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Golem attuale nel "Presente".
Presentazione
Furio Colombo
Vivere senza regole
Roberto Maragliano
Videogiochi per analfabeti
Sylvie Coyaud
La scienza senza regole nè regoli
Aldo Grasso
Per un servizio pubblico perfetto
Paolo Palazzi
Economia, scienza divina
Carlo Boccadoro
Bach e la viabilità
Gianni Granata
Aristotele veleggia su Internet
Giuseppe Pontiggia
Decalogo della società letteraria
Giochi politici
Stefano Bartezzaghi
Dal dado di Giulio Cesare al flipper di Fabio Mussi
Campus di tensioni
Domenico Fiormonte
L'Università, serva del paradosso
Sala giochi
Umberto Eco
Esercizi tipografici
Soluzioni dell'Autogolem n. 15
In miniera
Guarda la fotografia:
Lo sguardo remoto del Prof. Di Bella
Marco Belpoliti
Liam Email
Se la gatta va al lardo
Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Walter Fontana
Battute fuori tempo
Cinzia Leone
Il diamante dell'Haganah
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Perdono
Ugo Volli
Identità a confronto
Riccardo Di Segni
Sul perdono
Giampaolo Urso
Il concetto di purificazione nella polemica anticristiana
La nuova scuola
Franco Cardini
Su una commedia degli equivoci
Paolo Palazzi
Se 35 ore vi sembran poche
Claudia Winkler
Il Nuovo Rinascimento
Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Francesco Siliato
Un medium saturo
Sala giochi
Forum: Giochiamo!
Rubriche
Arte:
Luca Beltrami e Milano
Carlo Bertelli
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Donne di potere o del potere
Roberta Ribali
Musica:
Spirito e Materia
Roberto Caselli
Science-links:
Il mago Leonardo, i conigli e i sospetti infondati
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Barriere
Furio Colombo
Secessione
Valentina Pisanty
La negazione della Shoah
Massimo Ghirelli
Immigrati e malattie: epidemia di pregiudizi
David Meghnagi
Pluralità e diversità
Ugo Pirro
La "finzione" della Rai
Aldo Grasso
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Umberto Eco
Come salvare capra e tavoli
Forum: Giochiamo!
Rubriche
Arte:
Protagonismi
Carlo Bertelli
Links:
E' possibile una biblioteca multimediale? (3)
Giulio Blasi
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Paure collettive
Roberta Ribali
Film:
Dall'idea al film (Tano da morire)
Rossana Di Fazio
Musica:
Strano come gira il mondo
Roberto Caselli
Science-links:
Che tempo fa?
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Ugo Volli
Giustizia
Fabrizio Tenna
Caro Palazzi
Paolo Palazzi
Replica
Paolo Palazzi
Finanziamento pubblico della scuola privata
Ugo Pirro
Dopo Hitchcock
Beppe Severgnini
I rinonauti
Links d'estate
Redazione
Rubriche
Arte:
L'Asso portante di Milano
Carlo Bertelli
Parlamento:
Dialogo tra un deputato e un collegio
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Andare dallo Psicoterapeuta
Roberta Ribali
Film:
Postazioni (Trees Lounge)
Rossana Di Fazio
Musica:
Omaggi
Roberto Caselli
Science-links:
Statistica
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Sala giochi
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Furio Colombo
Messaggi
Ugo Volli
Giusti Poteri
Carlo Donolo
Deformare le istituzioni
Beppe Severgnini
Un caso clinico-storico-comico-mistico-magico
Premessa
Carlo De Benedetti
Questioni di budget
Antonio Martino
Ancora sull'occupazione
Paolo Palazzi
Welfare, domanda sociale e spesa sociale
Giornali e giornalisti
Maurizio Chierici
Decalogo
Piero De Chiara
Una rivoluzione senza contenuti
Dino Lorimer
Webgrafia ragionata
Ruggero Pierantoni
Passione e morte della terza dimensione
La nuova scuola
Domenico Parisi
Quali sono i veri problemi della scuola?
Peppino Ortoleva
Educazione e formazione continua nell'età digitale
Franco Recanatesi
Che giorno è?
Rubriche
Arte:
I tesori del monte Athos
Carlo Bertelli
Links:
E' possibile una biblioteca multimediale? (2)
Giulio Blasi
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Media e tabù
Roberta Ribali
Film:
Perversioni femminili e non
Rossana Di Fazio
Musica:
Operazione nostalgia
Roberto Caselli
Science-links:
L'evoluzione
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Sala giochi
Colophon
Indici di Golem
Presentazione
Sylvie Coyaud
Farsi capire
Renato Giannetti
Promemoria con divagazioni
Giancarlo Scarpari
In nota a Ruggiano
Forum: Scienze, libertà, società
Globalizzazione e disoccupazione
Paolo Palazzi
La politica
Aldo Grasso
Immortalità della televisione
Renato Mannheimer
Sondati
David Meghnagi
Distinguere
Italia 1938
Le leggi razziali
Università
Domenico Fiormonte
Italiano in campus
Rubriche
Arte:
Les Immortels
Carlo Bertelli
Links:
E’ possibile una Biblioteca Multimediale?
Giulio Blasi
Parlamento:
Per forza e per amore
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Sessualità dopo i 40
Roberta Ribali
Film:
Nuvole in viaggio
Rossana Di Fazio
Musica:
Jimi
Roberto Caselli
Science-links:
La complessità
Sylvie Coyaud
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Sala giochi
Marco Sabatini
G.i.o.c.h.i.
Forum: Giochiamo in rete
Forum: Acrostici
Colophon
Presentazione
Giornali e giornalisti
Umberto Eco
Non scrivete sui giornali: nessuno se ne accorge
Antonio Calabrò
Il "mestiere" del giornalista
Oliviero La Stella
Catena di montaggio
Anna Masera
La battuta pronta
Proposte di legge
Globalizzazione e disoccupazione
Paolo Palazzi
L'utopia
Antonio Martino
Ruspe, pale, cucchiaini
Università
Giovanni Bachelet
No, questa legge no!
Maurizio Bettini
I misteri di Eleusi
Aldo Schiavone
Le buone intenzioni
Ugo Pirro
Il tempo segmentato
Carlo Bertelli
Golem d'aprile
Ranieri Polese
L'Oscar, Sanremo e la democrazia
Rubriche
Arte:
Olfatto e conoscenza
Carlo Bertelli
Links:
Thesauri ad hoc...
Giulio Blasi
Parlamento:
Il nome della cosa
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Psiche:
Biotechfobia
Roberta Ribali
Film:
Una storia troppo semplice
Rossana Di Fazio
Musica:
Appendi lo scettro al chiodo
Roberto Caselli
Fumetti:
Il diamante dell'Haganah
di Cinzia Leone
Appuntamenti
Sala giochi
Presentazione
Umberto Eco
L'Opus Dei smentisce che io sia l'Anticristo!
La proposta Berlinguer
Franco Cardini
Alcuni ingenerosi e tendenziosi rilievi
Domenico Starnone
E il piacere?
Collettivo del Liceo Tasso, Roma
Contraddizioni e ambiguità
Giulio Blasi
Links: 1000 miliardi per le scuole.....
Enzo Restagno
La musica all’ombra dell’Ulivo
Carlo Bertelli
Via col vento
Aldo Grasso
Considerazioni di un impolitico sulla Rai
Furio Colombo
Rappresentare i giovani
Ranieri Polese
Ricordo di Sanremo
Danco Singer
Opinioni
Le risposte
Sala giochi
Rubriche
Parlamento:
Doppio Sogno
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Musica:
Tempo e denaro
Roberto Caselli
Film:
Premesse?
Rossana Di Fazio
Fumetti
a cura di Comix
Forum: Pollicino
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Renato Ruggiero
"Paese miope..."
(Corriere della Sera 29/12/96)
Paolo Fulci
Prospettive
Piero Sansonetti
"Il giornalismo italiano è provinciale"
(intervista a cura di Mario Calabresi)
Lucio Caracciolo
Europa: un futuro che non c'è
Antonio Martino
Che succede in Europa?
Mario Deaglio
L’Europa necessaria
Alberto Flores
Il piccolo mondo dei media italiani
Beppe Servegnini
Il "sistema operativo" del mondo
Rocco Cotroneo
Tecnoglobali, ma non tutti uguali
Stefano Cingolani
Livelli di realtà
Aldo Grasso
Il sogno sognato di una televisione europea
Ranieri Polese
Rendersi invisibili: il cinema italiano in Francia
Furio Colombo
Globalizzazione?
Intervista a
Francesco Chirichigno, Silvio Scaglia, Ernesto Pascale
Gianni Granata
La rete replica
Carlo De Benedetti
Radici
Giancarlo Bosetti
Goldhagen: gli Attori della Storia.
Rubriche
Arte:
Chimere: cronache sul mito del Museo Autonomo
Carlo Bertelli
Parlamento:
Domani accadrà
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Musica:
Per Luigi Tenco
Roberto Caselli
Film:
Paragoni
Rossana Di Fazio
Fumetti
a cura di Comix
Links:
Locale e globale su Internet
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Quale '97?
Umberto Eco
Gioco di famiglie (per tutti)
Forum: Giochiamo in rete
Giulio Sapelli
Alto e Basso capitalismo
Edward Luttwak
La Sindrome della Banca Centrale
Aldo Grasso
Sciopero: volontà o rappresentazione?
Renato Mannheimer
Simboli e opinione pubblica
Furio Colombo
Riflessioni sul Forum
Rubriche
Arte:
Verdi, moderni o contemporanei
Carlo Bertelli
Parlamento:
Miseria e nobiltà
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Musica:
L’affare Beatles
Roberto Caselli
Film:
Libere associazioni
Rossana di Fazio
Fumetti
a cura di Comix
Links:
Un Capodanno digitale
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Furio Colombo
Le Tribù giovani
Paolo Palazzi
Fame e Democrazia
Vittorio Gregotti
Lettera al Ministro per i Beni Culturali
Ranieri Polese
Le riscoperte di Liberal
Gianni Granata
Chi legge Golem (come e quando)
Aldo Grasso
Riflessioni per un libro. Anzi due, o forse tre.
Maurizio Costanzo
Ad Aldo Grasso
Aldo Grasso
Replica
Riccardo Bocca
Commento (05/12/96)
Rubriche
Arte:
Sacre uova
Carlo Bertelli
Parlamento:
Dieci incredibili giorni
Giovanna Grignaffini
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Musica:
L'anima del commercio
Roberto Caselli
Film:
Riflessi di un romanzo: Ritratto di signora
Rossana di Fazio
Turismo:
Sorprese dal Golfo
Silvana Rizzi
Fumetti
di Comix
Links:
Oltre il web
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Renato Mannheimer
Principi ricostituenti
Mario Deaglio
Capitalismo italiano: crisi di sistema
Forum: Capitalismo Impossibile
Giuseppe Turani
Tangentopoli 2: la vendetta
Blob Gradara
di Marco Giusti
Raffaele Simone
Sei Sapienze
Ranieri Polese
Bell'Europa
Aldo Grasso
No comment
Adriano Sansa
Genova, la realtà irrilevante
Giochi:
Rime esagerate
Umberto Eco
Parlamento:
Come le foglie
Giovanna Grignaffini
Film:
Un matriarcato piccolo piccolo
Rossana Di Fazio
Arte:
Per Antonio Cederna
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix
Links:
Atenei nella rete
Giulio Blasi
Musica:
Il prezzo, il valore, il diritto
Roberto Caselli
Fuori porta:
Ritorno al Frutteto
Caterina Zaina
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Il giornale sincero
Danco Singer
Il dibattito continua
Il punto sul dibattito e tre nuovi interventi per Golem
di Vittorio Feltri, Ferdinando Adornato e Enzo Biagi.
Umberto Eco
Caro Sisifo
Furio Colombo
Fuga dalla rilevanza
Renato Mannheimer
Sondati
Estate
Ranieri Polese
Istruite Istruzioni
Aldo Grasso
A ciascuno il suo mezzo
Danco Singer
Progetto
Rubriche
Giochi:
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Parlamento:
Un tranquillo venerdì di paura
Giovanna Grignaffini
Film:
L’aria addosso
Rossana Di Fazio
Arte:
Fermo-immagine
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix
Links:
Internet e gli altri
Giulio Blasi
Musica:
Carillon Stars
Roberto Caselli
Colophon
Presentazione
Il giornale sincero
Gianni Riotta
Sisifo on-line
Senza lavoro
Nano Blob
di Marco Giusti Antonio Martino
Perchè disoccupati?
Aldo Grasso
Sacchi è un capro?
Giorgio Casadio
La rovina dei romagnoli
Le poesie
di Alda Merini
Vittorio Gregotti
Comunicare o proporre
Aldo Schiavone
Ancora sui concorsi
Ranieri Polese
Cine-estate
Duello
Carlo Bertelli
Musei a tre forchette?
Adriano Agnati
Perché no?
Oylem Goylem
di Moni Ovadia Rubriche
Giochi:
Addio my darling
Stefano Bartezzaghi
Parlamento:
Deputati e no
Giovanna Grignaffini
Film:
Sorrisi e crucci
Rossana Di Fazio
Arte:
Strade interrotte, strade aperte
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix
Links:
Informazione (personalizzata) sul WWW
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
Cattedra, o cara!
Raffaele Simone
Ricercatori e posto fisso
Umberto Eco
Posto fisso e ricercatori
I due Bossi
Furio Colombo
Caro Bossi ti scrivo
Renato Mannheimer
Le ragioni di Bossi
Nano Blob
di Marco Giusti
Aldo Grasso
Il silenzio di Pippo
Sandro Parenzo
Le affinità elettorali
Paolo Palazzi
I Tartassati
Vittorio Gregotti
Pull-it-down
Rubriche
La Poesia
Giochi:
di Nanni Balestrini
Autogolem
Stefano Bartezzaghi
Parlamento:
E se lo scambio fosse in sè delizioso?
Giovanna Grignaffini
Film:
Distanze ravvicinate
Rossana Di Fazio
Arte:
Buone notizie
Carlo Bertelli
Fumetti
di Comix
Links:
Il WWW generalista e tematico (con Java...)
Giulio Blasi
Appuntamenti
Colophon
Presentazione
A destra o a manca?
Franco Cardini
Il profumo della pantera
Umberto Eco
Alle armi, o mansueti!
Renato Mannheimer
Destra, centro, sinistra
Gianni Riotta
Il futuro di Babbo Natale
La lettera
Vittorio Gregotti
La telefonata
Caro Di Pietro ti scrivo
di Renzo Arbore
Gli italiani
Mario Deaglio
Lo specchio vuoto
Giorgio Casadio
Pedalare (W Maenza)
Alessandro Baricco
Le Pagine Gialle
Pierluigi Cerri
Cosa divide i californiani
La televisione
Maurizio Costanzo
Contemplare lo shaker
Aldo Grasso
Lo spettro della tv
Rubriche
Giochi:
Dieci anagrammi in linea
Stefano Bartezzaghi
Parlamento:
Disposizioni transitorie
Giovanna Grignaffini
Film:
L'esercito delle 12 scimmie
Rossana di Fazio
Arte:
Beni culturali
Carlo Bertelli
Fumetti
A cura di Comix
Colophon
Da questo numero al direttore responsabile Danco Singer si affianca in qualità di direttore editoriale Stefano
Bartezzaghi.
Vivere senza regole
Furio Colombo C’è chi reclama, nelle città italiane, il diritto di vivere senza regole. Si
considerano "ribelli", avanguardia, negazione. Dicono che non si vendono,
che sono estranei al sistema, che non accettano alcuna regola, che il mondo
è sbirro. "La sveglia è il tuo sbirro, la fabbrica è il tuo sbirro". Dicono
"Nessuna schiavitù". Dicono "Faccio quello che voglio, quando voglio, dove
voglio. Decido io".
Si sentono eroici perché sono temuti, appaiono cattivi, spaccano, rompono,
urlano, minacciano, vandalizzano.
Nelle città italiane forse si sentono minoranze assediate dagli "sbirri". Ma
nel secolo sono una enorme maggioranza. Come i soldati giapponesi rimasti
armati, nascosti, pronti a colpire nell’isola perché non si erano accorti che la
guerra era finita, vogliono continuare a fare ciò che si è sempre fatto da
parte di maggioranze violente, per decenni e decenni.
Sono conformisti che ripetono gesti già fatti con lo slancio di chi è persuaso
di fare cose nuove, e di stupire per la straordinaria diversità. Non si sono
accorti che in questo secolo la diversità è stata solo dei non-violenti. Dei
laboriosi, di coloro che fanno cose per altri. Di coloro che danno invece di
esigere, che amano invece di odiare, che tollerano invece di aggredire. Che
cercano di sapere e capire invece di urlare, che rispettano la dignità
dell’altra persona, il lavoro degli altri, le cose che appartengono a tutti.
Coloro che non mitizzano la propria unicità, volontà e diritto di ognuno.
Infatti
Secondo assioma
- E sulla stampa normale, Wennerås e Wold sono state citate più o meno di
Dolly?
- Molto, molto di meno.
La tesi è fragile. E' più istruttivo, allora, interrogarsi sul perché Costanzo
abbia più volte sentito il bisogno di invocare il servizio pubblico,
espressione che fino a ieri era sinonimo di noia e di pedagogismo. Non
rottura del palinsesto ma più crudamente "rottura di palle".
La Rai - è la loro tesi - deve vivere con il solo canone e lasciare alle TV
commerciali la pubblicità. Se invece gode ancora di introiti pubblicitari lasci
alle TV commerciali una porzione del tributo o la possibilità di stringere
rapporti di convenzione con alcuni ministeri o, ancora, l'opportunità di
produrre programmi per le singole regioni, fuori dal tetto pubblicitario.
6. Servizi pubblici deviati: settori della Rai che deviano dal compito
istituzionale e si rendono responsabili o complici di attività destabilizzanti
nei confronti dell'azienda.
8. Vai a fare quel servizio pubblico: invito con cui un direttore del Tg
permette a un redattore l'esplicazione dei bisogni corporali.
Quale miglior modo per gli economisti di avvicinarsi a Dio che quello di
individuare, spiegare, interpretare, diffondere "leggi economiche" naturali,
immutabili ed incontrollabili? Quindi sogno e pratica di molti economisti è
quella di presentare leggi, comportamenti, relazioni oggettive e naturali
attraverso le quali studiare e interpretare i fenomeni economici.
Il grosso problema per gli economisti è però, da sempre, che ciò che si
aspetta da loro è una spiegazione di quello che avviene nella realtà
economica, e anche la proposta di eventuali strumenti per modificare e
migliorare una realtà considerata non soddisfacente o non giusta.
La scienza economica, come tutte le scienze sociali, si interessa delle
relazioni tra gli uomini, e gli uomini, si sa, sono un po’ imprevedibili e
litigiosi, hanno comportamenti che non rientrano nei comodi schemi di
razionalità ipotizzati dagli economisti: in realtà spesso va per proprio conto
non rispettando la teoria economica. Insomma la realtà non rispetta le leggi.
Questo fenomeno porta a due conseguenze, di segno opposto, ma entrambe
gravi. La prima è relativa a un crescente distacco dell’analisi teorica
economica dalla realtà, il sistema economico di riferimento dell’analisi
diventa cioè sempre più astratto, e le ipotesi semplificatrici diventano uno
strumento che, invece di avere come fine quello di isolare da una situazione
complessa i problemi più importanti, hanno come fine a sé la possibilità di
applicazione degli strumenti analitici, con un ribaltamento della relazione
strumento-obbiettivo.
Il secondo fenomeno è che, mentre tali livelli di sofisticazione rimangono
ristretti al dibattito accademico, la società civile si trova ad affrontare
problemi e domande sul funzionamento di una economia reale. Si è quindi
sviluppata una tendenza, senza dubbio da parte dei mass-media e molto
spesso anche della classe politica, ad appropriarsi, divulgare e
malauguratamente e tramutare in interventi di politica economica alcuni dei
risultati provenienti da ricerche che si basavano sulla costruzione di sistemi
economici e di individuazioni di leggi comportamentali del tutto irrealistici.
I risultati così "volgarizzati", che spesso diventano luoghi comuni di massa e
di mass-media, sono strettamente dipendenti dalle ipotesi irrealistiche che
stanno alla base del modello utilizzato per ottenerli.
Siamo quindi in presenza di un fenomeno che da una parte vede una sempre
maggiore astrattezza ed estraneità ai problemi reali da parte della letteratura
economica accademica, e dall’altra una volgarizzazione di queste teorie e
leggi che, isolate dal proprio contesto, diventano inutili luoghi comuni o veri
e propri errori.
Le ragioni di ciò possono essere ritrovate, a mio avviso, in due ordini di
motivi:
La via alternativa non è facile: la cosa migliore dovrebbe essere, per gli
economisti che non si riconoscono in questa tendenza, quella non tanto di
parlarne ma di praticarla; se un approccio alternativo è veramente efficace
avrà in sé la capacità di affermarsi.
Purtroppo un meccanismo del tipo: "le idee buone automaticamente
cacciano quelle cattive", non si adatta al mondo politico e al mondo
accademico. La possibilità in astratto di discernere ciò che è buono da ciò
che è cattivo è molto difficile se non impossibile: spesso in economia, come
in tutte le relazioni tra gli uomini, ciò che è per gli uni può essere male per
gli altri, le verità oggettive sono ben poche.
Sta di fatto che i meccanismi di selezione delle idee seguono percorsi
tortuosi, conflittuali e di potere ben diversi da un confronto ideale e aperto.
Forse ciò è inevitabile, basta però ricordare che le idee che vincono e
dominano in economia non rappresentano improbabili leggi oggettive e
immutabili, ma solamente quelle che meglio rispecchiano i rapporti di forza
istituzionali, politici e accademici.
1. Pirsig R. M., Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi, 1981, p.
171
Bach e la viabilità
Carlo Boccadoro Le nefaste conseguenze dell’inquinamento acustico che vengono
periodicamente ricordate su giornali, trasmissioni radiofoniche e televisioni
sono a tutti ben note. Raramente si pensa, però, al disastroso effetto
retroattivo che automobili, camion e motorini senza marmitta hanno avuto
sulla Storia della Musica. Che c’entra il traffico con il regno dei suoni, vi
chiederete (forse)? Apparentemente nulla. Chiunque si trovi bloccato in un
ingorgo automobilistico, magari costretto a una lunga attesa in coda,
difficilmente si metterà a pensare a Bach o a Vivaldi; semmai passerà il
tempo a imprecare contro gli altri automobilisti.
(Esempio:)
D’Alema: "C'è un quiz logico, uno classico per il quale elaborai una
soluzione diversa da quella consueta. E' uno di quei giochi di logica binaria,
in cui c'è un pellegrino che cerca la città della verità, arriva al bivio, da una
parte c'è la città della verità, dall'altra quella della menzogna, incontra uno
che viene e può fargli una sola domanda, senza sapere se l’interlocutore è
bugiardo o sincero. Normalmente in un gioco di questo tipo la soluzione
comporta una domanda, del tipo: "Se tu fossi bugiardo e io ti chiedessi…?"
eccetera. Io ne avevo escogitata una diversa, molto più elegante, in cui
l’elemento binario era implicito: il pellegrino diceva: "Scusami, buon uomo,
da che parte si va per andare alla tua città?"
- E resiste a ogni…
D’Alema: "Resiste a ogni! Se lui dice il falso, mente su quale sia la sua città
e dunque indica quella della verità. Se invece è sincero indica la città della
verità. Questa soluzione incorpora nel "tua" la binarietà, senza
quell’ineleganza del dire al pellegrino: "Ma se tu fossi…" eccetera."
- Nel Risiko ogni giocatore pesca una carta dov'è scritto dove andare.
Quando lei parla di obiettivi politici precisi, intende qualcosa che si
potrebbe scrivere in due parole su una carta, la soluzione segreta
dell'enigma? Per fare un esempio, "Palazzo Chigi"?
D’Alema: "Questi sono aspetti importanti, ma ancora strumentali."
- Lei gioca con i videogiochi. Non è preoccupato, magari per i suoi figli,
da quelle cose che si sentono, la videodipendenza, la presunta epilessia
da videogioco…?
D’Alema: "Quello che è sgradevole è la violenza, la forte componente di
aggressività che almeno per i bambini dovrebbe essere ridotta. Mio figlio,
ha sette anni, è un appassionato di questi giochi e ce ne sono alcuni
francamente orribili: quest’idea del massacro… con spadoni… che
squartano… "
lo dice non voluttuosamente ma con un certo gusto, nel
disdegno
D’Alema: "… oltretutto credo che tanta violenza non sia affatto necessaria,
perché poi uno non si innamora della raffigurazione ma della dinamica del
gioco. Quello che viene raffigurato nella forma di un duello mortale, di
squartamenti, eccetera, in fondo potrebbe essere un normale incontro di
boxe, perché poi il gioco ha sempre quel meccanismo, devi muovere una
certa levetta per alzare un braccio, devi avere una certa destrezza."
- Nella teoria dei giochi è importante separare le regole che servono per
giocare da quelle che servono per vincere. In politica la distinzione è
sempre chiara?
D’Alema: "Noi abbiamo detto che il problema del Paese era duplice. Dopo
il crollo della Prima Repubblica era finito anche un tipo di gioco, erano
cambiate regole come la legge elettorale, erano cambiati i giocatori. Il primo
aspetto era impostare le nuove regole per giocare, ricostruire il campo di
gioco. Questo si fa insieme all’avversario e dirlo è stato un punto essenziale,
una grande intuizione strategica… "
Quel che segue è elencato con voce neutra, come fosse una
verità risaputa e indiscutibile, la ricetta per fare l’uovo sodo:
- E i famosi valori?
D’Alema: "Questo modo di spiegare le cose può attirare delle tirate
moralistiche. Ma in realtà avere questa visione della struttura del gioco
politico, anche nei suoi aspetti persino logico-matematici e di teoria dei
giochi, non significa affatto non avere una forte tensione morale. Non
c’entra nulla. La tecnica esiste, e secondo me può essere interpretata in
modo giocoso e quindi appassionante. Ma poi è evidente che questa partita
ha un contenuto economico, sociale, etico, civile. E’ chiaro che ci sono le
motivazioni."
- Ma non restano un po' nascoste, dietro all'agire politico, al "teatrino
della politica", alle strategie e controstrategie?
D’Alema: "Secondo me occorre un equilibrio che consenta di non prendere
due direzioni opposte, tutte e due sbagliate: il pragmatismo o la retorica.
Quando i valori sono enunciati in un modo che è totalmente
decontestualizzato rispetto all’agire politico, quando la retorica delle
motivazioni soffoca il nucleo del gioco, allora diventa una retorica della
sconfitta. Gli italiani sono convinti che la retorica sia il sentimento,
l’idealità, invece non è vero. La retorica è il peggiore inganno: è la
simulazione dell’idealità."
- Manca molto?
D’Alema: "Abbiamo fatto molta strada, in relativamente poco tempo.
Abbiamo stabilità di governo, e questo dà molto fastidio a molti: però è
accaduto. Abbiamo conti pubblici in media con quelli europei, ed eravamo
alla bancarotta… Abbiamo dei soggetti politici che progressivamente
somigliano a quelli che ci sono in Europa… Tra un po’ avremo anche la
riforma costituzionale… E' un processo accelerato e noi siamo tra i
principali protagonisti. Ce ne renderanno merito: quando ci leveremo dalle
scatole. Cosa che accadrà non tardissimo: ci renderanno merito per avere
contribuito a dare una situazione più serena ai nostri figli."
c'è un però…
D’Alema: "… il nucleo del gioco, il piacere del gioco prescinde dalla posta.
La posta può essere il denaro, può essere il successo, può anche essere un
obiettivo di grande valore civile e morale ma il meccanismo profondo del
gioco è un piacere in sé."
1.
Gli ultimi sei mesi - dall’esternazione di Violante sull’università di massa
all’occupazione di alcune università tedesche fino alla decisione dei laburisti
del Regno Unito di far pagare parte del costo della matricola ("tuition fees")
agli studenti - sembrano confermare che la crisi dell’università è una crisi di
dimensioni europee. L’11 giugno scorso Keith Devlin riportava sul
Guardian on-line la discussione avvenuta alla riunione della confindustria
britannica (CBI), il cui direttore generale così si esprimeva: "Le università
devono mantenere alta la qualità, altrimenti gli imprenditori porteranno
altrove i propri affari." Almeno un’impresa, Unipart, ha già investito 4
milioni di sterline nella creazione di una università "interna" alla quale verrà
affidata la formazione del proprio staff. L’attacco dell’industria alle già
assediate ("beleaguered") università britanniche, ufficialmente giustificato
dalla preoccupazione "per la qualità", nasconde in realtà il terrore, diffuso in
genere nelle élite, di un’università di massa massicciamente finanziata dallo
stato. È chiaro allora che perfino la serie - a tutt’oggi ininterrotta - di articoli
inglesi sull’Italia acquista un sapore ben diverso. Difficile comprendere
altrimenti l’attenzione che il Times Higher Educational Supplement ha
dedicato a una notizia relegata in Italia alle pagine di cronaca: le elezioni del
rettore dell’ingovernabile per antonomasia mega-ateneo d’Europa: "La
Sapienza" (THES, 31 ottobre 1997, p. 10). Per quanto la cosa possa
sembrare comica il Times ha schiaffato un’enorme faccia di Tecce (a colori)
sopra l’ennesimo articolo di Pacitti (dopo il Guardian ora anche il Times:
"Italy in EU dock over ban"); il titolo suggeriva un plot sthendalian-
scespiriano: "Usurped rector loses ungracefully". Ma le pagine principali del
THES come del Guardian HES non dipingono una realtà interna priva di
drammi e narratives. L’annuncio del nuovo governo laburista di introdurre
le cosiddette tasse "di rabbocco" ("top-up fees") ha scatenato la reazione
delle associazioni studentesche e un dibattito a 360 gradi sui giornali e su
Internet. Punta avanzata della discussione è Nexus, il think-tank telematico
progressista, dove si possono leggere opinioni d’alto livello e dati scambiati
dalla mailing list "Hedu" (dedicata cioè alla higher education). Il panico e la
"passione" (da queste parti merce rara) che riflettono la maggioranza di
questi interventi è comprensibile: fino ad oggi in Gran Bretagna l’università
era completamente gratuita; persino a Cambridge e Oxford (Oxbridge), una
volta ammessi, non si pagano tasse. Ma oggi anche questo sistema è in crisi.
La prima doccia fredda è stata il rapporto Dearing (dal nome del presidente
della Commissione, Sir Ron Dearing), una inchiesta sul sistema
dell’istruzione ordinata dal precedente governo e conclusasi quest’estate con
la pubblicazione di un voluminoso dossier. Le conclusioni di Dearing non
sono certo riassumibili in poche parole, ma la parola d’ordine era già nota
prima di iniziare: "tagliare" - possibilmente facendo pagare agli studenti il
25% della loro istruzione. Il rapporto Dearing cade nelle braccia laburiste
come manna dal cielo. Il Labour Party, che aveva promesso di non toccare
ma anzi di aumentare i finanziamenti all’istruzione e alla formazione, si
trova in mano una formidabile scusa per calare la scure sulla pubblica
istruzione. Il governo ufficialmente vuole comunque (come la CBI) più
iscritti e più diplomati e intende spendere i soldi pagati annualmente alle
università (le "tuition fees") in maniera diversa: ad esempio introducendo un
sistema di prestiti d’onore per gli studenti o magari investendo di più a
monte, nella scuola. Agli studenti universitari - ma il governo assicura che
saranno solo quelli più abbienti - verrà richiesto perciò di versare una
somma contributiva che non copre l’intera tuition e che si aggirerà in media
sulle mille sterline all’anno. Le "top-up fees" hanno gettato nello sconforto
molti potenziali studenti che allibiscono di fronte all’eventualità di dover
pagare cifre che in alcuni casi (ad esempio per medicina) supererebbero le
duemila sterline annue. Si teme poi una "americanizzazione", cioè il
passaggio a un sistema di università di serie "B" (o "C") e di serie "A" che
produrrebbe discriminazioni (Oxford e Cambridge) ancora peggiori di
quelle presenti. Di conseguenza i sondaggi hanno segnalato un calo delle
domande di ammissione all’università - le cosiddette "applications" che gli
studenti inviano durante il corso dell’anno (si veda "Opportunities lost",
THES, 24 ottobre 1997, p. 1).
2.
