sottobosco dello spettacolo,
registi o impresari si portassero a letto le attricette in cambio di una comparsata è cosa nota credo dai tempi di
Plauto; è fenomeno endemico come la prostituzione o il furto con destrezza. Caso mai da circa un secolo i più
sporcaccioni filmano anche le scopate (ma anche questo era noto). Poi un giorno i giornali da un normale evento
giudiziario (che meritava mezza colonnina) traggono pretesto per pagine scandalistiche. Debbono farlo, dal
momento che, per contrastare la concorrenza della televisione (che dà le notizie la sera prima) hanno deciso di
trasformare in notizia rilevante ogni evento che riguardi l’universo televisivo.
Cosi sono i giornali a produrre il caso Lenzuola Pulite, e inducono i lettori a pensare che si tratti di un fenomeno
emergente, misteriosamente connesso sia a Tangentopoli che alla lobby di Lotta Continua.
I lettori di Golem sembrano ritenere che queste pratiche siano dovute a scarso professionismo o a disonestà. No,
sono fenomeni naturali, come l’inquinamento da gas di scarico, che non è dovuto al fatto che tutti gli automobilisti
siano criminali. Per far fronte alla concorrenza della televisione, la stampa parla della televisione (poteva prendere
un’altra strada, ma così ha deciso, per cui ogni giornale, invece di tacere quanto possibile sul proprio concorrente,
si presenta come una Fiat che rechi stampato sulla fiancata "fidatevi della Renault"). Per sostenere la guerra della
pubblicità, il giornale deve riempire più pagine di quanto le notizie degne di attenzione gli consentirebbero. Così il
quotidiano è diventato simile a un settimanale, e tra il modello del settimanale ha quello più scandalistico,
specializzato nel creare la notizia dell’affettuosa amicizia tra Tizio e Caia.
Il fatto che questi fenomeni siano "naturali" non implica che vadano accettati: si cerca di evitare l’inquinamento
automobilistico e si cerca addirittura di prevenire i terremoti, quindi rimane aperto il discorso su una stampa
diversa. Ma è come produrre automobili elettriche: a chi conviene davvero? Nel contempo però si cerca di educare
la gente a un uso moderato dell’automobile. Così deve accadere per la stampa, e partendo dalla scuola.
La diffidenza dei lettori deve essere trasformata in metodo. In fondo i lettori più "educati" sono quelli di "Novella
2000": sanno benissimo che sono palle, ma le trovano divertenti. Partite dal principio che il giornale non dice "la
verità" ma produce una merce chiamata notizia. Se il giornale vi dice che è esplosa una bomba ad Atlanta, è
ragionevole crederci. Se vi dice che sono stati i fascisti americani o i fondamentalisti musulmani, controllate se cita
delle fonti, e quali sono. Se vi spara su quattro colonne che Prodi ha litigato con Veltroni, incominciate a pensare
non sia vero (forse Prodi ha solo detto "scusa, io la vedrei diversamente..."). Se vi dice che è morto il romanzo,
avreste già dovuto imparare che si tratta di "canard" stagionale, serve a far pagine. Se pubblica una recensione di un
libro, credeteci: essa dice di solito quel che davvero pensa il recensore, o quello che egli davvero desidera che voi
pensiate.
Insegniamo alla gente a usare i giornali per quel che sono, partendo dal principio che gli unici veramente attendibili
sono quelli esplicitamente faziosi. Non fanno finta di dire la verità, ma ci dicono (assumendosene la responsabilità)
quello che dovremmo volere.
Forum: Il giornale sincero
Furio Colombo
Fuga dalla rilevanza
Ci si può fidare dei giornali? Ci si può fidare delle fonti di informazione, radio e televisione? Ci sono paesi migliori
e paesi peggiori, nel sistema delle informazioni? Se è così qual’è il modello più alto?
La crisi del giornalismo o almeno la crisi del rapporto fra gente e giornali fa il giro del mondo. Il problema non è il
meglio o il peggio. Certo alcuni giornali hanno ancora il grandioso respiro del New York Times o del Wall Street
Journal. Altri identificano in modo geniale, ciò che conta nella realtà locale, anche molto piccola. Ma neppure la
distanza grandissima fra il meglio e il peggio spezza il filo che unisce tutto il sistema delle informazioni nelle
democrazie industriali.
Si tratta di una deriva verso il futile, verso l’ornamentale e l’irrilevante.
Lo scopo è probabilmente di fermare l’attenzione sempre più instabile, sempre più effimera. Questa stanchezza in
parte è dovuta alla grande quantità di opzioni e di scelte. In parte per la scarsa fiducia che lega gli utenti alle fonti
dell’informazione.
Questa sfiducia è forse nata come parte di un più vasto movimento di distacco tra opinione pubblica e istituzioni,
un disincanto che sta spingendo moltissima gente a cercare una nuova ambientazione nelle periferie culturali,
sociali, psicologiche. Comunque lontano dal centro.
È accaduto che i media - carta e televisione - hanno reagito alla crisi di attenzione con dosi crescenti di effimero,
erotico, mondano, irrilevante o - come si osa dire - "divertente".
Niente come il "divertente" diluisce o rende ancora più instabile il rapporto con l’utenza, e smobilita l’attenzione.
Gradatamente le regole dell’informazione si deformano, lasciano il campo dell’informazione e si piegano sempre di
più al mondo dello spettacolo.
Al fenomeno di questo spostamento si aggancia la pratica sempre più diffusa di legare ogni atto, ogni iniziativa di
informazione, ogni numero di giornali, ogni ora e minuto della televisione e un indice di diffusione e di ascolto.
Comincia qui una spirale destinata a produrre tre conseguenze: aumenta la presenza di spettacolo nelle notizie, si
produce il fenomeno sempre più esteso delle star, delle "celebrities" che chiedono spazio e impongono un sistema
devastante di gerarchie. Alla fiducia dell’utente per la fonte si sostituisce l’attenzione discontinua ed erratica e un
legame di lealtà che si sposta a colpi di teatro, beneficiando di espedienti e trovate teatrali, subendo la punizione di
ciò che è ritenuto "noioso".
In questo nuovo spazio di informazione - spettacolo la meraviglia è destinata a sostituire la fiducia, la sorpresa
prende il posto della notizia. Non c’è più l’opinione pubblica, c’è il pubblico dello spettacolo pronto a spostarsi
secondo i colpi di scena e disposto a lasciarsi intrattenere.
La crisi, come si vede non riflette un momento sfavorevole ma un’evocazione di struttura.
E la divaricazione si fa inevitabile: più entrano spettacolo e "celebrities", più si allontana l’attenzione e la fiducia.
La prova è il continuo contrarsi nella circolazione complessiva delle copie di giornale nelle democrazie industriali,
e il procedere incerto, legato a periodi brevi di successo , a bruschi cambiamenti tipici del mondo dello spettacolo.
È un percorso senza ritorno? La cura è dentro internet. Nella rete la qualità d’informazione diventa grandissima,
mirata, circola dentro corridoi molto stretti che arrivano molto lontano e si moltiplicano in modo incalcolabile, su
spazi molto vasti. Lo stimolo di un così immenso deposito di spunti informativi servirà a rimettere in movimento il
sistema, se non altro come espediente di salvezza.
I lettori di Golem (o meglio il gruppo di lettori che ha risposto al nostro sondaggio on-line) hanno relativamente
poca fiducia nella stampa. E in ciò somigliano alla maggioranza relativa degli elettori italiani. È ciò che emerge
dalla inchiesta su questo tema condotta contemporaneamente tra coloro che hanno risposto al questionario di
Golem e tra un campione rappresentativo della popolazione italiana.
Ecco anzitutto i risultati per ciò che concerne il pubblico di Golem. Interrogati sulla "fiducia" alla stampa, il 69%
dei rispondenti (dunque più di due terzi) ha dichiarato di avere "poca fiducia", un altro 8% ha addirittura "nessuna
fiducia", mentre il restante 23% ha "molta fiducia".
Tre intervistati su quattro, dunque, non stimano granché i nostri giornali. Ma, più della numerosità in sé (anche
perché il campione che ha risposto è relativamente esiguo, 51 persone), è interessante esaminare CHI sono i critici
verso i giornali, in termini di caratteristiche sociali ed economiche. In particolare, un minor grado di fiducia verso
la stampa è espresso dalle donne, mentre non si riscontrano differenze particolari per età. Dimostrano poi meno
fiducia gli impiegati (mentre i livelli relativamente massimi di fiducia nella stampa si riscontrano tra i 4
imprenditori che hanno risposto).
Ma la differenziazione più significativa è quella corrispondente alla zona di residenza. Si è visto che, tra i
rispondenti di Golem, la quota media delle riposte "poca/nessuna fiducia" è pari al 75%. Ma tra coloro che abitano
nelle regioni del Nord essa è "appena" del 68%, mentre è pari al 75% al Centro ed raggiunge il 91% al Sud. Qui dei
giornali non si fida nessuno.
Sin qui le risposte dei lettori di Golem. Ma, come si è detto, una domanda analoga è stata posta ripetutamente anche
ad un ampio (quasi 4000 soggetti) campione rappresentativo dell’elettorato italiano, interrogato nel corso di tutto lo
scorso anno. I risultati di questo sondaggi corrispondono significativamente a quelli rilevati tra i lettori di Golem.
In occasione dell’ultima rilevazione, effettuata alla fine di giugno, la quota di coloro che affermavano di avere
fiducia nella stampa era pari al 26%: lo stesso dato rilevato tra il pubblico di Golem.
Ma, anche se su livelli relativamente bassi, la fiducia del pubblico italiano per la stampa ha mostrato, negli ultimi
mesi, un trend relativamente crescente. Dal 18% di "fiduciosi", rilevato nel gennaio 96, si è gradatamente passati al
21% di marzo, al 24% di aprile, sino al 26% di oggi. Il campione nazionale ci permette anche di distinguere i livelli
di fiducia secondo l’orientamento politico. E questa analisi ci mostra un dato sorprendente: i più "fiduciosi" verso
la stampa risultano essere gli elettori del Pds! Che sia una critica implicita al segretario, Massimo D’Alema che, in
più occasioni ha mostrato un atteggiamento assai poco entusiasta della stampa italiana?
Vacanze, istruzioni per l’uso. Dove andare, con chi, con che cosa ed eventualmente perché. Non c’è giornale
italiano che resista alla tentazione di ripetere - un anno dopo l’altro - liste di luoghi e di persone raccomandate (o
sconsigliate) per i giorni della "grande fuga", della "lunga - o breve - estate calda" ecc.ecc.
Insomma, per quanto le città chiudono per ferie (ma è così trendy restarci proprio allora, dicono e scrivono i più
informati), quando l’obbligo è fuggire via dalla pazza folla (ma quest’anno più che mai la discoteca di Riccione ha
la meglio sulla Maremma dei capalbiesi), quando l’ultimo imperativo è fare marmellate da regalare ad amici che ti
hanno già regalato le loro,, o minacciano di farlo al più presto. Settimanali e magazine di grandi quotidiani (il
"Corriere" con "Sette" e "Io donna", "Repubblica" con "Venerdì" e "D": anche tenersi semplicemente aggiornati è
diventato maledettamente faticoso) hanno intanto già passato in rassegna spiagge & viaggi, diete, vestiti e musiche
d’estate, nonché festival e libri.
Questi ultimi, i libri appunto, ci vengono cortesemente indicati da eccellenti testimonial, come su "D", dove fra
l’altro si conferma una cosa che sapevamo già: che cioè i lettori famosi non leggono mai, ma rileggono (salvo le
novità, che comunque loro hanno appena finito di leggere, magari in versione originale, se straniere; o in bozze, se
italiane). E si scopre che la cosa più giusta in questo momento è la filosofia. Due esempi, tratti appunto dal numero
10 di "D": "Mi piacerebbe riprendere Schopenhauer, magari "La quadruplice radice del principio di ragion
sufficiente"", Paola Capriolo: "L’introduzione a Hegel" di Kojève, appena tradotto (letto a pezzi durante
l’università) mi aspetta per squarci di lettura durante l’estate", Enrico Ghezzi.
Ma saliamo di tono. Ed arriviamo alla grande sfida. Da una parte "Panorama" ha messo in copertina Valeria Marini
col titolo "Seguimi, sarò la tua estate" (e dentro un’agenda fittissima di libri spettacoli luoghi e naturalmente anche
qui le marmellate...); dall’altro rispondeva "l’Espresso" con Massimo Cacciari. che consiglia un punto di partenza
assolutamente singolare: lo Steinhof. Già, ma cos’è lo Steinhof? È il manicomio di Vienna, "è il punto da cui
spiritualmente si domina Vienna" ci spiega "Il punto dove meglio si può comprendere la Vienna di fine secolo, tra
"L’interpretazione dei sogni" di Freud e le sinfonie di Mahler, e cioè quel momento di crisi epocale in cui tutti i
nostri fondamenti hanno cominciato a vacillare". Ora, va bene tutto. Accettiamo pure l’attenuante
dell’autocitazione ("Dallo Steinhof" è il titolo di un saggio di Cacciari uscito da Adelphi anni fa), ma questo
itinerario ci sembra in ogni modo eccessivo. Va bene la filosofia, va bene la crisi, la fine secolo che incombe ecc.
ecc. ecc. Però, via...
P.S. E comunque, che triste estate è mai questa, dove l’unica vera alternativa è fra il manicomio di Vienna e le
marmellate?
Aldo Grasso
A ciascuno il suo mezzo
Se fossi Maurizio Costanzo proverei qualche imbarazzo a invitare nel mio salotto televisivo alcune persone, tra cui
Valerio Merola ed Enrico Preziosi. Non li inviterei per un caso di coscienza, anche se rappresentano due casi
mediatici di estremo interesse.
Se fossi Maurizio Costanzo - e mi fingo conduttore perché il talk show è diventato l’unica forma di processo
popolare, vox populi... - penserei però a quel molto che perdo e a quel poco che guadagno.
Se fossi Maurizio Costanzo racconterei così le storie esemplari di Valerio Merola e di Enrico Preziosi.
Il presentatore Valerio Merola ha ottenuto la libertà dal gip di Biella, pur restando indagato, perché ha decantato le
sue doti anatomiche: "La vera prova della falsità delle accuse la porto dentro i pantaloni. Ho fatto anche una perizia
medica che lo ha attestato scientificamente. Non posso avere rapporti sessuali di un certo tipo se la mia partner non
è consenziente". Non c’è nulla da tradurre è sufficiente la finezza espositiva del protagonista: "Non posso
sodomizzare una ragazza, la ridurrei male perché sono superdotato. Ecco la prova". Il gesto lo immaginiamo. Alle
affermazioni di Valerio Merola, detto Merolone, sono scattate le reazioni dei media: i fotografi lo vogliono nudo
per immortalare tutto quel bendidio, i giornalisti bramano raccogliere le sue confessioni (diverse da quelle fatte al
giudice), le TV sono pronte a rimetterlo nel circuito, magari cambiandogli ruolo: da presentatore a presentato. È un
paese il nostro in cui gli attributi hanno sempre avuto un valore non indifferente, e a chi compie opere di certa
attribuzione non è consentito restare nell’ombra.
D’altronde lo abbiamo già verificato con Gigi Sabani: che sarà mai portarsi a letto due o tre ragazzine in cerca di
notorietà? Per qualche puttanella dobbiamo perderci le imitazioni di Sabani? Invitato qui, al "Costanzo Show",
Sabani ha ricevuto un caloroso tributo di affetto e caldi applausi. Assolto. Via, come se non sapessimo che una
delle persone coinvolte indirettamente nel caso Sabani era l’amante di un alto dirigente Rai. È un mondo così,
inutile fare le verginelle.
L’industriale Enrico Preziosi è titolare di una nota ditta di giocattoli, la "Giochi Preziosi", possiede anche Junior
Tv, una syndacation che raggruppa alcune emittenti specializzate in programmi per bambini (era il maggior
inserzionista, ne è diventato il padrone pur non leggendo Karl Popper) ma per mesi ha occupato le cronache dei
giornali perché voleva comprare una squadra di calcio: una gloriosa e sfortunata compagine. Il Torino. Non l’ha
comprata. Almeno finora. C’è chi ha parlato di farsa, chi di virtualità, chi di bufale estive. Il re dei giocattoli non
compra e fin qui la storia potrebbe interessare quei quattro gatti, per giunta sfigati, che sono i tifosi del Torino che
da un po’ di anni hanno trovato altre occasioni per soffrire: i presidenti. La storia invece riguarda chi si occupa di
comunicazione perché esiste il fondato sospetto che Enrico Preziosi con le squadre di calcio da comprare ci sappia
giocare a meraviglia.
È il terzo anno che si impegna in estenuanti trattative per far sua una squadra di calcio: prima con una provinciale,
poi con il Genoa e infine con il Torino. Un genio: per un mese all’anno riesce a far parlare di sé spendendo
pochissimo: la benzina per i suoi collaboratori, qualche modesta parcella a un consulente, una decina di pasti. Li
avrebbe spesi comunque quei soldi lì. Per un mese all’anno i giornali sportivi e anche quelli cosiddetti politici
regalano paginate al signor Preziosi, il più clamoroso caso di pubblicità a costo zero.
Se fossi Maurizio Costanzo mi porrei questi due problemi filosofici. Il primo: la vita - questa prosopopea del c...o.
Il secondo: che peccato che per arrivare alla notorietà si debba passare attraverso i media.
Invitarli o non invitarli?
Danco Singer
Progetto
A distanza di vent'anni gli organismi militari e le vacanze estive hanno nuovamente portato fortuna ai nazisti.
Allora era Kappler il fortunato: fuggì dall’ospedale militare di Roma; oggi è Priebke a poter immaginare per sé un
futuro da libero cittadino del mondo.
E’ cambiata la forma, meno truffaldina e grottesca, è rimasta la sostanza: i criminali nazisti è meglio lasciarli liberi.
Si sono spese molte parole attorno a questo evento: sulla correttezza giuridica della sentenza, l’autonomia dello
Stato, la forma. Poche, troppo poche sull’enormità , l’eccezionalità, la intollerabilità dei crimini commessi non da
un’idea astratta, ma dalle persone , da queste persone.
Di fronte all’intollerabilità - come ha scritto Umberto Eco il 4 agosto scorso su Repubblica - cadono i distinguo
sulle intenzioni, la buona fede, la correttezza formale. C’è solo la responsabilità "oggettiva".
L’Olocausto è stato un effetto deliberato, una creazione del nazismo, ed una esperienza unica nella storia, che
nessuna revisione potrà mai giustificare.
Non possiamo abbassare la guardia di questa intollerabilità. Non dobbiamo dimenticare quanto è successo e come è
successo, né smettere di interrogarci su come un simile orrore abbia potuto avere luogo.
Come ha ben scritto Furio Colombo perdere l’identità e la coscienza di sé, con la memoria, non è ammissibile.
Golem è un piccolo magazine , ma propone ai suoi lettori e ai suoi collaboratori un progetto ambizioso, un lavoro
in questa direzione, con il quale intende unirsi a tutti quelli che costruiscono la memoria della Storia: individui,
associazioni e istituzioni.
Da questo numero Golem apre un forum permanente dedicato alla memoria dell’Olocausto, una storia che a
cinquant’anni suonati è ancora attuale, calda e dolorosa.
Sarà uno spazio a disposizione delle Vostre storie e riflessioni; entro la fine dell’anno Golem dedicherà un numero
monografico a questi temi. Vorremmo che diventasse uno strumento vario e articolato non solo per raccogliere e
comunicare le nostre esperienze, ma anche per trasformarle, per quanto possibile, nella rete e fuori dalla rete, in
esperienza di tutti.
Preparava il consommé
che bolliva dalle tre.
"Qui il mestolo non c’è",
disse. Quindi, xxx xx.
4. MI BASTA POCO
6. SCOORDINATO CARTESIANO
8. MELENSE RITROSIE
1. è sumo
2. o Muse
3. usò me
4. museo
5. Suo E.M.
6. e/o sum
7. e muso
8. s'è mou
9. esumo
10. mouse
Un tranquillo venerdì di paura
Giovanna Grignaffini
Manuel de Oliveira è l’anzianissimo Signore del cinema portoghese e i suoi film hanno un senso del Tempo che si
esprime in azioni ampie, dense e pensose.
I Misteri del convento è da poco sugli schermi italiani, ma è un film del 1995 e mi sembra bello vederlo in piena
estate.
È un racconto che si svolge nelle due ore regolamentari, non oceanico come capolavori quali Fransisca o La valle
del Peccato, ma comunque ambizioso. Il riferimento fondamentale infatti è il Faust di Goethe, una pietra miliare
della letteratura occidentale che ha ispirato autori come Murnau (Faust) e René Clair (La bellezza del diavolo).
In una misura discreta, abbastanza lontana dalla imponenza che pure Oliveira non teme, il film trasferisce in un
racconto semplificato il nodo cruciale della vicenda faustiana, ma questa trasposizione avviene non tanto in virtù di
una rigida fedeltà al testo, ma per una via propriamente cinematografica.
La coppia Deneuve-Malkovich giunge in un convento che si direbbe abbandonato da secoli dagli eremiti per
consultare un importante archivio che il professore (Malkovich) considera essenziale per verificare le proprie
ipotesi su Shakespeare.
I due vengono accolti da una specie di custode che insidierà presto la bella Heléne (Deneuve), mentre una diversa
attrazione unisce il professore e Piedad, giovane e immacolata direttrice dell'archivio. A queste due coppie, che
ricalcano per certi aspetti anche i protagonisti de Le Affinità Elettive, si aggiunge quella dei due servitori, una
specie di corrispettivo nel registro basso/comico che commenta gli eventi come farebbe in una tragedia
shakespeareana. Questa, molto in breve, la situazione del racconto.
I riferimenti al Faust avvengono esplicitamente attraverso due significative citazioni; tuttavia quest'opera di
straordinarie parole viene trasfigurata in una storia semplice, in pochissimi dialoghi, ma in uno spazio scenico e
cinematografico denso, che genera stupore.
Non il dialogo incalza, né il montaggio, che in alcuni momenti arranca, ma una qualità dello sguardo che lo
spettatore affina nel corso del film, come i due protagonisti che arrivano al convento.
Il convento è uno spazio chiuso la cui struttura è del tutto incomprensibile, fatto di cunicoli, passaggi, scalette,
aperture che non si sa dove conducano. Conoscerne le articolazioni non serve allo spettatore, non ad anticipare gli
sviluppi dell'intreccio.
È uno spazio che nell'essere attraversato genera sospensione, e che insiste sullo schermo; è un ritmo che ci
costringe a interrogare l'inquadratura e il luogo che rappresenta, a guardarlo, a incuriosirci ad esso e ai suoi
misteriosi abitanti di pietra: statue mozzate, curiosi rilievi.
Le parole nel film sono davvero poche, ma c'è molta azione; c'è un movimento continuo dei personaggi nello
spazio che si traduce in movimento delle loro anime: lo spazio genera stati d'animo. C'è insomma un vero racconto,
ma il suo sviluppo è tutto sul piano delle sensazioni.
Il cinema di Oliveira è sempre sensibile alle sensazioni, cioè a tutti quei fenomeni per i quali sentiamo e
percepiamo noi stessi e il mondo.
Rumori di ogni specie, porte che sbattono, fruscii di foglie, ritmi di acque, passi, eco, sono corredo essenziale degli
spazi siano essi naturali o no, e consentono di far essere quegli spazi nelle sensazioni degli spettatori, come in
quelle dei protagonisti; costruiscono uno spazio cinematografico globale e coinvolgente, attraversato da un Eros
inquieto senza che vi sia una sola scena di amplesso.
Quando i due visitatori si aggirano per il convento le loro teste fanno capolino dall'esterno di una grotta; il
controcampo che in qualunque racconto mostrerebbe l'oggetto della loro attenzione, ritarda ad arrivare e così i due
guardano noi, in platea, lungamente; quando il controcampo arriverà, molto più tardi, non ci importerà più nulla
della grotta, ma avremo appreso quella qualità curiosa dello sguardo e sapremo anche noi guardare con quella
calma, quella lentezza che osserva e può sorridere anche dell'abisso.
La tentazione di Mefistofele avviene dunque su un piano di terrena bellezza e meraviglia, e pur senza riprendere
puntualmente il racconto goethiano, Oliveira ripropone su piano sensoriale quel desiderio di pienezza e di vita che
Mefistofele conosce e alimenta in Faust.
Introducendo i suoi visitatori nel cuore di una natura parlante e dionisiaca, Oliveira coltiva spettatori in grado di
riascoltare le proprie facoltà: occhi, orecchie, odorato; spettatori sensibili, ma saggi, che hanno anni, mi verrebbe
da dire, in grado di sentire su di sé le tentazioni del mondo e di volgerle a favore del proprio cuore, senza paura e
con non poca ironia. Come la bella Helène- Deneuve appunto , che sa come si trattano i diavoli.
Fermo-immagine
Carlo Bertelli
Uno storico dell’arte è qualcuno che si occupa di immagini ferme. Non è, il suo, un lavoro paragonabile a quello di
uno storico del cinema che si basi sulle still photographs, ma certo lo storico dell’arte suppone che la storia sia
altrove, nel Vangelo, nella Leggenda Aurea o nelle Metamorfosi. Capita, invece, di mettere improvvisamente a
confronto un certo modo di analizzare le immagini con altre possibilità di osservazione e volgendosi ad altri campi.
L’altro giorno, entrato in una libreria, ho incontrato un cliente che era ammirato da quanto aveva visto in
televisione. La formidabile vincitrice della gara di mountain-bike, asseriva, si era chiusa la cerniera lampo e poi
aveva fatto il segno della croce. Espressi i miei dubbi sulla sequenza, e il mio interlocutore mi rispose che l’aveva
vista tre volte. Non ne ero convinto, e poiché la sequenza venne trasmessa in più occasioni, ho potuto constatare
che avevo ragione.
La successione degli avvenimenti non mi sembra da poco. Se la ragazza si fosse chiusa la cerniera lampo e, quindi,
avesse fatto il segno della croce avrebbe dimostrato di ritenere che cerniera aperta e segno della croce non fossero
compatibili. Poiché, invece, prima si è segnata e poi si è chiusa, dobbiamo ritenere che il segno della croce fosse un
gesto liberatorio alla fine dello sforzo compiuto e non una richiesta di perdono per aver pedalato con la blusa
aperta. Nello stesso tempo la ricostruzione del mio sconosciuto interlocutore dimostra che la sua percezione degli
avvenimenti era fortemente condizionata dalle sue prevenzioni circa quel tanto di nudo femminile che la corsa della
campionessa aveva permesso di vedere e di apprezzare.
Dico apprezzare perché tutta la poesia e la scultura dedicate agli atleti greci ci confermano l’apprezzamento della
bellezza del corpo, anche se per gli atleti greci si tratta esclusivamente di quello maschile. Mi sembra, così che
anche le Olimpiadi costituiscano una rivincita della cultura del corpo, anche dove il tributo alla religione cattolica è
evidente. Non ho mai amato lo spirito di competizione del motto "citius, altius, fortius" di de Cobertin, ma non
posso non riconoscere a queste ultime olimpiadi televisive il merito di aver portato all’attenzione di milioni di
persone il corpo e l’uso che la mente ne può fare, Come storico dell’arte, mi ritiro ordinatamente, augurando a tutti
buone mostre e buone escursioni, ma con la consapevolezza che l’immagine, concetto spaziale, non può essere
separata dalla connessione temporale, e non vuole essere fraintesa.
Fumetti
a cura di Comix
Cemak
Mora
Internet e gli altri
Giulio Blasi
Se Internet è un nuovo medium allora se ne comprendono le caratteristiche specifiche cercando di capire in che
modo esso interagisce con la configurazione dei media già esistenti. Studiare in che modo un nuovo medium
costruisce le sue relazioni con i media preesistenti è facile a dirsi ma si tratta di una prospettiva di analisi ancora
poco sfruttata (nonostante gli inviti e gli esempi forniti da studiosi come Meyrowitz, Ortoleva e tanti altri).
Per ciò che riguarda Internet, un modo per avvicinare il problema consiste nell’osservare in che modo gli "altri
media" usano Internet. Il modo in cui la TV, la stampa, la radio, il cinema usano Internet ci insegna in che modo gli
operatori dei media tradizionali vedono le comunicazioni on-line e che tipo di relazioni cercano instaurare tra i
diversi mezzi.
