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Nicola Colacino
Dispense
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I modulo
Lezione n. 1
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2. Il diritto internazionale è anche definito Diritto internazionale
pubblico per distinguerlo dal Diritto internazionale privato, che è,
invece, quella branca del diritto regola i rapporti di diritto privato (tra
persone fisiche e giuridiche) nell’ambito di un ordinamento statale,
qualora tali rapporti rechino elementi di internazionalità.
Così, ad esempio, gli accordi di pace conclusivi di un conflitto
internazionale, il commercio di beni e servizi tra Stati diversi, la
definizione di regole comuni in materia di aviazione civile, sono tutte
materie regolate dal diritto internazionale pubblico, mentre il
matrimonio tra cittadini aventi diversa nazionalità, le adozioni
internazionali, gli acquisti di beni privati in un paese diverso da quello
di nazionalità dei contraenti, sono situazioni disciplinate dalle norme di
diritto internazionale privato, che variano da Stato a Stato.
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L’ordinamento internazionale moderno, da intendersi come la “cornice
giuridica” di riferimento entro cui si svolgono le relazioni internazionali,
si fa risalire alla pace di Westfalia del 1648, che pose fine alla cd.
guerra dei trent’anni.
In tale occasione, per la prima volta, gli Stati-nazione si riconobbero
reciprocamente come enti sovrani superiorem non recognoscentes,
svincolandosi così formalmente dalla soggezione alla Chiesa e
all’Impero, la cui volontà, in precedenza, risultava giuridicamente
prevalente su quella statale.
Le nazioni europee, personificate nei rispettivi monarchi, da quel
momento in avanti hanno basato le loro relazioni sul principio di
uguaglianza sovrana, secondo cui tutti gli Stati partecipano alla
società (comunità) internazionale in condizioni di parità formale e,
perciò, nessuno Stato può legittimamente esercitare su un altro Stato
un potere di controllo giuridicamente rilevante in assenza del consenso
di questi, né può ingerirsi nei suoi affari interni senza autorizzazione.
Sebbene non siano mancati, nei secoli successivi, i tentativi di
restaurare un ordine imperiale in grado di prevaricare gli interessi degli
Stati nazionali (si pensi all’impero napoleonico o al terzo Reich),
l’assetto paritario della comunità internazionale sopravvive ancora oggi.
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controversie, come strumento di politica estera e per consentire il
ricambio delle norme internazionali; non esistono organizzazioni
internazionali, né accordi cd. globali (quelli ai quali partecipa la quasi
totalità degli Stati appartenenti alla comunità internazionale); in
sintesi, l’impatto del diritto internazionale sull’esercizio della sovranità
statale è minimo;
- la seconda fase, caratterizzata da una sempre più intensa
cooperazione tra Stati, non è agevolmente databile, dal momento che
non è legata ad un evento determinato; si possono, tuttavia, prendere
in considerazione alcuni fattori: a partire dalla fine del XIX secolo
iniziano a formarsi le prime unioni di Stati, che, per effetto di un
graduale processo di istituzionalizzazione, divengono, dalla prima metà
del XX secolo, vere e proprie organizzazioni internazionali, dotate di
personalità giuridica, la cui volontà è in grado di contrapporsi a quella
degli stessi Stati che le hanno istituite; dal secondo dopoguerra si
registra, così, un sensibile incremento di tale fenomeno in numerosi
settori (commercio, ambiente, sviluppo), al punto che alcune
organizzazioni, sia a carattere universale (le Nazioni Unite), sia
regionale (l’Unione Europea), sviluppano un loro ordinamento giuridico
specifico, diverso da quello internazionale tout court e da quello interno
degli Stati membri; al contempo, l’uso della forza viene formalmente
bandito dalle relazioni internazionali e gli Stati si rendono conto che le
decisioni più importanti sul piano internazionale devono essere prese
con il più vasto consenso raggiungibile (cd. multilateralismo); il diritto
internazionale inizia ad essere pervasivo ed a condizionare la volontà
politica degli Stati: si assiste, così, ad una progressiva riduzione dei
settori tradizionalmente riservati all’esercizio della sovranità statale
(economia, tutela dei diritti) e all’emergere di fori (tribunali)
internazionali specializzati.
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Lezione n. 2
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Si tratta, com’è noto, della funzione legislativa (che nel diritto
internazionale è più genericamente intesa come funzione di produzione
normativa), di quella esecutiva, vale a dire di attuazione delle norme
internazionali, e di quella giudiziaria, ossia di accertamento
dell’eventuale inosservanza e di coercizione.
Si vedrà (II modulo) che gli Stati creano il diritto internazionale in forza
di comportamenti reiterati, ritenuti giuridicamente obbligatori
(consuetudini), ovvero in base all’incontro di diverse manifestazioni di
volontà (accordi).
Al contempo, agli stessi Stati, in quanto principali destinatari di tali
disposizioni, spetta il compito di darvi idonea attuazione, in forma
autonoma, ovvero, qualora gli stessi Stati si accordino in tal senso, in
forma associata o istituzionalizzata, attraverso conferenze (ad es., il G8)
ed organizzazioni internazionali.
Anche la funzione giudiziaria è esercitata in forma decentrata. Difatti,
in assenza di un apparato sovraordinato agli Stati, cui spetti il compito
di accertare l’esistenza di eventuali violazioni del diritto internazionale
(una sorta di magistratura internazionale) e, in tali casi, di obbligare i
contravventori all’osservanza delle norme violate, il rispetto del diritto
internazionale è affidato all’autotutela, come nelle società “primitive”.
Gli Stati, quando ritengano che i diritti loro derivanti dall’applicazione
di norme internazionali siano stati violati (ad es., per il mancato
rispetto dei contenuti di un accordo, o per effetto dell’intrusione di una
nave straniera nelle acque territoriali, la cui distanza dalla costa è
stabilita da una norma internazionale consuetudinaria), possono agire
direttamente per tutelare i loro interessi, attraverso l’applicazione di
contromisure.
Ciò in quanto non possono “costringere” lo Stato ritenuto responsabile
della violazione a sottoporsi al giudizio di un Tribunale internazionale (o
di qualsiasi altro organo deputato alla risoluzione delle controversie
internazionali) senza il suo consenso.
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inclusa la forza armata – è stato “procedimentalizzato” con l’istituzione
delle Nazioni Unite, il cui Statuto prevede il divieto della minaccia e
dell’uso della forza (art. 2, par. 4), e l’intervento del Consiglio di
Sicurezza in tutti i casi in cui una controversia internazionale possa
dar luogo ad una minaccia o ad una violazione della pace (lezione n.
42).
Attualmente, pertanto, l’uso della forza è bandito dalle relazioni
internazionali ed è ammesso solo in caso di legittima difesa (art. 51
della Carta delle Nazioni Unite).
Gli Stati hanno l’obbligo di risolvere le loro controversie in modo
pacifico (art. 2, par. 3 della Carta delle Nazioni Unite) e, qualora si
accerti, mediante uno dei mezzi pacifici di risoluzione previsti dal diritto
internazionale o creati ad hoc dagli Stati in lite (VI modulo), l’esistenza
di una lesione di un diritto o di un interesse internazionalmente
rilevante, lo Stato leso potrà pretendere dal responsabile adeguate
forme di riparazione (VII modulo) e, in difetto, adottare idonee
contromisure, sempre di natura pacifica (sanzioni economiche,
commerciali, ecc.).
Nei casi più gravi, l’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite determina il passaggio dall’autotutela individuale a quella
collettiva, poiché in simili situazioni è l’intera comunità internazionale
(pressoché coincidente con gli Stati membri delle Nazioni Unite) a
reagire innanzi a gravi violazioni del diritto internazionale perpetrate a
danno di uno o più Stati.
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Così, ad esempio, la scelta della forma di governo spetta interamente
ad una popolazione, e/o ai suoi rappresentanti, anche quando tale
scelta sia in grado di mettere in pericolo la democrazia interna di un
paese.
In tali situazioni, la comunità internazionale non è legittimata ad
intervenire, salvi i casi di conflitto interno (guerra civile), ovvero di
massiccia e reiterata violazione dei diritti umani fondamentali
perpetrata a danno della popolazione o di parte di essa.
Parimenti, in base al principio par in parem non habet iudicium,
nessuno Stato può condurre un altro Stato innanzi ai propri Tribunali
interni allo scopo di provocarne la condanna per la violazione di norme
internazionali. Questo perché, assumendo che gli Stati sono posti in
posizione di parità rispetto all’ordinamento internazionale, nessuno di
loro è in grado di esercitare un potere di controllo sugli altri al punto da
assoggettarli alla propria giurisdizione.
Si tratta, in buona sostanza, dell’immunità di cui godono gli Stati
nell’ambito degli ordinamenti interni di altri Stati, quale effetto della
stessa configurazione orizzontale dell’ordinamento internazionale (V
modulo).
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isolatamente, ma richiedono un coordinamento costante, allo scopo di
individuare soluzioni praticabili.
Oltre a constatare l’insufficienza della dimensione statale – e, quindi,
l’inadeguatezza delle norme di diritto interno, laddove non siano
sorrette da principi e regole condivise sul piano internazionale – si deve,
per altro verso, registrare il fallimento dell’approccio unilateralistico in
luogo di quello multilateralistico.
La tentazione delle grandi potenze economiche di “gestire da sé”
l’ordinamento internazionale (pur senza alterarne formalmente la
struttura) è una tendenza manifestatasi durante gli anni della cd.
guerra fredda e, dopo il crollo dei regimi comunisti, riproposta dagli
Stati Uniti durante gli anni dell’amministrazione di Gorge W. Bush,
senza alcun esito rimarchevole.
La comunità internazionale appare, invece, sempre più orientata verso
un ordine policentrico, laddove l’evoluzione del diritto internazionale
dipenderà dal concreto assetto degli interessi facenti capo ad un
numero crescente di Stati economicamente avanzati.
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Lezione n. 3
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Pertanto, la relativa qualificazione come soggetti del diritto
internazionale rappresenta un postulato.
Nondimeno, occorre stabilire a quali condizioni uno Stato possa
effettivamente definirsi tale, affinché possa auto-attribuirsi la piena
soggettività internazionale.
Tradizionalmente, gli elementi costitutivi dello Stato vengono
individuati:
- nel popolo, inteso come la comunità di persone nativa e/o residente
sul territorio dello Stato, incluse le minoranze nazionali;
- nel governo, inteso quale apparato pubblico organizzato, in grado di
esercitare un potere di controllo effettivo sulla popolazione (la
sovranità);
- nel territorio, inteso come ambito spaziale sul quale risiede il popolo
e il governo esercita il proprio potere di controllo; esso si estende alle
acque adiacenti la costa (cd. mare territoriale) e alla colonna di spazio
aereo sovrastante i confini dello Stato.
La riscontrata compresenza di questi tre elementi consente di rilevare
l’esistenza di uno Stato e, conseguentemente, di affermarne la piena
soggettività internazionale.
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instaurare rapporti giuridici con altri Stati in condizioni di parità; ciò
equivale ad affermare che uno Stato, affinché possa dirsi sovrano, non
deve dipendere in alcun modo da un altro Stato nel manifestare
liberamente la propria volontà; la sovranità esterna si caratterizza,
pertanto, come indipendenza giuridica, ossia come indipendenza
formale dell’ordinamento giuridico di uno Stato dall’influenza di altri
Stati; ciò è da escludersi in alcuni casi tipici: per i cd. governi fantoccio
(ad es., è il caso dei Bantustans, gli Stati satellite del regime
sudafricano ai tempi dell’apartheid), o per gli Stati membri di uno Stato
federale (v. lezione n. 2);
- sovranità interna (o potere di governo), consistente nell’esercizio
effettivo dell’autorità di governo (intesa nella sua accezione più ampia,
come inclusiva dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario) sul
popolo e sul territorio, senza contestazioni da parte di movimenti
insurrezionali o di liberazione nazionale che oppongano una resistenza
formale. Sul punto, la I sezione della Corte di Cassazione penale, nella
sentenza 28.6.1985, n. 1981, ha affermato: «il diritto internazionale
riconosce come Stati soltanto quegli enti che, in piena indipendenza,
esercitano il proprio potere di governo collettivo nei confronti di una
comunità stanziata su di un territorio».
