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CORSO DI
RIFLESSIONI A MARGINE DI
“A PROPOSITO DI TUTTE QUESTE… SIGNORE” DI INGMAR BERGMAN
PREMESSA
Vi sono artisti che segnano la loro epoca non tanto per la capacità di inventare o re–
inventare un’arte ma per la loro straordinaria capacità di leggere i segni della
contemporaneità con intelligenza e accuratezza. Vengono definiti innovatori non solo perché
indicano ai contemporanei e ai posteri nuovi modi di raccontare se stessi e l’arte ma anche (e
soprattutto) perché disvelano con la loro arte aspetti del reale e della contemporaneità
insospettati o volutamente ignorati.
Ingmar Bergman è uno di questi. La sua cinematografia ha posto con urgenza e
autorevolezza questioni che la cultura del nostro tempo aveva già affrontato sul piano
filosofico e morale ma che non erano mai state trasferite sul piano della narrazione
cinematografica. Raccontare, per esempio, il significato del ‘silenzio di Dio’ significa
affermare con forza l’urgenza di una ridefinizione completa non solo del nostro pensiero ma
del significato ultimo anche della nostra esistenza quotidiana, sia pure per il tramite delle
esistenze verosimili (ma non vere) dei suoi personaggi. Bergman, cioè, suggerisce una nuova
visione della nostra esistenza mostrando attraverso la narrazione filmica uomini e donne
senza tempo che affrontano le proprie questioni esistenziali alla luce dei dubbi e delle
incertezze che il pensiero filosofico contemporaneo offre agli uomini e donne del nostro
tempo.
Lo scopo delle vicende a cui Bergman destina i propri personaggi è dunque la ricerca,
non sempre fruttuosa, di una risposta alla loro esistenza per giungere infine alla definizione
paradigmatica di uno scopo alle nostre stesse esistenze: il linguaggio della visionarietà
bergmaniana conferisce allora ai fatti narrati una dimensione assoluta proprio perché
sovrumana (o disumana, a seconda delle letture che si vogliono dare).
Stupisce e disorienta perciò la scelta (probabilmente polemica) del Nostro di usare in
questo film del 1964 il registro narrativo del grottesco: stupisce poiché in realtà si ride troppo
poco, né potrebbe essere diversamente; ma anche disorienta perché la lente deformante
attraverso cui il regista osserva le vite dei personaggi sposta inopinatamente l’attenzione del
pubblico non tanto su ‘cosa’ essi pensino quanto piuttosto su ‘come’ essi lo facciano.
In questo film Bergman ci mostra una umanità naufragata all’interno di vuoti
esistenzialismi, pensieri inadeguati, moralità degradate: nessuno dei protagonisti sembra
possedere in sé la capacità o la volontà di dare un senso diverso, più alto, alla propria
esistenza. Al contrario si affannano ossessivamente attorno alle proprie personali, misere
esistenze e incombenze, ignari delle vite e dei destini altrui, in una vicenda avvolta da
un’atmosfera di tragica stupidità, che solo a tratti sfocia nel ridicolo.
Ma questa, a mio parere, è solo una scelta narrativa, non di contenuto.
1 Cfr. JESSE KALIN, The Films of Ingmar Bergman, New York, Cambridge University Press, 2003, p. I:
«Bergman’s subject is not being as such but the moral world – ourselves as human beings in the twentieth
century: what is deepest and most true and essential about us, and what meaning we can find for our lives in
the face of this truth. His goal is an essential portrait, an image of human being with its heart exposed and
beating, a picture of what we each look like without our protective illusions, evasions, and lies.»
2 ENRICO FUBINI, L’estetica musicale dal settecento a oggi, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1976, p. 74:
«Le concezioni edonistiche della musica, proprie di una buona parte del pensiero illuministico, trovavano
una giustificazione nella funzione stessa esercitata dalla musica nella società del tempo. […] Si può quindi
comprendere perchè i filosofi non tennero in gran conto la musica. La musica strumentale non dice nulla alla
nostra ragione, non ha contenuto morale, intellettuale, educativo, non ha potere altro che sui nostri sensi;
diremmo noi oggi che è un'arte asemantica.»