Il rapporto tra la TV e Internet è senz’altro suggestivo. I discorsi sulla TV digitale, sulla TV interattiva, sulle
comunicazioni a banda larga, alludono all’idea che il modo in cui oggi fruiamo dei servizi televisivi potrebbe in
futuro trasformarsi sino ad assomigliare a qualcosa di non troppo diverso dal sistema di browsing on demand del
World Wide Web. In breve: la rete Internet che usiamo oggi costituirebbe una sorta di prototipo tecnologicamente
povero della televisione del futuro.
Ma a prescindere dai discorsi futurologici (provate a cercare "television" nel sito di HotWired o a consultare
l’archivio di "Mediamente"), in che modo si comportano gli operatori televisivi su Internet?
Per un vostro sondaggio personale vi consiglio di partire dall’indice di Yahoo sulle risorse relative alla televisione.
Io mi concentrerò qui esclusivamente sul caso italiano. All’estero esistono già esempi importanti che nascono da
investimenti consistenti in genere non paragonabili all’entità del mercato italiano (MSNBC, CNN, Channel 4, ecc.).
La RAI offre servizi singolarmente interessanti. Buono il servizio dei TG regionali in Real Audio. Interessante
l’idea dell’archivio storico della radio on-line. I due programmi principali che hanno sfruttato la rete sono
"Mediamente" e "Tempo Reale" (in collaborazione con Italia On Line).
Francamente più povero il panorama di Mediaset sebbene venga annunciato per settembre un servizio on-line del
TG5 che si preannuncia interessante. Difficilmente competitivo il palinsesto delle tre reti.
Anche le TV di Cecchi Gori hanno una presenza in rete di basso profilo.
A parte poche eccezioni (in RAI), gli obiettivi di chi ha progettato i servizi Web dei grandi network televisivi
italiani sono paradossali: distribuire il palinsesto delle reti (cosa che già avviene attraverso la TV stessa e la stampa,
quotidianamente, con decine di milioni di contatti), offrire informazioni globali sulle società (ma anche qui si tratta
di un obiettivo meglio raggiunto con altri mezzi).
Pochissimi programmi televisivi usano attivamente Internet. Forse il caso più interessante è quello di
"Mediamente" (un programma di Renato Parascandolo condotto da Carlo Massarini) che già dall’interfaccia sceglie
un obiettivo chiaro (anche se non l’unico) per il sito web del programma: diventare la "biblioteca digitale" dei
materiali distribuiti via etere. Anche nel caso dei Giornali Radio regionali distribuiti on-line dalla RAI siamo in
presenza di un obiettivo ben delimitato che punta ad offrire un servizio altrimenti difficilmente ottenibile:
un’interfaccia di navigazione unica verso l’informazione distribuita nella singole regioni. Può darsi che i navigatori
siciliani (poniamo) interessati all’informazione regionale ligure siano una nicchia ma si tratta di una nicchia che
trova nel web un modo di accedere all’informazione del tutto peculiare.
Un elemento cruciale della programmazione televisiva è il tempo: la scansione delle fasce orarie, le relazioni
competitive e di appoggio tra le varie reti, la delimitazione settimanale e stagionale dei palinsesti. Chi produce oggi
servizi on-line per Internet non ha ancora preso decisioni chiare sul modo di "temporizzare" i propri servizi. Ed è
allora probabile che gran parte delle novità dei prossimi mesi, nel rapporto tra TV e Internet, consisteranno proprio
nella sperimentazione di diverse strategie di "sincronizzazione" (o meglio di gestione coordinata del tempo) tra i
due media. Proprio perché la TV (almeno quella generalista) ha un suo tempo così peculiare e radicalmente
differente da quello di ogni altro medium, l’entrata in campo degli operatori televisivi nel mondo di Internet
potrebbe rivelarsi un fattore innovativo rilevante.
Carillon Stars
Roberto Caselli
Dando una scorsa ai festival musicali estivi di casa nostra ci si accorge di una costante interessante: a farla da veri
padroni sono ancora una volta le star over forty. È vero, gruppi come Oasis e Blur si contendono il primato di
vendite tra i giovanissimi, ma non è un caso che finiscano col richiamare le vecchie rivalità tra Beatles e Rolling
Stones e non è neanche strano che Nirvana e Smashing Pumpkins, sconquassati dal suicidio di Kurt Kobain e
l'overdose di Jonathan Melvoin, vengano subito rimandati ai Doors di Jim Morrison e a Jimi Hendrix o che il lato
oscuro del mondo femminile esplorato da PJ Harvey sia, fin troppo banalmente, ricondotto a quello di Patty Smith.
Sembra quasi che quei dieci anni compresi tra le prime metà dei sessanta e settanta abbiano già espresso
musicalmente tutto quello che era possibile dire e finiscano col rivelarsi una maledizione destinata a togliere luce
propria a tutti gli artisti venuti dopo. Forse molta responsabilità è da attribuire a quei critici, che, viaggiando pure
loro sull'onda dei quaranta, non riescono a svincolarsi da certi parametri, ma è anche certo che le richieste del rock
storico, del blues e del jazz tradizionale non sono solo una prerogativa degli adulti. È come se il dialogo tra padre e
figli sul piano del costume si sia giocato anche in questo ambito e un po’ d'influenze siano passate alle nuove
generazioni . È così che i cinquantenni Bob Dylan e Carlos Santana, Lou Reed, David Bowie e Patty Smith hanno
già riempito le piazze di molte città e la sempreverde Tina Turner, dopo i successi di Roma e Cava Dei Tirreni, ha
già esaurito le prenotazioni per il suo concerto milanese di settembre. Ma attenzione, non è la storia del rock che sta
a cuore alla generazione adulta, piuttosto la speranza di uniformare i gusti con i più giovani per creare un cerchio
che possa, ripercorrendolo di continuo, impedire al tempo di scorrere orizzontalmente.
Guai infatti se queste stelle di prima grandezza, durante le loro esibizioni, si permettono di stravolgere i pezzi del
loro repertorio, il pubblico perde il ritmo e il castello dei ricordi rischia di frantumarsi miseramente, l'alchimia che
permette di fermare il tempo e rimanere giovane per sempre non può più verificarsi e il concerto invece di
trasformarsi in una sorta di macchina del tempo ritorna ad essere un semplice happening, un abito che si indossa, si
usura e si getta via. Un momento come un altro che non lascerà grande traccia emotiva, che potrebbe addirittura
rivoltarsi su se stesso e far definitivamente crollare un mito, appositamente coltivato nell'inconscia speranza di
restare giovani anche quando giovani non si è più.
Hanno collaborato:
Umberto Eco, Furio Colombo, Giovanna Grignaffini, Altan, Stefano Bartezzaghi, , Rossana Di Fazio, Renato
Mannheimer, , Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Roberto Caselli, Giulio Blasi, Ranieri Polese, Mario Calabresi, COMIX.
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Annalisa Galardi, Massimo Amato e Francesca Poppi
Software:
Poi le rubriche: Grignaffini, Bartezzaghi, Blasi, Di Fazio, Comix, Blob, ma soprattutto Alda Merini per la Poesia,
con due brani inediti che ascolterete dalla sua stessa voce spessa e calda. Le siamo molti grati.
Novità su Golem non ne mancano mai: questa volta c’è una storiella yiddish di Moni Ovadia.
Contenti? Noi sì.
Gianni Riotta
Sisifo on-line
Il bestiame dell’eroe Sisifo era continuamente depredato da un vicino un po’ brigante. Per quanti sforzi facesse,
Sisifo non riusciva mai a cogliere il lestofante con le mani nel sacco. Poi ebbe un’idea: intagliò negli zoccoli delle
mucche la forma delle lettere, vi versò del metallo fuso, cosi che, seguendo il ladro gli animali stampassero sul
sentiero sabbioso la denuncia "Sono stata rubata".
Qualche secolo prima di Gutenberg è dunque il mitico Sisifo l’inventore della stampa. E imprime al Dna della
professione un codice di denuncia delle malefatte e dichiarazione di verità. Quando però un cronista, dal più
imberbe alla migliore veterana, si accinge a fare i conti con la verità cominciano i guai.
Non ragiono qui sull’obiettività, tema assai discusso. Ma proprio della verità. Tanti anni fa il logico polacco Alfred
Tarski scrisse su "Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati", la logica, la matematica. E si avvide presto che,
quando passiamo a ragionare delle lingue parlate tutto si complica. È possibile, è legittimo, cercare un concetto di
verità nei linguaggi dell’informazione?
Nei giornali, in tv, alla radio, ci sono vari livelli di "verità" prevista dal consumatore, lettore o spettatore che sia.
Chi leggeva "Lotta continua", o chi oggi si abbona al "Giornale", accetta la sua verità nel momento in cui compie la
scelta. Chiede al suo foglio una funzione "fatica", chiede cioè di essere ogni giorno confermato in quello di cui è
già convinto. Come il militante che va al comizio o il credente che va sotto il pulpito ad ascoltare la predica.
Chi, invece, compra la stampa di informazione si aspetta ogni giorno notizie, commenti da cui può, volta a volta,
dissentire, di cui può essere convinto o restare incerto. Ma qual è la verità nell’informazione? Fino a che punto è
possibile raggiungerla?
Prendiamo, ad esempio, un caso che da anni divide l’opinione pubblica: la questione dell’aborto. Per me la "verità"
sta in questa semplice proposizione: la scelta non è tra "aborto" e "no all’aborto". Se cosi fosse, la stragrande
maggioranza delle persone sarebbe per il "no all’aborto". La scelta è in realtà tra "aborto legale" e aborto
clandestino". Il movimento per la vita confonde la scelta e, si allontana dalla verità.
Ma "l’aborto legale male minore" resta sofferenza orribile e una pena. Allora: il continuo tam tam, spesso in
malafede, spesso ideologico, spesso strumentale che gli antiabortisti fanno (in Italia meno che in altri paesi)
costringe gli abortisti a non dimenticare che, malgrado il buonsenso della loro posizione, l’aborto resta un dramma
e una pena. Una parte è (a mio avviso) più vicina alla verità dell’altra, ma chi si informa attingendo ad entrambe le
fonti si avvicina alla verità più di chi leggesse solo un foglio schierato pro o contro.
Consideriamo un altro esempio. C’è un uomo politico potente, abile, corrotto, sprezzante delle regole e delle buone
maniere, attento solo al suo potere e al suo clan. Buona parte della popolazione, però, è attratta dal suo carattere, ne
condivide in parte il programma e non è affatto persuasa dalle ragioni dell’opposizione. La stampa dell’opposizione
svolge un lavoro egregio nel denunciare la verità, le malefatte del Politico, gli abusi del suo clan. Ma dimentica la
simpatia di cui gode, il consenso che riceve. Il risultato è che parte dell’opinione pubblica risulta semplicemente
non ricettiva di quella verità. Ascolta e rigetta, anzi viene confermata nella tesi di una congiura contro il Potente.
Un’altra parte dell’informazione fa una scelta differente: racconta si degli abusi di quel Potente, ma senza
malanimo, senza astio preventivo, pronta a dargli atto di quel che fa di buono e, soprattutto, attenta a raccontare una
verità meno pura, meno assoluta, meno perfetta, però recepibile anche da quella parte dell’opinione pubblica che,
senza essere compromessa, non è ostile pregiudizialmente al Potente.
Dunque: da una parte una verità scintillante ma poco efficace, dall’altra una verità più umile ma micidiale. Qual è
migliore? Quale deve usare un cronista onesto? Una denuncia, l’altra mina, ma servono entrambe. Perché, senza la
stampa radicale (non importa qui , se di destra o di sinistra) la stampa equanime si stancherebbe presto, sarebbe
presa da mille prudenze e opportunismi, finirebbe vittima dei furbi che il Potente infiltra al suo interno. Ma senza
l’informazione equanime, i radicali finirebbero presto rauchi: odiando il Potente ne vedrebbero le trame ovunque,
anche dove non sono, anche al proprio interno, cominciando una serie di faide settarie.
Chi si avvicina più alla verità? L’editorialista che usa la mazza, atterra gli avversari e elogia gli amici, o quello che
impugna il fioretto, cercando di cogliere in fallo (la Mossa del Gabbiano, la chiama Eco nel suo ultimo libro) amici
e avversari?
Questione di stile, certo. Io ho sempre preferito il secondo, anche quando lavoravo per la stampa militante. A lungo
ho creduto che il fioretto, lo stile equanime, fossero superiori, migliori, più onesti e vicini alla verità dello stile
passionale militante.
Oggi credo piuttosto che sia uno stile più efficace per capire che cosa succede, e me lo terrò caro fino alla morte.
Ma solo chi si nutre sia delle urla passionali che dei ragionamenti, va vicino all’elusiva verità. Una stampa in cui
tutto fosse "Foglio" e "Liberazione" sarebbe la fiera degli slogan. Una stampa con "Corriere" e "Repubblica"
ristagnerebbe.
Capita spesso ai cronisti alle prime armi un’esperienza che tempra. Vanno per fare un articolo, raccontano con
minuzia e onestà, poi tornano a chiedere il giudizio dei protagonisti. Ricevono insulti e delusioni, hai saltato questo,
hai dimenticato quello, non hai scritto che... La verità è che il giornalismo è una deformazione, come la fotografia
che riduce la realtà in due dimensioni. Ogni cronaca taglia, riduce, trasforma. Chi c’è dentro lo sente e si ribella.
Ma per gli altri è un’approssimazione sufficiente.
Spinoza diceva "né ridere, né piangere ma capire". Credo vada inteso secondo quanto precisava, secoli dopo,
Gregory Bateson "le lacrime sono un fatto intellettuale". On-line e off-line la verità non viaggia in linea retta, nè si
ferma solo tra gli adepti di un’idea o le vestali dell’obiettività. Emigra, svolazza, concede i suoi favori in giro,
perfino le religioni non ne hanno appannaggio.
Il giornale sincero
Verità e giornalismo
Quale rapporto c’è e quale dovrebbe esserci tra verità e giornalismo e come
convivono oggi queste due realtà nel mondo dell’informazione?
Bisogna puntare ad ottenere la massima approssimazione possibile, quelle che vediamo oggi sui nostri giornali
sono foto un po’ sfocate della realtà che si vuole raccontare.
Il giornalista deve puntare a raccontare quello che accade, ci deve essere un resoconto fedele dei fatti. L’ostacolo
maggiore ad un buon grado di approssimazione sono le molte mediazioni attuate dalle fonti. Ma soprattutto
bisogna evitare che a queste mediazioni naturali non se ne aggiungano altre che possono nascere dalla militanza,
dalla trascuratezza, dalla malafede o per la pigrizia dei giornalisti.
Il giornale sincero
Nano Blob
di Marco Giusti
A mio avviso, la disoccupazione di cui tanto si parla non ha origine in fattori internazionali né macroeconomici, ma
è, invece, imputabile a cause microeconomiche. Vorrei chiarire questa affermazione con riferimento alla
disoccupazione giovanile, che è di gran lunga la più significativa.
E’ forse opportuno premettere una considerazione ovvia ma importante. Il termine "disoccupazione" ha oggi un
significato per molti aspetti diverso da quello che aveva 30 o 35 anni fa. Se nel 1960 mi fosse stato chiesto se fosse
possibile che il numero di disoccupati superasse i 2 milioni, avrei risposto che una disoccupazione così elevata
avrebbe determinato uno scontro sociale violentissimo. In realtà, i disoccupati, secondo i dati ufficiali, hanno
superato quota due milioni nel 1982 ed in diversi anni hanno sfiorato i tre milioni, ma lo scontro sociale non c’è
stato. La spiegazione è semplice: il disoccupato del 1960 era, in genere, un capofamiglia che, avendo perso
l’impiego, restava senza reddito; il disoccupato tipo dei nostri giorni, viceversa, è, per lo più, un giovane che
attende di trovare un impiego adeguato al livello di istruzione che ha ricevuto. Può permettersi di attendere grazie
al reddito della sua famiglia. Si spiega così come l’aumento enorme del numero dei disoccupati abbia avuto luogo
contemporaneamente alla scomparsa di molti tipi di occupazione un tempo assai diffusi.
Dico questo non perché ritenga la disoccupazione giovanile meno grave, ma perché non tenere conto di queste
differenze non ci aiuta a comprendere la situazione. Perché è così elevata la disoccupazione giovanile, specie al
Sud? Delle varie cause, quella prevalente a me sembra l’inadeguata creazione di posti di lavoro: si tratta di persone
che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro, non di lavoratori che vengono costretti ad uscirne. Tanto per
dare un’illustrazione: la crescita della disoccupazione in Italia è cominciata nel 1973, quando il tasso di
disoccupazione era pari al 2,8%. Dal 1973 al 1990 il numero dei disoccupati è aumentato di oltre due milioni di
unità, ma il numero degli occupati, lungi dal diminuire, è aumentato anch’esso, di ben un milione e settecentomila
unità. I due milioni di disoccupati in più, quindi, non erano persone che avevano perso l’impiego, ma giovani
entrati nel mondo del lavoro che non trovavano occupazione. Nello stesso periodo (1973-1990), mentre in
Giappone il numero degli occupati è aumentato del 19% e negli Stati Uniti di un incredibile 37%, in Italia è
aumentato solo dell’8,7%. La conclusione è ovvia: la nostra disoccupazione, specie giovanile, è dovuta alla
insufficiente creazione di nuovi posti di lavoro.
Delle cause che determinano la scarsa creazione di nuovi posti di lavoro mi limiterò ad indicarne solo tre, che a me
sembrano prevalenti. La prima è ben nota: dato il livello degli oneri fiscali e parafiscali che gravano
sull’occupazione, perché un datore di lavoro possa assumere un dipendente deve pagare una "multa" di quasi un
milione e centomila lire per ogni milione di remunerazione che corrisponde al lavoratore. Questa "multa" enorme,
com’è ovvio, scoraggia le assunzioni ed ha conseguenze particolarmente devastanti nelle regioni meno prospere,
che non possono permettersi livelli di fiscalità così elevati. Inutile aggiungere che questa "penale sul lavoro" ha
anche l’effetto di far prosperare il lavoro nero, l’economia sommersa, perché è interesse sia del datore che del
lavoratore cercare di evadere questo insostenibile balzello. Il lavoro nero, a sua volta, crea gravi problemi di
competitività alle imprese che operano alla luce del sole e devono sopportare costi enormemente maggiori delle
loro concorrenti che si nascondono nell’economia sommersa.
Il secondo fattore che determina una scarsa creazione di nuovi posti di lavoro è rappresentato dai vincoli ai
licenziamenti ed alle assunzioni. Quando deve decidere se assumere un certo numero di dipendenti o uno maggiore,
l’imprenditore opera in condizioni di incertezza: non sa se la sua decisione di espandere si rivelerà saggia o meno.
Se, quindi, lo Stato gli impedisce di correggere un eventuale errore, adotterà una strategia prudente: sapendo che
non potrà poi licenziare, preferisce non assumere. Abbiamo così un’occupazione forse più stabile, ma certamente
minore di quanto avremmo se assunzioni e licenziamenti fossero liberalizzati. Inoltre, data questa sclerosi del
mercato del lavoro, se è forse vero che l’occupazione è più stabile, diventa tristemente vero che la disoccupazione
dura più a lungo. In Italia, i disoccupati cronici, che restano in questa condizione per più di 12 mesi, sono il 70%,
contro il 15% del Giappone e l’11% degli Stati Uniti.
Una terza causa importante di disoccupazione, specie giovanile, è da individuarsi nelle norme che, per nobili
ragioni, hanno inteso imporre le stesse condizioni di lavoro a tutto il territorio nazionale. Due italiani che svolgono
lo stesso lavoro, in base a queste norme, devono essere remunerati nella stessa misura, indipendentemente dal fatto
che siano occupati in una regione del nord o del sud del Paese. Presentata in questi termini, sembra una decisione
saggia, ma basta un attimo di riflessione per rendersi conto della sua insensatezza.
Se fosse possibile, senza conseguenze negative, imporre alle regioni più povere le stesse condizioni di lavoro che
quelle più ricche possono permettersi, la povertà sarebbe immediatamente debellata. Basterebbe, per esempio, che
un organismo internazionale imponesse all’India gli stessi salari e le stesse condizioni di lavoro che valgono in
Germania, per far diventare l’India ricca quanto la Germania. Assurdo, vero? Enon è, forse, altrettanto assurdo
imporre alle regioni povere di uno stesso paese condizioni di lavoro che valgono nelle regioni più prospere? Alle
nobili intenzioni hanno fatto seguito conseguenze devastanti: il tasso di disoccupazione nelle regioni del sud è di 4-
6 volte maggiore che non nelle regioni prospere del nord. In compenso, i disoccupati meridionali hanno la (magra)
consolazione di sapere che, se avessero un lavoro, sarebbero remunerati come i loro connazionali del settentrione.
Ha senso tutto ciò?
I salari reali elevati sono la conseguenza della prosperità, non la sua causa; quando i paesi diventano ricchi possono
permettersi salari elevati, non il contrario. Imporre a regioni povere salari elevati significa condannare i lavoratori
di quelle regioni alla disoccupazione. Lungi dall’aiutarli, la decisione li rovina: preclude loro la possibilità di
trovare lavoro. Dovremmo rinunziare al più presto a questa insensatezza.
Che fare? Se vogliamo accrescere l’occupazione in generale, e quella giovanile e meridionale in particolare,
dobbiamo esentare per un congruo periodo, diciamo tre anni, i nuovi posti di lavoro da tutti gli oneri fiscali e
parafiscali, liberalizzare assunzioni, licenziamenti e condizioni di lavoro. Se, invece, continueremo a tartassare il
lavoro come accade adesso, i giovani meridionali continueranno ad essere esclusi dal mondo del lavoro e, prima o
poi, daranno vita a quello scontro sociale di cui parlavo prima. Conviene, quindi, a tutti che sindacati e partiti di
sinistra rinunzino ai loro pregiudizi ideologici nell’interesse del Paese.
Paolo Sylos Labini
Un'occasione perduta
L’incontro di Firenze di fine giugno, che ha concluso la presidenza italiana dell’Unione Europea, è stato
un’occasione perduta per la lotta alla disoccupazione. L’opposizione della Germania ha impedito qualsiasi intesa ed
ha imposto la politica dei due tempi: prima il risanamento finanziario e poi la politica per combattere la
disoccupazione.
Una tale politica oggi non può più essere di tipo keynesiano - espansione della domanda attraverso opere pubbliche
concepite in termini generici. Non può non essere una politica differenziata e articolata, anche sul territorio;
richiede quindi uno studio preparatorio, che poteva essere avviato subito, al livello europeo. Questo avremmo
dovuto proporre.
Possiamo tuttavia avviare subito lo studio preparatorio e predisporre diverse misure al livello nazionale. Le
principali linee sono due: infrastrutture di tipo particolare, alla Delors, e politica di sviluppo delle piccole imprese,
ben più robusta di quella comunemente prospettata, poiché, nella nuova fase del capitalismo industriale, le grandi
imprese, anche quando si sviluppano, non assorbono più lavoratori ed anzi li espellono, l’occupazione può crescere
solo con la crescita delle piccole imprese. Gli incentivi fiscali e finanziari cui di solito si fa riferimento sono del
tutto insufficienti. Occorrono sostegni reali diretti sia per far nascere sia per ridurre la mortalità delle piccole
imprese; ed occorre predisporre un organismo centrale, articolato sul territorio, per il trasferimento di nuove
tecnologie. Ma si tratta solo di un embrione: creare un organismo capace di promuovere una politica di
trasferimento di tecnologia su vasta scala, in modo che la crescita dell’occupazione che fa capo alla piccola impresa
raggiunga cifre socialmente significative. In una tale strategia va incentivata la creazione di imprese a mezzo
d’imprese- vanno cioè incentivati i dipendenti che sono disposti a mettersi in proprio.
Oltre le due linee ora ricordate, occorre pensare, nella lotta alla disoccupazione, a misure ausiliarie: tempo parziale,
lavoro interinale, riduzione degli orari (che tuttavia rappresenta una misura prevalentemente difensiva); ma le
principali linee di azione riguardano le infrastrutture alla Delors e il vigoroso impulso allo sviluppo di piccole
imprese innovative.
Aldo Grasso
Sacchi è un capro?
Arrigo Sacchi: " Muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera" (Gv., 11, 47-53).
Il linciaggio virtuale.
La scena aveva un che di già visto; alla folla radunata, il proconsole dell’Impero del calcio scandiva lento la
proposta: volete il barabba Cesare Maldini o il nazareno Arrigo Sacchi? La massa informe prese a urlare: "barabba,
barabba!" e poi, raccolte le pietre dello scandalo (ma anche la prima pietra, che non si scorda mai, e quella di
paragone), prese a lapidare il citì, colpevole di non aver vinto una partita ma più ancora di aver introdotto nel
mondo del calcio una teoria. Occorreva dunque linciarlo per esorcizzare la paura nel nuovo. Sacchi ha tentato di
dare forme nuove al gioco del calcio: in questa prospettiva la "zona" è solo il processo finale di un lungo
rivolgimento. La sua maniacalità, il suo rigore hanno creato sgomento e disagio: sono venuti a cadere i miti della
"squadra femmina" e archetipi socioculturali come il concetto di "palla lunga e pedalare". Racconta René Girard
che Lopez, il medico ebreo di Elisabetta d’Inghilterra, fu giustiziato per tentativo di avvelenamento e pratica della
magia proprio nel momento in cui godeva del massimo prestigio a corte (un contratto miliardario, si suppone). Al
minimo insuccesso, alla minima denuncia, il parvenu può cadere tanto più in basso quanto più in alto era salito.
Le pietre mediatiche.
Il linciaggio di Sacchi, caso curioso, è avvenuto più sulle pagine dei giornali che in Tv. Le trasmissioni televisive, a
parte le faziose telecronache, non si sono schierate a partito preso; i giornalisti sì. Forse perché sui giornali, per
convenzione, esistono gli editorialisti, i pensatori, i corsivisti gli unici cioè in grado di avere un pensiero e di
opporre il proprio a quello di Sacchi, al "culo di Sacchi". Quell’allenatore che per anni li aveva costretti a frettolosi
aggiornamenti, alla cancellazione di punti di riferimento (il terzino, il tornante, il libero), all’incrocio di discipline
adesso era lì, a portata di mano. Lo si poteva finalmente schiaffeggiare, dileggiare, crocefiggere. Ma l’aspetto più
sorprendente è l’inusitato grado di violenza con cui i giornali si sono scagliati contro Sacchi. E già che c’erano, i
giornalisti hanno approfittato per regolare alcuni conti in sospeso, fra di loro. In una prosa che esaltava l’antica arte
dello scaricabarili e della discesa dai carri dei perdenti. Un istinto rabbioso, che saliva dalle viscere, ha trasformato
il citì in un capro espiatorio. I persecutori finiscono sempre per convincersi che persino un solo individuo possa
rendersi estremamente nocivo all’intera società malgrado la sua debolezza relativa.
L’apostasia zonaiola.
Di che delitto ideologico si è macchiato Sacchi? Ha snaturato il calcio, ha esasperato gli schemi, ha sacrificato i
talenti. Lo ha sostenuto un’alta carica dello Stato, il vice presidente del Consiglio Walter Veltroni: "Mi preoccupa il
calcio ipervitaminizzato e muscolare visto agli europei: preferisco di gran lunga l’Inter di Mariolino Corso che si
chiudeva dietro e segnava un gol. Il calcio ha bisogno di fantasia, di miti ed anche la televisione necessita di questi
elementi. Occorre modificare le regole per riportare in campo lo spettacolo. Il calcio ingegneristico degli anni 90
non mi affascina". La Zona rappresenterebbe dunque l’eccesso di calcolo, di laboratorio, di schemi. Il Contropiede
invece la fantasia, l’invenzione talentosa, il più mancino dei tiri (Corso). Guai ad azzardare che la Zona è invece il
momento propositivo di un gioco, la visione globale (corrispondente alla nozione di flusso), l’esaltazione della
coralità (da questo punto di vista, la più sovietica delle teorie) e il Contropiede è l’arte di arrangiarsi, la furbizia, il
colpire di rimessa. E che regole bisogna modificare per riportare lo spettacolo: far battere i rigori a Gianfranco Zola
da 5 metri? E se i talenti latitano, se i Baggio sono in disarmo esiste una legge dello Stato per intervenire?