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Lezione n. 4
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anche se governato da un regime oppressore, almeno fintantoché detto
regime non venga spodestato. Occorre, in sostanza, avere riguardo ad
un criterio di effettività, l’unico correttamente applicabile in questi
casi.
- La tutela dei diritti fondamentali dell’uomo: parimenti, vi è chi
ritiene che la protezione dei diritti umani da parte dello Stato nei
confronti sia dei propri cittadini, sia degli stranieri, debba considerarsi
un requisito necessario per il legittimo esercizio della sovranità. Più
precisamente, un governo potrebbe dirsi legittimo solo se eletto in
maniera democratica e se in grado di assicurare le garanzie tipiche del
cd. “stato di diritto” (rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali,
revisione giudiziaria dei provvedimenti esecutivi, garanzie processuali,
ecc.). Questa situazione, tuttavia, appare attualmente valutabile solo in
abstracto, giacché non si riscontrano nella prassi elementi sufficienti
per sostenere che ad uno Stato che non offra simili garanzie debba
essere impedito il riconoscimento della soggettività internazionale.
Anche in questo caso, pertanto, deve ricorrersi all’applicazione del
criterio di effettività, per il quale anche un regime dittatoriale, finché
detenga il potere, seppure con metodi deprecabili, rappresenta lo Stato
sul piano giuridico internazionale. Nondimeno, la crescente “domanda
di democrazia” proveniente dai popoli del mondo e le reazioni opposte
dalla comunità internazionale nei casi più eclatanti di violazione dei
diritti umani si manifestano come tendenze idonee ad orientare lo
sviluppo del diritto internazionale.
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affinché possa instaurare rapporti giuridici internazionali con gli altri
Stati appartenenti alla comunità internazionale deve essere da questi
riconosciuto.
In termini generali, il riconoscimento è un atto giuridico unilaterale
(v. lezione n. 12) mediante il quale uno Stato considera giuridicamente
rilevanti nei propri confronti i mutamenti intervenuti nell’ambito delle
relazioni internazionali in occasione del verificarsi di una data
situazione (di diritto o di fatto) riguardante un altro Stato.
In specie, il riconoscimento di un nuovo Stato è la dichiarazione
unilaterale di accettazione dell’esistenza di uno Stato di nuova
formazione, generalmente implicante l’instaurazione di relazioni
diplomatiche con il medesimo.
Secondo la risoluzione adottata nel 1936 dall’Institut de Droit
International, il riconoscimento di un nuovo Stato «è l’atto libero
attraverso il quale uno o più Stati constatano l’esistenza su di un
determinato territorio di una società umana politicamente organizzata,
indipendente da ogni altro Stato esistente, in grado di osservare le
prescrizioni del diritto internazionale, e manifestano di conseguenza la
loro volontà di considerarla membro della comunità internazionale. Il
riconoscimento ha un effetto dichiarativo. L’esistenza del nuovo Stato,
con tutti gli effetti giuridici che si ricollegano a tale esistenza, non è
influenzata dal rifiuto di uno o più Stati di riconoscerlo».
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In altre parole, la comunità internazionale non è un “club” di Stati cui
occorre essere ammessi mediante una procedura più o meno formale
(necessaria, invece, per entrare a far parte di alcune organizzazioni
internazionali); l’appartenenza alla comunità internazionale è bensì un
fatto automatico, immanente all’esistenza dello Stato.
Si afferma, quindi, che il riconoscimento di un nuovo Stato ha natura
giuridica dichiarativa e non costitutiva, dal momento che, con esso, si
accerta una situazione preesistente (la formazione di uno Stato), ma
non si attribuisce alcuna particolare qualità giuridica allo Stato
riconosciuto.
In definitiva, uno Stato non è tale per il diritto internazionale perché
viene riconosciuto da uno o più altri Stati. In questo caso, il
riconoscimento avrebbe valore costitutivo.
Al contrario, il riconoscimento di un nuovo Stato sul piano
internazionale ha un valore meramente dichiarativo (di accertamento),
nel senso che vale ad attestare la volontà dello Stato da cui proviene di
avviare relazioni giuridiche e diplomatiche con un altro ente che, in
precedenza, non era considerato parte della comunità internazionale.
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volontà di non collaborare con essi (ad es., gli Stati Uniti nei confronti
della Repubblica popolare cinese).
Parimenti, si è provveduto a riconoscere Stati non guidati da un
governo indipendente, al fine di favorire la politica di collaborazione
internazionale con gli Stati da cui essi dipendevano (ad es., la
Bielorussia e l’Ucraina, ammesse alle N.U. per favorire la distensione
con l’U.R.S.S. da cui o da cui erano controllati).
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Lezione n. 5
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2. Diversamente, sono considerati soggetti del diritto internazionale, sia
pure limitatamente alla titolarità di alcuni rapporti giuridici (vale a dire
che solo alcune norme giuridiche internazionali sono applicabili nei loro
confronti) taluni enti o organizzazioni collettive, rispetto ai quali le
regole del diritto internazionale incontrano un’applicazione particolare,
tenuto conto delle finalità da essi perseguite.
Sono riconducibili a tale nozione i cd. movimenti di liberazione
nazionale, rappresentativi delle istanze di autodeterminazione di un
popolo (o di una minoranza) nei confronti di un regime occupante
straniero, coloniale o razzista.
A titolo di esempio, possono menzionarsi il Fronte Polisario, che si
auto qualifica come ente rappresentativo dei popoli del Sahara
Occidentale, in costante opposizione con il Marocco per il controllo di
detta zona, e l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina).
Va detto, tuttavia, che, finché non siano in grado di esercitare un
controllo effettivo su una porzione di territorio e su una parte della
popolazione sotto la direzione di un comando responsabile, tali
movimenti non possono essere considerati pienamente titolari di
rapporti giuridici internazionali. Alcuni di essi godono dello status di
osservatore presso alcune organizzazioni internazionali (al fine di poter
discutere nelle sedi opportune, insieme agli Stati, i temi e le istanze di
cui si fanno portatori: si pensi all’OLP) e di limitati privilegi.
Fintantoché un Movimento di Liberazione Nazionale si limita a
manifestare la propria contrarietà all’ordine pubblico imposto dal
governo in carica, senza avviare azioni concrete, esso non ha alcun
rilievo sul piano internazionale. Quando, invece, il Movimento riesce a
conquistare una porzione di territorio e ad ottenere il sostegno di
almeno una parte della popolazione nella sua iniziativa, deve essergli
riconosciuto un principio di soggettività internazionale, in ragione del
fatto che detto Movimento, in nome e per conto delle persone (il popolo
o parte di esso, una minoranza, ecc.) che rappresenta, diventa titolare
di alcuni diritti ed obblighi di diritto internazionale.
Così, il I Protocollo addizionale (del 1977) alle quattro Convenzioni di
Ginevra sul diritto umanitario del 1949, relativo ai conflitti armati
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diversi da quelli internazionali, si applica anche «ai conflitti armati nei
quali i popoli lottano contro il dominio coloniale e l’occupazione straniera
e contro i regimi razzisti...» (art. 1, par. 4).
Il Protocollo consente all’autorità rappresentativa del popolo,
nell’ambito di un conflitto contro uno Stato che sia parte dell’accordo,
di impegnarsi unilateralmente a rispettare il diritto umanitario (art. 96,
par. 3).
Tale impegno parifica la posizione del movimento in lotta a quella delle
altre parti contraenti, con riferimento ai diritti e agli obblighi derivanti
dalle quattro Convenzioni.
3. Un discorso analogo vale per gli insorti, che si possono definire come
un gruppo organizzato di individui, animato da fini politici di natura
indipendentista, in lotta con lo Stato centrale nell’ambito di una
guerra civile.
A differenza dei movimenti di liberazione nazionale, costoro non
rivendicano il diritto all’autodeterminazione, ma si oppongono ad un
governo astrattamente legittimo, al fine di rovesciarlo o di sottrargli
parte del territorio.
La titolarità di rapporti giuridici internazionali in capo agli insorti è,
comunque, subordinata all’esercizio di un controllo esclusivo su parte
del territorio e all’esistenza di un comando responsabile.
Anche gli insorti sono titolari di taluni diritti e obblighi sanciti dalle
Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario del 1949 e dal I I
Protocollo addizionale (del 1977).
In particolare, quest’ultimo accordo trova applicazione nei conflitti
armati diversi da quelli internazionali «che si svolgono sul territorio di
una Alta Parte Contraente tra le sue forze armate e delle forze armate
dissidenti o dei gruppi armati organizzati che, sotto la guida di un
comando responsabile, ersercitano su di una parte del suo territorio un
controllo tale da permettere loro di condurre delle operazioni militari
continue e concertate...» (art. 1, par. 1).
In definitiva, sia i MLN, sia gli insorti, affinché si possa affermarne la
rilevanza sul piano internazionale, devono assumere una
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configurazione strutturata, e ciò vale con riferimento al profilo della
rappresentatività di (almeno) una parte della popolazione, ma
soprattutto all’istituzione di un apparato, dotato di poteri decisori in
grado di vincolare tutti i soggetti rappresentati.
Entrambi tali fenomeni, peraltro, si caratterizzano per la loro
temporaneità: MLN e insorti, infatti, qualora lo loro azione risulti
vittoriosa, sono destinati ad affermarsi come nuovi Stati indipendenti.
In caso contrario, si riproporrà la situazione di partenza con la
riconquista del potere da parte del governo centrale.
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Lezione n. 6
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di prerogative internazionali nei suoi confronti è sempre rimasto
funzionalmente limitato.
Tuttavia, il riconoscimento della personalità internazionale al SMOM
appare giustificato dall’esigenza di garantire un più efficace
perseguimento dei suoi fini, in quanto considerati essenziali dalla
comunità internazionale.
L’Ordine di Malta non è titolare di un’indipendenza effettiva, ma
intrattiene rapporti diplomatici con molti Stati europei e ha concluso
alcuni accordi bilaterali in materia di assistenza ospedaliera. I suoi
esponenti più rappresentativi godono, in base alle relazioni bilaterali
instaurate con diversi paesi, di alcuni privilegi e immunità.
In particolare, l’Italia ha concesso all’Ordine e ai suoi membri taluni
benefici personali, territoriali e patrimoniali sulla base di uno scambio
di note stipulato nel 1960.
Taluni sostengono si tratti di un mero atto di cortesia da parte dello
Stato italiano, o comunque di una manifestazione unilaterale di volontà
attributiva di talune prerogative sovrane, in omaggio all’importante
funzione sociale svolta dall’Ordine. Secondo altri, invece, tali
riconoscimenti sono dovuti in forza della personalità giuridica
internazionale propria dell’Ente.
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istituiscono, solo quei poteri necessari al perseguimento dei fini e degli
interessi che gli Stati stessi hanno indicato nello statuto (fini ed
interessi che possono anche essere modificati nel tempo, purché nel
rispetto del procedimento previsto dallo statuto e cioè, generalmente
attraverso un nuovo accordo).
Ciò significa, in sintesi, che le organizzazioni internazionali potranno
compiere atti produttivi di effetti giuridici, stipulare accordi, ecc. solo
nei limiti delle competenze attribuite dallo statuto, mentre ogni attività
ulteriore – che esuli, cioè, da tali attribuzioni – è affetta da nullità, per
incompetenza.
Così, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) può emanare
direttive in materia sanitaria (ad es., per prevenire pandemie)
obbligatorie per gli Stati, ma non può adottare atti in materia di
commercio internazionale. Al contrario, l’Organizzazione mondiale del
commercio (OMC) non può interessarsi di regolamenti sanitari, ma
solo di materie riconducibili alle proprie competenze statutarie.
Le organizzazioni internazionali vanno distinte dalle cd. unioni di Stati
(un fenomeno ormai tendenzialmente superato), che hanno carattere
temporaneo, non istituzionale e non possono manifestare una volontà
propria, diversa da quella degli Stati che le hanno create.
Le organizzazioni internazionali invece, in base alle competenze e ai
poteri conferiti dagli Stati membri, desumibili dallo statuto, possono
manifestare una volontà diversa, finanche opposta a quella degli Stati
che le hanno istituite. Sono, in estrema sintesi, centri autonomi di
imputazione giuridica, al pari dei loro Stati membri.
La volontà dell’organizzazione, difatti, che si esprime nelle forme e nei
limiti stabiliti dallo Statuto, può produrre effetti nella sfera giuridica
degli Stati membri, al punto da incidere sull’esercizio dei loro stessi
diritti.
