Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
E poiché oggi siamo forse in quel momento fragile della storia in cui le due
funzioni coesistono, vorrei delineare una tipologia comparata del pittore e del
dipingente anche se dovrò utilizzare per questo confronto un solo riferimento:
quello che hanno in comune, la pittura. Il pittore svolge una funzione, il
dipingente un’attività, questo insegna la grammatica, che contrappone il sostantivo
dell’uno al verbo (transitivo) dell’altro. Non che il pittore sia una pura essenza:
egli agisce, ma la sua azione è immanente all’oggetto, si esercita paradossalmente
sul proprio strumento: il linguaggio; il pittore è colui che lavora la sua pittura
(fosse anche ispirato) ed è funzionalmente assorbito in questo lavoro. L’attività
del pittore comporta due tipi di norme: norme tecniche (di elementi visivi, della
loro composizione) e norme artigianali di strumenti, tecniche e tecnologie
Il paradosso è che, dal momento che il materiale diventa in qualche modo fine a sé
stesso, la pittura è in fondo un’attività tautologica: lo pittore è un uomo che
assorbe radicalmente il perché del mondo in un come dipingere. E il miracolo, se
così si può dire, è che questa attività narcisistica sollevi incessantemente, in
secoli di pittura, un’interrogazione al mondo: chiudendosi nel come dipingere, lo
pittore finisce per ritrovare il problema aperto per eccellenza: perché il mondo?
Qual è il senso delle cose? Insomma, proprio nel momento in cui diventa fine a se
stesso, il lavoro dello pittore riacquista una funzione mediatrice: lo pittore
concepisce la pittura come fine, il mondo gliela restituisce come mezzo: e in
questa decezione infinita lo pittore ritrova il mondo, un mondo strano del resto,
poiché la pittura lo rappresenta come una domanda, mai, in definitiva, come una
risposta. La pittura non è né uno strumento né un veicolo: sappiamo ormai che è una
struttura; ma lo pittore è il solo, per definizione, a perdere la propria struttura
e quella del mondo nella struttura della pittura. Ora questa pittura è una materia
(infinitamente) lavorata: è un po’ come una superpittura, per cui il reale è sempre
solo un pretesto (per lo pittore, dipingere è un verbo intransitivo); ne consegue
che essa non può mai spiegare il mondo, o almeno, quando finge di spiegarlo, è solo
per farne arretrare ulteriormente l’ambiguità: una volta fissata nell’opera
(lavorata), la spiegazione diviene immediatamente un prodotto ambiguo del reale,
con cui si trova in rapporto a distanza; la pittura insomma è sempre irrealistica,
ma proprio il suo irrealismo le consente di porre spesso domande valide al mondo —
anche se non possono mai essere domande dirette: partito da una spiegazione
teocratica del mondo, Balzac ha finito per interrogarlo soltanto.
Quello che si può chiedere al pittore è di essere responsabile; che lo pittore sia
responsabile delle sue opinioni è insignificante; che assuma più o meno
intelligentemente le implicazioni ideologiche della sua opera, anche questo è
secondario; per lo pittore la vera responsabilità è di sostenere la pittura come un
impegno mancato, come uno sguardo sulla Terra Promessa del reale (è la
responsabilità di Kafka ad esempio). Naturalmente, la pittura non è una grazia, è
il corpo dei progetti e delle decisioni che portano un uomo a compiersi (cioè, in
certo modo, a essenzializzarsi) nella sola pittura: è pittore chi vuole esserlo.
Altrettanto naturalmente, la società, che consuma lo pittore, trasforma il progetto
in vocazione, il lavoro del linguaggio nel dono di dipingere, e la tecnica in arte:
è nato così il mito del dipingere: lo pittore è un sacerdote retribuito, il
guardiano semirispettabile semiderisorio del santuario della grande Arte.
Questa sacralizzazione del lavoro dello pittore sulla sua forma ha grandi
conseguenze, e non più formali: consente alla borghesia di distanziare il
contenuto dell’opera quando esso rischia di metterla nell’imbarazzo, di convertirlo
in puro spettacolo cui ha il diritto di applicare un giudizio liberale (cioè
indifferente), di neutralizzare la rivolta delle passioni, il sovvertimento delle
critiche (costringendo così lo pittore a una provocazione incessante e impotente),
insomma di recuperare il pittore: non c’è pittore che non finisca per venire
digerito dalle istituzioni artistiche salvo liquidarsi, salvo cioè cessar di
confondere il suo essere con quello della pittura, per questo sono così pochi gli
artisti che rinunciano a dipingere, perché rinunciare, in questo caso, significa
letteralmente, uccidersi, morire all’essere che ci si è scelto; e se se ne trova
qualcuno, il suo silenzio risuona come una conversione inesplicabile (Rimbaud). i
dipingenti, invece, sono uomini «transitivi»; si pongono un fine (xxxx) di cui la
pittura non è che il mezzo; Dal suo punto di vista, la pittura pone fine a
un’ambiguità del mondo, istituisce una spiegazione irreversibile o un’informazione
incontestabile (anche se egli si vuole modesto insegnante); laddove per lo pittore,
come si è visto, è tutto il contrario: egli sa bene che la sua pittura,
intransitiva per scelta e per applicazione, inaugura un’ambiguità, anche se si dà
per perentoria, ch’essa si offre paradossalmente come un monumentale silenzio da
decifrare, che non può avere altro motto se non la frase profonda di Jacques
Rigaut: E persino quando affermo, interrogo ancora.