Negli ultimi tre-quattro anni si sono susseguiti in USA una serie di studi e
pubblicazioni sulla crisi dello "higher educational system" - definizione
sotto la quale vengono compresi i college (che forniscono solo diplomi
quadriennali - 2125 istituzioni, di cui 1530 private) e le università (le quali
offrono anche Master e Dottorati). Molti sono gli studi seri, come quello
curato da Arthur Levine (Higher Learning in America, 1980-2000, Johns
Hopkins University Press, 1994), e i libri di inchiesta (Shameful Admissions:
The Losing Battle to Serve Everyone in Our Universities di Angela Browne
Miller, Jossey-Bass, 1996), ma innumerevoli sono le guide alla giungla dei
campus. Uno sguardo ai titoli in libreria dà un quadro efficace della
dimensione dei problemi (e del disagio): The Real Guide to Grad School:
What You Better Know Before You Choose Humanities & Social Sciences, a
cura di Robert E. Clark e John Palattella, Lingua Franca, 1997; The Gay,
Lesbian, and Bisexual Students' Guide to Colleges, Universities, and
Graduate Schools, di Jan-Mitchell Sherrill e Craig A. Hardesty, New York
University Press, 1994; The Black Student's Guide to Colleges (4a edizione),
a cura di Barry Beckham, Madison Books, 1997; ed infine l’imperdibile The
Truth About College: 50 Lessons for Parents Before They Start Writing
Checks, di Will S. Keim, Chalice Press, 1997.
Avevo appena citato la volta scorsa uno dei libri più discussi, Bright College
Years: Inside the American Campus Today (Simon & Schuster, 1997), della
giornalista Anne Matthews. Il taglio del libro della Matthews è quello
classico (e bisogna ammettere avvincente) della "spregiudicata denuncia".
In sette agili capitoli che riprendono le stagioni (i mitici "term") del campus
l’autrice, che è anche "figlia d’arte" (cioè di accademici), ci conduce
attraverso il mondo dell’università americana messa in ginocchio
dall’esplosione delle immatricolazioni e dai tagli (statali e federali) alla
spesa per l’istruzione. Le cifre fornite dalla Matthews sono poche, ma tutte
significative: il sistema universitario americano è una impresa da 200-300
miliardi di dollari ("it’s a little larger than the computer industry, a lot
smaller than the restaurant industry", p. 28) e impiega circa due milioni e
mezzo di persone, più personale che nel settore automobilistico, tessile e
siderurgico messi insieme. Nel 1970 solo un americano su quattro andava al
college, oggi sono quasi uno su due. In Francia e Giappone solo uno
studente di scuola secondaria su dieci arriva all’università. I dati a
disposizione per l’Italia sono di difficile comparazione, ma la percentuale di
iscritti sul totale della popolazione fra i 19 e i 23 anni era nell’anno 1991-92
del 32,6%, ma si scende al 26.9% se consideriamo il numero di laureati su
totale degli iscritti al primo anno (dati Istat). In America, nello stesso
periodo, si diplomava il 44,3% della popolazione di razza bianca e il 23,9%
di neri (fonte: William G. Bowen, "No limits", in Ronald G. Ehrenberg (a
cura di), The American University. National Treasure or Endangered
Species?, Cornell University Press, 1997, pp. 18-42).
Circa nove milioni sono gli studenti iscritti ai corsi di diploma quadriennale
("baccalaureato") in USA, ma la durata media degli studi reali è oggi più
vicina ai sei che ai quattro anni. Sempre più frequenti sono gli abbandoni e
sempre più studenti sono costretti a lavorare a tempo pieno con conseguenze
negative sulla frequenza e sul rendimento. Il linguaggio adottato dalle
università-impresa per attrarre questa massa di adolescenti è quello delle
shopping mall: patinate brochure avvertono che "nel nostro campus ogni
stanza è dotata di "free cable TV service" (Utica College), dove gli studenti
possono rilassarsi in "expanded personal fitness facilities" (p. 27); "nel
nostro college", avverte un altro depliant, "anche le lezioni di arte e
letteratura hanno un taglio da business-studies." Uno studente intervistato
assicura che a Santa Cruz (California) il vestirsi è un optional ("it is a
clothing-optional campus"). Ogni riga di questi pieghevoli è attentamente
soppesata, ogni aggettivo accuratamente selezionato: il college è (deve
essere) una strada in discesa, "fun, intimate, improving but nonthreatening",
dove parole come studio, lavoro e fatica sono bandite: "You will be
painlessly prepared for a high-paying career." L’Università della Florida è
anche più diretta: "Disney World e spiagge meravigliose ad un’ora di
macchina."
Se dalla lettura della Matthews si esce stremati ben diverso è l’effetto che fa
The American University (citato più sopra). La miscellanea curata da
Ehrenberg non è certo un’inchiesta: qui è la crema dell’establishment
universitario americano e il grande potere accademico - dal presidente del
MIT a quello di Princeton, da quello di Cornell al direttore del National
Science Foundation - a salire in cattedra e a discettare sui "tesori" nazionali
americani. Il tono è quello delle grandi occasioni, le conclusioni scontate:
siamo in difficoltà, ma ce la faremo; issate le vele, si parte per una nuova
battaglia, eccetera. Insomma, la classica retorica alla Amasa Delano che
sprizza ottimismo sul povero Benito Cereno ("But the past is passed; why
moralize upon it? [...] Forget it. See, your bright sun has forgotten it all, and
the blue sea, and the blue sky; these have turned over the new leaves.")
Eppure anche fra questa messe di proclami jeffersoniani non mancano le
pagliuzze d’oro della critica. Hanna H. Gray, presidente emerito e
professore di storia alla Chicago University, sfiora nel suo intervento
("Prospects for the Humanities", pp. 115-127) i temi dell’università di massa
e del futuro delle facoltà umanistiche. L’articolo di Gray è una lucida,
orgogliosa e allo stesso tempo pacata rivendicazione del valore degli studi
umanistici in un mondo dominato dalla visione "scientifica". "Le università
esistono in parte", scrive Gray, "per mantenere e nutrire campi e modi di
pensare che non saranno mai di moda ma che sono di fondamentale
importanza [...]. Allo stesso modo esse esistono per incoraggiare e rendere
possibile la libertà intellettuale e il rischio che ci si assume nello scoprire
nuovi problemi, nuove risposte, nuove discussioni - qualsiasi pena consegua
a questo risveglio." (p. 124). Infine, riprendendo una riflessione di
Tocqueville, l’autore si domanda se la discussione sul "controllo"
dell’istruzione superiore (e sull’allontanamento della società dalle
università) non sia legata a un classico dilemma: è possibile conciliare
l’ethos democratico con quello che possiamo definire "the fundamental
quest for knowledge", ovvero l’immersione in una vita contemplativa? Gray
risponde con le parole di Tocqueville (che diventeranno poi quelle di John
Dewey): "A forza di aderire alle mere applicazioni si perderebbero di vista i
principi, e quando i principi fossero persi, i metodi non potrebbero essere
inventati, e l’uomo continuerebbe senza intelligenza e senza arte ad
applicare processi imparati ma non più compresi."
3.
Questi si chiamano…
A. … Esercizi tipografici
B. Esercizi tipografici si chiamavano quelli che Massin fece per l’edizione
illustrata degli Exercices de style di Raymond Queneau,
C. il libro di Queneau è stato tradotto da Eco,
D. Eco oggi dedica a Queneau uno dei suoi primi…
[ricomincia da A. ad libitum].
Umberto Eco
Lo sguardo remoto del Prof. Di Bella
Marco Belpoliti La faccia di Luigi Di Bella è diventata rapidamente nota alla maggior parte
degli italiani. Il suo viso e la sua testa, coronati dai capelli bianchi, sono un
simbolo inequivocabile per tutti coloro che in questi anni hanno
sperimentato su se stessi o sugli altri l'esperienza della malattia e della morte
per tumore. Tra questa esperienza e il volto del professor Di Bella c'è una
forte omologia che aiuta ancor di più l'identificazione tra il fisiologo
modenese e il dolore. Nelle fotografie che lo ritraggono sui giornali Di Bella
non sorride quasi mai. L'unica immagine ridente è quella che lo ritrae con
l'oncologo Umberto Veronesi, celebre luminare della lotta contro il cancro,
che invece ride sollevando il labbro superiore e socchiudendo leggermente
gli occhi, le braccia conserte e lo sguardo rivolto all'obiettivo, come a dire:
"Tutto va bene". Di Bella no, il suo sorriso è quasi una smorfia, la testa
reclinata e le mani in tasca (un altro dettaglio di questa foto colpisce: mentre
Veronesi ha infilato nel taschino della giacca un fazzoletto di seta dello
stesso tessuto dell'elegante cravatta, Di Bella reca nel taschino un fazzoletto
bianco e soprattutto delle penne, mentre la cravatta è annodata in modo
tradizionale, come si usava prima della guerra). L'idea che la persona di Di
Bella suggerisce è certamente quella di un uomo antico - ha più di
ottant'anni - ma anche di un uomo perplesso, non a proprio agio nei contesti
pubblici. In un certo senso Di Bella è, almeno nel campo dei media, un
"dinosauro", un essere appartenente ad altre ere geologiche. Basta guardare
come si comporta davanti all'obiettivo delle macchine fotografiche e delle
telecamere: la testa reclinata, lo sguardo tra il sorpreso e il perplesso, ma
soprattutto non guarda mai dritto verso l'obiettivo: traguarda. E' come se
abbassasse lentamente lo sguardo e poi lo alzasse di colpo verso chi lo
ritrae. Si direbbe che il professor Di Bella ci guardi di sottecchi, ci spii; il
suo è uno sguardo sospeso. Ci guarda, ma lo fa passando attraverso
qualcosa. Dire cosa sia questo qualcosa non è facile; forse è una distanza: è
uno sguardo remoto, di chi, da un'era trapassata, getta uno sguardo perplesso
sul presente; o forse è una forma di saggezza che si comunica con gli occhi
(sempre appannati come da un umor vitreo, ma anche stranamente vitali), o
meglio: uno sguardo di perplessità (la testa è sovente piegata, di poco, in
avanti o indietro). L'espressione degli occhi è accompagnata da una leggera
smorfia delle labbra, del labbro inferiore, perché quello superiore è nascosto
da un baffo bianco, tagliato secondo una consuetudine anche questa desueta,
per cui si rade la parte superiore e si lascia solo quella inferiore, quasi a
coronare la bocca. Nelle foto in bianco e nero dei giornali la folta
capigliatura bianca diventa come un alone, una criniera, alta sulla fronte,
quasi un'aureola che avvalora ancor di più il senso di estraneità che la figura
di Di Bella suggerisce nel lettore dei fogli quotidiani. In alcune istantanee è
colto nell'atto di parlare, ma la sua bocca non è mai aperta: si capisce che sta
quasi sussurrando, come se stesse parlando vicino al nostro orecchio,
dandoci l'impressione di una confidenza; più spesso i fotografi, che
sembrano in questo interpretare un desiderata del professore, lo immortalano
accanto a chi sta parlando, ad esempio il Ministro della Sanità, Rosy Bindi,
fotografata mentre accompagna la parola con un gesto: una mano aperta con
il palmo rivolto verso l'alto e il braccio sospeso in aria. Di Bella è
assolutamente composto; solo in una fotografia ha la mano destra alzata, ma
il palmo è rivolto verso il basso come a suggerire una moderazione, e
soprattutto indossa il camice bianco, segno che qui è investito dell'autorità
di medico. Che sia un uomo antico ce lo dice anche il modo in cui indossa i
calzoni; in una immagine che lo coglie con la giacca slacciata si vede
chiaramente che il taglio dei pantaloni è fuori moda, anni Cinquanta, con i
calzoni alti all'altezza della cintola, tutto il contrario dei calzoni moderni
indossati dai suoi interlocutori (l'abito fa il monaco, si dovrebbe dire
vedendolo accanto al professor Veronesi, elegante, spigliato, sicuro di sé).
La sicurezza che emana questo "omino bianco", come è stato subito definito
dai giornalisti e dai commentatori, è molto diversa da quella che siamo soliti
leggere nella persona fisica degli uomini pubblici; in una certa misura
assomiglia a quella della passata classe dirigente democristiana, così
inelegante nel suo abbigliamento anni Cinquanta (solo Andreotti, l'ex
ministro, è rimasto a ricordarci come vestivano quegli uomini grigi che ci
hanno governato per un quarantennio, ma anche lui si è aggiornato e il taglio
dei suoi abiti, quasi sempre in doppio petto, si è fatto più moderno). Forse
l'unico a cui si può paragonare lo sguardo di Di Bella - ma si tratta di una
casualità suggerita da un triste anniversario - è Aldo Moro nella prima foto
diffusa dalla Brigate Rosse, a tre giorni dal sequestro; anche Moro ci
traguarda, perplesso, con la testa reclinata, la camicia aperta e la canottiera
bianca ben visibile. Posseggono entrambi - il professore anticancro e lo
statista sequestrato - qualcosa che ci inquieta. Forse quel qualcosa è uno
sguardo incerto, non una insicurezza o un dubbio, ma una perplessità. Moro
ha lo sguardo di chi sta sospeso in una dimensione che non è più quella del
prima e non sarà mai quella del dopo: è già altrove. Ecco, probabilmente
anche Di Bella ha il medesimo sguardo dell'altrove. Egli sembra infatti
appartenere a una dimensione diversa, che non sappiamo bene quale sia, ma
che per questo possiamo interpretare come attinente al dolore o alla morte.
Forse, più semplicemente, il suo sguardo è quello di un uomo che si è
trovato, contro la sua volontà, al centro di un gioco più grande di lui,
costretto a confrontarsi con poteri e sistemi che gli sono estranei (per questo
si sottrae), o forse è solo a disagio davanti agli obiettivi delle macchine
fotografiche; la sua è una timidezza ritrosa di chi si rassegna a diventare,
nonostante tutto, una icona pubblica, ma in fondo non lo vuole; dice:
"Eccomi qui, ma non è questo che desidero per me". Nonostante tutte queste
ragioni a chi lo guarda può sembrare che Di Bella rechi nel suo sguardo il
segno di un passaggio, di una soglia che sembra aver attraversato; ma al
tempo stesso porge questo sguardo senza alcuna allegria o sicurezza, non
ostenta la forza e l'ottimismo di chi ha percorso il regno del dolore, non ha
la sicurezza di chi afferma: "Vi libererò dal male". Insomma, egli è profeta
triste, proprio come questi tempi di perplessità e stentato ottimismo
richiedono a chi sembra detenere le chiavi di una salvezza che non
contempla la possibilità di un miracolo.
Perchè lo fai?
Oliviero Ponte di Pino Per spiegare che cosa sia il World Question Center, bisogna innanzitutto
presentare il suo inventore. Ma non è facile etichettare John Brockman. Per
chi lavora nell'editoria è soprattutto un agente letterario - o meglio, l'agente
di molti tra i migliori scienziati oggi in attività, che progetta
instancabilmente potenziali bestseller sulla teoria dell'evoluzione, sulla
fisica della particelle, sulla nascita del linguaggio, sull'ingegneria genetica,
sul rapporto mente-corpo... Chi avesse incontrato Brockman negli anni
Sessanta, invece, avrebbe conosciuto un artista-organizzatore che gravitava
intorno ad Andy Warhol e a quelli che allora venivano definiti "mixed
media" (che secondo alcuni rappresenterebbero un'anticipazione profetica -
e senza computer - dell'attuale multimedialità). Per chi invece spulcia i
cataloghi delle biblioteche, Brockman è autore di una serie di saggi e libri-
intervista: tra i più recenti, La terza cultura, una serie di conversazioni con
scienziati, partendo dal presupposto che i recenti sviluppi in diversi settori
della scienza stiano cambiando - e cambieranno - i nostri paradigmi
"filosofici" ed esistenziali; e Digerati, una panoramica di interviste con la
nomenclatura della nuova cyber-frontiera sul futuro di Internet (per la
cronaca, Digerati è stato il primo libro pubblicato da Hard Wired, la casa
editrice della rivista Wired).
In tutto questo, l'attivissimo Brockman non poteva non avere uno sbocco in
rete, al sito Edge (http://wwvv.edge.org). E su questo sito, qualche tempo fa,
ha aperto una rubrica di notevole fascino ed effetto: partendo dal
presupposto che l'importante non è tanto quel che si trova, quanto quello che
si cerca, e riprendendo un'idea di un suo amico (James Lee Byars, alla cui
memoria è dedicata l’iniziativa), ha infatti chiesto ad alcune personalità che
lavorano ai confini più avanzati della ricerca di sintetizzare il senso del loro
lavoro in una domanda.
L'idea originale di Byars (nel 1971) era questa: raccogliere le 100 menti più
brillanti del pianeta, chiuderle in una stanza e fare in modo che i partecipanti
ponessero anche agli altri le domande che ponevano a se stessi. In teoria,
quello che avrebbe dovuto uscire da quella mega-discussione sarebbe stata
la sintesi del pensiero umano.
Il World Question Center riprende e rilancia l'idea, con tutte le sue generose
ingenuità, ma superando tutte le difficoltà logistiche grazie alla potenza di
Internet.
Dice Brockman citando un suo testo del '69, "il nostro tipo di innovazione
non consiste nelle risposte, ma nell'autentica novità delle domande; nel
porre i problemi, non nelle soluzioni... La sintesi della totalità del sapere
umano non consisterà in un incredibile ammasso di dati, o in enormi librerie
sovraccariche di libri. Non hanno più valore la quantità, la spiegazione. Per
una sintesi totale del sapere umano, usate l'interrogativo. Chiedete alle più
sottili sensibilità del mondo le domande che stanno facendo a se stesse".
Insomma, al World Question Center non si trovano risposte, ma solo
domande. Ma a farsi queste domande sono - per l'appunto - alcune tra le
menti più interessanti che circolano nel cyberspazio. Scienziati, ricercatori,
filosofi, pensatori, critici, saggi...
Un piano del progetto e un primo risultato di questo inedito sondaggio via
Internet è apparso sul numero 31 di The Edge.
Qualche esempio?
"Qual è la differenza cruciale tra la materia inanimata e una entità che può
agire come un ‘agente’, manipolando il mondo a proprio vantaggio? E come
avviene questo cambiamento?".
PHILIP ANDERSON, Premio Nobel per la fisica, Princeton.
"Qual è l’esatta quota di natura che possiamo buttar via e bruciare facendola
franca?".
NATALIE ANGIER, giornalista scientifica del New York Times, autrice di
Natural Obsessions, The Beauty of the Beastly.
"Come possiamo costruire una nuova etica del rispetto della vita che vada
oltre la sopravvivenza individuale per includere la necessità della morte, la
conservazione dell'ambiente e le attuali e future conoscenze scientifiche?".
MARY CATHERINE BATESON, antropologa, George Mason University,
autrice di Composing a Life e Peripheral Visions.
"Come evolverà la mente, nel momento in cui sapremo come il cervello crea
la mente?".
WILLIAM H. CALVIN, neurofisiologo teorico, University of Washington,
autore di The Cerebral Code e How Brains Think.
"Che aspetto potrebbe avere un secondo esemplare del fenomeno che
chiamiamo vita?".
RICHARD DAWKINS, biologo evoluzionista, Oxford, autore di Il gene
egoista, River Out of Eden e Climbing Mount Improbable.
"I1 crollo delle grandi civiltà del passato ha qualcosa da insegnarci sul
nosko futuro?".
JARED DIAMOND, biologo, UCLA Medical School, autore di The third
Chimpanzee e di Guns, Germs and Steel.
"Qual è la frontiera?".
W. DANIEL HILLIS, computer scientist, vice-presidente ricerca e sviluppo
alla Walt Disney Company e autore di How Computers Think.
"Perché‚ no?".
LINDA STONE, direttrice del Virtual World Group alla Advanced
Technology and Research Division della Microsoft.
O meglio:
A questo punto, credo di aver giocato la mia carta sul tavolo del World
Question Center. Ma sono convinto che molti altri possano avvertire il
desiderio di giocarsi, anche loro, con la domanda che li ossessiona.
Se la gatta va al lardo
Liam Email Uno dice "Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino". Bene, ma se
uno lo chiede al Web che succede? Se uno butta dentro, alla rinfusa (rin/
fusa), gatta, lardo e zampino in un motore di ricerca, cosa gli torna indietro?
E se uno li butta tutti e tre? Internet e la gatta che va al lardo, insomma,
hanno un senso comune, una storia da raccontare?
La risposta è no. Ma non è il caso di scoraggiarsi. Perché se Internet rifiuta
il senso della gatta che va al lardo e ci lascia lo zampino è colpa della sua
natura, se uno crede in Internet vuol dire che non crede che andando al lardo
ci si debba lasciare lo zampino per forza. Vuol dire che comunque ci va,
zampino o non zampino. Se lo fa, in questo caso, viene anche premiato. A
un certo punto, l'enorme Altavista, il motore di ricerca che tutto comprende,
concede una piccola soddisfazione finale. E dice: "Perché non dai
un'occhiata al capitolo XI dei Promessi Sposi?" Uno va a leggere, e legge:
"Ci ha messo uno ZAMPINO quel frate in quest'affare, - disse il cugino, dopo
aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello
così balzano. - Quel frate, - continuò, - con quel suo fare di GATTA morta, e
con quelle sue proposizioni sciocche...".
Lo zampino, in tutta questa storia, ce l'ha messo il Manzoni tra Don Rodrigo
e il conte Attilio.
Si naviga, comunque, a vista. Si naviga per andare al largo invece che al
lardo, come in celebri rifacimenti popolari del famoso detto. Zampino, per
esempio, comunque terminologia animale: sul sito http://www.sofit.it c'è
un notevole triplo salto interpretativo a riguardo dei cani di razza: "La
corporatura massiccia gli deriva dal Blood hound, l'incrocio con il Fox
hound ha contribuito a migliorare l'ossatura e a rialzare la spalla e
sicuramente anche il Boxer ci ha messo lo zampino". Che il Boxer, in questo
caso, ci abbia messo lo zampino è opinione dell'estensore, che per di più sia
proprio il Boxer è malizia che perfino lo spregiudicato Web fatica ad
accettare.
Zampino, si diceva. Il guaio è che Internet ha archiviato una quantità
spropositata di articoli di stampa che raccontano le partite di calcio.
Effimero purissimo, a meno che non sia opera di grandissime firme. Quindi
quasi mai. Sono centinaia le segnalazioni di Altavista al proposito: zampino,
nel senso di metterci lo zampino, ormai lo usano soltanto più i giornalisti
sportivi, per dire che Collocurta ha messo lo zampino nell'azione decisiva
della partita o che nel risultato finale c'è lo zampino del portiere Pagliuzzi
autore di straordinarie parate.
Nomi, pochi i rilevanti: l'architetto Giuseppe Zampino, soprintendente ai
beni ambientali e architettonici di Napoli, tale David Zampino che lavora in
una società americana di informatica, ma soprattutto un notevole Philip
Zampino, vescovo della Church of the Resurrection di Hollywood,
California.
6 scamponi, puliti, privati del guscio e delle teste 6 fette di lardo di Arnad o
della migliore qualità timo tritato pizzico di sale aceto balsamico. Accendete
il forno a 180 gradi. Avvolgete ogni scampone in una fetta di lardo e
deponetelo su una pirofila leggermente unta di olio e cospargete sopra il
timo e un pizzico di sale. Infornate per circa 8/10 minuti fino a quando lo
scampone si sarà cotto nel grasso del lardo disciolto.
Quando cotti, bagnateli con qualche goccia di aceto balsamico e mangiateli
ancora caldi.
Vale anche per coppie un po' attempate che si attardano nel ricordare i
momenti di fuoco ormai lontani (Vecchio scampone, quanto tempo è
passato).
Ma quello che conta, qui, è l'universalità del lardo. Confermata anche
dall'esperanto: vedi il sito http://www.esperanto.mv.ru, che riporta la
seguente frase: Kiel la koridoro, tiel ankam la tuta ambro estis frotita per
lardo.
In effetti chi l'avrebbe mai detto.
La gatta, si diceva. E' chiaro che un vocabolo di uso così comune, si porta
ovunque nel Web. Volendo, gatta lo si ritrova in una mezza dozzina di siti a
leggero sfondo pornografico, come sinonimo secco, allusione,
caratterizzazione precisa. Con parecchia fatica lo si potrà trovare - ne siamo
certi - anche come felino, e qui ci si ferma. Abbiamo scelto quindi due cose
che si discostano nettamente dalle altre: su tutti, la presentazione in http://
www.fanzine.net dell'ultimo album del gruppo: Tonio Scatigna e la gatta
da pelare. Sono toscani, vagamente demenziali, ma il loro album ci consente
un abbinamento insperato con il lardo. L'album si chiama infatti Fronte del
porco. L'album contiene una cover di Paranoid dei Black Sabbath che in
italiano diventa una strepitosa Alvaro il metallaro. E ancora, non fosse altro
che per la presenza ossessiva nelle segnalazioni di Altavista. l'industria di
materiali per l'aeronautica La gatta S.r.l., di Pomigliano d'Arco, 65 anni di
attività, 20 anni in collaborazione con l'industria aeronautica.
D'accordo, troppo materialista. E quindi si approda su http://www.tqs.it, e la
gatta, animale simbolo della filosofia Zen, trova la sua consacrazione in una
poesia di Dilys Laing. Che recita così
Applausi
Baudo Non fare ...
Chiusura Odori
Darsi del tu Pagina
Emblematico Quantità
Fanciullino Rai
Gente Saucissonnage
Hamburger Telecamera
Immagini Una volta
Linea Virgolette
Microfono Zoccolo
Pubblichiamo la terza e ultima parte dell'Enciclopedia di Aldo Grasso.
Vi chiediamo ancora di integrarla con le vostre voci. Raccoglieremo tutto e ne faremo un'unica
enciclopedia che sarà disponibile su Golem. Promesso.
Direttore responsabile:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Gianni Granata, Mario Calabresi, Furio Colombo, Roberto Maragliano, Sylvie Coyaud, Aldo Grasso,
Paolo Palazzi, Carlo Boccadoro, Giuseppe Pontiggia, Domenico Fiormonte, Umberto Eco, Marco Belpoliti,
Oliviero Ponte di Pino, Liam Email, Walter Fontana, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Silvia Cristin, Emilia Audino,
Massimo Amato, Stefano Mazza, Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
Vi offriamo questa volta un numero molto vario; la parte più sostanziosa è nata dalle riflessioni intorno al
concetto di perdono nell'Ebraismo e nel Cristianesimo: Di Segni e Urso ce ne spiegano i principi fondamentali,
anche nella prospettiva storica. La questione è legata alle recenti esternazioni del papa, al Mea Culpa:
provocherà crisi di identità? Ne parla Ugo Volli.
Nel frattempo, Cardini discute di scuola e Palazzi della riduzione dell'orario di lavoro. Claudia Winkler ci offre
un nuovo spunto: data l'importanza sempre maggiore dell'Information Technology, è ancora attuale la pretesa
superiorità della cultura umanistica ed è questa in grado di adeguarsi alla necessità di una Nuova Cultura?
Siamo curiosi di sapere cosa ne pensate voi, infatti abbiamo aperto un forum.
Infine, un po' di televisione: Siliato cerca di fare luce intorno all'argomento ascolti TV mentre con la seconda
parte dell'Enciclopedia della Televisione di Aldo Grasso rinnoviamo l'invito a inserire le vostre "voci", per
crearne una che sia di tutti (voi e noi).
Per esempio che cos'è oggi essere ebrei? La legge religiosa è al proposito
molto precisa e - alla maniera di certe definizioni matematiche - ricorsiva: è
ebreo chi è figlio di madre ebrea. I padri non contano qui: pratica della
diffidenza. Si va dai figli alla madre, su per le generazioni, fino a Sara,
moglie di Abramo. Che naturalmente non era ebrea di nascita. Come le
mogli di tutti i patriarchi e anche di Mosé, e quella Tamar, moglie di Jehuda,
da cui discende il re Davide e deve venire il Messia: paradossi del
patriarcato.
Sarò molto franco a rischio di parere grossolano. E non dirò cose tutte e
sempre piacevoli per alcuni: me ne dispiace e me ne scuso, ma ogni tanto
parlare chiaro non fa male.
Credo anzitutto che il problema della scuola e dell’insegnamento non vada
disgiunto da altri due, più vasti, che enumero in senso crescente di ampiezza
e di importanza, correndo per intero - conscio di farlo - il rischio di cadere
nella discussione dei Principi Primi laddove si dovrebbe restare aderenti a
una discussione importante, sì, ma in fondo circoscritta.
Gli aumenti di salario orario possono essere riassorbiti dalle imprese in due
modi: attraverso l'aumento dei prezzi o attraverso l'aumento di produttività
oraria. Un incremento dei prezzi sicuramente diminuirebbe la competitività,
rimane quindi come strategia possibile l'aumento di produttività. A questo
proposito si possono fare due ipotesi:
Applausi Hamburger
Baudo Immagini
Chiusura Linea
Darsi del tu Microfono
Emblematico Non fare ...
Fanciullino Odori
Gente Pagina
Pubblichiamo la seconda parte dell'Enciclopedia di Aldo Grasso. La terza e ultima, nel
prossimo numero.
Vi chiediamo ancora di integrarla con le vostre voci. Alla fine raccoglieremo tutto e ne faremo
un'unica enciclopedia che sarà disponibile su Golem. Promesso.
1. FORUM TELEMATICO
Ti consente di discuter
digitando sul xxxxyyyy.
2. FAMIGLIA MODERNA
5. ORNITOLOGIA MONDANA
7. L'INQUINAMENTO
Soluzioni
1. COMPuter
2. uterINE
3. INEdia
4. diaVOLI
5. VOLIera
6. EraSMO
7. SMOg
8. gIACIMENTO
=COMPIACIMENTO
Donne di potere o del potere
Roberta Ribali Un intrigante quesito che passa per la mente di tutti quanti leggano il testo
del Riccardo III è: come può l’orrido Gloucester, assassino del giovane re,
marito della buona Lady Anna, convincere in pochi minuti quest'ultima,
distrutta dal dolore e dal furore, a sposarlo? Come può, con poche frasi,
indurla davanti al cadavere dell’amato sposo a capovolgere i suoi sentimenti
e a neutralizzare le sue maledizioni?
Certamente Riccardo è diabolicamente intelligente ed abile a manovrare le
persone che lui bene conosce, attivando meccanismi automatici che fanno
leva sulle nevrosi, i bisogni e le debolezze degli interlocutori per asservirli
inesorabilmente al suo volere. E certamente Anna è donna di spessore
d’animo e di sentimenti intensi, una vera regina. È proprio ciò che lei è, che
ci può dare una chiave di lettura: Anna è donna del potere, appartiene
pienamente ad esso, non esiste al di fuori del suo ruolo di regina. È sì una
buona persona, sensibile e capace di relazionarsi, così come viene descritta
nello svolgersi della sua tragedia, ma è altrettanto consapevole del suo
destino: capisce che verrà usata finché servirà all’immagine di Riccardo e
poi sarà eliminata. Ma appartiene al Potere, il suo ruolo è già scritto; al di
fuori di esso non esiste una sua identità e non è possibile per lei alcuna
ribellione. Verrà uccisa.
Quante Lady Anna conosciamo? Alcune le individuiamo facilmente nella
cronaca, le loro dinamiche psicologiche ci appaiono simili, ed evocano in
noi una moltitudine di sentimenti complessi: possono chiamarsi Dimitra
Papandreu, Jaqueline Kennedy Onassis, Stefania Ariosto ecc., ma possono
essere anche donne del nostro mondo, magari a noi molto vicine. Il Potere,
seducente padrone, utilizza queste donne in modo a volte sottile: esse
credono infatti di cavalcare la tigre, potendo spendere molto denaro,
suscitando invidia ed ammirazione, usando la loro influenza sui veri Potenti
per ottenere piccoli privilegi, raccomandazioni per gli amici, interviste in
TV. In scala minore, le conosciamo altrettanto bene: la moglie o la sorella
dell’uomo politico, la segretaria del grande medico, ma anche la compagna
del vicino di casa arricchito o la donna del bullo del quartiere.
Essere una donna del Potere significa in realtà essere una vittima ed esistere
in relazione non a quello che si è ma per il ruolo che si ha. Certamente non
tutte le donne che si muovono nell’ambito di un Potere, massimo o minimo
che sia, sono da identificarsi così: da Cherie Blair, a Carla Voltolina, la
moglie di Pertini, vivono ed hanno vissuto la loro identità, al pari, oggi, di
moltissime altre donne che portano avanti, magari con tanta fatica, un loro
percorso dignitoso e libero.
Ho assistito, come psicoterapeuta che opera a Milano, al dopo Mani Pulite.
Adesso, a distanza di anni, ritrovo ancora alcune donne svuotate, attonite,
che non hanno capito: credono di avere perso tutto, denaro e prestigio
sociale. Si sentono come bambole buttate via. Per loro è stato difficilissimo
reinventarsi un’identità, delle relazioni, un lavoro, e sono persone
sostanzialmente innocenti, perché non capivano e non hanno mai capito,
appunto.