L’ampiezza di tali effetti dipende dalle limitazioni di sovranità che gli
Stati hanno inteso accettare al momento della ratifica (o dell’adesione)
dello Statuto dell’organizzazione.
Così, ad es., l’adesione alle Nazioni Unite implica per gli Stati membri la
soggezione alle misure del Consiglio di sicurezza, anche quando queste
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siano dirette a imporre sanzioni economiche, ovvero ad autorizzare nei
loro confronti l’uso della forza, in uno dei casi previsti dall’art. 39 della
Carta.
Per tutte le ragioni suindicate, si ritiene che le organizzazioni
internazionali siano a tutti gli effetti soggetti del diritto internazionale,
sebbene con caratteristiche diverse dagli Stati che le istituiscono.
Le organizzazioni internazionali sono dotate di una o più sedi, di un
apparato amministrativo stabile e di organi propri. Come anticipato,
possono concludere accordi nelle materie di loro competenza e, se
espressamente previsto, emanare atti giuridici vincolanti per gli Stati
membri.
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5 . Anche gli i n d i v i d u i , tradizionalmente privi di soggettività
internazionale, sono attualmente ritenuti titolari di rapporti giuridici
determinati. L’ordinamento internazionale, difatti, riconosce loro alcune
prerogative, imponendo agli Stati di tutelare i diritti umani
fondamentali, mentre, in senso opposto, ammette la rilevanza di
alcune condotte criminali individuali, considerate contrarie ai valori
della comunità internazionale e, in quanto tali, perseguibili sul piano
giudiziario (v. lezione n. 35).
Il riconoscimento della personalità giuridica internazionale agli
individui è un tema molto dibattuto in dottrina. Pur non potendosi
affermare che le persone fisiche godano di rilievo autonomo
nell’ordinamento internazionale, è innegabile che anche tale
ordinamento prenda ormai in considerazione rapporti giuridici la cui
titolarità spetta direttamente agli individui.
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II modulo
Lezione n. 7
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- nell’esistenza di un postulato indimostrabile, assunto come norma-
base (grundnorm) dell’ordinamento (Kelsen, Morelli).
La teoria kelseniana (cd. teoria pura del diritto), in considerazione del
suo rigore logico e della sua giustificabilità sul piano razionale, è
certamente quella che ha riscosso maggiore successo in epoche
successive, sebbene non sia rimasta esente da critiche.
Essa, come sinteticamente anticipato, si fonda sull’esistenza di un
postulato – cioè un’affermazione priva di riscontro sul piano logico-
giuridico e, quindi, indimostrabile – che l’ordinamento giuridico assume
come sua norma-base, da cui traggono giuridicità (vale a dire efficacia
giuridica) tutte le altre norme dell’ordinamento.
Secondo Kelsen, la norma-base dell’ordinamento internazionale è il
precetto consuetudo est servanda (le consuetudini devono essere
rispettate), che garantisce il funzionamento di tutto l’ordinamento
internazionale, poiché attribuisce efficacia giuridica a tutte le norme
consuetudinarie dell’ordinamento internazionale. Queste, pertanto,
sono ritenute obbligatorie dagli Stati, non in conseguenza di una
manifestazione di volontà conforme al contenuto della norma, ma
perché esiste un precetto superiore (la norma-base appunto) che gli
Stati hanno accettato e al quale sono formalmente vincolati.
In altre parole, l’obbligo di rispettare le norme consuetudinarie discende
non dalla mera volontà degli Stati di “autovincolarsi” a tali regole, ma
dall’obbligo di rispettare la norma – assunta come postulato – che
conferisce alle predette regole efficacia giuridica.
La norma consuetudo est servanda, pertanto, è definita come fonte
sulla produzione di primo grado, in quanto attribuisce natura
giuridica (obbligatoria) a tutte le fonti di primo grado (o fonti primarie)
del diritto internazionale, vale a dire a tutte le fonti consuetudinarie.
Attualmente, peraltro, la scienza giuridica ha in gran parte
abbandonato il problema del fondamento del diritto internazionale,
rivolgendo la propria attenzione al diverso problema dell’accertamento
dell’esistenza delle sue norme primarie (Ago, Barile, Giuliano).
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3. Le fonti consuetudinarie del diritto internazionale presentano le
seguenti caratteristiche:
- hanno natura generale: esse sono create con il contributo di tutti gli
Stati appartenenti alla comunità internazionale e sono, perciò,
obbligatorie per tutti allo stesso modo;
- sono fonti p r i m a r i e : non esiste, difatti, nell’ordinamento
internazionale una categoria di fonti di rango superiore;
- hanno origine spontanea: la loro produzione non è regolata da un
procedimento formalizzato, ma è frutto della combinazione di due
elementi – l’uno oggettivo, l’altro soggettivo – in misura variabile e non
mai predeterminata.
In buona sostanza, le fonti consuetudinarie sono quelle su cui
l’ordimanento internazionale si è costruito. Le norme, cioè, create ed
applicate dagli Stati per disciplinare le loro prime forme di relazione
giuridica.
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Alcuni studiosi hanno, quindi, giustamente fatto notare che le
consuetudini sono frutto di un… errore, dal momento che esse vengono
osservat prima ancora che siano norme vere e proprie. Pertanto, il
convincimento degli Stati circa la loro obbligatorietà anticipa l’esito
finale.
D’altro canto, è solo da tale “errore” che le consuetudini possono
scaturire. Una prassi generale non assistita dall’opinio iuris ricade
nell’ambito dei comportamenti di mera cortesia (la predetta comitas),
mentre la sola opinio iuris, alla quale non fa seguito una prassi
conforme, non è mai in grado di dare vita ad una norma internazionale
consuetudinaria.
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- la giurisprudenza internazionale: le sentenze e i pareri degli organi
giurisdizionali internazionali chiamati a giudicare di una determinata
questione hanno valore ricognitivo delle norme di diritto internazionale
generale applicabili alla questione;
- (in certi casi e a determinate condizioni) l’esistenza di accordi
internazionali in materia: taluni accordi (cd. di codificazione, v.
lezione n. 9) riflettono l’esistenza di norme consuetudinarie
corrispondenti.
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Lezione n. 8
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Secondo la Corte internazionale di giustizia (sentenza sulla
Piattaforma continentale del Mare del Nord, del 1969), «...il fatto che
sia trascorso solo un breve periodo di tempo non costituisce
necessariamente in sé un impedimento alla formazione di una nuova
regola di diritto internazionale consuetudinario sulla base di una regola
puramente convenzionale all’origine».
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4. Il diritto internazionale ammette, infine, anche la formazione di
consuetudini a carattere locale o particolare, vigenti, cioè, solo tra
alcuni Stati, anziché per l’intera comunità internazionale.
Esse sono applicabili nei rapporti giuridici intercorrenti tra gli Stati
interessati, a condizione che chi le invoca fornisca prova certa della loro
esistenza.
Si tratta, in sostanza, di un regime derogatorio di una consuetudine
generale, valevole solo per un ristretto gruppo di Stati, in
considerazione di particolari tradizioni o usi locali.
È evidente che l’ammissibilità, sul piano giuridico internazionale, delle
consuetudini particolari non può servire come alibi agli Stati per
sottrarsi all’osservanza delle consuetudini generali. Perciò, chi ne
invoca l’applicazione ad uno o più rapporti giuridici determinati, ha
l’onere di dimostrare che anche lo Stato (o gli Stati) parte di quel (o
quei) rapporto è tenuto a rispettare tale consuetudine particolare, in
luogo di quella generale.
35
Lezione n. 9
36
Si è detto che le norme generali sono fonti di primo grado applicabili
alla generalità dei rapporti internazionali; vincolanti, cioè, per tutti i
soggetti appartenenti alla comunità internazionale.
Al contrario, le norme particolari sono fonti di secondo grado – perciò
formalmente subordinate alle prime – vincolanti solo per gli Stati parti
dell’accordo. Esse, difatti, non possono produrre effetti nei confronti
degli Stati terzi, dal momento che non avrebbe alcun senso logico, e
tantomeno sarebbe giustificabile sul piano giuridico razionale, obbligare
uno Stato a rispettare il contenuto di un accordo al quale esso non
ritenga volontariamente di prendere parte.
La norma pacta sunt servanda, pertanto, deve essere intesa nel senso
che tutti gli Stati sono tenuti a rispettare gli accordi che abbiano
liberamente stipulato e non anche quelli a cui non abbiano partecipato.
Tale regola fondamentale è riassunta nel brocardo latino pacta tertiis
nec nocent nec prosunt (gli accordi non possono giovare o recare
danno – cioè produrre effetti positivi o negativi – nei confronti degli Stati
terzi).
37
In buona sostanza, diritto internazionale generale e particolare sono
fonti normative reciprocamente derogabili, con l’unico limite del
rispetto delle norme imperative (di cui si tratterà nella lezione n. 10).
Ciò significa che gli Stati possono stabilire, all’interno di un accordo,
norme in deroga a quelle consuetudinarie generali, che valgano solo
per gli Stati partecipanti. La disciplina speciale (pattizia) prevale,
quindi, su quella generale (consuetudinaria).
Tale configurazione consente agli Stati di autodeterminarsi liberamente
nei loro rapporti reciproci, adottando un regime giuridico diverso da
quello generale, in quanto a loro più congeniale. Così, l’esistenza di una
norma consuetudinaria che riconduce alla sovranità esclusiva statale
anche la colonna di spazio atmosferico sovrastante i confini territoriali
non impedisce a due o più Stati di istituire uno spazio atmosferico
comune sopra i rispettivi territori, consentendo, ad esempio, il transito
di aeromobili da guerra senza il rilascio di reciproche autorizzazioni.
Tale regime derogatorio non ha però effetto nei confronti degli Stati terzi
che, nei loro rapporti con gli Stati partecipanti all’accordo anzidetto
continueranno ad applicare la norma generale.
Diritto internazionale generale (consuetudinario) e particolare (pattizio)
sono, quindi, formalmente sovraordinati l’uno all’altro, ma
sostanzialmente pariordinati, essendo derogabili vicendevolmente.
Ciò implica che la sopravvenienza di un nuova norma consuetudinaria
può condurre all’estinzione di un accordo internazionale per
desuetudine, quando, cioè, gli Stati parti cessano di rispettare
l’accordo nei loro rapporti reciproci e iniziano ad applicare la
consuetudine di nuova formazione.
38
settore del diritto internazionale (ad esempio, il diritto del mare) in un
accordo, il cui contenuto riproduce essenzialmente dette norme.
Tale operazione presenta indubbi vantaggi: anzitutto, consente di
attribuire un’efficacia giuridica più puntuale ai precetti giuridici oggetto
della codificazione. In diversi settori del diritto internazionale, infatti, la
natura consuetudinaria delle norme di riferimento ha favorito
l’adozione di comportamenti abusivi da parte degli Stati: interpretazioni
contraddittorie, adempimenti parziali, inosservanza, ecc. Con la
riformulazione del contenuto di una norma consuetudinaria in una
disposizione convenzionale simili incertezze possono più agevolmente
essere superate, poiché la norma scritta (quella pattizia, appunto) ha
sempre il medesimo contenuto e, perciò, può essere applicata
uniformemente in tutti i rapporti giuridici da essa regolati.
Inoltre, la codificazione consente di tenere sotto controllo il processo di
sviluppo progressivo del diritto internazionale, vale a dire l’evoluzione
che qualsiasi ordinamento giuridico subisce in funzione dell’evolversi
della società alla quale le sue norme si applicano. Gli accordi di
codificazione “fissano” il contenuto delle norme internazionali in un
dato momento storico. La loro evoluzione nel tempo sarà scandita dalle
successive modifiche che detti accordi subiranno, in conseguenza del
contestuale sviluppo del diritto internazionale generale cui detti accordi
si riferiscono.
È evidente, peraltro, che la partecipazione agli accordi di codificazione,
come per tutti gli accordi internazionali, è volontaria. Solo gli Stati
parti, quindi, saranno vincolati dalle sue norme, mentre gli Stati terzi
continueranno ad essere vincolati dalle corrispondenti norme
consuetudinarie.