3 EMANUELE SEVERINO, conversazione, http://universofilosofia.forumfree.it/?t=46669166: «Ne ‘Il settimo
sigillo’ si tocca con mano il fallimento (della tradizione occidentale) di una conoscenza incontrovertibile di
Dio, e il bisogno (la nostalgia) da parte di Bergman di quel Dio che si è allontanato e che non può più
ritornare.»
un livello decisamente inferiore.4
La corruzione della purezza artistica dunque è una delle questioni rappresentate
brutalmente in questa opera bergmaniana e questo può probabilmente spiegare la radicale
scelta di registro espressivo con il quale il regista ne affronta la narrazione: l’insensatezza con
cui i personaggi di questa surreale vicenda dibattono la proprie vite è riflesso deformato della
medesima incapacità con la quale i protagonisti del ‘silenzio’ bergmaniano cercano, non
riuscendoci, la verità.
Per tutti la medesima risposta alle proprie domande è dunque il ‘silenzio di Dio’ oppure
‘l’insensato musicale’.
6 Dal film (7’ 14”): «A proposito, coma sta Stravinsky?» «Veramente non so, ma è stato mio indiscusso
sancito dalla sua ambizione di diventare egli stesso l’oggetto dei propri sprezzanti giudizi, lo
condanna a una esistenza di finzione, magistralmente rappresentata dagli inutili quanto
ridicoli tentativi di surclassare Felix sul piano amatorio e di emularlo su quello musicale.
Lo stesso si può dire degli altri comprimari femminili che ruotano intorno alle surreali
acrobazie amatorie o pseudo tali dei due protagonisti: la disincantata vedova Tussaud, la
inconsolabile vedova Beatrice, la rancorosa vedova Traviata, la austera vedova Cecilia, la
leziosa vedova Isolde, la vacua vedova Chimera, la altera Adelaide. Tutte rinunciano alla
propria esistenza individuale, persino alla propria identità femminile e al proprio nome,
dedicandola invece alla venerazione di un idolo che ai loro occhi rappresenta una perfezione
irragiungibile nella quotidianità della vita. Esse tuttavia, va ribadito, non amano propriamente
Felix ma piuttosto ciò che esso rappresenta ai loro occhi: un ideale (meglio, un sogno) di
perfezione che rischiari la loro misera esistenza.
Anche Tristano rinuncia alla propria vita, al proprio nome, alla propria carriera e
persino alla propria donna immolandosi sconfitto al servizio dell’uomo che rappresenta,
anche fisicamente, il proprio alter ego: offre al suo persecutore le proprie ambizioni sconfitte,
annichilendosi in lui ma nello stesso tempo sperando, inconfessabilmente, di riuscire un
giorno a essere degno di prenderne l’ambito posto.7
L’agente di Felix, il cinico e pragmatico Jilker, infine decreta il proprio fallimento
esistenziale decretando simmetricamente il fallimento economico della sua vita: egli, che vive
per i soldi, l’unico bilancio che riesce a fare è quello con il quale prende atto di essere rimasto
senza un soldo.8
dovere come critico musicale di esporlo al ludibrio delle genti.» «Ha smesso di comporre, allora, o persiste
nella sua ignominia?»
7 È egli infatti che porge il braccio alla ‘vedova’ nel commiato finale davanti alla bara (5’ 00”) e per lei ruba
lo scandaloso ultimo capitolo della biografia di Cornelius offrendoglielo in dono (1h 13’ 50”); è anche colui
che scambia le reciproche amare confidenze con la disincantata vedova Tussaud. Sarà infine proprio con la
morte di Felix che troverà la dignità per riprendere a suonare davanti alla bara che si richiude sul cadavere
del suo persecutore (36’ 37”).
8 Dal film (37’ 56”): «Beh! Tirate le somme, resta precisamente una cifra totale di… 97 centesimi!»
9 Dal film (1h 00’ 54”): «Maestro, io ho dovuto subire diverse umiliazioni in questa casa dove Madame
Tussaud la ospita. Il suo rispetto mostratomi quale critico, compositore e biografo è penoso. L’interesse
mostrato per la sua biografia è assolutamente nullo. Mi chiedo se ha mai pensato con quanta rapidità gli
esecutori gli esecutori cadono nell’oblio: muoiono, il gusto si affina, sorgono nuovi e più valenti virtuosi, gli
ideali mutano, lei non esiste più. Chi addita agli altri ciò che è più importante, chi, se è lecito?! Chi, le ho
chiesto?! Il biografo. Il musicista senza biografia si estingue per sempre.»