In contrapposizione, mi capita di osservare molte donne che hanno seguito
un percorso diverso e forse speculare. Entrate in contatto con delle
dinamiche di potere, se ne sono appropriate, riuscendo qualche volta a
manovrare le leve di sé e degli altri in modo tale da dare l’impressione di
possedere qualcosa di prezioso: denaro, prestigio, successo, ai vertici di
un’azienda o gestendo un negozio o un’attività benefica o culturale. Sono le
donne di potere. Muovono soldi, persone, imprese. In famiglia sono viste
come degli importanti riferimenti, non solo per il fatto che gestiscono loro il
denaro: a capo di un’azienda o di uno stato sono efficaci, hanno imparato
benissimo la lezione impartita nei secoli dal Potere maschile e lo
riproducono, aggiungendo finezza d’intuito e seduttività. Alcune di loro
(molto poche…) vengono nello studio dello psicoterapeuta perché sono
logorate, non dormono, hanno tanta rabbia, rancore e insoddisfazione.
Esattamente come per un personaggio shakespeariano, ci si può porre la
domanda se, anche nel loro caso, il Potere sia davvero addomesticato e
asservito a loro o se, in definitiva, sia comunque lui il perverso padrone.
Naturalmente qui non ci interessano i giudizi morali sul loro operato, che a
volte può essere splendido e ammirevole. La mia è la modesta prospettiva
dello psicoterapeuta, che si interroga soltanto sulla quantità di sofferenza
umana che si accompagna a queste due posizioni del femminile: la
sofferenza c’è, ed è sempre inversamente proporzionale alla consapevolezza.
Spirito e Materia
Roberto Caselli I Pink Floyd, o meglio, quello che rimane del celebre gruppo inglese,
compie trent’anni. Tre decadi tonde tonde per insegnare al proprio pubblico
cosa vuol dire rock, psichedelia, cultura lisergica e chissà cos’altro ancora.
Tormentati fin dal primo apparire sulla scena della Swinging London, hanno
incarnato nel corso del tempo tutte le follie, le contraddizioni, le maledizioni
e le catarsi di cui è capace il rock’n’roll. Persa, subito dopo il loro primo
album, la mente creativa della band, il chitarrista Syd Barrett, preda di un
uso sempre più massiccio di LSD e di altre sostanze bruciacervello che lo
portarono ad un’irreversibile catotenia, i Floyd corsero ai ripari ingaggiando
David Gilmour che risultò fondamentale per la loro ascesa irresistibile
culminata con il celebrato Dark side of the Moon (quasi venticinque milioni
di copie vendute). Ma i travagli non finirono certo lì. La personalità sempre
più introversa ed egocentrica di Roger Waters creò ulteriori problemi che
portarono alla defezione di Rick Wright e agli scontri furibondi con
Gilmour. Dopo battaglie legali senza esclusione di colpi, Waters fu
estromesso e i restanti tre membri si rimpossessarono del nome Pink Floyd,
unico vero baluardo in grado di resistere tutt’oggi all’usura delle circostanze.
A testimonianza di questi trent’anni di vita intensa e travagliata esce un libro
che trasforma in immagini il segreto della loro musica. Spirito e Materia –
L’Arte Visionaria dei Pink Floyd, edito da Arcana, è un elegante book che
propone duecento immagini a colori tra disegni, fotografie ed elaborazioni
al computer che dal 1967 in poi hanno rappresentato la veste grafica della
loro musica. Le immagini, che originariamente hanno costituito copertine,
poster e materiale promozionale, sono corredate da un testo redatto da Storm
Thorgerson, noto designer, scrittore e regista che fece capo al mitico studio
Hipgnosis, di cui i Floyd si servirono fin dall’inizio della loro carriera e le
cui opere hanno ricevuto ben sette nomination ai Grammy.
Arricchito da una prefazione di David Gilmour, Spirito e Materia è
un’occasione formidabile per rileggere la storia del gruppo partendo da un
aspetto parallelo alla musica, da quell’angolatura intrigante e forse un po’
trascurata della multimedialità a cui i Pink Floyd ci avevano argutamente
indirizzati già tanto tempo fa.
Il mago Leonardo, i conigli e i sospetti infondati
Sylvie Coyaud http://www.mcs.surrey.ac.uk/Personal/
R.Knott/Fibonacci/fib.html
C’è un ritorno di fiamma nei confronti del caro vecchio Leonardo Fibonacci,
l’uomo che ha trasformato il calcolo in un gioco da ragazzi quando ha
introdotto in Italia le cifre arabe e, insieme, il sistema decimale indiano.
Sospettavamo un anniversario, a torto: è nato di sicuro a Pisa, ma attorno al
1170-1175 ed è morto attorno al 1250.
In libreria, comunque, sono uscite tre nuove dichiarazioni d’amore. La
prima sta all’inizio di Concetti fluidi e analogie creative (Adelphi) di
Douglas Hofstadter. La seconda compare di sfuggita in L’ultimo teorema di
Fermat (Rizzoli) di Simon Singh, perché senza Fibonacci non ci sarebbe
stato Fermat. La terza, più inattesa, è Il mago dei numeri (Einaudi), un libro
per bambini scritto da Hans Magnus Enzensberger in cui Fibonacci è
doppiamente presente, nella veste del mago protagonista e in quella del
professor Bonaccione.
Sono libri affascinanti per motivi diversi - meno riuscito l’Enzensberger, la
sua fantasia non pare all’altezza, forse gli sarebbe venuto meglio in versi? -
bisognerebbe poterli leggere incrociandoli e rimontandoli seguendo i propri
umori. Ma con i testi di carta l’operazione non viene bene.
Con Internet sì, e così si può sperimentare di persona la magia dei numeri di
Fibonacci.
Fra i tanti siti che se ne occupano, questo qui suscita un senso di meraviglia.
Un professore dell’Università del Surrey, Ron Knott (sospettavamo uno
pseudonimo, dato che il knot, o nodo, è un tema caro ai matematici, invece
no), l’ha concepito per tutta la gente che ha bisticciato con la matematica da
piccola. Niente è dato per scontato, la progressione è semplice per cui si
riesce a non perdere il filo nonostante sbuchino da ogni parte personaggi,
fiori, architetture, sezioni auree, puzzles e tasselli, conigli e consigli utili per
farseli da sé. Le spiegazioni sono in inglese, ma le cifre non hanno bisogno
di traduzione. Saltano agli occhi le simmetrie e le successioni e le loro
strabilianti assenze. Anche i più impermeabili all’improvviso dovrebbero
riuscire a vedere perché certi numeri sono chiamati "buoni" e certe formule
"eleganti".
"Il mondo matematico ci rende felici perché è fatto di libertà, di verità e di
bellezze a prova di tempo" dice Imre Toth che in quel mondo è sempre
vissuto, e forse sopravvissuto, nelle carceri dove l’avevano rinchiuso i
fascisti rumeni come nelle ovattate stanze di Princeton.
Se vi viene il sospetto che Imre Toth esageri, andate da Ron Knott e ve lo
farà passare.
Appuntamenti
Presentazione e programma
Presentazione e programma
Wassily Kandinsky
Informazioni
L'Espressionismo tedesco
Informazioni
Informazioni
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer
Direttore responsabile:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Giampaolo Urso, Gianni Granata, Mario Calabresi, Ugo Volli, Paolo Palazzi, Aldo Grasso, Francesco Siliato,
Francesco Ranci, Claudia Winkler, Franco Cardini, Riccardo Di Segni, Carlo Bertelli, Roberto Caselli, Sylvie
Coyaud, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Valentina Pisanty, Massimo
Amato, Stefano Mazza, Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
I Forum
"Salvare" Golem
Ogni articolo di Golem può essere salvato ed esportato dalla rete. Le modalità
di tale operazione dipendono dal programma di navigazione che si utilizza.
Una volta esportato come file di testo, naturalmente, è possibile impaginarlo e
stamparlo utilizzando un qualsiasi programma di eleborazione testi.
Che altro? Da parte nostra, nulla. Ora tocca a voi nutrire Golem. Vi passiamo il testimone.
NOTE:
1)S. Freud (1920), Psicologia delle masse e analisi dell’Io, OSF 9, p. 290.
2)Su questi aspetti cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, OSF, 10 p. 602.
3)Per un’introduzione a questi temi cfr. J. Amati, S. Argentieri, J. Canestri,
La babele dell’inconscio (lingua madre e lingue straniere nella dimensione
psicoanalitica), Milano, Cortina 1990, prefazione di O. Kernberg,
introduzione di T. De Mauro; D. Meghnagi, Il padre e la legge (Freud e
l’ebraismo), pp. 83-86.
4)Cfr. W. R. Bion, Trasformazioni, Armando, Roma, 1973.
5)Cfr. S. Freud (1925), La negazione, OSF, 10; id. (1910), Osservazioni
psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto
autobiograficamente. (Caso clinico del presidente Schreber), OSF, 10.
6)Cfr. S. Freud, (1927), L’Umorismo, OSF, 10, pp. 507-508.
La "finzione" della Rai
Ugo Pirro Fra le intenzioni, tante volte illustrate, degli attuali dirigenti della Rai e la
pratica quotidiana c'è una contraddizione vistosa che pure nessuno sembra
scorgere. Da una parte, assistiamo al recupero del repertorio dei film italiani,
ai tentativi della dirigenza Rai di partecipare a ogni iniziativa tesa alla
rinascita del nostro cinema; dall'altra, alla conservazione, se non
all'esaltazione, di modelli narrativi di elementare fattura e concezione.
Esiste una zona d'ombra in cui ogni proposito di rinnovamento è ignorato e
di fatto tacitamente contraddetto. Mi riferisco ai programmi di "finzione"
che la Rai produce o fa produrre: i telefilm, le miniserie, vanno assumendo
sempre più la struttura narrativa delle telenovelas, anche nei casi in cui la
tematica che si propone intende essere alta ed edificante. Lasciamo pure
stare l'ovvia considerazione che un tema alto pretende una struttura in grado
di cogliere il senso e andiamo avanti. Come spiegare l'accettazione acritica
di un modello tanto arretrato sia tecnicamente che culturalmente?
Incredibile ma vero: la Rai ha istituito una vera e propria scuola in cui alcuni
tecnici americani e australiani, affiancati da sceneggiatori di scarsa
esperienza, insegnano a giovani sceneggiatori come ripetere all'infinito il
modello strutturale della telenovela, basato sulla ripetizione delle
informazioni, nella convinzione che lo spettatore televisivo abbia bisogno
della sublimazione dell'ovvio per legarsi appassionatamente alla vicenda,
per annoiarsi a sua insaputa. Ma non è tutto: affinchè nessuno osi
trasgredire, a tali corsi partecipano funzionari Rai i quali avranno poi il
compito di leggere, criticare, scegliere le sceneggiature che meritano il
finanziamento e la realizzazione, con la ovvia conseguenza che molti
produttori, pur di non perdere l'appalto, si adeguano. Quando fra i funzionari
Rai capitano delle persone intelligenti e disobbedienti si riesce a sfuggire a
quelle regole ferree, ma capita anche l'inverso, di trovarsi cioè, al cospetto di
persone la cui obbedienza è spesso causata dalla povertà immaginativa.
La conclusione è che si corre, nel silenzio, anche delle associazioni autori,
verso l'omologazione del gusto, all'ingabbiamento della creatività a favore
di un unico modello narrativo palesemente estraneo al nostro cinema, ma
anche a ogni ricerca di linguaggio, a un qualsiasi tentativo innovativo.
Questi insegnanti di telenovelas e affini, secondo quanto si sa, dividono il
film in tre atti che codificano la scansione degli eventi; così, la divisione in
atti, abbandonata persino dal teatro di parole, viene assunta dalla "finzione"
televisiva quale modello insostituibile. Non basta: la programmazione delle
riprese, dei tempi, dei fabbisogni produttivi determina, il più delle volte, lo
svolgimento del racconto e non viceversa. L'ovvia conseguenza è che la
produzione televisiva, finisce coll'assumere le forme proprie del lavoro in
serie, della "catena". Perfetto: la lavorazione seriale, superata nelle grandi e
piccole industrie, rispunta nell'industria dello spettacolo, nella fabbrica Rai.
Ciò che più inquieta, è constatare che nessuno sembra accorgersi dei
mutamenti del linguaggio, della celerità dei cambiamenti che si sviluppano
non solo nel cinema americano, ma anche nelle cinematografie orientali,
inglese, danese, ecc.
Ma c'è un altro paradosso che riguarda proprio il cinema hollywoodiano:
basta osservare con attenzione i film dei migliori registi americani per
scoprire che essi con un occhio seguono la macchina da presa e con l'altro
spiano il cinema italiano degli anni ‘60.
Non sono nostalgico del cosiddetto "cinema di papà", nè del neorealismo
che, in un certo senso è divenuto un ostacolo al rinnovamento del
linguaggio. Ciò che, infatti, manca al cinema italiano, del resto condizionato
dal modello televisivo oggi in auge, è proprio uno stile all'altezza dei tempi
che aiuti a penetrare e rappresentare una realtà così sfuggente e a ricercarne
il senso attraverso immagini significanti.
Qualcuno, infine, dovrebbe avvertire la dirigenza Rai che frequentare corsi
di sceneggiatura, quale che siano gli insegnanti, non significa acquisire
all'istante la capacità infallibile di giudizio sui copioni che sono chiamati a
leggere e giudicare. Ho sentito funzionari parlare con disinvoltura
imbarazzante di "linea narrativa" e imporre delle sciocchezze che, una volta
realizzate, restano sepolte negli archivi, a futura memoria. Non si tratta di
essere contro i corsi di formazione, ma di valutarne l'indirizzo, la validità e
il metodo; di sceglierne i maestri e gli allievi con un criterio serio e
trasparente. Modelli da studiare, da smontare, rinnovare, esistono: sono la
commedia all'italiana, il film di impegno civile. Se, poi, abbiamo bisogno di
guardare lontano dal nostro cinema, un corso su Hitchcock, su Wilder o su
Bergman e Renoir, pur se affiancato all'analisi comparata dell'opera omnia
Del Boca e di altri noti autori di telenovelas, potrebbe essere di qualche
utilità.
Il modello americano, o brasiliano, di cinema e televisione non c'è bisogno
di insegnarlo; è stato già introiettato, giorno per giorno, da milioni di
spettatori. Un compito arduo, ma indispensabile, consisterebbe, semmai, nel
disintossicare il telespettatore, passivamente costretto a ingoiare una
pietanza che non cambia mai.
Piccola enciclopedia della televisione italiana
Aldo Grasso Si cambia canale. E' l'unica cosa che cambia.
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Fanciullino Odori
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3. fare una lista delle mie possibilità di salvezza filosofica (questo elenco).
10. l’"Orrore".
18 ...
19. ...
20. ...
25. ...
26. ...
27. ...
29. ...
31. l’immortalità.
35. ...
36. ...
37. ...
39. ...
40. ...
41. ...
42. dada.
45. ...
46. ...
47. ...
48. l’autenticità.
49. ...
50. ...
51. ...
55. ...
...
...
...
153. ...
...
...
...
...
...
...
...
...
...
190. fare filosofia dopo Auschwitz; scoprire perché il più grande filosofo del
secolo era nazista.
191. Hiroshima; fare filosofia dopo Hiroshima.
195. avere o essere? Essere ciò che sono, essere ciò che devo, avere più
dimensioni, eccetera.
196. l’engagement.
...
...
...
...
...
...
372. sperimentare tutte le droghe, tutti gli stati alterati della coscienza.
...
...
...
...
...
...
419. l’apocalisse; la società dello spettacolo.
...
...
...
448. dimostrare che Dio non gioca a dadi; dimostrare perché Dio non gioca
a dadi; studiare il caos per vincere ai dadi.
...
...
...
500. fare tutte queste cose insieme; farne una sola (cambiandola di tanto in
tanto); non farne nessuna.
...
...
...
...
...
...
...
...
...
1000. perché?
1001. perché.
1002. ...
...
...
...
1.000.000. vivere.
...
...
...
...
...
...
z + 1. un’altra.
...
...
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...
...
...
...
...
...
Protagonismi
Carlo Bertelli Forse non c’è mai stato terremoto senza sciacallaggio. Forse non vi è mai
stata disavventura collettiva senza protagonismi. Qualcuno in un caffè sul
molo, leggendo del Titanic, avrà probabilmente dichiarato agli astanti che se
l’era sempre aspettato e spiegato a tutti perché quella nave non potesse
galleggiare. Un terremoto come quello che ha colpito Assisi non poteva non
sollecitare i pruriti dei protagonisti di sempre. Sgarbi doveva essere il primo
a entrare nella basilica, dopo essere sicuro di essere seguito dalle televisioni.
A fare che? Per dirci che la perdita di Cimabue era come se si fossero
perduti due canti della Divina Commedia? Avrebbe fatto meglio a dirci
subito quanta parte di Cimabue era perduto, dato che le notizie che
circolavano parlavano di perdita totale. E poi si sa bene che nessun canto
della Divina Commedia può essere perduto, neanche adesso che, nelle
scuole, si studia Dante con meno rapimento e reverenza d’un tempo. Vi è
infatti una insormontabile differenza fra la parola, che può essere trasmessa
anche oralmente, e la concretezza d’un dipinto antico.
Li ho lasciati nella forma originale senza alcuna forma di editing (ivi inclusi i refusi
dovuti all’uso di caratteri non facenti parte del set base dei caratteri ASCII nel corpo del
messaggio). Il tema credo meriti riflessioni ulteriori e mi pare utile fare una pausa per
dar conto del dibattito che si è sviluppato.
Oltre ai due pezzi di passati su Golem di cui sopra vi invito a rileggere il rapporto
strategico della Task Force on Archiving of Digital Information. Questo documento
costituisce ancora (almeno per lo stato del dibattito italiano) un punto di riferimento
importante per cogliere lo stato del problema. Altra fonte interessante di link
sull’argomento è la pagina della Library of Congress dedicata alle Digital Libraries.
Per i lettori su carta di questo articolo ricordo che possono contribuire al dibattito
spedendo i loro messaggi all’indirizzo arcade@horizons.it
Riccardo Ridi
Io non ho detto che di fatto la cultura analogica e cartacea abbia conservato TUTTI i
suoi documenti. Sostengo invece che quella cultura ci fa oggi considerare ogni
documento scritto del passato una fonte preziosa per la sua comprensione. Sostengo in
breve che la nostra cultura assegna un VALORE particolare alla conservazione dei
documenti scritti.
G Blasi
OK, sia la nostra cultura passata che quella presente che quella (presumo) futura,
attribuiranno un grande valore ai "documenti" e alla loro conservazione (fra l'altro lo
spero anche dal punto di vista "occupazionale", facendo di mestiere il bibliotecario).
Il primo punto e': cosa considerare "documento" e cosa no. A rigore potremmo
considerare "documento" (anche se non "pubblicazione") anche ogni appunto privato,
ogni lista della spesa, ogni post-it, ogni registrazione in segreteria telefonica (e volendo
potremmo anche registrare per intero OGNI conversazione telefonica), ogni e-mail
privato, ogni videoregistrazione amatoriale, ecc. Ovviamente conservare tutte queste
cose e' non solo impossibile pragmaticamente (lo e' sempre stato ma lo sara' sempre di
piu', vista la produzione crescente geometricamente) ma anche controproducente
informativamente (finiremmo per non trovare piu' nulla).
Si tratta di stabilire un discrimine fra cosa conservare e cosa no. Prima era piu' facile per
tanti motivi. Per esempio era piu' netta la differenza fra "ricchi/potenti" che potevano
eternare i propri archivi e "poveri/deboli", che magari non sapevano neanche scrivere,
producevano pochi documenti (testuali o grafici) e difficilmente riuscivano a proteggerli
e trasmetterli. Per esempio, con la stampa tipografica era piu' chiaro il confine fra
"documento pubblicato" e "documento non pubblicato" (il primo era manoscritto e il
secondo stampato). Adesso, una homepage personale sul Web a quale categoria
appartiene?
Il secondo punto riguarda il privilegio culturale accordato per secoli alla scrittura, al
testo, rispetto a documenti grafici, sonori, oggettuali, ecc.
Le immagini, ad esempio, si conservavano solo se belle e preziose, mentre per gli
stampati c'e' sempre stata una tendenza (ardua) alla completezza.
Per il suono poi per secoli non c'e' stato modo di conservare niente. Ora che i documenti
"non-testuali" hanno migliorato il loro status culturale, andranno conservati anch'essi
con la stessa attenzione dedicata in passato a quelli testuali (era questo, mi pare, uno dei
focus del suo articolo).
Allora, visti i punti 1 e 2 e visto che siamo tutti d'accordo che sarebbe bello conservare
(e, aggiungo - da bibliotecario - catalogare, altrimenti poi non si ritrova nulla) tutto, sara'
mai possibile farlo davvero? Questa, mi pare, la sua domanda.
Grazie per la risposta ulteriore. Ma allora rilancio ancora in cerca di stimoli: cosa pensa
del punto centrale del mio (primo) pezzo dedicato alle biblioteche multimediali e cioe' al
problema dei tempi di obsolescenza dei documenti digitali (almeno di parte di essi)?
Non si tratta qui di una differenza cruciale rispetto al passato? O si tratta di una
semplice illusione di prospettiva dovuta alla nostra posizione di osservatori di un
processo in corso ancora non ben definito?
Il punto per me davvero cruciale e' questo: l'idea di Nelson e' autocontraddittoria
esattamente perche' non include la freccia temporale dell'obsolescenza dei formati
digitali. In pratica presuppone un sistema informatico stabile (almeno) come il libro a
stampa nel suo rapporto con gli scaffali di una biblioteca. Io considero questo un grave
errore concettuale di Nelson a prescindere dal fatto che lo "spirito" di Xanadu ci piaccia
o meno.
Saluti
Giulio Blasi
Anche la sua (o tua, passiamo al tu?) ipotesi degli emulatori potra' aiutare, ma si trattera'
comunque di investire costantemente tempo e energie (quindi denaro) per mantenere
realmente accessibili i documenti.
Questa e' in effetti una grossa differenza rispetto all'era cartacea, in cui "bastava"
mantenere i libri lontani da luce, calore e umidita' per riutilizzarli anche solo una volta
al secolo.
Non sono invece d'accordo sulla tua critica a Nelson , perche' l'editoria elettronica in
rete (perche' in fondo di questo si tratta con Xanadu) e' radicalmente diversa da quella
su supporto portatile (in fondo piu' simile a quella tradizionale per tanti versi:
distribuzione, pagamento, copyright, ecc..) anche dal punto di vista della compatibilita'
dei formati. Per leggere un documento remoto in rete ho bisogno sempre dello stesso
modem, disinteressandomi se e' memorizzato su un hard-disk, un nastro, una cartuccia,
un cd o altro. Pensa poi a quanto ha fatto internet per lo scambio dei dati fra ambienti
operativi diversi.... Una volta che ho messo un documento html in rete, non e' piu' ne'
dos ne' mac ne unix...
Quindi il problema dell'obsolescenza digitale tocca molto di piu' i cd-rom che non
Xanadu o Internet (che comunque ha i suoi bei problemi).
Riccardo Ridi
Una volta che ho messoun documento html in rete, non e' piu' ne' dos ne' mac ne unix...
Quindi il problema dell'obsolescenza digitale tocca molto di piu' i cd-rom che non
Xanadu o Internet (che comunque ha i suoi bei problemi).
Riccardo Ridi
In sintesi: anch'io assegno (per varie ragioni) un privilegio alla rete rispetto al PC isolato
per cio' che riguarda la "durata" nel tempo degli standard. Pero' mi pare che a parte un
lieve privilegio non cambi molto la sostanza del problema che sollevavo a proposito
delle biblioteche multimediali. I documenti oggi disponibili in rete avranno seri
problemi di obsolescenza nel giro di qualche anno. Xanadu era pensata come una rete di
documenti "puri" ma la cosa e' resa piu' complicata dal fatto che quello che oggi evolve
e' il concetto di un ipertesto di documenti e applicazioni.
Ciao
Giulio Blasi
"i documenti HTML contengono extensions proprietarie, contengono codice non HTML
di vario genere [...] gli standard di programmazione cross-platform di Microsoft sono
completamente diversi da quelli di Netscape" [Giulio Blasi, 97-08-26]
Perche' tutti corrono in avanti per conto proprio, sperando di imporre de facto i propri
standard, invece di aspettare quelli de jure del W3C.
Padroni di farlo, ovviamente, perche' "il mercato e' il mercato" e perche' - come
giustamente dici - "perche' dovremmo attenderci dalla rete esiti diversi in termini di
standardizzazione rispetto a quelli che si sono evoluti per il PC?" ma spero che almeno
chi produce documenti "seri", che hanno pretese di durata, si attenga il piu' possibile
agli standard ufficiali, e per gli altri "speriamo bene".
"In sintesi: anch'io assegno (per varie ragioni) un privilegio alla rete rispetto al PC
isolato per cio' che riguarda la "durata" nel tempo degli standard. Pero' mi pare che a
parte un lieve privilegio non cambi molto la sostanza del problema che sollevavo a
proposito delle biblioteche multimediali. I documenti oggi disponibili in rete avranno
seri problemi di obsolescenza nel giro di qualche anno" [Giulio Blasi, 97-08-26] OK. Si
riaffaccia cioe' per i documenti elettronici (in rete e su supporti portatili) tutta quella
vasta serie di problemi tipici dei documenti cartacei (manoscritti e a stampa) e su altri
supporti non elettronici (microfilms, microfiches, ecc.) a cui i bibliotecari cercano
(senza mai riuscirci completamente) da secoli di opporsi realizzando due grandi utopie:
il "controllo bibliografico universale" (sapere esattamente cosa e' stato pubblicato nel
mondo) e la "disponibilita' universale delle pubblicazioni" (rendere accessibili a tutti -
copyright permettendo - tutti i documenti pubblicati in qualsiasi luogo, tempo e forma).
I documenti elettronici hanno proprie specificita' rispetto agli altri (ad esempio
l'obsolescenza delle tecnologie da cui siamo partiti) ma anche tante affinita'. Almeno dal
punto di vista concettuale credo convenga partire dalle affinita' per poi individuare le
differenze. Ad esempio, il concetto di biblioteca nazionale (un posto dove, per legge,
debba essere depositato TUTTO cio' che viene pubblicato in un determinato paese) non
scompare nel nuovo ambiente elettronico, ma va aggiornato ed adattato in modo
flessibile. La "biblioteca nazionale digitale italiana" potrebbe non essere collocata
fisicamente in un sol luogo ma essere decentrata (fra le varie universita? fra gli editori?)
e dovrebbe occuparsi fin da subito anche del problema dell'obsolescenza delle
tecnologie (con gli emulatori di cui parlavi, collegandosi a eventuali "musei delle
vecchie tecnologie", travasando periodicamente i dati dai vecchi supporti ai nuovi, ecc.).
Saremo in grado di affrontare questa sfida in un paese che non e' mai riuscito a gestire
decentemente neanche il proprio patrimonio bibliografico "tradizionale"? Ho dei forti
dubbi, ma dobbiamo assolutamente provare, per non uscire a priori dal novero dei paesi
civili.
Ciao, Riccardo
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)
PRELIMINARI
3. LA PAZZA FOLLA
Dalla metrò ne esce un fottìo
intorno a me è tutto un vocio.
Confondo ormai l’io con il non-io,
vertigine, vortice, xxxxxxxy
I. IL GENTILUOMO HI-TECH
IV. NATURA
Soluzioni
PRIMO LUCCHETTO:
1. InterNET;
2. NETturbini;
3. Turbini
O = InterO.
SECONDO LUCCHETTO:
1. CD-ROM;
2. DROMedario;
3. è Dario Fo;
4. foRESTA = CRESTA.
Paure collettive
Roberta Ribali Poco per volta ci sentiamo come circondati. Sono messaggi a volte sottili a
volte molto espliciti che ci trasmettono i media, con toni apparentemente
neutri o francamente allarmistici, a seconda dei contenuti.
Le ondate di paura iniziano come increspature insignificanti nel mare delle
informazioni. Possono riguardare sostanze di uso comune che
improvvisamente si scoprono "pericolose", per un avvenimento di cronaca o
per una scoperta scientifica, oppure si può trattare di un particolare gruppo
di diversi cui vengono attribuite potenzialità criminali o destabilizzanti. A
volte si tratta di abitudini antiche, cui non si fa caso per anni, e che si
ritrovano repentinamente demonizzate. Si legge che la fenolftaleina
contenuta in alcuni lassativi è cancerogena, quindi questi non si debbono più
usare. La moquette permette il proliferare degli acari, il bicarbonato nel
dentifricio corrode lo smalto dei denti, e così via. Lo sappiamo tutti. Ma per
alcuni, l’esistenza quotidiana diventa pian piano una specie di percorso ad
ostacoli, una gimcana fra paure, leggende metropolitane, rituali e divieti.
Certamente, un grandissimo meteorite può centrare la terra in ogni
momento, l’hamburger mangiato tre anni fa a Londra può provenire da una
mucca pazza, l’extracomunitario che ci segue ai giardinetti per venderci un
accendino potrebbe essere uno psicopatico sessuale.
All’interno di un flusso di informazioni veicolate da notizie-slogan in TV
l’elaborazione cognitiva è minima o assente: la notizia serve solo a
alimentare la quantità d’ansia e il livello di allarme. Un ragionamento critico
pacato non è né compatibile né possibile con la sostanziale irrazionalità di
una "leggenda metropolitana", ad esempio. Queste e altre paure ci
colpiscono a ondate, come delle formazioni reattive che giustificano ansie
collettive e comportamenti stereotipi ritualizzati.
Il malessere c’è ma è altrove: è la fatica di vivere, di relazionarsi con l’altro,
di venire a contatto con un mondo esterno percepito come ostile. Le paure
permettono di unirsi, di creare la tribù degli ansiosi, ci si riconosce e
rafforza reciprocamente, trovando nella paura un rifugio solidale. Se ne
parla per strada, sul tram, con i vicini: poche parole che permettono al
popolo dell’ansia di riconoscersi e rapidamente di rafforzare, attraverso
luoghi comuni e slogan veloci, lo stato di allarme. L’onda si allarga e si
intensifica: i media lo sanno, le audiences aumentano, ma in questo stato di
sofferenza collettiva forse ci sentiamo meno soli.
Dall'idea al film (Tano da morire)
Rossana Di Fazio Prima di tutto, una confessione: sono uscita prima della fine del film; è una
cosa che ho fatto, in vita mia, solo in un'altra occasione. Per Tano da Morire
sono uscita dopo il numero di canto, danza e verdura alla Vucciria,
riproposto spessissimo nei trailers.
Credo che non mancassero che una ventina di minuti alla fine, ma ero a
disagio, e molto stanca e, come me, il mio compagno di sala: ci siamo
trovati in corridoio, e ci siamo risolti per l'abbandono della sala.
Se ho deciso di scriverne lo stesso è perché credo che molti di voi abbiano
visto Tano da morire e, a parte i favori unanimi della critica che ho
verificato successivamente, sono veramente curiosa di conoscere il vostro
giudizio e le vostre impressioni.
Riconosco alla regista il coraggio e l'originalità dell'associazione fra il tema
e il genere, rispettivamente mafia e musical. E' un'associazione che una
volta innescata genera idee decisamente spettacolari e anche divertenti. E a
parte molto gusto "Almodovar", ho riscontrato, specie nella prima parte del
film, una spiccata attenzione per inquadrature peculiari e movimenti di
macchina interessanti, o soluzioni curiose, come quella dell'altare a forma di
Monte Calvario dedicato ad ogni morto che passa dal film.
E' vero del resto che è proprio del musical affrontare questo genere di
questioni e trovare, e inventare, soluzioni per mettere in forma il racconto
coniugando testo, musica, danza e immagine. Il musical è uno spettacolo
che deve anche sorprendere gli occhi, e questo spinge il linguaggio
cinematografico a inventarsi, a immaginare soluzioni meno "realistiche" o
prevedibili: a misurarsi, insomma.
Ero curiosa di vedere come il genere musical fosse messo al servizio di un
tema greve e serio come la mafia, quasi un tabù nella nostra cultura. Mi sto
facendo l'idea che a questo genere si stia guardando con grande interesse da
parte di registi molto diversi. Il ricorso alla musica (e alla danza) come
elemento strutturante esplicito, sembra favorire una distanza che consente di
mantenere un livello più teorico e meno diretto, di stabilire una non totale
coincidenza fra il racconto del film e il discorso del film, valga per tutti
Everyone says I love You, di Woody Allen, che organizza grazie, e
attraverso il genere, discorsi sull'amore fra le persone, sull'amore per il
cinema, e sull'amore per un cinema che non si potrà mai più rifare. Ma
questa è un'altra storia.
Non sono certo le idee di allestimento che mancano in Tano da morire; anzi,
forse ce ne sono troppe. Troppe canzoni, troppi balletti, troppi movimenti di
macchina, troppe trovate ammiccanti, troppo grotteschi i personaggi, i loro
volti e i loro vestiti. Invece che mostrare, semplicemente, la loro specialità,
vengono mascherati e coinvolti in performances che dopo i primi venti
minuti del film divengono del tutto prevedibili. Facce come le loro non
avrebbero bisogno di forzature (gli occhiali, i vestiti, le mossette) che,
piuttosto che caratterizzarli, li uniformano.