Giorgio Casadio
La rovina dei romagnoli
Pare che il Padreterno, una volta ultimata la Creazione, sia stato colpito dal dubbio che mancasse ancora qualcosa.
Dopo una breve riflessione, pestò il piede nel fango, ed ecco saltar fuori il Romagnolo: aso iqua me. La fonte di
questa notizia è autorevole, nientemeno che Ezra Pound. L’ultimo nato della Creazione, scrive sempre il poeta,
accompagnò la sua venuta con una bestemmia - che qui non è il caso di riportare - quasi a voler significare da
subito la sua totale autonomia da qualsiasi forma di potere costituito.
E bisogna dire che le generazioni a seguire di romagnoli hanno fatto del loro meglio per adeguare i propri
comportamenti a quelli dell’inquieto, irascibile Prototipo. Ribelli, ostinati, anticonformisti, geniali, sempre
esagerati, ostinati fino al masochismo; di volta in volta, anticlericali e antipapisti, repubblicani accaniti, socialisti
convinti, fascisti arrabbiati, comunisti con giudizio. Con picchi di livello ragguardevole, basti pensare al buon
Nullo Baldini "patrono" di braccianti e scariolanti, al Benito di Predappio, al genio Federico nato in quel di Rimini.
Per finire con Arrigo Sacchi da Fusignano, provincia di Ravenna.
Tutto questo preambolo sulla Romagna per arrivare a parlare di calcio, e in particolare dei guai della nazionale? Si,
perché c’è un filo che unisce gli ultimi trent’anni di storia calcistica italiana, un filo che parte da Middlesbrough,
Inghilterra, estate 1966, e raggiunge Manchester, Inghilterra, estate 1996.
Ricordate i maledetti mondiali del ‘66, quelli della Corea? La disfatta della squadra guidata da Mondino Fabbri?
Ormai è storia, probabilmente su quel tragico avvenimento sono state scritte perfino tesi di laurea. Ma val la pena
di ricordare che all’origine della disfatta, oltre alla sfortuna, all’imprevedibile velocità dei coreani, ci fu anche
testardaggine dell’omino di Castelbolognese, Ravenna. In quegli anni due erano le squadre che dominavano il
calcio italiano, l’Inter di Helenio Herrera e il Bologna di Fulvio Bernardini. Fabbri tentò un’azzardata miscela delle
due formazioni, lasciando però a casa, insensibile a critiche e consigli, il nocchiero dell’Inter, il cardine della difesa
Armando Picchi. E, in aggiunta, nell’incontro decisivo con i coreani si affidò al beneamato Giacomo Bulgarelli,
centrocampista di genio, sfortunatamente, nell’occasione, con ginocchio semirotto. Giacomino fu costretto ad
abbandonare e l’avventura finì come finì. Un tiraccio di un odontotecnico coreano fece fare anzitempo le valigie
agli azzurri.
Quattordici anni dopo, sulla panchina azzurra sedeva Azeglio Vicini, da Cesena. Si giocava in Italia, la squadra era
forte, la migliore e la favorita, e il mister ebbe la fortuna - e il merito certo - poter contare su un Baggio
straordinario, sostituto scintillante dell’infortunato Vialli. Ma nella semifinale con l’Argentina, per tutti una
formalità in attesa della finale con i tedeschi, anche il tranquillo Vicini ebbe l’alzata d’ingegno: fuori Baggio,
dentro Vialli. E Italia a casa, anzi a Bari per la finale di consolazione con l’Inghilterra, mentre la coppa volava in
Germania. Perché Vicini cambiò, insensibile al motto "squadra" che vince non si "cambia"? Perché anche lui fu
vittima dell’istinto atavico della sua gente di andare controcorrente, della maledetta voglia di dimostrarsi più
competente di tutti gli altri.
Ma è ancora nulla, tuttavia, al confronto di quel che ha combinato la presunzione di Arrigo Sacchi in Inghilterra.
Baggio e Signori a casa, la squadra destrutturata per l’incontro con i cechi, l’ostinata difesa che della sua teoria che
il calcio va nutrito esclusivamente di "schemi". Tutto per dimostrare che l’unico indispensabile nella compagine
azzurra è lui, Arrigo da Fusignano. Né vale a giustificarlo che tedeschi e cechi, le due squadre che hanno fatto fuori
l’Italia, si siano giocati la finale. Semmai, vista la loro modestia, è una prova di maggior colpevolezza. Gli
estimatori di Arrigo portano tuttavia, in sua difesa, l’esito del mondiale americano, con l’Italia battuta dal Brasile
solo ai calci di rigore. Ma quel Baggio "rotto" impiegato nella finale di Los Angeles, contro una squadra che aveva
tra i pali il portiere di riserva della Reggiana, esclude ogni forma di perdono.
No, Sacchi deve passare la mano, riportare in Romagna la sua lavagna con gli schizzi degli schemi. E la
Federcalcio, nella scelta del successore, dovrà stare bene attenta a non ripetere gli errori del passato: mai più un
romagnolo al potere su una panchina ai bordi di un campo di calcio. Si considerano troppo intelligenti, e forse lo
sono, ma non sono disposti ad ammettere il benché minimo errore. E così vincere diventa un’impresa.
Vittorio Gregotti
Comunicare o proporre
Si può dire che negli ultimi trent’anni si sia rovesciata, per le riviste di architettura, una tradizione che durava
dall’inizio del secolo. Per circa cinquant’anni le riviste di architettura hanno rappresentato un luogo di riflessione,
di discussione, sono state parziali, passionali, ma hanno sostenuto quasi sempre un punto di vista preciso sulla
disciplina, raccogliendo spesso proprio le scarse e quantitativamente insignificanti testimonianze delle tesi che
andavano sviluppando.
Negli ultimi trent’anni le riviste sono invece progressivamente diventate lo specchio di ciò che avviene; anzi, hanno
sempre più considerato loro principale dovere informare nel modo più ampio e neutralmente pluralistico intorno a
ciò che veniva prodotto. Naturalmente ciò ha aumentato di molto la quantità di cose pubblicate (ciò che corrisponde
peraltro ad una enorme dilatazione del costruito) ma reso sempre più incerto il principio qualitativo attraverso il
quale le selezioni possono avvenire. A questo ribaltamento ha naturalmente corrisposto una professionalizzazione
in senso giornalistico delle riviste di architettura ed una complessificazione (con il corrispondente aumento di
costo) delle staff redazionali relative. Da quando sono stato licenziato, all’inizio di quest’anno, dalla rivista
Casabella, che ho diretto per 14 anni, è sparito anche l’ultimo architetto operante che dirigesse una rivista
importante di architettura.
A tutto ciò si deve aggiungere che, contrariamente allo sforzo di unità metodologica delle varie scale di intervento
proposta dal moderno, si assiste oggi ad una divaricazione della nostra disciplina in specializzazioni sempre più
accentuate (dal "product design" alla pianificazione, dal landscape all’"urban design") che faticano sempre più a
ritrovare un fondamento unitario e che quindi producono pubblicazioni sempre più differenziate e scarsamente
comunicanti.
Casabella (Italia)
Abc (Svizzera)
Automaticamente lo spazio critico è stato parzialmente occupato dalle riviste universitarie o di fondazioni o di
piccoli gruppi, riviste con vite e periodicità incerte e soprattutto assai sovente con obiettivi nobilmente accademici
per chi vi scrive. Anche se si aprono così sovente poco utili esibizioni di citazioni di filosofia teoretica e gare per il
titolo più originale del pezzo, esse restano i soli luoghi dove si discuta, sia pure senza la pretesa della costituzione
di una comune base teoretica.
Il problema di un adeguato rapporto tra questioni nazionali (o meglio locali, poiché sovente ogni "nazione" è
costituita da territori con tradizioni, culture e condizioni notevolmente differenziate che possono costituire prezioso
materiale per la progettazione architettonica) si è ormai squilibrata del tutto verso modelli di avanzamento
internazionalisti (il che significa spesso oppositivi anche alla costituzione di una cultura multietnica) dominate dalle
nazioni economicamente e tecnologicamente, e quindi anche linguisticamente, più forti.
Quasi tutte le riviste sono in verità alla disperata ricerca dell’ultima novità offerta dalla moda, cioè ancora del
sostegno dell’opinione corrente dei gruppi più forti dal punto di vista della comunicazione. Peraltro questa
propensione va incontro al bisogno, ideologico oltre che pratico, degli architetti di accumulare con le pubblicazioni
un capitale simbolico da spendere poi sul piano professionale. Si forma così un circolo vizioso: chi ha raccolto
sufficiente capitale simbolico entra automaticamente in una accumulazione ridondante di libri, monografie e riviste
che lo introducono in un circuito internazionale; non sulla base quindi di un punto di vista sull’architettura ma di un
privilegio di gruppo. Dal quale peraltro la nuova moda all’orizzonte è in grado di espellerlo rapidamente.
Il caso Italia è del tutto speciale: esso, con i suoi 60.000 studenti di architettura, sia pure distratti e demotivati, offre
un mercato eccezionale alle pubblicazioni di architettura, nonostante copra un’area linguistica molto ridotta.
Disk (Cecoslovacchia)
Blok (Polonia)
Alla tendenza generale allo scivolamento verso le costruzioni di mitologie in rapido rinnovo corrisponde
puntualmente un modo di pubblicare i progetti e le realizzazioni per immagini sintetiche e parziali (spesso vere e
proprie falsificazioni della realtà dell’opera) con disegni di progetto scarsi ed insufficienti, senza alcuna
contestualizzazione né culturale, né visiva.
L'Architecture d'Aujord'hui
(Francia)
Questa mia non è una perorazione a favore di riviste di neoavanguardia: quelle che hanno circolato in questi anni
hanno dimostrato quasi tutte la loro fatua fragilità: non vi sono più regole da infrangere ma invece regole da
ricostruire. Si tratta piuttosto di mirare a riprendere in modo nuovamente parziale la guida dello sviluppo
disciplinare, aperti ad ogni contributo e suggestione delle altre discipline a partire però da un centro interno al
proprio fare che costituisca, con nuova capacità di lentezza e di stabilità, un solido punto di vista sul mondo per
mezzo dell’architettura.
Aldo Schiavone
Ancora sui concorsi
Ogni discussione sulla riforma dei concorsi universitari italiani, se non vuole trasformarsi subito in un esercizio di
architettura normativa del tutto astratto, deve partire da alcune considerazioni elementari, che mi proverò qui di
seguito a ordinare.
Primo. Un sistema perfetto, vale a dire in grado di assicurare comunque il reclutamento dei migliori, e di essere
completamente impermeabile a qualunque ingiustizia, non esiste. A rigor di termini, non esistono nemmeno in
assoluto "i migliori", perchè il giudizio di eccellenza nella ricerca scientifica è sempre storicamente e
soggettivamente condizionato.
Secondo. Qualunque sistema di reclutamento dei professori universitari non può che reggersi, in ultima istanza, su
un meccanismo di cooptazione; e quindi non può che fondare la sua garanzia, in ultima istanza, sul livello
scientifico ed etico-professionale dell’intero ceto cooptante. Non c’è procedura che tenga: professori universitari di
basso livello e di scarso senso professionale tenderanno a reclutare nuovi colleghi simili a loro, o peggiori; mentre
professori molto qualificati e con un forte spirito pubblico tenderanno ad avere accanto a sè figure di eguale livello.
Detto questo, si tratta di trovare un metodo efficiente e ragionevole, che metta al riparo dalle aberrazioni più gravi,
e favorisca invece il formarsi di circoli virtuosi .
Terzo. Il meccanismo di reclutamento in vigore a tutt’oggi in Italia è pessimo: esso unisce ai capricci del caso
(sorteggio dei giudici) l’inefficienza di burocrazie sovraccaricate, e l’arroganza e le manovre delle grandi
consorterie, in un contesto in cui potere accademico e valore scientifico tendono a coincidere sempre meno.
Qualunque nuovo sistema ha quindi molte probabilità di essere comunque migliore di quello esistente. Insomma,
sarebbe difficile far peggio.
Quarto. Qualunque metodo di reclutamento che spinga verso l’accentramento burocratico dei concorsi è un metodo
cattivo. L’attuale sistema italiano, fondato su una centralizzazione che arriva al mostruoso, è senza eguali al mondo.
Quinto. Una selezione dei docenti fondata sulla libertà di scelta delle singole Università risolve e semplifica più
problemi di quanti non ne crei, ed è compatibile con quel sistema di autonomie e di concorrenza fra le sedi, il cui
completamento è l’unica garanzia di futuro per il nostro insegnamento superiore. A parole, tutti sono d’accordo con
questa diagnosi, ma nei fatti (a cominciare dai concorsi) molti cercano in ogni modo di bloccare la trasformazione.
In questa prospettiva, le osservazioni di Umberto Eco sembrano condivisibili e pertinenti.
Ranieri Polese
Cine-estate
Chiardiluna, Arena Estiva Don Bosco, Arcobaleno, Arena Giardino Colonna: in città, d’estate il cinema si faceva
all’aperto. E i locali avevano nomi che dovevano far capire che la proiezione sarebbe stata sotto le stelle. Se
pioveva nel primo tempo, regola voleva che il biglietto fosse rimborsato. Sennò, amen. Io, però, i primi film
all’aperto non li ho visti in città, a Firenze. Finite le scuole, con i miei fratelli mi portavano in campagna, a
Latignano, comune di Cascina provincia di Pisa. Fu qui, sul muro di una casa di contadini, che ho visto i primi film.
Ormai son solo fotogrammi sbiaditi e incoerenti. Forse, stando ai racconti dei fratelli più grandi, uno doveva essere
Il segno della croce di De Mille (circolava nel dopoguerra la nuova versione aggiustata dallo stesso regista, con due
religiosi che davanti alla Roma moderna raccontavano vita morte e miracoli dei primi apostoli & martiri). Più tardi,
al mare, in Versilia, in un cinema di Fiumetto, tra un campo da tennis e il Bagno Firenze, vidi un western cupo e
vagamente inquietante. Era L’avamposto degli uomini perduti, con Gregory Peck, un biancoenero con gli Apache
che per molto tempo ho associato nella memoria un po’ a Ombre rosse e un po’ all’Assedio delle sette frecce che
invece era a colori. Il capitano Gregory Peck, "severo ma eroico", mi sembrò cattivissimo e da allora mi è rimasto
per sempre antipatico.
Secondo tempo. Molti anni dopo. 1975 e dintorni, a Firenze come in altri posti, le nuove giunte di sinistra decidono
di popolare di avvenimenti l’estate di chi resta in città.
Mostre, concerti rock, teatri. Ma soprattutto cinema. Se la Roma di Nicolini fu Massenzio, Firenze è stata il Forte di
Belvedere. Era gestita, l’estate del Forte, dalla cooperativa l’Atelier, di cui facevo parte. Due schermi, quattro film
per sera, da un lato i titoli della stagione appena trascorsa (riparazione estiva per chi d’inverno non era andato al
cinema), dall’altro una programmazione sul genere film-studio, arditi ripescaggi, insolite anteprime, vizi e manie da
cinéfili disposti a quasi tutto. Di quelle notti molte sono rimaste memorabili: un ferragosto con Novecento uno e
due, cinque ore e passa, distribuzione gratuita di cocomero, e per il gran finale, quello con la sconfitta dei fascisti e
l’immensa bandiera rossa, venne giù un diluvio universale sugli spettatori. Che, impavidi, non si mossero. Altre
notti che non si dimenticano, quelle in cui si riproponeva Via col vento (non permetterò a nessuno di dire che non è
un capolavoro!), o quando c’erano le maratone di Guerre stellari (uno, due e tre) o quelle di Indiana Jones. Cari
ricordi, pensieri stupendi sotto le stelle del cinema. Gli anni Ottanta, fra tante scempiaggini, furono anche questo...
Poi, si sa, tutte le cose appassiscono. Cambiano, e come cambiano. Arrivato a Milano, sul finire del decennio del
look, feci in tempo a veder morire il glorioso Obraz, in corso Garibaldi (l’ultimo film che andai a vedere lì fu Vivre
sa vie di Godard, versione malandata, ma pur sempre fascinosa).
D’estate l’Obraz era comunque chiuso, figurarsi, ci si soffocava anche d’inverno. Così, negli anni Novanta
cominciai a frequentare la Rotonda della Besana dove l’assai più famoso, l’Anteo, si trasformava (e si trasforma
ancora) in ARIAnteo.
Simpatico posto, caldissimo, programmazione senza guizzi (solo ripasso della stagione precedente). Zanzare,
invece, eccezionali. Le prime volte, mi ricordo, c’era una solidarietà militante fra spettatori che si passavano
amichevolmente fiaschette di Autan (da qualche anno è in vendita accanto ai gelati e alla cocacola). Ho visto così
Miller’s Crossing dei fratelli Coen: forse sarà per l’Autan, ma ritengo che sia il miglior film di quei due.
P.S. Le cose, però, non solo cambiano. A volte finiscono pure. Così quest’estate a Firenze, per la prima volta dopo
diciassette anni, al Forte Belvedere non si farà più il cinema all’aperto. Trasloca verso altre arene, altri luoghi. Ma
sotto quelle mura antiche, basta, mai più. Bye bye cinema.
Carlo Bertelli
Musei a tre forchette?
Ho appreso la democrazia dal Touring Club. Non avevo ancora l’età per votare quando guardavo mio nonno e mio
padre, entrambi soci del Touring, compilare la scheda delle votazioni per il consiglio nazionale del club. Dal
Touring ho anche imparato tantissime cose sull’Italia; talvolta fondamentali, talaltra curiose, come, per esempio,
quei dati statistici in una vecchia edizione della guida della Sicilia che informavano su quanti asini e muli vi fossero
nell’isola e che mi facevano immaginare un tempo in cui da quegli elementi ci si poteva configurare una società. Si
capisce dunque che voglia bene al Touring e che comprenda la sua difficoltà di tenere la rotta in tempi di
divaricazione delle domande turistiche e di prevalenza delle forme più incolte e selvagge.
Da qualche tempo il Touring cerca una nuova visibilità. Fra le nuove armi vi sono ora le pagelle per i musei.
Purtroppo questa non si è dimostrata una trovata felice.
A parte la crisi in cui è caduto l’istituto del voto scolastico, i parametri di giudizio sono del più piatto consumismo
e quindi agiscono più a favore del turismo selvaggio della concorrenza che del turismo consapevole che è sempre
stato fra gli obiettivi del Touring.
Le votazioni riguardano solamente i servizi che il museo offre. Dio sa se i nostri musei ne sono carenti, ma con
questa scelta le votazioni del Touring possono essere paragonate a una guida Veronelli che, anziché dalle pietanze,
giudicasse dal tipo di aria condizionata dei locali visitati.
Per la Lombardia, per esempio, troviamo il massimo di forchette per la pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia.
Benissimo; ma la pinacoteca fa parte del complesso dei musei civici, in ristrutturazione da anni. Proprio a causa dei
lavori in corso, fino a pochi anni fa in pinacoteca erano esposti anche alcuni importanti cimeli del museo cristiano,
come la lipsanoteca detta proprio di Brescia, la croce di Desiderio, il dittico dei Lampadi, i mosaici da
Sant’Ambrogio. Da qualche anno tutto ciò è in cassaforte. Dunque la visita offre meno ora di quanto offrisse prima.
Ma per i giudici del Touring questo non conta.
Dare le pagelle ai musei è un atto arrogante rivolto al direttore e al personale del museo ed equivale a quello del
viaggiatore che litiga con il controllore facendolo responsabile di tutte le disfunzioni delle ferrovie. Non aiuta a
migliorare la situazione.
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Vorrei ancora accennare a un altro tema della settimana. Sabato scorso il ministro Andreatta ha dichiarato che,
essendo passati, per ragioni demografiche, da 300 mila uomini sotto le armi a 100 mila, molte caserme resteranno
vuote e vi dovrà a essere una conseguente riduzione del demanio militare. Alle migliaia di ettari delle aree
industriali abbandonate se ne aggiungeranno così altri delle aree militari declassate. Si offre dunque un’occasione
storica per ristrutturare il territorio nazionale.
E’ noto come in molti casi il vincolo militare sia riuscito, sia pure involontariamente, a proteggere dalla
speculazione zone del più alto interesse paesistico e ambientale. Quelle stesse zone sono ora in pericolo, se non
vengono immediatamente censite e bloccate con altri vincoli.
Nelle città, moltissime caserme occupano antichi conventi. Roberto Longhi attendeva sempre il 4 novembre,
quando le caserme erano aperte ai cittadini, per andare con gli studenti in visita ai grandi chiostri militarizzati di
Firenze, dove era possibile studiare ampi brani della pittura fiorentina del tardo Cinquecento e del Seicento. Si
pensi, per esempio, che una gran parte del convento di Santa Maria Novella è occupato dai carabinieri.
Persuadere i carabinieri a lasciare i palazzi storici e i conventi che occupano nel cuore delle città antiche non sarà
cosa facile. Oltretutto perché gli stessi carabinieri collaborano con il ministero per i beni culturali nella protezione
del patrimonio artistico. Eppure in alcuni casi sottraggono alla fruizione edifici di grande rilievo.
Un esempio: Parma. Parma è città dei Farnese e dei Borbone; eppure, a parte il teatro di corte, non è più in grado di
dare un’idea di che cosa sia stata, per l’arte e per gli stili di vita, la presenza della reggia. Il palazzo ducale del
giardino, posto in mezzo ad un parco grande quasi quanto tutta la città antica, edificato nel Cinquecento e ampliato
due secoli dopo, che si fregia degli affreschi del Bertoja dedicati alle glorie farnesiane, è infatti occupato dalla
Regione dei Carabinieri, che ha anche trasformato il giardino all’italiana in parcheggio. Liberare il palazzo ducale
non sarà cosa facile (l’esperienza di palazzo Barberini, a Roma, insegna), ma sarebbe bene che i ministri Andreatta
e Veltroni mettessero sin d’ora questo obiettivo, e altri simili, nel loro comune programma.
Purtroppo l’esperienza passata è del tutto negativa. Il castello di Vigevano, immenso, fu lasciato dall’esercito oltre
vent’anni or sono. Poiché apparteneva al demanio militare, non fu incluso nel piano regolatore. In attesa del nuovo
piano, e nonostante le tante agitazioni e proposte della città, la soprintendenza per i beni ambientali e architettonici
ha incominciato da tempo a spartirlo fra vari uffici, senza nessun piano generale e senza che sia stato valutato
l’enorme potenziale culturale di un complesso eccezionale, forse del più grande castello che esista in Italia. Come
si vede, è indispensabile evitare di procedere alla spicciolata. Occorre invece comprendere i grandi complessi
militari dentro un piano generale di riordino del territorio.
Oylem Goylem
di Moni Ovadia
Il Touring riceve, spesso e particolarmente da persone importanti, lusinghieri apprezzamenti per la sua attività, la
sua storia, i suoi meriti, la sua stessa coerente esistenza.
Però in genere, osserviamo, tutti vorrebbero un Touring modellato sulle loro esigenze, i loro interessi, la loro
mentalità: il Touring è grande e meritorio, finché, come una vecchia zia, porta pazienza, sorrisi e consensi. Appena
esce da questa oleografica e innocua immagine, allora le cose cambiano.
Così è anche per alcuni (per fortuna non molti) storici dell’arte: il Touring ha il grande merito di aver fatto le guide
rosse, di aver sostenuto e diffuso un turismo culturale rispettoso e consapevole, di aver sostenuto le ragioni del
nostro patrimonio artistico e di chi, con impegno, lo custodisce. Punto e basta. Il suo compito filantropico finisce lì.
Se solo si azzarda, in nome e per conto di quelle generazioni di turisti che ha raccolto, rappresentato, "educato" (se
si può usare questo termine), a dire quel che funziona e che non funziona, allora cambia la musica, e la vecchia zia
cerca "nuova visibilità", sbaglia, resuscita persino il vecchio e desueto "istituto del voto scolastico".
No, caro professor Bertelli, non ci stiamo. E con tutto il rispetto e la stima che Le portiamo, giudichiamo
profondamente ingiusto che, evidentemente irritato oltre misura, Lei arrivi ad accusarci di favorire, indirettamente,
"il turismo selvaggio della concorrenza".
I paragoni valgono quel che valgono, qualche volta sono efficaci, qualche volta meno. E’ il caso di quello che usa
Lei, sostenendo che "le votazioni del Touring possono essere paragonate a una guida Veronelli che, anziché delle
pietanze, giudicasse dal tipo di aria condizionata dei locali visitati". Perché Veronelli è un gastronomo, mentre il
Touring non fa lo storico dell’arte: Veronelli dice "questa pietanza non è buona", noi non diciamo "questo dipinto
non vale e va tolto dalla parete".
Da avventori/visitatori tuttavia, rivendichiamo il diritto di dire che in quel ristorante, dove si potrebbero gustare
cose deliziose, il caldo soffocante e l’aria impregnata di odori di cucina non consentono una cena
complessivamente gradevole.
Nessuna arroganza dunque, tantomeno verso il direttore e il personale del museo: difatti si arrabbiano soltanto
coloro che, sotto sotto, si sentono (loro sì, con estrema arroganza) dei santoni intoccabili.
Il fatto che, per qualsivoglia motivo, una parte consistente di una raccolta non sia visibile da anni o che sia male
esposta, è un danno per la comunità: ed è legittimo e doveroso che il Touring lo segnali alla gente. Dunque, per il
Touring questo conta eccome. Non è detto che in conseguenza di ciò il direttore e il personale debbano sentirsi in
colpa; anzi, al contrario, se come quasi sempre accade loro stessi si battono instancabilmente per superare gli
ostacoli, avere fondi necessari, affrettare lavori interminabili, dovrebbero sentire, nel Touring e nella sua azione, un
alleato.
Purché siano convinti, come noi siamo, che i musei, le collezioni, i luoghi d’arte siano un patrimonio universale che
appartiene ed è destinato alla comunità e che il loro compito è di conservarlo per porgerlo al visitatore, nel migliore
dei modi possibili.
Addio my darling
Stefano Bartezzaghi
0.
(intro)
Sette vizi trovo, ahimé,
e zero virtù: sicché
qui l'amore più non c'è:
me ne vado xxx xx xx.
1.
(tua lussuria)
Ti pensai morigerata:
sessualmente sei xxxxxx
2.
(tua avarizia)
Ti pensai modesta e pavida:
soldi sol vuoi per xx, xxxxx
3.
(tua invidia)
Ti pensai pavida e schiva:
lodi vuoi sol x xx, xxx.
4.
(tua superbia)
Ti pensai una santa Rita:
tu t'ispiri xx Xxxxx.
5.
(tua accidia)
Ti pensai studiosa e brava:
la cultura ti xxxxxxx.
6.
(tua ira)
Ti pensai di rancor priva:
sangue in testa ti saliva
se scordavo una missiva,
tasse varie, xxxx X.X.X.
7.
(tua gola)
Ti sperai preraffaellita
penitente, dimagrita:
tu alla tavola imbandita
adorando la xxx Xxxx
come un tronfio sibarita
mangi il pollo con le dita.
SOLUZIONI
0. via da te
1. deviata
2. te, avida
3. a te, diva
4. ad Evita
5. tediava
6. date I.V.A.
7. dea Vita
8. videata
Deputati e no
Giovanna Grignaffini
Il deputato-e-basta arriva in Transatlantico carico di carte, competenze e concreti problemi di collegio da risolvere:
diffida di voci, passeggiate e capannelli, saluta con complicità commessi e funzionari e guarda con sospetto la sala
stampa, così come i colleghi sempre dichiaranti che stazionano perennemente nei suoi paraggi.
Il deputato-e-basta, quello orgoglioso di non essere perennemente on line con le varie "centrali esterne di potere",
ama l’interazione faccia a faccia e detesta l’immaterialità dei lanci d’agenzia, così come i sequel simulati che ne
derivano.
Trova che la logica postmoderna della dichiarazione-replica-rettifica sia aliena al suo mandato popolare e preferisce
consumare il suo tempo in azione.