39
Secondo la Corte internazionale di giustizia (sentenza sulla
Piattaforma continentale del Mare del Nord, del 1969), possono
distinguersi tre diverse forme di codificazione:
- la prima consiste nella semplice trascrizione della norma
consuetudinaria vigente in un accordo internazionale; in questo caso,
la codificazione ha un’efficacia esclusivamente dichiarativa;
- la seconda consiste nel completamento del processo di formazione di
una norma consuetudinaria all’interno di un accordo internazionale; in
questo caso, si attribuisce alla codificazione un’efficacia integrativa;
- la terza consiste nell’introduzione, nell’accordo di codificazione, di
elementi nuovi rispetto al contenuto attuale di una norma
consuetudinaria; in quest’ultimo caso, si attribuisce alla codificazione
un’efficacia innovativa.
Queste tre forme di codificazione non devono necessariamente
realizzarsi in modo separato, ma possono coesistere all’interno di un
medesimo accordo di codificazione, qualora si ritenga opportuno che
una data materia del diritto internazionale sia mantenuta inalterata per
alcuni aspetti e innovata per altri.
40
Lezione n. 10
41
Tuttavia, per come è strutturato l’ordinamento internazionale, è
apparso impossibile accentrare la funzione normativa, sottraendola
agli Stati in nome di interessi superiori.
Così, si è deciso di selezionare alcuni principi e norme, recanti i valori
fondamentali della comunità internazionale, valori che tutti gli Stati
mostrano – almeno formalmente – di condividere e osservare. A tali
principi è stato attribuito, in nome del rispetto dell’ordine pubblico
internazionale, un rango superiore, cui “parametrare” la legittimità
degli atti di autoregolamentazione degli interessi nazionali.
Il risultato è che qualsiasi accordo internazionale contrario ad una
norma di ius cogens è giuridicamente nullo, perché gli Stati non sono
legittimati a regolare i propri interessi in modo difforme da quanto
stabilito da una norma imperativa. Così, ad esempio, data l’esistenza di
una norma internazionale cogente che vieta la riduzione in schiavitù,
qualsiasi accordo avente ad oggetto il commercio internazionale di
schiavi sarebbe nullo per violazione di norme imperative.
42
presentino la medesima natura, mentre il carattere imperativo ne
determina la prevalenza assoluta rispetto alle norme di natura
convenzionale aventi contenuto incompatibile.
43
Lezione n. 11
44
diritto riconosciuti dalle nazioni civili», intendendo con tale espressione
tutti quei principi giuridici, elaborati dagli Stati in ambito
costituzionale, civile, commerciale, penale, processuale (ad esempio, il
principio nemo iudex in re sua, o la regola del cd. ne bis in idem), che
possono trovare applicazione anche nei rapporti internazionali sebbene
non siano originari del diritto internazionale.
In buona sostanza, i primi sono principi propri dell’ordinamento
internazionale, che lo qualificano e lo caratterizzano come ordinamento
giuridico autonomo. In diversi casi, si tratta di vere e proprie norme-
principio (come il divieto dell’uso della forza), poiché, pur avendo un
contenuto precettivo immediato, possono essere utilizzati anche in
funzione integrativa di altre norme, per rafforzarne il contenuto, o
determinarne la disapplicazione. I secondi, invece, sono principi
formalmente estranei all’ordinamento internazionale, perché creati
all’interno di uno o più ordinamenti nazionali e in seguito accolti in
tutti gli altri. È proprio in ragione della loro diffusione che possono
essere applicati anche ai rapporti internazionali, qualora non vi siano
altre norme o principi cui fare ricorso.
45
Nazioni Unite conferisce efficacia giuridica vincolante alle decisioni del
Consiglio di Sicurezza e configura, perciò, una fonte sulla produzione
di terzo grado.
Va osservato, peraltro, che, a differenza delle fonti di primo grado e,
invece, analogamente a quelle di secondo grado, l’efficacia obbligatoria
delle fonti di terzo grado è limitata soggettivamente agli Stati che
hanno aderito all’accordo le cui norme legittimano tale produzione. Non
si può ammettere, in altri termini, che una norma di terzo grado sia
applicabile ai rapporti giuridici di Stati terzi rispetto all’accordo.
D’altro canto, anche le norme di terzo grado, come quelle di secondo
grado, possono liberamente derogare alle norme primarie, fatto salvo il
rispetto dello ius cogens.
46
5. Non può, infine, essere considerato fonte del diritto internazionale,
anche se – come anticipato – può contribuire alla formazione di norme
consuetudinarie, il cd. soft law internazionale.
Si riconducono a tale categoria tutte le norme prodotte nell’ambito di
conferenze e/o organizzazioni internazionali che non hanno carattere
vincolante (dichiarazioni, raccomandazioni, pareri, ecc.), in quanto
manca una norma di secondo grado che attribuisca efficacia giuridica
obbligatoria a tali atti.
47
Lezione n. 12
48
e tale condotta implica l’assunzione di un obbligo per lo Stato
dichiarante ed eventuali vantaggi per uno o altri Stati, il primo resta
vincolato alla propria dichiarazione perché una norma-principio del
diritto internazionale gli impone di comportarsi secondo buona fede,
vale a dire di rispettare il legittimo affidamento che la sua
dichiarazione ha ingenerato negli altri Stati interessati.
Così, se uno Stato promette liberamente una prestazione ad un altro
Stato, questi avrà diritto di pretenderla, nei limiti del contenuto della
promessa.
Con il che trova risposta anche il secondo interrogativo: gli effetti
giuridici derivanti da un atto unilaterale saranno quelli di vincolare lo
Stato emanante al rispetto dell’atto e di creare un’aspettativa di diritto
in capo allo Stato beneficiario.
Evidentemente, non può valere il contrario: nessun atto unilaterale può
recare vantaggi per il soggetto da cui promana ed obblighi per il
destinatario. Un simile atto sarebbe contrario alla stessa struttura
paritaria dell’ordinamento internazionale, dal momento che
legittimerebbe la coercizione della volontà altrui da parte di un soggetto
pariordinato a quello obbligato.
49
In sintesi, a differenza degli accordi internazionali, i cui effetti
obbligatori scaturiscono dall’incontro delle diverse volontà degli Stati
contraenti, fatto idoneo a creare norme giuridiche vincolanti inter
partes, gli effetti derivanti dall’adozione degli atti unilaterali sono
riconducibili alla volontà esclusiva del soggetto da cui promanano,
anche qualora questi siano più di uno. Si parla, in questo caso, di atti
unilaterali collettivi, come il riconoscimento congiunto di uno Stato di
nuova formazione da parte di più Stati contemporaneamente.
50
III modulo
Lezione n. 13
51
Appare, perciò, superfluo tentare una classificazione degli accordi
internazionali in base ai loro contenuti, o alle caratteristiche delle loro
disposizioni, atteso che, indipendentemente da ciò, i rispettivi effetti
obbligatori per le parti aderenti sono i medesimi.
52
precedente consente il passaggio a quella successiva. In difetto, il
procedimento di formazione si interrompe e non è in grado di pervenire
al suo esito naturale. In altre parole, se il procedimento non si conclude
positivamente, l’accordo internazionale non può produrre effetti sul
piano giuridico.
Tali fasi sono:
- il negoziato;
- la firma;
- la ratifica;
- l’entrata in vigore.
53
Il negoziato si svolge in varie sedute, durante le quali le parti si
confrontano sul testo dell’accordo in maniera libera, o secondo le regole
che loro stesse si impongono. Il negoziato può anche interrompersi e
riprendere dopo un certo lasso di tempo, quando siano mutate le
circostanze che hanno determinato l’interruzione.
Per la votazione del testo finale, la Convenzione di Vienna prescrive la
regola dell’unanimità, ovvero, per le conferenze internazionali che
vedono la partecipazione di numerosi Stati, la maggioranza dei 2/3.
Con il medesimo quorum si può, tuttavia, stabilire, all’apertura della
conferenza, una maggioranza diversa.
54
tratta dei cd. accordi in forma semplificata (art. 12), utilizzati di solito
per disciplinare questioni di natura tecnica, o di dettaglio, privi di
particolare rilievo politico.
Qualora, invece, per la manifestazione del consenso degli Stati
contraenti sia necessario lo scambio o il deposito degli strumenti di
ratifica (art. 14), si è in presenza dei cd. accordi in forma solenne.
55
Lezione n. 14
56
- che implicano modificazioni di leggi;
- che comportano oneri alle finanze;
- che prevedono variazioni del territorio;
- che istituiscono arbitrati o regolamenti giudiziari internazionali.
4. A norma dell’art. 102, par. 1, della Carta delle Nazioni Unite, «ogni
accordo internazionale stipulato da un Membro delle Nazioni Unite dopo
l’entrata in vigore della presente Carta deve essere registrato al più
presto possibile presso il Segretariato e pubblicato a cura di
quest’ultimo».
Tale ulteriore adempimento, consistente appunto nella registrazione
dell’accordo presso le Nazioni Unite e nella sua pubblicazione, non
incide sull’entrata in vigore dell’atto (a differenza di quanto accade negli
ordinamenti interni per la pubblicazione delle leggi nelle raccolte
ufficiali, come, ad es., la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana).
57
La mancata registrazione, quindi, non mai è causa di nullità o
inefficacia dell’accordo, ma di mera inopponibilità nei confronti degli
organi delle Nazioni Unite (art. 102, par. 2).
58
Il regime previsto dalla Convenzione di Vienna consente di venire
incontro alle diverse esigenze degli Stati, assicurandone, così, in linea
di massima, la partecipazione all’accordo.
Ovviamente, la facoltà di apporre riserve incontra limiti precisi, ratione
materiae e ratione temporis. Quanto a quest’ultimo aspetto, le
riserve devono essere apposte entro la fine del negoziato e, comunque,
non oltre il deposito dello strumento di ratifica, per ragioni di certezza
giuridica. Devono essere notificate alle altre parti contraenti, le quali
hanno la facoltà di formulare specifiche obiezioni.
Sotto il profilo materiale, l’art. 19 vieta l’apposizione di una riserva in
tre situazioni:
- qualora tale facoltà sia espressamente esclusa dal trattato (in
generale);
- qualora tale facoltà sia concessa solamente con riguardo ad una o più
norme specifiche del trattato e la riserva cada su norme diverse (o
viceversa);
- infine qualora, anche in assenza di disposizioni pattizie sul punto, la
riserva sia comunque «incompatibile con l’oggetto e lo scopo del
trattato».
59
Lezione n. 15
60
La Convenzione di Vienna impone alle parti di comportarsi secondo
buona fede nell’esecuzione (art. 26) e nell’interpretazione (art. 31)
dell’accordo, nonché nell’accertamento delle ipotesi di nullità
(articoli 46 e 69, di cui si tratterà nella prossima lezione). Ciò significa
che, in caso di contrasto, le parti dovranno dimostrarsi reciproca
correttezza e tener conto delle rispettive esigenze ed interessi. Tale
atteggiamento è in grado di agevolare la definizione positiva della
controversia insorta.
61
conclusione del trattato e accettato dalle altre parti come strumento in
connessione col trattato».
Inoltre, il par. 3 dell’art. 31 elenca ulteriori elementi utili al fine di
desumere la volontà delle parti contraenti (accordi successivi, prassi
applicative, regole di diritto internazionale applicabili inter partes).
Il quarto criterio indicato dalla Convenzione di Vienna è
l’interpretazione teleologica (finalistica). Questa tiene conto
dell’oggetto dell’accordo (cioè della concreta regolazione di interessi
posta a base del medesimo, da non confondere con l’oggetto delle
norme, che rileva per l’interpretazione letterale), nonché delle finalità
che le parti hanno inteso perseguire al momento della sua stipulazione.
Vale a dire, ad esempio, che tra due significati diversi, entrambi
astrattamente attribuibili ad un qualsiasi termine, prevarrà quello
maggiormente idoneo ad assecondare l’attuazione dell’oggetto
dell’accordo e/o il raggiungimento del relativo scopo.
62
In caso di contrasto, sarà, quindi, privilegiata l’interpretazione che,
tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, sia in grado di
conciliare meglio i testi in questione.
63
Lezione n. 16
64
Questa possibilità resta comunque esclusa per le cause di invalidità
assoluta (art. 44).
Non è ammessa, quindi, se non alle prescritte condizioni, la cd.
invalidità parziale, che consente di mantenere l’accordo valido ed
efficace rispetto alle clausole che non siano direttamente colpite
dall’invalidità.
65
costituzionale) che le altre parti contraenti avrebbero comunque potuto
rilevarne la violazione.