Una latitanza di sceneggiatura e di ritmo pesa inesorabilmente sul film,
nonostante un soggetto "forte". Alcune finezze registiche (il combattimento
nel teatro della Vucciria fra Tano e gli ammiratori della sorella) si diradano,
tanto che si direbbe che il film non sia finito, non sia rifinito. Da un certo
momento si accumulano senza ritmo danze, flash-back, canzoni e ritmi alla
moda e i personaggi vengono soffocati dalle maschere in cui sono costretti.
Vedi Anche:
cinema.it
Strano come gira il mondo
Roberto Caselli Uno scrive una canzone per onorare un mito giovanile, una donna bella e
fragile, un sex symbol massacrato dal successo e dalle ingerenze esterne di
mariti e amanti potenti e poi, quasi venticinque anni dopo, si ritrova a
reinterpretarla in una chiesa, cambiando appena qualche frase e qualche
nome, per commemorare un’altra persona, un’amica, un’ex principessa
dagli affetti altrettanto tribolati, morta in un modo assurdo. Nonostante il
consenso generale e il successo della nuova versione di Candle in the Wind
che ha portato la sola città di Londra a esaurire in pochi minuti le prime
duecentocinquantamila copie stampate, non si può dire che quella di Elton
John sia stata una dimostrazione di grande sensibilità. A parte le ovvie
differenze fra Marilyn Monroe e Diana Spencer, accomunate forse solo
dalle sfortunate vicissitudini amorose (ma quante altre donne hanno vissuto
e stanno condividendo la stessa sorte), non è carino dedicare davanti al
feretro di un’amica una canzone pensata e costruita originariamente per
un’altra persona. Passi il plagio di un ragazzino che a corto di creatività
dedichi all’amichetta, per stupirla, una poesia presa chissà dove, ma per un
autore celebrato e prolifico come Elton John, per una volta a corto di piglio
compositivo, sarebbe stato meglio un dignitoso silenzio, se non altro per non
dare adito a maliziose considerazioni commerciali. E’ vero che tutti i
proventi della vendita del singolo, a parte le spese di produzione della casa
discografica che verranno recuperate, saranno devoluti alle organizzazioni
benefiche a cui Lady Diana era ufficialmente legata, ma è anche vero che la
pubblicità ricavata è enorme e che insieme a Candle in the Wind, guarda
caso, finirà sul singolo anche Something About the Way You Look Tonight, il
pezzo di punta del nuovo album appena uscito. Una promozione eccellente
che la casa discografica certamente non ha sottovalutato. Con questo non si
vuole naturalmente puntare l’indice su Elton John che finisce per diventare
uno strumento come un altro del business, ma magari fare riflettere che tutte
le operazioni di questo tipo, benefit e Aid vari, se da un lato funzionano, con
la passerella delle grandi star, da encomiabili serbatoi di ossigeno per gente
bisognosa, dall’altra sono un impareggiabile veicolo di promozione, a costo
bassissimo, attraverso il mondo intero che nessun altro mezzo di
comunicazione potrebbe altrimenti garantire.
Che tempo fa?
Sylvie Coyaud http://www.globe.gov
Che dramma.
Informazioni
Presentazione e programma
Wassily Kandinsky
Informazioni
L'Espressionismo tedesco
Informazioni
Informazioni
Informazioni
Rivista on line fondata da:
Umberto Eco, Gianni Riotta, Danco Singer
Direttore:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Furio Colombo, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Valentina Pisanty, Massimo Ghirelli, Ugo Pirro,
Umberto Eco, David Meghnagi, Oliviero Ponte di Pino, Aldo Grasso, Carlo Bertelli, Giulio Blasi, Rossana Di
Fazio, Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Cinzia Leone, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
State bene.
Giustizia
Ugo Volli E' importante cercare di riflettere ancora sulla questione giustizia al di là
delle scaramucce politico-giudiziarie che occupano le prime pagine dei
quotidiani giorno dopo giorno. Si tratta infatti di una questione unitaria che
ovviamente ha grande importanza e che è soggetta a numerosi tentativi di
confusione e disinformazione.
I dati di fatto sono questi. La lotta contro il terrorismo, avvenuta per via
giudiziaria più che politica o militare, ha determinato la crescita di una
nuova generazione di magistrati di grande esperienza e professionalità.
Questo gruppo di magistrati e la successiva generazione che ha preso da
loro, hanno dimostrato nel corso degli ultimi cinque anni che è possibile
vincere per via giudiziaria pure la mafia e combattere efficacemente la
corruzione, anche quando essa occupa il vertice istituzionale dello Stato. Ma
tutto il personale politico sopravvissuto a Mani Pulite, tanto quello
direttamente impegnato a difendersi da accuse di illegalità e corruzione,
quanto quello non colpito da queste accuse, cerca ora di ridimensionare
l'indipendenza e la capacità di azione della magistratura, in particolare di
quella inquirente. Lo fa in parte per motivi personali, come è evidente per
Berlusconi e suoi; in parte perché - così dice - la magistratura ha "esorbitato
dai propri limiti" e perché "bisogna assicurare la parità fra accusa e difesa".
Entrambi questi argomenti vanno letti con molto senso critico. Una
magistratura decisa a reprimere la corruzione e la criminalità organizzata
non intende con ciò affatto prendere il posto del potere legislativo ed
esecutivo. Li può costringere però a stare alle leggi (che essi stessi hanno
scritto), per esempio a non finanziarsi in maniera scorretta e a evitare
contatti ambigui con la criminalità organizzata. Queste forme di controllo
sono però intollerabili al potere politico e amministrativo, che ha cercato
spesso nel corso dell'ultimo anno di affrancarsene; per esempio, con la
"riforma" che ha praticamente eliminato il reato di abuso d'ufficio, con i
ripetuti tentativi di depenalizzare il reato di finanziamento illegittimo, con il
testo della Bicamerale, tutto organizzato per rafforzare il controllo politico
sul Consiglio Superiore della Magistratura; da ultimo con la famosa riforma
dell'articolo 513, che renderà molto difficile l'uso dei pentiti nei processi di
mafia. La ragione di fondo di queste mosse è ovvia: tutto il Parlamento
intende evitare che possa ripetersi un fenomeno come Mani Pulite il che,
significa che prevede un certo grado di inquinamento "fisiologico" del
sistema, tanto con la corruzione che con la mafia, e che intende evitare che
esso sia combattuto.
Anche la famosa "parità" di accusa e difesa è uno slogan che va letto
criticamente. Non esiste nessuna parità logica fra chi rappresenta l'intera
società e il singolo cittadino accusato di un reato. In caso contrario l'accusa
non sarebbe pubblica e il diritto penale sarebbe solo una sezione di quello
civile, come nelle società senza stato, regolate da faide ordalie e duelli. C'è
un bisogno di garanzie, naturalmente, e per questo procuratori della
Repubblica accusano e non condannano né rinviano a giudizio, i gradi di
giudizio sono tre, eccetera eccetera. Ma non vi è nessuna ragione per cui un
magistrato inquirente, il cui scopo è la difesa della legge, debba essere
"pari" all'avvocato del mafioso, il cui legittimo scopo è quello di evitare, con
qualunque cavillo, la condanna del suo assistito. Semmai potrebbero essere
pari difesa e accusa privata (parte civile). Dunque chiedere questa parità
significa semplicemente volere una pubblica accusa che indaghi di meno,
magari che stia sotto il controllo di parte del governo, riducendosi quindi a
un ruolo privatistico.
E i cittadini? Non avranno anch'essi interesse innanzitutto a questa parità,
essendo potenziali futuri accusati? Intanto va detto che, se leggiamo le
statistiche, essi sono più probabili future vittime di un reato. Ma il punto
principale è un altro. I cittadini hanno un interesse primario e personale per
la giustizia, anche se non sono né vittime né accusati. Per capirlo, basta
guardare l'impressionante sovrapposizione fra le regioni del Sud
abbandonate alla criminalità organizzata (Sicilia, Calabria, Campania, in
parte Puglia) con la parte del paese più economicamente depressa. Vi è un
Mezzogiorno capace di decollo economico, ma è esattamente quello in cui
non ci sono la Mafia e la Camorra.
Per quanto riguarda la corruzione, essa colpisce un interesse comune
fondamentale: l'imparzialità dell'Amministrazione Pubblica. Questa è un
bene molto raro nel paese delle raccomandazioni. E' anche difficile
distinguere la corruzione vera e propria da più o meno innocenti
raccomandazioni, quelle su cui si è costruito il potere di tanti notabili della
politica; e questo spiega in parte il rancore della corporazione dei politici.
Ma è interesse generale che queste pratiche siano limitate e represse, in
particolare quando alimentino il gioco politico. E' necessario che la vita
politica democratica sia attentamente controllata da check and balances
(controlli e contrappesi) perché non degeneri nell'oligarchia e nella
tirannide, come spesso è accaduto. Opponendosi con un referendum al
finanziamento pubblico dei partiti, negando più di recente il loro appoggio
alla legge del 4 per mille che aggirava quel referendum, appoggiando con
entusiasmo Mani Pulite, i cittadini hanno espresso una diffidenza per il
sistema politico che dovrebbe far riflettere.
Mentre il Polo era dall'inizio dalla parte degli imputati di corruzione e reati
analoghi (semplicemente perché era stato fondato dal più ricco e potente di
tali imputati), l'Ulivo aveva raccolto le speranze di chi voleva la legalità, la
repressione della criminalità organizzata e della corruzione, l'imparzialità
dell'amministrazione, una giustizia efficiente e combattiva. Ora è evidente
che restano delle differenze fra Polo e Ulivo, ma un accordo sulla
limitazione dell'attivismo della Magistratura è stato raggiunto, proprio sulla
base degli interessi corporativi del ceto politico cui ho accennato e delle
convinzioni che gli corrispondono. Insomma, dietro la posizione della
sinistra non vi è solo il costo dell'inciucio con Berlusconi: vi si aggiungono
una cultura giacobina del comando assoluto della politica, una cattolica
dell'indulgenza nei confronti del peccatore, specie se è "uno di noi",
un'antica abitudine a rispettare i poteri reali, anche se magari criminosi.
Questa posizione così radicata danneggia profondamente il paese (cioè tutti
noi), perché ridà spazio e possibilità di difesa alla Mafia e alla corruzione.
Combatterla è importante. Soprattutto in seno all'Ulivo, che vive una
contraddizione importante fra i suoi interessi di gruppo dirigente e
governante (cui convengono le mani libere) e quelli del suo elettorato, che
ha bisogno della legalità. Queste contraddizioni spiegano le oscillazioni e le
contraddizioni dell'Ulivo. E' essenziale continuare a fare pressione su di
esso, almeno per limitare i danni.
Caro Palazzi
Fabrizio Tenna Sono tre i temi centrali da approfondire, anche se in parte Palazzi li ha
toccati nei suoi articoli precedenti.
● dare ai privati
● contiene al suo interno anche il tema della privazione, qualcosa che
prima era della collettività diventa privato
c)"Che non è prevista alcuna operazione per limitare la spesa per interessi
se non attraverso una politica di rigore economico che favorisca
l'abbassamento del tasso ufficiale di sconto."
Non è prevista perché non credo esista. Le frontiere sono aperte (ai capitali)
e non c'è nulla da fare.
"Tutto questo a parer mio andrà a beneficio solo delle imprese (che stanno
richiedendo questa politica di tagli unitamente alla flessibilità del mercato
del lavoro)."
Probabilmente è vero nel breve periodo. Nel lungo la scommessa è che
questa politica della spesa pubblica possa stimolare l'occupazione senza
passare attraverso una flessibilizzazione selvaggia del mercato del lavoro.
Non è detto che ciò avvenga in quanto l'occupazione non si inventa (ma su
questo ho scritto le mie opinioni su due interventi su Golem).
Le lettere nascoste delle due ics iniziali di questo Autogolem sono uguali
alle lettere nascoste dalle due ipsilon finali: assieme compongono un
accorciativo che si usa per alcuni nomi maschili (se fossero M,I,- e non lo
sono - il risultato sarebbe Mimì, cinematografico metallurgico; se fossero T,
O, e continuano a non esserlo - il risultato sarebbe Totò). Le altre sequenze
di x o di y si ripetono, di strofa in strofa.
L’automobile è a rate
In ufficio non andate
perché al sole vi scottate.
Questa dunque è x’xyyyyy
2. CHI LI HA VISTI?
3. TECNOGALANTERIA BELGA
5. TRESETTE
Se di coppe non ne ha
e finì le spade già,
o bastoni scarterà
oppur xxx xx xxyy
6. POLITICO CONCILIANTE
Soluzioni
1. L’Estate;
2. state BENE;
3. BENElux;
4. l’uxORICIDA;
5. ORI CI DARà;
6. raMO D’ULIVO
7. MODULI Volanti;
8. l’antiCA ROMA;
9. CARO MAstella;
10. stella COMETA;
11. COME TAle
(=Lele)
Andare dallo Psicoterapeuta
Roberta Ribali E’ una decisione fondamentale: si tratta di investire tempo, fatica, emozioni
e denaro su ciò che di più importante abbiamo, noi stessi. Eppure, anche
quando ne sentiamo la necessità - a volte preferiamo mascherarla da
curiosità - manifestiamo resistenze di ogni genere, che vanno dalla
banalizzazione del nostro malessere alla rimozione, dall’adozione di rimedi
ingenui e semplicisti, come spendere in nuovi abiti, auto o computer, alle
decisioni drastiche e violente, come abbandonare una persona amata o un
corso di studi. Ma lo star male aumenta ad ondate: sotto forma di ansia
sottile che pervade ogni momento della giornata, o di crisi di panico e di
fobie, o di depressione del tono dell’umore, di malinconia che ottunde ogni
entusiasmo e gioia di vivere e che spegne anche il corpo e i suoi piaceri.
Trovare uno psicoterapeuta adatto con cui focalizzare correttamente i
problemi e cercare le soluzioni è certamente la via più ragionevole: ma un
malinteso senso del "fai da te" porta a perdere tempo e a impaludarci sempre
più in noi stessi. I più fortunati possiedono un amico - o un’amica - con cui
si può parlare, ed è già un bene prezioso. Ma questi dialoghi si risolvono in
genere con una serie di consigli affettuosi che lasciano il tempo che trovano.
A volte, è proprio l’amico che suggerisce di rivolgersi a uno che lui stesso
conosce, con cui ha avuto una buona esperienza, diretta o indiretta.
Questa è una valida strada, perché già si parte con un atteggiamento di
fiducia indotto, che aiuta a maturare una decisione e a compiere il passo di
telefonare per un appuntamento. A volte si preferisce fare tutto da soli,
magari guardando le Pagine Gialle o telefonando a caso a qualche
Associazione. In questo caso è opportuno prendere delle precauzioni,
chiedendo ampie informazioni, che è dovere di un serio psicoterapeuta
fornire: che tipo di laurea ha, se cioè è psicologo, psicologo medico o
psichiatra, che tipo di lavoro svolge, se opera privatamente o in qualche
struttura. Il lavoro in uno studio privato è naturalmente più costoso di quello
offerto da un Consultorio Pubblico. Nel pubblico si viene a contatto con
psicoterapeuti qualificati, che però lavorano inquadrati nelle maglie di un
servizio che necessariamente prevede priorità, orari prestabiliti e rigidi, turn-
over degli operatori: disponibilità insomma in qualche modo limitate, che
vanno prese per ciò che possono dare. Il fattore di importanza reale è
comunque la persona dello psicoterapeuta: che operi nel pubblico o nel
privato, deve comunque darci la sensazione di poter lavorare bene insieme.
Non dobbiamo stupirci se, a volte, è necessario girare alcuni studi prima di
trovare la persona che fa per noi: qualcuno che magari ha tutte le carte in
regola e ci è stato ben introdotto può non ispirarci quella sensazione di poter
collaborare reciprocamente che è alla base del successo terapeutico. Non sto
assolutamente parlando di simpatia o antipatia: il senso del lavorare bene
insieme è tutt’altra cosa. A volte un terapeuta che va bene per noi può essere
taciturno, o di aspetto modesto, o di modi un po’ ruvidi; ma la domanda che
ci dobbiamo porre, dopo il primo colloquio, è solo una. Cioè: con uno -o
una- così io me la sento di aprirmi e di procedere nel mio mondo interiore?
Anche il fatto che il terapeuta possa essere uomo o donna è sostanzialmente
irrilevante, salvo casi particolarissimi; l’importante è che si tratti di una
persona esperta e sostanzialmente per noi positiva, che permetta l’incontro
intellettuale ed empatico, al di là di inevitabili discrepanze culturali e
ambientali. Decidere di consultare uno psicoterapeuta è qualcosa che, a
volte, già basta a far stare meglio; la prospettiva di essere ascoltati a
trecentosessanta gradi senza essere oggetto di giudizio o rimprovero è un
pensiero che dà speranza e rassicurazione.
Oggi questa prospettiva capita un po’ a tutti, almeno una volta nella vita:
difficoltà con l’ambiente o con la scuola, problemi di coppia o di identità
sessuale, depressione, paura ad affrontare un’esistenza sempre più
complicata. Ed infine i disturbi e le malattie psicosomatiche, che sono un
complesso linguaggio attraverso il quale il nostro corpo traduce i nostri
disagi profondi. Tutti questi segnali di malessere ci sono amici,
paradossalmente, e dobbiamo dare loro retta. Crisi d’ansia o di depressione
sono importantissimi e utili campanelli d’allarme che dicono che c’è
qualcosa di molto importante che non va in noi stessi, e che ce ne dobbiamo
occupare al più presto, senza nascondere la testa sotto la sabbia
trangugiando tranquillanti e lasciando che tutto vada avanti. Un
cambiamento a volte è indispensabile per ritrovare la propria armonia
interiore perduta ma è spesso così difficile che è necessario un sostegno
qualificato e amico per smantellare resistenze e retaggi conservatori.
Investire in noi stessi, sempre, ma tanto più quando occorre, fermarsi a
riflettere, ridare spazio alle priorità fondamentali: possiamo anche servirci di
un buon psicoterapeuta, senza pregiudizi e con un po’ di pragmatismo.
Postazioni (Trees Lounge)
Rossana Di Fazio A me piace l'estate; mi sembra che, nonostante tutti gli sforzi per ridurla ad
una parentesi sempre più esigua di vacanza forzata e di malata iperattività
alternativa, luci, colori e temperature, espressioni di una Natura contaminata
finché si vuole, impongano al corpo andature diverse, ritmi adatti a
sopravvivere, un certo armonioso torpore.
Non sto venendo meno ai miei compiti, perché è soprattutto di un modo di
rappresentare e vivere il Tempo che intendo scrivere.
Me ne offre l'occasione il film ben diretto e molto ben interpretato da Steve
Buscemi, Trees Lounge (in italiano Mosche da bar : ogni commento mi
sembra superfluo), presentato lo scorso anno e in programmazione da
qualche settimana in Italia.
Ha l'aspetto di un film leggero nelle forme, benché decisamente
drammatico, come sanno essere certi film indipendenti, la cui freschezza
sembra inversamente proporzionale alla dovizia di mezzi e denari.
Il film è ambientato in una piccola città americana; si prende, nel corso del
film, una certa confidenza topografica con questo posto e questa è una
sensazione curiosa, perché è difficile che questa familiarità con lo spazio
percorso dai personaggi sia rilevante in un racconto; ma il giro che Tommy
compie fra i meccanici e il bar, e poi quello che ripercorre con il furgone dei
gelati mostra sempre le stesse strade e villette, e prospettive sempre uguali
che fanno di un luogo una provincia, un posto finito, concluso, facile da
conoscere. Non c'è nessuna avventura nello spazio, né direzione da
esplorare.
Mi è venuto in mente un film che ormai ha più di vent'anni, bellissimo,
L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, molto diverso, ma ambientato in
una analoga cittadina, circoscritta, un'isola di spazio e di persone , senza
folle, senza persone da scoprire e senza Tempo.
Nel suo ritratto di provincia Bogdanovich delegava ad un bianco e nero
rigorosissimo (e allora niente affatto inflazionato) la restituzione di un
effetto anni cinquanta molto accentuato nel quale il Cinema e il Racconto
combaciavano perfettamente, trovando una loro unità drammatica e
narrativa straordinaria. Sembrava una specie di incantesimo.
In Trees Lounge sono pochi gli elementi che consentono di datare
perfettamente il racconto, come se questo non fosse molto importante. C'è
piuttosto un certo gusto nel mischiare le carte, nell'introdurre musiche molto
datate (il juke box alimentato dal vecchio Billy manda solo vecchie canzoni)
o certi abbigliamenti eccessivi delle avventrici del bar, o nel sottolineare
l'assenza, nel bar, di uno straccio di videogioco. Lo stesso furgone dei gelati
di Zio Hal, che Tommy prenderà in consegna, sembra un mezzo di altri
tempi, quelli che la giovane Debbie rievoca ricordando Il mago di Oz, e che
i bambini in attesa del gelato agli angoli della strada non devono sentire
come troppo diversi dai propri.
Non è solo l'eclettismo ammiccante e citazionista a cui siamo molto abituati:
credo che questa ricerca di varietà e identità temporali sia fondamentale per
una specie di poetica, che esprime una spiccata sensibilità per una
dimensione ampia del Tempo, una specie di disponibilità a sentirne, nel qui
e ora, l’espansione, la compresenza di passato e futuro. E' un effetto fin
troppo evidente nella simmetria e coincidenza dei volti del vecchio Billy e
del giovane Tommy, ritratti che insistono sullo schermo rispettivamente
all'inizio e alla fine del film, e rimarcato da una specie di identità
fisiognomica fra i due personaggi che può disorientare lo spettatore.
Ma sarebbe un errore non cercare nell'alcool, e soprattutto nel bar come suo
sacrario, il centro di questo discorso sull’esperienza del Tempo.
Alcool, fumo, eroina: Trees Lounge, Smoke, Trainspotting sono tutti film
indipendenti e piuttosto importanti di quest'ultimo anno. In forme, e a gradi
molto diversi, hanno proposto in primo luogo una situazione, una postazione
da cui guardare il mondo: il negozio, il bar, la stanza dove ci si fa, dalla
quale si prendono o si accorciano le distanze con tutt’altre accellerazioni.
Bene, a me pare che tutte queste prospettive abbiano anche saputo proporre
senza moralismi una visione asciutta e dialettica, e non solo nichilista di
queste tre dimensioni esistenziali.
In Smoke, Trees Lounge, Trainspotting a variare è il grado drammatico del
racconto, non la centralità del rito e la conoscenza che esso custodisce.
Questi paradisi artificiali che divengono oggetti e organizzatori del racconto
servono anche in quanto metafore del Tempo vissuto, di cui il cinema si
appropria.
"Scegliete di marcire o scegliete la vita", propone il narratore di
Trainspotting, ma in quel marcio sembra esserci molta verità e nell'alcool la
tentazione sublime di non cedere all'azione, saggia o stupida che sia. Quella
sensazione del tempo ampia, multipla, che ho provato a descrivere, sembra
avere come condizione una certa immobilità. Ma movimento e inazione
sono anche qualità del discorso cinematografico. Questo cinema, anche
produttivamente diverso, impone altri ritmi alla narrazione, dettati da regole
diverse dall'azione rutilante e incalzante della grande produzione
commerciale, che teme la stasi come la morte e deve descrivere un Tempo
sempre pieno, e muoversi continuamente per trasformare ogni vuoto in
soluzione spettacolare, dando vita ad un’ unica e sfaccettata dimensione di
un Presente interminabile: anche questo è un modo di esorcizzare il niente,
il pericolo, l'horror vacui; forse per questo quando deve mettere in scena il
Tempo che passa ricorre volentieri, e con una certa commovente ingenuità,
alla maschera della vecchiaia, che appare sempre posticcia e inverosimile.
Come se il sentimento del Tempo fosse questione di trucco.
Vedi Anche:
http://www.treeslounge.com/ontap.html
Omaggi
Roberto Caselli Pochi mesi fa lo davano per spacciato, ora esce addirittura il primo disco
della sua nuova etichetta: la Egyptian Records. Dylan, come al solito,
spiazza tutti perché nessuno pensava che il progetto fosse così prossimo a
realizzarsi. Sorprende anche la scelta, un vero atto di umiltà, che affida
l’inaugurazione della label ad un disco-tributo dedicato a Jimmy Rodgers, il
padre della country music, piuttosto che a un proprio lavoro. Certo Rodgers
non è un personaggio qualsiasi, da lui comincia a evolversi quella musica
che passando attraverso la Carter Family e soprattutto Woody Guthrie,
segue un filo diretto che porta agli anni sessanta e in particolare al giovane
Dylan, allora folksinger poco più che ventenne e di belle speranze, che dal
Greenwich Village newyorkese, parte alla conquista del mondo.
Jimmy Rodgers nacque a Meridian, nel Mississippi, nel 1897, il suo lavoro
era quello di frenare e deviare i treni sulla strada ferrata della sua città,
mestiere che lo mise in contatto con una vasta schiera di hoboes, quei
vagabondi alla continua ricerca di lavori avventizi che si spostavano da nord
a sud dell’America viaggiando in modo clandestino sui vagoni merci. Fu
grazie a loro che venne a contatto con i blues, i work songs e le tecniche
espressive della musica del Sud; imparò a suonare il banjo e la chitarra e fu
presto in grado di elaborare uno stile musicale molto particolare che aveva
in sé i germi della musica nera, ma anche il fascino avvolgente della musica
hawaiana, spesso tanto dolce da apparire mieloso, ma anche ricco di
struggimento o nostalgia. I testi delle sue canzoni non erano particolarmente
significativi per il periodo storico in cui furono scritti, infatti, nonostante i
guai della Grande Depressione, Rodgers preferì sempre centrare la sua
attenzione sugli aspetti più retorici e patetici che ne derivavano, dando
un’idea piuttosto grossolana della realtà. Ben presto si ammalò di
tubercolosi e l’inizio della carriera discografica gli risparmiò fatiche
insostenibili. Incise il suo primo disco nel 1927 e, nonostante la scomparsa
prematura avvenuta nel ’33, riuscì a effettuare parecchie registrazioni di
successo che eseguì spesso con il classico uso dello yodel. Jimmy Rodgers
ha avuto un’influenza determinante nello sviluppo successivo della musica
country e gli artisti delle generazioni successive gli hanno sempre conferito i
giusti onori che sono culminati nella deposizione di una lapide nella
Country Music Hall Of Fame di Nashville. Più recentemente, con la
raffigurazione della sua effige su un francobollo emesso dalle poste
americane, c’è stato anche il riconoscimento ufficiale della sua opera. Ora a
settant’anni dalla nascita, Bob Dylan dà il suo contributo personale al
ricordo del grande maestro concependo questo tributo in cui figurano
quattordici musicisti che interpretano altrettante canzoni del repertorio più
famoso di Rodgers. Hanno dato il loro assenso a questo progetto anche
personaggi del tutto impensabili come Bono degli U2 che per l’occasione
ritorna all’acustico per una splendida ballata, Dreaming With Tears in My
Eyes, e Jerry Garcia che ha registrato insieme a David Gisman il suo pezzo
poco prima di morire. Scontata invece la partecipazione degli artisti del
nuovo country come Steve Earl, Dwight Yoakam e Mary Chapin Carpenter
o di quello tradizionale come Willie Nelson. Tra i molti altri figurano anche
Van Morrison, John Mellencamp, Aaron Neville e naturalmente lo stesso
Dylan che si mette in evidenza con My Blue Eyed Jane.
Le anime delle nuove generazioni cercano e spesso trovano corrispondenza
con quella del vecchio Jimmie, un’operazione mediata da un evento
commerciale, ma dettato sicuramente anche da tanto affetto.
Statistica
Sylvie Coyaud http://nilesonline.com/stats/index.shtml
Giugno 1997. E’ a Milano per il convegno Futuro del sapere, futuro del
lavoro, organizzato dall’agenzia Hypothesis, Burton Richter, un fisico molto
simpatico che ho conosciuto cinque anni fa. Ha scoperto una nuova
particella e ha ricevuto il premio Nobel per la Fisica nel 1976, quando aveva
45 anni. Dal 1984 dirige lo Stanford Linear Accelerator Center in
California. In questo momento è felice perché sta costruendo una grandiosa
macchina per produrre degli anti-mesoni B, una "fabbrica di anti-materia"
che dovrebbe funzionare a regime nell’estate del 1998.
Dopo che mi sono informata del suo lavoro si informa lui del mio e siccome
è gentile, fa di più. Suggerisce dei temi da trattare, dei libri da leggere, dei
suoi colleghi da interpellare, e raccomanda:
— Cerca di familiarizzare i tuoi ascoltatori con il ragionamento statistico. Se
vogliono agire da cittadini pensanti, devono capire quello che le statistiche
dicono e non lasciare che siano gli altri, i politici ma anche gli scienziati, a
interpretarle al posto loro.
— Eh sì, lo so.
Lo so davvero. La statistica si trova nella cassetta degli attrezzi di qualsiasi
scienziato. Esiste in tante versioni, dal semplice cacciavite di cui parla
Burton Richter al Black & Decker multiuso, più difficile da montare
dell’intera missione Pathfinder.
— Devi fare qualcosa.
— Ci proverò.
Per radio, ancora non so come farò. Per Golem, no problem.
Un sito web spiega in un inglese terra terra la media, la mediana, la
percentuale, la deviazione standard, il margine d’errore - sottotitolo "come
non farsi fregare dai sondaggi" - l’analisi dei dati, la rappresentatività di un
campione. C’è una biografia di Robert Niles, giornalista scientifico che va
congratulato per questa sua iniziativa di salubrità pubblica. E una
bibliografia concisa ma eccellente, alla quale io aggiungerei soltanto un
saggio emozionante: Stephen Jay Gould, The Median Isn’t the Message.
Gould racconta che, malato di cancro, gli avevano dato ancora otto mesi da
vivere, la mediana del suo caso. Sapere di statistica gli ha letteralmente
salvato la vita. In italiano La mediana non è il messaggio è nella raccolta
Risplendi grande lucciola pubblicata da Feltrinelli, Milano 1994, 45.000 lire.
Appuntamenti
Presentazione e programma
Direttore:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Paolo Palazzi, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Beppe Severgnini, Ugo Volli, Carlo Bertelli,
Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio, Cinzia Leone, Fabrizio Tenna, Ugo Pirro,
Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
Cari lettori, lo sappiamo (e ce lo ricorda anche uno dei nostri collaboratori in questo stesso numero) che i
tentativi dell’uomo di dare una scansione al tempo riposano su assunti assolutamente relativi. Tuttavia ci
sentiamo di festeggiare questo primo compleanno di Golem da una parte perché siamo consapevoli che tutto il
mondo riposa su assunti relativi, dall’altra perché sentiamo questo Golem come una creatura vivente, nostra e
vostra, frutto del pensiero e dell’opera dei collaboratori, dei lettori, della redazione.
Al piccolo Golem (e ai nostri lettori), come è d’uso, abbiamo fatto due regali. Il primo è uno strumento di
conoscenza: un sistema di indici che permette di individuare agevolmente tutto ciò che su Golem è stato
pubblicato su un certo argomento o da un certo autore. Il secondo è più un regalo a chi ancora non naviga in
Internet: questo numero di Golem, infatti, sarà presto disponibile anche su carta, nelle librerie Feltrinelli.
Giustizia, educazione, telecomunicazioni, giornalismo, occupazione, welfare, riflessioni sul nuovo millennio
sono solo alcuni degli argomenti che Golem 12 propone.
Augurandovi ogni bene, attendiamo vostre notizie.
Messaggi
Furio Colombo Qualcosa cambia, ma cosa? E’ la troppa velocità o la troppa lentezza del
cambiamento che ci stordisce? Che senso ha una giornata, la durata di una
giornata, la scansione di una giornata, di un minuto, di un’ora o la sequenza
degli anni?
Per esempio, il calcolatore non vede il 2000 e tutti i computer del mondo
dovranno essere riprogrammati a un costo immenso, altrimenti rifiutano di
entrare nel nuovo millennio. Non sarà un segnale? E se tutti fossimo intenti
a guardare dalla parte sbagliata? Se il lavoro fosse venuto improvvisamente
a mancare come manca il latte alla madre quando non è più necessario per
sopravvivere?
Siamo sicuri di dover essere pagati per un lavoro - probabilmente sempre lo
stesso - che deve durare fino a che siamo stanchi e andiamo in pensione?
Non è una notizia curiosa questa che dice: non si va più in pensione alla tale
età, si va alla tal altra, come se fosse l’ora per andare a dormire dentro una
istituzione? Se la vita sociale avesse cominciato a darci segnali che non
comprendiamo, come ha fatto invano per secoli la vita della natura, lo
sguardo degli animali, l’incupirsi e lo schiarirsi dei cieli, l’alzarsi e
l’abbassarsi dei mari?
Che senso ha una giornata quando comincia? Serve a muovere altri passi di
un lungo cammino? Quale? Per andare dove? E’ ragionevole sospettare che
lo scopo di quella giornata (andare, tornare, trovare, incontrare, imparare,
dire, far sapere, comunicare) non sia che un falso scopo, come una busta
chiusa da aprire in volo, secondo la disciplina imposta ai piloti del B 52
durante la guerra fredda, in modo che nessuno possa sapere e dire prima del
tempo quale è il vero obiettivo? Mi stanno mandando messaggi? Chi? Gli
schizofrenici sostengono di riceverli, i mistici sentono le voci, entrambi
sacrificano la propria vita e quella degli altri per rispondere alle voci. Noi
(molti di noi) li consideriamo pazzi. Lo sono davvero o hanno dei terminali
più affinati dei nostri e sentono ciò che noi non sentiamo (o facciamo finta
di non sentire)?
Quanti di noi considerano imperfetta e inadeguata la vita di coloro che sono
altrimenti dotati ovvero portatori di handicap? Lo sono davvero? Che cosa
sappiamo della normalità noi che veniamo da un mondo persuaso che la
forza sia la chiave di tutte le soluzioni? Quale forza? C’è forza in un
pensiero, forza che muove le cose e le cambia, le piega, le trasforma? Un
pensiero d’amore? Una ossessione, una ripicca, una vendetta, un amor
proprio negato? Dov’è che si coordinano tutti i miei nervi fino a diventare
un sistema perfetto di comunicazione che però a me sembra vuoto, pronto
per funzionare ma senza una ragione per farlo?
E’ salute fisica, salute mentale, oppure un misterioso liquido detto "spirito"
che mette in movimento una macchina pronta e passiva che non ha suoi
progetti ma può solo riceverne? Da chi? C’è qualcuno o qualcosa che a mia
insaputa mi comunica perché amare, come organizzare il flusso dei miei
pensieri e verso che cosa? La fantasia è una distrazione, una febbre, un
gioco fine a se stesso o una macchina di rivelazione che non posso mettere
in moto e non posso fermare a costo di restare per giorni davanti a pagine
bianche, per notti inseguito da immagini che rifiutano di fermarsi? Quando
immagino, vedo? In che senso ciò che immagino non esiste, perché non
esiste, chi lo dice? Non saremo in mano a ingegneri un po’ aridi che ci
parlano continuamente di fini concreti perché hanno paura di ciò che non si
tocca con le mani?
Ma ciò che si tocca con le mani esiste? Se esiste, che cosa dimostra? Che mi
posso fidare solo di ciò che le meni constatano? Non è troppo poco? Perché
qualcosa mi fa pensare che accanto a qualcosa di grande ci sia qualcosa di
ancora più grande e mi impedisce di credere che sia tutto qui?
Si chiama fede oppure è la memoria passata e semisepolta di sequenze
naturali la cui traccia è andata smarrita? Che cosa è la salute, uno stato
normale (normale come?) o un semplice stato d’attesa fra alterazioni e
cambiamenti che sono messaggi, linguaggi, di fronte a cui siamo ciechi?
E di cosa mi avverte il dolore? Perché uso la stessa parola per raccontare
l’avvertimento che ricevo dai terminali nervosi e per dire il senso di
squilibrio, disorientamento, pena, che non hanno alcuna sede nel corpo, non
sono nessun male ma sono male, tanto da farmi sentire immensamente
infelice? Da dove viene una infelicità tanto sproporzionata da farmi sentire
indifeso perciò disperato? Perché un punto, un luogo, un ente
immensamente più forte dovrebbe esercitare tutta la sua potenza sulla
evidente inadeguatezza di chi riceve il messaggio di disperazione? Se c’è un
senso, un segnale, perché va perduto? Chi ha perduto, quando, la lista dei
codici?
Perché alcuni ricevono ordini, come far il bene o fare il male, e altri no?
Oppure tutti li ricevono ma molti non ubbidiscono? Chi fra i due gruppi
produce la confusione nella quale abbiamo l’impressione di vivere? Ci
manca il coraggio di ubbidire o ci serve l’audacia di trasgredire gli ordini,
sfidando la punizione? La persona che improvvisamente ha posto fine alla
sua vita, senza un messaggio o, come fanno i ragazzi, mostrando un broncio
o un pretesto ridicolo tipo un destino di un eroe del rock, a chi sta dando con
fedeltà disperata il suo assenso? Ha visto una rivelazione o ha capito che
non ci sarà mai alcuna rivelazione, che il messaggio sarà sempre atteso e
l’attesa sarà sempre negata?
Controllare, gestire, ordinare, definire, recintare, immagazzinare, fabbricare,
è una serie di fatti veri, di cose che accadono? O il frutto di una nevrosi che
costringe ad agire per non prendere atto del vuoto intorno? Perché,
nonostante quel vuoto e quella nevrosi, continuo a sospettare che ci sia
un’altra strada, un’altra ragione, un altro messaggio? Se c’è, perché non
riesco a leggerlo? Sono più lontano o più vicino quando mi astengo dal fare
e mi siedo al margine della strada, indebolito, invecchiato, senza risorse? Le
risorse, poi, che cosa sono? Il denaro che scambio, il talento che presto, il
pensiero geniale che mi è venuto e che mi porta a dire che ho trovato la
"soluzione"?
Perché non è mai la soluzione, o mi è impedito di crederlo?
Giusti Poteri
Ugo Volli Esiste in Italia un problema reale intorno alla giustizia. Come sa chiunque si
sia trovato coinvolto in qualunque causa civile o penale, per lo più i tempi
sono lunghissimi, le procedure eccessivamente complicate, i risultati
aleatori. Insomma, è difficilissimo ottenere quel servizio elementare dello
Stato che è la giurisdizione.
Ed esiste poi un problema inventato della giustizia. Ci sarebbero alcuni
procuratori della Repubblica (guarda un po', quelli che lavorano bene e
ottengono risultati, per esempio a Milano e a Palermo) che avrebbero troppo
potere, invaderebbero campi altrui, non si accontenterebbero di stare alla
pari con la difesa.
Questa seconda falsa questione sulla giustizia è stata sollevata inizialmente
da alcuni politici e da alcuni organi di stampa (legati prima al vecchio PSI e
poi a Berlusconi), ma ormai è patrimonio comune delle forze politiche. Con
qualche abuso formale rispetto al mandato ricevuto, un'intera sezione di
lavoro della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali si è
occupata di questo problema, che ha affaticato anche il Parlamento in seduta
normale (con la riscrittura dell'art. 513 bis del Codice di Procedura Penale),
il Ministro della Giustizia e tutta la stampa.
Secondo una linea molto significativa, la Bicamerale è intervenuta non sui
principi processuali, ma sull'organizzazione dell'ordine giudiziario, tentando
nei limiti del possibile di stabilire (o di ristabilire) un controllo politico su di
essa: in particolare si è tentato (riuscendoci parzialmente) di separare i ruoli
dei giudici da quelli dei pubblici ministeri, di aumentare la quota dei politici
nel CSM (organo di controllo della magistratura), di stabilire poteri di
indirizzo del Parlamento sul lavoro dei giudici, eccetera.
Da questo elenco di temi si vede che la questione è politica: non il
funzionamento della giustizia, ma il suo controllo, non lo svolgimento del
processo, ma le nomine e il potere disciplinare. Una domanda a questo
punto è ovvia: perché‚ questa volontà dell'intero universo parlamentare di
stabilire un controllo sulla magistratura e, in particolare, sul potere dei
pubblici ministeri (che indagano, accusano, ma non possono condannare)?
Dopotutto, almeno tre storici successi dello stato sono dovuti a questi
magistrati (spesso le stesse persone): la sconfitta del terrorismo di vent'anni
fa, lo smascheramento della corruzione ai vertici dello stato (Mani pulite) e
le gravi sconfitte subite dalla mafia negli ultimi dieci anni. Perché dunque,
voler colpire e controllare una magistratura così più efficiente degli altri
organi dello stato?
Una risposta appare probabile: proprio perché‚ è così efficiente. Una buona
parte del sistema politico e del potere economico è stata coinvolta (e forse lo
è ancora) in pratiche ai limiti della legalità. Alcuni di questi potenti sono
stati condannati (come tanti uomini politici, dirigenti pubblici e anche
manager privati come il presidente della Fiat, Cesare Romiti). Altri sono
sotto processo (come Berlusconi e Dell'Utri); moltissimi altri ancora
indagati a vario grado e titolo. Per la prima volta nella storia del nostro
paese, la magistratura ha preso sul serio il motto che appare in tutte le aule
giudiziarie ("la giustizia è uguale per tutti") e ha violato le tradizionali zone
di impunità del potere. Questo appare intollerabile, oggi e per il futuro, ai
detentori del potere politico ed economico. Si tratta a questo punto di
ristabilire un sistema di impunità. Per farlo è necessario riprendere in mano
il controllo della magistratura, se serve agitando lo spettro di abusi di potere
e idealizzando l'uguaglianza di accusa e difesa nel processo. Ma soprattutto
incidendo sui rapporti di potere reali nel luogo in cui la magistratura è
controllata, il CSM.
Di fronte a questo progetto o necessità del mondo politico, conta poco il pur
probabile gioco di scambi, di favori e di ricatti che si è intrecciato su questo
tema fra Polo e Ulivo. E' il mondo politico nel suo complesso che vuole
fortemente rimettere le mani sulla giustizia, per riaffermare il craxiano
"primato della politica" - che in questo caso vuol dire impunità - dei politici.
E' un disegno estremamente pericoloso. Perché destabilizza uno dei rari
luoghi identificati dall'opinione pubblica di effettiva esistenza e
indipendenza dello stato, e propaganda anzi l'idea di uno stato - parte. Il
conflitto di interessi, che è la vera malattia del nostro sistema politico, viene
teorizzato come ideologia positiva. E' pericoloso anche perché questo
disegno viene perseguito dalla sinistra (non dalla destra che vi avrebbe un
interesse più immediato). Realizzandolo, la sinistra sacrifica quegli strati
(illuministi o azionisti) del suo elettorato che hanno minore connotazione di
classe e più importante radice di opinione. Ma soprattutto dimostra la sua
incapacità di rifondare per davvero lo stato, non con grotteschi teatrini
istituzionali, ma rispettando la neutralità dell'amministrazione.
Io credo che a questo disegno bisogna opporsi con tutte le forze. Penso che
tutti gli elettori dell'Ulivo dovrebbero opporsi a questi disegni sul terreno
politico, visto che quello dell'opinione è insufficiente: fondando movimenti,
preparandosi a votare no al referendum sulle riforme, perfino boicottando i
partiti che appoggiano questa politica sulla giustizia.
Perché penso che la giustizia, la giustizia uguale per tutti, sia il primo
requisito della convivenza civile e il luogo di fondazione dello stato.
Perché considero che la svendita del principio di moralità alla Realpolitik
sia l'inizio di tutti i totalitarismi.
Perché mi pare che il disegno di restaurare il dominio dei partiti con la forza
delle riforma costituzionale vada verso l’instaurazione di un consolato.
Perché credo che questa sia una battaglia essenziale per la democrazia.
Deformare le istituzioni
Carlo Donolo 1. In Italia sono in corso lavori di riforma istituzionale. Questo lo sanno
tutti, almeno da quando è all’opera la Commissione Bicamerale del
Parlamento che deve elaborare proposte e progetti entro stretti limiti di
tempo. Siamo forse alla fase finale di un processo iniziato negli anni Ottanta
con la Commissione Bozzi e proseguito con vicende alterne per venti anni.
Il ceto politico si è reso conto che riforme erano necessarie, ma in pratica è
risultato sempre difficile, e lo è ancora oggi, trovare per le riforme una base
di consenso sufficientemente ampia e convinta. Si è dovuti arrivare alla
caduta del Muro di Berlino, a Tangentopoli, al disfacimento di DC e PSI e
alla metamorfosi del PCI, alla Lega, per mettere all’ordine del giorno
riforme istituzionali e costituzionali di ampio respiro. Un fattore di
accelerazione anche più imperativo è costituito però dal vincolo esterno,
cioè dal processo di unificazione (monetaria) europea, con tutte le sue
implicazioni per il rigore nelle politiche di bilancio, la stabilità degli
esecutivi e il miglioramento delle performance amministrative ed
istituzionali. Ormai non c’è scampo: riforme istituzionali, anzi
costituzionali, sono necessarie. Anche perché, dopo tanto discutere, la
Costituzione del ’48 appare delegittimata o svilita in molte delle sue parti.
Inoltre, molte voci chiedono interventi anche sulla prima parte della
Costituzione, quella relativa ai principi e ai diritti-doveri. Nel quadro di un
attacco allo stato sociale e del culto idolatrico del mercato come panacea per
tutti i mali e fonte di tutti i beni, è chiaro che sono a rischio acquisizioni
storiche in termini di diritti di cittadinanza.
4 luglio 1997: la missione Pathfinder fa scendere sul suolo marziano un piccolo robot esploratore, il rover
Sojourner.
14 luglio 2027 (virtuale, nella realtà 10 giorni dopo) su Popolare Network, una rete di radio italiane, avverrà la
cronaca in diretta del primo ammartaggio di astronauti su Marte.
Richiesta di aiuto:
Vogliamo chiedere a voi che siete già nella Rete e quindi cittadini del XXI secolo, di partecipare a un
sondaggio. Breve, e scherzoso.
Diteci la vostra.
Sylvie Coyaud
Sondaggio, a cura di Renato Mannheimer e Arnaldo Ferrari Nasi, in collaborazione con Radio Popolare
1) Riguardo alla discesa del primo uomo su Marte che avverrà il prossimo 14 luglio 1997, alcuni intervistati ci hanno riferito che non
è giusto "spendere tanti soldi per andare in quel postaccio dal quale non si ricava una lira". Altri ci hanno riferito che invece è meglio
fare tutti gli sforzi necessari per essere i primi a scendere su Marte, potenze aliene potrebbero soffiarci nuovi territori che sono nostri
di diritto.
2) Come lei sicuramente saprà, esiste una proposta degli abitanti e delle autorità cittadine del paese di Cerro Maggiore, secondo i
quali Marte sarebbe il luogo ideale su cui spostare, ampliandola, la discarica comunale. Questo, secondo i relatori della proposta,
contribuirebbe in forte misura allo smaltimento dell'enorme quantità di rifiuti urbani provenienti da Milano.
molto d'accordo
abbastanza d'accordo
poco d'accordo
per nulla d'accordo
non so
3) Recentemente hanno aperto agenzie di viaggi specializzate in voli interplanetari. Alcune persone hanno espresso il desiderio di
passare le ferie di Agosto su Marte. Altre preferiscono in ogni caso passare il loro mese di vacanza a Rimini.
4) Al convegno mondiale degli otto paesi più industrializzati, è stato proposto dall'amministrazione americana in accordo con gli
alleati della NATO, di ridipingere Marte. Essendo rosso il pianeta, si rischierebbe di sbilanciare le nuove probabili alleanze con
eventuali nativi, verso la sfera d'influenza russa.
molto d'accordo
abbastanza d'accordo
poco d'accordo
per nulla d'accordo
non so
Infine, alcune domande personali che ci servono per le nostre elaborazioni statistiche.
Sesso
Maschio
Femmina
Età: 0
Istruzione
Professione
altro
Ampiezza stimata del centro abitato
Provincia:
(due lettere, sempre maiuscole, con il codice della targa automobilistica, Roma=RM)
Invia Annulla
Per leggere nella giusta luce qualche considerazione sugli ultimi sviluppi a
Washington è forse bene ricordare che le elezioni americane dell’8
novembre 1994 hanno determinato il più grande spostamento a destra del
baricentro politico del paese, con la conquista della maggioranza
repubblicana sia all Camera sia al Senato per la prima volta in quasi mezzo
secolo; una coabitazione americana fra presidente democratico e
maggioranza parlamentare repubblicana che è utile avere in mente quando
in Italia si discute di riequilibrio dei poteri tra esecutivo e legislativo.
Con l’accordo bipartitico raggiunto questo mese per eliminare il deficit del
budget federale entro il 2002, per la prima volta in dieci anni quello che era
il tema più scottante della politica statunitense non è più al primo posto in
agenda. Anche se l’accordo sul budget non verrà ricordato come atto di
coraggio, esso è riuscito a superare la prova più immediata, quella dei
mercati finanziari, a far guadagnare qualche anno e a consolidare la
posizione del presidente Clinton.
Può sembrare eccessivo tanto rumore per un accordo che riduce il deficit
americano di solo l’uno per cento del PNL. Ma si tratta di molto di più di
quanto esprimano i semplici numeri. Il Congresso Repubblicano, che aveva
messo il pareggio del budget al centro del proprio programma legislativo,
voleva ridurre il ruolo del governo tagliando le imposte e le spese. Il
presidente Clinton, che aveva cambiato la propria posizione e accettato nel
1995 il principio del pareggio del budget, voleva raggiungere tale obiettivo
senza sacrificare l’impegno dei Democratici a mantenere un ruolo attivo del
governo in alcuni settori chiave.
Il fattore decisivo che ha reso possibile il compromesso è stato la pura forza
dell’economia americana. Le trattative sul budget erano sull’orlo del
collasso quando nuove previsioni di crescita hanno introdotto una novità:
ulteriori 225 miliardi di dollari di entrate fiscali. Questo inatteso sviluppo ha
consentito da una parte, un aumento dei tagli alle imposte voluti da
repubblicani e, dall’altra, un incremento delle spese nelle aree indirizzate dai
programmi Democratici permettendo comunque di eliminare il deficit
nell’arco di cinque anni. Le nuove entrate hanno inoltre permesso a tutte e
due le parti di evitare decisioni veramente dolorose nei settori sanità e
previdenza per contenere il deficit nel lungo termine.
Il compromesso, che sembra solido e stabile, ha rafforzato la posizione del
presidente sotto tre aspetti fondamentali:
I salari reali elevati sono la conseguenza della prosperità, non la sua causa:
quando i paesi diventano ricchi possono permettersi salari elevati, non il
contrario. Imporre a regioni povere salari elevati significa condannare i
lavoratori di quelle regioni alla disoccupazione. Lungi dall’aiutarli, la
decisione li rovina: preclude loro la possibilità di trovare lavoro.
10. I soldi. La busta paga sintetizza le virtù sopra indicate. Ogni volta che
trasgredite, spariscono bigliettoni. Fate bene i conti.
C'era solo una settimana di tempo; non c'è stato quasi dibattito, nè in
commissione, nè in aula. La legge è stata scritta dai consulenti del ministero,
pressati da vicino dalle imprese. Stavolta, e qui sta la novità, non dalla sola
Stet che dettava i suoi calcoli, ma da tutte le imprese potenzialmente
interessate a investire in Italia.
Per fortuna non c'era tanto da sbagliare; nel dubbio si poteva dare
un'occhiata alle freschissime leggi tedesca e francese, e copiare.
Non bisogna credere che a fronte di politici frastornati siedano lucidi poteri
aziendali. Anche le imprese, viste da vicino, appaiono lacerate da culture
interne che fanno fatica a comunicare. Gli ingegneri sostengono di potere
servire messaggi comunque impacchettati su differenti bande di frequenza
via etere, oppure su cavi diversi, in vari modi compressi. Wired o wireless,
le alternative tecnologiche sono molteplici, anche troppe; qualcuna resterà
teorica.
Il marketing segnala che i prezzi ai quali si vende la capacità trasmissiva
stanno crollando. Occorre sviluppare servizi, che trovino un pubblico
disposto a pagare. Che non è facile, in un momento nel quale la piattaforma
più dinamica, le reti che accettano il protocollo Tcp-Ip, è caratterizzata dalla
comunicazione gratuita.
Gli uomini delle relazioni esterne dichiarano trionfanti: tutti i mercati sono
simultaneamente aperti, Europa e Cina compresi. Troppo, per i gestori dei
fondi di investimento, ai quali spettano le decisioni finali: dove investire,
vendendo che cosa e puntando su quale tecnologia?
Negli ultimi anni le principali multinazionali del settore hanno spedito in
Italia i loro lobbisti e hanno costruito società di carta con qualche decina di
miliardi di lire. Nelle prossime settimane chi vorrà giocare seriamente dovrà
investire migliaia di miliardi in società vere.
Intanto già a Natale compreremo ai nostri figli un telefonino da trecentomila
lire e ci abboneremo a qualche decina di canali satellitari. Poi arriveranno
servizi più sofisticati, meno strettamente derivati dai tradizionali servizi
televisivi e telefonici. C'è anzi da scommettere che il vero motore di questa
offerta deriverà da altre industrie, quella del cinema e, soprattutto, quella
dell'informatica.
E' interessante notare che almeno fino a qualche tempo fa NON esisteva
nessun sito pubblico che riportasse in modo sistematico le leggi vigenti. Vi è
un sito privato che riporta la Gazzetta Ufficiale così come vi sono banche
dati a pagamento che riportano la legislazione vigente.
E' possibile che in futuro l'autorithy metta a disposizione il testo della legge
sulla falsa riga di quanto fa già l’autorità garante della concorrenza e del
mercato. Per adesso però è interessante notare come ad esempio il servizio
editoria della presidenza del consiglio non si prenda la briga di mettere in
rete le leggi amministrative .
Per un confronto è utile sottolineare che in Francia il Ministero
dell'Informazione ha un web-site ben fornito della documentazione
necessaria . Il raffronto purtroppo non si può fare con il Ministero delle
Poste e Telecomunicazioni perché questo ministero è fra quelli che ancora
non hanno attivato un Web http://poste.quandomai.it ....
Ma dei siti visitati il più interessante è forse quello della FCC, la Federal
Communcation Commission, non solo per la quantità di materiale messa a
disposizione, ma anche per i link ad altri siti governativi dove è possibile
reperire altro materiale sul Communication Act, fra questi da segnalare
http://www.state.wi.us/agencies/ per la ricca serie di rimandi, tra cui, in gran
quantità, i documenti relativi alla nota vicenda del Decency Act.
Per chi ritiene che l'utilizzo della rete è possibile non solo per la
pubblicazione delle leggi ma anche per la messa a disposizione del materiale
preparatorio, sarà senza dubbio affascinato dalla ponderosa relazione
preparata da una commissione del senato francese per l'esame delle
prospettive di France Telecom .
Per chi volesse un punto di vista ancora più ampio ecco la International
Telecommunication Union . Il rischio però è che si legga sempre e solo il
giudizio dei potenti del mondo, e allora un salto nell'emisfero australe può
offrire dei buoni punti di partenza .
Italia
Francia
Germania
Inghilterra
Passione e morte della terza dimensione
Ruggero Pierantoni Una storia assai singolare è quella delle molteplici ma infelici, e a volte
catastrofiche, battaglie condotte dal cinema per impossessarsi della terza
dimensione. Lungo circa un secolo si sono succeduti tentativi spesso assai
intelligenti, quasi sempre immensamente costosi, di proporre al pubblico
immagini che potessero avere anche una evocativa parvenza di pretendere di
essere tridimensionali. I sistemi escogitati, per quanto ingegnosi, sono quasi
sempre naufragati sulla estrema sensibilità che il nostro occhio (o, meglio, il
sistema visivo nel suo complesso) ha per piccolissimi disallineamenti
spaziali, discontinuità temporali, sfasamenti acustico-visivi e instabilità
della percezione cromatica. Anche nelle soluzioni più sofisticate si doveva
contare sull’utilizzo della proiezione simultanea con almeno due proiettori e
mediante due o tre pellicole scorrenti indipendentemente le une dalle altre.
E’ immediato individuare tutta una serie di quasi inevitabili "scollamenti"
percettivi tra le tre immagini che si sarebbero dovute sovrapporre l’un l’altra
assolutamente in registro sia temporale che spaziale. Il cinema sembra aver
ormai rinunciato alla sua terza dimensione per puntare su di una spazialità di
tipo acustico o "ambientale" piuttosto che su di una illusione di profondità
visiva ottenuta con questi mezzi.
E’ questa una storia assai complessa perché in qualche modo essa coinvolge
quella curiosa creatura tecnologica ma anche filosofico percettiva (e forse
anche esteticamente feconda) che è, o forse solo era, l’olografia. Come è
ben noto l’olografia ha avuto una storia assai infelice e il marchingegno non
è riuscito a conquistare i mercati anche se gli apparati ottici per produrre
straordinarie illusioni spaziali siano estremamente economici e quasi
elementari mentre la visione di oggetti quasi completi nella loro
tridimensionalità non è operazione né costosa né troppo impegnativa
tecnologicamente. Ogni possessore di "gioielli olografici", che ebbero la
loro voga circa dieci anni fa, sa come le immagini che essi custodiscano,
vascelli, conchiglie, visi umani, sculture siano enormemente evocative e non
abbiano nessun competitore derivante da altre modalità di rappresentazione.
La televisione sta definitivamente enfatizzando la propria bidimensionalità
ampliando lo schermo con il renderlo enfaticamente piatto, espandendolo
sulla parete sino ad occuparla completamente. Lo schermo a grande
superficie che sarà o di già è a cristalli liquidi, e quindi a controllo digitale,
ha anche rinunciato alla parvenza di rotondità che caratterizzava i "vecchi"
schermi e si presenta assolutamente planare in ottemperanza morfologica gli
schermi dei PC portatili. Inoltre, la peculiare qualità della luce emessa dai
cristalli liquidi che non si distribuisce nello spazio con la omogenea
diffusione della luce "naturale" impone una stazione di osservazione assai
centrale e una progressiva drastica riduzione della qualità di osservazione
sotto angoli anche di poco lontani dalla normale allo schermo. Questo
effetto è ben noto a chi cerchi di seguire cosa appare sullo schermo a
cristalli liquidi operato da un’altra persona.
Con una straordinaria e parallela corsa alla imitazione la cartellonistica
pubblicitaria ha adottato i rapporti proporzionali degli schermi televisivi e
ampliato al massimo la conquista della parete. Ogni forma di pubblicità
"tridimensionale" è praticamente scomparsa o resa impensabile, non
esistono, detto in breve, forme pubblicitarie tridimensionali perché le grandi
e grandissime scritte luminose hanno una decisa tendenza alla
bidimensionalità e ogni effetto spaziale viene accuratamente evitato. Se per
opportunità architettonica una torre può portare in alto un messaggio che
deve essere visibile dai "quattro orizzonti" allora la ditta progetta e
costruisce quattro schermi piatti ognuno fronteggiante un punto cardinale.
Ma non verrà in mente di progettare e costruire un cubo luminoso con scritta
tridimensionale. E’ ben nota l’antipatia che la scrittura ha per la terza
dimensione. Quasi immediatamente dopo "l’invenzione" delle "bullae" di
terracotta del primo periodo di Ur che registravano nello spazio fisico della
"bulla" la distribuzione reale di oggetti tridimensionali l’appiattimento che
determina la pagina bifronte delle tavolette mesopotamiche. E da allora,
quale che sia stata la procedura di scrittura, i simboli si sono andati
allineando su superfici planari. Una scrittura tridimensionale non ha senso e,
quando si hanno monumenti o altri oggetti a grande scala che mostrano una
consistente terza dimensione in realtà portano il messaggio scritto
chiaramente sulla "facciata". Il necessario abbinamento tra parola e
immagine che caratterizza ogni forma di propaganda ha, come dire,
trascinato l’immagine entro lo spazio "scrivibile" e l’ha asservita alla
disposizione dello spazio piatto ad essere sottodiviso in stringhe quasi
monodimensionali.
Vorrei per brevissimi cenni alludere a questa interessante perdita della terza
dimensione che ha caratterizzato la cultura umana e il suo sviluppo storico.
Non è il caso, né il luogo naturalmente, per una indagine accurata e una
disanima storica ricca di esempi. Basteranno pochi accenni perché il
semplice assunto sembri presentato: la terza dimensione è una variabile
perdente nella storia della cultura umana.
Quasi fosse una sorta di estrema sintesi a questa semplice osservazione
vorrei notare che questo scritto non solo, naturalmente, non occupa terza
dimensione, ma non lo fa neppure virtualmente. Non esisterà infatti neppure
il sottilissimo supporto di carta che lo sostenga e che, assieme ad altre
"pagine" può finire per costituire un vero e proprio "volume"
tridimensionale. Il fatto che la direzione di Golem preveda una stampa dei
testi è solo un fenomeno secondario e del tutto irrilevante dinanzi alla
qualità assolutamente primaria di questi testi di essere stati concepiti, scritti
e immessi in rete solo su supporto informatico.
Se questo scritto per Golem dovesse, infatti, restare filologicamente corretto
secondo le intenzioni e le modalità di questa forma di comunicazione esso,
letteralmente parlando, esisterebbe solo come fluttuazione di luminanza su
di un certo numero di schermi di vetro. Fuggevole e immediatamente
eliminabile. Quasi istantaneamente trashabile senza i fumi e le urla e le
fiamme dei falò di qualsivoglia religione o ideologia. La perdita della terza
dimensione, la occupabilità dello spazio da parte di un supporto reale e
fisico, il suo deposito direi quasi anatomico e massivo in luoghi dedicati
rende questi "scritti" estremamente fragili .Ma allo stesso tempo
invincibilmente indistruttibili, così pare almeno a primo sguardo. Infatti se è
facile bruciare il Mein Kampf per esempio o l’Opera Completa di Alberoni o
le Pagine Gialle di Chicago, Illinois, non dovrebbe essere altrettanto facile
fare lo stesso con la distribuita e liquida qualità degli scritti su Golem che
dovrebbero diffondersi istantaneamente nella "rete" divenendo isotropi con
il pianeta. Allo stesso tempo la diffusività assoluta dello scritto che assicura
loro una perfetta "solubilità" spaziale mentre li distribuisce omogeneamente
sulla "rete" li nasconde alla vista immettendoli in una immensa discarica di
idee il cui ordine e architettura non sembra essere regolabile e che si
sviluppa cresce o collassa secondo strategie temporali ancora non
prevedibili. Discarica immensa e dalla quale le procedure di "retrival"
possono essere estremamente costose in termini di tempo e di energia.
Comunque vorrei ritornare alla questione iniziale concernente il difficile
cammino che la terza dimensione sembra seguire accanto allo sviluppo della
cultura umana. Non è quantificabile per nulla il tempo trascorso ad
osservare una immagine bidimensionale da un individuo umano in varie
tappe della civiltà e una valutazione anche estremamente imprecisa in
termini quantitativi sarebbe solo un falso ideologico. Ma proviamo ad
immaginare alcuni casi ricostruibili con una certa ragionevole
approssimazione.
Un uomo del Neolitico ha occasioni assai rare di osservare una immagine
bidimensionale, dovrebbe essere proprio il creatore di queste immagini per
stabilire una significativa percentuale del proprio tempo destinato alla
osservazione (e alla produzione) di tali immagini. Tutto il tempo andrà
invece speso nella terza dimensione ma non in modo "sportivo" o
"turistico". Ogni atto nello spazio diviene un atto di sopravvivenza, la
precisione di un lancio, la valutazione di una distanza, il calcolo mentale di
una profondità, di una velocità o di una accelerazione può essere fatale se
errato o salvare la vita se corretto. Quindi non solo le due dimensioni
occupano un ruolo infinitamente ristretto, quanto ad esposizione temporale,
ma l’abitare la terza dimensione ha una importanza primaria come dialogo
diretto con essa e non puro esercizio formale.
Un greco colto del quinto secolo avanti Cristo con molta probabilità
spenderà un tempo assai più elevato nel leggere un papiro, nel guardare le
immagini dipinte sulla superficie di un vaso, nell’esplorare un affresco o una
serie di bassorilievi. Ma certamente il dialogo con la terza dimensione deve
essere ancora assolutamente prevaricante come esperienza sia quotidiana
che di vita. Al medesimo tempo il rapporto di diretta sopravvivenza dovuto
alla corretta o incorretta soluzione di infiniti problemi sulla terza dimensione
continuerà ad interessare strettamente il guerriero, il navigante, il pastore, il
costruttore ma sempre meno il legislatore, il poeta, il pittore, l’avvocato, il
pediatra, il decoratore eccetera.
Questo gioco di valutazione episodica e aneddotica del "tempo trascorso
nella terza dimensione" può essere continuato ma non è qui il luogo per
farlo se non accennando a certi passaggi assai critici. A me sembra assai
interessante la transizione tra vetrate dipinte medievali e pareti affrescate. In
entrambi i casi si tratta dell’esposizione a vastissime superfici
bidimensionali colorate e quindi entrambe riconducibili entro la qualità della
bidimensionalità. Ma si consideri la vetrata. Essa in realtà impone al suo
osservatore di camminare nella sua luce colorata, i santi, i martiri, i re
saranno ben piatti e bidimensionali ma la luce colorata si presenta come
volume tridimensionale entro cui fisicamente camminare. La
contemplazione di un vastissimo affresco non solo concentra l’attenzione su
di una superficie piatta ma la rende remota, irraggiungibile, veramente e
solennemente ottica. E’ un fatto ben noto, ma ancora non ben compreso, il
meccanismo della scomparsa delle vetrate alla fine del Gotico. Non si
comprende bene come una tecnologia così sofisticata, una serie di soluzioni
tecniche ed estetiche di estrema eleganza, un sapere così sottile e diffuso
sulla lavorazione e colorazione del vetro venga così improvvisamente
obliterato lasciando solo alla parete il compito di narrare le Storie della
Chiesa o dei vari altri Poteri.