Quotidianamente infatti (in aula magna o in commissione, in spazi pubblici o privati) egli interagisce, discute,
riceve, è ricevuto, ascolta, propone, conviene e promuove intese con tutti gli attori chiamati in causa dai
provvedimenti di sua competenza : dai rappresentanti di governo ai colleghi, dalle forze sociali, ai tecnici, alle varie
categorie implicate.
Il deputato in questione ama anche dilettarsi di una sorta di relazione pre-tecnologica con i testi relativi ai
provvedimenti di sua competenza (disegni di legge e studi di settore, dossier e ricerche, dati statistici e analisi
comprate sulla legislazione internazionale, ) : li legge, studia, sottolinea, compara, ritaglia, analizza, emenda,
riarticola.
Il deputato-e-basta è del tutto consapevole che la sua fatica non è per nulla ascrivibile al nobile campo della Politica
(quella del Grande Progetto, Grande Alleanza, Grande Riforma, che si consuma sempre fuori dal Parlamento) ma
visto che da quel suo continuo agire e interagire, compulsare, analizzare, dialogare, mediare, riarticolare, finiscono
poi per dipendere molti frammenti di vita e altre storie, al deputato in questione piace pensare che nella vita
quotidiana del Parlamento continua ad abitare una qualche sostanza della vita politica. Una sostanza che il deputato-
e-basta ama spesso contrapporre alla volatile inconsistenza del discorso politico.
Ma c’è soprattutto una cosa che il deputato-e-basta non riesce a capire: perché La Politica non passi o non si fermi
mai, almeno qualche volta, lì dentro, in Parlamento. Oppure perché la vita quotidiana del Parlamento, non arrivi
mai, almeno qualche volta, a toccare là fuori, La Politica.
E si accanisce, il deputato-e-basta, nel non capire che il dentro e il fuori non stanno più da tempo nello stesso luogo
e che anche lui, reso leggero e immateriale dalla sua stessa competenza, abita ormai da tempo, là fuori.
Sorrisi e crucci
Rossana Di Fazio
Quando un classico della letteratura diventa un soggetto cinematografico faccio sempre una faccia smorfiosa: è una
espressione di paura contenuta verso le riduzioni e le scelte che necessariamente vanno fatte in questi casi.
Per questo ho compreso benissimo Sandro Parenzo quando in Golem02 ha descritto così brillantemente il suo
brivido, al cinema, provocatogli da Le affinità elettive dei fratelli Taviani, anche se non avevo visto ancora il film,
per via appunto di quella sottile resistenza.
Contrariamente alle aspettative l'ho visto volentieri: il film concentra il racconto sulla storia delle due coppie, ma è
piuttosto rigoroso nel riportare i dialoghi originali fra i personaggi ; mostra inoltre molte belle invenzioni,
ricostruzioni convincenti e una regia forte e sicura.
Anche la platea mi è sembrata attenta e contenta: ho visto Le affinità due volte ed è successo sempre così.
L'ho visto due volte per verificare una ipotesi sorta dopo la prima visione: infatti in alcuni momenti particolarmente
drammatici mi veniva da ridere. Nel film alcuni eventi luttuosi o negativi hanno luogo a causa o nei pressi di una
piccola imbarcazione. Così, dopo i primi due disastri, non appena qualcuno si avvicina alla barca parte del pubblico
non può fare a meno di prevedere guai sicuri e il fatto che questo puntualmente si verifichi fa un po’ ridere. Anche
le parole dei protagonisti, in rapporto alla loro situazione, non si sottraggono talvolta al ridicolo. Mi ha incuriosito
però notare che questo fatto nulla toglie alla credibilità del racconto e alla sua capacità di coinvolgimento. Quel
ridicolo involontario infatti finisce per assomigliare tanto a quei tratti dell'amore-passione che si manifestano
quando i turbamenti interiori si traducono in azioni teatrali, comiche qualche volta per chiunque non sia risucchiato
dalla stessa sorta di inquietudini.
Così mentre nell'originale letterario l'ironia fa capolino spesso (sarà stata la età avanzata di Goethe ad introdurre
quella distanza che fa sorridere delle cose del mondo?) nel film secondo me non ce n'è affatto; eppure quei
momenti di ridicolo involontario finiscono per diventare una qualità del film, che fa diventare il clima volutamente
letterario come più credibile, più simile alla vita: fa contaminare un genere "alto" con un po’ di commedia e non lo
fa apposta.
Ci sono invece commedie che fanno apposta il procedimento inverso. È il caso di Ferie d'agosto di Paolo Virzì,
che, al di là di qualche morettismo di troppo, raccoglie la tradizione della commedia all'italiana (e anche mi sembra
un po’ dello spirito di un bel film di Luciano Emmer, Una domenica d'agosto, 1950) con un cast nutrito e affiatato.
Coincidenze di cartellone, anche in questa storia contemporanea si parla di incroci e di scambi amorosi, di affinità e
attrazioni inevitabili, ma appunto secondo le regole della commedia.
Microcosmo della società italiana spaccata in due: la sinistra intellettuale da una parte e quella che ama definirsi
gente comune (quell'area cui probabilmente ci si riferisce quando si dice "alla gente piace"): teledipendenza, barca
a motore, telefonino, ostentazione di buon senso e intolleranza ; ma queste definizioni sono di comodo e mentre
istintivamente sono chiarissime è difficile poi nominarle correttamente, il che è degno di interesse.
In entrambi gli schieramenti non mancano le sfumature di carattere, ma quello che conta è lo scontro fra questi due
modi di essere, che non avviene nella vita quotidiana, ma in vacanza, nello spazio ideale che per ciascuno le ferie
rappresentano: non si può essere finalmente padroni del proprio tempo e realizzare l'esistenza che si desidera ? No,
le vacanze non esistono: nell'isola felice i vicini di casa non potrebbero essere più opposti, ed è molto divertente il
fatto che sia sempre la "gente" ad invadere continuamente lo spazio degli altri, a non consentire loro l’instaurazione
della repubblica ideale, fatta, per esempio, di famiglie di fatto e non istituzionalmente riconosciute.
Salvo poi scoprire che sarà lo schieramento di sinistra a smuovere l'ordine costituito, ad introdurre elementi
disturbatori nell'apparente armonia altrui e a ricondurre ciascuno alle proprie autentiche disposizioni e
responsabilità. Moralisti? Un pochettino sì, e anche questo amaro lieto fine mi è sembrato un po’ forzato, pur
suonando come un ovviamente auspicabile invito al confronto.
Certo, è solo una commedia, ma una commedia che fa rientrare i propri personaggi nell'ambito del genere solo
dopo averli condotti dentro un numero discreto di conflitti insanabili; penso per esempio all'episodio dello sparo al
senegalese, che introduce un elemento drammatico altissimo che non si dimentica.
Forse, più che di due schieramenti, nel film si tratta di due anime della società italiana, immutabili, costitutive e
destinate a convivere e a disturbarsi perpetuamente, vanificando la realizzazione delle reciproche società ideali.
Ma se il film fosse questo, un impietoso e divertito ritratto d'Italia, vorrei sapere qualcosa di più di quella Sabrina.
È l'adolescente e sensibile primogenita del terribile Ruggero, appiccicata per malinconia ai telequiz, con
apparecchio ai denti, insofferente verso i valori arroganti della sua famiglia.
Se lei è il nostro futuro, io vorrei sapere, cosa farà dopo l’urlo tirato al suo innamorato alternativo("Stronzo, io ti
amo!")? Vorrei sapere: Sabrina, chi diventerà e cosa vorrà da grande?
Strade interrotte, strade aperte
Carlo Bertelli
All’inizio dell’anno accademico si svolge in un’università della Svizzera occidentale la geance informatique, che
non ha nulla a che vedere con l’informatica e che, anzi, in qualche altro paese di lingua francese immagino che si
direbbe informative. Di fatti la riunione ha lo scopo d’informare i nuovi studenti sul carattere dei vari corsi e di
permettere loro una prima valutazione dei docenti.
Da diversi anni è tradizione che uno dei professori di storia dell’arte parli, di propria iniziativa, per scoraggiare le
matricole dal seguire i corsi di quella materia. L’argomento principale è che la storia dell’arte non offre sbocchi di
carriera. I musei sono pochi e i loro direttori sono relativamente giovani e in buona salute, la carriera del
monuments historiques è praticamente chiusa e comunque frustrante dato che non riesce a salvare un monumento,
il restauro non ha bisogno di diplomati in storia dell’arte e vi sono ottime guide turistiche che guadagnano bene
senza aver mai messo piede all’università, l’insegnamento secondario della storia dell’arte è ammesso, con
difficoltà, soltanto in alcuni cantoni e in nessuno di lingua francese, le borse di studio sono scarse e certo nessuno
può contare di vivere con quelle, che, oltretutto, non sempre sono rinnovabili anche la volta che uno le ha ottenute;
in quanto al mercato, o ci si è già dentro, e allora non c’è neanche tanto bisogno di venire all’università, oppure non
vi si accederà mai e, in ogni caso, ha sempre margini di incertezza.Questi sono più o meno gli argomenti ripetuti
con qualche variante ogni anno e con maggiore insistenza man mano che si constata la mancanza di risultati pratici,
poiché il numero di iscritti a storia dell’arte è sempre in aumento, denotando così una colpevole distrazione degli
iscritti verso un futuro sicuro e una loro distorta curiosità verso studi disinteressati.
Mi chiedo ora se il professore tanto amico del giaguaro ha letto la notizia che è apparsa sui giornali di questa
settimana e che deve essere vera, poiché finora non ne ho letto una smentita. Alla soprintendenza dell’Aquila, si
apprende, oltre a un numero sterminato di fotografi, evidentemente allertati per qualche possibile sisma, vi
sarebbero ben 45 storici dell’arte, quanti quell’università elvetica sforna in un considerevole numero di anni.
Non ho sott’occhio l’ultima edizione del ruolo di anzianità del ministero per i beni culturali, ma, anche se le altre
soprintendenze hanno forse meno storici dell’arte di quella dell’Aquila, l’impressione è che di funzionari esperti nel
ramo il ministero ne conti parecchi.
A questi dati si possono applicare annotazioni diverse. Nota leghista: il Sud è privilegiato, Roma fa e disfà a modo
suo etc. ... Nota efficientista: ci vuole mobilità, occorre licenziare etc. ... Oppure: tutti questi storici dell’arte
possono essere una risorsa da utilizzare. È difficile che siano stati impiegati al loro intero potenziale nelle strutture
esistenti e dentro i compiti che spettano tradizionalmente alle soprintendenze, ma possono essere messi alla prova
in un progetto nuovo.
A parte gli ingrandimenti burocratici, la struttura delle soprintendenze è quella post-risorgimentale immaginata da
Gian Battista Cavalcaselle. Da oltre un secolo ha avuto ritocchi; mai cambiamenti. Il sistema dei musei, a parte gli
scavi e i musei archeologici, è quello napoleonico incrementato dalle espropriazioni risorgimentali dell’asse
ecclesiastico. Esiste un solo museo (che non è statale) della scienza e della tecnica. La trasformazione agraria ha
dato luogo a una serie di piccoli musei detti della civiltà contadina; la gigantesca ristrutturazione industriale non ha
prodotto nulla. I musei del risorgimento si sono allargati a comprendere la storia della resistenza. Ma non vi è
niente di paragonabile al Museum of American History della Smythsonian, non un museo dell’elettricità o della
chimica, della transumanza o delle ferrovie e delle strade, niente che documenti progressi e ritardi, che offra ai
giovani temi su cui riflettere per capire la società in cui sono vissuti i loro genitori e immaginare quella in cui
vivranno loro. La cosa singolare è che simili musei costerebbero poco come investimenti, ma sarebbe
assolutamente necessario farli in tempo, prima che il materiale che dovrebbe comporli andasse perduto e
utilizzando subito le tecniche nuove d’informazione e di comunicazione. Allora i 45 storici dell’arte dell’Aquila
sembrerebbero pochi.
Fumetti
a cura di Comix
avanti
Informazione (personalizzata) sul WWW
Giulio Blasi
Geoffrey Nunberg ha suggerito che la distribuzione di rete mette in crisi il concetto tradizionale di
"informazione" (potrete leggere il suo pezzo in un volume di prossima pubblicazione a cura del Centro di Studi
Semiotici e Cognitivi di San Marino, edizioni Brepols). E insieme al concetto di informazione entra in crisi il
concetto di "opinione pubblica". Notate che "crisi" non vuol dire che c’è qualcosa che non va, significa
semplicemente che qualcosa sta cambiando.
La nostra idea di informazione è basata, tra gli altri, su un presupposto chiave : l’unità dell’informazione per tutti
gli osservatori. La prima pagina del quotidiano e la sigla di apertura di un TG sono eguali per tutti. Questo
presupposto è così rilevante che il "framing" delle notizie (il modo in cui esse vengono "incorniciate" all’interno di
un palinsesto generale) costituisce un importante tema di ricerca per gli studiosi dei media. E’ difficile dire cosa
cambia se il framing delle notizie diventa un compito del lettore/telespettatore invece che delle redazioni
giornalistiche (con un semplice clic, ad esempio, passate ora al manifesto di Unabomber, senza framing...). Qui mi
limito a mostrare operativamente in che modo potrebbe avvenire questa inversione.
Sul WWW, infatti, il presupposto tacito dell’unità dell’informazione per tutti gli osservatori tende ad essere sempre
meno rilevante e le possibilità di framing da parte delle testate giornalistiche sempre minori. Intanto è possibile lo
"zapping" tra testate diverse in modo poco dispendioso. Con il mio browser navigo in fretta tra un bel po’ di testate,
agenzia di stampa e addirittura giornali radio regionali (per questi ultimi è però necessario fare il download del
software di Real Audio). Posso decidere di leggere le diverse sezioni di un giornale su testate diverse, lo sport qui,
la politica interna lì ecc. (potete fare qualche tentativo con i bookmarks che aggiungo qui di seguito).
· L’Unità
· La Repubblica
· Unione Sarda
· La Stampa
· Il Manifesto
· Corriere della Sera
· Il Sole 24 Ore
· Panorama
· Televideo
· Adn Kronos
· ANSA
· Reuter
· Giornali Radio
Una volta individuati gli indirizzi precisi delle diverse aree tematiche per testata potreste organizzare un "personal
Tour" (giornaliero magari) attraverso di essi utilizzando uno strumento creato da Darryl Stoflet. Lascio a voi la
responsabilità di decidere se le 2 ore dedicate a costruire il giochino sono ben spese o meno.
Posso cercare informazioni in modo più indiretto, ad esempio utilizzando motori di ricerca come Altavista.
Facendo click qui - ad esempio - trovo un bel po’ di documenti su Romano Prodi distribuiti senza altra
specificazione in rete (si tratta di una ricerca molto generica ma potrei limitarla opportunamente).
Posso leggere le reazioni dell' "opinione pubblica" nei newgroups. Comincio a filtrare (inserite "it.politica" nel
campo "Newsgroup" e cliccate sul bottone "Submit Filter") le sole cose discusse nel newsgroup "it.politica" - ad
esempio - e poi faccio una ricerca su "Romano Prodi". In questo modo ottengo visibilità sulle reazioni dell'opinione
pubblica senza filtri redazionali.
Posso leggere la stampa in modo verticale usando gli archivi. Il che rende possibile una sequenziazione cronologica
degli articoli e delle notizie impensabile per il lettore "cartaceo".
Posso infine usare vari strumenti per personalizzare il "menabò" del mio giornale. Questo è un servizio offerto - a
vari livelli di complessità - da alcune testate. L’Unione Sarda permette di filtrare le sole informazioni relative alle
aree di interesse del lettore. Ma uno strumento davvero sofisticato è FishWrap (qui ne leggete una descrizione), un
sistema realizzato dal Media Lab. Questo software è usato dal San Francisco Cronicle e dal San Francisco
Examiner per la loro testata on line, The Gate. Qui il lettore può costruire un proprio profilo che verrà registrato dal
server e genererà ad ogni collegamento un giornale calibrato sulle vostre richieste.
Qualunque sia il giudizio sulla qualità degli esempi che ho utilizzato (ma ne ho dimenticato uno importante) è certo
che il lettore modello che ho descritto compie operazioni abbastanza atipiche rispetto al lettore/spettatore degli
organi di informazione tradizionali. Tutto è "on demand" e comunità anche ristrette potrebbero essere costituite da
individui che non hanno un repertorio quotidiano di "notizie condivise" o che magari leggono le medesime notizie
all’interno di palinsesti differenti. Questo tipo di lettore (ammesso che mai si affermerà o ammesso che non si sia
già affermato con lo zapping, il satellite e la TV via cavo) ha un’immagine nuova dell’opinione pubblica e ne è
parte in un modo nuovo.
Appuntamenti
Olimpiadi
Hanno collaborato:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Antonio Martino, Giovanna Grignaffini, Altan, Stefano Bartezzaghi, Moni Ovadia,
Rossana Di Fazio, Paolo Sylos Labini, Indro Montanelli, Giulio Borrelli, Ezio Mauro, Giulio Anselmi, Carlo
Rossella, Alda Merini, Renato Mannheimer, Marco Giusti, Vittorio Gregotti, Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Adriano
Agnati, Giorgio Casadio, Giulio Blasi, Ranieri Polese, Aldo Schiavone, COMIX.
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Moreno Naldi, Stefano Mazza, Annalisa Galardi,
Massimo Amato e Francesca Poppi
Software:
Il gran chiasso che si fa a intervalli sui concorsi universitari può far pensare che irregolarità ci siano solo ai livelli
alti della carriera accademica, quelli che portano alla cattedra. Converrebbe invece ispezionare anche gli altri,
partendo dal più basso, quello dei concorsi per 'ricercatore', che hanno finito per sfigurare una funzione essenziale
per lo sviluppo della scienza e della cultura.
Può non sembrar vero, infatti, ma perfino nel paese di Berlusconi e Craxi sono molti i giovani che intendono
dedicarsi alla ricerca. A loro dovremmo gratitudine: senza ricerca un paese non va avanti, e si sa che l'innovazione,
la scoperta e l'originalità nella ricerca sono soprattutto affare da giovani. Ma non è detto che chiunque voglia darsi
alla ricerca ne abbia davvero la stoffa. In molti paesi, perciò, il giovane che aspira a fare il ricercatore ottiene un
contratto breve, che serve proprio a verificare la sua vocazione e le sue capacità. In Italia no: se uno sia adatto o no
a una vita di studio si decide una volta sola e per sempre! Chi vince il concorso per ricercatore rimane 'dentro' a
vita, anche se si dovesse accertare subito che la ricerca e lo studio non sono per lui.
Perciò i concorsi per ricercatore sono contesi con particolare asprezza. I posti sono pochi, i giovani che possono
accedere pochissimi rispetto al totale degli aspiranti. La selezione dovrebbe quindi essere oculatissima. Invece no, è
quasi un gioco di carte tra amici. Ecco come. La legge stabilisce che la commissione giudicatrice sia formata da tre
membri sorteggiati dal CUN. Il CUN (ancora lui!) produce sì dei nomi, ma nessuno può giurare che siano
sorteggiati davvero: molti sospettano che siano designati secondo le richieste di questo o quel professore. Solo così
si spiega che le commissioni siano sempre fatte di persone che la pensano allo stesso modo, e che possano perfino
esser composte dal paterfamilias accademico e da suoi allievi devoti. Chi può opporsi a triumvirati così compatti?
Infatti, da commissioni di questo tipo esce vincitore, infallibilmente, il candidato per il quale il posto era stato
chiesto, e che spesso, come gli eroi eponimi dell'antica Grecia, dà il proprio nome al concorso ("come è andato a
finire il concorso di X?"). Gli altri, possono anche non presentarsi affatto. Può succedere così che un giovane, non
avendo ius loci da nessuna parte, si piazzi anche tre o quattro volte secondo in concorsi fatti per altri - segno sicuro
che poteva vincerli tutti, ma che un diritto più potente glielo ha impedito. Abbiamo così l'università pullulante di
ricercatori che non ricercano niente, e di giovani bravi che aspettano fuori del recinto.
Non sorprende che il ricercatore, nato in questo modo, abbia finito per diventare una delle figure più ambigue.
Originariamente, la legge lo destinava ad una vita quasi virginale: non più di due ore di 'presenza' in facoltà,
nessuna didattica se non di supporto, e così via. Tutta la sua giornata doveva essere dedicata allo studio. Ora questa
vita claustrale si è aperta alle tentazioni del mondo, e in che modo! Le pressioni corporative hanno procacciato al
ricercatore diversi privilegi: può infatti (a) prendere per supplenza, anche per anni, il posto vacante di un professore
(è in pratica l'incaricato di una volta: una funzione contesissima), (b) ottenere fondi di ricerca da solo e utilizzarli
senza chiedere la valutazione di nessuno; (c) ottenere congedi per periodi di studio esattamente come i professori.
Intanto, nessuno è tenuto a verificare se ricerchi alcunché o se piuttosto si dedichi alla coltivazione del ligustro
texano. Si vede, da questa descrizione, che il ricercatore non è più un giovane inesperto di cui bisogni verificare
l'attitudine alla ricerca, ma un 'professorino' vero e proprio, che accumula vested interests in attesa che qualcosa
(un'ope legis?) lo faccia diventare 'professore vero'.
Che fare? Siccome non mi pare che la mafiosità nativa del sistema di selezione possa essere cancellata d'un tratto,
credo che si possa solo tentare di legalizzarla, ma in modo che il professore paterfamilias sia esposto a qualche
rischio. Lasciamo pure che sia lui a designare ad nutum un suo ricercatore, ma facciamo che questo possa tenere il
posto solo per un anno (o due). Dopo questa prova, il giovane verrà pesato per vedere se ha imparato davvero
qualcosa: se sì, verrà confermato per un altro biennio; se no, potrà davvero darsi al ligustro texano. Ma in questo
secondo caso, il professore che lo ha nominato 'pagherà' qualcosa per la sua scarsa preveggenza: ad esempio, con
una riduzione di stipendio o di prerogative. Basterebbe un meccanismo come questo a far sì che gli errori nella
selezione dei giovani venissero pagati non (a vita!) dallo stato, ma dalla persona che li ha commessi.
Cattedra, o cara!
Umberto Eco
Posto fisso e ricercatori
Sono fondamentalmente d'accordo con la pars destruens di Simone. Ma chiediamoci per intanto perché accadono
certe cose. In tutto il mondo, al posto del nostro Ricercatore c'è l'Assistent Professor (che non è ancora Associato).
Il vero Ricercatore lavora se mai in altre istituzioni, come i centri di ricerca, dove non si fa didattica. E' che da noi
la parola Assistente è stata abolita perché una tradizione baronale aveva reso l'assistente un portaborse da
barzelletta. Eppure molti di noi ricordano con gratitudine alcuni assistenti di una volta, che ci sono stati compagni e
maestri a un tempo, e ci hanno insegnato più del professore.
In Italia l'Assistente non esiste. Esiste il Dottorando di Ricerca, che per legge deve stare ben lontano da ogni
esternazione didattica (in America il dottorando viene pagato proprio per fare lezioni ai più giovani, così almeno
impara qualcosa che un giorno gli servirà, visto che per vocazione si avvia, oltre che alla ricerca, all'insegnamento).
Ed esiste il Ricercatore, che per legge dovrebbe solo ricercare, anche lui senza aver rapporti con gli studenti (poi un
giorno vincerà un concorso, diventerà professore, e alla vista di uno studente darà manifestazioni di stupore, come
il capitano Cook quando vide il primo ornitorinco).
Poi viene il Professore (di prima o seconda fascia) il quale in certi posti deve seguire anche mille studenti: e la
legge non concepisce che abbia un vice, un collaboratore, un Assistente (diciamo questa brutta parola!) che lo aiuta
per i seminari, per seguire le tesi, per i colloqui di orientamento con gli studenti. Allora è ovvio che si usino come
assistenti, e come docenti per corsi scoperti, architettando i marchingegni più svariati, i Ricercatori, e talora i
Dottori di ricerca (con borse post-dottorali) e addirittura di straforo i Dottorandi.
Come si assumono i Ricercatori (chiamandoli col nobile nome di Assistent Professor)? Simone ha ragione, la
finzione del concorso nazionale, con due commissari su tre che vengono da fuori, ma sono portati a valutare anche
le esigenze locali, evapora di fronte alla forza dello ius loci. Però cerchiamo di essere ragionevoli: si deve dare a
uno o più docenti locali chi li aiuterà a parlare con gli studenti, a indirizzare le loro tesi, e anche chi farà ricerca in
un certo istituto, dove ci saranno dei temi e dei metodi assestati, una tradizione, una scuola - che è un'altra brutta
parola, ha detto una volta un personaggio illustre, e non è vero, ci sono scuole dal tempo di Platone, e per fortuna;
che senso avrebbe avuto mandare un allievo di Newton a far calcolo infinitesimale con Leibniz? si sarebbero
sbranati a vicenda senza produrre nulla. Quindi c'è una certa logica nel fatto che un dato dipartimento voglia
mettersi in casa persone che per formazione e tendenza lavorino bene con chi ci lavora già. Si badi che questo non
significa necessariamente tirar dentro l'allievo stupido. Mi permetto di proclamare con soddisfazione che nel nostro
dottorato di semiotica si fa un concorso annuale e succede ogni anno che vi vengano ammessi candidati che
vengono da fuori (a scapito di concorrenti interni) perché sono bravi, e non abbiamo dovuto pentircene.
Ma insomma, per non fare ipocrisie, si riconosca anche per i Ricercatori il criterio di una autonomia decisionale
dell'ateneo. Non valgono tutte le lamentele che si odono, circa la proposta che i concorsi di fascia superiore si
svolgono formando una lista nazionale di idonei, in base alla quale poi le facoltà sceglieranno i professori che
desiderano. La lamentela è: nella lista non potranno non entrare anche delle mezze calzette (nessuno può dirlo, se la
lista viene fatta con rigore, ma ammettiamo pure che entreranno, coi bravi, anche dei meno bravi); le facoltà di
serie C, fedeli ai loro maneggi clientelari, sceglieranno sempre il meno bravo perché è cugino o amante del preside,
e così la facoltà diventerà sempre più di serie C. Mentre con un concorso nazionale c'è sempre la possibilità che una
commissione onesta mandi in quella facoltà un professore di serie A. Che ipocrisia: sappiamo bene che il
professore di serie A, quando arriva nell'università periferica, ci va qualche giorno al mese, e appena può scappa, e
questa è una delle ragioni per cui quella facoltà è di serie C. L'unico modo di diventare di serie B, se vuole, è di
cercarsi da sola professori di serie A attraverso delle incentivazioni (lo stipendio è quello che è? E noi ti ci
aggiungiamo l'alloggio con vista, due segretarie, Internet e due assistenti). La facoltà non vuole diventare di serie
B? Cavoli suoi. Come se già adesso, coi concorsi nazionali, non esistessero facoltà di serie A e facoltà di serie C, e
quelli che si laureano nella facoltà di serie A trovano subito posto in grandi aziende mentre gli altri rimangono
disoccupati. Ma chi stiamo prendendo in giro? Tanto vale istituzionalizzare la differenza, e scatenare una libera
competizione.
E qui veniamo alla crudele pars construens di Simone. L'ateneo si prende il ricercatore che vuole, ma se dopo un
anno o due quello non ha ricercato, si penalizzi il professore che lo ha chiamato. Forse è troppo, anzi troppo poco,
perché il professore, per non perdere lo stipendio, è capace di scrivergli lui la ricerca, ai suoi fallimentari protetti.
Piuttosto: l'Assistent Professor viene chiamato, si sa che per legge dovrà svolgere un certo servizio didattico (da
documentare) e condurre ricerca. Un anno è poco, per sapere se ha lavorato, visto che se ne danno tre a un
dottorando per produrre la sua tesi, e senza far niente altro. Ma in capo a tre anni, a quel punto scatta il controllo
nazionale: si valuti se quello che il Ricercatore-Assistente ha prodotto è sufficiente, non basta che abbia pubblicato
tre recensioni, il prodotto deve giustificare tre anni di lavoro - e non è neppure necessario che sia a stampa, a tutti i
costi, perché se una ricerca è buona lo si vede anche da un elaborato al computer. Se la commissione nazionale
giudica che il lavoro è insufficiente, il Ricercatore-Assistente perde il posto. Mi sembra un ottimo deterrente.