66
Un errore che ricade esclusivamente sulla formulazione del testo (cd.
errore materiale) non incide mai sulla validità del trattato ed è
sanabile attraverso una specifica procedura di correzione prevista
dall’art. 48, par. 3 della Convenzione di Vienna.
67
nella violazione di una norma imperativa che vieta il ricorso alla
minaccia o all’uso della forza nelle relazioni internazionali.
Sicché, oltre ad incidere sulla manifestazione del consenso, tale
violazione colpisce l’intero processo di formazione del trattato,
determinandone la nullità assoluta, ossia l’inesistenza sul piano
giuridico. Pertanto, tali fattispecie di nullità non sono mai sanabili e
sono invocabili da qualsiasi Stato appartenente alla comunità
internazionale.
Per estensione, a norma dell’art. art. 53 della Convenzione di Vienna,
ogni accordo che, al momento della sua conclusione, risulti in contrasto
con una norma imperativa del diritto internazionale (ius cogens) è
nullo.
Si è già trattato di questa fattispecie con riferimento ai rapporti tra
diritto pattizio e norme imperative (lezione n. 10). Queste ultime
rappresentano un limite formale invalicabile rispetto alla libertà di
autoregolamentazione degli interessi da parte degli Stati. Perciò,
qualora un accordo internazionale sia concluso in violazione di norme
imperative, esso risulterà invalido in modo assoluto e chiunque potrà
far valere tale situazione, comportandosi come se detto accordo non
fosse mai esistito.
68
Lezione n. 17
69
3. Una o più norme di un trattato internazionale possono stabilire a
quali condizioni gli Stati contraenti possono cessare di far parte del
trattato per loro iniziativa.
Tale facoltà concessa agli Stati prende il nome di denuncia (o di
recesso, qualora si tratti di accordi istitutivi di organizzazioni
internazionali) ed è regolata da una specifica procedura stabilita nel
trattato medesimo. Generalmente, la parte che intenda denunciare (o
recedere da) un accordo è tenuta a notificalo alle altre parti almeno
dodici mesi prima e sarà tenuta ad estinguere i rapporti instaurati con
le altre parti in forza dell’accordo secondo regole concordate.
Qualora un accordo non preveda espressamente la facoltà di denuncia
da parte degli Stati, il relativo esercizio è illegittimo (perché le parti, così
facendo, verrebbero meno ai loro obblighi), a meno che tale possibilità
non sia comunque riconducibile alla volontà delle parti o alla natura
dell’accordo (art. 56).
La denuncia, infine, determina l’estinzione immediata di un trattato
bilaterale. Nei trattati multilaterali, tale effetto è rimesso alla volontà
delle altre parti contraenti, le quali possono liberamente decidere di
continuare ad applicare il trattato anche dopo la denuncia di una di
esse.
70
meno, difatti, l’equilibrio tra le prestazioni reciproche che gli Stati si
sono impegnati ad eseguire al momento della ratifica dell’accordo.
71
scomparsa o dalla distruzione definitiva di un oggetto indispensabile alla
esecuzione del trattato» (art. 61). Ad esempio, se un accordo
internazionale ha ad oggetto il commercio di un determinato prodotto
naturale che, a causa di una calamità, cessa di esistere, ognuna delle
parti potrà invocarne l’estinzione per la sopravvenuta impossibilità di
darvi esecuzione.
Va precisato, però, che l’impossibilità sopravvenuta non configura una
causa di estinzione del trattato se deriva dalla violazione di un obbligo
del trattato, o di altro obbligo internazionale, perpetrata dalla parte
che la invoca a danno di un’altra parte del trattato.
72
La fattispecie in commento è di difficile inquadramento, poiché la sua
invocazione si presta facilmente ad abusi. Pertanto, la norma della
Convenzione che la prende in esame è formulata in senso negativo.
In altre parole, il mutamento fondamentale delle circostanze non può
essere invocato da uno Stato parte come causa di estinzione, a meno
che:
- dette circostanze non costituissero una base essenziale del consenso
delle parti a vincolarsi al trattato e che
- ciò abbia determinato una trasformazione radicale della portata degli
obblighi nascenti dal trattato.
In ogni caso, uno Stato non può invocare il mutamento fondamentale
delle circostanze se questo deriva dalla violazione di un obbligo del
trattato, o di altro obbligo internazionale, a lui imputabile.
73
Lezione n. 18
74
Uno Stato di nuova indipendenza si forma per effetto di alcune
particolari vicende successorie. Ad esempio, in seguito al processo di
decolonializzazione, ovvero in seguito al distacco da uno Stato in cui
esso era precedentemente inglobato, o ancora in conseguenza dello
smembramento o della dissoluzione dello Stato centrale o di una
federazione (si pensi all’U.R.S.S.).
Per il principio di mobilità delle frontiere, quando una porzione del
territorio di uno Stato entra a far parte di un altro Stato, i trattati in
vigore per lo Stato predecessore cessano di avere efficacia e quelli in
vigore per lo Stato successore si estendono anche a tale nuova
porzione, salvo che «risulti dal trattato o sia altrimenti stabilito che
l’applicazione del trattato a tale territorio sarebbe incompatibile con il suo
oggetto e il suo scopo o muterebbe radicalmente le condizioni per la sua
efficacia» (art. 15).
Sicché, in caso di annessione di una porzione del territorio di uno
Stato da parte di un altro Stato, o di cessione di parte del territorio di
uno Stato ad un altro (ad es., la Corsica), i trattati di cui è parte
quest’ultimo avranno efficacia anche nella nuova porzione di territorio,
a meno che ciò non si riveli incompatibile con il loro oggetto e il loro
scopo, ovvero le condizioni di applicabilità mutino radicalmente.
75
eccezionale anzidetto, poiché lo Stato di nuova formazione avrà sempre
diritto a rinegoziare con lo Stato titolare della base militare le condizioni
di ospitalità, ovvero a rifiutarne la presenza sul proprio territorio.
Rispetto alle esigenze di conservazione dello status quo, che sono alla
base della deroga stabilita per i trattati localizzabili, in questo caso sono
da ritenersi prevalenti esigenze di natura politica.
76
IV modulo
Lezione n. 19
77
2. Secondo la teoria monista proposta da Hans Kelsen, esisterebbe un
unico ordinamento universale cui farebbero capo tutti i rapporti
giuridici, disciplinati in base alle norme dell’ordinamento di volta in
volta applicabili.
Così, a seconda del luogo, del tempo, delle caratteristiche specifiche e
dei soggetti titolari, un rapporto giuridico sarà regolato da una o più
norme, prodotte secondo un determinato procedimento (da un
Parlamento nazionale, in via consuetudinaria, ecc.), le quali,
automaticamente, escluderanno l’applicazione di tutte le altre.
In questa ipotesi, non sarebbe necessario alcun procedimento di
adattamento, dal momento che, qualunque sia il meccanismo di
produzione giuridica riconosciuto dall’ordinamento, le norme così
prodotte saranno le uniche applicabili ai rapporti giuridici
corrispondenti, escludendosi ogni possibile sovrapposizione o
concorrenza tra fonti diverse.
78
adattamento, così da recepirle attribuendo loro un rango adeguato agli
effetti che dovranno eventualmente spiegare.
Ciò non toglie, peraltro, che un ordinamento nazionale si possa dotare
di un unico procedimento di adattamento, valido per tutte e tre le
categorie precitate.
Quello che conta maggiormente, in effetti, è garantire la massima
corrispondenza tra la norma internazionale da recepire e la norma
interna di adattamento, onde evitare che l’intero procedimento risulti
inadeguato al fine per il quale è stato concepito.
Parimenti, appare necessario preservare l’efficacia delle norme
internazionali recepite rispetto ad eventuali norme interne
successivamente prodotte, aventi il medesimo oggetto, ma differente
disciplina. In difetto, ogni Stato potrebbe, a suo piacimento, eludere gli
impegni internazionali in precedenza assunti mediante l’adozione di
una nuova regolamentazione unilaterale dal contenuto incompatibile.
Si vedrà nelle prossime lezioni come tale rischio sia opportunamente
scongiurato.
79
Lezione n. 20
80
3. Il ricorso al procedimento ordinario postula che la fonte extra
ordinem e quella interna di recepimento rimangano del tutto separate.
Pertanto, le vicende che interessano l’una (interpretazioni, modifiche,
abrogazione) non sono in grado di riverberarsi automaticamente
sull’altra.
Più precisamente, con il procedimento ordinario si vengono a creare
due fonti distinte, ciascuna applicabile nel proprio ordinamento.
Pertanto, tutto ciò che accade alla fonte internazionale (ad esempio, la
sua abrogazione) rimane estraneo alla fonte interna di recepimento,
che, all’atto della sua formazione, ha il medesimo contenuto della
prima, ma, da quel momento in poi, produce effetti autonomi.
Tale caratteristica rende il ricorso al procedimento ordinario
decisamente più problematico e, perciò, meno frequente. Tuttavia,
quando la norma extra ordinem da recepire non è auto-esecutiva (self-
executing), il ricorso al procedimento ordinario diviene obbligatorio.
Ciò accade, essenzialmente, in tre casi:
1. quando la norma non ha contenuto immediatamente precettivo
e deve essere attuata nell’ordinamento di recepimento (ad es., quando
la norma internazionale è eccessivamente generica e deve essere
specificata in sede di recepimento);
2. quando la norma non è sufficientemente precisa e deve essere
integrata nell’ordinamento di recepimento (ad es., quando la stessa
norma internazionale prevede che la fonte interna di recepimento
provveda al suo completamento, in modo da renderla efficace);
3. quando la norma contiene precetti alternativi e l’ordinamento
di recepimento è chiamato ad optare per uno di essi.
81
volta in volta prodotte dalla fonte destinataria del rinvio, alle loro
possibili modifiche, integrazioni, ecc. In ciò risiede il suo carattere
“dinamico”.
In altri termini, attraverso il procedimento di rinvio formale, la norma
interna, nell’attribuire rilevanza giuridica all’intera categoria di fonti
extra ordinem da recepire (ad es., «…alle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute»), crea, di volta in volta, nell’ordinamento
recipiente le corrispondenti norme di adattamento.
Il rinvio materiale è, invece, il procedimento con il quale la norma
dell’ordinamento recipiente dà ingresso ad una specifica norma (o
gruppo di norme) extra ordinem (ad es., «la Convenzione sul diritto dei
trattati, conclusa a Vienna nel 1969…», ovvero «il divieto dell’uso della
forza, come sancito dall’art. 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite…»).
In tal caso, si determina, l’incorporazione della norma oggetto del
rinvio in quella rinviante, sicché quest’ultima rimane indifferente ad
ogni eventuale successiva modifica della prima. Perciò, a differenza
dell’ipotesi precedente, la norma recipiente e quella recepita divengono
un unicum inscindibile, dotato di efficacia autonoma.
82
Lezione n. 21
83
2. Le norme generali introdotte mediante adattamento automatico
devono, quindi, considerarsi vigenti all’interno dell’ordinamento italiano
dal momento in cui e fino a quando esse operano nell’ordinamento
internazionale.
Poiché la norma di adattamento è contenuta nella Costituzione, anche
le norme internazionali introdotte per il tramite di tale norma godono
del medesimo rango.
Ciò significa che le norme internazionali consuetudinarie, nel nostro
ordinamento, sono formalmente parificate a quelle costituzionali.
Perciò, in caso di eventuale contrasto con le norme interne della
Costituzione – ipotesi prettamente teorica, ma, in linea di principio,
possibile – la ricomposizione delle antinomie potrebbe (anzi, dovrebbe)
risolversi a favore delle prime.
Tuttavia, per scongiurare la possibilità che dal recepimento di talune
norme consuetudinarie discenda un effetto di instabilità
dell’ordinamento (ad es., dell’assetto istituzionale, o del principio
democratico, ecc.), si ritiene che la salvaguardia dei principi supremi
della Costituzione, sui quali si fonda il nostro ordinamento, sia da
considerarsi una finalità prevalente anche rispetto all’osservanza di
eventuali precetti internazionali incompatibili.
Seguendo un ragionamento parzialmente diverso, parte della dottrina
ritiene che, solo in caso di conflitto tra norme internazionali introdotte
ex art. 10, 1° comma, Cost. e leggi ordinarie successivamente emanate,
le prime debbano risultare prevalenti, per la loro natura di cd. “fonti
interposte” (collocate, cioè, in posizione intermedia tra le fonti di rango
ordinario e quelle di rango costituzionale). Sicché, una legge ordinaria
in contrasto con una norma internazionale generale sarà viziata da
illegittimità costituzionale e potrà essere annullata dalla Corte
costituzionale.
Diversamente, quando il conflitto riguardi norme internazionali generali
e disposizioni costituzionali, esso dovrà risolversi mediante una
ricomposizione in via interpretativa, ovvero riconoscendo la prevalenza
dei precetti costituzionali.
84
3. L’adattamento automatico ex art. 10, 1° comma, Cost. consente –
come detto – di recepire nel nostro ordinamento tutte le norme
consuetudinarie all’atto della loro formazione, incluse quelle a carattere
imperativo (ius cogens). Per queste ultime valgono le medesime
considerazioni svolte in precedenza circa i criteri e le modalità di
ricomposizione di eventuali conflitti.
Secondo un’autorevole opinione dottrinaria (Quadri), peraltro, l’art. 10,
1° comma sarebbe utilizzabile anche ai fini del recepimento delle norme
pattizie e di terzo grado.
Ciò in quanto, tale norma, nel consentire l’adattamento
dell’ordinamento italiano al precetto pacta sunt servanda, di natura
consuetudinaria, ammetterebbe implicitamente l’ingresso, per la
medesima “strada”, di tutte le fonti che in tale precetto trovano
legittimazione sul piano giuridico. Vale a dire, anzitutto, gli accordi
internazionali, e, tra questi, quelli contenenti specifici meccanismi di
produzione giuridica, da cui traggono, a loro volta, giuridicità le fonti di
terzo grado.
Pertanto, l’ordinamento italiano sarebbe provvisto di una norma
generale sull’adattamento valida per tutte le categorie di fonti
internazionali suscettibili di essere recepite.
Tale opinione, tuttavia, confligge con il tenore letterale dell’art. 10, 1°
comma, che limita espressamente l’applicabilità del procedimento di
adattamento speciale di cui trattasi alle «norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute».
85
Lezione n. 22
86
L’ordine di esecuzione è formulato nei termini seguenti «Piena ed intera
esecuzione è data all’Accordo “…” a decorrere dalla data della sua
entrata in vigore… [segue a tale formula il testo dell’accordo]» ed è
contenuto in un atto normativo tipico dell’ordinamento recipiente (una
legge, un regolamento, ecc.).
Generalmente, l’ordine di esecuzione è contenuto nella stessa legge di
autorizzazione alla ratifica di un accordo internazionale. In questo
caso, l’ordinamento italiano, all’atto di ratificare l’accordo, provvede
anche al suo recepimento. È evidente, peraltro, che l’ordine di
esecuzione non avrà efficacia nel diritto interno finché l’accordo non
entrerà in vigore nell’ordinamento internazionale.
87
comma, Cost. e che, pertanto, una volta recepite, si situano in una
posizione giuridica formale certamente superiore a quella delle leggi
ordinarie, le norme pattizie “coabitano” con le leggi ordinarie, perché il
relativo adattamento avviene proprio mediante una legge.
Si pone, perciò, il problema di stabilire un ordine di prevalenza tra fonti
del medesimo rango – le une di adattamento, le altre interne – valido
nei casi in cui il contenuto di tali fonti dovesse risultare incompatibile.
Fino alla riforma costituzionale del 2001, la Costituzione italiana non
contemplava alcuna disposizione in grado di stabilire con certezza detto
ordine. L’art. 117, 1° comma, Cost. prevede ora che il legislatore
italiano sia costituzionalmente vincolato al «rispetto degli obblighi
internazionali».
Nella lezione successiva si tratterà della portata concreta di tale vincolo.
88
Lezione n. 23
89
2. Per ovviare a tale problema, la riforma costituzionale del 2001 ha
introdotto una disposizione simile a quella già stabilita per le norme
consuetudinarie dall’art. 10, 1° comma.
Precisamente, secondo l’art. 117, 1° comma, Cost., la funzione
legislativa deve essere esercitata nel «rispetto degli obblighi
internazionali». Detto vincolo, pertanto, si pone quale limite alla potestà
legislativa dello Stato e delle Regioni, nei rispettivi ambiti di competenza
materiale.
Ciò implica che l’eventuale adozione di una legge interna in contrasto
con gli impegni precedentemente assunti dallo Stato italiano per effetto
della stipulazione di un accordo internazionale, oltre a violare il diritto
internazionale, configura un’ipotesi di illegittimità costituzionale.
Ogni volta che il legislatore (nazionale o regionale) esercita la propria
potestà è tenuto, quindi, a rispettare gli obblighi internazionali già
assunti dallo Stato italiano, pena l’annullamento delle norme di legge
in conflitto da parte della Corte costituzionale per contrasto con
l’art. 117, 1° comma, Cost.
In definitiva, gli accordi internazionali ratificati ed eseguiti
nell’ordinamento resistono all’abrogazione da parte di leggi interne in
conflitto successivamente emanate.
90
normativo di rango inferiore. Tuttavia, nel silenzio della norma, ciò non
può essere affermato con certezza.
Si pone, altresì, il problema di stabilire se gli obblighi internazionali che
il legislatore è tenuto a rispettare siano solo quelli negativi (cd. obblighi
di non fare, ad es. di non adottare una legge in conflitto), o anche quelli
positivi (cd. obblighi di fare, ad es. di disciplinare in modo conforme al
diritto internazionale una materia fino a quel momento non regolata).
91
Lezione n. 24
92
norme di diritto internazionale generale, «pur potendo avere influenza
nella formazione di consuetudini e di accordi conformi al loro contenuto»,
così da essere recepite mediante il procedimento di adattamento
automatico ex art. 10, 1° comma, Cost.
Più in generale, si riscontra un orientamento pressoché uniforme,
tendente a subordinare l’efficacia nel diritto interno delle fonti
internazionali di terzo grado all’adozione di norme ad hoc da parte del
legislatore.
Per l’adattamento alle fonti di terzo grado nell’ordinamento italiano si
privilegia, quindi, il ricorso al procedimento ordinario. Vale a dire che,
tutte le volte che un’organizzazione internazionale (o altro organismo)
produca un atto normativo dotato di efficacia vincolante per gli Stati
membri, lo Stato italiano recepisce tale atto mediante la sua
riformulazione in un provvedimento normativo interno.
93
V modulo
Lezione n. 25
La nozione di immunità
94
Tali atti, perciò, sono immuni dal controllo giurisdizionale spettante ad
ogni Stato nel proprio ordinamento.
95
Lezione n. 26
96
Dalla fine del XIX secolo, si fa strada, però, un’interpretazione diversa,
secondo cui l’immunità statale deve essere riconosciuta solo per gli atti
che siano manifestazione di una potestà d’imperio (atti iure imperii) e
non anche per quelli di natura privatistica (atti iure gestionis, o iure
privatorum).
Sono, pertanto, coperti dall’immunità tutti gli atti mediante i quali lo
Stato esercita la propria sovranità (iniziative diplomatiche unilaterali,
atti di guerra, nazionalizzazioni di imprese straniere, ecc.).
Sono, invece, esclusi dall’immunità tutti gli atti attraverso i quali lo
Stato instaura rapporti giuridici di natura privatistica con soggetti
stranieri (acquisti di beni, emissione di titoli finanziari, stipulazione di
contratti, ecc.).
La distinzione in commento è accolta anche nella Convenzione di New
York e rappresenta l’attuale livello di sviluppo della regola
dell’immunità in senso stretto.
Ciò significa che, tradizionalmente, l’immunità statale non conosceva
eccezioni, sicché tutti i rapporti giuridici facenti capo agli Stati erano
coperti da tale norma. Successivamente, in conseguenza
dell’incremento delle relazioni internazionali e, soprattutto, del diverso
ruolo assunto dallo Stato (che agisce talvolta in campo economico come
un imprenditore privato, ovvero come acquirente di beni e servizi forniti
da imprese straniere), si è compreso che non tutti tali rapporti
dovevano rimanere sconosciuti ai Tribunali stranieri, ma potevano
essere da questi legittimamente sindacati.
97
lo Stato straniero sarà costretto ad assoggettarsi al giudizio del
Tribunale;
- il cd. metodo della lista, in base al quale i rapporti coperti
dall’immunità e/o quelli esenti sono elencati in una legge interna o in
un accordo internazionale che i Tribunali nazionali si limitano ad
applicare senza alcuna valutazione discrezionale.
98
Lezione n. 27
99
Un settore nel quale l’orientamento della giurisprudenza è risultato
piuttosto controverso è quello relativo ai rapporti di lavoro subordinato
alle dipendenze di uno Stato straniero.
Attualmente, si ritiene che le controversie derivanti da tali rapporti non
siano coperte dall’immunità se la prestazione lavorativa si svolge sul
territorio dello Stato del foro (tale orientamento è stato recepito
dall’art. 11, par. 1, della Convenzione di New York). Tuttavia,
l’immunità è comunque invocabile qualora il dipendente (straniero) sia
stato assunto per svolgere attività direttamente riconducibili ad una
funzione pubblica o in altri casi specifici (art. 11, par. 2).
Con l’ordinanza sul caso Ferrini (SS.UU., 11.3.2004, n. 5044) e con
alcune pronunce successive conformi, la Corte di Cassazione ha
inaugurato una nuova giurisprudenza che introduce ulteriori restrizioni
all’applicazione della rgola sull’immunità.
La Corte ha ritenuto, infatti, inapplicabile la regola dell’immunità con
riferimento ad atti iure imperii costitutivi di crimini internazionali.
In sostanza, qualora uno Stato, nell’esercizio di funzioni sovrane,
commetta atti vietati da norme imperative del diritto internazionale
(quali sono, appunto, i crimini internazionali), non potrà invocare
l’immunità giurisdizionale, ma dovrà sottomettersi al giudizio dei
Tribunali dello Stato del foro.
Tale orientamento è però avversato da gran parte della dottrina – che
evidenzia come la pur giusta esigenza di perseguire e reprimere i
crimini internazionali non può condurre, di per sé, ad una
disapplicazione della regola dell’immunità, poiché tali fattispecie hanno
ambiti materiali diversi – e non trova accoglimento nella giurisprudenza
delle Corti internazionali e delle Corti supreme di altri paesi.
100
e nello State Immunity Act britannico, del 1978) e prevede
l’elencazione delle categorie di atti in relazione alle quali lo Stato
straniero gode di immunità, limitando così la discrezionalità dei
Tribunali nazionali nel decidere sulla propria competenza
giurisdizionale nel caso concreto.
In altre parole, i Tribunali interni saranno obbligati ad applicare la
normativa recante i rapporti coperti e quelli esclusi dal beneficio
dell’immunità. Ciò limita drasticamente la funzione interpretativa che,
invece, è alla base del metodo casistico.
101
Gli Stati stranieri, tuttavia, in correlazione con l’immunità dalla
giurisdizione cognitiva, godono anche dell’immunità dalla giurisdizione
esecutiva, vale a dire che i loro beni (mobili e immobili) presenti sul
territorio dello Stato del foro non possono essere pignorati (o confiscati),
in esecuzione di sentenze di condanna, senza una preventiva
autorizzazione.
102
Lezione n. 28
L’immunità funzionale
103
3. L’immunità funzionale può essere invocata esclusivamente in
relazione agli atti compiuti nell’esercizio di funzioni ufficiali. Questa
locuzione è stata interpretata sia restrittivamente, come se fosse riferita
solo agli atti aventi finalità pubblicistiche, sia estensivamente,
ritenendola applicabile a tutti gli atti compiuti mediante l’utilizzo di
strumenti pubblicistici, seppure aventi finalità private (cfr. i casi
Pinochet I e II, House of Lords, sentenze del 25.11.1998 e del
24.3.1999).
Più precisamente, i due casi menzionati avevano ad oggetto la richiesta
di estradizione del dittatore Pinochet per consentirne il rinvio a giudizio
per il compimento di atti di tortura. Nel primo, l’estradizione venne
concessa, sul presupposto che gli atti contestati non fossero atti
riconducibili ad una delle funzioni pubblicistiche di competenza
dell’individuo-organo accusato. Si è dato, quindi, rilievo pressoché
eslcusivo alla natura e allo scopo dell’atto. Nel secondo, invece,
l’estradizione venne negata, perché si ritenne che tali atti, pur non
avendo finalità pubblicistiche in senso stretto, non avrebbero potuto
essere compiuti senza fare ricorso a strumenti di natura pubblicistica.
In altre parole, il dittatore Pinochet potè ordinare la commissione di atti
di tortura solo in quanto Capo di Stato formalmente riconosciuto. Si è
dato, perciò, rilievo prevalente alle modalità con cui tali atti erano stati
compiuti.
104
dell’individuo-organo e lo Stato del foro (ad esempio, per missioni non
autorizzate: caso Rainbow Warrior, sentenze del 2.10.1987 e del
30.4.1990).
3) Per il compimento di crimini internazionali, anche se la relativa
fattispecie non sia stat preventivamente configurati in un accordo. Su
tale eccezione, tuttavia, non si è ancora formata un’opinio iuris
uniforme (cfr. la sentenza della Corte internazionale di giustizia del
14.2.2002 sul caso del Mandato d’arresto dell’11.4.2000).
105
Lezione n. 29
L’immunità personale
106
temporanea nei confronti del beneficiario per le violazioni delle leggi del
paese ospitante.
In particolare, essa si estende:
- alla giurisdizione penale, senza eccezioni;
- alla giurisdizione civile, ad eccezione delle azioni aventi ad oggetto
diritti reali, successioni, attività professionali o commerciali e domande
riconvenzionali promosse dall’avente diritto.
I soggetti che godono dell’immunità personale sono, altresì, esenti dal
pagamento di tributi e imposte, salvo quelle indirette.
In definitiva, come affermato dalla Corte internazionale di giustizia
nella sentenza del 14.2.2002 sul caso del Mandato d’arresto
dell’11.4.2000, l’immunità dalla giurisdizione non implica
l’irresponsabilità penale del beneficiario. Difatti, «mentre l’immunità
dalla giurisdizione ha natura processuale, la responsabilità penale
è una questione relativa alla legge sostanziale. L’immunità
giurisdizionale può impedire lo svolgimento del processo per un
determinato periodo o per determinati reati; non può esonerare la
persona alla quale si applica la responsabilità penale».
107
Lezione n. 30
108
internazionali in conformità a quella che garantisce l’immunità
funzionale agli individui-organi dello Stato. L’immunità delle
organizzazioni internazionali e dei loro funzionari, pertanto, è
riconosciuta solo in via convenzionale.
A norma dell’art. 105, par. 2, della Carta, i funzionari delle N.U. (cui la
Corte internazionale di giustizia ha assimilato anche gli «esperti che
effettuano missioni per le Nazioni Unite»: cfr. il parere
sull’Applicabilità dell’art. 22 della Convenzione sui privilegi e sulle
immunità delle Nazioni Unite, del 15.12.1989), godono dei privilegi e
delle immunità necessari «per l’esercizio indipendente delle loro
funzioni inerenti all’Organizzazione».
109
VI modulo
Lezione n. 31
110
Secondo la Corte permanente di giustizia internazionale (sentenza
del 30.8.1924 sul caso Mavrommatis), si definisce controversia
internazionale ogni «disaccordo su questioni di fatto o di diritto, o
un conflitto di interessi o di punti di vista esistente tra due
soggetti [internazionali]».
Gli elementi che caratterizzano una controversia internazionale sono,
pertanto:
- la soggettività internazionale dei contendenti (se una delle
due parti in lite non ha personalità giuridica internazionale la
controversia sarà risolta sulla base del diritto interno applicabile);
- l’esistenza di una pretesa vantata da uno dei contendenti e la
resistenza a detta pretesa (vale a dire la sua n e g a z i o n e) o la
contropretesa opposta dall’altro (cioè una pretesa eguale e opposta alla
prima, o comunque incompatibile con il relativo soddisfacimento).
111
4. Secondo la Dichiarazione relativa ai principi di diritto
internazionale sulle relazioni amichevoli e la cooperazione tra
Stati (approvata dall’Assemblea Generale delle N.U. con ris. n. 2625 del
24.10.1970), le controversie internazionali devono essere risolte sulla
base dell’uguaglianza sovrana e in conformità al principio della libera
scelta dei mezzi di risoluzione. Gli Stati parti di una controversia
internazionale, pertanto, non possono essere costretti a ricorrere ad
uno specifico mezzo di risoluzione.
L’unico obbligo gravante sugli Stati in lite è quello sancito all’art. 2, par.
3, della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui gli Stati membri
dell’organizzazione devono «risolvere le loro controversie internazionali
con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionali, e
la giustizia, non siano messe in pericolo».
Tale norma fondamentale della Carta è divenuta, pressoché
istantaneamente, una regola consuetudinaria di natura imperativa e
rappresenta un corollario del più ampio divieto di minaccia e uso della
forza armata nelle relazioni internazionali.
112
Lezione n. 32
113
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a norma dell’art. 36
della Carta, ha il potere di raccomandare alle parti in lite la scelta dei
metodi più adeguati (par. 1), tenendo presente, però, che «l e
controversie giuridiche dovrebbero, di regola generale, essere deferite
dalle parti alla Corte internazionale di giustizia in conformità alle
disposizioni dello Statuto della Corte» (par. 3).
114
- la mediazione;
- l’inchiesta;
- la conciliazione;
- il ricorso ad organizzazioni o accordi regionali.
Accanto a questi, si è affermato nella prassi il ricorso ai cd. buoni
uffici. La norma, infatti, come si evince chiaramente dalla sua
formulazione, non considera tassativi i mezzi ivi indicati, ma lascia le
parti in lite del tutto libere di ricorrere ad «altri mezzi pacifici di loro
scelta».
115
Lezione n. 33
116
es., le Nazioni Unite) presso cui attivare le procedure necessarie alla
loro istituzione.
In particolare, compito della commissione d’inchiesta è di accertare i
fatti che hanno determinato l’insorgere di una controversia. L’utilità di
tale strumento, pertanto, è apprezzabile nelle controversie
caratterizzate da profonde divergenze in merito all’accertamento delle
circostanze pertinenti, ovvero quando alcune di queste risultino poco
chiare.
L’attività della commissione d’inchiesta può, talvolta, condurre
all’accertamento di responsabilità per fatto illecito a carico di una o
entrambe le parti in lite, ragione per cui i relativi esiti non vengono
sempre resi noti.
L’istituzione di commissioni di inchiesta (o fact-finding) può essere,
altresì, prevista all’interno di accordi internazionali al verificarsi di
determinate situazioni. Ad esempio, a norma dell’art. 34 della Carta
delle Nazioni Unite, «il Consiglio di sicurezza può fare indagini su
qualsiasi controversia o su qualsiasi situazione che possa portare ad un
attrito internazionale o dar luogo ad una controversia, allo scopo di
determinare se la continuazione della controversia o della situazione sia
suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale».
117
Al contempo, però, l’istituto in commento non va confuso con quello
dell’arbitrato, dal quale si differenzia nettamente poiché la soluzione
proposta non è mai vincolante, ma deve essere accettata dalle parti.
Ciò significa che le parti potranno sempre rifiutarsi di aderire ad una
soluzione proposta da una commissione di conciliazione, sebbene un
rifiuto immotivato o irragionevole sia ritenuto politicamente scorretto e
accolto con sfavore dalla comunità internazionale.
Alcuni accordi internazionali prevedono l’istituzione di commissioni di
conciliazione nei casi in cui sorga una controversia tra le parti circa la
sua interpretazione o applicazione. Si tratta di una semplice facoltà
concessa alle parti (si tratta, in questi casi, di un semplice pactum de
contrahendo), ovvero di un vero e proprio diritto, qualora sia possibile
istituire una commissione di conciliazione anche senza il previo
consenso della controparte, così da superarne eventuali resistenze (cfr.
l’art. 66 e l’Allegato alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati).
118
Lezione n. 34
119
Le parti saranno, quindi, obbligate ad accettare la soluzione indicata
dall’arbitro (o dal collegio arbitrale) e contenuta nel dispositivo del lodo.
Qualora la parte soccombente, tuttavia, non intenda dare esecuzione al
lodo, essa commetterà un illecito internazionale, rispetto al quale la
parte vittoriosa potrà far valere la responsabilità (v. modulo n. VII).
120
l’organo arbitrale si pronunci ex aequo et bono (cioè secondo equità).
In questo caso, qualora l’organo arbitrale incaricato non sia in grado di
rinvenire, nell’ambito del diritto materiale a disposizione, almeno una
norma applicabile alla controversia, sarà legittimato a ricorrere al
principio di equità ai fini della decisione.
Le regole di procedura che l’organo arbitrale è tenuto a far rispettare
(concernenti le udienze, il deposito di memorie, l’acquisizione di mezzi
istruttori e i tempi di emissione del lodo) possono essere decise dalle
parti (in caso di arbitrato ad hoc) o dallo stesso organo adito (ad es., la
Corte permanente di arbitrato). L’inosservanza di dette regole può dar
luogo anche all’improcedibilità del giudizio arbitrale, a danno della
parte inadempiente che non potrà più far valere le proprie ragioni.
Il lodo ha natura vincolante per le parti e, di regola, è definitivo. Le
parti possono prevedere, però, la possibilità di un riesame a
determinate condizioni.
121
Lezione n. 35
122
permanente di giustizia internazionale, istituita nel 1918 dal Patto
della Società delle Nazioni con il compito di dirimere le controversie
internazionali tra gli Stati membri dell’organizzazione.
L’incremento del loro numero e la diversificazione delle rispettive
competenze, dovuti all’intensificarsi delle relazioni internazionali in
materie storicamente estranee all’intervento regolatore del diritto
internazionale, risale agli ultimi decenni del XX secolo.
Attualmente, i Tribunali internazionali svolgono varie funzioni:
- di risoluzione delle controversie internazionali tra Stati (Corte
internazionale di giustizia, Tribunale internazionale del diritto del mare,
ecc.);
- di repressione dei crimini internazionali (Tribunali penali ad hoc,
Corte penale internazionale, ecc.);
- di tutela dei diritti individuali riconosciuti da accordi
internazionali (Corte europea dei diritti dell’uomo, ecc.);
- di tutela dei diritti del personale dipendente di un’organizzazione
internazionale (Tribunale amministrativo delle Nazioni Unite, ecc.).
Solo i Tribunali riferibili alla prima categoria suindicata sono, tuttavia,
considerati dalla dottrina come giurisdizioni internazionali in senso
stretto, perché la loro funzione esclusiva è la risoluzione delle
controversie tra Stati. Nonostante il loro proliferare, che risponde ad
un’esigenza di specializzazione delle competenze, tali organismi non
hanno dato vita ad alcun potere giudiziario autonomo nell’ordinamento
internazionale. In altre parole, non esiste una funzione giurisdizionale
unitaria nell’ordinamento internazionale, ma tanti fori internazionali
quante sono le competenze loro attribuite, istituiti conformemente alle
diverse esigenze degli Stati.
Nessuno di essi, sfugge, pertanto al summenzionato principio
volontaristico, in base al quale l’assoggettamento alle decisioni
dell’organo giudiziario di turno e l’esecuzione delle relative decisioni
restano subordinate alla volontà degli Stati.
3. Sono da ricordare:
123
- la Corte internazionale di giustizia (v. lezione n. 36), che, a norma
dell’art. 92 della Carta dell’ONU, è «il principale organo giurisdizionale
delle Nazioni Unite» e «funziona in conformità allo Statuto annesso che è
basato sullo Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale e
forma parte integrante della presente Carta»;
- il sistema di risoluzione delle controversie istituito nell’ambito
dell’Organizzazione mondiale del commercio e, in particolare, e
l’Organo di appello, creato dagli accordi di Marrakech (cfr. l’Allegato 2
del 15.4.1994) allo scopo di accentuare il carattere giurisdizionale del
meccanismo di risoluzione delle controversie già in vigore, che presenta
i tratti tipici di un sistema di tutela giurisdizionale combinati insieme
ad elementi propri delle procedure di conciliazione. Si parla, al
riguardo, di sistema quasi-giurisdizionale;
- il Tribunale internazionale del diritto del mare, istituito dalla
Convenzione sul diritto del mare delle Nazioni Unite (conclusa a
Montego Bay il 10.12.1982 ed entrata in vigore il 16.11.1994), per la
risoluzione delle controversie giuridiche concernenti l’interpretazione e
l’esecuzione delle norme della Convenzione (cfr. le Parti XI e XV, nonché
l’Annesso VI alla Convenzione).
Quest’ultimo, è un esempio di “giurisdizione specializzata”, con
competenze, tuttavia, non esclusive, dal momento che gli Stati parti
della Convenzione possono rivolgersi a fori alternativi (la Corte
internazionale di giustizia, o un tribunale arbitrale), salva la
competenza della Camera per la soluzione delle controversie sui
fondi marini (art. 287 della Convenzione).
124
durante il secondo conflitto mondiale, l’ordinamento internazionale si
preoccupa di disciplinare la materia penale mediante una chiara
definizione delle fattispecie criminose (genocidio, crimini di guerra,
crimini contro l’umanità e crimini contro la pace) e la creazione di
organi legittimi.
Nel 1993 (Ris. n. 827 del 25.5) e nel 1994 (Ris. n. 955 del 8.11), il
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite istituisce i Tribunali penali
ad hoc per l’ex-Jugoslavia e per il Rwanda.
Nel 1998 viene firmato a Roma lo Statuto della Corte penale
internazionale (entrato in vigore il 1.7.2002), il primo organo
giurisdizionale internazionale con competenze in materia penale a
carattere generale permanente.
A differenza dei suoi precedenti omologhi, difatti, la Corte può
perseguire i crimini internazionali ovunque commessi, a condizione che
l’accusato sia cittadino di uno dei paesi che hanno ratificato il relativo
Statuto.
Il funzionamento della Corte penale internazionale si basa sul principio
aut dedere aut iudicare, per il quale gli Stati parti si impegnano a
collaborare con tale istituzione nella cattura degli accusati, al fine di
consentire la celebrazione del processo e la punizione dei colpevoli,
salva la possibilità per gli Stati stessi di provvedere autonomamente.
Per la tutela dei diritti fondamentali della persona devono certamente
ricordarsi le Corti europea, interamericana e africana dei diritti
d e l l ’ u o m o , che hanno il compito di vigilare sul rispetto delle
Convenzioni regionali vigenti nel continente europeo, in quello
americano e in quello africano, aventi ad oggetto la protezione dei diritti
dei cittadini dei paesi che aderiscono a tali accordi.
125
della violazione di uno dei diritti sanciti dalla Convenzione cui ha
aderito lo Stato di cui sono cittadini o residenti temporanei.
Nel caso delle giurisdizioni penali, posto che la responsabilità penale è
personale, è evidente che l’imputabilità dei crimini internazionali
riguarda esclusivamente gli individui ritenuti responsabili, e non anche
i rispettivi Stati di appartenenza.
Inoltre, a determinate condizioni, anche le organizzazioni non
governative (ONG) possono partecipare ai procedimenti giurisdizionali
anzidetti, come sostituti processuali o amici curiae, per coadiuvare
l’attività delle Corti.
126
Lezione n. 36
127
sufficiente per l’instaurazione di un giudizio. A tal fine, si rendono
necessari ulteriori adempimenti da parte degli Stati membri.
In particolare, a norma dell’art. 36 dello Statuto della Corte, la
competenza contenziosa può essere attivata:
- mediante un compromesso o una clausola compromissoria
contenuta in un accordo internazionale;
- mediante una dichiarazione unilaterale di accettazione della
giurisdizione della Corte, emessa «incondizionatamente o sotto
condizione di reciprocità da parte di più Stati o di determinati Stati o per
un periodo determinato» (par. 3) e depositate presso il Segretario
Generale delle Nazioni Unite (par. 4).
128
4. La funzione consultiva può essere attivata dall’Assemblea Generale
o dal Consiglio di sicurezza «su qualunque questione giuridica», ovvero
dagli altri organi delle N.U. e dagli istituti specializzati (ad es., la FAO,
l’OIL, l’UNESCO, ecc.), previa autorizzazione dell’Assemblea generale,
«su questioni giuridiche che sorgano nell’ambito delle loro attività» (art.
92 della Carta dell’ONU).
I pareri della Corte non hanno forza vincolante, ma possono contribuire
alla formazione dell’opinio iuris degli Stati in vista della creazione di
norme consuetudinarie.
129
VII modulo
Lezione n. 37
130
Queste hanno origine consuetudinaria e sono state codificate dalla
Commissione di diritto internazionale nell’importantissimo Progetto
di articoli sulla responsabilità degli Stati, approvato in prima lettura
nel 1996 e in seconda lettura nel 2001. Attualmente, all’esame della
Commissione c’è anche un Progetto di articoli sulla responsabilità
delle organizzazioni internazionali.
131
4. In conseguenza del compimento di un illecito, sorge la
responsabilità internazionale del soggetto agente, da cui derivano:
- l’obbligo di cessazione e non reiterazione dell’illecito;
- l’obbligo di riparazione dell’illecito, nelle sue diverse forme
(restituzione, risarcimento, soddisfazione).
L’adempimento dello Stato responsabile a detti obblighi consente, a
volte, di ripristinare la situazione antecedente l’illecito e di pervenire,
comunque, ad un ristabilimento della legalità internazionale, mediante
la rimozione degli effetti pregiudizievoli derivanti dalla commissione
dell’illecito stesso.
132
Lezione n. 38
133
direzione o il controllo di quello Stato nel porre in essere quel
comportamento».
Si è in presenza di organi (o agenti) di fatto in caso di missioni affidate
ai servizi segreti, ovvero di azioni condotte da gruppi paramilitari non
formalmente riconducibili alle forze armate statali (cfr. le sentenze della
Corte internazionale di giustizia, rispettivamente del 27.6.1986 sul caso
delle Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il
N i c a r a g u a e del 2.3.2007 sul caso dell’Applicazione della
Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di
genocidio e quella della Camera d’Appello del Tribunale penale per la
ex-Jugoslavia del 15.7.1999 sul caso Tadic).
In simili casi, pur non potendo ricondurre l’autore materiale dell’illecito
all’organigramma statale (cd. organizzazione formale), non essendo egli
in possesso di alcuna qualità organica apparente, la responsabilità
dello Stato si basa sull’appartenenza dell’agente di fatto alla sua
organizzazione effettiva. Egli, cioè, non agisce di sua iniziativa (motu
proprio), ma in base alle istruzioni ricevute e sotto la direzione e il
controllo statali. Pertanto, lo Stato di provenienza deve essere
considerato responsabile, come se l’illecito fosse stato commesso da un
suo organo apparente.
3. Lo Stato non è responsabile, invece, per gli atti illeciti commessi dai
privati (ad es., l’uccisione di un Capo di Stato straniero da parte di un
cittadino dello Stato ospitante), al di fuori delle ipotesi di culpa in
vigilando (per non aver garantito, cioè, adeguate forme di protezione),
a meno che esso non approvi ufficialmente e dichiari di far propri tali
atti (cfr. la sentenza della Corte internazionale di giustizia del
24.5.1980 sul caso del Personale diplomatico e consolare degli Stati
Uniti a Teheran).
In buona sostanza, non si può imputare ad uno Stato la responsabilità
internazionale per un atto illecito commesso da un cittadino privato sul
proprio territorio, a meno che lo stesso Stato non dichiari di assumerla
volontariamente.
134
Ciò, tuttavia, non esime gli Stati dal garantire il rispetto delle norme
internazionali anche da parte degli individui sottoposti alla sua
giurisdizione. Lo Stato, difatti, è tenuto a provare di non aver potuto
evitare che l’illecito fosse commesso. In difetto, sarà ritenuto
responsabile, non per l’illecito in sé, ma per omessa vigilanza sul
comportamento dei privati.
135
Lezione n. 39
136
Nel caso di illecito continuato o complesso, difatti, lo Stato responsabile
ha l’obbligo, prima ancora di provvedere alla relativa riparazione, di
desistere dal continuare un’azione contraria al diritto internazionale
(ove si tratti di illecito commissivo: ad es., un bombardamento) o,
all’opposto, di attivarsi conformemente ai suoi doveri (ove si tratti di
illecito omissivo: ad es., la vigilanza sull’inviolabilità personale di un
Capo di Stato straniero).
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Lezione n. 40
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ritenuto internazionalmente lecito. Tuttavia, il consenso incide sulla
misura della riparazione.
139
- necessaria (vale a dire che, in quelle circostanze, non si può ricorrere
ad altri mezzi di natura pacifica per ottenere la cessazione dell’attacco
altrui);
- immediata (tra l’attacco e la reazione, difatti, non può trascorrere un
tempo tale da far ritenere che la difesa sia, in realtà, un nuovo attacco);
- proporzionale, non all’attacco in sé considerato, ma all’obiettivo della
sua cessazione.
140
In questo caso, la gravità del rischio cui il soggetto agente va incontro è
tale da consentire la violazione degli obblighi internazionali che lo
stesso sarebbe tenuto a rispettare in condizioni ordinarie.
L’esimente non trova applicazione se:
- lo Stato agente ha contribuito al verificarsi della situazione; ovvero
- se tale atto è in grado di determinare un pericolo eguale o più
grave.
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Lezione n. 41
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- nel risarcimento o
- nella soddisfazione.
Tali forme di riparazione possono essere adempiute alternativamente
o in concorrenza tra loro (art. 34).
La restituzione consiste nel ripristino della situazione sussistente
prima della commissione dell’illecito, purché ciò non sia materialmente
impossibile, o eccessivamente oneroso per il responsabile a parità di
vantaggio per il soggetto leso rispetto al risarcimento (art. 35).
Ciò significa che, se in determinate circostanze la restituzione non può
avvenire per impossibilità oggettiva (ad es. quando l’atto illecito ha
cagionato la perdita di vite umane), in altri lo Stato responsabile avrà
comunque la possibilità di scegliere tra restituzione e risarcimento
quando detta scelta è indifferente al soggetto leso. Il risarcimento sarà,
quindi, preferibile se risulti meno oneroso della restituzione.
143
Lezione n. 42
1. Si è detto già in apertura del corso che, con l’entrata in vigore della
Carta delle Nazioni Unite, la minaccia e l’uso della forza armata
vengono banditi dalle relazioni internazionali. Il ricorso ad essi, «contro
l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato [o] in
qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite» (art.
4, par. 2), diviene quindi illecito.
Come anticipato trattando delle cause di giustificazione dell’illecito
internazionale, la Carta delle Nazioni Unite fa salvo, però, «il diritto
naturale di autotutela indidviduale o collettiva, nel caso che abbia
luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite,
fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie
per mantenere la pace e la sicurezza internazionale» (art. 51).
La Carta riconosce, quindi, al contempo:
- il diritto degli Stati di agire in autotutela (legittima difesa), in caso di
attacco armato da parte di un altro Stato;
- il diritto di intervento del Consiglio di sicurezza, cui è attribuito «il
potere e il compito... di intraprendere in qualsiasi momento quella azione
che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionale» (art. 51).
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una delle situazioni descritte all’art. 39, il Consiglio di sicurezza può
intervenire con:
- misure provvisorie (art. 40);
- misure non implicanti l’uso della forza (art. 41);
- misure implicanti l’uso della forza (art. 42).
Dette misure hanno forza vincolante nei confronti degli Stati cui sono
destinate, mentre gli altri membri delle Nazioni Unite hanno comunque
l’obbligo di contribuire alla loro attuazione. Così, se il Consiglio di
sicurezza adotta una sanzione economica nei confronti di uno Stato (ad
es., un embargo commerciale) per censurarne la condotta illecita
nell’ambito delle relazioni internazionali, tutti gli Stati che
intrattengono rapporti commerciali con il destinatario della sanzione
sono obbligati a darvi esecuzione, pena l’applicazione di sanzioni
ulteriori nei loro confronti.
In forza dell’art. 103 della Carta, inoltre, il rispetto degli obblighi
derivanti dalla partecipazione alle Nazioni Unite – e, quindi, anche delle
decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza – prevale su tutti gli
obblighi incompatibili gravanti sugli Stati in forza del diritto
internazionale generale o di altri accordi, anche successivi, salvo il
rispetto delle norme imperative.
In definitiva, il sistema di sicurezza collettiva previsto dalle Nazioni
Unite, pur essendo stato istituito su base convenzionale, si sovrappone
alle regole consuetudinarie in materia di legittima difesa, al punto che
questa viene riconosciuta lecita dal Progetto di articoli sulla
responsabilità degli Stati del 2001 solo qualora sia conforme alla Carta
dell’ONU (art. 21).
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