10 Su questo tema, cfr. anche INGMAR BERGMAN, cit. in (a cura di) ROGER W. OLIVER, Ingmar Bergman. Il
cinema, il teatro i libri, Roma, Gremese, 1999, p. 21: «La letteratura, la pittura, la musica, il cinema e il
teatro crescono e vanno avanti per se stessi. Si verificano mutamenti, nascono nuove combinazioni, che
vengono subito cancellate e superate; e tale movimento non può non apparire in certo modo – se visto
dall'esterno – nervosamente vitale. Con magnifico ardore gli artisti proiettano a se stessi e ad un pubblico
Dal canto suo Cornelius aspira al ruolo sociale ricoperto da Felix, lo invidia, lo insegue
cercando di carpirgli parte della sua vita e delle sue donne, ma soprattutto della sua arte,
volgarmente riconducendolo a sé e alle sue meschinità con l’infantile ricatto di una biografia
che il mondo ha «il diritto di conoscere» barattandola con l’esecuzione della sua improbabile
composizione. In questo baratto il critico e il musicista risultano anch’essi completamente
invertiti nei ruoli che fino ad allora li avevano visti vittima il primo e carnefice il secondo.
Il registro narrativo del grottesco in questo caso definisce con magistrale sapienza i due
aspetti complementari, eppure facilmente condivisibili, del protagonista Cornelius e del suo
antagonista Felix: vanaglorioso, moralmente inconsistente, infantilmente innamorato di sé il
primo; disperatamente insicuro di sé e del suo ruolo, socialmente afasico, affettivamente
incapace il secondo. I due non si assomigliano ma vivono le proprie esistenze divise dall’altro
come una sorta di condanna a ripetere i propri atti e le proprie inutilità senza la possibilità di
trovare alcuna via di fuga. Il film in effetti è punteggiato da una serie impressionante di
eventi ripetuti ossessivamente da entrambi: la musica di Felix e i tentativi di Cornelius di
avvicinarlo, diventano così atti insensati, grotteschi, inutili agli scopi che i due si prefiggono
(l’immortalità per il musicista, l’emancipazione da sé per l’altro).
La morte fisica salva Felix dalla morte morale a cui si vota in cambio di una effimera
immortalità: rinunciando alla pessima musica di Cornelius, egli rinuncia infine anche alla
vita, salvando se stesso come musicista ma condannandosi, come tutti gli uomini, alla
mortalità.
sempre più distratto immagini di un mondo al quale non interessa più ciò che loro desiderano o pensano.»
Questo evento, così comune nella filmografia bergmaniana, assume qui i contorni stralunati,
quasi stranianti, di una narrazione tragica che viene esorcizzata dal registro grottesco che
inopinatamente propone il regista.
Tutti i personaggi di questa commedia sono consapevolmente giudici e
inconsapevolmente giudicati: nessuno di essi si sottrae al peccato di ergersi alla statura
morale di giudice pur mancando di qualsiasi morale; essi d’altra parte vengono giudicati dagli
altri non riconoscendo però ad essi (giustamente!) il requisito morale per poter operare tale
giudizio. Essi dunque falliscono nel tentativo salvifico, escatologico quasi, di dare un senso
alla propria vita nella dimensione del giudizio morale della propria condotta.11 Tutti i
protagonisti di questo stralunato microuniverso vivono infatti la propria esistenza in
feticistica dipendenza dalla figura del musicista: la sua morte, che dovrebbe ‘squarciare il
velo del Tempio’ e consentire loro di comprendere la verità, mostra viceversa la loro assoluta
incapacità di costruire da essa un nuovo senso della propria vita (che infatti proseguirà
passivamente nella adorazione di un nuovo artista) e ai propri pensieri (che rifluiranno
ossessivamente nel mantra insensato con il quale piangeranno il corpo del loro idolo «così
gelido eppure così vivo!» non volendone riconoscere la morte liberatoria).12
Si deve peraltro ricordare che l’unico che intuisce il senso inutile della propria vita sarà
proprio Felix, il musicista: quando realizza la assoluta inconsistenza della propria esistenza
inutilmente dedicata all’eternazione di sé, la verità crudelmente rivelatagli dall’indegno
critico, egli si offre alla morte rinunciando alla vita. Gli eterni secondi che precedono la
scoperta del suo trapasso, il silenzio che invade lo spazio dedicato (ormai inutilmente) al
suono decretano la sua salvezza e la sua condanna: egli infatti, come predetto, verrà subito
dimenticato ma il senso della sua vita, la musica, rimarrà intoccato dalle mani blasfeme del
critico musicale.