Si noti inoltre che in questo caso una commissione nazionale non ha da giudicare tantissimi aspiranti, come avviene
ora, ma solo i Ricercatori-Assistenti già scelti dalle facoltà, e quindi la valutazione può essere condotta con agio e
rigore.
Cattedra, o cara!
Nano Blob
di Marco Giusti
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ci sono state poche occasioni di incontro nel nostro comune impegno parlamentare, per lei ormai di routine, per me
del tutto nuovo. Prima di incontrarla alla Camera c'erano state un paio di conversazioni negli studi della RAI. La
mia impressione è sempre stata di buon senso e di senso pratico. Il Bossi che conosco, sia pure attraverso piccoli
lampi di incontro fortuito, è quasi un cliché di caratteristiche dell'uomo del Nord legato al lavoro; niente astrattezza,
molto impegno, abilità intuitiva e logica, sempre con i piedi per terra, capace di collegare il progetto con la realtà,
la trovata con i limiti. In altre parole, un cliché venato di simpatia a causa dei modi espressivi diretti, un poco
brutali, privi di ornamento e sempre diretti a dire cose chiare, senza perdere tempo.
Tutto ciò che le sto dicendo non corrisponde in nulla al Bossi che, insieme a milioni di italiani e di stranieri,
sorpresi e anche un po' divertiti (il problema non li riguarda) vedo ogni giorno in televisione.
Quel Bossi è fumoso, indiretto, allusivo, parla per proclami irrealistici, con toni sarcastici, a una distanza
impressionante (meridionale, direbbe lei) con la realtà. Dice cose che non sono vere, cose che non sono accadute,
cose che non possono verificarsi perchè negate dai dati e dai fatti. E finge di non vedere la mancanza di nesso
logico fra una frase e l'altra. Bossi 2 punta sul fare impressione piuttosto che sul comunicare, sulla esagerazione
piuttosto che sui fatti, sulla sorpresa paradossale piuttosto che sull'argomento, su un certo oscuro rinvio a qualche
altro fatto che sul momento non viene enunciato. Si renderà conto che ho elencato i tratti peggiori di alcuni luoghi
comuni a carico del "tipo meridionale", che lei fisicamente incarna, agli occhi dei nostri vicini svizzeri, austriaci,
tedeschi, ma che certo non ama.
Credo di poter immaginare un argomento difensivo del secondo Bossi: i due sistemi televisivi, quello pubblico e
quello privato, gli stanno addosso in modo ossessivo e registrano ogni minimo scatto di nervi. Montano di
preferenza le frasi che gli riescono meno sensate. O forse le scorporano da un contesto più ampio.
Non è bastato che Bossi 2 cacciasse le troupes di entrambi i sistemi di informazione additandoli al disprezzo del
"popolo del nord" (che per fortuna è cauto ed educato e non ha dato un seguito a quel grido lugubre, "rauss!").
Benché descritti con una aggettivazione che avrebbe potuto provocare violenza i televisivi ritornano con una
tenacia che viene in buona fede scambiata con il "dovere di informare", cui si potrebbe assolvere con buoni testi
scritti, restando a distanza dalle scenate, con dignità.
Ma il secondo Bossi, quello di cui sto parlando e che vedo costantemente in televisione, non solo è diverso
dall'altro perchè manca di realismo e senso pratico.
Il secondo Bossi sembra anche indifferente al dato democratico con cui si misurano le proposte e le idee. Il secondo
Bossi sembra non sapere che parla a nome di una base molto piccola rispetto al Paese che propone di dividere, ma
anche alle regioni che, a suo dire, desiderano la separazione.
Il Bossi televisivo propone di rivolgersi alle Nazioni Unite per chiedere il diritto all'autodeterminazione.
Bossi 1, quello del buon senso, con i piedi per terra, quello che io conosco, potrebbe dire a Bossi 2 che occorrono
certe condizioni per andare all'ONU. Una è di parlare a nome di una maggioranza che una parte minoritaria e
antidemocratica vuole negare.
Un'altra è di rappresentare una identità etnica segnata dalla cultura, dalla religione, dalla storia, che viene ignorata e
oppressa.
Il primo Bossi vede benissimo che sarebbe difficile costruire per i funzionari dell'ONU il tipo etnico del cittadino
del Nord-Est oppresso. E capirebbe al volo che la "fuga per tasse" non è consentita dalla Carta della Nazioni Unite.
Ma il secondo Bossi ha dalla sua un grande argomento per rispondere: perché non dire cose che non stanno né in
cielo né in terra se me le mandano in onda subito e le replicano sei o sette volte al giorno quando sono
particolarmente prive di riferimento alla realtà?
La ragione di questa breve lettera è semplice. Mi rivolgo al primo Bossi, l'uomo tutto buon senso del Nord, abituato
a non sprecare parole in discorsi inutili, affinchè persuada il secondo Bossi a essere più asciutto , più sensato, più
nordico (mi riferisco al cliché) e ammetta che - a parte il teatrino televisivo e il travestimento delle camicie - non si
può giocare da soli, stabilire da soli le regole del gioco e cambiarle di colpo la mattina dopo aver perso tutti i
sindaci di tutte le città bandiera della immaginaria Padania. Prego vivamente il primo Bossi di ricordare al secondo
che le ultime elezioni politiche hanno dato mandato al settantacinque per cento dei deputati e senatori del Nord di
andare a Roma a tenere l'Italia unita (cercando di risolvere, intanto, i molti ostacoli al raggiungimento di una
legittima autonomia). E che le ultime elezioni amministrative hanno pacamente ammainato molte altre bandiere
nello schieramento del secondo Bossi.
E' al primo Bossi che molti, in parlamento e fuori, vorrebbero continuare a rivolgersi per approfondire seriamente il
discorso del Nord e del Sud e di tutta l'Italia.
Lei crede che sarà possibile? Con i cordiali saluti del Suo Furio Colombo.
I due Bossi
Renato Mannheimer
Le ragioni di Bossi
Caro Colombo,
mi permetto di rispondere anch'io alla sua lettera a Bossi. Non perché il leader leghista abbia bisogno di un
avvocato difensore o perché io sia animato da particolari sentimenti di simpatia verso di lui. Ma perché il contrasto
tra Bossi1 e Bossi2 richiama un problema più generale ed alcuni interrogativi sul futuro.
In realtà, la contraddizione tra il Bossi1, pratico, perfino ragionevole, che si incontra in parlamento (ma anche,
come a me personalmente è capitato, ai dibattiti televisivi, non appena si è dietro le quinte) e il Bossi2, esagitato,
con slogan palesemente irrealistici e non negoziabili (quindi al di fuori dal dibattito politico), caratteristico dei
comizi e della gran parte delle occasioni "pubbliche", è solo apparente e corrisponde ad una precisa (e, nel caso di
Bossi, necessaria) strategia di comunicazione politica.
Bossi ha, da ormai più di dieci anni, deciso di far assumere al suo movimento l'immagine di "nuovo", di "diverso"
dalle forze politiche tradizionali. Si tratta di una scelta che ha dato, sin qui, molti frutti. Essa infatti risponde ad un
sentimento di disaffezione verso le forze politiche "storiche", presente in una quota non piccola di elettori e, ciò che
è più importante, maturato e pian piano accresciutosi sin dalla metà degli anni settanta (prima, cioè dell'apparizione
della Lega e prima, naturalmente, di tangentopoli).
Tutti i primi slogan della Lega vanno letti nel senso di una DIFFERENZIAZIONE dall'establishment "romano".
Anche il linguaggio scurrile di un tempo serviva, sul piano comunicativo immediato, a sottolineare questa
differenza e ad "avvicinarsi" ai cittadini che, a torto o a ragione, si sentivano delusi dai partiti tradizionali ("Bossi
parla come me", ci dicevano i leghisti nelle interviste, "non come quei politici che non si capisce niente").
Attraverso questa immagine - e soprattutto grazie ad essa - Bossi ricevette i primi consensi di massa (ricorda il
1992?). Le ricerche hanno mostrato che le motivazioni di voto di gran parte degli elettori leghisti di allora erano
legate più al fattore protesta e disaffezione dai partiti tradizionali che a elementi di carattere etnico, antimeridionale
(che veniva letto dagli elettori come anti partiti romani) o altro.
Ed è ancora una volta questa immagine che ha permesso a Bossi di ottenere il recente successo elettorale alle
politiche. Ancora una volta le ricerche (in corso) mostrano come i voti al Carroccio non siano legati a radicate
convinzioni secessioniste, ma siano in larghissima misura giunti all'ultimo momento, al fine di dare un segnale di
protesta, di votare qualcosa di "diverso".
Bossi2 serve dunque come strategia elettorale. Ma, sfortunatamente per Bossi, per pagare elettoralmente,
l'immagine di diversità deve essere continuamente reiterata e ricordata. Occorre ogni volta sorprendere, sempre di
più, come in certe pubblicità. Ciò permette di andare sulle prime pagine dei giornali e di essere di conseguenza
sempre ricordati. Il fare dichiarazioni provocatorie costituisce cioè un modo per continuare a sottolinerare il proprio
carattere, la propria immagine di "diversità".
Bossi ha bisogno di questo per sopravvivere politicamente. Se non ci fosse il Bossi2, Bossi1 non avrebbe ottenuto il
successo alle ultime elezioni e non potrebbe incontrarsi con lei alla camera dei deputati. Se non ci fosse il Bossi2,
in breve tempo nessuno si ricorderebbe più di lui e nessuno lo voterebbe più.
Bossi2 è dunque necessario alla Lega. Perché quest'ultima non possiede in realtà un vero programma di governo,
ma punta a conquistare i voti derivati dallo scontento, dalla disaffezione verso i partiti tradizionali. E, come si è
visto, continua ad ottenerne in gran quantità, perché, sin qui, i partiti tradizionali le hanno dato - con le loro non
realizzazioni - molti argomenti a favore.
E il futuro? Questo governo suscita grandi attese e speranze da parte di molti cittadini. Mi dica Colombo, lei che
incontra ministri tutti i giorni, c'è speranza che tolgano argomenti a Bossi? Cioè che realizzino (o diano almeno
l'impressione di realizzare) almeno una parte di ciò che gli elettori leghisti e tanti altri si aspettano?
La saluto cordialmente.
Suo
Renato Mannheimer
I due Bossi
Aldo Grasso
Il silenzio di Pippo
Incappato in guai giudiziari, Pippo Baudo è stato costretto a fare scena muta. Come da copione o da destino. Le
corde vocali, il suo strumento di lavoro, hanno ceduto in perfetto sincronismo con gli avvisi di garanzia. Ma che
garanzia abbiamo noi di un suo ritorno? La domanda è proprio questa: il silenzio farebbe bene a uno che ha
occupato da signore incontrastato la scena per tanti anni? Il suo silenzio farebbe bene a noi?
Il silenzio di Baudo è come quello delle Sirene, nel celebre racconto di Kafka. Si suppone che Baudo abbia
un’arma ancora più terribile del suo canto, e sia il suo silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto
inconcepibile, che qualcuno si possa salvare dal suo canto, ma dal suo silenzio certo no
Il silenzio replay. Se Baudo non dirà niente, ci sarà sempre chi gli chiederà di ripeterlo.
Il silenzio della giustizia. Chi acconsente, tace.
Il silenzio della corda vocale. Giù di corda.
Il silenzio Auditel. Questa tacita protesta contro le chiassose frasi fritte così ben accette alla folla dei telespettatori.
Il silenzio Blob. Solo il silenzio è grande, tutto il resto è silenzio.
Il silenzio complice. Un presentatore prende la parola. Un indiziato viene preso dalla parola.
Il silenzio della congiura. Quello che Baudo non potrebbe mai tollerare è che non la giustizia ma una corda vocale
lo ha ridotto al silenzio.
Il silenzio di tomba. Caduto nel silenzio, passò sotto silenzio.
Il silenzio dei giusti. Baudo ridotto male o ridotto al male?
Il silenzio fuori ordinanza. Dopo il silenzio radio, e il silenzio stampa, per Baudo è suonato il silenzio Tv.
Silenzio, si gira... Top Down. Bottom Up.
Sandro Parenzo
Le affinità elettorali
INCUBO
Lo abbiamo avuto, lo abbiamo superato. L'invasione degli UOMINI-BLAZER non c'è stata e ci siamo ritrovati il
22 aprile come gli agricoltori che hanno visto il ciclone annunciato passare a molte miglia dalla loro proprietà.
Bossi, benedetto lui e chi lo capisce, ci ha salvati per la seconda volta, forse senza accorgersene, forse senza
volerlo. L'incubo è passato.
SPERANZA
Un gran clima quello che si è poi visto, tutti buoni e volenterosi, si è guardato controluce il tessuto del Nuovo Stato
e, pur constatandone la deplorevole conservazione e il sostenuto numero di buchi e danni, si è detto: "Orsù, giovani
rammendatori, al lavoro! Rammendiamo!" Insomma, davvero un bel clima.
DUBBIO
Un po' è venuto alla presentazione dei giovani rammendatori che somigliano ad anziane ricamatrici già viste e
tristemente sperimentate in passato; note nel Veneto per lavori sommari o raggruppate sotto il motto "Peso il taccon
del buso" (Peggio il rammendo del buco). Ma si è anche detto: ci vogliono pure le anziane con esperienza per far
crescere i giovani volenterosi. A qualcuno, però, il dubbio è rimasto.
BRIVIDO
Qui si passa dal generico allo specifico e si racconta di una serata a Cannes in occasione della Mostra del Cinema.
Si era andati un po' pimpanti per via dei noti risultati e con la serenità che questa volta l'incredulità dei francesi nei
nostri riguardi non ci sarebbe stata. Insomma, eravamo anche noi con un governo presentabile, senza funamboli:
eravamo davvero EUROPEI.
E la sera di venerdì 17, senza le stupide superstizioni mediterranee, bensì con un senso europeo di piacevole attesa,
molti italiani si accomodavano nelle poltrone della sala per sostenere entusiasti la proiezione de "Le affinità
elettive", capolavoro annunciato dei celeberrimi fratelli Taviani che, per non voler strafare, veniva presentato fuori
concorso.
Trascorsi I primi 30 minuti, che per lo spessore dell'opera parvero ad alcuni un paio d'ore, mi volsi verso il mio
vicino, Angelo Guglielmi. Anche lui mi guardava. Fu lì, in quel momento, che un brivido mi corse lungo la
schiena. Quel brivido che segna questo capitoletto e che giurerei aveva provato in simultanea lo stesso Guglielmi.
Dimmi, Angelo, quel lampo visto dietro le note lenti, era un brivido?
DIAGNOSI
Il brivido non era generato dalla temperatura (ottima), né da problemi di natura bassamente corporea.
Quindi? Era un brivido di paura. Nel buio di quella sala si erano materializzate alcune immagini, dei fantasmi
inquietanti.
Li elenco in disordine:
a) foto sgualcita del CIRCOLO DEGLI SCRITTORI SOVIETICI. Alcuni in divisa, altri in
borghese, tutti con doppia fila di medaglie e decorazioni, somiglianze impressionanti di alcuni con
Breznev;
b) scena inquietante di Romero con lapidi che si scoperchiano e noti cadaveri che saltano fuori e si
incamminano verso la città;
c) regolamento incorniciato e severo per l'ammissione ad un esclusivo circolo, una sorta di Rotary,
ma tremendamente di sinistra, con deroga esclusiva per gli ex-democristiani che, come per gli ex-
combattenti, hanno diritto sempre a un posto a sedere.
Le paure sono sempre irrazionali e, senza dubbio, anche quella lo fu, anche se da allora, a riprese, mi assale. E a
nulla valse la prosecuzione del film e il meritato successo che ebbe da quel momento in tutte le sale
cinematografiche.
A nulla valse il poderoso dibattito per il Ministero della Cultura, nè (anzi!) il generoso incontro di tutte le categorie
del cinema con il neo-Ministro Veltroni. A nulla valse.
Che sia un virus? Che sia contagioso? la diagnosi non c'è.
CAUSE ED EFFETTI
Diciamo la verità, per evitare il ciclone abbiamo fatto un bel mucchio, mica tanto omogeneo, e adesso che stiamo
tutti nella stessa fattoria qualche diversità innervosisce.
Le affinità elettorali hanno creato il gruppo, le affinità culturali sono tutte sa vedere o forse da inventare. Le cause
le conosciamo, gli effetti sono da verificare. Ma qualcosa si è già visto con le prime nomine (vedi Governo e Enti
vari). Le affinità che legano il gruppo che ha vinto sono legate alla conferma del vecchio.
Le novità potrebbero dividere, il vecchio unisce. Speriamo che siano solo i primi effetti.
INCUBO
E come si conviene a un racconto circolare, si torna all'inizio. Ma non è un incubo, è una forzatura per amore della
simmetria. È una lieve preoccupazione. Così come si è preso come mero pretesto il film (per molti versi
encomiabile) dei Taviani per segnalare quella sensazione, quel brivido.
Ma una cosa è certa: che è proprio dalla sinistra che si dovranno sentire voci fuori dal coro. Che una cultura senza
dissenso ricorda il regime. Ma quale sarà la cultura all'ombra dell'ulivo?
Per quanto riguarda l'audiovisivo (quindi non solo il cinema) il timore/incubo è quello di un catastrofico ritorno -
anche qui - del vecchio. Una produzione geriatrica e piena di acciacchi per rispondere ai nuovi linguaggi e alle
vitali opere che vengono persino dai paesi europei. È bene ricordare che opposti eccessi del pragmatismo USA
fecero andare in pensione prematura quel genio assoluto di Billy Wilder che ci aveva appena regalato "Prima
pagina" e "Buddy-Buddy".
Questo non lo perdoneremo mai a quei mascalzoni, nemmeno facendo la fila ogni settimana davanti ai cinema per
vedere quei loro dannati bellissimi film scritti e diretti da trentenni sempre nuovi e vitali. E i nostri trentenni?
Se ci saranno mai dei Tarantino, degli Stone italiani, questi saranno cresciuti all'ombra dell'ulivo o in opposizione?
Temo, se mai ci saranno, che non usciranno certo dalle associazioni esistenti.
Dio ci salvi dal cinema assistito, dagli articoli 28 e da tutti quegli orrori.
Se la nuova cultura prenderà coscienza che un certo cinema non è stato emarginato negli ultimi anni dalla politica,
bensì dal mercato, ci sarà speranza.
Guardiamo a quanto sta accadendo da un paio di stagioni nell'editoria, dove l'investimento per far uscire un libro è
di poche decine di milioni. Dove esistono leggi di assistenza e ciscun titolo si batte alla pari con tutti gli altri. C'è
stata una fioritura di nuovi scrittori, divisi tra "buonisti" e "cattivisti", tra giovanissimi e meno giovani.
Trasversalmente tra essi si sono visti talenti, magari ancora rozzi, ma che fanno ben sperare. Grande vitalità. Così è
accaduto nelle arti visive.
Perché solo nell'audiovisivo brilla così poco il nuovo? Io qualche idea ce l'avrei, ma in omaggio alla particolarità
del magazine che mi ospita, finisco qui. Continuate voi. Il dibattito è aperto.
Paolo Palazzi
I Tartassati
Se si dovessero fare due esempi su quale è il problema economico che unisce gli italiani e quale è quello che più li
divide, la risposta sarebbe semplice: il problema fiscale in tutti e due i casi.
Tramite il fisco si redistribuisce il reddito, o meglio si preleva reddito da chi paga le tasse e si trasferiscono reddito
e/o servizi ai cittadini non necessariamente in proporzione alle tasse pagate.
A parte il caso, teoricamente possibile, in cui il valore delle tasse pagate da ogni singolo cittadino sia esattamente
eguale all’ammontare di reddito e servizi ricevuti da quel cittadino stesso, in pratica ciò che si riceve è diverso in
quantità e qualità da ciò che si paga.
Di che tipo siano, quanto elevate siano e come si distribuiscono queste differenze, sono tutte cose che dipendono
dal sistema di tassazione e dalla struttura della spesa pubblica vigente.
Sia la spesa pubblica che la tassazione hanno una quota molto elevata di rigidità, anche nel lungo periodo, in
quanto dipendono sia da fattori strutturali (economici, demografici e sociali) del paese, sia dall’accumularsi di
decisioni politiche prese nel passato e che hanno portato a situazioni di fatto difficilmente modificabili nel medio
periodo (si pensi ad esempio agli interessi sul debito pubblico). Ciononostante la tassazione e la spesa pubblica
vengono fatte apparire e appaiono agli occhi dei cittadini come variabili decise in larga misura politicamente e
quindi facilmente modificabili attraverso l’azione politica.
Ciò che unisce gli italiani è senza dubbio la sensazione che il prelievo fiscale abbia raggiunto un livello troppo alto.
Le ragioni di questa sensazione sono ben note e riguardano da una parte il fatto che negli ultimi anni vi è stato un
incremento molto elevato della tassazione e dall’altra la constatazione che ciò che ritorna in servizi pubblici ai
cittadini è considerato insoddisfacente e comunque non adeguato a quanto si è pagato.
Ma quando si passa a discutere su come e con quali misure porre rimedio a tale situazione ecco che comincia la
divisione.
1) Le tasse
Tracciare la mappa delle posizioni relative al problema fiscale è molto difficile, per il semplice e
banale motivo che le tasse colpiscono i redditi in modo differenziato secondo il livello del reddito,
secondo il tipo di reddito, secondo le caratteristiche familiari, ecc. Ma è la persona fisica che paga
le tasse e il reddito della persona fisica può essere, e in genere è, composto da diverse fonti di
reddito, e ancora più composta e complessa può essere la struttura del reddito familiare. Questo fa
sì che gli interessi prevalenti dei cittadini siano difficilmente classificabili, e soprattutto sia
impossibile e sbagliato appiattire le posizioni "politiche" sulle questioni fiscali, utilizzando
categorie quali lavoro dipendente o indipendente, possessori di patrimoni o nullatenenti, ecc.
2) La spesa pubblica
Ancora più complessa è la mappa delle posizioni relative alla spesa pubblica. La struttura della
spesa pubblica in Italia (ma anche in ogni paese sviluppato) ha raggiunto un livello di complessità
elevatissimo. Calcolare come si suddividono i benefici della spesa pubblica è molto complicato, e
praticamente impossibile è riuscire a fare una classificazione particolareggiata delle categorie e
gruppi sociali secondo i benefici che ricevono dalla spesa pubblica.
La combinazione di queste due complessità fa sì che nel dibattito attuale su fisco e spesa pubblica tutti dicano cose
diverse e ognuno sembra aver ragione; i punti di vista sono numerosi quanto numerosi sono gli elettori.
Un politico che si trova di fronte a questo arcipelago di posizioni o di interessi ha due vie per cercare di unificare ,
nel voto, questa complessità:
a) la prima via, senza dubbio più facile ed allettante per i politici, è quella di partire
dall’elemento unificante iniziale e proporre di ridurre le tasse a tutti, buoni e cattivi, belli e
brutti e, se proprio si vuole esagerare, si può anche proporre di aumentare la spesa pubblica
a favore di ogni gruppo o categoria di cui in quel momento si chiedono i voti. Come si
fanno a quadrare i conti? Eliminando non ben definiti sprechi e riducendo la spesa pubblica
a favore di parassiti e ladri, categorie in cui nessuno si identifica e che, quindi, non sono
rilevanti dal punto di vista del voto.
b) la seconda via è quella di affrontare la complessità chiarendo i principi di base, gli
obbiettivi che ci si propone con la spesa pubblica e le categorie che si vogliono privilegiare;
nello stesso tempo si deve avere il coraggio di dire come si debbono reperire le risorse, in
modo tale che anche il sistema di tassazione sia coerente con gli obbiettivi di spesa
pubblica. E’ una strada ovvia, ma difficile, che si basa sulla onestà intellettuale e sulla
chiarezza, ma è l’unica che, facendo leva sull’intelligenza e capacità di progettazione dei
cittadini, può al contempo contribuire ad aumentarne le capacità e la consapevolezza.
Vittorio Gregotti
Pull-it-down
Sempre più spesso settimanali e quotidiani interrogano specialisti e non su che cosa si debba demolire in Italia.
Nelle risposte vi è naturalmente una concentrazione di avversione contro l’edilizia pubblica economica e popolare,
soprattutto quella ad alta concentrazione. I risparmi di suolo e la loro relativa attrezzatura a verde e servizi, che è un
vantaggio che da essa dovrebbe derivare, sono infatti stati realizzati in generale pessimamente o non realizzati
affatto, con il risultato disastroso che conosciamo. Ma soprattutto l’edilizia popolare è il simbolo di alcuni valori,
come l’uguaglianza, la collettività solidale, la condizione proletaria, che sono oggi tra i più avversati.
Solo che nel 90% dei casi le responsabilità delle disastrose condizioni abitative che esse sovente rappresentano non
derivano quasi mai dalla soluzione architettonica, buona o cattiva che sia, ma dalla condizione monoclasse degli
abitanti, dal loro comune livello di reddito basso e spesso assai incerto e dalla conflittualità interna che da ciò
deriva. Inoltre sono da attribuire alla mancanza di articolazione nelle destinazioni d’uso funzionali, alla scarsità dei
servizi e dei trasporti e soprattutto alla pessima gestione degli immobili e degli spazi aperti da parte delle pubbliche
amministrazioni; al fatto, infine, che tutto questo rende estraneo, anzi nemico, il patrimonio pubblico.
Provate ad infilare e poi abbandonare duecento famiglie di poveri, di disoccupati e di arrabbiati dentro ad una villa
del Palladio ed in pochi anni l’effetto di degrado non sarà meno terrificante.
A Londra due quartieri popolari costruiti quasi nello stesso periodo trent’anni or sono da ottimi architetti hanno
avuto destini divergenti. Il quartiere di Roehampton è un paradiso, quello del Golden Lane è divenuto un inferno di
delinquenza e di degrado, per pure ragioni di gestione. La Francia sta facendo da anni una politica di ricostruzione
dei suoi "grands ensembles", politica di ricostruzione dei tessuti, dei servizi e di utilizzazione sociale degli spazi
aperti, politica che ha conseguito qualche successo. In Germania alcuni quartieri popolari sovvenzionati costruiti
negli anni Venti sono divenuti addirittura monumenti nazionali.
Anche per quanto riguarda l’Italia ed in particolare il quartiere ZEN, di cui ho avuto la responsabilità di progetto e
che è in questi casi molto citato, anch’io lo abbatterei ma per poterlo rifare come era stato pensato: sui suoi principi
progettuali ho scarsi pentimenti. Non solo l’esecuzione, del tutto al di fuori del mio controllo, è stata pessima, non
solo non è stato realizzato nessuno dei servizi previsti (scuole, centro di commerci, attrezzature sportive, spazi per
la piccola produzione, trasporti, ecc.), ma il Comune non ha nemmeno fornito le infrastrutture essenziali, come le
fognature, la luce, l’acqua potabile. Il quartiere è stato sin dall’inizio lasciato occupare abusivamente ed il suo
tessuto sociale si è così ridotto al suo stato peggiore.
La ricerca su ciò che può essere demolito andrebbe comunque estesa; anzi, andrebbero posti in primo piano non
solo gli orribili edifici che hanno distrutto intere parti delle nostre città storiche con la propria presenza (ai quali
occorrerebbe dedicare un intero libro solo per farne l’elenco) ma la sordida periferia della speculazione edilizia che
ha degradato senza possibilità di riscatto e con enorme estensione quantitativa le periferie delle nostre città,
opprimendole con una densità edilizia e senza valore, una mancanza di spazi aperti e di servizi senza possibilità di
riscatto ed una qualità architettonica di infimo ordine nel novanta per cento dei casi. Le possibilità di
miglioramento offerte da qualsiasi quartiere pianificato, anche il più scadente, sono infinitamente più alte di quelle
dell’espansione senza regole guidata dal profitto e dal cosiddetto "libero mercato" senza regole. Capisco molto
bene che è più facile additare alla demolizione il patrimonio pubblico piuttosto che quello dei singoli ma questa è
solo una condizione storica.