Si potrebbe assai facilmente ricostruire una giornata "fiorentina" o "senese"
o in Utrecht in cui un mercante o legale o religioso potrebbe passare una
notevole parte del suo tempo in contatto con documenti (quindi oggetti
rigorosamente bidimensionali), mentre una porzione sempre più ridotta dei
suoi concittadini, sellai, orefici, muratori, mulattieri, mercanti, questuanti
continuano ad avere rapporti stretti ma non vitali con la terza dimensione.
L’avventura della prospettiva occuperebbe, di natura e d’imperio, una
porzione centrale in questa storia della perdita della terza dimensione.
L’aver codificato la sua morte reale ed averla sostituita con un algoritmo
illusorio di enorme potenza e precisione evocativa rappresenta un punto
assai critico in questa strana storia. Ma vorrei che la velocità della storia
andasse accelerando assai per giungere al momento, quasi attuale, della
assoluta vittoria della coppia X-Y e la quasi scomparsa dell’imbarazzante Z.
Il cinema ha rappresentato una frazione non trascurabile di tempo sociale
inteso a osservare oggetti strettamente bidimensionali. E non si deve
dimenticare che il teatro che, strutturalmente, rappresenterebbe un’arte dello
spazio in realtà, con il costringere gli attori a muoversi entro una ben
limitata frazione illuminabile del palcoscenico, aveva di già predisposto una
potente anticipazione della perdita della terza dimensione. In un certo senso
il nascente cinema delle origini non fa altro che certificare la morte dello
spazio teatrale con il drappo bianco e piatto sul quale vanno a proiettarsi i
vari treni in arrivo. In arrivo più che in partenza.
L’esplosione sociale della televisione viene a concludere la storia portando
il tempo fisico, espresso in minuti e ore (in questo caso siamo certo ben
serviti da infiniti dati statistici di ogni tipo) destinato alla visione di oggetti
tridimensionali a livelli mai esperimentati prima nella nostra storia. A
questo dato si accompagnano altri fenomeni che sono stati molto spesso
analizzati e con grande acutezza: la bidimensionalità della visione di
paesaggi, luoghi, città, strade eccetera dovuta ai mezzi di trasporto che
fanno vedere benissimo l’esterno, ma attraverso un diaframma trasparente
infrangibile e inattraversabile. La perdita di competenza spaziale di noi
attuali umani è enorme. Basti pensare alla continua, ma assolutamente
giustificata, lamentazione di genitori e di insegnanti su bambini e giovani
che non manifestano nessuna capacità, non solo alla resistenza fisica del
camminare, ma neppure alla orientazione, alla soluzione di anche
semplicissimi problemi spaziali. Non ultimo caso da analizzare è l’enorme
incidenza degli incidente stradali la cui natura è assai spesso derivata da
gravissimi errori di valutazione nelle distanze, nelle velocità e nelle
accelerazioni.
Ma un dato diviene ulteriormente interessante e certo allarmante. Non solo il
tempo destinato alla contemplazione passiva di immagini bidimensionali
colorate e mobili è aumentato in modo straordinario, ed è caduta nel
contempo la competenza spaziale di adulti e bambini, ma la superficie piatta
si è ristretta in modo estremo. Un apparecchio televisivo viene osservato
sotto un angolo visivo di circa 30 gradi o poco più. Tutto il resto diviene
"background" e perde valore, significato, nome e funzione. Una ulteriore
frustrazione ne deriva al nostro accuratissimo sistema visivo costruito sulla
estrema precisione delle valutazioni spaziali e che ha permesso per molti
millenni a poche decine di umani di abbattere un mammut a mani nude, di
catturare sott’acqua i pesci senza attrezzi, di colpire una gazzella in fuga con
una lancia (o un nemico in corsa), di centrare un piccolo disco di pietra
perforato come ben possiamo ricostruire dai "campi di gioco "della civiltà
azteca, ma anche di risolvere interessanti problemi spaziali come nella
"giostra del Saracino" o altre prove spaziali che adesso impongono
lunghissime prove, esercizi e spesso amare sconfitte a pochissimi e
superallenati campioni locali. La frustrazione deriva dal fatto che la nostra
complessa attrezzatura biologica per vedere la terza dimensione viene
completamente bypassata e non ne utilizziamo più che alcune potenze
vestigiali.
Si può aggiungere, in fase di chiusura, che si è anche stabilita una ulteriore
diciamo pure perversione percettiva: l’abbinamento del suono alla immagine
piatta. Come si sa, l’apparecchio televisivo contiene in sé la propria sorgente
di rumore e quindi la direzione lungo la quale ci proviene l’immagine
coincide, spesso del tutto assurdamente, con quella lungo la quale ci
perviene il suono da essa generato, o ad essa arbitrariamente associato.
Questo interessante, ma piuttosto fatale, cocktail percettivo fa si che noi, di
anno in anno e sempre di più, consideriamo solo i rumori che "vengono da
davanti" trascurando tutte le altre ecologie sonore che ci avvolgono e che ci
inviano una infinità di segnali assai utili, anche per la nostra sopravvivenza.
Pare che solo due categorie di umani continuino pervicacemente a fare uso
della terza dimensione: i boy scouts e i criminali.
Quali sono i veri problemi della scuola?
Domenico Parisi 1. La società cambia, la scuola no.
2. Quali sono i veri problemi della scuola.
2a. Le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione
2b. Immagini contro parole
2c. La scuola e la globalizzazione
2d. La scuola e la cultura di massa
3. Conclusioni
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La scuola crea oggi molto disagio in tutti coloro che hanno a che fare con
essa: studenti, insegnanti, famiglie, amministratori, politici, la società nel suo
complesso. La scuola è vista come una istituzione in crisi, piena di problemi,
bisognosa di riforme e cambiamenti. Mentre è difficile non consentire con
valutazioni di questo tipo, individuare quali sono i "veri" problemi della
scuola non è facile. In questo articolo vogliamo sostenere che i problemi che
oggi sono oggetto di discussione pubblica (ad esempio sui giornali) e di
decisione politica (ad esempio i recenti interventi del ministro Luigi
Berlinguer), ma anche quelli indicati e discussi da studiosi e pedagogisti non
sono i veri problemi della scuola. Se anche immaginassimo che tutti questi
problemi venissero risolti, l'istituzione "scuola" continuerebbe a trovarsi in
uno stato di crisi e a produrre disagio.
I "veri" problemi della scuola sono più radicali di quelli attualmente discussi
in quanto sono connessi con le grandi trasformazioni che stanno avvenendo
nelle società industrialmente avanzate e di conseguenza, data l'influenza che
queste società hanno sul resto del mondo, in tutto il mondo. Per sua natura
l'istituzione "scuola" è in presa diretta con la società in quanto prepara a
vivere nella società. Perciò ogni tipo particolare di società richiede il suo tipo
particolare di educazione e di scuola. Se la scuola non cambia mentre la
società cambia, è inevitabile che la scuola entri in una crisi radicale. Essa
prepara i ragazzi a una società che non c’è più. Il limite degli sforzi attuali per
cambiare la scuola è che essi per lo più sono diretti a colmare ritardi e
inadeguatezze della scuola rispetto alla società che esisteva fino a ieri. Questi
sforzi sono meritori ma nella sostanza inutili. Il problema, specie per
un’istituzione che verifica i suoi "prodotti" a distanza di anni, cioè quando gli
attuali "ragazzi" saranno adulti inseriti nel mondo sociale, culturale e del
lavoro dei prossimi decenni, è che oggi la società pone problemi
completamente nuovi alla scuola, e li porrebbe anche a una scuola che non
avesse antichi ritardi e inadeguatezze.
I cambiamenti più importanti della società dal punto di vista della scuola sono
(a) i cambiamenti nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione,
cruciali per la scuola in quanto essa è un meccanismo fondamentale di
trasmissione culturale e quindi lavora proprio sull’informazione e sulla
comunicazione (b) i cambiamenti legati all’emergere per la prima volta di una
società globale al livello dell’intero pianeta e al diffondersi capillare
dell’economia di mercato e della cultura di massa, cambiamenti fondamentali
per la scuola perché richiedono una revisione radicale degli stessi contenuti di
ciò che è insegnato.
Questa confusione e crisi si riflettono tra l'altro proprio nel fatto che i
problemi della scuola che oggi si discutono e che si cerca di risolvere non
sfiorano neppure le ragioni profonde della crisi della scuola. La radicalità
della crisi è mostrata dal fatto che la scuola non riconosce neppure quali siano
i suoi problemi.
Per fare degli esempi concreti, questo è un elenco di problemi che oggi sono
oggetto di discussione e decisione politica (elenco tratto dal quotidiano La
Repubblica del 4 ottobre 1996):
Riteniamo veramente che si possa trarre la scuola fuori da quella che ha tutte
le caratteristiche di una crisi storica affrontando e risolvendo questi problemi?
Ma se non è così, allora quali sono i veri problemi della scuola?
2. Quali sono i veri problemi della scuola?
Per orientarsi riguardo a questo problema c’è una storia passata che dovrebbe
insegnarci qualcosa. La mente umana non è qualcosa di universale, unico,
fisso, astorico. La "forma" che di volta in volta essa assume dipende
dall'ambiente in cui si sviluppa. Siccome questo ambiente cambia, in buona
misura perché l'ambiente in cui vivono gli esseri umani è creato e
incessantemente cambiato da loro stessi, di conseguenza cambia la mente
delle persone che ci vivono dentro. Ora, se vogliamo capire gli effetti
dell’ambiente sulla mente dobbiamo guardare soprattutto alle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione, cioè alle tecnologie con le quali
registriamo su supporti fisici esterni e conserviamo, modifichiamo,
recuperiamo e comunichiamo le nostre conoscenze e le nostre idee, sotto
forma di linguaggio verbale o di immagini. Queste tecnologie cambiano
storicamente e i loro cambiamenti influenzano non solo il funzionamento
della mente individuale, cioè che cosa ognuno di noi pensa, come pensa,
come si comporta e come interagisce con gli altri, ma anche l'organizzazione
sociale e politica della società.
Vi sono stati momenti nella storia delle società umane in cui le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione sono cambiate più velocemente e gli
studiosi (Mithen, Havelock, Goody, Ong, Eisenstadt, Donald) hanno mostrato
che sempre a questi cambiamenti hanno corrisposto fondamentali
cambiamenti nella mente e nella società. Alcuni momenti importanti di questa
storia di mutazioni tecnologiche sano stati i sistemi preistorici di registrazione
di immagini su pareti di roccia e su oggetti, i primi sistemi di scrittura,
l'alfabeto, la stampa, le tecnologie visive novecentesche (cinema, televisione).
Questi cambiamenti delle tecnologie comunicative e culturali hanno avuto un
ruolo importante o addirittura decisivo nell’emergere dell’arte, della filosofia,
della scienza, dello stato e della democrazia, delle società/culture di massa.
Oggi ci troviamo nel bel mezzo di una nuova e radicale trasformazione delle
tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Si tratta dell'introduzione
di quelle che vengono chiamate le nuove tecnologie dell'informazione e della
comunicazione, cioè le tecnologie basate sul computer quale potente
strumento di conservazione e di manipolazione nel formato universale del
codice digitale di ogni sorta di informazione. I nomi che indicano le nuove
tecnologie sono noti: basi di dati, sistemi di recupero delle informazioni,
ipertesti, grafica computazionale, multimedialità, reti telematiche, realtà
virtuale, modelli di simulazione. Queste nuove tecnologie sono in uno stato di
flusso, di trasformazione e innovazione continua - in effetti sono uno dei
settori in cui meglio si esprime oggi la creatività degli esseri umani. Ma esse
hanno già un impatto, che cresce letteralmente ogni giorno, su ogni aspetto
dell’attività umana, individuale e sociale. E basta un minimo di riflessione e
di analisi per capire che esse avranno conseguenze importanti per il
funzionamento della mente e della società, forse più importanti di quelle che
hanno avuto le tecnologie precedenti.
avanti
Educazione e formazione continua nell'età digitale *
Peppino Ortoleva Già nel titolo stesso di questo incontro si trovano sollevati, insieme, due
ordini di problemi, che forse è utile discutere separatamente, per poi
renderci conto che sono in realtà intimamente connessi.
Quanto spazio da dare al primo aspetto, cioè agli usi sostitutivi di queste
tecnologie rispetto alle istituzioni scolastiche tradizionali, e quanto al
secondo, cioè agli usi complementari, è oggi uno dei problemi di fondo della
politica della scuola: certo è che l'ipertesto, più di altri modelli tecnologici,
sembra prestarsi a un equilibrio fra i due aspetti.
48
Sono favorevole all’abolizione
26
Sono contrario all’abolizione
26
Non ho ancora un’idea precisa al riguardo
Totale
125
Base (casi)
La metà di chi ha risposto al sondaggio è d’accordo con l’abolizione
dell’Ordine dei Giornalisti, mentre il rimanente sottoinsieme, cioè l’altra
metà, si divide in parti uguali tra chi non ha un’opinione e chi è contrario
all’abolizione.
Confrontando le diverse categorie degli intervistati si può cercare di
comprendere chi è maggiormente bendisposto verso la soppressione
dell’Ordine dei Giornalisti.
Innanzi tutto il 50% degli uomini, contro il 37% delle donne, esprime
un’opinione in favore dell’abolizione.
Per l’età una leggera accentuazione si trova nella categoria dei 26-35enni
(55%) così come nel titolo di studio tra i laureati (54%) e nel Nord come
regione di residenza (53%).
La professione ottiene una percentuale molto alta tra gli imprenditori e liberi
professionisti (63%), mentre chi si pone al centrosinistra nello schieramento
politico ritorna su una quota del 53%.
Ne emerge una figura del tutto simile a quella che abbiamo prima definito
come rispondente ai nostri sondaggi. O meglio, sono presenti le stesse
caratterizzazioni ma, se possibile, in maniera ancora più accentuata tra i 25-
34enni, laureati, imprenditori o liberi professionisti residenti al Nord e con
un’opinione politica di "centrosinistra".
Analizzati
Arnaldo Ferrari Nasi e Renato Ecco, sembra che ci siamo.
Mannheimer Pare che la nostra area dei sondaggi on-line sia visitata da una serie di
"autointervistandi" che comincia ad assestarsi attorno a delle quote
omogenee, sia in quantità che in qualità.
Il primo passo è stato fatto un po’ per caso, ma il metodo di porre alcune
domande nel sondaggio di Golem 8 è stato lo stesso utilizzato per quello di
Golem 10, per cui i risultati sono confrontabili. E’ metodologicamente
corretto!
Mi sto riferendo ai dati "strutturali" dei lettori di Golem che rispondono
all’intervista interattiva, cioè a quelle variabili sociodemografiche che per
prime ci aiutano a capire con che tipo di campione ci dobbiamo confrontare.
Innanzi tutto, un dato che oserei definire positivo: al sondaggio di Golem 10
(pubblicato con data 3/4/97) hanno risposto 126 persone. A quello di Golem
8, pubblicato all’inizio dell’anno, 116.
La cifra è abbastanza simile, sebbene non sia molto elevata, e può già essere
visto come un primo segnale di omogeneità. Un "plus" è dato dal fatto che
la seconda rilevazione conti 10 casi più della prima, è poco, ma su un
numero totale di 116, i rispondenti sono aumentati di circa il 9% (al primo
sondaggio, pubblicato su Golem 1 nel maggio ’96, risposero 51
"navigatori").
GOLEM
GOLEM 10
8
% %
88 85
Maschio
12 15
Femmina
Totale
116 126
Base (casi)
GOLEM
GOLEM 10
8
% %
6 6
meno di 20 anni
7 7
20-24 anni
27 03
25-34 anni
31 35
35-44 anni
22 22
45-54 anni
7 7
55 anni e più
Totale
116 126
Base (casi)
GOLEM 10
56
laurea/post laurea
37
maturità
4
licenza media
3
nessun titolo/licenza elem.
Totale
126
Base (casi)
% %
43 48
Sinistra
28 24
Centro-Sinistra
2 3
Centro-Centro
5 3
Centro-Destra
3 3
Destra
19 19
Non so/Nessuna di queste categorie
Totale
116 126
Base (casi)
GOLEM 8 GOLEM 10
% %
56 58
Nord
33 33
Centro
11 9
Sud e Isole
Totale
116 126
Base (casi)
● individui maschi
● tra i 25ed i 54 anni di età
● con titolo di studio elevato o molto elevato
● residenti in maggioranza al Nord ed in parte minore al Centro Italia
● politicamente collocati su posizioni di sinistra o centro-sinistra
Certamente un risultato del genere non stupisce, visto il taglio della rivista.
Eppoi bisogna considerare che Inernet in Italia è ancora uno strumento
d’élite , soprattutto in alcune sue funzioni.
Sarebbe certamente interessante se ci fosse una maggiore rispondenza dal
Sud Italia ed un più grande equilibrio sulla scala del posizionamento politico.
I tesori del monte Athos
Carlo Bertelli Incurvato, scuro come si conviene all’uomo di affari o al professionista che
deve comunicare a tutti che, se ora prende l’aereo Roma-Milano, non è
perché sia stato al Sud a divertirsi, il mio amico salì con me la scaletta. Il
destino computeristico mi aveva affidato il posto dietro al suo. A lui era
toccato un tre posti vuoti. Uno dei tre fu occupato, prima della partenza, da
una hostess. Era un fiore di ragazza, e subito i colori tornarono sulle guance
del professionista o uomo d’affari o giornalista. Purtroppo la ragazza era
americana e sembrava che avesse introitato la formula NO SEX
HERASSMENT.
Sulla rampa di Milano il mio amico cercava di essere disinvolto. "Che
mostre ci sono in giro?" Mi chiese, con l’aria del celebre diplomatico che, a
Giava, chiede all’accompagnatore, per evitare un simile imbarazzo, "Quand
avez vous les elections?" Per sentirsi rispondere: "Toujouls, toujouls".
Bene, dico. Ci sarà presto un’occasione straordinaria: i tesori del monte
Athos esposti a Salonicco.
Vidi la delusione sul volto non più roseo. Cercai di dirgli che era un evento
culturale, per la prima volta occhi femminili avrebbero visto ciò che era
stato loro interdetto e che sarebbe tornato nell’oscurità vigilata da monaci
maschi subito dopo. La risposta fu quasi volgare: E che mi frega? Io tanto
sono un uomo.
Non pensai tanto alla mancanza di sensibilità verso l’altra metà del genere
umano quanto al fatto che se avessi detto che a Salonicco ci sarebbe stata
una grande mostra di Alberto Savinio con i mobili delle stanze borghesi
collocati su zattere fluttuanti, una grande rivisitazione della Grecia con gli
occhi dei fratelli De Chirico, l’avrei sollevato dalla passeggera frustrazione.
C’è un’avversione perdurante nella nostra coscienza italica verso il mondo
bizantino. Ai Bizantini si rimprovera veramente tutto. Di non essere greci
classici, per prima cosa. E poi di avere fatto tante storie per non inserire nel
credo la formula filioque, che del resto, il papa, a Roma, non accettò se non
nel XI secolo, su pressione dell’imperatore Enrico II. Così accade che la
concezione ortodossa dell’umanità di Cristo non si scuote attraverso un
estremo romanzo greco, ma per via di un film di Martin Scorsese.
Non so prevedere se la mostra di Salonicco avrà successo. Spero di sì.
Salonicco è Macedonia e visitarla significa sgombrarsi la testa di molte idee
convenzionali sulla Grecia. Davanti a questa grande città moderna
ricostruita dopo l’incendio che la devastò nel secondo decennio del nostro
secolo, stazionerà una corazzata della marina ellenica per garantire lo Stato
del Monte Athos, che è una repubblica monastica indipendente, della
protezione dei tesori prestati. Architetti di tutto il mondo hanno progettato i
nuovi debarcaderi che consentiranno trasporti rapidi via acqua, come a
Istanbul e a Venezia.
Io stesso non sono mai salito al Monte Athos. Per mille e una ragioni, non
ultima l’esperienza di quanto tempo sia richiesto per ottenere di vedere i
manoscritti che interessano; guardare le icone più venerate e farlo più di una
volta; aprire gli scrigni dei tesori.
Avevo però il sospetto che una placca con il Redentore, che in tutte le
pubblicazioni era descritta come uno smalto renano, capitato laggiù chissà
come, fosse in realtà una pittura sotto vetro, veneziana, del Duecento.
Scrissi all’archimandrita del convento di San Paolo e ne ebbi la risposta. Sì,
ad un’attenta ispezione, non vi erano dubbi che la placca fosse di vetro. La
cosa che, dopo la conferma, più mi colpì, fu però la firma della lettera. Il
capo della lavra, l’archimandrita di cui purtroppo non ricordo il nome, si era
firmato syn adelphois emou, con i miei fratelli.
E' possibile una biblioteca multimediale? (2)
Giulio Blasi Il pezzo dello scorso numero sulle biblioteche multimediali e sulla
preservazione dei materiali digitali ha suscitato reazioni interessanti da parte
dei lettori (che possono continuare ad inviarmi suggerimenti e commenti).
Val la pena insistere ancora un po’ sull’argomento, dunque.
Mi risparmio un abstract del pezzo precedente supponendo che il mio lettore
ipertestuale faccia poco sforzo a rileggerlo.
Fatto? Bene.
Questo documento è molto utile anche per noi qui in Italia e ne consiglio a
tutti la lettura. Il problema della progettazione di Biblioteche Multimediali
coincide con il problema di elaborare complesse strategie di "migrazione"
per differenti tipologie di documenti digitali.
1. DEDUZIONE
3. BLOCCHI LINGUISTICI
6. AL VIGNAIOLO NEGHITTOSO
La proboscide è eccitante:
così yyy yyy’yyyxxxxx.
9. ULTRA’ SHAKESPEARIANO
Vedi Anche:
cinema.it
Operazione nostalgia
Roberto Caselli La prima notizia è arrivata improvvisa e insinuante: Bob Dylan è stato
ricoverato in ospedale, in condizioni di salute precarie per problemi di
cuore. Robert Zimmerman, nato a Duiuh, Minnesota, nel 1941, cinquantasei
anni appena compiuti, dice il bollettino medico, soffre di pericardite e
quindi deve abbandonare per un po’ di tempo il palcoscenico, il suo Never
Ending Tour deve segnare il passo, il grande maestro deve assolutamente
riposare. La notizia viene ovviamente ripresa dai media e rimbalza in fretta
in tutto il mondo. I giornali importanti, che hanno da anni nei loro cassetti i
necrologi di tutti i grandi nomi della cultura, dello spettacolo e di chissà che
altro, spulciano l’archivio della lettera D e in breve pubblicano stralci di
biografie, commenti critici sulla sua opera, poesie e canzoni. L’operazione
nostalgia prende il via in pompa magna, ma si spegne in breve tempo perché
il vecchio Bob via via si riprende fino a lasciare l’ospedale. Il carrozzone
dell’informazione nel giro di una settimana lascia cadere tutto nell’oblio: le
belle parole spese, gli elogi della sua sensibilità e del ruolo fondamentale
nella controcultura si smontano in attesa di ritrovare forma alla prossima
occasione. Dylan del resto, non è nuovo a far parlare di sé come artista
maledetto, l’incidente motociclistico del 1966 lo diede per spacciato, ma se
la cavò con qualche giorno di commozione cerebrale; molto peggio andò ad
alcuni suoi giovani colleghi del Greenwich Village, come Richard Farina,
Phil Ochs, Paul Clayton e Peter La Farge che non ressero a droghe e
depressioni.
Quei cinque o sei anni degli inizi, che elessero Dylan a mito, sono in realtà
ancora oggi ciò che rimane di davvero importante della sua opera e anche se
tutto il resto non è certamente da sottovalutare, non ha comunque mai più
raggiunto l’intensità lirica di quegli album che arrivano fino a Blonde on
Blonde, probabilmente il suo ultimo momento di genialità. Profeta
annunciato dei tempi che stavano cambiando, Dylan, dopo avere detto le
cose giuste al momento giusto, ha dovuto vedersela con i problemi destinati
ad essere patrimonio dei comuni mortali: gestione sempre più difficile della
popolarità, mantenimento di una creatività che gli permettesse di essere
all’altezza della sua fama e soprattutto crisi esistenziali che non erano
risparmiate nemmeno a chi aveva saputo sviscerare il problema
generazionale nella sua ampiezza. Il personaggio Dylan, più che nell’ovatta
del suo mito, va proprio considerato in questa dimensione molto umana che
ci fa comprendere la sua scontrosità e ce lo rende più simpatico e
abbordabile, dietro quegli occhiali neri che nascondono occhiaie e
stanchezze dovute a una perenne corsa on the road, alla ricerca di nuove
piazze e emozioni sempre più difficili da trovare. Nel prossimo necrologio,
giusto per evitare banalità e qualche sottile ipocrisia che non gli rendono
giustizia, sarebbe bene sviscerare un po’ meglio l’uomo e spiegare come, al
contrario di tanti altri, la grandezza della sua opera sia solo un’ovvia
conseguenza della sua consapevolezza della sua fragilità.
L'evoluzione
Sylvie Coyaud http://alife.fusebox.com/
http://alife.fusebox.com/
http://www.spasoft.demon.co.uk/blindwatch.html
Appuntamenti
parlano di
moderatore
Antonio Calabrò, vicedirettore del Sole 24 Ore
un’iniziativa di
JERUSALEM LINK
Israeli Palestinan Women’s Joint Venture for Peace
JERUSALEM LINK organizza a Gerusalemme, dal 17 al 21 giugno 1997, 30 anni dopo l’annessione di
Gerusalemme Est da parte di Israele, un fine settimana denso di eventi culturali, politici e sociali in entrambe le
parti della città con lo slogan:
"Condividere Gerusalemme: le donne rivendicano Due Capitali per Due Stati"
MYSTFEST
Ente gestore
Comune di Cattolica
Direzione
piazza Nettuno 1
47033 Cattolica (RN)
http://www.cattolica.net
e-mail: mystfest@cattolica.net
La Biennale di Venezia
Il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
e
l’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea
presentano
Incontro
V Programma Quadro di R&ST dell’Unione Europea (1998-2002)
Direttore:
Danco Singer
Hanno collaborato:
Paolo Palazzi, Sylvie Coyaud, Gianni Granata, Mario Calabresi, Domenico Parisi, Maurizio Chierici, Piero De
Chiara, Peppino Ortoleva, Dino Lorimer, Beppe Severgnini, Franco Recanatesi, Furio Colombo, Ruggero
Pierantoni, Ugo Volli, Carlo De Benedetti, Antonio Martino, Carlo Donolo, Arnaldo Ferrari Nasi, Renato
Mannheimer, Carlo Bertelli, Giulio Blasi, Roberto Caselli, Roberta Ribali, Stefano Bartezzaghi, Rossana Di Fazio,
Cinzia Leone, Altan
Progetto visuale:
Pierluigi Cerri con Mauro Mattioli e Andrea Lancellotti
Redazione:
Mauro Mattioli, Margherita Marcheselli, Andrea Lancellotti, Roberta Casapietra, Massimo Amato, Stefano Mazza,
Elisa Mazzini e Francesca Poppi
Software:
Opera Multimedia Stylo Italia Online
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Un caro benvenuto a tutti.
Il numero 11 di Golem apre una nuova sezione: Scienze, libertà, società dedicata al tema del controllo
democratico delle scienze. Attraverso la consapevolezza, la conoscenza dei problemi e dei linguaggi, da una
parte (come sottolinea Sylvie Coyaud), ma sicuramente anche attraverso differenti regole e strutture istituzionali
(come drammaticamente evidenzia la testimonianza di Maria Grazia Ruggiano), la scienza e le sue applicazioni
devono diventare un patrimonio comune, un bene condivisibile e condiviso. Renato Giannetti amplifica la
riflessione alle scienze economiche e sociali, regalandoci un’analisi del concetto di rete.
La sezione Per non dimenticare si arricchisce di un intervento chiarificatore di David Meghnagi, e di un
contributo documentario: le leggi antirazziali promulgate nel 1938 di cui si è tanto sentito parlare in questi
giorni. Per non dimenticare, appunto, e per non sminuire, tra l’altro.
Aldo Grasso pone la questione dell’immortalità televisiva e chiama i lettori a scatenarsi in ardite classificazioni,
Renato Mannheimer analizza l’ultimo golemiano sondaggio, Paolo Palazzi prosegue la sua riflessione sulla
globalizzazione; la sezione rubriche, infine, si arricchisce del contributo di Sylvie Coyaud, che ci condurrà alla
scoperta dei siti scientifici della grande rete.
State bene!
Farsi capire
Sylvie Coyaud Ci sono voluti anni di trasmissioni settimanali perché gli ascoltatori di Radio
Popolare facessero domande in diretta agli scienziati. Pensare che,
normalmente, si tuffano in onda a discutere di qualunque argomento, per
niente inibiti dalla presenza dell’esperto. Ma la scienza...
Non riuscivo a renderla discutibile e questo mi preoccupava. Un po’,
immagino, per gli stessi motivi che hanno spinto Golem a riflettere sul tema
"scienza in una società libera": continuiamo a essere intimoriti dalla
comunità scientifica, casta sacerdotale protetta dai propri formalismi. Che
libertà abbiamo mai, se proprio ora che ci scombussola di continuo le
certezze, la vita e i pensieri, ci fa pure ammutolire?
Da quando si sono abituati a dibattere, anche tra di loro, gli ascoltatori non
solo fanno felici i ricercatori che li vengono a trovare per interposto studio,
ma sono anche capaci di dare una mano alla scienza, per esempio sposando
la campagna degli astronomi per abbassare l’inquinamento luminoso e
innescando un movimento nazionale in occasione del passaggio di Hale-
Bopp.
INTRODUZIONE
CONCLUSIONI
Introduzione
Lo scopo di questo articolo è di fornire una rassegna ragionata delle
riflessioni sulla nozione di rete condotte da economisti e sociologi nel
terreno di confine tra le due discipline. Tale rassegna intende essere uno
strumento agile cui far riferimento per chiarire la terminologia ed i concetti
utilizzati nelle varie proposte operative che possono così essere ricondotte a
linee teoriche riconoscibili.
L’opportunità di una rassegna di questo tipo è altresì dettata dalla
considerazione che una crescente letteratura segnala la riorganizzazione di
molti processi economici e sociali secondo logiche di rete. Ciò comporta la
messa a punto di strumenti di analisi diversi da quelli tradizionalmente
utilizzati dall’economia e dalla sociologia; non a caso la riflessione sui
rapporti tra queste due discipline ha avuto proprio nei problemi relativi alle
reti e alla loro analisi uno dei punti critici più importanti.
La rassegna è organizzata in tre parti. Nella prima parte si considera
l’introduzione in economia della nozione di rete e di effetti di rete; nella
seconda parte si considera la letteratura sull’innovazione, specie di impronta
sociologica, che ha utilizzato la nozione di rete nella prospettiva
costruttivista; nella terza infine si considerano le recenti applicazioni della
nozione di rete all’ambito territoriale ed istituzionale indagando come la
letteratura ha trattato il problema della dualità tra forme statali e reticolari di
organizzazione istituzionale.
avanti
Perchè non accada mai più
Maria Grazia Ruggiano A mio figlio
per ricordo e per amore
17 marzo 1997
In Italia non c'è una legge che stabilisca per il medico il dovere
all'informazione e un suo preciso comportamento - graduale e senza
brutalità - nell'avvicinare alla verità il malato che lo chiede.(I)
Una volta c'era la comunità del piccolo paese che piangendo e senza
parole ...., il prete confessore che man mano....
Sì, non sono sfortunata. Sono stata operata ad agosto da uno dei migliori
chirurghi che - per pura combinazione - aveva ritardato le ferie; sono
affidata ad un clan di amici professionisti tra i più noti; l'allergia continua i
suoi danni violenti per tutti i cinquantacinque giorni della "cobalto" e
oltre .... ma comunque ogni mattina riesco ad andare ai giardini a passeggio
con le amiche prima della terapia; poi c'è il "turn over" di altre amiche che
mi accompagnano all'ospedale e mi aspettano per il ritorno a casa. Poi il
pomeriggio tante (troppe) telefonate, tanti (troppi) regali.
Consulto un altro grande medico per l'allergia: in realtà continuo a seguire il
mio corpo così come ero abituata, cercando di capirne ogni segnale e
organizzarne la difesa. Ma ignoro la vastità del male.
A ottobre la pelle del cranio è defoliata e abrasa; viene medicata ogni giorno
ma il chirurgo rifiuta (perché troppo grande il pericolo di infezioni e
meningite) qualunque incisione per l'immissione del catetere.
Per la prima volta sono a pezzi. So che dopo le cure tradizionali resta una
possibilità di raddoppiare la durata di vita con l'esperimento della medicina
nucleare e degli isotopi. Se non posso far introdurre la sonda per la cura
nucleare il mio destino è segnato? E gli anni in più ... e le scoperte continue
dei ricercatori sul cancro... ?
Cerco cure parallele (quanta gente attorno ai tumori!): inizio una terapia
alternativa per l'allergia; parlo con la Presidente dell'associazione "Metodo
Kousmine"; telefono ad un medico svizzero che lavora con medicinali il
fegato.
Scelgo le sedute di pranoterapia con un'amica sensitiva e i massaggi
orientali dell'energia.
A fine ottobre decido una gita a Venezia, la mia preziosa città del nord, per
vedere mostre e amici. La delusione è cocente. Dov'è la mia allegria nel
passo, la velocità dei desideri, le mille idee che trascinavano gli altri a
giornate eccessive da ricordare?(mi chiamavano la "Regina del tempo"!).
Così comincio a "sapermi" malata.
Così continuo a insistere con il medico per la sonda. Mi promette che dopo
la prima risonanza magnetica di controllo di novembre, in due giorni mi
preparerà per la cura radioattiva.
Ecco, sono certa che fino a questo momento avevo bisogno di una verità
parziale anche se durissima. Ci si abitua in fretta a ragionare sulla breve
distanza (2 anni / 4 anni) anche per chi come me si considerava ancora
immortale e con mille progetti da chiudere.
Il tempo dei sani è così diverso da quello del malato! Io da agosto ho perso
quasi del tutto la dimensione temporale, ferma al mare di Licosa non avuto,
stretta da un mutamento di vita completo, tesa a riorganizzare anche
inconsapevolmente le nuove tappe del viver breve.
E d'altronde nulla dal punto di vista terapeutico c'era da decidere se non
subire il protocollo internazionale di cure rispettato anche dai medici della
ricerca clinica: la massa di "cobalto" e l'attesa della pelle risanata.
E' vero; sto così bene - l'allergia sta finendo, il viso è tornato piacevole; le
forze sono ancora scarse ma vado a Villa Ghigi la domenica con le amiche e
mi stanco quasi come loro. Vado anche a cena fuori. Continuo a farmi
medicare la pelle dal Santo chirurgo che un giorno - non potendone più delle
mie domande, precisazioni, richieste, delucidazioni - mi fa incontrare con il
neurochirurgo che ha lavorato per sei anni con il Dott. Riva della medicina
nucleare di Cesena. Ci lascia soli nel suo studio e io comincio a capire la
tecnica di questo esperimento non perfezionato a base di ittrio e proteine del
ratto immuno - depresso.
Il medico evidentemente non sa nulla di me se non che sono un'amica di
Claudio con tumore al cervello. Mi chiede ad un tratto: "Ma lei cos'ha?".
Rispondo sicura: "Astrocitoma 2/3 grado all'emisfero destro".
Il tono della conversazione subito si alleggerisce: "Ah signora, ma allora c'è
un po’ più di calma, un po’ più di tempo. Noi lavoriamo sull'emergenza del
gliobastoma che dà 12 mesi di sopravvivenza.
Per l'astrocitoma io penso addirittura che fra un anno avrò messo a punto
un'altra ricerca; ora sono solo a 2 casi, non posso proporgliela ... ma
vediamo ... vediamo....".
Di nuovo esco dall'incontro serena. Il mio caso è grave ma l'atmosfera di
calma che c'è intorno a me si comprende - ho un po’ di tempo in più per
sottopormi ad una cura che tutti dicono pesantissima come quella nucleare.
Posso prendermi un po’ di giorni per me sola. Torno anche in ufficio a
lavorare.
Mi sottopongo alla prima risonanza di controllo dopo la "cobalto" (il 16
novembre 1996) senza alcuna agitazione.
So che la pelle è in ordine per immettere il catetere ma dentro di me ho
l'idea di cercare di aspettare ancora un po’ e fare un Natale piacevole e
rasserenante con i miei. Dopo, un po’ di Grecia al sole con Cristina?
Il chirurgo esce invece dalla sala della risonanza scuro in volto: la cavità
dove è stato asportato il tumore si è chiusa; c'è una fessura virtuale nella
quale non è possibile mettere sonda né iniettare alcunché.
Non capisco bene ciò che dice perché sono stordita dall'anestesia. Il giorno
dopo chiamo sia lui che Anna per farmi spiegare di nuovo ciò che è
successo.
Il cratere vuoto non c'è più; le pareti si sono collabite all'interno. Anna è
incerta, può esserci ripresa della malattia ma spera invece sia effetto della
forte dose di cobalto che ha irritato tutto. Prima di uno/due mesi non si può
chiarire la situazione. Al mio ritornello sulla cura nucleare dice che farla per
profilassi non ha senso (ma come, non era questo il progetto terapeutico
stabilito da tempo, penso senza più coraggio di parlare? perché ora è così
perplessa sull'esperimento e lo sconsiglia?).
Ancora insisto l'indomani con Claudio: dice che la cura radioattiva è una
"suggestione", così come confermano i medici internazionali famosi
consultati dagli amici. Certo, il futuro del trattamento dei tumori al cervello
è nella direzione del nucleare ...ma il futuro!.
Mi confondo; ancora sono assolutamente dipendente dalle parole tecniche
del medico.
Una tenera amica mi telefona da Napoli: ha sette giorni liberi per me! Mi
sento bene, anche se la gamba sinistra morde. Prendo l'aereo e mi precipito
la mattina dopo nella mia città: sette giorni di sole continuo, raro a
novembre anche laggiù: spaghetti al Borgo Marinaro, cenette e chiacchiere
continue, i pastori di Natale a S. Gregorio, le Chiese ....la nuova futura
Coroglio, Capodimonte restaurato....Il mio ritmo di prima con tanti amici
intorno per sostegno e togliere la paura...Che bello! Le foto mostrano una
donna sana, solo un po’ più gonfiotta nel viso tondo.
Mi sento il corpo tranquillo, più debole alla sera quando sbando per
stanchezza.
Appena torno a Bologna tormento il chirurgo: "Quando rifacciamo la
risonanza?" "Decidi tu - risponde - o prima o dopo Natale". "Oh Dio,
Claudio, è chiaro che mi piacerebbe essere sicura che va tutto bene prima di
Natale e avere allegria in casa in quel periodo; però se poi il referto è incerto
perché è troppo presto?". Il chirurgo - con eccezionale pazienza - di nuovo
mi visita a lungo. La risposta è positiva: "stai benissimo, se ci fosse qualcosa
si vedrebbe negli occhi come un tappo di champagne che fa bollicine. Vai a
Napoli; facciamo l'altra TAC all'inizio di Gennaio".
Potevo non credere? Potevo immaginare che la sua logica era di concedermi
in serenità l'ultimo periodo buono della mia vita?
Natale è con l'amata amica di gioventù, con mio figlio e la sua ragazza che
io adoro; figli mezzi miei anche quelli delle amiche che partecipano alle
feste.
Coccolatissima dal mattino alla sera, ma è normale nei nostri incontri
trentennali. Riesco persino a far suonare la "tammurriata nera" così come
facevamo al mare (in tanti ragazzi e noi quarantenni) sotto i pini e la luna di
Punta Licosa.
Quando torniamo in aereo il 2 gennaio 1997 qualcosa nel mio corpo è
cambiato. Le gambe si irrigidiscono con crampi al mattino come dopo una
pesante camminata in montagna, la testa ha una inconsueta compressione
sulla fronte che non si alleggerisce con gli antinevralgici.
Partecipo pallida e stanca alla tombola per l'Epifania dell'unica amica che,
nei mesi passati, mi aveva creato ansia e urgenza per il mio tumore in ogni
incontro e che perciò avevo allontanato un po’ a fatica.
Mentre mi lavo al mattino mi accorgo che i movimenti sono sempre più
scoordinati: non lavo il mio corpo ma strofino tra loro due pezzi di sapone.
Avverto il chirurgo che la confusione mentale è ogni giorno in aumento e
così l'instabilità : non posso più passeggiare (come a Napoli pochi giorni fa)
da sola. La risposta tecnica non mi placa l'ansia: è l'edema cerebrale;
coincide con i tempi della cobaltoterapia; è effetto dunque delle sue dosi
massicce; forse mi darà di nuovo il cortisone.
Questi i fatti, abbastanza dettagliati, forse troppo per chi non subisce una
vicenda così grande.
Dopo venti giorni dalla verità, sono già prenotata a Milano per il secondo
intervento al cervello.
Passo i giorni di attesa continuando a lavorare e a dettare l'intervento sugli
istituti d'assistenza per l'istruttoria pubblica che si terrà al Comune di
Bologna il 17 gennaio.
Non voglio rinunciare.
Al mattino della conferenza sto malissimo. Ho un attacco di labirintismo e
vertigini paurose che mi fanno temere la fine mentre grido "aiuto, aiuto,
aiuto".
Se non avessi saputo la mia diagnosi crudele non avrei mai trovato la forza
di alzarmi dal letto, farmi aiutare a vestire in tailleur, andare, con mille
medicine in corpo, l'amica fidata dell'ufficio per continuare magari la
relazione, la macchina fin sotto l'ascensore (praticamente non cammino)...
Alle 17 sono lì; inizio a leggere...fino alla fine..bene..con calma,... con le
pause espressive volute.
Nel brutto ospedale milanese con ottimi medici chiamo ad assistermi per la
prima notte l'amica napoletana.
Il tradimento c'è stato ma io non l'ho ancora elaborato nell'animo; dice
"faremo la fondazione Maria Grazia Ruggiano per i bambini". La frase mi
rimbomba ogni giorno..."la fondazione.."
Prendo il telefono e urlo la mia rabbia ai tre amici colpevoli; poi scrivo,
scrivo, e mi contorco nella sofferenza della loro perdita; scrivo e nessuno
trova rimedio per il mio amore lacerato.
Eppure mi ero affidata a voi con tranquillità senza mai dubitare che io e
Francesca, io e Giulio, io e Mario eravamo altro da Lino e Sandro sconvolti
e disperati.
Ha deciso tutto un medico: e voi avete accettato subito, senza neppure
discutere con Lino (ma Claudio è come Grazia? che cosa ha dentro? cosa
vuole dalla sua vita?)
Senza quello strano infermierino del 7/1, oggi che sarebbe di me?
Avevo bisogno di voi per condividere questo avvenimento straordinario che
è la morte vissuta ad occhi spalancati, accanto alla luce, al golfino rosa di
mio figlio, al pranzo quotidiano.
Avevo bisogno di sentirmi belva insieme a voi - voi belve più di me - per
vincere, per vivere, per stringervi al cuore nell'unico modo che ho sempre
conosciuto.
Al mattino seguente mi preparo con cura perché so che rimarrò a letto forse
per tutto il giorno e la notte. L'instabilità rimasta dopo l'operazione di
quindici giorni fa mi costringe a chiedere aiuto.
A letto cerco di respirare contro la forte emozione dell'attesa. Metto le mie
preziose cassette di musica portate con il registratore; muovo i piedi per
l'energia.
Alle 11 viene l'infermiera per iniziare la flebo di cortisone; ovviamente si
rompe la vena; Marta (che è timida e delicata) fa come la mia amica Marina
- le vengono chiazze rosse sul collo e sul viso. Riprova: sa che è molto
doloroso questo ago con catetere su vene fragili e sottili come le mie. Per
fortuna il secondo tentativo sembra reggere e fissa l'ago.
Alle 12 comincia un movimento grosso nelle stanze accanto; io posso solo
ascoltare; non siamo visibili reciprocamente perché i muri di tufo sono di
oltre 30 cm. tra una stanza e un'altra.
Anche nella mia capisco che viene preparato molto materiale di emergenza
al di là del muretto del letto. Riva mi avvisa che stanno lavorando prima su
altre tre persone (l'ittrio ha una validità di due giorni ed è stato faticosissimo
procurarselo per il medico: bisogna usarlo subito; hanno chiamato anche un
paziente a casa, di emergenza, per trattarlo immediatamente).
Mi da' i tempi come l'avevo pregato di fare, per controllare l'ansia. Il
chirurgo sta trovando problemi con l'altro ammalato, perciò ritarda.
All'una meno qualche minuto sono nella mia stanza.
Franco Fornari scrive: "un proverbio lucano dice che quando un bimbo
nasce, piange per annunciare che la morte è entrata nel mondo. Sarebbe però
più corretto dire che piange perché - nascendo - ha incontrato la morte".
Sono certa che il grande psicanalista abbia voluto dire ....perché - nascendo -
ha incontrato la sua morte. Nessuno ha il diritto di togliere a quel bimbo che
nel corso degli anni così a fatica è diventato persona (fragile o resistente,
che importa?), a quel vecchio che lo chiede, il confronto con la sua morte.
Il ricordo di tutto se stesso.
NOTE:
Non è sempre stato così. Ariés ci ha ricordato che l’uomo del Secondo
Medioevo e del Rinascimento "teneva a partecipare alla propria morte,
perché vedeva in essa un momento eccezionale in cui la sua individualità
riceveva la forma definitiva. Non era padrone della propria vita che nella
misura in cui era padrone della propria morte"(I).
NOTE:
(I) P. Ariès, Storia della morte in occidente, Milano, 1994, p. 195.
Molto
Abbastanza
Poco
Per Nulla
Non so
REGIO DECRETO-LEGGE
7 settembre 1938-XVI, n. 1381
•Art. 2. Agli effetti del presente decreto-legge è considerato ebreo colui che
è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione
diversa da quella ebraica.
•Art. 4. Gli stranieri ebrei che, alla data di pubblicazione del presente
decreto-legge, si trovino nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell'Egeo e
che vi abbiano iniziato il loro soggiorno posteriormente al 1í gennaio 1919,
debbono lasciare il territorio del Regno, della Libia e dei Possedimenti
dell'Egeo, entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente decreto.
Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro il termine suddetto
saranno espulsi dal Regno a norma dell'art. 150 del testo unico delle leggi di
P.S., previa l'applicazione delle pene stabilite dalla legge.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserto
nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d'Italia, mandando
a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
------------------------------------------------------------------------
Le leggi razziali
Sulla proposta del DUCE, Primo Ministro Segretario di Stato, Ministro per
l'interno, di concerto coi Ministri per gli affari esteri, per la grazia e
giustizia, per le finanze e per le corporazioni;
Abbiamo decretato e decretiamo:
CAPO I
Provvedimenti relativi ai matrimoni
•Art. 6. Non può produrre effetti civili e non deve, quindi, essere trascritto
nei registri dello stato civile, a norma dell'art.5 della legge27 maggio 1929-
VII, n. 847, il matrimonio celebrato in violazionedell'art.1. Al ministro del
culto, davanti al quale sia celebrato tale matrimonio, è vietato
l'adempimento di quanto disposto dal primo commadell'art.8 della predetta
legge. I trasgressori sono puniti con l'ammenda da lire cinquecento a lire
cinquemila.
•Art. 7. L'ufficiale dello stato civile che ha proceduto alla trascrizione degli
atti relativi a matrimoni celebrati senza l'osservanza del disposto dell'art. 2 è
tenuto a farne immediata denunzia all'autorità competente.
CAPO II
Degli appartenenti alla razza ebraica
•Art. 12. Gli appartenenti alla razza ebraica non possono avere alle proprie
dipendenze, in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. I
trasgressori sono puniti con l'ammenda da lire mille a lire cinquemila.
•Art. 13. Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti
alla razza ebraica:
a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato;
b) il Partito Nazionale Fascista e le organizzazioni che ne dipendono o che
ne sono controllate;
c) le Amministrazioni delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza e degli Enti, Istituti ed Aziende,
comprese quelle dei trasporti in gestione diretta, amministrate o mantenute
col concorso delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza o dei loro Consorzi;
d) le Amministrazioni delle aziende municipalizzate;
e) le Amministrazioni degli Enti parastatali, comunque costituiti e
denominati, delle Opere nazionali, delle Associazioni sindacali ed Enti
collaterali e, in genere, di tutti gli Enti ed Istituti di diritto pubblico, anche
con ordinamento autonomo, sottoposti a vigilanza o a tutela dello Stato, o al
cui mantenimento lo Stato concorra con contributi di carattere continuativo;
f) le Amministrazioni delle aziende annesse o direttamente dipendenti dagli
Enti di cui alla precedente lettera e) o che attingono ad essi, in modo
prevalente, i mezzi necessari per il raggiungimento dei propri fini, nonché
delle società, il cui capitale sia costituito, almeno per metà del suo importo,
con la partecipazione dello Stato;
g) le Amministrazioni delle banche di interesse nazionale;
h) le Amministrazioni delle imprese private di assicurazione.
•Art. 14. Il Ministro per l'interno, sulla documentata istanza degli interessati,
può, caso per caso, dichiarare non applicabili le disposizioni dell'art 10,
nonché dell'art. 13, lett. h):
a) ai componenti le famiglie dei caduti nelle guerre libica, mondiale,
etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista;
b) a coloro che si trovino in una delle seguenti condizioni:
1.mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle
guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola;
2.combattenti nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola che abbiano
conseguito almeno la croce al merito di guerra;
3.mutilati, invalidi, feriti della causa fascista;
4.iscritti al Partito Nazionale Fascista negli anni 1919-20-21-22 e nel
secondo semestre del 1924;
5.legionari fiumani;
6.abbiano acquisito eccezionali benemerenze, da valutarsi a termini
dell'art.16.
Nei casi preveduti alla lett. b), il beneficio può essere esteso ai componenti
la famiglia delle persone ivi elencate, anche se queste siano premorte. Gli
interessati possono richiedere l'annotazione del provvedimento del Ministro
per l'interno nei registri di stato civile e di popolazione. Il provvedimento
del Ministro per l'interno non è soggetto ad alcun gravame, sia in via
amministrativa, sia in via giurisdizionale.
•Art. 16. Per la valutazione delle speciali benemerenze di cui all'art. 14 lett.
b), n. 6, è istituita, presso il Ministero dell'interno, una Commissione
composta del Sottosegretario di Stato all'interno, che la presiede, di un Vice
Segretario del Partito Nazionale Fascista e del Capo di Stato Maggiore della
Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale.
•Art. 17. è vietato agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in
Libia e nei Possedimenti dell'Egeo.
CAPO III
Disposizioni transitorie e finali
•Art. 18. Per il periodo di tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente
decreto, è data facoltà al Ministro per l'interno, sentita l'Amministrazione
interessata, di dispensare, in casi speciali, dal divieto di cui all'art. 3, gli
impiegati che intendono contrarre matrimonio con persona straniera di razza
ariana.
•Art. 19. Ai fini dell'applicazione dell'art. 9, tutti coloro che si trovano nelle
condizioni di cui all'art.8, devono farne denunzia all'ufficio di stato civile
del Comune di residenza, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto. Coloro che non adempiono a tale obbligo entro il termine
prescritto o forniscono dati inesatti o incompleti sono puniti con l'arresto
fino ad un mese e con l'ammenda fino a lire tremila.
•Art. 20. I dipendenti degli Enti indicati nell'art.13, che appartengono alla
razza ebraica, saranno dispensati dal servizio nel termine di tre mesi dalla
data di entrata in vigore del presente decreto.
•Art. 21. I dipendenti dello Stato in pianta stabile, dispensati dal servizio a
norma dell'art.20, sono ammessi a far valere il diritto al trattamento di
quiescenza loro spettante a termini di legge. In deroga alle vigenti
disposizioni, a coloro che non hanno maturato il periodo di tempo prescritto
è concesso il trattamento minimo di pensione se hanno compiuto almeno
dieci anni di servizio; negli altri casi è concessa una indennità pari a tanti
dodicesimi dell'ultimo stipendio quanti sono gli anni di servizio compiuti.
•Art. 24. Gli ebrei stranieri e quelli nei cui confronti si applichi l'art.23, i
quali abbiano iniziato il loro soggiorno nel Regno, in Libia e nei
Possedimenti dell'Egeo posteriormente al 1° gennaio 1919, debbono lasciare
il territorio del Regno, della Libia e dei possedimenti dell'Egeo entro il 12
marzo 1939-XVII. Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro
il termine suddetto saranno puniti con l'arresto fino a tre mesi o con
l'ammenda fino a lire 5.000 e saranno espulsi a norma dell'art.150 del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 18 giugno
1931-IX, n. 773.
•Art. 27. Nulla è innovato per quanto riguarda il pubblico esercizio del culto
e la attivita delle comunità israelitiche, secondo le leggi vigenti, salvo le
modificazioni eventualmente necessarie per coordinare tali leggi con le
disposizioni del presente decreto.
•Art. 28. è abrogata ogni disposizione contraria o, comunque, incompatibile
con quella del presente decreto.
Chi non è iscritto a quelle liste non sa però che alla mia prima lettera, citata
integralmente nel lancio, ne sono seguite altre dove chiarivo il mio punto di
vista sull’università (italiana e non). La prima lettera dunque deve essere
considerata nel suo contesto di discussione aperta, perché tale è la natura dei
messaggi diffusi sulle liste attraverso la posta elettronica. Il tono e il
contenuto della mia prima lettera avevano scatenato reazioni contrastanti. Io
ed altri colleghi (non solo qui a Edimburgo) avevamo giudicato l'articolo del
Guardian offensivo e superficiale. Giulio Lepschy, durante la biennale
conferenza degli Italianisti britannici a Glasgow, mi aveva poi messo sulla
tracce di un altro articolo di Pacitti, ancora più offensivo del secondo e al
quale Bendetta Bini addetta culturale a Londra aveva risposto
pubblicamente.
All'invio della mia prima mail molti degli iscritti, non conoscendo i
precedenti, si sono arrabbiati o stupiti, pensando che io volessi difendere a
ogni costo l’università italiana da giuste critiche o attaccare i lettori stranieri.
Qualcuno mi ha dato del sindacalista della CGIL. Un pensionato-poeta
dell'Indiana mi ha risposto commosso citando Canetti e Frost. Fabio Girelli-
Carasi ha scritto che la mia difesa era comprensibile, ma non giustificabile,
rientrando nella categoria "solo io prendo a calci il mio cane". Un amico
incredulo mi ha risposto privatamente, sostenendo che in realtà, in un
accesso Stevenson-Flaubertiano (l'aria di Edimburgo), Pacitti Domenico era
moi, vittima e carnefice dell’università italiana a un tempo. Eccetera. In
generale, eccetto Nanda Cremascoli (preside di una scuola di Clusone),
pochi hanno avuto la bontà di analizzare a sangue freddo la situazione ed
andare al di là delle issues of contention del momento (lettori e caso
Erasmus).
Nella mia lunga replica, comunque sia, cercavo di spiegare la mia posizione,
frutto non tanto (o non solo) di un soprassalto d'Italico orgoglio, ma di una
consapevolezza maturata attraverso gli anni delle mie esperienze all'estero.
Qui sotto ne propongo ai lettori di Golem una sintesi, non senza ribadire
però che la pars destruens qui sotto dedicata al sistema americano non vuole
essere, nonostante la durezza delle mie denunce, una condanna integrale
verso quel sistema universitario, né una difesa trasversale dei difetti di
quello italiano.
[...]
1)«Tutta altra musica gli ottimi articoli di Burton Bollag e Andrew Gumbel
(citati da Girelli-Carasi, e apparsi sull'americano Chronicle of Higher
Education fra l'ottobre e il febbraio 1996), che si riferiscono sempre a casi
specifici e riportano correttamente nomi e cognomi delle fonti citate.
Insomma ammettiamolo: il Guardian ha preso una bella toppa pubblicando
l'articolo di un giornalista che è parte in causa (anche se la causa dei lettori è
una causa giusta). (n.b. poco sopra riportavo un messaggio del Pro-rettore
dell'Università di Siena che mi informava del fatto che Domenico Pacitti è
lettore nel dipartimento di Lingue di quella Università )».
[...]
I) L'UNIVERSITA' AZIENDA
A livello specifico la competizione su base commerciale e i tagli sempre più
duri alla spesa per l'education hanno in parte già prodotto:
a) un abbassamento del livello dell'insegnamento;
b) un livellamento della retribuzione;
c) il congelamento implicito del passaggio a "tenured" per moltissimi
insegnanti.
Già solo questi tre (quattro, compresi i tagli) fattori - come sa chiunque
abbia lavorato in un università americana - sono la causa di un aumento
inverosimile del livello di stress e di logoramento sociale all'interno dei
campus.
Ci troviamo di fronte a una crisi globale dei sistemi educativi e nel mettere
mano a questa crisi io intravedo una spaccatura e un bivio. Sul campo si
affrontano due forze, a sua volta riflesso di delicati equilibri economici,
storici e culturali che stanno lentamente venendo al pettine: un modello
anglosassone, rappresentato dal sistema americano (e dai suoi cloni più o
meno temperati) e un sistema europeo, il cui modello non esiste, ma che è
giunto il momento di inventare. Molto si sta muovendo in UK, un sistema
selettivo con ossatura pubblica, ma vedo più analogie fra il sistema
americano e quello britannico (nelle sue ultime tendenze) che fra
quest'ultimo e quello francese. Si attendono con trepidazione le mosse del
nuovo governo laburista che, ricordiamolo, durante la campagna elettorale
ha messo al centro dei suoi programmi riformatori proprio scuola e
università.
ADDENDUM
Carlo Testa, della British Columbia a Vancouver, a proposito di questa mia
frase commentava: "Bisogna essere grati alle critiche da dovunque vengano.
Non lo dicono anche i cattolici che i sacramenti valgono anche se
amministrati da un prete indegno? E allora, per quanto "indegni" possano
essere gli anglosassoni, si faccia buon uso di ciò che di utile essi possano
rivelare". Sono assolutamente d'accordo. Ma un conto sono delle critiche, un
conto una campagna diffamatoria che tutto distrugge e tutti mette sullo
stesso piano, critici, giornalisti, baroni, corrotti - e persino i poveri lettori.
Les Immortels
Carlo Bertelli L’Immortel cinse la sottile spada al fianco, s’inchinò leggermente agli altri
suoi simili e pronunciò il discorso d’insediamento. E’ d’uso da tempo
immemorabile all’Académie che il nuovo entrato celebri le virtù di colui cui
è succeduto. In questo caso l’immortale entrante era il più popolare e il più
televisivo degli storici dell’arte italiana mentre il suo predecessore era stato
un popolarissimo presidente degli Stati Uniti, Richard Milhous Nixon.
Cavallerescamente Federico Zeri attribuì le disgrazie di Nixon all’infame
televisione, senza la quale lo scandalo Watergate non vi sarebbe stato e la
nostra storia sarebbe andata diversamente. Ricordò che Nixon era stato
amico della signora Frick, ossia della proprietaria della più splendida
galleria d’arte antica, aperta al pubblico e dotata d’una importante fototeca -
ancora direi la più importante - di New York.
L’amicizia fra Nixon e la signora Frick è ben documentata. I Fricks sono da
generazioni repubblicani e durante l’ultima campagna elettorale cui
partecipò, il futuro presidente fu accolto nella galleria con un sontuoso
ricevimento cui presero parte gli invitati più qualificati. Nixon era molto
stanco. Era la prima volta che metteva piede nella Frick. Fu accompagnato
nel salone, quello in cui alcuni fra i massimi capolavori dell’arte italiana e
olandese ti guardano. Adocchiò l’ampio divano, vi si sprofondò
pesantemente e pronunciò una frase che subito circolò negli ambienti
democratici di New York: "What a nice place for a snap downtown!".
Può darsi che fossero maligne voci messe in giro dai democratici, anche se
la storia assomiglia molto a quel poco che sappiamo di lui.
Ritengo comunque che la successione a Nixon sugli scanni dell’Académie
abbia certi aspetti di nemesi. Lo dico perché durante un viaggio a Palm
Springs mi fermai in un albergo, fra Palm Springs e Spring Desert, costruito
come una missione spagnola. Nel patio si poteva ammirare una torre bianca
con un complesso carillon. Alle mezz’ore da una porticina usciva un lungo
corteo di figure meccaniche che rappresentavano un monaco, un vescovo,
un indio convertito, un soldato spagnolo, la Morte. Mi ero fermato a
osservare la scena e quando tutte le figure erano sfilate ed erano state in
parte assorbite da un’altra porticina, lasciando visibile sul posto soltanto la
Santissima Trinità, un cameriere mi chiese premurosamente se volevo
visitare le catacombe, che sarebbero state sul prezzo della mia
consumazione.
Scese due rampe di scale mi trovai in un corridoio fiancheggiato di arcosoli
con pitture di vago sapore catacombale. La maggiore sorpresa, per che abbia
qualche esperienza delle catacombe romane, non stava però nell’imitazione
più o meno felice dei temi reperibili nelle cartoline illustrate che si vendono
in quei luoghi ricchi di storia, ma nel lusso sfrenato di quelle catacombe
alberghiere.
Tutto era marmo e del marmo più lucido. Spessi vetri proteggevano le
pitture e l’illuminazione artificiale era degna della Funerary Home di
Madison. Lastre di marmi colorati artificialmente chiudevano i finti loculi e
l’occhio scorreva sulle iscrizioni: Christos Soter, Martyri Benemerenti....
Superato un diverticolo e poi un altro, ci trovammo in un’area più ampia,
una vera cappella. Ancora arcosoli, ancora nomi di martiri e, sulla parte di
fondo, un altare con regolare fenestrella confessionis. Dietro, sul muro, una
grande lastra di marmo nero con l’iscrizione in oro: IN THIS CHAPEL
MARRIED RICHARD MILHOUS NIXON LATER TO BECOME
PRESIDENT OF THE UNITED STATES.
Avevo già sentito il racconto della visita alla collezione Frick e, dopo quella
mia ispezione catacombale, fui sempre più portato a credere che fosse vero.
Tempus ulter, almeno nelle piccole cose, avrà pensato qualche accademico
come me al corrente di quanto ho riferito.
E' possibile una Biblioteca Multimediale?
Giulio Blasi Il dibattito (insulso) sulla morte (vera o falsa, presunta, annunciata,
imminente o meno) del libro e sui rapporti tra editoria tradizionale e editoria
multimediale ha dimenticato sinora un tema di grande rilievo: è possibile
immaginare una Biblioteca Multimediale che, al pari delle biblioteche
tradizionali, raccolga, mantenga utilizzabili e consultabili nel tempo le opere
oggi realizzate su supporti elettronici?
Potete allora immaginare lo storico del futuro (del 2100, poniamo) in una
biblioteca multimediale dotata di computer un po’ particolari sui quali
girano sistemi operativi un po’ diversi dal normale perché sono in grado di
emulare grandi quantità di sistemi del passato. Il nostro ultranipote troverà
in un catalogo on-line il titolo "Encyclomedia" attribuito ad un noto
poligrafo del secolo precedente, tale Umberto Eco. Il suo sistema operativo
(MS Windows 2100, appunto) sarà in grado di "datare" il software con il
quale il prodotto è stato realizzato un secolo prima e di attivare l’emulatore
giusto che ne permetterà la consultazione.
Questo per ciò che attiene ad ipotesi futuribili e che in fondo ci riguardano
poco. E’ invece certo che dovremo occuparci, sempre più nel futuro
prossimo, di elaborare progetti e strategie al riguardo, di costruire modelli
operativi e sperimentazioni efficaci, di sottoporre il problema alla comunità
internazionale degli editori multimediali affinché finanziamenti adeguati
siano destinati alla ricerca in questa direzione.
Se non faremo questo (cosa che non possiamo escludere a priori) vorrà dire
che l’editoria multimediale di cui oggi ci occupiamo è destinata a tempi di
sopravvivenza brevissimi, incomparabilmente più brevi di quelli degli altri
media. I bit oggi codificati con tanto dispendio di denaro ed energie si
trasformeranno in inutili atomi.
Per forza e per amore
Giovanna Grignaffini Ordine, disordine, armonia. Stabilità, crisi, nuovo equilibrio.
Volendo leggere le recenti vicende della vita politica italiana, secondo uno
schema capace di contenerne le incessanti fluttuazioni, la struttura
elementare del racconto si presenta come particolarmente appropriata. Dalle
varie finanziarie alla crisi albanese, dai ripetuti voti di fiducia alle deleghe
concesse al governo, dal progetto di riforma del welfare ai lavori della
Commissione bicamerale, dalle esternazioni di Bertinotti a quelle di Dini,
dalle ordinarie tenute del Parlamento agli improvvisi crolli del numero
legale, è infatti tutto un aprirsi, sciogliersi, riaprirsi di crisi. Con l’unica
certezza di un provvisorio lieto fine e di una instabilità permanente che ha
accelerato i propri ripetuti movimenti. Fino al punto di trasformare un calmo
governo che si pensava di legislatura in semplice e movimentato governo ad
horas.
Ma lungo la soglia esilissima che separa e collega il ciclico andamento delle
crisi secondo scansione ritmica sempre più incerta ed abbreviata e un
modello narrativo apparentemente sempre più solido, qualcuno comincia ad
interrogarsi circa la capacità di interpretazione che la struttura elementare -
lineare ed orizzontale - del racconto offre rispetto al presente della nostra
vita politica.
Perchè, per esempio, potremmo trovarci di fronte ad un movimentismo di
superficie che non altera la stabilità di una scena profonda il cui ordine,
indelebilmente fissato dal voto dell’aprile 1996, non presenta alternative
possibili almeno a medio termine.
Ma, aggiungere la dimensione spaziale dalla profondità a quella
esclusivamente temporale implicita nel concetto di crisi, non modifica i
termini della questione, visto che i conflitti in atto potrebbero essere radicati
in ben altra sostanza rispetto a quella esilissima che appare quotidianamente
nelle diatribe della scena pubblica.
Il fatto è che i modi per dare forma a una complessità (che tali sono sia la
società italiana contemporanea sia l’alleanza di governo uscita vincitrice
dalle ultime elezioni) non si lasciano facilmente rappresentare dalle logiche
lineari o binarie: quelle in cui o c’é conflitto o c’é ordine, o ci sono riforme
di struttura o c’é governo dell’esistente, o c’é perfetta identità di vedute o
c’é differenza inconciliabile di punti di vista, o c’é "per forza" o c’é "per
amore".
No, potrebbe essere molto più semplice - non risolta, ma più semplice da
analizzare, valutare e risolvere - la situazione politica italiana se solo
qualcuno cominciasse a "pensare almeno due cose contradditorie
contemporaneamente" senza disporle lungo la catena ordinatrice dello
spazio e del tempo: per esempio, conflitto e convivenza, identità e
differenza, governabilità e utopia.
Sarebbe molto più semplice se qualcuno cominciasse a pensare che, in
questa storia, Rifondazione Comunista sta con il governo Prodi per forza e
per amore. E viceversa.
In attesa che cominci un’altra storia.
Autogolem
Stefano Bartezzaghi (Soluzione dei giochi del numero precedente)
1. ESPERTO IN CABALA
2. FALSE ETIMOLOGIE
Il cronista è al cronicario.
Chi è campione ha il campionario.
La lambada ha il lambadario.
Chi va lemme ha il suo yyyxxxxx.
3. FALSO DIMINUTIVO
4. EAU DE CHE
Non sarò molto à la page:
non capisco quel battage
che riguarda il maquillage.
Che vuol dire? Yyy y "Yyxxxxx"?
5. ACINI IN ASPIC
6. AMMIRO MARZIALE
7. A LUME DI CANDELA
9. HO FAME!
Soluzioni
1. golem
2. lemmario
3. Mario Chiesa
4. Chi è "sauvage"?
5. uva gelatinosa
6. latino salace
7. la cenetta d'amore
8. netta da more e bolli
9. ebollizione
10. zio nero
Sessualità dopo i 40
Roberta Ribali Certamente, la vita sessuale cambia: ma declina o progredisce?
Vedi Anche:
cinema.it
Jimi
Roberto Caselli Una storia infinita. Da quel fatidico 18 settembre 1970, giorno in cui Jimi
Hendrix morì in circostanze mai del tutto chiarite, la sua eredità musicale è
passata attraverso complicate traversie, quasi sempre finalizzate ad
arricchire chi se ne occupava, più che a realizzare una pubblicazione
definitiva che mettesse finalmente chiarezza nella sua opera. Fino ad oggi,
tra dischi ufficiali, edizioni economiche, greatest hits e pubblicazioni più o
meno clandestine, i titoli attribuiti a Hendrix arrivano tranquillamente al
centinaio. Dopo la sua morte, infatti, negli archivi degli Electric Lady
Studios, furono trovate centinaia di ore di musica registrata dallo stesso
chitarrista che furono affidate dagli eredi al produttore Alan Douglas, uno
degli ultimi collaboratori di Hendrix. Da quel momento vennero date
periodicamente alle stampe registrazioni frammentarie, spacciate per nuove,
che hanno, in realtà, solo creato una gran confusione. Nel 1993, dopo aver
più volte manifestato la propria contrarietà verso questo tipo di gestione, la
famiglia Hendrix ha fatto causa a Douglas per il cattivo lavoro da lui
effettuato e per l’ambiguità con cui si è mosso. A due anni di distanza, papà
Al e sorella Jane vincono la causa e si riprendono il diritto di sfruttamento
dell’opera di Jimi. La mossa successiva è quella di affidare il ripristino
definitivo del catalogo hendrixiano all’ingegnere del suono Eddie Kramer e
all’esperto John McDermott, con l’esplicito compito di ricostruire anche
l’identità di un disco, finora mai uscito, ma che sembra fosse praticamente
pronto, prima che Hendrix morisse. La Universal MCA, che nel frattempo si
è aggiudicata la licenza mondiale per le registrazioni di Hendrix ha
cominciato, proprio in questi giorni, a immettere sul mercato i primi frutti di
questa revisione. Il risultato è la nuova disponibilità dei primi tre storici
lavori: Are You Experienced? (1967), Axis: Bold As Love (1968) e Electric
Ladyland (1968) e finalmente del nuovo album, First Rays Of The New
Rising Sun, che contiene 17 brani, già tutti ascoltati, ma mai ordinatamente
raccolti. I lavori sono disponibili sia su vinile che su CD. In autunno si
prevede la pubblicazione di Band Of Gypsys (1970) e per il prossimo
gennaio addirittura di un disco fatto solo di inediti. Non è tutto, voci
abbastanza ufficiali giurano anche sull’individuazione di altri nuovi brani
che usciranno con una scadenza fissa di due anni dal 2000 in poi. Come
dire? Hendrix will never die.
La complessità
Sylvie Coyaud http://www.exploratorium.edu/complexity/menu.html
Le idee che lungo un intero secolo hanno portato a una nuova "dinamica, a
un modo più fluido e globale di concepire i rapporti tra le cose, animate o
meno, osservate o solo ipotizzate, sono sul Web dell’Exploratorium, sotto il
titolo "Paesaggi turbolenti: le forze della natura che danno forma al
mondo" (Turbolent Landscapes).
http://www.exploratorium.edu/complexity/menu.html
Nota tecnica: bastano dei normali browser. Il "Tour" audio dell’argomento,
accessibile per chi dispone dell’apposita scheda, non è indispensabile alla
comprensione.
Nota critica: occorrono almeno tre passaggi, a partire dal pagina Menu per
arrivare a certi oggetti della mostra "Paesaggi turbolenti", e siccome non
c’è un catalogo (o non l’ho visto) è difficile ritrovarli per una seconda visita
più sistematica. Suggerimento: salvate nei bookmarks quelli che vi sono
piaciuti di più.
Orari migliori: 8-11 del mattino. Dopo, rallentamento generale.
Appuntamenti
PRE-VISIONI
I registi di domani alla prova
spettacoli degli allievi del IV anno del corso di regia della Scuola d’Arte
Drammatica Paolo Grassi in collaborazione con il Teatro Franco Parenti ed il
Teatro Verdi
Come osservava Cecilia, e' più difficile del primo, perché devi operare su
una sola parola, anziché su una frase. Poi e' passato il momento
dell'entusiasmo iniziale per un gioco in rete, quindi rimangono solo gli
"appassionati" (i maniaci). Giocare in due e' deprimente, ed ho pensato ad
un paio di cose che - forse - potrebbero migliorare la situazione:
Non e' necessario inventare gli acronimi: a volte li si trova nei giornali o nei
libri. Cosi' si tratta solo di leggere, non di creare. Qualche esempio dai titoli
di libri:
Ma, più che nei titoli, e' nei testi che gli acronimi potrebbero nascondersi.
PRISENCOLINENSINAINCIUSOL
Ah.......G.I.O.C.H.I.:
G iochiamo
I nsieme:
O spitiamo
C hi
Ha
I mmaginazione
Golem è giunto al numero dieci. Sarà, ma i numeri tondi fanno sempre un certo effetto. Grandi sorprese stiamo
preparando, comunque, per il compleanno di Golem.
Intanto, vi proponiamo gli argomenti di Umberto Eco sul perché è più utile scrivere su Internet che sulla carta,
argomenti che inducono a varie considerazioni sul ruolo dell’informazione e sul senso della professione
giornalistica.
Il referendum sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti viene affrontato direttamente dagli interventi di Calabrò
e La Stella, nonché attraverso le proposte di legge a favore o contro l’abolizione.
Le nuove tecnologie porteranno con sé un nuovo modo di fare informazione , di fare giornalismo? In quali
direzioni e con quali modalità possiamo comprendere e dirigere questo mutamento?
Si parla, poi, di ruspe, pale e cucchiaini, ovvero del rapporto tra produttività e occupazione, di come dovrebbe e
di come non dovrebbe essere rinnovata l’Università in Italia e della relazione tra il premio Oscar, il Festival
della canzone italiana e il fondamentale concetto di democrazia.
Tra le rubriche, oltre ai nostri affezionati collaboratori, vi segnaliamo una nuova entrata: Roberta Ribali, che ci
intratterrà ogni mese con una riflessione sulle trappole che ci tende la nostra psiche.
Augurandovi una buona e costruttiva lettura, restiamo in attesa delle vostre sempre stimolanti reazioni.
Non scrivete sui giornali: nessuno se ne accorge
Umberto Eco Non è che Internet serva solo ai deliranti per ricevere messaggi dagli
extraterrestri (li ricevevano anche prima di Internet, magari via posta). Spero
serva anche ai terrestri, per dire delle cose che è ormai inutile dire sulla
stampa.
Ecco la storia. Sabato 29 marzo i giornali informano che Emma Bonino, in
un accesso di sdegno, di fronte alla tragedia dell’Albania, si chiede perché
Bobbio ed Eco (è lei ad usare questa sineddoche adulatoria, specie per me,
per indicare tutti gli intellettuali) non si pronunciano sull’Albania, così
rendendosi complici e forse responsabili diretti del disinteresse verso i
profughi albanesi.
Trascuro il sentimento un poco kitsch che sta dietro a questi sfoghi: come se
in una tragedia in cui l’ONU, la Comunità Europea, una dozzina di governi
non riescono a trovare una soluzione, e gran parte del paese reagisce con
razzismo istintivo, un alato appello di Anime Belle potesse risolvere la
situazione. Immagino che, secondo Emma Bonino, se Bobbio firmasse un
appello per affermare che gli albanesi sono buoni, la Pivetti ne
accoglierebbe duecento a casa propria. Ma se fosse così, basterebbe che la
Pivetti avesse letto non dico Bobbio, ma il Vangelo.
Trascuro il fatto che come commissario europeo la Bonino dovrebbe sentirsi
responsabile (se non soggettivamente, almeno oggettivamente) della
latitanza della Comunità Europea su questo argomento; lo ha notato
giustamente Cacciari su Repubblica di domenica, osservando come sia per
lo meno spudorato cercare altri responsabili invece di dare le dimissioni
dalla propria carica, a quanto pare inutile. Ma pazienza, i tempi sono duri e
possono saltare i nervi a chiunque.
Più singolare mi pare il fatto che la Bonino riceva in ritardo i giornali, o non
li legga. Altrimenti si sarebbe accorta di due cose. Primo, che proprio il
giorno prima che lei parlasse usciva sull’Espresso una mia riflessione
sull’Albania in cui invitavo a considerare una serie di cose. Secondo, due
giorni prima a Parigi aprivo un Convegno internazionale sull’intolleranza e
parlavo specificamente dell’Albania e del razzismo strisciante (o talora
rampante) che si sta verificando in Italia; ne ho riparlato il giorno dopo, e tre
giorni prima avevo sollecitato l’Academie Universelle des Cultures a
formulare un appello alla Comunità Europea. I giornali francesi (per non
dire di radio e televisione) hanno dedicato a questi eventi il massimo rilievo,
il Figaro ha trascritto tutto il mio intervento, l’Unità lo ha riportato in gran
parte, compreso l’accenno all’Albania e alla situazione italiana.
Il fatto che persino la Bonino (che avrebbe da citare questi eventi per
lanciare un appello a una maggiore partecipazione) non lo sapesse è proprio
la prova che gli appelli intellettuali servono a poco in tragedie come queste,
e quindi sarebbe inutile chedere agli uomini di cultura cose su cui essi hanno
poco potere.
Tuttavia, ancora una volta, la Bonino c’entra sino a un certo punto. Ha detto
una stupidaggine, pazienza, può accadere a tutti, la stampa avrebbe potuto
dedicarle un trafiletto ironico e la cosa sarebbe finita lì. Nossignore, la
stampa l’ha presa sul serio. Ho dovuto staccare il telefono perché a casa mi
avevano avvertito che vari quotidiani volevano sapere che cosa avrei
risposto. Mi sono detto che la stampa aveva tutti gli elementi a sua
disposizione per rispondere, l’Espresso era nelle edicole, a Parigi c’erano
tutti i corrispondenti italiani, tutto esisteva su fonti pubbliche.
E invece sui giornali di domenica ho ritrovato la sparata della Bonino
ripresa, affannosi interrogativi sul perché Bobbio ed Eco non salvano gli
albanesi, e nessuno - dico nessuno, neppure quelli che avevano parlato degli
eventi parigini il giorno prima - che si ricordasse di quello che ho riassunto
poco sopra.
La stampa non ha più memoria, non ha più archivi, né di giornali italiani né
di giornali esteri, non si ricorda delle notizie dei giorni precedenti, salta
addosso all’ultimo scandalo pur di riempire colonne.... Per quel che ne
sappiamo, Bobbio potrebbe avere fatto chissà che cosa venerdì, ma
domenica la stampa l’avrebbe dimenticato, e solo perché sabato ha parlato la
Bonino. E questa è la dimostrazione di quanto la Bonino abbia torto: non
vale affatto la pena che gli intellettuali scrivano e parlino, anche se quel che
dicono potesse contare qualcosa, perché intanto ogni parola verrebbe
cancellata il giorno dopo.
Visto che ormai la carta viene macerata nottetempo, mi affido alla rete. Non
si è forse scoperto che vi sono dei siti non più aggiornati da un anno e forse
più? Sulla rete c’è forse ancora un culto della memoria.
Il "mestiere" del giornalista
Antonio Calabrò Lo si può perdonare, Michelangelo Antonioni, per aver usato quella parola
un po’ solenne, "professione", accosatata a "reporter". Lo si può perdonare
perché era un maestro del cinema. E perché ancora, in quel ’74, non era
dilagata fastidiosamente la tendenza a parlare di "professionalità",
"professionisti", "professionismo", magniloquenze tanto più insistentemente
declamate quanto più sono emersi, collegati a quelle parole, corporativismi,
giochi di privilegio, intolleranze nei confronti di chi, "professionista"
appunto, faceva poco e male il suo lavoro (avvocati, medici, notai,
saltimbanchi, operatori TV, tecnici dell’informazione tutti pronti a
scandalizzarsi per gli "attacchi alla professionalità" senza aver mai voglia di
riflettere se e quanto le critiche, nel merito, fossero fondate).
Preferisco, dunque, parlare di "mestiere", per il giornalismo. Come una sorta
di "mestiere di vivere". Perché se ne sottolinea il carattere tutto sommato
artigiano: fare bene un lavoro, con precisione, accurata ricerca del come e
del perché delle cose, attento rispetto delle persone, umiltà. E perché dà
bene la dimensione d’una fatica: di capire, raccontare, redigere
puntigliosamente un giornale per cercare periodicamente di dare un senso a
quello che succede nel mondo. Mestiere artigiano, quindi, indifferente, nel
suo significato più profondo, alle tecnologie, le più moderne e sofisticate,
per scrivere, impaginare e trasmettere parole, suoni e immagini: un morto è
pur sempre un morto, una guerra una tragedia, un’operazione finanziaria
un’avventura con vantaggi e costi, uno spettacolo un evento da descrivere e
interpretare.
Giornalista è dunque chi ogni giorno fa un tale mestiere. E non certo
soltanto chi è iscritto ad un albo "professionale", ad un ordine di categoria
che negli anni ha finito per assumere troppe caratteristiche di corporazione.
Di un "Ordine", privilegio quasi esclusivamente italiano, si potrebbe
insomma benissimo fare a meno. A condizione, naturalmente, di difendere
invece i valori di fondo cui si deve ispirare il mestiere e le regole per poterlo
esercitare bene a cominciare dai contratti di lavoro (rafforzando quindi
compiti e ruoli del sindacato dei giornalisti).
C’è un gran bisogno, oggi, di una profonda riflessione proprio sui valori e
sulle regole del giornalismo: sulla cultura e sulle tecniche di cui è necessario
essere padroni, sul rapporto fra giornalista e fonti di informazione,
sull’autonomia nei confronti dei tanti poteri pubblici, politici, culturali ed
economici, sul ruolo di chi informa all’interno delle aziende giornalistiche
(giornali stampati, radio e TV o notiziari Internet che siano). Sulla
preparazione necessaria per evitare superficialità, cialtronerie e subalternità
di cui il giornalismo italiano offre purtroppo pessimi esempi.
Ci saranno infatti pesanti colpe dei giornalisti se oggi il referendum
sull’abolizione dell’ordine rischia di trasformarsi, impropriamente, in un
giudizio populista pro o contro i giornalisti in quanto tali, la loro funzione, il
ruolo politico e sociale. E se in certe aziende editoriali prende corpo l’idea
che il giornalista sia un factotum privo di identità particolare e buono ad
essere "flessibilmente" usato oggi per un settimanale Tv, domani per una
rivista di cucina, doman l’altro per una rassegna di moda impasticciata con
la pubblicità. E dunque, più che difendere l’anacronistico Ordine, varrebbe
la pena ragionare innanzitutto sull’etica dell’informazione e sui contenuti
del mestiere in questi difficilissimi tempi di grandi trasformazioni.
Recuperando, tra l’altro, l’orgoglio d’un lavoro ben fatto. Come sa bene
ogni buon artigiano.
Catena di montaggio
Oliviero La Stella L'informazione oggi in Italia è al livello forse più basso da vent'anni in qua.
La gente è insoddisfatta e trasferisce puntualmente nei sondaggi la scarsa
fiducia che nutre nei confronti dei media. Credo che su questo aspetto ci sia
poco da aggiungere, dopo le riflessioni e le provocazioni di Umberto Eco.
Alla crisi del sistema dell'informazione, la politica risponde con un
referendum che ha l'obiettivo di abolire l'Ordine dei Giornalisti. A mio
parere, questo modo di affrontare il problema è assolutamente disonesto.Si
fa credere all'opinione pubblica che i giornalisti siano i responsabili
dell'informazione quando invece lo sono solo in minima parte. La loro
autonomia nel corso degli ultimi anni si e infatti drasticamente ridotta. I
promotori del referendum, e chi apertamente o silenziosamente lo sostiene,
fingono di ignorare che l'informazione è oggi saldamente nelle mani dei
padroni dei media, ovvero di gruppi industriali e partiti politici. I giornalisti,
ahimè, oggi come oggi sono - a qualsiasi livello - elementi di una catena di
montaggio che sforna quotidianamente un prodotto scadente (superficiale e
talora manipolato), che si tenta di rendere appetibile con la "panna
montata" (scandalismo, pettegolezzi e frivolezze). Credo che i giornalisti
italiani, almeno quelli che hanno vissuto altre stagioni professionali, siano
tutti profondamente frustrati da tale situazione. E ritengo che ad essi si possa
soltanto imputare, individualmente e collettivamente, una mancanza di
coraggio, ovvero l’incapacità (e in alcuni casi la non volontà) di rifiutare
questo svilimento della professione.Ora con un referendum si punta a
delegittimare definitivamente la figura professionale del giornalista, per
renderla del tutto simile a quella della "scimmia ammaestrata" dell'ingegner
Frederick Winslow Taylor, il padre della catena di montaggio.Non sono mai
stato un fanatico dell'Ordine dei giornalisti. Da giovane, essendo un
cosiddetto "figlio del Sessantotto", ritenevo che avesse un sapore
corporativo e che quindi, per ciò stesso, fosse da abolire. In età più matura
ho fatto parte del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti e mi sono
sorbito centinaia di ore di chiacchiere inutili, su temi e da parte di oratori
spesso lontani dalle gravi questioni dell'informazione in Italia. Ma devo dire
che, ciò nonostante, qualcosa di buono l'Ordine l'ha fatto, insieme con la
Federazione Nazionale della Stampa: come la Carta di Treviso (a difesa dei
minori) e la Carta dei Doveri del Giornalista (per cercare di imporre
un'informazione più corretta); due documenti importanti ma che purtroppo,
per una serie di ragioni, ancora non sono entrati nelle redazioni come cultura
diffusa. Così pure, l'Ordine si è battuto - finora invano, per l'opposizione
degli editori - perché chi accede alla professione abbia un'alta
qualificazione, ottenuta al termine di un ben definito percorso formativo.Da
queste esperienze ho tratto la convinzione che l'Ordine debba esistere, ma
radicalmente riformato. Occorre che esso diventi più pienamente un
organismo di difesa del cittadino nei confronti delle distorsioni e delle
prevaricazioni dei media e che, quindi, attraverso strumenti di legge venga
dotato della possibilità di esercitare con efficacia questo ruolo. Ciò significa,
ad esempio, che bisognerà trovare il modo di sanzionare in maniera rapida e
rigorosa le scorrettezze dei giornalisti. In sostanza, sono per un Ordine con
più poteri, ma non a beneficio della "corporazione" bensì della gente.Non
vedo perché, così come si avverte l'esigenza di istituire authorities che
tutelano la libera concorrenza sul mercato o la privacy del cittadino, non si
possa pensare a un organismo che si preoccupi dei requisiti di correttezza
dell'informazione. Creare e far funzionare un'istituzione di questo genere
significherebbe, a mio parere, aprire una stagione nuova: la Seconda
Repubblica dell'informazione. E' comprensibile che a qualcuno faccia paura.
La battuta pronta
Anna Masera Cari amici di Golem, vi ringrazio del vostro invito a riflettere su alcune
considerazioni che sono emerse dal forum in diretta sul futuro del
giornalismo che avete ospitato sul vostro sito giovedì 13 marzo scorso alle
17.00 e a cui sono stata invitata a partecipare, insieme a Rocco Cotroneo del
Corriere della Sera e Enrico Pedemonte dell'Espresso. Il forum è stato
stimolante, ma temo che sia stato poco utile per approfondire il tema: la
comunicazione è stata sconnessa, un po' per motivi tecnici, un po' perchè le
chat tendono a favorire chi ha la battuta pronta, e non necessariamente lo
scambio di idee.
Vi scrivo dopo aver letto lo scambio vivace e polemico di questi giorni tra
Riccardo Staglianò (che ha scritto l'articolo di copertina «Poveri noi se il
web è idiota come la tv!» su Reset), Riccardo Chiaberge (che ha scritto
«Internet, la sinistra ci ripensa» sul Corriere della Sera del 19 marzo) e
Franco Carlini (che gli ha risposto per le rime sul Manifesto del 20 marzo).
Nel frattempo, il mio giornale, Panorama, ha pubblicato nel numero 11 del
14 marzo scorso l'articolo-inchiesta di Luca De Biase su «L'edicola al tempo
dell'online» (utile al lettore che vuole capirci qualcosa e che potete andare a
leggere su http://www.mondadori.com/pan1197/
mag/inc_1197_1.html) con a lato, purtroppo, un contraddittorio commento
firmato con la sigla del «tricheco» (del nostro condirettore Pierluigi
Battista), che tanto per cambiare prende le distanze da Internet con il tipico
snobismo e il tipico attaccamento al «vecchio» contro tutto ciò che è
«nuovo» dei principali direttori di giornali italiani.
Tutto questo serve per contestualizzare il mio intervento, che vorrei
sintetizzare in tre punti:
2) Non ha senso, per noi che «di sinistra» siamo quantomeno di provenienza
storica, demonizzare tutto ciò che è commerciale, «privato» e produce
«soldi». Sì, Internet non è più solo la grande rete anarchica dove tutto era
libero e gratis: oggi su Internet si commercia, ci si guadagna da vivere, si fa
pubblicità. E con questo? Ma le strade secondo voi sono state costruite per
favorire lo scambio di merci o solo per permetterci di andare in vacanza?
Non siamo ridicoli: meno male che Internet sta maturando e che le
informazioni arrivano anche grazie al «push» e non solo al «pull» (quello,
tra l'altro, per i «puristi della Rete» ci sarà sempre); meno male che Internet
diventa più accessibile a chi cerca informazioni ma non ha tempo di
navigare; e meno male che Internet diventa un luogo di opportunità, non
solo per chi vuole imparare, ma anche per chi vuole guadagnarsi da vivere
inventandosi un nuovo mestiere. Le imprese commerciali, con le loro
iniziative e i loro banner pubblicitari, simili agli spot della tivù, sono solo
benvenute se favoriscono tutto questo.
Quali delle seguenti affermazioni si avvicina di più alla tua opinione sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti?
Caratteristiche personali:
Genere:
Maschio
Femmina
Età: 0
Titolo di studio
Professione:
altro
Ti "senti" di:
Sinistra
Centro-Sinistra
Centro-Centro
Centro-Destra
Destra
Nessuna di queste categorie
Non so
Si
No
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L'utopia
Paolo Palazzi Il fenomeno degli ultimi decenni della globalizzazione internazionale dei
mercati ha alcune importanti caratteristiche di novità rispetto alla situazione
precedente in cui in realtà i mercati erano già abbondantemente globalizzati
(addirittura alcuni studiosi affermano che, dal punto di vista del peso degli
interscambi internazionali sulla produzione, la globalizzazione era più
elevata all'inizio del secolo).
In sintesi, con uno slogan, si può dire che bisogna incorporare nei prodotti il
benessere sociale e la qualità della vita. Slegando in qualche modo il
benessere dalla quantità dei prodotti e legandolo alla qualità.
Come credo tutti ormai sappiamo, questa trasformazione non può avvenire
con una modificazione dell'assetto politico e ancor meno con una
rivoluzione: poichè tale trasformazione deve avvenire nelle coscienze e dal
basso, non è sufficiente propagandarla né può essere imposta.
Ruspe, pale e cucchiaini
Antonio Martino Negli ultimi 20 anni, mentre gli Stati Uniti hanno creato 36 milioni di nuovi
posti di lavoro, di cui 31 milioni nel settore privato, nell’Unione Europea ne
sono stati creati soltanto 5 milioni, di cui appena 1 milione nel settore
privato. Da questo dato discende una conseguenza ovvia: se vogliamo creare
occupazione produttiva, dobbiamo consentire agli investimenti privati di
farlo, il che implica la rimozione dei troppi vincoli che oggi lo impediscono.
Ho avuto modo di illustrare questa tesi in un precedente articolo, ma credo
che valga la pena riprenderla perché mantiene intatta la sua validità. Il
problema della disoccupazione attuale non può essere risolto con politiche
di stimolo della domanda, come aumenti della spesa pubblica o politiche di
moneta facile. No, la disoccupazione che rappresenta l’incubo di milioni di
nostri giovani, specie al Sud, è dovuta quasi esclusivamente a cause
"strutturali", ai vincoli ed alle distorsioni che impediscono ai mercati del
lavoro di funzionare. In conseguenza di ciò, è semplicemente illusorio (per
non dire velleitario) supporre, come fanno in tanti, che l’intervento pubblico
diretto possa creare occupazione. Vediamo di chiarire.
Sembra che qualche anno fa un uomo d’affari occidentale, durante una sua
visita in Cina, vide un centinaio di lavoratori che, armati di pale, scavavano
un terrapieno, una sorta di piccola diga. L’uomo d’affari non poté trattenersi
dal commentare che un lavoratore solo con una macchina scavatrice avrebbe
potuto agevolmente svolgere lo stesso lavoro in mezza giornata. Al che il
caposquadra gli rispose che, così facendo, si sarebbe creata disoccupazione.
"Ah!", rispose l’uomo d’affari occidentale, "non avevo capito. Credevo che
voleste costruire un terrapieno. Ma se, invece, volete creare occupazione,
perché non gli togliete le pale e li armate di cucchiaini?".
Un’illustrazione abbastanza efficace di una differenza fondamentale: quella
fra occupazione fasulla ed occupazione produttiva. La prima non è difficile
da creare con l’intervento pubblico, com’è ampiamente dimostrato
dall’esperienza, non solo in Italia. Assumete un certo numero di persone,
mettetele a scavare buche, ed incaricate poi un altro gruppo di "lavoratori"
di riempirle. Pagate i due gruppi con denaro "pubblico" (cioè con quattrini
prelevati con le tasse da tasche private) ed avrete creato il tipo di occupati
che l’intervento pubblico sa creare così bene.
Il problema tuttavia, con questo tipo di occupazione è che essere occupati
non significa percepire un reddito, significa produrre un reddito. Ora,
quando uno percepisce un reddito che non produce, qualcun altro produce
un reddito che non percepisce e non percepirà mai. L’occupazione "creata"
dai politici, in altri termini, è anzitutto null’altro che un trasferimento di
reddito di chi produce a chi non produce. Coloro i quali hanno dovuto
pagare le tasse per finanziare gli stipendi dei "lavoratori" pubblici avranno,
in conseguenza di ciò, meno reddito da risparmiare o da spendere. Al
sistema produttivo, quindi, affluiranno meno risorse sia per minori vendite
di prodotto che per minore risparmio da investire. L’occupazione nel settore
produttivo sarà, quindi, minore: l’intervento pubblico da un lato ha creato
occupazione (sono aumentati gli scavatori ed i riempitori di buche, i
"buchisti"), dall’altro ha distrutto posti di lavoro nel settore produttivo dal
quale ha dovuto prelevare le risorse per pagare lo stipendio dei "buchisti "
pubblici.
Anche supponendo per assurdo che il numero dei lavoratori occupati grazie
all’intervento pubblico sia uguale al numero di quanti, in sua assenza,
avrebbero trovato occupazione nel settore produttivo, l’effetto netto
dell’intervento pubblico è sempre negativo, perché i posti di lavoro creati
sono improduttivi, mentre quelli distrutti sarebbero stati produttivi. In
conseguenza, stiamo tutti peggio perché il reddito complessivo prodotto sarà
minore di quanto avrebbe potuto essere.
L’analisi surriferita, anche se schematica, è lungi dall’essere caricaturale:
l’esperienza di questo secolo, infatti, dimostra aldilà di ogni ragionevole
dubbio che l’intervento pubblico non è in grado di creare occupazione
produttiva. Se , infatti, grazie ad illuminati piani quinquennali o altre forme
di intervento pubblico si potesse creare occupazione produttiva, il
comunismo avrebbe avuto successo. Se è miseramente fallito è proprio
perché non è riuscito a creare occupazione produttiva. D’altro canto, è
altrettanto certo che la fiscalità eccessiva - le troppe tasse e i troppi onerosi
balzelli imposti al sistema produttivo - distrugge l’occupazione. Non è un
caso che i paesi in cui il carico fiscale è più basso sono anche quelli con
minore disoccupazione: Svizzera, Stati Uniti, Giappone o paesi emergenti
del sud-est asiatico hanno tassi di disoccupazione trascurabili, specie se
confrontati con quelli dei paesi ad alta fiscalità, come il nostro.
La morale è semplicissima (anche se le nostre sinistre continuano a non
capirla): se vogliamo accrescere l’occupazione produttiva dobbiamo ridurre,
non aumentare, sia le tasse che le spese pubbliche. Dobbiamo cioè smetterla
di chiedere al governo di fare quello che nessun governo è mai riuscito a
fare: creare occupazione produttiva. Quello che il governo, invece, può e
deve fare è proprio l’opposto di quanto sta facendo: deve liberare risorse che
possano essere investite, assicurando finalmente ai nostri giovani quella
speranza nel futuro che oggi viene loro negata.
No, questa legge no
Giovanni Bachelet 07/03/97 Può darsi che mi sbagli, ma mi pare che da molti mesi non ci siano più
commenti su "Cattedra o cara" e sul DDL di riforma dei concorsi. Eppure
fra pochissimo il DDL andrà in aula dopo le modifiche apportate in
commissione. L'estate scorsa ero patriotticamente convinto che la
combinazione dei dispositivi inizialmente previsti dal DDL (idoneità,
concorsi locali e "obbligo della deportazione" cioè divieto per i candidati
locali di concorrere nella stessa sede dove già sono) potesse funzionare.
Qualche maligno suggeriva già allora che i vincoli sembravano scritti
apposta per essere poi massacrati in aula: dopo l'iter parlamentare, dicevano,
sarebbe rimasta la sola idoneità nazionale a numero aperto, con conseguente
ope legis di massa di tanti falsi validi - come li definiva mesi fa Paolo
D'Iorio della Scuola Normale - entrati senza mai affrontare un concorso, e
spesso meritevoli semmai di una retrocess