Posto di fronte alla morte Felix non riuscirà nell’ambizioso tentativo di vedere
finalmente nella luce ‘chiara e impietosa’ il senso della propria vita, ma quantomeno riuscirà
a sottrarsi alla vita stessa che lo ha condannato, per sua colpa, all’inutilità.
11 Cfr. JESSE KALIN, Op. cit., p. 3: «Thus, in Bergman, this crisis is most typically precipitated by an encounter
with our own mortality (…). (…) In facing our death, we are given the opportunity to look honestly at
ourselves, in a clear and unforgiving light, and see who we really are.»
12
Dal film (3’ 01” e segg.).
13
Il cui titolo, lo ricordiamo, allude alla locuzione latina Dramatis persona, il termine con il quale si indicava la
maschera, spesso con fattezze grottesche, che gli attori del teatro latino utilizzavano durante le rappresentazioni.
Vi sono però anche alcune assonanze etimologiche con il termine latino per–sona (per: eccesso; sona: da
sonare, suonare) con il quale si allude alla funzione principale di tali maschere che servivano appunto per
amplificare il suono della voce degli attori (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Persona_%28film%29#Titolo). In
questa locuzione compaiono entrambi i termini entro cui abbiamo inscritto il contenuto espressivo del presente
film.
inconfessabile passato, vittima della propria inettitudine di fronte alla prepotenza umana e
musicale di Felix. Entrambi però assonnati, si dimostrano incapaci di capire davvero l’anima
dell’altro. Sbadigliano, si distraggono, perdono il filo del discorso e alla fine si addormentano
senza dolore e senza consapevolezza alcuna di sé e dell’altro. Ciascuno di essi assume
alternativamente, ma con imbarazzante inettitudine, i ruoli che saranno di Elisabeth Vogler e
Alma, senza però giungere a definire la propria soglia del dolore, l’unica via di accesso che
consente agli uomini di trovare la propria risposta.
Non vi riuscirà Cornelius: umiliato come critico e come uomo, pur posto di fronte alla
morte dell’unico musicista che sia riuscito a scalfire la sua stupida sicurezza, egli si
rammarica solamente che gli sia stato pietosamente sottratto l’ultimo capitolo della
biografia,quella che narrava le vicende intime di Felix.
Non vi riusciranno le ‘vedove’, pronte a dimenticare il proprio dolore per offrire
nuovamente se stesse e la propria vita a un nuovo, obbediente violoncellista che consentirà
loro di continuare a credere alla loro stordita illusione di amare e essere amate.
Tutti i personaggi di questa indecorosa vicenda vivono paradossalmente la loro
esistenza menomata con straordinaria coerenza. Essi infatti agiscono e ragionano come
isteriche marionette, ridicolmente attaccate a fili invisibili che li legano a Felix.
A differenza dei molti personaggi bergmaniani che affrontano il problema del ‘silenzio
di Dio’ ponendosi nonostante tutto alla sua ricerca (magari infruttuosa), essi si dimostrano
invece completamente incapaci di approdare ad una soluzione esistenziale. Continuano perciò
a dibattersi attorno alla loro pochezza con il medesimo ardore e determinazione con la quale i
grandi (anti)eroi dello schermo bergmaniano si affannano a penetrare il segreto della propria
esistenza, giungendo così alle soluzioni ridicole che tanto hanno spiazzato gli estimatori di
Ingmar Bergman.
I protagonisti di questo film non trovano soluzione a se stessi perché in realtà non
riescono a porsi alcun tipo di domanda: la pochezza delle loro aspirazioni li salva dal
tormento e dal dubbio bergmaniano sottraendoli però, nel contempo, anche a qualsiasi
speranza o illusione di redenzione. Essi non portano la colpa della propria esistenza (metafora
del ‘peccato originale’) ma piuttosto la colpa di aver negato per sé il diritto ad avere una
propria esistenza: il diritto cioè di vivere il tormento del dubbio e il silenzio come parte
indissolubile di una vita pienamente vissuta all'interno della cornice esistenziale stabilita dalla
vita e dalla morte. Negano consapevolmente la propria umanità, accontentandosi di vivere
una propria imperfetta esistenza.
Questi simulacri di persone sono, alla fin fine, l’unico tratto grottesco di questo
meccanismo narrativo.