Tutto ciò per non parlare dello scempio ambientale compiuto dalle discariche, dalle cave, dall’occupazione delle
coste, dagli insediamenti diffusi senza regole che operano distruzioni di interi paesaggi e delle stesse organizzazioni
produttive della campagna.
Tutto questo non significa che la classe professionale degli architetti sia senza colpe, tuttavia quelle maggiori
stanno dalla parte di chi si è posto al servizio della speculazione volgare piuttosto che dalla parte di chi ha cercato,
magari ingenuamente o magari sbagliando, di fondare un modo di abitare la città ragionevole e civile, anche se
utopico.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Per motivi non dovuti solo all’assonanza fra gol e Golem, ma anche in omaggio alla chiusura del famoso semestre
europeo e all'apertura del cruciale campionato europeo, le dieci strofe di questo numero costituiscono nel loro
complesso il più classico degli Autogolem.
Ogni strofa contiene una sequenza cifrata di sei lettere, sempre le stesse sei lettere anagrammate.
1.
VIVA LE DILAZIONI
Acquistate e non pagate
merci molto raffinate:
se voi a soldi scarseggiate
sono comode xx xxxx.
2.
DOPPI SENSI
(politically uncorrect)
3.
VITA DA PASCIA'
Oziare e farsi da parte;
oziare e giocare a carte;
oziare e insidiar le sarte:
Di Michelaccio x x'xxxx.
4a.
MESSAGGIO DA ITACA
"Qui le porte sono aperte.
Torna pure. Tuo Xxxxxx".
4b.
CONTRO-MESSAGGIO DA BABELE
Qui the door is not ouverte:
Achtung! Be careful! xxxxxx!
5.
PANE,VOLPE E MARMELLATA
Bestie che sembrano scaltre:
aquile, volpi x xxxxx.
6.
FINALISMO
Con un filo puoi filare.
Pur coi piedi puoi filare.
Tutti in fila per filare.
Verso il telos puoi xxxxxx.
7.
E FU COSI' CHE EBBI L'ERGASTOLO
"Davvero un brutto carattere
mostrò quel giudice a xxxxxx"
8.
SACHER-MASOCH TORTE
(facciamoci del male)
9.
PRONTI PARTENZA
"Dico ‘uno’, ‘due’, x xx ‘xxx’
voi correte verso me".
10.
AVVISO AI NAVIGANTI
Se andate in gol la farete,
se siete in Golem la siete:
Golem o gol, net o mete,
trappola è sempre xx xxxx.
Anche questa volta le soluzioni verrano pubblicate nel prossimo numero di Golem.
Soluzioni
1. le rate
2. l'etera
3. è l'arte
4. Laerte
5. Alerte
6. e altre
7. telare
8. latere
9. altere
10. e al 'tre'
11. la rete
E se lo scambio fosse in sè delizioso?
Giovanna Grignaffini
La frase è di quelle destinate a sciogliere la tensione in una risata liberatoria, proprio come nel finale di Speriamo
che sia femmina. In realtà, l’ufficialità del tono e della circostanza la rendono del tutto surreale :
"Per riequilibrare la rappresentanza di genere abbiamo deciso che tutti i segretari d’aula proposti dall’Ulivo saranno
donne". E visto che anche il Polo fa la sua parte, applicando alla lettera, ma solo per il ruolo di segretario d’aula, la
parità tra i sessi, nell’ufficio di presidenza della Camera dei Deputati, le donne si presentano nella seguente
formazione: sei segretarie su otto, un questore su quattro, nessun vicepresidente, figuriamoci il presidente.
Ma a rendere questa piramide del tutto surreale non sono solo le cristalline leggi della matematica, unitamente a
insormontabili problemi di lessico ( segretario si può coniugare al femminile; con questore, vicepresidente e
presidente si aprono problemi di parola: meglio eliminare direttamente la cosa).
E’ soprattutto quel sentimento che avvolge molti fatti e parole. Un sentimento e un’immagine generale che ci
proiettano in un’epoca di subalternità contrattata tra uomini e donne.
Di quell’epoca ci parlano infatti molte frasi scambiate tra le parti. "Le donne ministro saranno almeno tre". "Non
possiamo collocarci al di sotto della Spagna di Aznar che ha portato al governo quattro donne" . "Ci serve ancora
un sottosegretario, donna, e possibilmente del Sud ".
Così come a quell’epoca risultano del tutto aliene domande del tipo: quali donne, cognome e nome, quali storie,
quali competenze, per quale ruolo, per quale governo, per quale politica. Quale autonomia e libertà femminile per
ciascuna di loro, quale rapporto con quell’autonomia e libertà femminile che vive nel paese. Domande inessenziali,
visto che lo scambio tra le parti si è realizzato, visto che le donne al governo sono proprio tre, non facciamo una
questione di portafoglio e potere, e non solleviamo sopratutto questioni sul fatto che siano tutte rigorosamente
confinate in quegli spazi della "cura" che anche ogni brava segretaria sa abitare con agio.
Distanze ravvicinate
Rossana Di Fazio
Di Spike Lee mi piacque Lola Darling (1986). C'era lì quello di cui vorrei parlare e che riguarda molti film di
questi e dei prossimi giorni.
Nel nuovo film di Spike Lee, Girl 6- Sesso in linea, la protagonista è un'attrice; cambia continuamente vestiti,
parrucche, persino lenti a contatto: è quasi difficile riconoscerla. E' sempre molto bella, ma riesce a trovare lavoro
solo rimuovendo il proprio corpo e introducendo la propria attitudine di attrice nei cavi di una hot line. Nel corso
della storia si vedrà che la sparizione del corpo è insostenibile e non promette niente di buono. Mentre Spike Lee
esalta l'abbraccio non virtuale sotto una pioggia di telefoni di ogni forma e colore (romantica e bella invenzione), il
suo film segna l'ennesima sparizione del corpo dal suo cinema. Non del corpo come oggetto di rappresentazione,
ma del corpo come strumento di comunicazione.
E' sempre più raro trovare il senso della presenza della persona che è aldilà e dentro lo schermo; quel senso realizza
una vicinanza con il pubblico ai limiti della discrezione e trasforma lo schermo in uno specchio nel quale lo
spettatore interroga il volto dell'altro in una distanza ravvicinata, la stessa che quotidianamente trasforma una
relazione qualunque in una relazione intima e confidenziale. Ricordate le protagoniste di Butterfly Kiss (1994) di
Michael Witterbottom? Lì c’erano persone. Negli ultimi tempi, al cinema, è molto facile trovare maschere ed è
difficile conoscere persone.
Blondie è mora, ma solitamente si tinge i capelli come Jean Harlowe; Carolyn appare nel film con una maschera di
bellezza che si tiene per un pezzo. Il marito di Blondie è uno squattrinato che si scurisce la faccia per rapinare un
boss, nero. Sono i protagonisti di Kansas City, di Robert Altman ; il più anomalo e solitario fra i registi americani
gioca spesso sulla pelle dei suoi protagonisti: è un continuo travestimento, scambio di identità, facce alterate. Lui sa
che il cinema pone questa faccenda e lo pensa così, come un circo.
Sto osservando da qualche tempo quali elementi fanno passare l'altro aldiqua dello schermo e possono renderlo
vivo per me. Non dipende dalla vicinanza della macchina da presa, ma sicuramente da un suo indugiare, insistere
sulla pelle e soprattutto sulla faccia; poi dipende senz'altro dalla presa diretta, cioè dalla qualità del suono , delle
voci e dei rumori, che qualificano in modo essenziale lo spazio filmico e fanno sentire lo spazio nel quale agiscono
i personaggi; anche il grado di patinatura dell’immagine misura una certa astrazione dalla corporeità.
Mi sono fatta un’idea su questa poetica della relazione, che considero, ovviamente, solo una fra le tante poetiche
del cinema e espongo la mia ipotesi, in tutta la sua discutibile genericità; credo che sicuramente questo interesse
"prossemico" sia del tutto assente, oggi, nel cinema dominato prevalentemente da scopi commerciali e che quando
usiamo istintivamente e anche impropriamente "americano" come aggettivo che designa tanto un luogo geografico
quanto uno stile produttivo, noi operiamo anche il riconoscimento di un racconto che interpone fra sè e lo spettatore
una barriera insuperabile: divi e divine, certo, ma dietro il vetro; attori, mai facce che si avvicinano davvero.
Anche il cinema commerciale (e mi sforzerò di trovare un termine più preciso) deve stabilire un legame patemico
con il pubblico; per trovare lo spettatore punta su una storia che funzioni sempre e comunque, e mobilita gli stati
d'animo al livello della sceneggiatura. Non si può rischiare. In questa prospettiva l'immagine, il montaggio, deve
essere soprattutto spettacolare e percorrere altre avventure.
La stanza di Cloe di Rolf de Heer è la storia di una bambina che smette di parlare con i suoi genitori per protesta e
cerca nel loro abbraccio quella vicinanza che esprime l’affetto più di qualunque parola. Tanto nel racconto quanto
nei modi in cui si sviluppa sullo schermo, quel film valorizza quella specie di comunicazione che ho cercato di
indicare.
Vorrei concludere con due osservazioni: la prima è che molti teorici del cinema (da Bela Balàzs a Roland Barthes)
hanno esaltato l'immagine cinematografica come strumento di scoperta del corpo; avevano esempi diversi davanti
agli occhi, ma sospetto che ne avessero di più vari, che la curiosità per il linguaggio producesse più esperimenti in
questo senso; la seconda è che intuisco una valenza morale nel proporre questa prossimità in platea: prima
dell'attore, essa mostra storie di personaggi/persone che esistono e sentono attraverso un corpo (unico e irripetibile)
e induce, per la naturale empatia che suscita nello spettatore, curiosità, comprensione e rispetto per quella integrità.
Su tutti i film citati potete trovare sulla rete moltissime informazioni con i normali sistemi di ricerca (naturalmente
la maggior parte dei siti è in inglese). In particolare potreste visitare questo sito di Girl 6, molto colorato e ricco di
informazioni. Buona navigazione.
Buone notizie
Carlo Bertelli
Un mercoledì di giugno a Varese. Meglio: il prossimo mercoledì a Biumo, sopra Varese. E già questo non è un
buon inizio giornalistico, perchè, come si sa, il giornale riporta i fatti, non li anticipa. Eppure, come in un
programma distribuito alla Scala, merita di descrivere la scena prima che si alzi il sipario. L'evento è infatti
importante e singolare. Si celebra la donazione al FAI della villa Menafoglio, poi Litta e infine Panza, con dentro la
celebre collezione d'arte degli anni ‘60-'70. La villa risale al 1751, e quindi ha il principale requisito per interessare
quella forma di National Trust che è il FAI, il quale si sta estendendo specialmente fra Piemonte e Lombardia con
una collana preziosa di abbazie, castelli, ville, case alto borghesi. La villa Panza dà certo un'impressione di
ricchezza, ma non trasmette nessuna di quelle evocazioni del buon tempo antico che solitamente appagano i
visitatori delle residenze aperte dal National Trust. L'invito è qui a una prolungata meditazione; meditazione sulla
vita e la morte, sull'identità di energia e materia, sull'ambigua risonanza delle parole, la presenza del non
rappresentabile. Un percorso nell'arte del nostro tempo che provoca la domanda: ma questa è arte? e che cosa è
l'arte?
In modo sottile ma perentorio le nostre normali percezioni e reazioni sono qui messe a nudo come forme di cultura
e quindi contraddette o almeno allertate. Ciò che si vede da una finestra può sembrare un quadro luminoso e poi
stupire con la propria evidenza reale; una sala in penombra può apparirci occupata da un immenso cubo inesistente;
una coppia di apparecchi televisivi ci fa smarrire il senso di dove stavamo andando. Oppure le tele di Robert
Mangold, Brice Marden, Robert Ryman, Peter Joseph, distribuite sulle pareti con la solennità riservata ai grandi
dipinti barocchi, sono perfetti monocromi che negano decisamente le seduzioni correntemente richieste all'arte.
La raccolta Panza ha riunito, della ricerca artistica soprattutto newyorkese e californiana, i momenti della massima
tensione intellettuale. Il piacere che dà è quello dell'intelletto, un godimento spirituale del tutto agostiniano. E
Biumo non è tanto distante da Casciago, il rifugio letterario di sant'Agostino.
La raccolta è stata chiamata una collezione made of uncollectable art, e infatti il suo disegno è di rigore filosofico,
d'una filosofia che, anzichè per segni verbali, si costruisca per proposizioni spaziali. Una parte delle opere è stata
realizzata qui e spostarla sarebbe diminuirla gravemente, come poniamo, lo studiolo di Gubbio trasferito al
Metropolitan Museum di New York. Altre sono state volutamente accostate ai camini neoclassici, a preziosi mobili
intagliati del Quattrocento, a famiglie di piccole statue africane di antenati.
L'idea è stata, infatti, di sottolineare il contatto nuovo che dal moderno si stabilisce con l'antico, permettendone
un'interpretazione non convenzionale in un lungo cammino a ritroso; mentre i gruppi di antenati ci rammentano
come gran parte del discorso dell'arte verta sulla relazione fra la vita e la morte, sul tempo fermato e quello che
fugge, sull'effimero e sul durevole. Insomma, quella che si offre ora al pubblico non è soltanto una raccolta, è la
casa trasformata da un proprietario che in vent'anni di collezionismo, dal 1956 al 1975, ha voluto vivere insieme
alle opere d'arte amate, o, come dice lui stesso, dentro le menti degli artisti. E' questa la ragione principale per la
quale di un solo artista sono proposte più opere, spesso con lievi dissonanze fra di loro, chiedendo così una visita
non affrettata, sostenuta dalla volontà di immedesimarsi nelle ripetizioni, cogliendone varietà e identità.
Giuseppe Panza è nato nel 1923. Ha un sorriso gentile, leggermente ironico, ma la sua apparente timidezza è in
realtà una forza sicura. Sua moglie, madre di quattro figli, è più esuberante. Quando i Panza visitarono la galleria
d'arte moderna del Vaticano, Giovanna Panza non riuscì a frenare la propria indignazione. Scrisse al Papa per
spiegargli che c'è più intensità religiosa in un monocormo di Rothko che in una qualsiasi delle opere accumulate
nell'appartamento Borgia; offrì l'opera di suo marito per formare una vera raccolta corrispondente alla religiosità
del nostro secolo, degna di stare nel palazzo affrescato da Raffaello e dall'Angelico. Giuseppe Panza non la fermò,
e anzi sono sicuro che avrebbe considerato un simile compito il più alto della sua vita.
Occorrerà ancora molto entusiasmo per far avvicinare alla raccolta un pubblico del tutto impreparato e nello stesso
tempo sollecitarne una reazione convinta e non una superficiale risposta alla moda. Come nel convento di San
Marco a Firenze, si preferirebbero le scritte SILENTIUM a spiegazioni petulanti.
Come è noto, una parte della raccolta è emigrata a Los Angeles. Purtroppo si tratta di quella (Rosenquist,
Rauschenberg, Lichtenstein...) che per il suo carattere prevalentemente figurativo avrebbe meglio introdotto il
pubblico alla più esigente sezione ambientale e concettuale. Il modo in cui l'Italia perse la collezione, che il
Museum of Contemporary Art di Los Angeles comperò nel 1984 per 11 milioni di di dollari, è un bell'esempio di
una legislazione sbagliata e nello stesso tempo rigidissima, anche se ora in parte sorpassata. Ne parleremo un'altra
volta.
E' infatti già molto che questa parte della collezione sia salva e affidata a chi la saprà mantenere e far visitare. Vi
sono però altri "pezzi" importanti che non hanno casa. Si tratta di diverse centinaia di progetti di artisti ambientali e
concettuali che Panza ha comperato e che attendono di essere realizzati. Per collocare queste opere si sono fatti
molti tentativi. Quando chi scrive era soprintendente per i Beni Artistici e Storici di Milano, Giuseppe Panza aveva
promesso di donare 100 opere allo Stato perchè fossero sistemate nel Castello di Vigevano. Immaginavamo, allora,
negli anni ‘80, che cosa sarebbero stati i lavori con tubi fluorescenti di Dan Flavin e Bruce Nauman nella lunga via
sotterranea, o la monumentalità delle piccole sculture in ferro di Joel Shapiro sui pavimenti di pietra del Castello.
Purtroppo il collega soprintendente per i beni ambientali e architettonici bocciò la proposta senza alcun esame, con
la semplice affermazione:"Ci starebbero da cani!".
La consegna al FAI della villa di Biumo è forse il più grande avvenimento nel collezionismo pubblico di arte
contemporanea degli ultimi decenni, accanto alla Fondazione Burri. Il FAI, per merito anche dei più giovani nel
suo staff, specie di Marco Magnifico, si apre all'arte contemporanea e compie un enorme salto di qualità, poichè
d'ora in poi sarà conosciuto in tutto il mondo come il custode di una collezione che gode d'un prestigio
internazionale.
Possiamo anticipare che, a questo punto, il possesso e la conservazione non basteranno. Saranno indispensabili
programmi di collaborazione con le università e con gli altri musei, mentre il peso della raccolta non potrà non
sbilanciare gli equilibri di quieto vivere delle nostre soprintendenze.
All'inaugurazione sarà presente, secondo gli annunci, il ministro Veltroni. Il ministro sarà così testimone di un
grande evento per l'arte contemporanea per il quale il suo ministero non ha nessun merito, che anzi ha in proposito
qualche rimorso. Vedrà anche come l'Italia si sia sganciata dal centralismo dell'età di Bottai, che pur ancora
chiudeva l'orizzonte di un critico illuminato come Giulio Carlo Argan e che è rimasto nel patrimonio genetico
ministeriale. Avrà così modo di riflettere sulla necessità di trasformazioni profonde e ormai irrinunciabili per un
paese moderno.
Fumetti
a cura di Comix
a) un broswer WWW in grado di supportare Java (ad esempio Netscape 2.0 per Windows 95)
b) un po’ di pazienza...
Gli altri dovranno evitare quasi tutti i link ma può darsi che questa "interdizione" spieghi ancora meglio dei link il
senso di ciò che sto per dire...
A confronto dei servizi di chat, news, mailing lists sviluppatisi a partire dagli anni ’70 nell’ambito delle comunità
accademiche o comunque a partire da aree di interesse estremamente "segmentate" (si pensi alle conferences di The
Well), il WWW degli anni ’90 presenta caratteristiche profondamente differenti. In particolare, il grado di
"interattività" (cioè di relazionalità tra gli utenti, secondo un’accezione ristretta del termine) della pagina WWW è
profondamente limitato.
Come ha suggerito Emilio Pucci, anziché sviluppare lo sviluppo e l’integrazione di gruppi delimitati di utenza, il
WWW (a partire dal 1993, anno in cui vengono diffusi i primi browser grafici per il web) ha generato un’offerta
"generalista" di contenuti, sul modello della televisione pubblica e commerciale italiana (sto pensando a siti come
Yahoo che vi offrono accesso a informazioni di ogni genere, dalla a alla z).
In qualche modo, ciò costituisce un "tradimento" della struttura originaria della comunicazione su Internet ma può
darsi che si tratti di un cambiamento di rotta solo passeggero e prodotto dalla recente espansione demografica della
rete.
Con l’avvento di Java (vi rimando a un dizionario on line per una definzione tecnica) avverrà probabilmente un
ritorno all’idea dei gruppi delimitati (ma non necessariamente chiusi) di utenza. Vediamo come.
Nel mondo dei giochi, questa trasformazione prodotta da Java sul WWW è già pienamente visibile. Il sito
scacchistico realizzato da Francesco Bosia (uno studente di Milano) ne è un esempio brillante. Il sito di Bosia
permette a scacchisti di tutto il mondo di giocare a scacchi tra loro (posso giocare anche più partite in simultanea),
di osservare le partie giocate da altri, di memorizzare le partite fatte, di chiachierare in tempo reale con il mio
partner di gioco, di partecipare a un forum di discussione. E tutto ciò a partire da una singola pagina del web
"attorno" alla quale ruota una piccola comunità di utenti.
Passando ad ambito del tutto diverso, la rivista Wired ha introdotto una beta release di un sistema di chatting che
sostituisce il vecchio accesso via telnet. La cosa rende decisamente più dinamica e interessante la partecipazione ai
forum della rivista e soprattutto non richiede software aggiuntivo rispetto al browser WWW.
Centinaia di altri esempi di applicazioni Java sono reperibili al sito di Gamelan che monitorizza tutti gli sviluppi
delle applicazioni Java per il WWW.
In sintesi : abbiamo avuto sino agli inizi degli anni ’90 una Internet tematica e organizzata in "comunità
virtuali" (Rheingold) di utenti che utilizzavano applicazioni di rete in grado di delimitare le aree di interesse dei
partecipanti alla comunicazione. Lo sviluppo commerciale di Internet e l’avvento del WWW hanno modificato
questa struttura e hanno stimolato un’offerta più generalista e meno "interattiva" di contenuti. A questo punto si
aprono due strade : o siamo di fronte ad un nuovo "loop storico" (di quelli descritti da Umberto Eco in una recente
Bustina di Minerva) o strumenti come Java ci permetteranno di "recuperare" il vecchio modello di Internet con
strumenti e potenzialità nuove.
2 / 6 luglio 1996
Hanno collaborato:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Furio Colombo, Giovanna Grignaffini, Altan, Stefano Bartezzaghi, Sandro Parenzo,
Renato Mannheimer, Marco Giusti, Vittorio Gregotti, Rossana Di Fazio, Carlo Bertelli, Giulio Blasi, Nanni
Balestrini, Giorgio Casadio, Giuseppe Turani, Pierluigi Cerri, Paolo Palazzi, COMIX.
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Moreno Naldi, Stefano Mazza, Annalisa Galardi,
Massimo Amato e Francesca Poppi
Software:
"Uno spettro s’aggira per l’Europa", si è potuto dire più o meno un secolo e mezzo fa di qualcosa di molto serio,
nel bene e nel male. Oggi, quel che pare si aggiri per l’Europa non è certo un’immaginee sanguinoso spettro; al
confronto ci fa la figura di Casper, il fantasmino dei cartoons. Altre cose sono state definite delle tigri di carta:
questo non è nemmeno un gattino. E, se è una pantera come quella del mito, lascia una scia profumata molto
superiore alla sua stazza. Ma allora, vale davvero la pena di parlarne?
Si tratta della cosiddetta "cultura di destra". Se n’è discusso e se ne sta discutendo fin troppo anche perchè il
discuterne faceva (fa) comodo a molti: se non altro per agitare l’altro fantasma, quello della "cultura di sinistra" (a
onor del vero un po’ più consistente, per quanto equivoco anch’esso); o per spargere qualche allarme utile
all’organizzazione del consenso. Col risultato, magari, di riscoperte e di rivalutazioni sacrosante; ma anche col
pericolo di finir per trattare quasi come fossero altrettanti Ermeti Trismegisti dei carneadi che, quanto a dignità
intellettuale, potrebbero invidiare il mago Otelma.
Proviamo a far un po’ di chiarezza in più sul problema (se è tale) cominciando con l’azzerare alcune consuetudini
ormai diventate poco più che fraseologiche. Che cosa vuol dire, in fondo, "cultura di sinistra", un’espressione che
ancor oggi ha quasi il sapore dell’esorcismo da una parte, della formula tautologica dall’altra? Negli anni ruggenti
da Vittorini a Moravia, la cultura era - nel comune parlare di chi si definiva "intellettuale" - tutt’uno con la sinistra:
o era di sinistra, o non era cultura. Il dibattito socioantropologico sul "concetto di cultura" e poi, nella seconda metà
degli anni Settanta, le polemiche sorte attorno alla "Nouvelle Droite" francese e ad alcune sue periferiche italiche
hanno spostato i termini della questione. In Italia soprattutto, alla luce del "riflusso" seguito agli Anni di Piombo,
qualcosa si è mosso e qualcos’altro è stato sdoganato. Nell’Accademia come in certi ambienti della cultura
militante è cominciata a circolar la voce che il matrimonio tra cultura e sinistra non era più né insolubile, né
monogamico. Si riscopriva frattanto nel pensiero europeo una linea Hobbes - De Maistre parallela (e alternativa?)
rispetto a quella Rousseau - Marx, mentre soprattutto, da inquieti ambienti d’una sinistra "mutante", giungevano
segnali di rilettura e di rivistazione di Nietzsche, di De Unamuno, di Céline, di Schmitt, di Jünger.
D’accordo. Sono caduti molti cattivi tabù: e chi ne ha nostalgia si sbaglia. Erano forse comprensibili, nel clima
dell’indomani della seconda guerra mondiale, più o meno irrevocabili forme di damnatio memoriae nei confronti di
studiosi o di scrittori che avevano in un modo o nell’altro appoggiato i fascismi, o ne avevano subito il fascino, o
erano stati da essi strumentalizzati. Ma ora tutto ciò ha il sapore dell’anticaglia: e d’altronde è improponibile
l’assimilazione tra fascismo e destra e la riduzione di questa a quello. D’altro canto, la compromissione con i
fascismi non recava nessun segno coerente, non aveva radici comuni: essa era nata in una pluralità di percorsi e di
esperienze, sull’onda di provenienze e di contingenze eterogenee e irripetibili.
Anni or sono Furio Jesi provò a definire il campo della cultura di destra: ma fu un’impresa disperata. Anche le
proposte di chi ci ha provato in seguito - da Galli a Cofrancesco, da Bobbio a Galli della Loggia - non paiono
convincenti. La cultura di destra resta una galassia dai contorni indefiniti e sovente contraddittori: anche perchè
almeno dal 1848 esistono molte destre o, se si preferisce, molti modi non solo di esser di destra, ma anche di stare
a destra e di pensare la destra. Il che, intendiamoci, in modo forse più attenuato si può dire della stessa sinistra. Si è
provato a onor del vero a definire destra e sinistra sulla base delle coppie di opposti e della metodologia dell’aut
aut: ma non è che ci si sia proprio riusciti. Prendiamo il tema della libertà: si è detto che è di sinistra la Liberté, di
destra le libertates. Ma a quale delle due sfere si avvicina di più la crociana "religione della libertà"? Oppure,
prendiamo la Nazione: un classico tema forte della sinistra nelle sue connotazioni giacobine che lo
contrapponevano al Trono e all’Altare; e un non meno classico tema forte delle destre nella sua successiva
evoluzione storica.
Proviamo allora a disincantare quello che fino ad oggi è stato un concetto non solo predicabile, ma incontestabile.
Proviamo a sostenere che di per sé la cultura, al pari di quel che si dice faccia il danaro, non oleat. Lo so che tale
ipotesi potrebbe sembrar qualunquistica. Ma proviamoci lo stesso. Supponiamo che sia un nonsense attribuire di
per sé alle diverse forme di cultura una posizione all’interno dell’arco che convenzionalmente distingue le varie
posizioni politiche. Non esiste una "cultura di destra" (e magari nemmeno una "di sinistra"). Esistono studiosi,
scrittori, intellettuali che stanno di qua o di là, sia pur dall’una più spesso che non dall’altra parte. Ma questo
significa solo che esiste un "uso di destra della cultura" (o più usi di destra, irriconducibili gli uni agli altri: Croce
non è Gentile, Borges non è de Maetzu). Significa che esistono differenti politiche culturali. E differenti possibilità
di lettura degli autori. E’ noto che Nietzsche è stato letto "da sinistra": ormai, del resto, il brigantaggio di Elisabeth
Forster è stato smascherato da tempo. Ma Claude Lévi-Strauss ha potuto impunemente proclamarsi "anarchico di
destra"; e, a estrapolare certi confronti tra feudalesimo e capitalismo contenuti nel Das Kapital, si potrebbe
confezionare una crestomazia reazionaria marxiana da far invidia al De Bonald più scatenato, al più incanaglito
nipotino di Charles Maurras. Decontestualizzazioni, appropriazioni indebite, si dirà,. Come se, tra Parnaso ed
Elicona, queste armi non fossero mai state usate.
E allora? Allora, nulla. Si fa per provocare. Mischief, thou art afoot. Intellettuali di sinistra di tutto il mondo,
difendetevi.
A destra o a manca?
Umberto Eco
Alle armi, o mansueti!
Caro Cardini, tu sei forse l'unico rappresentante "colto" della destra italiana (non nel senso di "dotato di
informazione", ma di "capace di criticare anche te stesso") e quindi non menare il can per l'aia. Tu sai benissimo
che cosa vuol dire essere davvero di destra, perché sei uno dei pochi che lo è realmente. Non cercare di nascondere
la tua verità agli altri.
Berlusconi non è di destra (né di sinistra): è uno che vuole fare i propri interessi e quelli della propria azienda. E' un
cow boy che lotta contro i coltivatori, puro western, e con l'ideologia non ha nulla a che fare. Fini non è di destra: è
un politico professionista, capitato da piccolo tra i fascisti perché aveva visto un film piuttosto che un altro; poi ha
capito che a fare il fascista prendeva il cinque per cento e a non farlo poteva aspirare al venti, e ha fatto i suoi conti.
I conservatori classici non sono di destra, sono dei conservatori, e cioè persone che ritengono che salvaguardando
un certo ordine sociale fanno il bene collettivo, anche se questo può avere alcuni costi per le classi meno
immediatamente fortunate. Ci sono conservatori come Nixon che, di fronte alla prova dei fatti, sono andati in Cina
e hanno fatto una politica di apertura che nessuna testa d'uovo liberal (nel senso americano, e dunque di sinistra) si
era mai sognato.
E neppure sono di destra i dandies. Il maggiore esempio di dandysmo è stata la serie di dichiarazioni rilasciata a
Diorama (marzo 1996) da alcune persone provenienti da diverse origini (Tarchi, Acquaviva, Cavalli, Pellicani,
Zolla, Borrega), che dichiaravano perché non si schieravano e non si attendevano nulla da queste elezioni.
All'ingrosso, il sentimento dominante era la pochezza e degli uomini e della posta in gioco: e il vero dandy si
sottrae, per mostrare che i valori sono altri. Certo, un alto dandysmo può parere di destra, perché si basa sul
disprezzo delle persone comuni; ma talora può essere necessario, proprio per illuminare - attraverso la
provocazione dandystica - gli insipienti. Chi era quell'architetto socialista a cui è stato rimproverato di viaggiare in
Bentley e ha risposto: "Perché per me tutti dovrebbero poter avere una Bentley"? Era un dandy, certo, lanciava una
provocazione.
No, la vera destra, quella storicamente radicata, e con un grande e illustre albero genealogico, è un'altra, è il
pensiero reazionario della Tradizione. La sua quintessenza è che, per tante cose che i piccoli uomini di oggi
possano cercar di sapere e scoprire, le verità sono state dette all'origine dei tempi, quando erano carne e sangue dei
popoli; e a esse occorrerà tornare. Poi questa disposizione fondamentale può essere sviluppata da un pasticcione
incolto, come Evola, o da un grande pensatore, come Heidegger. Ma il nucleo è lì. L'odio, che talora ne consegue,
per il mondo moderno o le masse, è un effetto collaterale. Il grande reazionario può anche usare l'aereo e
l'automobile, immondi prodotti della tecnica, e votare (ultima illusione di potere dei poveri), ma sa che non è
questo che conta, la risposta viene da altrove. L'unica cosa che occorre rifiutare è che la verità sia una lenta e umile
accumulazione collettiva (trial and error), dove vale, passo per passo, il consenso della comunità, e gli altri sono lì
perché da essi potremo ricevere forse il dono del dubbio.
Viste queste premesse, è abbastanza comprensibile perché manganellatori, censori, teste rapate e croci uncinate
abbiano trovato roba da rodere e buoni strumenti nel mare magno della Grande Destra - quasi sempre scegliendo gli
effetti collaterali, e le idee più accessibili alla loro mente, e quindi le più rozze. Ma se è solo per questo, è anche
vero che arruffapopoli, scontenti, facinorosi, abbiano trovato roba da rodere a sinistra, e anche lì scegliendo il
peggio.
Però lo sai che la grande lotta tra la destra eterna (orgogliosa, sicura della rivelazione che otterrà interrogando le
profondità della storia e dell'antropologia, dei miti e dei riti) e quella che proprio non chiamerei sinistra, né
orgoglio progressista, ma senso di una verità che si fa giorno per giorno confrontandosi anche con i meno dotati
(non come oggetti d'amore, ma come interlocutori), sta lì. Non c'è armistizio possibile. Perché la vera destra è
necessariamente pagana, e adora dèi spietati, anche se talora finge di prestare orecchio al discorso della montagna.
Alle armi, o mansueti!
A destra o a manca?
Renato Mannheimer
Destra, centro, sinistra
Ma ha ancora senso, oggi, parlare di sinistra, centro e destra per descrivere e collocare gli orientamenti ideologici,
politici, elettorali?
Come si sa, il quesito viene posto ripetutamente e, secondo molti, la risposta è negativa: sinistra, centro, destra
avrebbero perso ogni capacità descrittiva od evocativa di contenuti, e sarebbero addirittura, secondo alcuni, simboli
privi di significato reale.
Ma pare non sia così per la maggior parte dei cittadini. Si può discutere a lungo sulla capacità dei sondaggi di
opinione di rilevare effettivamente gli atteggiamenti e gli orientamenti degli elettori (e magari una volta o l’altra
potremmo farlo su Golem), ma è certo significativo il fatto che, in tutti i questionari su temi politici, il quesito su
cui gli intervistati rispondono più facilmente e in quota maggiore è proprio quello sulla "autocollocazione" sull’asse
sinistra-destra. Come si sa, si tratta di un quesito in cui si chiede, attraverso una raffigurazione grafica, di indicare
la propria posizione politica su di un segmento che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, passando per il
centro. Mediamente si "autocollocano" con facilità l’85-90% degli intervistati, mentre sono assai inferiori, ad
esempio, le quote di chi risponde alla domanda "secca" sulla scelta di partito, sia per reticenza che per sincera
indecisione. Molti, in altre parole, dichiarano di non sapere, sino alla vigilia delle elezioni, per quale partito votare,
ma indicano, con relativa precisione, la loro posizione sul continuum sinistra-destra.
Oltre a costituire, per la gran parte degli elettori, uno degli strumenti più facili per orientarsi nel mare della politica,
la dimensione sinistra-destra appare anche uno dei principali elementi su cui il cittadino medio fonda la scelta di
partito al momento delle votazioni. Una volta, si sa, la scelta elettorale era, per molti, più semplice. Uno si
"sentiva" comunista, democristiano o quant’altro e votava di conseguenza. Oggi con la scomparsa (o il mutamento
radicale) dei partiti tradizionali e il correlato erodersi delle appartenenze, la scelta appare assai più complessa. Chi
non segue molto la politica si trova in difficoltà con tutte queste nuove sigle. Ma, come si è detto, sa bene di essere
di destra, centro-destra, centro-sinistra, sinistra, ecc. e cerca quindi spesso di individuare quelle forze politiche che
più si avvicinano alla propria personale posizione sul continuum sinistra-destra.
Certo, il significato dei termini sinistra e destra è molto mutato nel tempo. "Sinistra" evoca oggi, per molti elettori,
valori, contenuti, ideali assai diversi da quelli che lo stesso termine simboleggiava per i loro padri. E lo stesso vale,
naturalmente, per "destra".
Uno degli elementi che, forse, differenzia maggiormente il significato di sinistra, centro, destra oggi rispetto al
passato è la pluralità dei contenuti possibili. Una politica di "sinistra" può legittimamente significare oggi cose
assai diverse, talvolta addirittura contradditorie tra loro.
In particolare, sia in "sinistra" che in "centro" che in "destra" possono convivere (e, di fatto, convivono) i poli
dell’altra dimensione che caratterizza le scelte politiche ed elettorali dei cittadini italiani: l’antitesi tra "vecchio" e
"nuovo", tra "consenso" e "protesta".
Ma ha ancora senso, oggi, parlare di sinistra, centro e destra per descrivere e collocare gli orientamenti ideologici,
politici, elettorali?
Come si sa, il quesito viene posto ripetutamente e, secondo molti, la risposta è negativa: sinistra, centro, destra
avrebbero perso ogni capacità descrittiva od evocativa di contenuti, e sarebbero addirittura, secondo alcuni, simboli
privi di significato reale.
Ma pare non sia così per la maggior parte dei cittadini. Si può discutere a lungo sulla capacità dei sondaggi di
opinione di rilevare effettivamente gli atteggiamenti e gli orientamenti degli elettori (e magari una volta o l’altra
potremmo farlo su Golem), ma è certo significativo il fatto che, in tutti i questionari su temi politici, il quesito su
cui gli intervistati rispondono più facilmente e in quota maggiore è proprio quello sulla "autocollocazione" sull’asse
sinistra-destra. Come si sa, si tratta di un quesito in cui si chiede, attraverso una raffigurazione grafica, di indicare
la propria posizione politica su di un segmento che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, passando per il
centro. Mediamente si "autocollocano" con facilità l’85-90% degli intervistati, mentre sono assai inferiori, ad
esempio, le quote di chi risponde alla domanda "secca" sulla scelta di partito, sia per reticenza che per sincera
indecisione. Molti, in altre parole, dichiarano di non sapere, sino alla vigilia delle elezioni, per quale partito votare,
ma indicano, con relativa precisione, la loro posizione sul continuum sinistra-destra.
Oltre a costituire, per la gran parte degli elettori, uno degli strumenti più facili per orientarsi nel mare della politica,
la dimensione sinistra-destra appare anche uno dei principali elementi su cui il cittadino medio fonda la scelta di
partito al momento delle votazioni. Una volta, si sa, la scelta elettorale era, per molti, più semplice. Uno si
"sentiva" comunista, democristiano o quant’altro e votava di conseguenza. Oggi con la scomparsa (o il mutamento
radicale) dei partiti tradizionali e il correlato erodersi delle appartenenze, la scelta appare assai più complessa. Chi
non segue molto la politica si trova in difficoltà con tutte queste nuove sigle. Ma, come si è detto, sa bene di essere
di destra, centro-destra, centro-sinistra, sinistra, ecc. e cerca quindi spesso di individuare quelle forze politiche che
più si avvicinano alla propria personale posizione sul continuum sinistra-destra.
Certo, il significato dei termini sinistra e destra è molto mutato nel tempo. "Sinistra" evoca oggi, per molti elettori,
valori, contenuti, ideali assai diversi da quelli che lo stesso termine simboleggiava per i loro padri. E lo stesso vale,
naturalmente, per "destra".
Uno degli elementi che, forse, differenzia maggiormente il significato di sinistra, centro, destra oggi rispetto al
passato è la pluralità dei contenuti possibili. Una politica di "sinistra" può legittimamente significare oggi cose
assai diverse, talvolta addirittura contradditorie tra loro.
In particolare, sia in "sinistra" che in "centro" che in "destra" possono convivere (e, di fatto, convivono) i poli
dell’altra dimensione che caratterizza le scelte politiche ed elettorali dei cittadini italiani: l’antitesi tra "vecchio" e
"nuovo", tra "consenso" e "protesta".
A destra o a manca?
Gianni Riotta
Il futuro di Babbo Natale
La cosa piu' deprimente nel battage Destra-Sinistra in Italia e' la trasformazione del passato in idolo e l'indifferenza
per il futuro. Sono accadute buone cose negli ultimi anni, la diversa comprensione del fascismo (De Felice), lo
studio della destra conservatrice come sconfitta dal fascismo insieme alla sinistra (Foa), la considerazione della
Resistenza come divisione di guerra civile e la difficolta' conseguente dell'Italia di essere paese con valori condivisi
(Pavone e Galli della Loggia).
Senza questi studi, probabilmente, la trasformazione delle forze classiche di destra e sinistra, Pci e Msi, in Pds e
An, non si sarebbe determinata e la rispettiva maturazione "democratica" tarderebbe a compiersi.
Quel che e' pero' piu' importante, e che viene del tutto trascurato nella discussione, e' come "nuova destra" e "nuova
sinistra", l'una vincitrice delle elezioni '94, l'altra delle elezioni '96, possano affrontare il futuro. Da questo
passaggio dipende il nostro futuro, eppure non se ne parla.
Nelle democrazie occidentali, almeno dagli anni Venti, la vittoria e' costantemente andata a chi era in grado di
costruire coalizioni elettorali interclassiste. Il presidente Roosevelt aggancia operai, contadini, ceti urbani e
immigrati per il suo New Deal. I laburisti inglesi battono Churchill quanto uniscono la piccola e media borghesia,
stanca di guerra, ai sindacati. In Germania Adenauer cementa cristiani, anticomunisti, lavoratori e imprese: i
socialisti della Spd andranno al potere solo quando riusciranno a loro volta a duplicare questa coalizione, partendo
dalla base operaia.
In Italia e' la Dc ad avere dentro di se', chiavi in mano, la coalizione sociale. Le basta agganciarsi ai partiti di
coalizione, il Psi soprattutto dal centrosinistra in poi, per governare.
La ragione per cui questo schema non e' piu' riproducibile e' il mutamento sociale. La societa' dei servizi, che
produce informazione, non merci, crea un effetto clessidra. In alto chi ha il sapere, chi ce l'ha fatta. In basso chi
resta ai margini e decade.
Oggi Edward Luttwak, ex consigliere del presidente repubblicano Ronald Reagan, si dice convinto che presto negli
Stati Uniti tornera' il fascismo.
Letteralmente.
Finora era solo il linguista di sinistra Noam Chomsky a sostenere tesi analoghe. Se il reaganiano Luttwak lo imita e'
perche' gli fa paura la societa' divisa in due: che senso ha, si chiede, che io guadagni abbastanza per comprarmi una
Mercedes, se poi la parcheggio e me la ruba subito uno dei milioni di disoccupati?
Il profitto e' importante, dice il superfalco Luttwak, ma non serve se non creo, attraverso una redistribuzione del
reddito, le condizioni per godermelo.
Lo chiama dunque "turbocapitalismo", una societa' divisa in due, Alto-Basso. Difficile, impossibile, creare
"coalizioni". Vince chi pesca abbastanza elettori in Alto e Basso, per raggiungere il 51%. Piu' le due semisfere della
clessidra si allontanano, piu' sara' difficile.
La vera dialettica nel "turbocapitalismo" sfugge alla definizione classica di Destra e Sinistra, per passare (e' un
concetto su cui lavorano sia l'economista Mario Deaglio che il sociologo Arnaldo Bagnasco) alla dialettica
"inclusione-esclusione". Nel futuro la battaglia (io non credo affatto al fascismo incipiente di Luttwak, pur
bravissimo coniatore di slogan) sara' tra le forze politiche convinte che la via d'uscita sia l'inclusione di soggetti
nella maggioranza, il consenso per trovare soluzione nel micidiale mercato unico, e forze politiche che insistono
nell'esclusione, cercando la vittoria a danno degli avversari.
Come si deduce da questa favoletta:
il 25 di Dicembre, Babbo Natale sale su un autobus, dove viaggiano venti passeggeri. Dopo gli auguri Babbo
Natale dice "Ora io passero' tra voi il mio cappello rosso. Metteteci dentro diecimila lire a testa, se vi va, altrimenti
niente. Nessuno degli altri sapra' se mettete o no la banconota. Poi, per miracolo, io moltiplichero' il raccolto per
dieci e lo distribuiro' tra voi tutti. E, siccome e' Natale, avra' la sua parte anche chi non ha contribuito.
Pronti?"
Se ognuno mette diecimila lire il raccolto sara' duecentomila lire, moltiplicato da Babbo Natale a due milioni, con
guadagno per tutti. Messe diecimila lire, infatti, ogni passeggero incassa centomila lire. Guadagno novantamila.
Ma, ragiona un passeggero parsimonioso anche a Natale, se io non metto le diecimila lire, ne incassero' comunque
95.000: un migliore affare.
Giustissimo: ma se tutti i passeggeri ragioneranno come lui, Babbo Natale non avra' nulla da moltiplicare e
dividere. Capita la morale? Ognuno di noi dovra' fare una scelta analoga presto. Questo e' il futuro
A destra o a manca?
La telefonata di Renzo Arbore
Non vi è dubbio che i problemi che riguardano le trasparenze degli appalti pubblici rappresentino una questione
importante, specie nella prospettiva di un ampliamento dell’intervento pubblico, e tutti riteniamo che è con questo
obiettivo che Lei è stato invitato a partecipare dal Governo quale Ministro dei Lavori Pubblici.
Tuttavia vorrei segnalare alla sua attenzione due questioni che mi sembrano altrettanto importanti: anzi, dal mio
punto di vista di architetto, assai più importanti. La moralità pubblica è solo la condizione necessaria a tali obiettivi.
L’architettura è un bene assai durevole ed i suoi effetti, positivi o negativi, sull’ambiente e sulle sue qualità,
tecniche ma soprattutto morfologiche, sono la testimonianza più importante che un gruppo sociale lascia al futuro.
Quindi il primo dei due obiettivi di cui voglio parlarle è quello della qualità dei manufatti che le istituzioni
pubbliche devono finalmente promuovere, qualità che deve anche servire di esempio e di indirizzo per i manufatti
privati: un compito a cui in questi quarant’anni il governo italiano è stato assai poco sensibile, specie se paragonato
a nazioni europee come la Francia e la Germania.
La questione della qualità architettonica dei manufatti non è un problema di gusti personali ma di confronto critico
con lo stato della cultura: di essa si può, quindi (anzi si deve), razionalmente discutere dotandosi degli strumenti
culturali adeguati per farlo.
Il problema della qualità architettonica è quindi anche un problema di istruzione generale come di preparazione
disciplinare specifica. E su queste due questioni molte sono le cose che il suo ministero può fare. Esiste in Italia,
come tutti sanno, una grande tradizione nel campo dell’architettura ma questo naturalmente non basta, anche se tale
tradizione ha costruito nei secoli un patrimonio che costituisce una grande ricchezza ed insieme un grande
problema, non solo per conservarlo ma soprattutto per utilizzarlo come elemento di forza delle nostre città e del
nostro territorio. Costruire qualitativamente (non solo sul piano tecnico, ciò che è naturalmente indispensabile)
significa dare nuova vita anche a quella tradizione. E ciò apre alla seconda questione, o meglio al secondo obiettivo.
Come è ormai da più di un secolo patrimonio comune, le questioni della qualità architettonica non si limitano certo
agli edifici, né solo ad alcune categorie di edifici. Essa è un problema globale che investe l’insieme dell’ambiente
fisico. "Tutto ciò che è visibile - diceva una grande personalità della storia dell’architettura più di un secolo fa -
appartiene al dominio dell’architettura" (e questo certo non significa solo alla categoria professionale degli
architetti). Rendere qualitativo tale ambiente significa sciogliere un enorme groviglio di contraddizioni sempre nel
nome della qualità: conservare, trasformare, migliorare funzionalmente l’ambiente fisico in nome della qualità è
quindi uno degli obiettivi principali del suo ministero.
Questo significa che strade, ponti, viadotti, ferrovie, fiumi, coste, foreste, insediamenti industriali, case sparse, non
meno delle vie di una città, non meno di una nuova università, sono protagoniste fondamentali del processo di
formazione della qualità ambientale.
Anche il solo progetto di riordino della condizione presente piuttosto disastrosa è già un compito immenso, poiché
tale riordino si compie solo attraverso progetti di mutamento adeguato e necessario capace di migliorare l’esistente
dialogando con esso. E questi sono attributi fondamentali della qualità del progetto architettonico. Naturalmente per
far questo è indispensabile rendere meno lunghi e tortuosi i cammini burocratici, renderli aperti, sicuri e trasparenti:
è necessario avere fiducia nei nuovi processi di programmazione urbana e territoriale, è necessario aprire più
concorsi pubblici aperti )in modo specifico ed adeguato rispetto alla complessità delle questioni) alle giovani
generazioni è necessario richiedere elaborati progettuali più moderni ed articolati, avere obiettivi certi sia sul piano
finanziario che su quello dei tempi, promuovere un rapporto tra progetto ed esecuzione che garantisca il primo
rispetto alle deformazioni del secondo ma anche che garantisca quest’ultimo con la completezza del primo; e molte
altre questioni potrebbero essere enumerate.
Tuttavia non bisogna dimenticare che questi sono solo strumenti, indispensabili ma strumenti e che l’obiettivo della
qualità architettonica e la discussione su che cosa essa debba essere come fatto e come processo è ciò per cui anche
il suo operato sarà giudicato.
Mario Deaglio
Lo specchio vuoto
A metà degli anni Ottanta, Ferruzzi, De Benedetti, Pirelli acquistavano imprese estere a piene mani e le grandi
riviste internazionali li mettevano in copertina, esaltando le virtù del "modello italiano" di impresa. Poi Ferruzzi
entrò in crisi, a De Benedetti fu impedito di acquistare il colosso belga SGB, Pirelli dovette cedere la sua
partecipazione nella tedesca Continental. E il "business" italiano - un aspetto importante dell’identità nazionale in
un sistema di mercato - ha subito un grave indebolimento generale.Le difficoltà di Ferruzzi si riflessero su
Montedison, costretta nel 1994 a vendere l’Erbamont a un gruppo svedese, il che decretò l’uscita dell’Italia dai
vertici dell’industria farmaceutica. Il settore materie plastiche, fiore all’occhiello della stessa Montedison è ora
italiano solo al 50% per cento; l’Enichem è stata ceduta a un gruppo tedesco. E per continuare con qualche esempio
tra i tanti, gli aperitivi sono passati pressochè tutti sotto controllo estero, come gli alberghi della CIGA e l’olio
Bertolli.
Pur dotata dei migliori cibi, vini e ingredienti alimentari, l’Italia non riesce a mettere insieme un’industria
alimentare di levatura mondiale e addirittura smantella quella che ha; pur disponendo di uno dei maggiori patrimoni
artistici e naturali del pianeta, è quasi assente dal turismo organizzato.
L’assenza italiana è evidente nell’informazione-spettacolo, dove Mediaset rimane largamente periferica rispetto
alla spettacolare riorganizzazione di questo settore in Europa, una riorganizzazione cruciale per l’assetto della
cultura di domani, ma non è certo l’unico caso.
Giova citare un piccolo, ma significativo episodio. La grande casa editrice olandese Elsevier, nota in tutto il mondo
per le sue edizioni tecnico-giuridiche, ha comprato il 60 per cento della Giuffré, piccola e prestigiosa casa editrice
milanese dello stesso settore: gli olandesi hanno una lingua più difficile e meno diffusa dell’italiano, eppure si son
scavati una solida nicchia nell’editoria mondiale, come del resto i tedeschi, altro popolo dalla lingua difficile.
Gli italiani non sono stati capaci di fare altrettanto. Sono troppo occupati ad autocontemplarsi, troppo convinti di
essere l’ombelico del mondo; i mezzi di informazione si ripiegano sul pettegolezzo politico per accorgersi di essere
ormai all’estrema periferia del mondo avanzato. Con le banche che non mettono più il naso fuori dai confini, i
laureati che proseguono gli studi all’estero, le contrattazioni di titoli italiani che passano sempre più frequentemente
da Parigi o Londra anzichè da Milano, l’Alitalia che appassisce nei cieli del mondo, è il concetto stesso di
"italianità", dal punto di vista economico, che viene messo in discussione.
A questo si aggiunge l’indebolimento culturale di un Paese che recepisce modelli dall’esterno ma è sempre meno
capace di far apprezzare all’estero idee, libri, opere d’arte e ricerca scientifica. Ormai, solo il design e il calcio
italiani hanno un corso veramente mondiale. E per quanto riguarda il calcio, la Nazionale attira sempre meno: ai
mondiali del ‘90 i tifosi al San Paolo la fischiarono nella partita contro l’Argentina, perchè lì giocava Diego
Armando Maradona.
Come si può vedere, il fenomeno Bossi si inquadra in una tendenza alla perdita di identità che ha radici lontane e
manifestazioni multiformi: se la Padania dovesse veramente prender corpo, quest’aridità culturale, che si traduce in
debolezza economica, ne costituirebbe la premessa appropriata
Gli italiani
Giorgio Casadio
Pedalare (W Maenza)
La sera dell’11 luglio 1982 l’unità d’Italia parve finalmente compiuta. Nelle fontane delle mille piazze italiane gli
italiani si bagnavano per festeggiare gli azzurri di Bearzot, freschissimi campioni del mondo di calcio, dopo il 3 a 1
alla Germania. Le strade di Castelfranco Veneto si mutarono in contenitori di folla festante non diversamente da
quanto accadeva a Lentini. In quella estate, sulla gran parte delle auto circolanti in Italia, e a maggior ragione, in
quelle che si aggiravano fuori dai confini, fece la sua comparsa, accanto alla targa, il tricolore. Vuoi sotto forma di
scudetto, vuoi sotto forma di bandierina, ma sempre tricolore. Se non ricordo male, perfino una nota marca di
brandy italiano, che fino alla vigilia della finalissima del Santiago Bernabeu aveva basato le sue fortune su una
campagna pubblicitaria rigidamente in inglese, avviò una repentina conversione al tricolore.
E ci fu chi, infastidito da quelli che considerava eccessi, si chiamò fuori dal coro, mettendo in guardia contro il
risorgere di rigurgiti nazionalisti. Forse che, nel ventennio, il regime fascista non aveva fatto proprie le vittorie
degli azzurri di Pozzo? Peccato che, nel giro di pochi giorni, le torme di nazionalisti se ne andarono in vacanza,
appagati del successo calcistico, ma già pronti a interessarsi d’altro. Con il fresco settembrino, il popolo del calcio
tornò a dividersi, ognuno per sè e Dio pure. Dimenticato l’azzurro tornarono di moda i colori dei club. E nella loro
accanita, insuperabile faziosità calcistica, gli italiani si ritrovarono uniti più che mai da quel mastice inattaccabile
che si chiama "Campionato". Quel grande Palio tra le contrade d’Italia vive di rivalità e antagonismi inconciliabili
che possono sfociare, come accade sempre più spesso, nella violenza; eppure, come accade in piccolo (mi
perdonino i senesi) nella città toscana, nulla è più unificante di quel crogiuolo di particolarismi esasperati.
Poche cose possono essere noiose in tv, come un gran premio di automobilismo. Soprattutto da alcuni anni, da
quando, per motivi misteriosi che sfuggono a noi profani, nessun pilota cerca più di sorpassare gli avversari.
Eppure, se la macchina rossa con il cavallino si avvicina alle posizioni di testa, l’auditel segnala un’impennata negli
ascolti. Ma la Ferrari, si può obiettare, conta migliaia di spasimanti anche fuori dei confini della penisola. Vero, è
facile trovare un tedesco o un francese, o chi vi pare, che tifa per le "rosse". Ma vi è mai capitato di incontrare un
italiano (sardo, romagnolo, piemontese, ecc. ecc.) che impazzisca per la Maclaren e per la Williams? Ovvio, no. Un
giorno di molti anni fa l’ingegner Ferrari (perchè non è mai diventato senatore a vita?) confidò che in certi momenti
di difficoltà stava per cedere alla tentazione di mollare tutto, solo l’entusiasmo che vedeva nel nostro paese attorno
alle sue auto gli impedì di compiere un simile sacrilegio.
Manca poco, quattro anni, poi il miracolo potrebbe ripetersi. Alle Olimpiadi del 2000 occhi puntati su una corsia
dei 200 metri piani. Ci sarà questa volta un ragazzo con la maglia azzurra? La stessa che indossarono a vent’anni
l’un dall’altro, Livio Berruti, elegante longilineo piemontese, e Pietro Mennea, piccolo grande uomo di Puglia.
Quelle due volate sono stampate nella memoria, la smorfia sul volto in quella curva interminabile, le braccia alzate
al cielo, il cuore in gola davanti al teleschermo. Si possono dividere, frammentare, ricordi del genere?
Per anni su un cartellone pubblicitario, sull’autostrada che porta dall’aeroporto di Fiumicino a Roma, è stata
visibile una scritta, ogni giorno più sfumata: "W Maenza e gli italiani della lotta". Maenza è uno scricciolo
romagnolo che è stato capace di vincere l’oro in due olimpiadi, in una disciplina cara a Garp ma ignota ai più.
Eppure, una mano ignota, dopo il secondo successo, passò una mano di vernice fresca su quella scritta. Solo i lavori
per i mondiali del ‘90 fecero sparire quel cartellone. Ma, forse non è un caso, quella era Italia di Tangentopoli.
In una recente intervista, l’ottantenne Gino Bartali ha confermato che nei giorni dell’attentato a Togliatti il
presidente del consiglio Alcide De Gasperi gli chiese di vincere al Tour. Doveva farlo, Gino, per salvare il suo
Paese dalla guerra civile. Gino vinse, e anche Togliatti, politico fine, apprezzò l’impresa e gli fece arrivare il suo
grazie. Ma quelli che oggi vogliono dividere l’Italia, hanno pensato a come la prenderebbe il vecchio campione?
Mah, se vogliono l’indipendenza vadano a guadagnarsela sul Vars o sull’Izoard...
Gli italiani
Alessandro Baricco
Le Pagine Gialle
Dice: dovresti scrivere qualcosa sui libri che uniscono gli italiani. Nel senso? I libri che uniscono gli italiani: che li
distinguono dal resto del mondo, e che ne fanno un Paese. Ah. Le Pagine Gialle, penso. Ma so che non è
precisamente quello che vogliono. Per quanto. Va be’, proviamo.
Le pagine Gialle. La novità è che adesso le farà anche Mondadori. Scatta la concorrenza pubblico-privato. Quasi
automaticamente scatterà un’escalation di imbecillità spettacolare. Tempo qualche anno e invece del tuo nome di
idraulico puro e semplice ti offriranno, per lo stesso prezzo, la possibilità di pubblicare una tua foto a colori con la
famiglia, un giudizio sul tuo lavoro firmato da Bevilacqua e un tuo pensiero virgolettato tipo "sereno nella
sconfitta, gradasso nella vittoria, stupefatto nel pareggio".
Ipromessisposidialessandromanzoni. Inflitto a tutti gli scolarizzati per una ragione sensata: era un modo di imparare
tutti la stessa lingua e diventare cosi nazione, e dunque italiani. Come gadget, regalava anche una certa fiducia nella
provvidenza indubbiamente utile per l’Italietta prima fascista e poi democristiana. Assolto il compito - assunto più
allegramente dalla televisione - è nondimeno rimasto al proprio posto, come un portiere fermo in porta dopo che da
ore si è già perso il pallone. Quando la si smetterà di considerarlo un totem si potrà tornare a leggere le sue pagine
più belle - anche strepitose, a volte - lasciare perdere il resto e studiare, se proprio si vuole capire cos’è il romanzo,
i francesi.
Tutto Pirandello. Nel vuoto più o meno reale della letteratura italiana a cavallo tra otto e novecento, una zattera di
salvataggio. Che sia teatro è un particolare trascurabile. Ma per noi italiani Pirandello è quello che ci ha permesso
di essere presenti nella collettiva acrobazia in cui si è esibita l’intelligenza europea nell’inaugurare quel nuovo
secolo che fra poco sarà vecchio. E poi: dal sedicenne coi problemi al settantenne definitivamente stanco, ce ne’è
per tutti: un indice del dolore, completo e formidabile.
Le Garzantine. Tutto il mondo per poche lire in cambio solo di qualche diottria. Enciclopedia compact: adesso è
banale, ma se pensi a quando l’hanno inventata è genio puro. L’unico libro che, in casa degli italiani, puoi trovare
indifferentemente a) in cucina, b) al cesso, c) insieme ai soldatini, d) tra i Tex. Comunque, lo si sarà notato, mai
nella libreria.
Cristo si è fermato a Eboli, i Malavoglia, Il barone, rampante, L’infinito di Leopardi, Paolo e Francesca (episodio
di una sitcom dantesca intitolata La Divina Commedia), Se questo è un uomo, SabaMontaleUngaretti. Dotazione
ufficiale dell’italiano scolarizzato. Con tutto il rispetto, ci vuole un ottimismo bestiale per credere che basti a
reggere l’onda d’urto della cultura di questo tempo e di questo mondo. Ma comunque, restano le armi ufficiali
dell’italica guerra contro l’ignoranza. Auguri.
TuttoGadda. Non importa se a conoscerlo è una minoranza di italiani. L’importante è che è degli italiani e solo
loro. Nessun traduttore e nessuna lingua saranno mai in grado di rubarcelo. Quella è roba per noi. E per sempre.
I libretti d’opera. La nostra letteratura Pulp: i librettini fatti di niente che svolazzano tra le cose lasciate dal nonno.
Roba vecchia, ma intanto com’è che ce l’hanno quasi tutti, in giro per casa? Lì sopra, tra l’altro, ci sono, messe in
rima, le radici della Nazione Italia: i libri erano noiosi, si è preferito custodire tutto in quei baracconi di spettacolo e
emozione. Decisione saggia: si sono ottenuti due risultati: convincere Angelo Guglielmi che gli italiani non sanno
scrivere romanzi, mettere in musica gli archivi dell’anima della nazione, rendendoli, cosi, indimenticabili.
Resterebbero gli album delle figurine Panini, Calvino, Buzzati, la Fallaci, i Bignami, Il nome della rosa, un po’ di
Moravia, i libri di storia di Montanelli, Frate Indovino, l’Atlante geografico De Agostini, le encicliche papali, la
Tamaro, De Crescenzo, Hermann Hesse, il Gabbiano Jonathan Livingstone, CarducciPascoliD’Annunzio... Fine
dello spazio, però. Un’altra volta, magari.
Gli italiani
Pierluigi Cerri
Che cosa divide i californiani
I primi segni di Los Angeles sono l’enormità del territorio e il groviglio autostradale. Una civiltà autocentrica che
fluidifica veicoli metallici in rivoli rettilenei o tortuosi con esasperante lentezza. Se avessero voce le parole guida
del codice stradale ridotte a sigle di consonanti imperative reciterebbero un poemetto beat. I primi segni di Los
Angeles, prima di capire dove sia Los Angeles, cosa sia la prediletta di Cedric Price, sono segni di inquietudine.
Los Angeles, luogo di nodi urbani e del laissez-faire, prima di lasciarsi scoprire ci mostra i segni del degrado
visivo, della contaminazione, del dissesto, dell’insopportabile opulenza, della drammatizzazione del nulla,
dell’occultamento del sublime nella pattumiera del banale. Niente pedoni, niente città visibile ma accentuazioni e
discontinuità: frammenti di figure virtuali proiettate dallo specchietto retrovisore del veicolo in corsa che si negano
a vicenda fluendo incessantemente così come schegge televisive.
Accentuazione e discontinuità: siamo attori di un charter iperrealista dentro la geometria infantile di una Reklam
Architektur, non più distratti da Similcase rosa + turchese, Palme, Oceano, Topolino, Strip, Valletti, Sushi Bar +
Limousine + Shopping Center, Microonde, Cinesi, Coreani, Nippo-messicani, Cupole, Lavaggi + Sale video,
Megainsegne, Grafica Suisse-California, Doppi Tubi di Scappamento, Frullati di Papaya, bizzarrie e stile
vernacolare-pittoresco eccetera. Tutto ciò è ormai nella coscienza dell’occhio di tutti (conosciamo Los Angeles,
Miami, New York e Singapore per assuefazione multimediale). Ora percepiamo un nuovo sistema di segni dove
invisibili ma impenetrabili confini delimitano i privilegi urbani e le porte dell’inferno. Del kitsch opulento e degli
estenuanti graffiti, conosciamo tutto da abbondante letteratura. Quando finalmente le tracce di un impianto urbano
simulano la città nei più minuti elementi costruttivi, ecco che, invece, siamo in un centro commerciale dove si
disvela la commedia dei pedoni che intrecciano la danza dello shopping. I costumi delle comparse, eccessivi e
segnaletici, il loro articolare frasi di conveniente stupore, l’artificialità del servizio in pompa magna, il nitore degli
sfondi scenografici sono l’identity design del luogo e del comportamento. Gli estranei al rito non sono pregati. Non
v’è traccia di homeless questuanti. Tutto è scritto sul manuale dell’immagine coordinata. I nuovi segni di Los
Angeles sono nell’aria, invisibili e provocano, nel viaggiatore curioso, un esaltante sentimento di disagio.
(Abitare - n. 329 - maggio 1994)
Maurizio Costanzo
Contemplare lo shaker
E’ difficile stabilire se la comunicazione televisiva in questi anni ha subito una evoluzione o una involuzione. E’
come la questione del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno: dipende dal convincimentodi chi lo osserva.
Certamente la comunicazione televisiva è cambiata contestualmente alla individuazione di uno specifico che via via
ha allontanato la televisione da altri generi costruendone uno proprio. Il flusso è ormai continuo ed è difficile
immaginare all’interno di questa comunicazione paletti, steccati o distinguo. E’ ancora una volta il telespettatore il
dominus che riesce, se riesce, a selezionare un proprio palinsesto. In realtà tutto è diventato comunicazione e molto
anche informazione pur se questa talvolta prospera tra le pieghe di programmi d’altro genere. Dal momento però
che i generi si sono contaminati l’un l’altro, è difficile garantirsi che le news siano soltanto news e il varietà
soltanto varietà. Chi studia comunicazione televisiva non può che analizzare l’insieme, cercando di individuare
all’interno del flusso alcune linee direttrici, alcune matrici che richiamano ad antiche denominazioni. La
comunicazione pubblicitaria in tutto questo è stata prima motivo di frammentazione e poi, almeno in alcuni casi, è
diventata tessuto connettivo. E’ sicuramente allarmante l’onda di piena del flusso continuo ma è altresì velleitario
pensare di interromperlo. Sarebbe già un successo riuscire ad analizzarlo fino in fondo per imparare a proteggerci,
data l’impossibilità di fermarla.
Aldo Grasso
Lo spettro della tv
Il libro più avvincente per capire quale rapporto intercorra oggi fra la cultura e la Tv lo ha scritto Maurizio Bettini,
che non è propriamente un esperto di televisione (un bel vantaggio), anzi insegna Filologia classica all'Università di
Siena e scrive come solo sapevano scrivere i grandi eruditi.
La via scelta da Bettini ne «I classici nell'età dell'indiscrezione» (Einaudi) è paradossale fin dal titolo: finge di
parlarci di classici, di autori dai lombi opimi, di cultura alta e invece, con sublime discrezione, ci impartisce una
gustosa lezione sul funzionamento degli archivi, dei computer, dei giornali, in particolare della Tv.
La quale Tv, come molti altri media, si regge su quattro fondamenti: i principi dell'occasione, della prosopopea,
dello sfizio e della casualità.
Principio dell'occasione. Il genere più praticato nei palinsesti televisivi è il talk show. Costa poco e si possono
tessere tante storie con la chiacchiera. Ma il talk show è anche il paradigma più felice di un bisogno antico e
insieme modernissimo, il consumo informativo: «Trasformare il mondo in tema di discorso, costituisce
un'operazione tanto facile quanto inesauribile. Basta creare l'"occasione" per parlare di una qualsiasi cosa, e il gioco
è fatt, l'informazione è suscitata». I grandi maestri del talk show non si preoccupano dunque di confezionare menu
di argomenti («oggi parliamo di ...») quanto piuttosto di vagliare i casi umani che incarnano iltema («c'è un bel
malato terminale disposto a venire in trasmissione e quindi parliamo di ...»). Per discorsivizzare la storia lo
strumento più idoneo è il calendario; sfogliandolo, si creano infinite possibilità di eventi e di anniversari.
Principio della prosopopea. Se chiedete a una persona di buone letture quale sia il programma culturale preferito
vi risponderà subito Piero Angela. Ma Angela non è un programma, è una persona. Il fatto è che noi abbiamo
bisogno di «personificare», di dare un volto alle miriadi di informazioni che scorrono sullo schermo. Non ci
interessano la musica, la fisica, i neutroni, le cellule, l'ideologia, la filologia; siamo soltanto attratti dal volto che
interpreta quell'idea o quel commento. Prosopopea, appunto, che è una celebre figura retorica, un artificio del
discorso che consente di dare audio e video a esseri inanimati. «La Tv funziona come un'unica, inesauribile
prosopopea. Nella cultura di tipo televisivo i fatti e le idee sono importanti, certamente, ma più ancora lo sono i
loro protagonisti». C'è il sospetto che anche buona parte dell'editoria funzioni così, ma c'è l'assoluta certezza che
biblioteche, archivi, repertoriuniversali si stiano trasformando in ville arzille dell'opinione e in centri di raccolta per
figuranti del pensiero televisivo.
Principio dello sfizio. Solo quando un tema culturale raggiunge il grado di «sfiziosità», riesce a varcare la soglia
del palcoscenico; altrimenti è giusto che dorma il sonno eterno dell'anonimato. Dopo aver scandagliato l'etimo
incerto di sfizio («provare dei battiti»), Bettini sancisce la norma metodologica: «Nel lessico televisivo, lo "sfizio"
si chiama "battuta". Parola fra le più ricorrenti in Tv, usata preferibilmente nel sintagma "ci dica in una battuta" e
capace di trasformare in sfizio, ovviamente da cavare, anche gli argomenti più dannatamente aggrovigliati di questo
mondo. L'anchorman di turno verisimilmente non lo sa, ma nel preciso istante in cui pronuncia questa espressione
("Professor Maritain, in una battuta, ci può dimostrare l'esistenza di Dio?") si comporta come una signora incinta
che sente desiderio di fois gras al buffet della stazione». Ecco, sapevamo come funzionassero le interviste televisive
ma non eravamo capaci di definirle: sfiziose.
Principio dell casualità. Tali sono gli argomenti importanti che incombono, tanti i personaggi pronti a
interpretarli, che duriamo fatica a stabilire quali siano più interessanti e quali meno: «Il grande archivio è talmente
grande che inocula la paralisi nei suoi propri fruitori. Siamo tutti alla ricerca di ciò che può essre definito un "buon
motivo" per scegliere una cosa al posto di un'altra». Per fortuna è stato inventato il telecomando, che è come una
retina per le farfalle. Leggiadramente libriamo lo strumento nell'aria in attesa di catturare preziosi esemplari.
Tuttavia la metafora butterfly dura poco perché i media conoscono un solo modo per frenare la frenesia del
telecomando: il pugno in faccia, il colpo allo stomaco. Solo ciò che ci colpisce attira la nostra attenzione: una volta
si scopre che Don Giovanni è omosessuale, un'altra che Omero è donna, un'altra ancora che Stefano Zecchi sa
scrivere un libro. Sono tutte invenzioni, supposizioni, ardite congetture eppure senza questi colpi proibiti il
telecomando continuerebbe a mulinare nell'etere.
Indiscrezione rima con televisione. Viviamo dunque in un epoca in cui la riservatezza non è più una virtù,
costituisce anzi un ostacolo alla messa in discorso del mondo, al gossip continuo. Persino i classici, i libri dei libri,
sono diventati in modo insospettabile ciarlieri, presenzialisti, brillanti. Chissà che non abbia ragione Bettini quando
indica in Sisifo il modello comportamentale di ogni moderna attività mediatica: più ti informi e più il sasso del
sapere, giunto alla sommità, rotola giù. Rotola, rotola, strada facendo rotola ...
Dieci anagrammi in linea
a cura di Stefano Bartezzaghi
Ognuna delle seguenti strofette, il cui valore poetico è letteralmente inqualificabile, contiene una sequenza cifrata
di sei lettere (in un caso le sequenze sono due). Sono anagrammi: le sei lettere sono sempre le stesse, diversamente
distribuite e spaziate. Sono anche dieci variazioni sul tema che è enunciato nell’ultima quartina.
Le due sequenze della quartina 2 sono state rese entrambe tronche (in due sensi diversi della parola "tronco"), una
per motivi di anagramma e l’altra per motivi di rima.
La sequenza cifrata nella quartina 5 non è in italiano, e la si ricava solo introducendo di straforo un particolare
segno diacritico.
La sequenza cifrata nella quartina 10 fino a qualche anno fa non era in italiano: oggi è da considerarsi cosmopolita,
come del resto il fenomeno a cui si riferisce (e il canale che, hic et nunc, gli sta consentendo di riferirsi ad esso).
Soluzioni
1. Linneo
2. leonin / o Lenin
3. è l'Inno
4. il neon
5. el Niño
6. l'Ennio
7. lenoni
8. non è lì
9. Lei non
10. on line
Disposizioni transitorie
Giovanna Grignaffini
Sarà per quelle disposizioni transitorie che - come ci informano i commessi - consentono ad ogni deputato di
scegliere liberamente il proprio posto nell'emiciclo: "I posti definitivi saranno assegnati in seguito".
Sarà per quel riflesso condizionato che porta ciascuno di noi a ritornare nel luogo in cui è già stato.
Sarà per il loro indomito attaccamento all'idea di essere ancora maggioranza del Paese. Oppure per la nostra
vocazione ad esserne per sempre la minoranza più combattiva.
Il fatto è che il giorno dell'elezione del suo Presidente, nello spazio simbolico della Camera dei Deputati, si realizza
il primo vistoso rovesciamento del risultato elettorale.
Loro infatti, malgrado la sconfitta e il conseguente ridimensionamento, continuano ad occupare quasi i 2/3
dell'intero emiciclo. Noi, i 324 della nuova maggioranza, ci stringiamo nell'esiguo spicchio d'Aula tradizionalmente
assegnato all'opposizione.
Loro sono disposti a macchia: piccoli gruppi che si tengono a distanza, molti posti liberi e intere file deserte.
Noi rinserriamo compatti le fila: gomito contro gomito, almeno due per sedile, nessun vuoto tra noi, neppure lungo
le scale.
Ma non c'è tensione nell'aria. I piccoli gruppi non sono d'assalto: solo un po' attoniti e dispersi. La folla compatta
non sbanda e preme. Anzi, trasmette all'intera assemblea la propria interna compostezza insieme al senso di un
ordine finalmente ritrovato.
Domina, su tutto, il colore grigio-verde dell'ulivo. Senza inquietudini e sfumature.
Chissà se riusciremo a rovesciare quel sentimento comune che assegna a ciascuno di noi la propria storia come
destino.
Chissà se, rotto questo primo vincolo, noi riusciremo a muoverci con libertà e loro a ritrovare le ragioni dell'unione.
O ci disperderemo, tutti, come foglie al vento.
Per il momento il verde pallido e composto dell'ulivo smorza ogni nota dissonante di colore, ma le disposizioni
permangono transitorie.
L'esercito delle 12 scimmie
a cura di Rossana di Fazio
Questione di botteghino, di strategie di mercato in grado di mettere insieme un regista vivace (Terry Gilliam), un
cast di successo (Bruce Willis, Brad Pitt), un racconto avventuroso che parla di un futuro non lontanissimo e
fatalmente condizionato dall'oggi. Dell' Esercito delle 12 scimmie parlano e parleranno in molti.
Da Ritorno al futuro di Zemeckis (1984) a Pulp Fiction di Quentin Tarantino il cinema interroga con ostinazione il
Tempo. Nell' Esercito delle 12 scimmie il futuro è solo un pretesto per parlare del Tempo: non quello che riguarda
l'intreccio del racconto cinematografico, cioè la sua organizzazione, come nel caso di Pulp Fiction, ma il Tempo
come argomento. La vera macchina del tempo non è il trabiccolo di cellophane a sensori nel quale James Cole
(Bruce Willis) viene infilato, ma James stesso, ed è importante che ciascun viaggio, immateriale e improvviso, lo
porti a destinazione sempre ammaccato e infreddolito, con il sangue alla bocca, gettato nel Tempo con un corpo che
si fa male. E' un livello fisico che compensa la disinvoltura con cui si racconta uno spostamento così fantastico e
che traduce sul corpo e sulla testa rasata (ormai attributo tradizionale del prigioniero, molto adatta a esprimere un
grado zero dell'essere umano) lo shock psicologico di una esperienza insostenibile e innaturale.
Questo suo essere scaraventato avanti e indietro esprime efficacemente lo stato d’animo di un soggetto che fatica a
coincidere con l’imbuto cronologico della biografia individuale e una dimensione mentale del Tempo ampia e
discontinua, non lineare, che appartiene alla sensibilità contemporanea e che si sperimenta anche (forse da sempre)
nel sogno.
Forse per esprimere questa sensibilità si ricorre nel film ripetutamente alla figura onirica. Cole dubita della realtà di
quel che gli accade; ha poi un sogno ricorrente che coincide con un ricordo e insieme anticipa l'evento finale; in
modo non banale l'epilogo del film ammette che quella rimozione della morte era necessaria, rispettando una delle
regole del sogno.
Questo ricorso alla dimensione onirica ha una sua espressione formale. Nel primo tempo del film il punto di vista
della macchina da presa non rispetta mai una prospettiva centrale e fa ruotare gli assi orizzontali e verticali
ricercando uno straniamento spaziale molto accentuato, spesso alle spalle di primi piani su James; così, in assenza
di spazi intermedi fra il primo piano e l'orizzonte, lo spazio tridimensionale si schiaccia sullo schermo e genera
visioni bidimensionali, rese mutevoli e dinamiche dal ritmo incalzante del montaggio che associa prospettive
sull'azione molto diversificate, ma sempre eccentriche. Il punto di vista sull'azione torna regolare solo quando nello
schermo ci sono i tutori dell'ordine e quei personaggi che agiscono in una realtà normale, in una dimensione spazio
temporale uniforme.
La specialità dell'esperienza di James Cole si esprime dunque attraverso un'alterazione dell'immagine
cinematografica, come accade, generalmente, quando il racconto deve segnalare attraverso varie soluzioni (flou, b/
n, dissolvenze, etc) la differenza fra situazioni spazio temporali che spostano avanti (prefigurazione), indietro
(ricordo) o altrove (sogno) il qui e ora del racconto.
Tutte queste faccende sono state ripetutamente oggetto di racconto e di soluzioni interessanti, così come Gilliam e
David e Janet Peoples (già sceneggiatori di Blade Runner,1982 ) volentieri mescolano situazioni tipiche di molti
generi cinematografici secondo una poetica della contaminazione che conta anche diversi anni.
Niente di troppo nuovo, insomma, se è al nuovo che aspiriamo, se non fosse che quel racconto di andirivieni dal
passato sta perfettamente in piedi, che il finale si giustifica completamente, senza alcuna concezione al paradosso
gratuito, come raramente accade.
Il fatto è che il film è proprio bello quando diventa tanto simile al sogno: quando fa incontrare anche sul piano dello
Spazio oggetti ed esseri che appartengono a universi non attigui; è bello quando mostra in un grande magazzino
abbandonato come una rovina, una vetrina piena di scarpe da donna interessanti e straniate come reperti
archeologici; è bello quando fa percorrere lo spazio della metropoli dagli animali della savana, arcaici, pericolosi,
liberi, enormi; quando sulla cima dei palazzi si aggirano i leoni e vagano gli orsi.
Gilliam introduce queste visioni all'inizio del film, in una città monocolore e contaminata, e queste belve sembrano
gli ultimi esseri viventi di un cimitero. Ripropone questa visione degli animali in città nel secondo tempo del film, e
ne dà una spiegazione narrativa. La liberazione di elefanti, giraffe, aironi è così spettacolare, gratuita, secondo una
prospettiva rigidamente narrativa, e straordinaria come visione da svolgere essa stessa per lo spettatore una
funzione onirica.
Quelle dodici scimmie innocenti della catastrofe (che in un certo senso non giustificherebbero il titolo del film)
hanno rotto le gabbie, forzato le barriere ripetutamente ostentate nel film, liberato gli animali reali contro tutti gli
animali dei cartoons, o quelli fotografati, resi oggetto di pubblicità quando non torturati, sparsi da Gilliam in tutti
gli ambienti del film.
Si genera così una visione che suscita stupore e meraviglia, poiché associa universi difficilmente conciliabili e
rimette in circolazione quegli animali, arcaici, straniati e fortemente simbolici nella vita degli spettatori.
Nella scena che si svolge al cinema si parla, mi pare, di questa funzione del cinema: i due protagonisti scelgono il
buio di una sala cinematografica per travestirsi, mentre sullo schermo scorrono le immagini di Vertigo (La donna
che visse due volte, 1958) di Alfred Hitchcock. E' una scena del primo tempo del film, quella che precede la finta
morte di Madelaine (Kim Novak), il cui travestimento inganna in questa fase tanto James Stewart quanto lo
spettatore.
Questo travestimento parallelo è, aldiqua e aldilà dello schermo, necessario, tanto per Madelaine, ormai vittima del
proprio travestimento, quanto per i protagonisti del film, che si mascherano per sfuggire all'inseguimento, ma
assumono le identità del sogno fatale.
Quello stesso credere e travestirsi è però necessario anche allo spettatore che conosce le regole della fiction e della
messa in scena, ma desidera assumere anche identità altrui e chiede al cinema di essere nutrito di visioni e figure
che entrino a far parte di sé, che siano in grado per qualche strada di risvegliare e ripopolare il suo proprio zoo di
immagini sempre presenti, l'immaginario, appunto.
Beni culturali
Carlo Bertelli
"Per la prima volta dopo 50 anni, ha detto Citto Maselli all’incontro dell’ANAC con il ministro Walter Veltroni,
l’Italia ha un governo che corrisponde alle aspettative della maggioranza di noi", penso riferendosi al mondo del
cinema. Certo il giovane ministro Veltroni ha, nel campo dei cosiddetti beni culturali, una responsabilità che nessun
predecessore ha avuto. Ma anche grandi vantaggi. Primo, il ministero è sempre stato una pausa in una carriera
tumultuosa, oppure un’occasione di promozione. E’ stato sempre un luogo d’immagine. Ricordate i voli in
elicottero del fondatore Giovanni Spadolini? Le eliche resistettero al peso e lo portarono vicino alla presidenza
della repubblica. Dunque, per prima cosa, Veltroni non ha bisogno di autopromozioni. Anzi il suo posto di vice-
presidente del consiglio gli dà la possibilità di impostare la politica dei beni culturali (che è cosa diversa dalla
sola"cultura") come parte integrante di un progetto politico.
I suoi predecessori sono stati assillati dalla brevità del mandato. Se tutto andrà bene, Veltroni starà alla testa del
dicastero cinque anni. Chi l’ha preceduto ha dovuto rispondere all’urgenza. Talvolta trovando anche il tempo per
lanciare il sasso al dilà della siepe. Come fece Vincenzo Scotti con l’importante legge 512, che però da allora
aspetta il regolamento, superati gli ostacoli che frappone il ministero delle Finanze.
Anche il ministro Veltroni sarà incalzato, in questi mesi, dalle molte urgenze. Credo che riuscirà ad affrontarle
meglio se al più presto traccerà un indirizzo e darà segnali di un disegno più ampio. Immaginiamo, per esempio,
che dichiari che mai il suo ufficio si arrenderà alle proposte di condono come sanatoria alle violazioni delle leggi
urbanistiche e alla distruzione del nostro paesaggio.
I beni culturali sono una stratificazione che si è formata assai prima dell’unificazione politica del territorio e hanno
forte l’impronta della loro lunga gestazione. Qui il problema della regionalizzazione e del coordinamento delle
forze attive sul territorio s’impone. Sarebbe un vero guaio se fosse letto in senso burocratico, con passaggi di
deleghe e non con la formazione, innazi tutto degli strumenti locali qualificati e democratici, in breve della
impostazione alle regioni di formare i consigli dei beni culturali, elettivi e rappresentativi, sul modello del consiglio
nazionale.
Forse nessuno ha detto al ministro che vi sono in tutta Italia solo due scuole di restauro dello Stato e che un giovane
di Bergamo che voglia studiare in un istituto privato di Firenze paga nove milioni l’anno di retta. Solo di retta.
Modificare le storture cui ha portato l’accentramento operato dai ministri De Vecchi e Bottai sarà un compito
doveroso anche se arduo. Reso certo più pesante dalle recenti rivalutazioni di un passato che resta anche sotto
questi aspetti da criticare.
Fumetti
a cura di Comix
Hanno collaborato:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Mario Deaglio, Giovanna Grignaffini, Vittorio Gregotti, Maurizio Costanzo, Rossana
Di Fazio, Giorgio Casadio, Aldo Grasso, Pierluigi Cerri, Renato Mannheimer, Alessandro Baricco, Renzo Arbore,
Stefano Bartezzaghi, Altan, Carlo Bertelli, COMIX.
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Margherita Marcheselli, Moreno Naldi, Massimo Amato e Francesca Poppi
Software: