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Non fate i bravi

Educare e normalizzare in Italia oggi

A cura di Claudia Boscolo


Prefazione di Maria Maddalena Mapelli
Colophon

Edizione: luglio 2014.


Epub realizzato con software libero: LibreOffice, Writer2Epub, Sigil.
Testo rilasciato con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo
stesso modo 3.0 (CC BY-NC-SA 3.0).
In copertina: Sabrina Manfredi, Uncanny, 1993. Elaborazione grafica di Massimo Giacci.
Sommario

Maria Maddalena Mapelli, Prefazione


Nadine Tabacchi, Iperrealtà. Il corpo a corpo del desiderio con l’high definition del Medesimo
Tommaso Ariemma, Il complesso dell’Idra. Elogio della ghigliottina e politiche del vuoto
Marco Pacioni, Neuroscienze e governance
Enrico Valtellina, Le bravate della Black Pedagogy
Paolo Mottana, Il conflitto dell’immaginario nel tempo della Tata fallica
Alessandro Siciliano, BLOB. L’emorragia dell’immaginario
Luca Casadio, TV e nuovi media all’epoca di Internet e della New Age: la cura
Fabio Milazzo, Bisogna difendere la scuola! Biopolitica e istruzione in Italia
Riccardo Capecchi, La mente vuota dell’Imperatore
Claudia Boscolo, Conclusioni
Ringraziamenti
Prefazione
di Maria Maddalena Mapelli

Tutto nasce dal faccione sorridente di tata Lucia. I segreti delle famiglie felici. Il grande libro del
prodigioso metodo “fate i bravi!”. Il faccione sorridente di tata Lucia aveva il posto d'onore, in
una nota libreria di Padova, appena entrati, sulla destra, a fianco di altri titoli in vendita per i
regali di Natale da mettere sotto l’albero.
L' e-book nasce dall'idea di soffermarsi su questa “invenzione scenica”, il mettere in primo piano
il libro migliore, che è la merce che si presume possa vendere di più: sarebbe stato più semplice
andare oltre, e affrettarsi alla cassa, continuare a farsi travolgere dalla banalità in cui siamo
quotidianamente immersi in un fluire continuo di immagini semplificate e costruite per veicolare
opinioni e plasmare la nostra immagine del mondo.
Ma in quel momento, il faccione di tata Lucia, con quel suo sorriso carico di promesse e quel
“fate i bravi!” e quella pretesa di svelare il segreto per essere famiglie felici si è trasformato
nell'immagine emblema, nell'esemplificazione perfetta della miriade di continue ingiunzioni ad
essere “normali”, omologati, disciplinati e standardizzati.
In un solo volto, si è dischiusa ogni cosa.
E invece di correre fuori e pensare ad altro, ho cominciato a chiedermi se davvero esistessero
persone che hanno poi comprato quel libro e lo hanno messo sotto l'albero e lo hanno regalato a
Natale: ad altre persone?
Il faccione sorridente di tata Lucia, ci proponeva di acquistare in versione libro un format
televisivo che mette in scena famiglie disastrate che magicamente diventano, nell'arco di una
puntata, famiglie felici.
Tra me e me ripetevo il mantra che ben conosciamo, che il libro è merce, che tra libreria e
autogrill non c'è molta differenza, che la cultura è supermercato, che gli autori devono vendersi e
vendere per esistere.
Ma tata Lucia non prometteva la cucina perfetta che fa anche dimagrire, o la cucina che va di
moda, o tutti i come e i perché della cucina vegana, qui si vendeva un segreto per rendere le
famiglie felici e un metodo per insegnare ai bambini a fare i bravi!
Fermiamoci, allora, e cerchiamo di costruire uno spazio, per quanto ne siamo ancora capaci, in cui
immaginare fuoriuscite da questi modelli.

Questo e-book è nato dall'idea di svelare la vacuità, l'inconsistenza e le insidie sottese alla
promessa di un metodo che trasforma le famiglie da infelici a felici, ma soprattutto le riflessioni
qui raccolte vogliono restituire senso al non detto.
Il format di Tata Lucia è uno dei tanti esempi con cui una pedagogia-propaganda plasma e
normalizza le persone togliendo ogni spazio alla diversità, alla fragilità, ai vissuti di ciascuno, al
mondo interiore, alle emozioni, alle relazioni.
Gli autori che hanno partecipato all'e-book hanno, in primo luogo, analizzato gli aspetti sottesi al
diktat di tata Lucia, a un paradigma pedagogico autoritario e irrispettoso della singolarità, del
considerare ogni bambino o adolescente una persona irriducibile a ogni schematismo.
Al tempo stesso però gli autori degli interventi ospitati in questo e-book intendono proporre vie
d'uscita tanto più urgenti quanto più sta sotto gli occhi di tutti il vuoto che ci circonda.
Così Paolo Mottana:
«Occorre dunque una battaglia senza quartiere per immaginare e proporre un’altra educazione, in
cui la libertà, l’autodeterminazione, il libero accesso alle informazioni, il corpo, il desiderio, la
creatività accuratamente devoluta al possibile e non al programmato siano gli unici autentici
motori di ogni divenire».
Il modello del format televisivo in cui vincono i più bravi e alla fine sono tutti felici sottende i
paradigmi fondanti di ogni pedagogia autoritaria basata sul primato delle regole, sul loro rispetto
e sulla loro efficacia normalizzatrice.
Ma perché allora, dopo aver decostruito, un po' per divertimento, un po' perché è facile, il format
di tata Lucia, non iniziamo anche a intercettare ciò che non va nei processi di valutazione?
Nella scuola italiana, nell'ultimo decennio è stata imposta, tramite la somministrazione delle
prove Invalsi, la misurazione quantitativa e oggettiva degli apprendimenti in italiano e in
matematica quale unico parametro di riferimento a livello nazionale.
Perché dare il primato alla misurazione quantitativa e oggettiva degli apprendimenti?
Perché i bambini e gli adolescenti devono essere misurati in italiano e matematica e non invece,
ad esempio, in informatica e musica?
Perché sottrarre in modo così evidente il primato alla valutazione qualitativa, al processo
formativo centrato sulla persona, intesa come singolarità irriducibile?
Come il libro di tata Lucia esemplifica in una sola immagine la vacuità e la pericolosità della
pedagogia autoritaria, così una foto della protesta degli studenti contro le prove di valutazione
Invalsi testimonia la nostra incapacità di metterci in ascolto, di immaginare la molteplicità degli
aspetti che costituiscono l'identità degli allievi, di costruire la valutazione partendo dalla qualità
della relazione e dalla valorizzazione dei talenti individuali.
In alcune scuole superiori le prove Invalsi sono state boicottate e i ragazzi si sono certamente
divertiti a “dialogare” con l'autorità da loro non legittimata a valutarli attraverso i test Invalsi.
Nelle prove si leggono ingiunzioni scopertamente normative - scritte, tra l'altro, in stampatello
maiuscolo che in Internet significa “urlato” - con tanto di punto esclamativo finale: «NON
GIRARE LA PAGINA FINCHÉ NON TI SARÁ DETTO DI FARLO!». I ragazzi hanno risposto
simulando un dialogo con l'autorità, la cui maldestra perentorità è stata smorzata, anche
ironicamente, da un laconico e contenitivo “PERO' STAI CALMO”.
Riaprire il dialogo significa valutare a partire dalla relazione, che è sempre incontro difficile,
sfida problematica, processo mai definito, trama intersoggettiva da costruire ogni giorno. E non ci
sono manuali o regolette che possano garantirne un esito felice. Con buona pace di tata Lucia.
Iperrealtà. Il corpo a corpo del desiderio con l’high definition del Medesimo
di Nadine Tabacchi

"In questo progresso scorsoio


non so se vengo ingoiato o se ingoio"
Andrea Zanzotto

«La realtà, quindi, esiste solo in un certo spazio di tempo e di accelerazione, in una certa finestra
(...) in fase di “liberazione” come lo erano finora le nostre società moderne, le quali però sono in
procinto di non esserlo più - la realtà, infatti, si perde di nuovo, secondo l'anamorfosi degli stessi
sistemi in espansione, nell’illusione, ma questa volta nell’illusione virtuale» (Baudrillard, 2010, p.
51).
Quando parliamo di “vuoto che ci circonda” in quali termini ne parliamo? A cosa ci stiamo
riferendo? Cos’è vuoto? O cosa crediamo si sia svuotato? Sullo sfondo tace un concetto, il
concetto di “realtà”. Per parlare di vuoti o presunti tali dovremmo prima comprendere quale è il
contenitore che è stato depauperato, sempre che sia così. La realtà è stata derealizzata? È mai
esistita? Oppure è iperrealizzata?
«Non si tratta dunque di affermare che il reale esiste o non esiste - affermazione grottesca che
traduce bene ciò che è per noi questa realtà: un’allucinazione tautologica (“il reale esiste, io l’ho
incontrato”). C’è solamente un movimento di esacerbazione della realtà verso il parossismo, in
cui essa involve da se stessa e implode senza lasciare tracce, neppure il segno della sua fine. Il
corpo del reale, infatti, non è mai stato ritrovato. Nel lenzuolo funebre del virtuale il cadavere del
reale è definitivamente introvabile» (Baudrillard, 2010, p. 52). È forse ormai improprio dopo
queste parole di Baudrillard tentare di parlare di “reale” e, in egual modo, diviene poco pertinente
parlare di vuoti in senso stretto. Quindi cosa sta accadendo? Perché scrivere e su cosa concentrare
questo pensiero? La realtà è stata nel corso del tempo svuotata o oscenamente riempita? Stando al
movimento del medium, parrebbe che essa sia stata colmata in ogni suo anfratto. Purificata dagli
interstizi, i territori plurali sembrano non avere più senso. Lo spazio è uno, perciò totale. In questa
totalità, sparisce oscenamente l’Alterità. Baudrillard narra “il delitto perfetto”, il quale
consisterebbe nella distruzione dell'illusione radicale del mondo. Illusione primordiale, spazzata
via da un irrefrenabile bisogno di realizzare il mondo, togliendogli ogni segreto, enigma o
mistero.
«La simulazione è precisamente questa gigantesca impresa di disillusione –letteralmente: di
messa a morte dell'illusione del mondo a beneficio di un mondo assolutamente reale [...] E non c'è
crisi della realtà, proprio al contrario: ci sarà sempre più realtà, poiché è prodotta e riprodotta
mediante la simulazione, e non è essa stessa che un modello di simulazione. La proliferazione
della realtà [...] costituisce la nostra vera catastrofe» (Baudrillard, 2010, p. 21).
Quando intendiamo parlare del vuoto che ci circonda, ci stiamo riferendo a delle situazioni in atto
nella nostra quotidianità che riteniamo la annichiliscano. In un certo senso è così, ma il mezzo
attraverso cui giungono a questo esito pare sempre meno un togliere, semmai un aggiungere.
Questa realtà, volente o nolente mediatica e virtuale, è esacerbatamente abbondante. Questo
surplus è visione pornografica, eccessiva. Mostra tutto, non lascia nulla all’illusione. Non a caso
l’ultimo decennio del medium televisivo è stato all’insegna dei reality, ma non solo. Ormai tutte
le emittenti promuovono canali ove le notizie sono in real time e i telegiornali si ripetono
ventiquattr’ore su ventiquattro. La speranza è la caduca credenza di poter avere una vasta gamma
di informazioni sempre aggiornate, di poter sapere ovunque di chiunque e su qualsiasi cosa accada
nel mondo. Di poter abbracciare la totalità della cronaca. Invece un telegiornale che dura
ventiquattro ore è quasi sempre anacronistico, è già vecchio e mai nuovo. Sempre ripetitivo.
L’idea ingenua di possedere il mondo attraverso esso, svanisce in una ripetizione continua, che
simula e basta, ora dopo ora, lo stesso siparietto informativo. Ma il fatto che sia lì e che a
qualsiasi ora si accenda la TV la notizia sia pronta all’uso e alla fruizione, rincuora. È una finestra
sulla realtà, subito pronta, disponibile a essere consumata.
La pornografia è ovunque. Le serie televisive sono sempre più accurate nei dettagli, sempre più
addentrate nelle realtà specifiche. E così i polizieschi sono ormai diventati corsi di anatomia
patologica e di medicina legale. Le autopsie dettagliate e in diretta, seppur fasulle, mostrano
eccessivamente le membra ed esaltano i corpi morti. Creano un contatto così ravvicinato con la
morte violenta da far perdere il senso della sua gravità. Ci rendono immuni ma paradossalmente
fragili. Abusanti di antibiotici, all’inizio coperti da ogni batterio ma col trascorrere
dell’assuefazione, esposti al rischio di contrarre epidemie sempre più banali ma feroci. Divenuti
tolleranti a queste visioni non ne percepiamo più l’Alterità. L’atroce Alterità ci sfugge in un
ammasso di informazioni che ci avvicinano all’iperrealtà, così da renderci in ultima istanza, labili
a tutto.
La morte è così chiara che non ci incute più nessun timore dallo schermo. Scene del crimine ci
paiono visioni banali, forse persino esilaranti, tanto sono esagerate e forzate. Talmente iperreali
da farci perdere l'enigma di questi tragici eventi che costellano le nostre esistenze. Da farci
perdere il senso del limite. Uomini senza morte, sono uomini senza vita. Poiché il tempo eterno
non è più tempo. Il tempo è qualcosa che passa e finisce. Il tempo è vita. La simulazione invece ci
fa credere che tutto si perpetuerà. E così accade anche per la donna, che non è più solo spogliata di
ogni femminilità, non è più solo messa a nudo, non è più solo privata di erotismo ma è anche
eternizzata. Interventi chirurgici ingannano il palcoscenico e gli spettatori: il tempo non passerà,
certo non di qui. Anche l’alterità della vecchiaia è stata neutralizzata con mezzi chirurgici
sofisticati. Si rimane comunque biologicamente vecchi, ma quel che conta è simulare la
giovinezza. E non mi stupirò se in futuro anche le “categorie” che ancora resistono
all'inghiottitoio finiranno in qualche serie TV. Non mi stupirò se anche le disabilità più ostiche
diverranno paladine di qualche fiction. E non sarà certo per tolleranza, ma per inglobamento. Sarà
l’aberrante realizzazione del mondo attraverso il medium. Ogni alterità verrà ricondotta in un
posto a lei prefissato, diverrà pura positività.

«Col Virtuale entriamo non solo nell'era della liquidazione del Reale e del Referenziale, ma in
quella dello sterminio dell’Altro. È l’equivalente di una pulizia etnica che non riguarderebbe solo
singole popolazioni, ma si accanirebbe contro tutte le forme di alterità» (Baudrillard, 2010, p.
113).
Baudrillard ritiene che questa uccisione venga operata contro la morte, il volto, il corpo, il mondo,
l'individuo, gli altri, i nemici, i predatori, la negatività, la seduzione, l’illusione e il segreto.
Consiste proprio in questo il delitto perfetto, nel creare pure positività. Perché dovremmo
ostinatamente preoccuparci di un mondo senza Alterità? Non dovrebbe essere migliore un mondo
che non ha differenze, che non ha figure contrapposte, che vede tutto ricondotto allo stesso
orizzonte di uguaglianza? In un certo senso potrebbe risponderci anche Canguilhem: se lo stato
patologico si determina come variazione quantitativa da quello fisiologico, si perdono il senso
profondo di cosa è la malattia per l'uomo. Se la malattia è vista come mera quantità, allora risulta
essere «qualità negata» (Canguilhem, 1998, p. 81). Questo ci sia sufficiente a poter trasporre
questa significativa spiegazione a tutti gli altri concetti. Il mondo del delitto perfetto è ormai un
mondo quantitativo, non più qualitativo, ove si perde il senso profondo non solo dell’alterità bensì
anche di se stessi:
«Non vi è più nessuno di fronte [...] Oggi ci si rende conto che l’alienazione ci proteggeva da
qualcosa di peggio, dalla perdita definitiva dell’altro, dall’espropriazione dell’altro da parte del
medesimo. [...] La privazione dell’altro è peggio dell’alienazione: un’alterazione mortale, per
liquidazione dell’opposizione dialettica stessa. Destabilizzazione irrimediabile, quella del
soggetto senza oggetto, del medesimo senza l’altro – stasi definitiva e metastasi del Medesimo»
(Baudrillard, 2010, p. 116).
Molti altri filosofi hanno contribuito a evidenziare questa tragica fatalità postmoderna.
Obbligatoriamente da annoverare fra questi è Emmanuel Lévinas la cui opera maggiore, già dal
titolo, tende a mettere in risalto questo punto. Il suo saggio Totalité et inifini vuole rendere a tutti
i costi giustizia all’alterità e lo fa attraverso la narrazione dell’incontro col volto dell’altro, il
quale dalla sua estrema altezza già da sempre mi interpella. E io come individuo, posto nella
posizione d’interrogato sto già al di sotto, già su un altro piano, rispetto all’alterità. Per Lévinas i
nostri sistemi filosofici “occidentali” hanno costruito impalcature totalizzanti, quello che Lévinas
vuole fare è riaprire l’infinito.
Nonostante l’azzardo di accostare tre autori di questo genere, ricordando le loro vaste differenze e
peculiarità, mi pare interessante porli sotto lo stesso lume. Tutti e tre, sebbene in modi
diversissimi e con mezzi e fini distanti fra loro, tendono a evidenziare come l’alterità, in questa
epoca postmoderna, sia stata in qualche modo inghiottita dal medesimo.
Non solo nel virtuale, non solo attraverso il medium si possono notare questi accadimenti.
Prendiamo ad esempio alcuni termini i quali vengono costantemente prodotti dalla nostra società
e adoperati nel parlare quotidiano. Vengono in mente i seguenti: “operatore ecologico”, “disabile
mentale/psichico/fisico”, “diversamente abile”, “socialmente utile”. Paiono essere tutte
definizioni nobilissime, nate con lo scopo di attutire le differenze di genere, fra uomini e uomini.
In un certo senso è così e ripristinare termini troppo diretti e offensivi non è certo ciò che ci si
propone di fare in questo saggio. Ma l’interesse di porli per un attimo su un piedistallo e
osservarli più da vicino, al di là delle buone intenzioni da cui sono scaturiti, è mosso
dall’innocente ma implicita rimozione dell’alterità che questi termini celano. Celano la malattia,
sia essa fisica, mentale o psichica. Nascondono l’invalidità e la disoccupazione. Mascherano un
mestiere come quello di netturbino, come se chiamare questo lavoro col suo nome fosse
disonorevole. Le difficoltà, i drammi, le vere o presunte negatività vengono tradotte con termini
che le fanno percepire meno gravi, meno problematiche. In fin dei conti quello che ha perso il
lavoro deve sentirsi sereno, è stato ricondotto nel sistema della pura positività: è utile alla società.
E così i malati non sono più malati, non ci si focalizza sulle battaglie contro la loro patologia, che
si combattono su più piani, ma sulla loro diversa abilità. Forse sulla possibilità di essere accettati
perché in qualche modo ancora produttivi.
Il vuoto è pieno, neutralizzato. L’alterità è stata ridotta a pura positività. La presenza dei medium
è ormai oscena. Dispensano perfino insegnamenti e raccomandazioni che risultano essere
pornograficamente eccessivi. Il medium è onnipresente, è onnipervasivo.
In TV i reality ormai cominciano a essere assenti: la vita dell’altro a casa nostra, osservata in ogni
suo anfratto, inizia a non bastare più al processo. Ora ci troviamo nell’iperrealtà: è il medium che
entra nelle nostre case per insegnarci a vivere. Situazione inversa e fatale. Ci educa, ci impartisce
disciplina. In ogni canale vi sono programmi che ci insegnano a vestirci, ci dicono come e cosa
dobbiamo cucinare, quale casa comprare e anche come crescere buoni figli. Insomma, la tragedia
è che il medium è ormai formante. Contribuisce alla nostra formazione e alla formazione dei
nostri cari, ci indirizza negli acquisti al supermercato, perché con quelli produrremo le torte o i
manicaretti di questo o quel programma televisivo. Ci fa comprare soprattutto libri: i libri
pubblicizzati dal programma che più ci piace fra quelli trasmessi. Vedere il canale, seguire i
consigli e comprare il libro che ci riaggancia all’inizio dello stesso iter. Lo ripetiamo, lo ri-
simuliamo continuamente.
Attraverso il medium avviene anche il consumo del reale stesso. Il gioco d'azzardo online, di cui
troppo sovente si vedono le pubblicità in Tv, differisce sottilmente dal gioco in casinò. Nel primo
i soldi guadagnati, vengono spesi attraverso un sito web ove il contatto, anche solo fisico col
denaro, si perde. Perfino il denaro si derealizza in operazioni con la carta di credito. E non c’è
restituzione reale, non è un comodo e banale acquisto online, da cui ottengo un oggetto. Il medium
in taluni casi, pare sempre più il porto finale di certi nostri atti e sforzi. È divoratore derealizzante
della paga ottenuta col lavoro. Ma questo è solo uno dei tanti esempi e viene qui trattato con
estrema brevità, senza calcolare, ad esempio, il problema della dipendenza dal gioco. Quel che si
vuole far notare è una delle tante tipologie di interazione fra gli individui ed il medium.
Baudrillard osa oltre nella descrizione delle cose e, osservando le circostanze, potremmo dire che
non si sbagliava:
«Questo paradigma del soggetto senza oggetto, del soggetto senza altro, è reperibile in tutto ciò
che ha perso la sua ombra ed è diventato trasparente a sé stesso, persino nelle sostanze
devitalizzate: nello zucchero senza calorie, nel sale senza sodio, nella vita senza sale, nell’effetto
senza causa, nella guerra senza nemici, nelle passioni senza oggetto, nel tempo senza memoria,
nel signore senza servo, nel servo senza signore che siamo diventati» (Baudrillard, 2010, p. 117).

E continuando potremmo aggiungere: nel cibo ipocalorico, nelle bevande diet, nelle sigarette
light, nel fumo senza sigarette ovvero quello elettronico, nella slot machine virtuale e nel caffè
decaffeinato. Ciò verso cui si tende è la conciliazione totale o semplicemente, per citare Lévinas,
è la totalità. Totalità che ingloba le differenze rendendole l’una complementare all’altra, contigue.
Ciò che si deve fare se si vuole rendere giustizia all’alterità è rinunciare a questa deleteria
pacificazione. Invece i fatti paiono volgere al peggio, si vuole godere di tutto, non privarsi di
nulla, ma il godimento pieno è sempre surrogato. Come le bevande light. Non si vuole rinunciare a
cibarsene, neanche se necessario, quindi si accetta di assumere aspartame o i suoi derivati. Lo
stesso vale per tutto ciò verso cui bisognerebbe prendere una decisione: farne uso o meno. La
nostra responsabilità è più comodamente declinata a una irrevocabile nolontà di toglierci qualcosa
attraverso l’uso di cibi indulgentemente contraffatti. Persino l’alterità dello zucchero rischia la
vita. E così vale anche per la sigaretta elettronica, con cui si raggiunge la perversione totale. Una
sigaretta senza fine. Una sigaretta che non finisce mai. Alla fine quante sigarette si sono fumate?
Quanti milligrammi di nicotina? Impossibile quantificare un continuum.
«Ciò che pretende di essere singolare, incomparabile e che non rientra nel gioco della differenza,
deve essere sterminato. O fisicamente o per integrazione nel gioco [...] Il peggio è in questa
riconciliazione di tutte le forme antagonistiche all’insegna del consenso e della convivialità. Non
si deve riconciliare nulla. Occorre tenere aperta l’alterità delle forme e la disparità dei termini,
occorre tenere vive le forme dell'irriducibile» (Baudrillard, 2010, p. 127).
In questa situazione, in cui il mondo precipita stremato nell’indifferenza assoluta, le diverse
tecniche promuovono nuovi orizzonti. Come ci ricorda Baudrillard, l’accanimento terapeutico non
lotta per la vita ma contro la morte, la chirurgia estetica si accanisce contro il volto e il corpo, la
Realtà Virtuale vuole soppiantare il mondo, la clonazione sostituisce l’individuo. E così la
comunicazione, la negoziazione, la convivialità, la positività assoluta, l’immortalità, l’identità e
la differenza, l’indifferenza sessuale, l’iperrealtà e la trasparenza distruggono l’Alterità.
Il punto vincolante è questo e la domanda è precipua:
«C’è una soluzione? Non ce n’è nessuna per la sindrome collettiva di tutta una cultura, per questa
fascinazione, per questa vertigine di denegazione dell’alterità, di ogni stranezza, di ogni
negatività, per questa esclusione del male e per questa riconciliazione attorno al medesimo e alle
sue figure demoltiplicate [...] Possiamo soltanto ricordarci che la seduzione consiste nella
salvaguardia della stranezza, non nella riconciliazione. Non bisogna riconciliarsi col proprio
corpo, né con sé stessi, non bisogna riconciliarsi con l’altro, non bisogna riconciliarsi con la
natura, non bisogna riconciliare il maschile e il femminile, né il bene e il male. In ciò risiede il
segreto di una strana attrazione» (Baudrillard, 2010, p. 134).
Cosa possiamo o dobbiamo o tentiamo di fare noi con questi saggi? Quali scopi dovremmo porci?
Ha ancora senso parlare di lotta? E contro chi? Una cultura che non ha alterità non ha soggetti e
non può, quindi, avere nemici. Perciò non abbiamo nemmeno più il privilegio di vivere nell’epoca
dell’alienazione. Siamo stati resi tutti omogenei, spalmati su un unico lineare piano. E oggi quali
movimenti possono far sì che questo piano si increspi facendo risorgere montagne e affondare
valli? Forse solo una forte scossa, una specie di terremoto. Ma per produrla serve tanta energia,
perciò tante menti. Forse questo stiamo tentando di fare. Come? Attraverso quali mezzi?
Attraverso l’unico che conosciamo e che crediamo essere ancora e sempre valido: la filosofia. Con
qualunque approccio e formazione ci si volga verso questi problemi, lo si fa sempre
filosoficamente. Perché la filosofia è necessaria, ricorderebbe Jean-François Lyotard. Filosofare è
esercitare in qualche modo un desiderio, è forse un po’ giocare. È produrre seduzione e illusione,
che la realtà integrale tenta di rubarci. Se tutto fosse chiaro, tutto dipanato, tutto limpido, se le
idee fossero sempre e solo illuminate dal sole, allora ci bruceremmo gli occhi e questa volta non
perché disabituati alla forza della luce. La nostra cecità sarebbe dovuta a una luminosità totale. La
filosofia potrebbe fare questo: produrre zone d’ombra, anfratti relativi, regolare l’alternanza del
giorno e della notte, riponendo un ordine laddove è stato perso. Ma non un ordine totalizzante,
bensì infinito. Riaprendo alla seduzione. Alla seduzione di un mondo in un certo senso maledetto,
di un mondo ostico, di un mondo privo di risposte sensate a tutte le nostre domande. Luogo
traballante, incerto, talvolta effimero. Benedettamente difettoso, perché dove c’è mancanza c’è
potenza. Dove c’è perfezione c’è completezza e incapacità di accoglienza.
«Questo sogno di estirpare ogni sortilegio dal pensiero, di eliminare ogni principio del male è
assurdo quanto quello di eliminare ogni concupiscenza, anche in sogno. [...] L'illusione è
comunque indistruttibile. Il mondo quale è - e questo non è affatto il mondo “reale” – si sottrae
perpetuamente all’illusione del senso, provocando l’attuale catastrofe dell’apparato di produzione
del mondo “reale”. Tanto è vero che non si combatte l’illusione con la verità – questa è l’illusione
raddoppiata – ma con un’illusione più forte. [...] L'illusione radicale del mondo non può essere
ridotta» (Baudrillard, 2010, p. 23).
Dovremmo quindi provare a far rilucere la seduzione, contro il declino impostoci dalla
simulazione: «Solamente ciò che eccede la realtà può oltrepassare l'illusione della realtà»
(Baudrillard, 2010, p. 24).
In Scacco alla realtà, Giovanni Gurisatti offre una panoramica degli autori che hanno scritto sulla
derealizzazione mediatica, da Benjamin ad Adorno, da Anders a Debord, da Baudrillard a
Vattimo. Anche in quest’opera vengono messi in luce alcuni punti sopra richiamati:
«Con la comunicazione, l'informazione, la promiscuità di tutte le reti elettroniche – che nel
mondo occidentale si consolida definitivamente a partire dagli anni Ottanta del XX secolo –
l’umanità entra in una nuova forma di delirio, non più drammatica, tragica, di emergenza ma
estatica, in quanto ha espulso da sé ogni senso di incompiutezza, mancanza, perdita, desiderio
dell'Altro e di “travaglio del negativo”. Per Baudrillard lo “sterminio del negativo” – quel
negativo che, dialetticamente inteso, consentiva a Benjamin, Adorno, Anders e Debord di
esprimersi pro et contra la derealizzazione mediatica – nella fase della simulazione è cosa fatta:
l'’effetto principale della derealizzazione simulatoria del mondo sta nella depolarizzazione di tutte
le tensioni, nella neutralizzazione delle opposizioni, nella indifferenziazione di tutte le possibili
soglie e fratture» (Gurisatti, 2012, pp. 205-6).
L’ultrarealtà ha assorbito tutto. Come possono i nostri scritti sfuggirle? Forse non è più tempo di
scrivere metaforicamente “contro i gentili”, è tempo che il pensiero si produca per annullarsi, non
per lottare né per realizzarsi. Per sfuggire alla realizzazione totale ci resta solo la libertà
dell'annichilimento. Dovremmo continuare il Niente, dice Baudrillard nella conclusione del suo
libro. Per questo, in questo saggio non si sono sostenuti né verità né precetti, si è tentato solo di
mettere in risalto dei fatti. Non cerchiamo realtà che più fortemente facciano presa su altre,
saremmo schiavi dello stesso gioco se così fosse. Infatti:
«Il pensiero, il quale sa che in ogni caso fallirà, ha quindi il dovere di mirare a obiettivi criminali.
Un’impresa che mira a obiettivi positivi non può permettersi di fallire. Quella che mira a obiettivi
criminali ha il dovere di fallire. [...] Se il sistema non riesce a essere tutto, non resterà niente del
sistema. Se il pensiero non riesce a essere niente, resterà qualcosa del pensiero» (Baudrillard,
2010, p. 155).
Pare essere questa l’unica linea di fuga tracciabile.
Nelle quattro conferenze tenute agli studenti di Propedeutica filosofica alla Sorbona (nell’ottobre
e novembre del 1964), Lyotard inizia col porsi una fondamentale domanda (che chiameremo in
causa per i fini di questo articolo): «perché desiderare?» La risposta è limpida e non banale:
«Il desiderio non pone in relazione una causa con un effetto, quali che siano, è piuttosto il
movimento di qualcosa che va verso l’altro come verso ciò che gli manca. Questo vuol dire che
l’altro […] è presente a colui che desidera, ed è presente nella forma dell’assenza. […] Se
torniamo ai concetti di soggetto e di oggetto, il movimento del desiderio fa quindi apparire il
presunto oggetto come qualcosa che è già lì, nel desiderio, senza tuttavia esserci in “carne e ossa”;
e il presunto soggetto come qualcosa di indefinito, incompiuto, che ha bisogno dell’altro per
determinarsi, per completarsi, che è determinato dall’altro, dall’assenza» (Lyotard, 2013, p. 5).
Il desiderio, così spiegatoci, potrebbe essere inteso come nostra chance. Come la capacità di
ristabilire una certa distanza fra soggetto e oggetto, fra desiderante e desiderato. Proprio la
funzione del desiderio ci permette di porci innanzi la figura dell’alterità. Cosa è più altero di ciò
di cui io manco e di ciò verso cui volgo la mia attenzione. Desiderare è affermare l’alterità nella
sua altezza. E così, quando desidero, questo afflato può non essere solo desiderio amoroso. Anzi,
non è quasi mai esclusivamente tale. Il desiderio di cui parliamo è ampio e coinvolge mondi.
Potrebbe essere anche il desiderio di aiutare l’orfano o la vedova lévinassiani, dopo la loro grave
interpellanza. È questo movimento interiore che prostra innanzi al diniego del desiderato oppure
che ci fa gioire innanzi al conquistarlo. Ed è proprio questo corpo a corpo con l’alterità che ci
impedisce di cadere nelle braccia del medesimo fine a sé stesso, imbrigliato e malato di sé. È
questo che ci conduce in una posizione di sempre pura inferiorità rispetto all’altro, che in quanto
desiderato, è sempre al di sopra e lontano dal mio potere e dal mio avere. Paradigmatico è il titolo
che utilizza Baudrillard per uno dei suoi capitoli, ove parla del corpo che potremmo definire ad
alta definizione: «La cassa integrazione del desiderio» (Baudrillard, 2010, p. 129). Baudrillard
parla del tramonto del desiderio che avviene attraverso lo squilibrio dei poli “io” e “altro”:
«Non si può neppure parlare precisamente di individuo. […] Non appena esso diventa veramente
indivisibile e realizza così la sua forma perfetta, ossia delirante e autoreferenziale, non si può più
parlare d’individuo, ma solamente del Medesimo e dell’ipostasi del Medesimo. Ciò è illustrato
dalla differenza assoluta, intransitiva, la quale caratterizza il punto finale di questo
autoriferimento: la “mia”, la “tua”, la “sua” differenza. Appropriazione pura e semplice della
differenza – prima per lo meno era ancora l’altro che passava per differente. Metastasi
dell’identità: tutte le particelle si disperdono in storie individuali» (Baudrillard, 2010, p. 130).
Da ciò il titolo di questo saggio, la constatazione pura e semplice dell’iperrealtà in cui viviamo,
l’inghiottimento di ogni alterità visibile in qualunque strato della nostra cultura, con segnali
deboli ma chiari. La necessità di ripristinare le polarità per evitare l’imperialismo del Medesimo,
corpo ad high definition (clonato, chirurgicamente rappezzato, mascolinizzato, ad elevate
prestazioni e performance), attraverso il desiderio dell’Alterità.
Prosegue Lyotard nel suo scritto:
«Il desiderio non è altro che la forza che tiene assieme, senza confonderle, la presenza e l’assenza.
[…] [i]l desiderio, in quanto indigente, deve essere ingegnoso, mentre le sue idee brillanti
finiscono sempre per fallire. Questo vuol dire che Eros sottostà alla legge della Morte, della
Povertà, deve continuamente sfuggirvi, rifarsi la vita, proprio perché porta in sé la morte. Infine il
desiderio è uomo o donna, oltre che vita e morte. Nel testo di Platone […] il padre di Eros
simboleggia ciò che nel desiderio avvicina l’amore al suo oggetto, il loro ricongiungimento;
mentre la madre, l’indigenza incarna ciò che li tiene separati. In questo testo l’attrazione è virile e
la repulsione è femminile» (Lyotard, 2013, pp. 6-8).
Lyotard prova a interpretare il desiderio attraverso il mito della nascita di Eros, (raccontato da
Socrate nel Simposio platonico), figlio di Penia (la Povertà) e di Poros (l’espediente). Qualunque
cosa sia in ultima istanza il desiderio è certo che esso ha il dono di coniugare l’assenza con la
presenza. E di stabilire un rimando fra l’individuo e l’alterità. Un uomo senza desiderio è un
Medesimo che ama e desidera solo se stesso.
Perché citare Lyotard? Prima si è accennato al fatto che Lyotard si pone questa domanda
all’interno di un testo che tenta di spiegare perché la filosofia è necessaria:
«Oggi come oggi, se ci si chiede: “Perché filosofare?” potremmo sempre rispondere a nostra volta
con una domanda: “Ma perché desiderare? Perché esiste ovunque il movimento dello stesso che
cerca l’altro?” E potremmo sempre dire, in attesa di meglio: “Filosofiamo perché c’è desiderio”»
(Lyotard, 2013, p. 21).
Ecco, in ultima istanza, perché abbiamo deciso di scrivere intorno al vuoto che pare ci circondi.
Perché desideriamo, quindi filosofiamo.

Bibliografia

Baudrillard 2010
Baudrillard, Jean, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina Editore,
Milano, 2010

Canguilhem 1998
Canguilhem, Georg, Il normale e il patologico, Biblioteca Einaudi, Torino, 1998

Gurisatti 2012
Gurisatti, Giovanni, Scacco alla realtà. Estetica e dialettica della derealizzazione mediatica,
Quodlibet, Macerata, 2012

Lévinas 2012
Lévinas, Emmanuel, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano, 2012

Lyotard 2013
Lyotard, Jean – François, Perché la filosofia è necessaria?, Raffaello Cortina Editore, Milano,
2013

Zanzotto 2009
Zanzotto, Andrea, In questo progresso scorsoio, Garzanti, Milano, 2009

Nadine Tabacchi (1986) è laureata in Filosofia presso l’Università degli Studi di Padova. Il suo
desiderio abbraccia l’uomo, la vita e le scienze umane, spazia nel campo dell’indagine filosofica e
talvolta indugia nella poesia. Ha contribuito con un saggio dal titolo “Attraverso il normale e il
patologico. L'irriducibilità necessaria in G. Canguilhem” al volume A sé e agli altri curato da
Concetta Russo, Michele Capararo ed Enrico Valtellina sull'ex Manicomio di San Servolo.
Il complesso dell’Idra. Elogio della ghigliottina e politiche del vuoto
di Tommaso Ariemma

La ghigliottina senza la Rivoluzione1

A pochi giorni dal voto – ottenuto un clamoroso successo elettorale – la frase incisiva che ben
sintetizza il discorso del 29 marzo 2013 tenuto da Beppe Grillo, e che dovrebbe caratterizzare il
Movimento Cinque Stelle, è certamente la seguente: «Siamo la rivoluzione francese senza la
ghigliottina».
Secondo il filosofo Slavoj Žižek, una frase del genere rivela una posizione tipicamente liberale,
secondo la quale la cosa migliore sarebbe una rivoluzione che non odori di rivoluzione.
Contrariamente all’atteggiamento conservatore che consiste nel puro e semplice rifiuto della
dimensione rivoluzionaria, l’atteggiamento liberale, secondo Žižek, vuole una rivoluzione
“decaffeinata”. Atteggiamento condiviso da molti, anche dalla cosiddetta sinistra radicale: «tutti,
inclusa la “sinistra radicale” contemporanea, si vergognano in qualche modo dell’eredità
giacobina del terrore rivoluzionario con il suo carattere statalista e centralizzato, al punto che la
doxa corrente è che la sinistra, se vuole riconquistare efficacia politica, debba reiventarsi
completamente, abbandonando finalmente il cosiddetto “paradigma giacobino”» (Žižek, 2009, p.
199).
Ci troviamo di fronte a una sorta di svuotamento, e tuttavia, se diamo ragione a un altro filosofo
(molto importante per Žižek), ovvero Hegel, si tratta solo di un ulteriore svuotamento.
Com’è noto, Hegel ha definito l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese come figure, esse stesse,
di uno svuotamento culturale: nei capitoli dedicati all’interno della sua Fenomenologia dello
Spirito egli non esita a definire la loro concezione del mondo di una povertà estrema, fino a
mettere in evidenza ciò che entrambe le figure ritengono essere il principio primo, o l’essenza
assoluta: un essere supremo al di là dell’umano, ossia l’incarnazione del vuoto, per Hegel (Hegel,
2000, p. 757).
Nelle sue lezioni sulla filosofia della storia, Hegel insiste: «Si è detto che la rivoluzione francese
sia partita dalla filosofia e non senza ragione si è chiamata la filosofia sapienza mondana, poiché
la filosofia non è soltanto la verità in sé e per sé, bensì anche la verità che prende vita nella
mondanità. Perciò non bisogna dichiararsi contrari, quando qualcuno afferma che la rivoluzione
ricevette la sua prima sollecitazione dalla filosofia. Senonché questa filosofia è soltanto pensiero
astratto, non comprensione concreta della verità assoluta, il che fa una differenza smisurata»
(Hegel, 2003, pp. 361-2).

La vuotezza che Hegel vede nell’Illuminismo e nella conseguente Rivoluzione Francese coincide
con il dominio dell’utilità e di una certa incapacità simbolica: l’illuminista, a questo punto, non
riconoscerebbe altra testa che quella strettamente anatomica.
In questa incapacità di vedere altre teste o cose che fungono simbolicamente “da testa” (di un
esercito, di una nazione, etc.) egli non perde altro che la grande occasione di fare un uso
emancipatore della ghigliottina: un uso simbolico.
Pertanto, a conclusione di questo piccolo percorso storico-filosofico, possiamo avanzare l’ipotesi
che, non la ghigliottina, ma la Rivoluzione Francese sia il problema. Essa, lungi dal tagliare
veramente la testa alla sovranità, occupa diversamente il posto lasciato vuoto dal sovrano: «Ora
sopravviene – scrive Hegel – un governo organizzato come quello precedente, soltanto che il capo,
il monarca, è adesso un Direttorio mutevole, composto da cinque persone, le quali formano bensì
un’unità morale, ma non già individuale» (Hegel, 2003, p. 365).
Contro questa occupazione di qualcosa che dovrebbe essere lasciato vuoto, potrebbe esserci di
aiuto una piccola disamina dei modi di tagliare. Che la politica sia essenziamente una questione di
tagli, è sempre più sotto gli occhi di tutti. Il legame tagli-politica diventa così qualcosa da
guardare con diffidenza e sospetto, fino all’estremo terrore della ghigliottina. Come se non
potesse esserci una poltica emancipatrice del taglio.

Il taglio e la società

Si tratta allora di marcare delle tendenze. E nessuno meglio del già citato Žižek può esserci di
aiuto. Nel suo Il soggetto scabroso, il filosofo presenta un’istruttiva fenomenologia del taglio:
«Possiamo quindi distinguere quattro fasi nella logica del “taglio del corpo”: per quanto riguarda
la prima, nelle società tribali pagane pregiudaiche, “sono marchiato dunque sono”: il taglio nel
mio corpo (tatuaggio ecc.) rappresenta la mia iscrizione nello spazio sociosimbolico; fuori di esso
non sono niente, assomiglio più a un animale che a un membro della società umana. A ciò segue la
logica ebraica della circoncisione, “un taglio che ponga fine a tutti i tagli”, ovvero un taglio
eccezionale/negativo strettamente correlato alla proibizione della moltitudine di tagli pagani [...]
Infine, con il Cristianesimo, questo taglio eccezionale viene esso stesso “interiorizzato”: non ci
sono più tagli. Qual è allora la differenza tra la pletora premoderna di modi di modellamento del
corpo (tatuaggio, piercing, mutilazione degli organi...) e la quarta fase, il taglio nel corpo
postmoderno “neotribale”? [...] In termini in qualche modo semplificati: il taglio tradizionale
andava dal Reale al Simbolico, mentre il taglio postmoderno va nella direzione opposta, dal
Simbolico al Reale. [...] Quando una ragazza si fa bucare le orecchie [...] trasforma ciò che in una
società tradizionale rappresentava una modalità di sottomissione al grande Altro simbolico della
Tradizione nel suo opposto, in una dimostrazione tutta sua della propria individualità.» (Žižek,
2003, pp. 472-3)
Da questa fenomenologia si evince che qualche tappa importante è stata saltata. Per contribuire a
un suo miglioramento, si potrebbe parlare proprio del momento del Terrore giacobino come di
quel momento in cui il taglio che iscrive in una società smette di proseguire sulla strada del
simbolico e ritorna su quella del reale: torna a iscriversi sulla carne per marcare questa volta non
l’inclusione, ma l’esclusione dall’ordine simbolico. Tutto questo per istaurare un nuovo tipo di
legame: con coloro che osservano la decapitazione. Come ha notato acutamente lo storico Paolo
Viola: «Il popolo, io credo, percepì con sgomento il vuoto di sovranità che si stava creando.
Fantasticò di un re buon padre che si adoperava per la felicità dei suoi sudditi. Inoltre interpretò il
concetto di sovranità popolare nella maniera più diretta possibile, in una maniera imparentata con
quanto la simbologia della maestà regale aveva rappresentato per secoli. [...] I giacobini seppero
anche “rappresentare virtualmente” il paese, cioè farsi non inventori di un universo
concentrazionario, ma primo esempio, al di qua della Manica, di rapporto partitico fra società e
potere» (Viola, 1989, pp. IX-XI).
La testa “simbolica” del sovrano non è mai stata tagliata. Se, come è stato detto in più modi, il
sovrano ha almeno due corpi, allora la testa tagliata apperteneva solo al corpo anatomico, mentre
la sua testa “simbolica” restava ancora intatta e il suo posto veniva occupato da altri soggetti. La
vera strada emancipatrice poteva essere quella radicalmente democratica del taglio della testa
simbolica: è possibile uno stato senza testa? Ovvero, è possibile uno stato non pensato secondo il
modello anatomico?
L’emancipazione politica contemporanea, almeno a partire dalla Rivoluzione Francese, sembra
soffrire di qualcosa che potremmo chiamare “complesso dell’Idra”, facendo riferimento al mostro
mitologico dalle nove teste, che, al taglio di una testa, ne faceva spuntare altre. Per impedire al
mostro di moltiplicare le sue teste, bisognava tagliare la vera testa che tuttavia era ritenuta
immortale. Il complesso direbbe dell’incapacità di sbarazzarsi della vera testa del mostro, ovvero
del potere politico.
Contro questa permanente occupazione del vuoto politico, almeno a partire dai Greci, gli inventori
stessi della democrazia, fu escogitato lo stratagemma del “sorteggio” degli eletti.
Soluzione che fa la sua comparsa in diverse epoche della nostra storia, come nel caso del
ripristino della “tratta” (ossia del sorteggio), nella Firenze del 1466, per la quasi totalità degli
uffici governativi al fine di limitare la presa dei Medici sul potere cittadino. Oppure, nel 2007, in
una provincia canadese, dove Gordon Gibson, consigliere del Primo Ministro della Columbia
Britannica, motiva così l’innovazione elettorale introdotta: essa consegna alla collettività «un
nuovo tipo di rappresentanti, diversi da quelli che noi eleggiamo adesso. Fino ad oggi, le due vie
che consentono la presa delle decisioni sono influenzate dagli esperti o dagli interessi particolari,
quando non ne sono completamente dipendenti. La democrazia deliberativa è essenziale per la
presa in conto dell’interesse pubblico espresso da campioni di cittadini sorteggiati. [...] Il tipo
nuovo di rappresentanti di cui parliamo è scelto dal caso, per un periodo di tempo determinato, in
veste di cittadini ordinari e per compiti specifici e limitati» (Sintomer, 2009, p. 13).

Cosa fare con il vuoto

Una politica democratica radicale intrattiene un certo rapporto con il vuoto: essa lo individua
come lo spazio specifico del potere che deve essere lasciato, appunto, vuoto. Il suo occupante deve
figurare come l’occupante senza posto, precario, casuale. Solo una tale strategia assicura lo scarto
tra l’occupante e il vuoto, che in questo caso, incarna il potere come dimensione massima della
negatività, l’imposizione sulle vite.
A questo punto può tornarci utile un altro argomento di Žižek, che in realtà riguarda l’arte
contemporanea, ma che si adatta benissimo alle dinamiche della politica. Benché infatti il suo
argomento sia del tutto errato come interpretazione di ciò che avviene nell’odierna esposizione
artistica, è acuto e pertinente, invece, in relazione alla politica democratica liberale. Žižek,
cercando di spiegare perché oggi degli escrementi possano diventare arte, sostiene che tale
operazione sia in realtà un modo per salvare e gestire il luogo sacro dell’esposizione artistica, per
occupare il suo vuoto (Žižek, 2013).
Proprio offrendo qualcosa di escrementizio, paradossalmente, si occupa con dignità un vuoto
sacro: il non degno per eccellenza diventa la cosa più degna. L’escremento sarebbe l’unica cosa
davvero adeguata in un luogo dove si intende mostrare l’Arte pura: che cosa, infatti, al cospetto
dell’Arte pura non risultebbe infimo, indegno? Pertanto l’escremento vero e proprio risulta l’unica
cosa davvero adatta ad occupare stabilmente il luogo vuoto dell’Arte. Il ragionamento di Žižek
manca – bisogna dirlo – completamente la dinamica dell’arte contemporanea, perché essa non è
fatta solo di escrementi, e anzi, proprio l’escremento, in quanto tale, è una dimensione mai
davvero mostrata (vale per tutti il caso di Manzoni).
Il suo argomento però diviene particolarmente efficace se lo usiamo per descrivere la situazione
politica attuale (ma sarebbe perfetto anche per alcune dinamiche editoriali). Chi occupa le
poltrone stabilmente del potere potrebbe fare molto per il suo paese, dare il suo contributo e
andarsene per lasciar provare altri, mantenendo così uno scarto con il potere. Invece l’occupazione
(più o meno) permanente del potere da parte di un gruppo di persone, a torto chiamate
rappresentanti, tende a sottolineare il merito, l’essere degni del vuoto, il non poter essere
altrimenti (anche e soprattutto con leggi elettorali ad hoc). E abbiamo visto che cosa significa
essere degni del vuoto: palesarsi come escremento. Invece, se sposiamo il ragionamento di Žižek
in chiave politica, riusciamo a intravedere la possibilità di una democrazia «che accetta lo scarto
tra il simbolico (il vuoto spazio del potere) e il reale (l’attore che occupa questo spazio)» (Žižek,
2009, p. 129).

Bibliografia

Hegel 2000
Hegel, G.W.F., Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano, 2000

Hegel 2003
Hegel, G.W.F., Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari, 2003

Sintomer 2009
Sintomer, Yves, Il potere al popolo, Dedalo, Bari, 2009

Viola 1989
Viola, Paolo, Il trono vuoto, Einaudi, Torino, 1989

Žižek 2003
Žižek, Slavoj, Il soggetto scabroso, Cortina, Milano, 2003

Žižek 2009
Žižek, Slavoj, In difesa delle cause perse, Ponte alle Grazie, Milano, 2009

Žižek 2013
Žižek, Slavoj, Il trash sublime, Mimesis, Milano-Udine, 2013

Tommaso Ariemma insegna Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Tra le sue
pubblicazioni più recenti: Immagini e corpi. Da Deleuze a Sloterdijk (Aracne, 2010), Contro la
falsa bellezza. Filosofia della chirurgia estetica (Il melangolo, 2010), Estetica. Manuale per
giovani artisti (Aracne 2012), Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook, l’arte contemporanea,
la filosofia (et al. 2012), Estetica dell'evento. Saggio su Alain Badiou (Mimesis, 2012), Il corpo
preso con filosofia. Body bulding, chirurgia estetica, clonazioni (Il Prato, 2013).
Neuroscienze e governance
di Marco Pacioni

A Giorgio Agamben e Lauren

Prevenzione, previsione, predisposizione

Benché all’apparenza simili, vi è una differenza cruciale fra prevenzione e previsione. La


prevenzione è un atto che anticipa ciò che può o può non svilupparsi in un certo modo. La
prevenzione è l’anteposizione dell’atto alla potenza (Agamben, 2005, pp. 276-7) o anche,
l’attualizzazione di una possibilità della potenza che scarta le altre o che attraverso lo scarto di
queste si assicura di escludere una specifica possibilità. La previsione è invece aver cura di capire
quali possibilità o impossibilità si possano sviluppare dalla potenza. Mentre nella prevenzione
l’acquisizione del dato, il principio che ne giustifica il metodo e l’applicazione tendono a
coincidere in un unico atto, nella previsione questi tre momenti risultano essere uniti, ma al
contempo distinti. Nella previsione vi è ancora spazio tra epistemologia, ontologia e pratica – uno
spazio che distingue e che è al contempo tenuto unito dal e nel pensiero.
Gestire una predisposizione vuol dire prevenirne certi effetti o potenziarne altri. Proprio perché
gestione di un dato che non si è ancora attualizzato, che non si è ancora manifestato come fatto,
ma che fluttua ancora nell’aleatorietà, la prevenzione è una forma di governance. Basandosi sul
fatto compiuto, alla prevenzione è indifferente che il fatto sia prodotto o sia semplicemente
presupposto come se esso fosse avvenuto. Una prevenzione post-factum, quella che cioè preferisce
gestire gli effetti anziché prevederli, è quella che corrisponde al tipo della governance securitaria.
L’altro tipo di governance è quello che si basa sulla prevenzione ante-factum, quello che segue il
paradigma medico della profilassi. In questo secondo tipo di governance, anziché lavorare sugli
effetti che si producono, si anticipa il fatto, lo si dà come accaduto già allo stadio della sua mera
possibilità. Ed è proprio la possibilità infatti che la prevenzione della governance medica delle
neuroscienze e biotecnologie si incarica di gestire, regolare e dunque, in un certo modo,
neutralizzare. Nel panorama politico odierno, governance medica e securitaria non si escludono e
anzi agiscono spesso combinate. La prima soprattutto al livello individuale; la seconda soprattutto
al livello collettivo. La prima, afferendo alla medicina, esplicita la sua azione biopolitica
direttamente; la seconda che deriva dall’economia, come ha mostrato Agamben (2014) esplica la
sua azione biopolitica indirettamente, benché il suo raggio d’azione sia subito più vasto. In
entrambi i casi, la prevenzione separa ciò che è ancora unito ontologicamente nella possibilità e
che solo il pensiero è in grado di distinguere. La prevenzione mira proprio a ridurre la distinzione
– l’opera del pensiero, la previsione – alla separazione.

Di fronte alle neuroscienze è particolarmente significativo che anche il diritto abbia quasi
esclusivamente una funzione di prevenzione, di controllo. Esso funziona in negativo, come una
sorta di contro-dispositivo che norma e cerca a propria volta di prevenire certi esiti negativi che
l’applicazione biotecnologia delle neuroscienze può produrre. In questo ambito la prevenzione
esercitata dal diritto è un continuo rincorrere, soprattutto quando, con le loro scoperte e i ritrovati
farmacologici che inducono a produrre e utilizzare, le neuroscienze toccano la definizione stessa
dell’umano. Anzi, l’idea stessa che l’umano possa avere una definizione e un’identità è forse la
componente più rilevante per il funzionamento dei dispositivi neuro-bio-tecnologici. Ancora più
cruciale però, non è neanche che l’umanità sia identificabile attraverso una definizione, ma che vi
siano componenti biologiche specifiche attraverso le quali passa ogni possibile identificazione. Il
passaggio dalla mente al cervello, l’imporsi di questa parola nel linguaggio delle discipline che a
vario titolo studiano e intervengono sulla vita umana rivelano non solo l’idea che l’essenza umana
sia racchiusa nel funzionamento di un organo specifico, ma che, essendo quest’organo il cervello,
siano proprio le neuroscienze a fare da guida nella definizione dell’umano.
Una delle cose che le neuroscienze dicono o meglio dicevano di studiare sono le connessioni: tra
cervello e mente, tra natura e cultura, tra «ominità» e «umanità» (Delmas-Marty, 2011). Ma in
realtà il loro interesse non è tanto per le connessioni. Queste servono come via per riunificare le
due componenti dell’hardware e software dell’umano secondo una reductio della seconda alla
prima componente. A tal proposito, e a conferma di questo processo, Trimble, il maggiore tra i
fondatori della psichiatria biologica, cancella persino la differenza e dunque il collegamento tra
organo e funzione. Trimble scrive: «Allo stato attuale delle conoscenze, la distinzione fra
“organico” e “funzionale” si dissolve, spogliata del suo dualismo cartesiano» (Trimble, 1996, p.
X).
Prima dello sviluppo delle biotecnolegie vi è era una forte tendenza delle scienze umane, della
filosofia, religione e anche del diritto a privilegiare di più la componente software cioè quella
spirituale e o mentale e con ciò ci si dimenticava, anche in quel caso, delle connessioni. Anche
quella era una reductio, benché di segno opposto. Per ovviare sia all’identità cerebrale che a
quella spirituale, forse bisognerebbe puntare l’attenzione sulla connessione stessa, considerarla
non più soltanto come mezzo per un fine (Agamben, 1996) che stabilisce l’identità dell’umano.
Forse è giunto il momento di pensare l’umano al di là e al di qua dell’identificabilità biologica o
mentale. Forse è giunta l’ora di pensare e abitare quel mezzo che i collegamenti stessi ci
mostrano. Ma questo emergere dell’importanza ontologica e non solo strumentale del
collegamento, dalle neuroscienze è nella maggior parte dei casi evocato solo per essere percorso e
poi cancellato. Percorrere un collegamento soltanto per approdare ad un dato biologico significa
produrre una contro-dinamica che neutralizza quella del collegamento stesso. Ciò significa, più in
generale, negare che l’uomo sia un essere-in-divenire e che tutte le identità che l’umano tira fuori
lungo il suo itinerario di trasformazione, dal suo essere-temporale sono stabilizzazioni parziali:
quelle che cioè non eliminano il percorso attraverso il quale si è giunti alla meta della definizione.
E fino al punto che percorso e definizione, come divenire e stasi, sono entrambi importanti e non
riducibili completamente l’uno all’altro. Seguendo questa linea, impropriamente si potrebbe dire
che l’uomo è un essere dinamico che non ha da avere un’unica definizione, ma che ne può
assumere diverse. La prospettiva che aprono le neuroscienze invece sembra andare in una
direzione diversa. La donna normale e l’uomo normale non sono idee dinamiche dell’umano, ma
un modo per controllare e assoggettare quel dinamismo che si pensa sia già connaturato e tarato
per l’umanità in standard quantitativi oltre i quali sta l’anormalità. Ma quante deficienze,
mancanze, quanti segni meno hanno contribuito a definire l’umanità e farla spostare da una
definizione a un’altra? La prospettiva delle neuroscienze, soprattutto in quelli che hanno sostituito
completamente il cervello alla mente, si dirige verso una reductio della componente cruciale
benché inafferrabile dell’umano: la sua possibilità di cambiare potendo prescindere anche dal dato
biologico di partenza.

Politica della vita

Più o meno nei primi sessant’anni del xx secolo, gli esseri umani – almeno nelle democrazie
liberali avanzante dell’Occidente – giunsero a vedersi come abitati da un profondo spazio
psicologico interiore. […] Nel corso del secolo passato, però, noi esseri umani siamo diventati
individui somatici, persone che sempre più si concepiscono, parlano di sé e agiscono su di sé – e
sugli altri – come esseri plasmati dalla biologia. Questa somatizzazione comincia a estendersi alla
maniera in cui interpretiamo le variazioni dei nostri pensieri, emozioni e comportamenti, vale a
dire alla nostra mente. Mentre i nostri desideri, umori e insoddisfazioni potevano in precedenza
essere inscritti in uno spazio psicologico, essi vengono ora associati al corpo stesso, o a un suo
particolare organo – il cervello. Il quale è anch’esso concepito secondo un particolare registro. In
modi significativi siamo diventati, io credo, dei «sé neurochimici» (Rose, 2008, pp. 297-8).
Il testo citato in precedenza proviene da un libro dal titolo significativo: The Politics of Life Itself.
Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century . Per l’autore di questo libro, la
vita non è dove si esercita la politica, ma l’oggetto della politica, il risultato di essa. Significativo
è anche l’Itself che accompagna Life nel titolo e che indica la dimensione di base della vita, il
punto di vista dal suo grado zero che è quello che Rose definisce «somatico» e che somiglia,
inquietantemente, a quella che Agamben definisce «nuda vita» (Agamben, 1995, p. 99). Per Rose,
l’uomo non è più, come voleva Aristotele, vita-politica, ma il risultato dell’azione politica volta a
prevenire la forma della vita attraverso l’intervento sul corpo; su una delle sue componenti:
l’organo del cervello. La politica della vita è in tal senso e anzitutto separazione della vita-vita
dalle forme-vita che l’umano può o può non assumere.
Ma se la politica non è più un elemento della forma-vita-umana, bensì lo strumento per plasmare
la vita-vita cioè the life itself potenziandola o semplicemente riportandola entro gli standard
ritenuti normali; se cioè la politica ora con le neuroscienze deve stabilire ciò che prima la rendeva
possibile e cioè la vita-umana stessa, allora essa medesima è un agire che produce continuamente
il proprio fondamento. Una politica che si riduce alla sola amministrazione di ciò che è dato e
considerato tale perché prodotto o anticipato da essa stessa. Prima di essere ricerca, quello delle
neuroscienze è già sempre anche un intervento fattizio. Scrive ancora Rose:

Il nuovo stile di pensiero della psichiatria biologica stabilisce non solo che cosa vale come
spiegazione, ma anche che cosa bisogna spiegare. Lo spazio psicologico profondo che si era aperto
nel XX secolo si è appiattito. In questa nuova concezione dell’identità personale, la psichiatria
non distingue più fra disturbi organici e funzionali. Non si occupa più della mente o della psiche.
La mente è semplicemente l’attività del cervello, e la patologia mentale è semplicemente la
conseguenza comportamentale di un errore o un’anomalia identificabile, e potenzialmente
correggibile, di qualcuno degli elementi ora considerati aspetti del cervello organico. Si tratta di
un cambiamento nell’ontologia umana – nel tipo di persone che riteniamo di essere. Un
cambiamento che implica una nuova maniera di vedere, giudicare e agire di fronte alla normalità e
all’anormalità umane. Esso ci consente di essere governati in nuovi modi. E ci consente di
governarci in modo diverso (Rose, 2008, pp. 303-4).
Le neuroscienze e in particolare la neurobiologia e la psichiatria biologica tendono ormai a
sostituire il modello auditivo e verbale delle psicologie sviluppatesi tra fine Ottocento e
Novecento, tra le quali la psicoanalisi, mettendo in primo piano l’evidenza e dunque basandosi
sulla visione come si è detto. Non c’è fondamentalmente più bisogno di ascoltare o leggere quello
che un paziente dice. Le neuroscienze osservano, misurano dati visivi e chimici. Il loro modello fa
a meno il più possibile del linguaggio ristabilendo così, come già nell’‘800, una distanza e una
gerarchia tra medico e paziente che in parte i modelli comunicativi delle psicologie novecentesche
avevano riequilibrato. Benché le tecniche siano più sofisticate, il modello visivo cui le
neuroscienze fanno riferimento non è in principio molto diverso da quello, anch’esso basato
sull’osservazione, della psicologia criminale di Lombroso. Forse non è un caso che proprio in
questi ultimi anni di espansione e conquista dell’opinione pubblica da parte delle neuroscienze e
delle biotecnologie, e non solo per mero interesse erudito, la sua opera è tornata all’attenzione. È
altresì significativo del neo-lombrasianesimo delle neuroscienze il fatto che lo stimolo, dal
modello comunicativo delle vecchie psicologie a quello appunto visivo delle stesse neuroscienze,
sia venuto soprattutto dalla necessità di fornire prove processuali che determinino se un imputato
possa essere giudicato responsabile delle proprie azioni oppure no perché affetto da patologie,
perché anormale. La differenza fondamentale fra la psichiatria biologica ottocentesca culminata
nel ventesimo secolo nella pratica della lobotomia (nel 1949 Moniz che aveva praticato la
lobotomia su ventimila pazienti riceve il Nobel) e quella che si sviluppa nell’ambito delle
biotecnologie è soltanto legata agli strumenti di visualizzazione del cervello (le varie tecniche
tomografiche, l’imaging, la risonanza magnetica, le scannerizzazioni) che ora si può osservare da
vivo e non più soltanto, come appunto avveniva nell’‘800, da morto attraverso il sezionamento
anatomico. Con queste nuove analisi basate sul potenziamento dell’osservazione, le neuroscienze
si sentono in grado di azzerare la distanza e dunque la stessa via di collegamento tra mentale e
cerebrale, organico e funzionale. Ma proprio perché esse possono abolire tali distinzioni si
sentono in grado di stabilire dicotomie nette. Prima fra tutte quella che separa ciò che è sano dal
malato, ciò che è normale da ciò che è anormale.

Le basi biologiche della malattia mentale sono ora dimostrabili: nessuno può ragionevolmente
osservare la frenetica attività localizzata del cervello di una persona in preda a qualche ossessione,
o la tenue luminescenza di un cervello depresso, e dubitare ancora che queste siano sindromi
fisiche, piuttosto che qualche ineffabile malattia dell’anima. Analogamente, è ora possibile
localizzare e osservare i meccanismi della rabbia, della violenza e della percezione distorta e
anche individuare i segni fisici di caratteristiche complesse della mente quali la gentilezza,
l’umorismo, la spietatezza, la socievolezza, l’altruismo, l’amore materno e l’autoconsapevolezza
(Carter, 1998, p. 6).
L’“uomo-uno” tutto cervello e senz’anima è però passibile di essere “uomo-due” normale o
anormale. È uno sul piano dell’osservazione; è due quando lo si giudica. Il sapere delle
neuroscienze è neutro, ma mette a disposizione categorie di giudizio dai valori assoluti spendibili
nei processi giudiziari e come parametri per le decisioni politiche. Elimina lo spazio intermedio
per trasformare i termini che si trovano ai due estremi in un’opzione secca, necessaria,
obbligatoria, senza residui e che soprattutto elegga una e soltanto una delle due opzioni.
L’epistemologia delle neuroscienze tende a coincidere con l’applicazione fino al punto che è
soltanto quest’ultima che produce il fondamento della ricerca. Scrive ancora Rose: «il cervello
neurochimico viene conosciuto proprio nello stesso processo che crea le procedure di intervento
per manipolarne il funzionamento» (Rose, 2008, p. 315).

«Sé neurochimici»

La convergenza tra neuroscienze e governance si palesa dai nuovi concetti neuroscientifici e


biotecnologici della personalità. Per esempio da quelli che Rose chiama «sé neurochimici».
Quella del sé neurochimico è un’idea centripeta dell’umano. Ciò che determina quest’ultimo e che
lo definisce normale o anormale sta esclusivamente dentro di sé, o meglio dentro il cervello. Tutto
ciò che è anche esterno: linguaggio, cultura, ambiente non conta essenzialmente. L’uomo
animale-politico, l’uomo-costellazione e tutte le definizioni centrifughe dell’umano sono
archiviate nella prospettiva neuroscientifica. Ma perché allora parlare ancora di “sé”? Perché
indicare con una parola spirituale / mentale quello che l’approccio neuroscientifico e biomedico
vuole proprio eliminare? Il paradosso delle concezioni della personalità neuroscientifica è quello
per cui proprio nel momento in cui dissolvono quello che ritengono essere il sé metafisico e
spirituale ne definiscono uno altrettanto forte e astratto. La differenza è che a questa definizione
neuroscientifica, tutta nelle mani dei medici, l’individuo oggetto della definizione non partecipa.
È a questo punto entra in gioco la (bio-)politica. Ma essa ora non è più l’elemento che inerisce la
forma-umana, ma lo strumento che serve a far stare dentro il format prestabilito dagli standard
neurobiologici l’uomo cocktail chimico e cerebrale, a definire anormale chi presenta standard che
non stanno dentro il format. Il politico della prospettiva neuroscientifica, come reclama
esplicitamente il titolo del libro di Rose, ha un significato gestionale, amministrativo ed è dunque
più propriamente, ancora, governance. L’idea dei «sé neurochimici» è anzi proprio un prodotto
dell’azione reciproca di neuroscienze e governance. Il sé neurochimico non è un dato di partenza,
né un punto d’arrivo, ma un effetto che riamane dentro il legame neuroscienze/governance. Non
problematico da definire, grazie ai parametri misurabili, il sé neurochimico è un’idea di soggetto
tanto forte ideologicamente quanto irrilevante scientificamente perché non aggiunge nulla a quella
di cervello. Un concetto che soprattutto non si stacca mai da ciò che lo produce e cioè dall’azione
delle neuroscienze stesse. Il prodotto di una governance così dettagliata da inverare, oltre le
previsioni, quella che Foucault chiamava microfisica del potere. Quella delle acquisizioni delle
neuroscienze, con l’azione combinata della biomedicina, dell’industria neuro-farmaceutica e dei
protocolli della sanità pubblica è una governance che spinge gli individui stessi ad assoggettarsi, a
gestire il proprio patrimonio biochimico, a stare nei parametri che il macro-potere ha prestabilito.
[R]itengo che un senso neurochimico di noi stessi si stia sempre più sovrapponendo ad altre, più
vecchie concezioni del sé e vi si faccia appello in particolari contesti e situazioni, con
conseguenze significative. Gli stessi individui e le loro autorità – medici di base, infermieri,
maestri, genitori – stanno cominciando a ricodificare i cambiamenti dell’umore, le emozioni, i
desideri, i pensieri in termini di funzionamento della loro chimica cerebrale e ad agire su se stessi
alla luce di tale visione. Concepire il mondo in tale maniera significa immaginare che il disturbo
risieda nel cervello individuale e nel suo funzionamento e vuol dire considerare i farmaci
psichiatrici come una prima linea di intervento, non semplicemente per alleviare i sintomi, ma per
regolare e gestire queste anomalie neurochimiche. […] È […] importante essere consapevoli della
vasta portata del cambiamento in virtù del quale tali farmaci stanno divenendo fondamentali per il
modo di governare la nostra condotta, da parte di noi stessi e degli altri. […] Nel campo della
salute, il cittadino attivo e responsabile deve impegnarsi in un perenne monitoraggio, in un
incessante lavoro di modulazione, aggiustamento, miglioramento in risposta alle mutevoli
esigenze delle pratiche della vita quotidiana. Allo stesso modo, le nuove tecnologie farmaceutiche
e psichiatriche per il governo dell’anima obbligano l’individuo a dedicarsi a una costante gestione
del rischio, a sottoporre a un permanente vaglio umore, emozioni, e cognizioni in un sempre più
raffinato processo di autoanalisi (Rose, 2008, pp. 345-6).
Se Foucault poteva ancora vedere il controllo biopolitico mediato dalle istituzioni statali, ora, e
proprio con le neuroscienze, il controllo biopolitico tende a situarsi nella stessa procedura di
conoscenza, nell’amministrazione dei dati che quest’ultima produce e negli stessi individui che la
applicano a se stessi. A questo stadio il controllo è autocontrollo che può tendere a rimpiazzare
«la casualità del processo evolutivo con una autodiretta re-ingegnerizzazione della natura umana»
(Mauron, 2005, p. 67).
Nella prospettiva delle neuroscienze e delle biotecnologie l’uomo ha in comune con gli altri
uomini e gli altri animali la mera e apolitica dimensione del vivente, del materiale biologico.
L’esterno all’individuo non è mai a quest’ultimo essenziale per definire la sua specifica umanità.
Essa è invece definita dai quei più e meno di valori biochimici e neurologici interni alla sua
individualità. Nell’indifferenziata dimensione del vivente, come individuo l’uomo è un
predeterminato, un predestinato e come tale può sviluppare soltanto ciò che ha nel suo patrimonio
genetico e cerebrale. Non gli serve pre-vedere quale sviluppo possa avere la sua vita, perché
prevedere implica una proiezione di sé esterna, una distanza, un’espansione che porta alla luce
uno spazio intermedio. L’uomo neuroscientifico può invece pre-venire come si è detto. Forte delle
certezze fattuali osservate dalle neuroscienze, può e anzi dovrebbe decidere di non percorre la
distanza fra la mera predisposizione a certe caratteristiche della sua specifica porzione di umanità
e il tempo in cui tali caratteristiche si verificheranno fattualmente. Oppure sempre seguendo il
modello preventivo, egli può / dovrebbe potenziare soltanto le sue predisposizioni positive senza
perdere tempo a cercare di svilupparle soltanto attraverso l’esperienza e in concerto con altre
caratteristiche la cui predisposizione non è altrettanto positiva. Spingendo indietro a prima della
nascita la prevenzione, le neuroscienze e le biotecnologie possono trasformarsi in eugenetica. Non
il semplice intervenire su casi in atto come può essere l’aborto terapeutico ad esempio, ma
eliminare sul nascere ogni potenzialità di sviluppo di caratteristiche che debordano gli standard di
normalità o anormalità prestabiliti. Prima di nascere saremo già normali.
La reductio della previsione a prevenzione e dunque della fase di studio e proiezione esterna delle
caratteristiche neurologiche e biochimiche all’applicazione dell’intervento farmacologico o
minichirurgico si coglie ad esempio dal protocollo del 2002 dell’American Psychiatric
Association, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders e precisamente nella sezione
Neuroscience Research Agenda to Guide Development of a Pathophysiologically Based
Classification System:
Nostro obiettivo è tradurre la ricerca neuroscientifica, di base e clinica, relativa alla struttura e al
funzionamento del cervello e al comportamento in una classificazione dei disturbi psichiatrici
fondata sull’eziologia e sulla fisiopatologia. […N]oi ipotizziamo che saranno scoperti singoli geni
che disegneranno la mappa di specifici disturbi cognitivi, emotivi e comportamentali, ma che non
corrisponderanno esattamente alle entità diagnostiche attualmente definite. Piuttosto, si scoprirà
che specifiche combinazioni di geni possono essere in rapporto con costellazioni di anomalie in
molte funzioni a base cerebrale – fra le quali, ma non solo, la regolazione dell’umore, l’ansia,
percezione, l’apprendimento, al memoria, l’aggressività, il mangiare e il dormire, l’attività
sessuale – configurando così stati di malattia finora non riconosciuti. D’altro canto, si
identificheranno anche i geni che forniscono resilienza e protezione e verrà chiarito il loro
rapporto con i geni connessi alle malattie. Verrà definito l’impatto dei fattori ambientali
sull’espressione genica e sull’espressione fenotipica. Grazie agli sviluppi nelle tecniche di
neuroimaging, migliorerà la capacità di scoprire fenotipi intermedi. Tutto ciò porterà a nuovi
obiettivi terapeutici, più efficaci e specifici rispetto agli stati di malattia. Tramite analisi
genetiche e fenotipiche, sarà possibile prevedere la risposta terapeutica. La prevenzione delle
malattie diventerà un obiettivo realistico (pp. 70-1).
Interessante che il passo citato parli di «costellazione» ad un certo punto. E ciò proprio perché, al
di là dell’illustrare un certo collegamento fra certe patologie, «costellazione» così come
collegamento e contesto sono la dimensione prettamente umana e potenziale che la prospettiva
controllante delle neuroscienze sembra voglia eliminare. È forse istruttiva in tal senso anche
l’idea, finora non ancora realtà, dell’eliminazione degli effetti collaterali dai farmaci utilizzati per
il trattamento chimico delle disfunzioni cerebrali. Fra effetti collaterali e costellazione-uomo vi è
forse un legame che bisognerebbe indagare più attentamente. Sotto questo aspetto si potrebbe
cominciare a dire che gli effetti collaterali della neurofarmacologia non sono soltanto il portato
negativo di un non ancora perfetto intervento chimico sul cervello, ma la reazione di una
costellazione, di un insieme, qual è quello umano, alla sua parcellizzazione. Gli effetti collaterali
denunciano ancora che agire su una determinata componente non riesce completamente a
escludere le altre e, soprattutto, non riesce a escludere il collegamento fra esse. Forse l’uomo sta
proprio in tale collateralità che più l’intervento chimico vuole eliminare più esso riemerge. La
storia del Prozac, presunto anti-depressivo “pulito” e “intelligente” (come le bombe
ipertecnologiche delle guerre umanitarie odierne) insegna.
Curare non vuol dire necessariamente eliminare, guarire non vuol dire soltanto rimuovere la stessa
possibilità di ammalarsi.

Bibliografia

Agamben 2014
Agamben, Giorgio, Come l’ossessione della sicurezza fa mutare la democrazia, in «Le monde
diplomatique / il manifesto», 1, XXI, Gennaio 2014, pp. 20-21

Agamben 2005
Agamben, Giorgio, La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza, 2005
Agamben 1996
Agamben, Giorgio, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996

Agamben 1995
Agamben, Giorgio, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita I, Einaudi, Torino, 1995

Carter 1998
Carter, Rita, Mapping the Mind, Weidenfeld & Nicholson, London, 1998.

Delmas-Marty 2011
Delmas-Marty, Mireille, Hominisation, humanisation: le role du droit , in «La lettre du Collège de
France», 32, 2011

Trimble 1996
Trimble, Michael, Biological Psychiatry, Wiley, Chichester, 1996

Rose
Rose, Nikolas, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel XXI secolo, trad. it. di
Mario Marchetti e Giuseppe Pipitone, Einaudi, Torino, 2008

Mauron, Alex, The Choosy Reaper, in Embo Reports, 6, 2005

Marco Pacioni insegna Italian Literature e Italian Renaissance per lo USAC Program all'Universtà
della Tuscia a Viterbo. Ha curato in una nuova edizione La condanna a morte di Pietro Paolo
Boscoli di Luca della Robbia (Quodlibet, 2012). Collabora a "il manifesto", "Alias", "Alfabeta 2",
"Lo Straniero", "Cultura Commestibile".
Le bravate della Black Pedagogy
di Enrico Valtellina

Moritz Schreber Mentore di tata Lucia

Non è serio scrivere di cose che non si conoscono. Non ho la televisione, non la guardo da
decenni. Ho saputo qualche mese fa per caso dell’esistenza di tata Lucia, avendo visto una decina
di minuti del suo programma a casa dei nipoti. Il format è, come tante altre merci tossiche,
importato dagli Stati Uniti. Una tata raddrizza una famiglia disfunzionale in pochi semplici passi.
Intervento rigorosamente behaviorista: analisi comportamentale e suggerimenti strategici, di volta
in volta col bastone o la carota. Fuori luogo quindi ogni scrupolo di serietà, dieci minuti bastano
per intendere il necessario. Di seguito proveremo a individuare alcune delle tracce culturali che
fanno da sfondo alle tate televisive, imbarazzanti epigoni mediatici di quanto di peggio si è
pensato per imporre ordine e disciplina al mondo.
A inaugurare la storia del comportamentismo è stata la salivazione indotta dei cani di Pavlov, e
foche e cani e delfini vengono ammaestrati secondo i principi elementari che ne sostanziano gli
interventi: premio e punizione. John Watson è il padre del behaviorism americano, un suo
esperimento famoso ha dimostrato come in effetti la scienza del comportamento possa
condizionare le reazioni delle persone. Al piccolo Albert vennero mostrati alcuni animali e
oggetti, un cane, un topolino, un coniglietto, una scimmia, poi cotone, giornali infuocati, maschere
con o senza capelli. Lui si avvicinava fiducioso alle cose mostrategli. L’idea era di generare una
fobia in un bambino stabile, come riprova dell’efficacia del condizionamento. Alla vista del
topino veniva quindi associato il rumore fragoroso di un martello su un tubo, cosa che
naturalmente fece spaventare il piccolo Albert, che a seguire, alla sola vista del topino, si metteva
a piangere a dirotto. L’osservazione scientifica, oltre che la verifica empirica della veridicità dei
propri assunti, ebbe dall’esperimento accesso al fenomeno psicologico della generalizzazione, per
cui non solo la vista del topino innescava la crisi fobica, ma anche quella di qualunque cosa lo
evocasse, un cane peloso, una pelle di foca, la barba di una maschera di Babbo Natale, e financo il
ciuffo bianco di Watson stesso. In effetti ciò che l’esperimento dimostra è che un intervento
comportamentale può essere iatrogeno.
La storia del comportamentismo si trascina fino a oggi articolando in modo sempre più complesso
e macchinoso i suoi principi elementari e riduzionisti, ma esattamente in ragione dei suoi limiti
oggettivi ha continuato con successo a far proseliti. Mi occupo di autismo, tra le metodiche di
intervento è in corso da tempo una guerra senza esclusione di colpi che vede sui due fronti opposti
i professionisti di formazione psicoanalitica e quelli comportamentisti e cognitivo-
comportamentali. Se gli psicoanalisti sull’autismo hanno saputo dare il peggio di sé (quantomeno
la ego-psychology, famigerato e paradigmatico il libro di Bruno Bettelheim La fortezza vuota), i
comportamentisti non sono stati da meno. A Ivar Lovaas, la cui prima pubblicazione trattava della
somministrazione di terapia elettroconvulsivante a due gemelli autistici, si deve la codificazione
dell’intervento comportamentale per l’autismo, noto come analisi comportamentale applicata, che
si sostanzia in interventi intensivi (lo slogan è “precoce e intensivo”), fino a quaranta ore la
settimana di interazione individuale con un operatore. La fortuna del metodo procede dall’essere
strutturato sulle aspettative dei genitori (pretesa “scientificità” della “cura”, vantati esiti
miracolistici, presa in carico del figlio per tempi lunghi, liberando così del tempo di vita), che
investono tantissimo, in speranza e soldi, dando credito a quanto millantato dai suoi promotori.
Invero ho conosciuto persone umanamente eccellenti formate alle metodiche comportamentiste e
cognitivo-comportamentali, e i metodi valgono per lo più quanto chi li utilizza, non di meno,
dovrebbe sollevare qualche questione etica il fatto che pratiche stigmatizzate in quanto alienanti
per un bimbo normale vengano promosse spensieratamente per interventi su bimbi problematici.
A monte delle teletate c’è poi senz’altro lo strumento principe della normalizzazione nel
frenocomio ottocentesco, il metodo morale. Sappiamo da Michel Foucault, Gladys Swain, Robert
Castel e Jan Goldstein come la rivoluzione avviata da Pinel alla fine del diciottesimo secolo si
appoggiasse a due premesse cardine, la natura sempre parziale della follia (presupposto della sua
curabilità, attraverso l’appello a quanto di razionale residua nel malato) e il metodo morale
appunto, inteso come tecnica dialogica finalizzata a far rinsavire il folle. Abbozzato da Pinel,
sviluppato da Esquirol e codificato da François Leuret nel suo testo del 1840, Du traitement moral
de la folie, in quegli stessi anni il metodo morale diviene una risorsa pedagogica nel lavoro
pionieristico di Eduard Séguin, padre della pedagogia speciale, insignito del titolo di “apostolo
degli idioti”. Séguin, allievo di Itard ed Esquirol, ritiene che la prima cosa che un educatore debba
fare sia catturare lo sguardo del bambino. Nel suo testo del 1846, Traitement moral, hygiène et
éducation des idiots et des autres enfants arriérés, la chiave del successo nella relazione educativa
passa dalla conquista dello sguardo distratto dei piccoli “idioti”, e nello sguardo del Maestro
(psichiatra, tata) è inscritta una gerarchia, è lo sguardo di Dio. Il successo del programma di tata
Lucia mi costringe a riconoscerle un’attitudine notevole a catturare lo sguardo degli idioti.
C’è un’altra matrice del tatapensiero, nella sua dimensione ortogenetica, correttiva,
normalizzante, ed è la black pedagogy ottocentesca, il cui alfiere è stato Daniel Gottlob Moritz
Schreber, medico, docente universitario, ortopedagogista. Autore di best seller dell’epoca, tradotti
in molte lingue. La sua ossessione era la salute fisica della gioventù, era il tempo delle teorie sulla
degenerazione, il suo libro più famoso è sulla ginnastica casalinga, altri si occupano
specificamente delle modalità educative e correttive. Un’attenzione particolare era riservata da
Schreber alle modalità per prevenire nei giovinetti il ricorso alla masturbazione, al tempo
considerata psicogena. I suoi libri promuovono curiosi strumenti meccanici per mantenere dritte
gambe, schiene e spalle durante la lettura. Più famoso è al giorno d’oggi il meraviglioso libro di
suo figlio, Daniel Paul Schreber, Memorie di un malato di nervi. Morton Schatzman raccorda in
Soul murder (in italiano: La famiglia che uccide, per cui il presente articoletto ha rischiato di
chiamarsi La tata che uccide) le teorie educative del padre alla condizione del figlio, presidente di
corte d’appello d’un tratto piombato in una psicosi paranoica. Altro ideologo del “fate i bravi” è il
dottor Heinrich Hoffmann, insigne psichiatra e letterato, maestro di Alois Alzheimer, autore di un
libro per bambini il cui eroe è Der Struwwelpeter, Pierino porcospino, in cui a immagini semplici
corrispondono strofe in rima baciata, tanto graziose quanto agghiaccianti.

Sieh einmal, hier steht er,


Pfui! der S t r u w w e l p e t e r!
An den Händen beiden
Ließ er sich nicht schneiden
Seine Nägel fast ein Jahr;
Kämmen ließ er nicht sein Haar.
Pfui! ruft da ein jeder:
Garstger Struwwelpeter!

Oh, che schifo quel bambino!


È Pierino il Porcospino.
Egli ha l’unghie smisurate
Che non furon mai tagliate;
I capelli sulla testa
Gli han formata una foresta
Densa, sporca, puzzolente.
Dice a lui tutta la gente;
“Oh, che schifo quel bambino!
È Pierino il Porcopsino”.

Un’ultima divagazione sulla proposta teorica di tata Lucia, il metodo “fate i bravi”. Senza
scomodare Carl Abel e Sigmund Freud sui significati opposti delle parole originarie, “bravo” nelle
lingue europee è un termine sovraccarico, ne sono rimasti sensi che l’italiano ha perduto, ad
esempio, selvaggio è una delle valenze in francese, mentre il Diccionario de la Real Academia
così definisce “bravo” in spagnolo:

(Del lat. pravus, malo, inculto).


1. adj. valiente (esforzado).
2. adj. Bueno, excelente.
3. adj. Dicho de un animal: Fiero o feroz.
4. adj. Dicho del mar: Alborotado, embravecido.
5. adj. Áspero, inculto, fragoso.
6. adj. Enojado, enfadado, violento.
7. adj. coloq. De genio áspero.
8. adj. coloq. Suntuoso, magnífico, soberbio.
9. adj. coloq. desus. valentón.
10. m. germ. juez.

“Fate i bravi!” “Ecco, io faccio il Nibbio e te il Griso, guarda, arriva lo Sparafucile, digli di tirare
una scarabinata in testa a quella stronza della tata!”

Enrico Valtellina, di formazione filosofica, si occupa di disability studies, con particolare


attenzione per le disabilità relazionali, Con Pietro Barbetta ha curato l'edizione di Louis Wolfson:
Cronache da un pianeta infernale, Manifestolibri, 2014.
Il conflitto dell’immaginario nel tempo della Tata fallica
di Paolo Mottana

Pedagogizzazione integrale

Che fosse chiaro che andavamo incontro a una completa pedagogizzazione della vita sociale si
sapeva da diverso tempo (si confronti il testo di Massa, 1988). Ma forse non era chiaro all’epoca
quali sarebbero state le forme sottili e pervasive che un tale fenomeno avrebbe assunto. La
costruzione del soggetto ad opera di uno “sguardo” educativo sempre più continuo e assillante era
già tutta nell’Emilio di Rousseau, e Schérer lo aveva fatto notare in modo esemplare e
incontrovertibile (cfr. Schérer, 1976).
Ma oggi si guarda e si viene guardati in un cortocircuito perenne di etero e autosorveglianza. Un
fatto apocalittico che non ha certamente precedenti. Il modellamento sociale nella società
dell’ipercontrollo ha raggiunto livelli impensabili anche solo qualche decennio fa (se non nelle
fantasie futuribili più spericolate).
In verità, il “supplemento” educativo costituito dalla figura stessa di chi deve occuparsi di trattare
direttamente i soggetti in educazione, va rapidamente scomparendo, rendendosi del tutto
superfluo. Il dispositivo è radicalmente macchinizzato e funziona da sé, su tutti i piani.
Oggi la grande pedagogia, è sotto gli occhi di tutti, la fa la televisione e, subito dopo di essa, la
rete e gli altri grandi media. Insieme hanno colmato pressoché senza residui tutto lo spazio
dell’immaginario (cioè lo spazio all’interno del quale una mente libera poteva ancora provare,
prima dell’avvento di queste tecnologie, a fantasticare la propria differenza: oggi quella
differenza è soppressa). Diciamo che, oltre a un tempo-spazio totalmente dedito alla produzione,
circolazione e consumo delle merci (forma delle città, delle strade, degli edifici, dei veicoli, delle
relazioni sociali, dei flussi di comunicazione, ecc.), unico autentico valore del tempo presente
(fatto noto che viene da lontano ma che oggi ha a sua volta occupato ogni angolo disponibile del
pianeta, fino a esaurire in maniera pressoché totale ogni “resto” disponibile), è l’immaginario che
ci fa quello che siamo, un immaginario ipertrofico e ineludibile, la cui portata persecutoria
sembra ormai fuori da ogni possibilità di reversione.
Ma laddove ancora fino a qualche decennio fa un tale immaginario, già significativamente
lavorato da politiche dello straniamento e della manipolazione nella direzione però soprattutto
della riduzione della capacità critica e di un godimento totalmente simulato, poteva fruire di
alcune zone di relativa discrezionalità (lettura, confronto, condivisione collettiva), oggi le cose
hanno preso una piega che è al tempo stesso nettamente individualizzata e assolutamente
pervasiva. Una pervasività che svolge con accanimento una funzione potentemente pedagogica.
Una pedagogia che opera costantemente, giorno e notte, instancabilmente, attraverso una
moltiplicazione di forme sofisticate di manipolazione.

Vediamo qualche esempio caratteristico all’interno di quello che resta ancora oggi fuori di dubbio
lo strumento più potente e trasversale di infusione dell’immaginario e dell’ideologia, la
televisione.
Il virus dell’eccellenza

Uno di questi esempi, particolarmente maligno, è la diffusione molecolare dei talent. Il talent,
come è evidente, è un prodigioso dispositivo mediale che veicola ideologia allo stato puro: nel
talent i valori (si badi bene, valori) apparentemente obsolescenti della competizione,
dell’egoismo, del successo personale, della visibilità sono prepotentemente tornati alla ribalta
attraverso una raffinata operazione di lifting e di riqualificazione etica e estetica. Il talent, dietro
la confezione scintillante e una messa in scena accattivante e coinvolgente, magnifica la lotta a
coltello per sopraffare il vicino in un crescendo di mosse spettacolari che non risparmiano alcun
ambito del “fare”: dalla cucina alla danza, dall’arte alla letteratura, dalla moda alla musica e i
confini di una tale espansione sono illimitati. Di tutto si può fare un talent, ovviamente. Il segreto
straordinario di questo vero e proprio “ordigno” pedagogico sta nell’aver “alchemicamente”
riunito il potere spettacolare della sfida e della lotta allo spasimo (di uno contro tutti) con la
proclamazione dell’unico valore che conta: emergere facendo “fuori” gli altri.
Un valore che ha riguadagnato terreno ovunque, dopo il vistoso declino conosciuto nelle società
occidentali tra gli anni ’60 e ’70, e che macina allori ogni giorno di più, facendo leva sulle
frustrazioni di tutti coloro (e sono quasi tutti) che sentono la propria eccellenza non
sufficientemente valorizzata e sulla dubbia e ideologica campagna meritocratica, una delle armi
più micidiali per mettere a sacco le già immiserite difese del campo di una “cultura” attenta alla
differenza e all’equità.
Il talent è diventato l’arma “ammiraglia” di un’offensiva scatenata su tutti i fronti che, in virtù di
un’abile miscela di ricatto della crisi, ideologia dell’eccellenza e del “talento” appunto, inteso
soprattutto come chiave del successo personale, e meritocrazia utilizzata come grimaldello per
scompaginare ogni resistenza nel campo sedicente democratico (seminando un dubbio tanto più
efficace quanto meno esibibile), sta letteralmente disarcionando tutti gli ultimi avamposti di
un’idea altra della cultura, dell’essere, del divenire, attente alla differenza, alle debolezze, alla
condivisione e alla collaborazione, alla molteplicità e alle singolarità.
Il tramonto della cultura egualitaria e democratica è il risultato naturalmente di un insieme di
fattori (dalla scomparsa dei sistemi che, in qualche modo, li promuovevano, al fallimento delle
proposte politiche orientate a sinistra, alla mancanza di immaginazione di chi se ne faceva
propugnatore fino all’offensiva scatenata da un sistema di potere che è giunto a considerarsi del
tutto privo di antagonisti), ma è anche di certo stato veicolato dolcemente attraverso la
manipolazione sistematica prodotta dell’industria della comunicazione.

Il volto iperpedagogico dell’educastrazione


Su un altro versante, quello di natura più assistenziale (e l’assistenza, come pedagogizzazione
estesa del campo sociale, biopolitica, naturalmente è un altro dei grandi strumenti della
colonizzazione della vita quotidiana del corpo sociale), oggi vediamo scatenarsi una nuova grande
campagna di invasione, che è quella di una “consulenza”, che si chiama così anche perché
totalmente fagocitata dal linguaggio aziendale, orientata rigidamente al ristabilimento dell’ordine.
Di una tale politica, campione indiscusso della crociata televisiva, e dunque del suo successo, è
certamente la nota trasmissione SOS Tata e, all’interno di essa, la figura carismatica e
emblematica di Tata Lucia, l’icona ma meglio sarebbe dire il cascame, anche propriamente sul
piano dell’immagine fisica, di un universo pedagogico che avremmo voluto (e talora creduto)
abolito per sempre. E che invece si dimostra perfidamente sempre pronto a risorgere.
È vero che sono stati recentemente introdotti, al suo fianco, tate e tati giovani e dall’aspetto meno
sororale, e tuttavia il tratto di asciutta ruvidezza monacale, accoppiata al robusto approccio
fondato sul “buon senso” e su una certa sfacciata sbrigatività, il tutto sullo sfondo di un’affettività
ridotta ai minimi termini e del tutto prosciugata di ogni traccia di eros, è davvero un brand
inconfondibile che trova in Tata Lucia il modello insuperabile.
Nel suo corpo e nel suo volto, come nella sua voce e nel suo modo di fare, risorge perversamente
il carattere più ripugnante di un’intera cultura pedagogica, quella che purtroppo non
l’abbandonerà mai e in virtù della quale è ben comprensibile il discredito universale in cui versa
questa disciplina dalla triste figura: il volto, che si ritrova ad ogni piè sospinto in ogni istituzione
totale, dell’istitutrice, della caposala, della madre suora, della maestra castrante e anaffettiva, il
cui carisma è interamente edificato sulla negatività: mancanza di fascino, di eros, di calore, di
intimità. Il femminile svuotato e convertito, in virtù di un’operazione inversa, alla brutalità della
sua versione “paterna”: buon senso, efficienza, rigidità (Qualcosa di simile era già apparso nelle
vesti delle nonne insopportabili della pubblicità della candeggina Ace, e in effetti la funzione
della Tata Lucia è fondamentalmente una funzione “candeggiante”).
Cosa fa infatti la “tata”, riparandosi dietro il “candore” e la squisita inattualità del nome che la
riconduce, non a caso, al grande simbolo di un’educazione “supplente”? Qualcosa di strategico e
di nostalgico al tempo stesso: nel tempo della dissoluzione reale di ogni supplemento pedagogico,
la manipolazione dell’immaginario famigliare ricorre alla riattivazione (immaginaria) del
supplemento o meglio della “supplente” per antonomasia. Ma il termine “tata”, prelevato al
linguaggio dell’infanzia, che la individua in una casella libera dal dominio dei codici edipici
(mamma, papà), è anche un eufemismo per una funzione che in effetti intende non solo supplire
ma addirittura surrogare e ristrutturare le funzioni edipiche sprofondate in quella che da ogni parte
è denunciata come una catastrofica “crisi” (d’identità).
Nel tempo dei padri evaporati e delle madri “che lavorano”, i figli (e le famiglie, la cui funzione
resta comunque ideologicamente cruciale nel mercato delle merci), sono nel caos. La tata,
secondo un cliché che si ripete identico, interviene laddove l’esplosione della funzione castratrice
e normalizzatrice dell’edipo ha fatto cilecca e dunque, nel tempo del flusso e della liquefazione
relazionale, l’anarchia la fa da padrona. Il suo incarico: ristabilire l’ordine, cioè appunto l’edipo.

Il format della simulazione (più che evidente in tutta la grammatica degli episodi, sovrabbondanti
di finzione e di iperfinzione, dalle catastrofi casalinghe tragicomiche ai litigi enfatici, alle
interviste in simultanea con i vari personaggi che sono, come in ogni altro prodotto analogo,
chiaramente “recitate”), prevede sempre un’incursione pianificata relativamente “facile”, anche
perché deve diffondere la panacea ideologica del “buon senso” e della “ragionevolezza” (termini
dietro i quali si insedia, con tutto il suo armamentario di input e di output rafforzatori, una vetusta
quanto irrimpiazzabile pedagogia comportamentista).
Mai che vi siano davvero problemi seri (abuso o incesto, criminalità, lutti inelaborati ecc.): il
quadro, sempre abbastanza prevedibile ed eufemistico, che lusinga dunque l’identificazione di un
po’ tutte le famiglie mediocremente “latitanti”, è quello di un modesto caos, di una modesta crisi
dei ruoli e di una altrettanto modesta presa di potere degli infanti sugli adulti (già ben messa alla
berlina dal Moretti di Caro diario).
Su tutto questo l’impavida tata, con il suo faidate di banali istruzioni di “recuperazione”, si erge
infallibile e risolve letteralmente nel giro di pochi giorni. La fulmineità della soluzione,
palesemente poco credibile, rende tuttavia convincente la parata assai modesta dei mezzi
impiegati, ciascuno dei quali, nel tempo della totale impresentabilità di ogni pedagogia normativa,
svolge tuttavia una funzione incomparabile di commercio ideologico e di copertura delle insidie
che si celano in queste famiglie “capovolte” (per usare un’espressione meltzeriana).
In cosa si articola in definitiva l’azione tatesca? Nell’ordinare tempi e spazi, nel ristabilire
gerarchie, nel riparare separazioni: ripartire gli spazi e i tempi, contenere le defezioni dalle
cornici comuni, sedare l’indisciplina, ristabilire orari, catechizzare con decaloghi e misure
igieniche, rafforzare consegne e turni, ecc., secondo un codice che nulla ha da inviare a una
normale prassi militare.
All’insegna di un codice rigorosamente paterno e maschile, la tata, femmina o maschio che sia, si
impegna allo spasimo per bonificare la palude di un mondo precipitato nella nebbia oscura della
confusività femminile e infantile, per ristabilire l’ordine del Fallo, le cui immagini-guida sono la
luminosità, la gerarchia e la “diairesi” (secondo Durand, 1972). Le tate sono dunque, molto
sintomaticamente, le nuove reclute, equipaggiate in maniera relativamente poco psicanalese (per
non suscitare la diffidenza del volgo), ma che di fatto compiono le stessa gesta tanto apprezzate
dalla nuova cultura psica(lacan)analitica lanciata al riscatto di una paternità debole ma comunque
ben assestata sui suoi codici, sui suoi registri, sui suoi valori tradizionali.
Una volta che i pavimenti nuovamente risplendono, i giocattoli sono depositati nei loro
contenitori e le tavole ospitano un pubblico famigliare che gloriosamente cede la parola
all’interlocutore secondo il miglior galateo Della Casa, le tate, orgogliose del loro risultato,
possono sistemare i loro attrezzi nelle cassette e rientrare alla base.
La pedagogia mediale (specie quella visuale) è potente e semplicissima. I suoi mezzi non
debordano mai in gerghi difficili e non soffrono mai di un eccesso di specialismo (che spaventa il
“senso comune” della “gente”). Ricorrono a figure mediocri (nella tradizione della più bolsa
immagine della pedagogia cattolica), che parlano mediocremente e propongono soluzioni
mediocri ma efficaci (un tanto al chilo), funzionali comunque a rimpinguare le casse
dell’ideologia dominante: ristabilire l’ordine paterno del desiderio mentre, ovunque, un’economia
del tutto confusiva spadroneggia devastando ogni ultimo residuo di identità, distribuzione
gerarchica e separazione di ruolo.
Allo stesso modo in cui l’omelia religiosa eufemizza il tratto gladiatorio della prassi
evangelizzatrice o che la prolusione politica si appella ai valori della pace e della giustizia quando
palesemente il medesimo potere alimenta la spirale del conflitto e delle diseguaglianze, così, nella
grande pedagogia mediale, l’educazione ufficiale e dichiarata delle tate, col suo nostalgico appello
alle virtù dell’ordine paterno, maschera lo scatenamento di un’economia che sempre più si affida
alle leggi caotiche di un’entropia senza freno dove più si guadagna (chi è in grado di dominare il
meccanismo) quanto più si distrugge. Quella che trova i suoi eroi nei protagonisti sempre più
esagitati dei talent.

Nuova resistenza?
Naturalmente si tratta di due casi “esemplari” all’interno di un movimento complesso e articolato
di manipolazione dei codici comunicativi in cui, a fronte delle proclamazioni retoriche più astratte
e fallimentari, si procede a una campagna di occupazione more militari dell’immaginario, il
territorio sul quale, attraverso strategie di storytelling (Citton, 2010) sempre più sofisticate, si
gioca di fatto la battaglia politica più determinante ai nostri giorni.
La demolizione progressiva di un campo che, negli anni ’60 e ’70 aveva fatto balenare, seppure
per frammenti e in modo poco organizzato, bagliori di una civiltà a venire aperta autenticamente
alle differenze, in grado di metabolizzare con un’accoglienza non decorativa l’estraneo e il
perturbante, una civiltà in cui fossero ribaltate le logiche del dominio e delle diseguaglianze.
Ebbene una tale demolizione può oggi servirsi di un apparato di risorse tecnologiche
estremamente pervasive e in grado di disinnescare ogni possibilità di resistenza.
E tuttavia, pur nell’evidenza della disfatta, è questo il campo ove appare più che mai necessario
immaginare se non elaborare un qualche tipo di resistenza, che deve imparare a forgiare nuove
armi e una sensibilità superacuta per non essere rapidamente metabolizzata e “recuperata” e che
deve, comunque, ostinatamente, anche attraverso una politica di propri “ipergesti” (Citton, 2012),
indirizzati a far irrompere un’altra scena, provare a renverser l’insoutenable (capovolgere
l’insostenibile).
È indubbio che, proprio per la qualità accattivante, seduttiva e tentacolare della nuova offensiva
spettacolare, occorra innanzitutto affinare una sensibilità in grado di riconoscere le mosse di un
nemico che si sta riassicurando, attraverso un massiccio dispiegamento di risorse “morbide”
(anche nel senso francofono della parola), una per una, tutte le poste di una nuova formidabile
normalizzazione sociale orientata ad azzerare quanto più a lungo possibile la possibilità di
un’alternativa. L’ideologia del lavoro, del mercato, della realizzazione personale, individuale, del
successo e del denaro è tornata ad affacciarsi più feroce che mai e modula i suoi interventi su tutti
i pubblici, tutte le fasce di età, senza che vi corrisponda un sufficiente allarme e una sufficiente
mobilitazione da parte di chi la ritenga catastrofica e distruttiva.

Il terreno della comunicazione, della costruzione dell’immaginario, delle narrazioni, è un terreno


cruciale, rispetto al quale occorre apprestare sensibilità scaltrite, tecnicamente attrezzate, in grado
di avvedersi dei segnali di scivolamento su chine distruttive e omologatrici e al contempo di
apprestare strumenti in grado di controbattere sul medesimo livello.
In questa prospettiva il ruolo dell’educazione è per esempio assolutamente nevralgico, anche
perché l’offensiva su questo terreno è articolata e massiccia. La guerra stabile che si sta svolgendo
in questo ambito annovera diversi fronti di attacco, per quanto riguarda le manovre dei centri di
potere: da un lato c’è una percussione progressiva che ha come fulcro le nuove politiche
dell’istruzione che, facendo leva sullo lo scenario della penuria e della crisi, appaiono sempre più
violentemente indirizzate a far prevalere le ragioni del mercato, intimando di sloggiare a ogni
comportamento come a ogni sapere che non si dimostri all’altezza delle attese degli attori
economici e degli speculatori e che dunque misura ogni tessera degli apparati formativi
esclusivamente con il metro della redditività e della calcolabilità.
Dall’altro, come abbiamo visto seppure per esempi e per cenni, vi è un impegno capillare di
modellazione dell’immaginario di bambini e ragazzi con un ipertrofico martellamento del mito
del successo individuale e di una mai così florida (e paradossale) propaganda intorno ai valori
della famiglia, del lavoro e della sicurezza.

Bombardare infanzia e adolescenza

La macchina ideologica del capitalismo “assoluto” con il quale abbiamo a che fare è più che mai
scatenata, potendo confidare in modo smaccato sul ricatto della crisi, prodotta e utilizzata proprio
per demolire ogni residuo di resistenza, per togliere credibilità ad ogni alternativa, per azzerare
ogni pretesa di stabilire nuove mete, nuovi valori, nuove prospettive che non siano quelle di un
obbligatorio ritorno alle regole di un sistema di potere che decide tempi modi e forme della vita di
ciascuno fin nelle pieghe più riposte della propria intimità. Un’intimità che peraltro vive, come
tutti sappiamo bene sulla nostra pelle (e, si badi, non tanto per i social network quanto per la
psicologizzazione integrale delle nostre vite), il tempo drammatico della sua definitiva
scomparsa.
In questo quadro si riconoscono con chiarezza le politiche che hanno nella loro mira il dominio
psicologico e ideologico sull’infanzia e l’adolescenza: politiche di ipersorveglianza, di
prevenzione radicale, di privatizzazione che stanno prendendo primariamente di mira i più
giovani, vera posta in gioco di ogni grande strategia di potere. Così i bambini scompaiono
completamente dal mondo attivo per divenire esclusivo oggetto di progettazione microfisica e
micropsichica: in particolare attraverso strategie complesse di diagnosi e cura, di coltivazione e
protezione, di inserimento forzoso all’interno di percorsi rigidamente programmati, nei quali è
svanita ogni possibilità di deriva, di differenza, di fuga foss’anche quella della marginalità o della
devianza.

Gli adolescenti vengono presi poi particolarmente di mira (anche perché forse più riottosi),
attraverso continue ispezioni e denunce volte a porne in luce debolezze, idiosincrasie,
vulnerabilità che servono a rafforzare le azioni di trattamento psico-educativo ma che
evidentemente adempiono la funzione di respingerne la ritrosia a farsi assorbire dalla imperiosa
domanda di allineamento al nulla che il mercato gli prefigura. Così adolescenti e bambini
condividono l’infausta condizione di chi è costantemente posto sotto assedio nella forma di
continue quanto implacabili diagnosi psicologiche cui segue una mobilitazione in grande stile di
risorse per interventi capillari di riadattamento, conformizzazione, restituzione ai circuiti della
razionalità calcolante e produttiva.
Ciò si realizza, occorre sottolinearlo ancora una volta, in specie a fronte dell’ambigua e spesso
positiva accoglienza che si tributa a questo genere di politiche, soprattutto attraverso
un’incessante pioggia di processi di valutazione, selezione, verifica, controllo di cui è impossibile
non leggere l’implacabile significato antropologico e politico. Ovunque bambini e ragazzi sono
sottoposti a sondaggi, test, diagnostici, ricerche per poterne meglio manipolare il reinserimento
nella media dei comportamenti previsti e per poterne meglio profilare le nuove forme di
asservimento.

Ribaltare l’insostenibile
Tutto questo appartiene, e ne è solo un rilievo estremamente parziale, all’insostenibile. E
l’insostenibile va combattuto, senza se e senza ma. Ma come?
Personalmente non sono del tutto convinto che le politiche del quotidiano, le scelte anche di
massa critica per spostare il peso delle preferenze e della distribuzione delle risorse, possano da
sole destabilizzare o addirittura invertire un processo delle dimensioni e soprattutto della
pervasività cui ci troviamo di fronte. Chi ritiene, come io ritengo, che non ci sia più tempo per le
buone pratiche soltanto e che occorra impegnarsi per contrattaccare con un immaginario
all’altezza di quello messo in atto con tanta potenza dai grandi mezzi della pianificazione socio-
economica, deve cominciare a essere più radicalmente impegnato su molti terreni.
A cominciare da quello dell’educazione, per quel che mi riguarda, dove occorre far letteralmente
“saltare” ogni giustificazione e ogni rinforzo a un dispositivo come quello scolastico che sempre
di più dimostra di essere soltanto uno dei tasselli, forse uno dei più imprescindibili, attraverso i
quali si riproduce l’ordine delle cose esistenti. La scuola è inservibile, anzi è probabilmente il
luogo in cui la campionatura e la selezione della risorse (umane), l’infiltrazione ideologica e la
lotta contro la cultura oggi appare più efficace e perniciosa, anche in virtù di un’ingegnerizzazione
e di una riduzione progressiva dell’immaginario umanistico all’interno delle sue mura.
Occorre dunque una battaglia senza quartiere per immaginare e proporre un’altra educazione, in
cui la libertà, l’autodeterminazione, il libero accesso alle informazioni, il corpo, il desiderio, la
creatività accuratamente devoluta al possibile e non al programmato siano gli unici autentici
motori di ogni divenire. Occorre ribaltare le posizioni che impediscono di accedere al sapere,
quello utile come quello lussuoso e però prezioso per l’immaginazione e per un’affermazione
vitale finalmente riscattata a ogni costrizione fondata sul ricatto della penuria, così come è
sicuramente doveroso elaborare luoghi, tempi, modi per esercitare l’esperienza di conoscere in
maniera tale che quell’esperienza costituisca una premessa indispensabile per far scaturire il
desiderio impellente di altra conoscenza, di altra esperienza.
Le scuole, con la loro ideologia così profondamente radicata nella carne delle loro strutture e dei
loro discorsi, nei loro muri come nei loro manuali, nelle classi come nelle procedure valutative,
producono solo assuefazione al peggio, disinteresse e anestesia. Occorre liberarci di questi
ferrivecchi una volta per tutte e immaginare un territorio di possibilità virtuose di esperienza, di
incroci e di flussi che consentano a bambini e ragazzi ma anche agli adulti, di reimmettersi nel
grande movimento di generazione e di scambio di sapere.
Luoghi autentici e non fittizi dove scoprire, agire, creare, esprimere, essere iniziati, non cliniche
di una materia mortificata e incapace di sollecitare alcuna attenzione che non sia già quella obesa
e servile di chi non ha più nemmeno l’energia di immaginare qualcosa di diverso.
Nell’esperienza di quella che non si può che definire, allo stato delle cose, che una
controeducazione (Mottana, 2012), occorre restituire uno spazio massiccio alla sperimentazione
del desiderio, della espressività corporea, all’esercizio del piacere, alla sessualità, alla creatività
poetica e all’immaginazione, all’intelligenza del possibile, all’alleanza rinnovata con tutte le
forme di vita, alla reciprocità comunitaria e al lusso della deriva, del rallentamento,
dell’isolamento riflessivo e meditativo. Occorre denunciare la falsa contrapposizione tra un luogo
del fare sfruttato (lavoro) e un luogo del simulare altrettanto sfruttato e sorvegliato (scuola).
Immaginando piuttosto una fluidificazione tra esperienze già pienamente restituite alla
circolazione sociale reale e momenti di sottrazione per tutti, non solo per i soggetti in crescita,
ratificando anche la fine di quella separazione che sancisce il fatto dubbio che esista un tempo
decisivo e unico per la crescita e il cambiamento.
Occorre mobilitarsi, su tutti i fronti, da quelli dell’immaginario a quelli dell’iniziativa concreta,
per rivendicare un’educazione dionisiaca, vitalista ma anche attenta alla cura della
contemplazione e dell’introspezione, della cura dell’altro e di sé, del piacere e di un fare
finalmente come adempimento profondo, un agire desiderante, un operare per il bello e per il
meglio in solidale collaborazione e reciprocità.
Esiste un enorme repertorio di esperienze educative, un giacimento di gemme scintillanti a cui
attingere per ripristinare il piacere di essere qui e ora, di imparare e di fare, dalle tipografie
freinetiane alla coltivazione biodinamica steineriana, dal giardino epicureo alle comunità di
ricerca scientifica pluridisciplinare secondo l’idea conviviale di Ficino, dal laboratorio alchemico
all’officina artigiana, dalla scuola di arti marziali al tiaso saffico, dal microcosmo montessoriano
all’antiscuola di don Milani, dai vagabondi di Deligny alle bande foiurieriste, ecc.
Insomma un pluriverso da cui ripescare suggestioni e indicazioni per riattivare il circuito virtuoso
dove il fare, la vita, l’imparare non siano più mondi separati e susseguenti ma un unico organismo
plurale e sensibile cui ogni autentica esperienza di vita deve mirare. Luoghi che ospitino la
molteplicità e la variazione, il flusso e la singolarità, la differenza e la ripetizione, secondo un
nuovo calendario che bandisca la lotta di tutti contro tutti e l’eccellenza sulla pelle degli altri,
delle cose, delle molte vite di cui ciascuno di noi non è che uno straordinario quanto effimero
bagliore.
Mescolanza e inversione dei ruoli (adulto, infante, maestro, allievo e così via), fluidificazione
delle posizioni, meticciamento dei generi e proliferazione delle formule (maschile, femminile,
queer, trans, monogini, poligini, onnigini e così via), secondo una legge che faccia del possibile e
dell’inusitato il criterio fondamentale di orientamento, consentendo tuttavia a ognuno anche di
battere le vie note o di scegliere posizioni di ritiro o di ripetizione.
Famiglia, scuola, coppia, identità, individuo, parola, lavoro restano i grandi feticci di una società
ingiusta e violenta: proprio nel tempo della loro rinnovata celebrazione nell’industria
dell’immaginario, essi devono essere senza tregua criticati e ridimensionati, abbattuti e
reinventati e, con essi e prima di essi, vanno denunciate anche tutte le narrazioni, le manipolazioni
del nostro immaginario che le battezzano come forme uniche e senza via di uscita intorno a cui
edificare le nostre sorti progressive.
Al contempo occorre operare alla costruzione di narrazioni proprie, di storie, di costellazioni
immaginarie, di azioni inattese sotto forma di “ipergesti”, cioè di gesti di rivolta che risveglino
altri gesti, gesti che si mostrino, che avviino una catena di movimenti, di spostamenti, come il
gesto di lanciare un sasso o di brandire un manifesto di ribellione nella primavera tunisina nel
momento in cui, attraverso la diffusione della loro immagine, hanno innescato altri gesti analoghi.
Atti di “terrorismo poetico”, direbbe Hakim Bey (2008), capaci di creare una rottura
nell’assuefazione e al contempo di scatenare la tempesta sempre repressa dentro a ciascuno in
quanto portatore di desiderio, di affermazione, di volontà di potenza.
A tutto questo un pensiero autenticamente controeducativo, alimentato dall’immensa filosofia e
esperienza accumulatasi nel tempo nei gironi più periferici ma più vitali della storia, può offrire
un contributo decisivo, insurrezionale ma anche rivoluzionario, teso a disfarsi quanto più a lungo
possibile di quella intimazione alla rassegnazione e alla guerra di tutti contro tutti che ogni fonte
di comunicazione, oggi, nel tempo del capitalismo compiuto, irremovibile e apparentemente
definitivo, proclama senza requie come l’unico vangelo.

Bibliografia

Bey 2008
Bey, Hakim, T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome, trad.it. Shake, Milano, 2008

Citton 2010
Citton, Yves, Mythocratie. Storytelling et imaginaire de gauche, Amsterdam, Paris, 2010

Citton 2012
Citton, Yves, Renverser l’insoutenable, Seuil, Paris, 2012

Durand 1972
Durand, Gilbert, Le strutture antropologiche dell’immaginario, trad.it. Dedalo, Bari, 1972

Massa, 1988
Massa, Riccardo (a cura di), La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli,
Milano, 1988

Mottana 2012
Mottana, Paolo, Piccolo manuale di controeducazione, Mimesis, Milano, 2012

Schérer 1976
Schérer, René, Emilio pervertito, trad.it. Emme Edizioni, Milano, 1976

Paolo Mottana è professore ordinario di filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano


Bicocca. Da anni si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia ed educazione. Scrive un blog
dal titolo Controeducazione nel quale sviluppa una politica culturale all’insegna
dell’affermazione vitale dei soggetti in formazione e in conflitto con le pratiche di
disciplinamento diffuse nelle agenzie di formazione istituzionali. Tra le sue pubblicazioni:
Formazione e affetti (Armando, 1993); Miti d’oggi nell’educazione. E opportune contromisure
(Angeli 2000); L’opera dello sguardo (Moretti e Vitali, 2002); La visione smeraldina.
Introduzione alla pedagogia immaginale (Mimesis, 2004); Antipedagogie del piacere: Sade e
Fourier e altri erotismi (Angeli, 2008); L’immaginario della scuola (a cura di, Mimesis 2009);
Eros, Dioniso e altri bambini. Scorribande pedagogiche (Angeli, 2010); Piccolo manuale di
controeducazione, (Mimesis, 2012), Cattivi maestri. La controeducazione, di Scherer, Vaneigem,
Bey, Castelvecchi, 2014).
BLOB. L’emorragia dell’immaginario
di Alessandro Siciliano

Lo dico sinceramente, non considero niente di più feroce della banalissima televisione.
P. P. Pasolini

«L’idea che la superficie è il livello del superficiale è pericolosa» (Lacan, 2002, p. 594). Il
materiale di interesse per lo studioso dell’inconscio è già lì sotto gli occhi, non è necessario
supporre profondità dell’umano da cui proverrebbero intenzioni, desideri e spinte primordiali, il
tutto celato sotto pesanti strati di Civiltà. Non che non sia valida questa interpretazione, ma
sappiamo che troppo spesso il linguaggio ci frega, il desiderio fa capolino mentre pensiamo di
essere padroni del nostro parlare. Formazioni dell’inconscio le ha chiamate Jacques Lacan. Il
discorso umano è lì davanti a noi. Semmai si tratta di indagare le pieghe, ciò che sfugge
rapidamente sotto al naso. Interrogare gli equivoci del linguaggio, guardare la superficie, amare le
banalità e l’acqua calda. In questo senso, credo che sia ancora importante interessarsi alla
banalissima televisione evocata dalle parole di Pasolini.
Nel 1989, l’allora dirigente di Rai3 Angelo Guglielmi, Enrico Ghezzi e una squadra di autori e
critici cinematografici coniano una metafora di successo: la TV come Blob – Fluido mortale, film
horror fantascientifico del 1958. Nel film, il Blob è una creatura informe e gelatinosa che invade
la Terra, si insidia nelle abitazioni e nei luoghi umani attraverso i condotti di aerazione e attacca
gli uomini. Secondo Ghezzi e collaboratori, la televisione italiana del ‘89 era già di questa natura.
Penetrata nelle case degli italiani - nei salotti prima, nelle sale da pranzo poi - senza fare rumore,
si è diffusa nello spazio vitale e ha aperto un buco nella realtà umana, da cui sgorga, deborda
un’altra realtà puramente immaginaria. Tale nuova realtà immaginaria, nella sua mollezza e
plasticità, ha avvolto lo schermo tramite cui facciamo esperienza del mondo fuori di noi - in
primis il nostro linguaggio - rendendo la cultura stessa gelatinosa, non più strutturata e
strutturante. L’immagine della liquidità che ben si adatta ad assumere la forma imposta dai
contenitori esterni, senza opporre resistenze, è ancora oggi molto utilizzata per comprendere lo
spirito del tempo.
Nella realtà interna alle mura domestiche esiste il trono del televisore. Dalla cornice di questo,
che nel tempo si allarga sempre più, si diffonde il mondo, così come nel Videodrome di David
Cronenberg si diffonde la nuova carne. Il film di Cronenberg del 1983 è un riferimento d’obbligo
in questo contesto, una importante riflessione sul ruolo dispotico della realtà televisiva e sulla
mutazione antropologica conseguente all’avvento di questo nuovo Altro. Il prof. Brian O’Blivion,
una delle figure principali del film, che rifiuta di apparire di persona nei talk show televisivi ma
solo all’interno di uno schermo, così tuona: «La lotta per il possesso delle menti, in America,
dovrà essere combattuta in una videoarena, col videodrome. Lo schermo televisivo, ormai, è il
vero unico occhio dell'uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura
fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo
emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la
realtà e che la realtà è meno della televisione».
Davvero ineccepibile qui O’Blivion, simbolo di Marshall McLuhan. Lo schermo televisivo come
nuovo occhio, nuovo cervello. La forza del film sta nel tentativo del regista di concretizzare la
metafora, portandola alle estreme conseguenze. L’immaginario televisivo, di cui nel film è
evidenziata la quota di violenza e crudeltà, secondo Cronenberg non è uno spettacolo che termina
quando la TV è spenta. Esso buca il linguaggio e prende il corpo, trasformando l’essere umano in
nuova carne, rappresentazione più efficace del biopotere.
Ma cosa significa dire che la realtà proveniente dalla televisione è puramente immaginaria? Che
mondo è quello presentato in TV? Nel suo L’epoca dell’inconshow (2012), lo psicoanalista Franco
Lolli descrive le modificazioni della società e dei nuovi legami sociali nell’epoca della caduta
dell’Edipo, come funzione normativa che struttura la realtà umana, e della disarticolazione dei
consueti riferimenti simbolici.
La tesi di Lacan, che Lolli utilizza come lente sullo «sciame» post moderno, è la seguente: la
realtà umana è costituita da una rete in cui si intrecciano i fili di due registri dell’esperienza
umana, l’immaginario e il simbolico. Attraverso questa rete possiamo decifrare il mondo fuori di
noi, strutturarlo e fornirgli un senso condiviso dalla comunità. L’immaginario è il registro delle
relazioni affettive con il mio simile, il luogo dove Io (che è sempre anche altro, Je est un autre)
mi confronto con l’immagine dell’altro. Amore e odio, idealizzazione e svalutazione si alternano
nella misura in cui l’altro mi restituisce o meno un’immagine ideale. L’immaginario è la
dimensione in cui origina l’odio fra fratelli per il possesso dell’oggetto amato, così come l’amore
narcisistico - entrambi a ben vedere votati all’annientamento dell’alterità nell’altro.
L’immaginario è in definitiva il luogo dello Specchio, il luogo dell’anelito mortifero della
coincidenza con la propria immagine ideale, così come narra il mito di Narciso. Impossibile
pensare alla comunità, al legame sociale e alla possibilità di costruire un mondo fintanto che non
interviene qualcosa che pacifichi, che «bonifichi» questa dimensione. È questo il compito del
registro simbolico, sinonimo di ordine culturale, linguaggio, legge simbolica. Il simbolico è testo,
trama, ciò che può fornire un senso altro, costruttivo, alla vita umana. Dal momento in cui l’uomo
è preso nel linguaggio, si delinea per lui uno snaturamento originario. Il linguaggio, la logica del
significante, corrisponde alla struttura in cui la vita umana è catturata sin dall’origine e ‘sollevata’
nell’ordine culturale delle cose; perduta è la supposta istintualità e coincidenza con sé stessi, il
tutto da ricercare nelle narrazioni, nel linguaggio.
Dunque ci sono le immagini e c’è il testo, o meglio ancora, i testi. Scrive Gunther Anders: «il
fatto che si invita l’uomo d’oggi, dappertutto e con tutti i mezzi della tecnica riproduttiva – con
giornali illustrati, film, trasmissioni televisive – a contemplare immagini di tutto il mondo,
quindi, apparentemente, a essere partecipi del mondo intero (o di ciò che deve passare per «mondo
intero»); e che lo si invita tanto più generosamente, quanto meno gli si permette di ficcare lo
sguardo negli ingranaggi del mondo, quanto meno gli si concede di prender parte alle decisioni
capitali che riguardano il mondo; che gli si «imbottiscono gli occhi», come è detto in una fiaba
mollusica, cioè gli si dà tanto da vedere quanto meno gli è consentito di mettere bocca; che la
«iconomania», alla quale è stato educato mediante tale sistematica inondazione di immagini,
presenta già oggi tutte quelle spiacevoli caratteristiche che siamo abituati a collegare con l’idea
del voyeur, presa nel suo senso più limitativo; che le immagini comportano sempre il pericolo, e
tanto più se invadono il mondo, di diventare strumenti di rimbecillimento, perché, per principio,
in quanto immagini – a differenza dei testi – non fanno vedere i nessi ma sempre soltanto avulsi
brandelli di mondo: quindi, mentre mostrano il mondo, lo nascondono» (Anders, 2006, p. 13, in
Lolli, 2012, p. 35).
A cosa assistiamo oggi? Il simbolico e l’immaginario «si sfilacciano». Nella società post edipica
il simbolico si sgretola, si infiacchisce. L’idea di Lacan è allora che quando il simbolico viene
meno, perde forza, quando la trama narrativa che dà forma alla realtà si indebolisce, «si smaglia»,
l’immaginario prolifera senza limiti. «Se il simbolico è il registro al quale l’immaginario fornisce
il materiale che necessita, per così dire, di una metabolizzazione significante per poter entrare a
pieno titolo nello psichismo del soggetto, allora una ‘caduta’ provvisoria o una fragilità strutturale
del simbolico coinciderà con la proliferazione di un immaginario non più sottomesso all’azione
pacificante del simbolico stesso» (Lolli, 2012, p. 42).
È interessante, a questo punto, ricordare che proprio la proliferazione dell’immaginario è una
delle caratteristiche che Lacan riferisce alle psicosi. Secondo questa teoria, la posizione
esistenziale del soggetto psicotico consiste in uno strappo, che già Freud aveva indagato, tra il
soggetto stesso e la realtà. Lacan riprende Freud, lo strappo, il delirio come riparazione del senso,
ma aggiunge qualcosa: il soggetto psicotico è nel linguaggio, vive nella realtà di ogni altro
soggetto, ma si confronta all’interno di questa realtà con un buco, con qualcosa che a livello
strutturale manca. Sarebbe proprio a partire da questo «buco nel simbolico» che l’immaginario
prolifera, si spande a macchia d’olio nel tentativo di com-prendere una realtà altrimenti non
mediata, non interpretata, incomprensibile in mancanza del testo.
Tutto ciò – proliferazione immaginaria, deficit simbolico, potenza del medium televisivo – è
rappresentato nel film Reality, di Matteo Garrone. Credo che sia importantissimo, per chiunque si
occupi di psiche, guardare questa formidabile rappresentazione di come la TV e il suo
immaginario possano orientare e travolgere le strutture di personalità meno salde.
Luciano è un pescivendolo che ama fare il protagonista nella sua piccola scena, in una Napoli
subalterna. È simpatico, desidera veder sorridere familiari, amici e clienti. Inizialmente è dunque
un soggetto perfettamente integrato alla cultura di appartenenza. Incoraggiato dalla famiglia,
decide di partecipare alle selezioni del Grande Fratello. Viene dunque contattato dagli
organizzatori del reality, invitato a Roma per un provino approfondito seguito da un «Le faremo
sapere». L’esperienza del provino a Roma, davanti al Grande Fratello, segna l’inizio in sordina del
percorso delirante di Luciano. All’uscita dal provino iniziano le aspettative per la conferma
ufficiale della partecipazione. L’attenzione di Luciano è ora fissata, inchiodata all’attesa della
chiamata del Grande Fratello, un’ossessione che diventa idea prevalente che diventa delirio.
Luciano è certo, è sicuro che sarà convocato. Questa certezza può essere vista come l’espansione
illimitata e sregolata del desiderio di riscatto dalla propria condizione, misera e insignificante di
fronte a un prossimo, a qualcuno di simile a sé, che ce l’ha fatta e che ora viaggia in elicottero.

Questo è in effetti un punto importante. Dei molteplici aspetti del nuovo immaginario televisivo,
della teoria del mondo che la TV veicola, una cosa è particolarmente interessante: la promessa di
riscatto dalla propria condizione storica, auto ed eterocostituita. Quello che la TV ci dice oggi è
che non è necessario essere un professionista, uno specialista o un talento per accedere al mondo
dello spettacolo, per diventare spettacolo. Al di qua dello schermo c’è la realtà ordinaria, in cui
per accedere – per trovare un proprio posto nell’ordine simbolico della realtà – è necessario
perdere qualcosa. Come spiega Freud ne Il disagio della civiltà (1930), l’uomo entra a far parte
del consorzio umano costituzionalmente infelice, mancante di un’antica e mitica pienezza
d’essere, di un godimento pieno e senza perturbazioni esterne. Da questa mancanza primordiale
origina il desiderio, una spinta vitale a ritrovare nella realtà quanto andato perduto nel proprio
mito individuale. Al di là dello schermo invece abbiamo un’altra realtà/reality, cioè una scena
dove i personaggi si sono emancipati, hanno «realizzato il proprio sogno», ce l’hanno fatta – a ben
guardare, senza d’altra parte aver dato simbolicamente nulla in cambio, tempo o denaro, senza
aver pagato per questo. Se vogliamo azzardare un’interpretazione, quello con cui i protagonisti del
reality pagano è la vita stessa. Identità e realtà particolari sono guardate e catturate dalla
telecamera, alla ricerca (di facciata) della spontaneità. D’altra parte queste stesse identità
conoscono la telecamera e il desiderio del Grande Fratello - che è il desiderio del pubblico - e
sono lì sulla scena allo scopo di soddisfare il desiderio voyeuristico di questo Altro. All’interno
della gara televisiva per produrre nuovi idoli, i soggetti in questione sono alienati alla logica
produttivistica dell’audience e del mercato dello spettacolare (Debord 1967).
Il film di Garrone termina in modo paradigmatico: Luciano riesce a entrare nella casa dei sogni,
ma non nelle vesti di un normale concorrente. Ci entra da solo, non autorizzato dal Grande
Fratello, senza farsi notare. Una volta dentro è finalmente felice, passeggia per i retroscena, dal
posto delle telecamere osserva i ragazzi che abitano la casa, sorride. Dunque passa dall’altra parte,
entra nella scena, ma paradossalmente non viene visto. Né le telecamere né i protagonisti lo
notano e pure Luciano non nota di non essere notato. Come a dire, ciò che conta veramente in quel
momento per lui non è nemmeno fare in modo che la propria presenza sulla scena sia ratificata
dall’Altro. Ciò che conta è aver raggiunto il luogo sublime-feticistico, non importa come, non
importa nessuna dialettica con l’Altro. Luciano si accomoda, ride e si vede realizzato all’interno
di questa realtà totalmente delirante e sganciata dal mondo reale. L’unico sguardo che conta è
quello dello specchio, lo sguardo di Luciano stesso, fagocitato completamente dalla propria
immagine ideale. «Quando il lontano si avvicina troppo, la realtà si allontana e impallidisce.
Quando il fantasma diventa reale la realtà diventa fantasma» (Anders, 2006, p. 102).
Due realtà parallele dunque, quella propriamente reale e il mondo dello spettacolo. «La
televisione contemporanea, attraverso la sua straordinaria capacità di infiltrazione
nell’immaginario collettivo, incita al superamento di soglie un tempo considerate invalicabili; il
mondo che fabbrica è, letteralmente, uno stato limite. Nel mondo dello spettacolo televisivo tutto
sembra possibile, ogni cosa sembra essere a portata di mano; modificare il corpo come si
desidera, ottenere il successo semplicemente ingiuriando o imprecando, diventare ricchi grazie
alla scelta casuale del pacco giusto, acquisire notorietà mediante azioni stravaganti e ridicole, in
sostanza, modificare radicalmente e in un attimo la propria vita. Perché la vita che si conduce al di
qua dello schermo sembra destinata, per definizione, all’infelicità, all’inconcludenza,
all’incompiutezza» (Lolli, 2012, p. 109).
L’avvento del televisore, nuovo e importante membro della struttura familiare, ha davvero
segnato una nuova epoca. Da qui si aprono molti campi di indagine, dal momento che a tutti gli
effetti abbiamo a che fare con una nuova realtà. Da Freud in poi, sappiamo che non è più possibile
delimitare un confine netto e impermeabile tra realtà e fantasia; il soggetto è in contatto col
mondo reale per mezzo del proprio fantasma, intrattiene con la realtà un rapporto che non si
riduce al programma pedagogico di conoscenza del mondo nella sua esattezza. Realtà e fantasia
sono due dimensioni compenetrantesi. Inoltre, il tentativo di evasione dal mondo reale, la fuga per
mezzo della fantasia, non è fenomeno nuovo. Ciò che si impone alla nostra attenzione oggi è
piuttosto la radicale messa in discussione del consueto concetto di realtà, alla luce e in funzione
dell’affermazione incontrastata del medium televisivo, realtà immaginaria che prolifera.
L’epoca dell’inconshow è l’epoca, sì, dello spettacolare nel senso in cui lo intende Debord, ma più
specificamente è l’epoca della spettacolarizzazione dell’inconscio, di ciò che era intimo, di ciò
che era velato. Il velo è attualmente un concetto antitetico alla proposta televisiva. In questa
prospettiva, la figura chiave è certamente la pubblicità, tele-seduzione per antonomasia. Dalle
origini fino a oggi, la struttura rimane molto semplice: influenzare comportamenti, atteggiamenti,
convinzioni, in una parola plasmare le menti con più o meno successo, in funzione dell’ideologia
di mercato. Il tempo di azione della réclame televisiva è generalmente poco, dunque la strategia
consiste nel persuadere in quel poco tempo, che significa molto spesso puntare all’inconscio,
bypassando lo spirito critico e mettendo in scena l’oggetto del desiderio in un’aura ipnotica ed
esteticamente accattivante.
Gli slogan parlano: “Che mondo sarebbe senza …”, “Tutto intorno a te”, “Just do it”, “No
limits”, “Illimitatamente”. La ratio è sempre quella: “Questo è davvero l’oggetto di cui non si
può fare a meno, il gadget che cambia la vita e conferisce un posto di diritto nel mondo”. Quando
l’oggetto di consumo non può essere supportato dall’ancella del design, le linee e le curve che gli
si affiancano sono quelle del corpo femminile, primo e importantissimo attrattore al servizio della
comunicazione commerciale. Nel 2012, Lorella Zanardo ha realizzato un importante
documentario dal titolo Il corpo delle donne, dove spiega come il sesso sia diventato lo strumento
più ricorrente nella pubblicità, così come in buona parte del mondo dello spettacolo. Con una
precisazione: qui per sesso si deve intendere corpo femminile, oggetto del desiderio tanto
dell’uomo bianco medio, destinatario principe del discorso consumistico, quanto della donna
maschilizzata, la donna che guarda e si guarda da una prospettiva maschile, invitata ancora oggi
a confrontarsi e interrogarsi sui privilegi dello stile di vita di un uomo sempre più dedito al
godimento individualistico e sulla posizione che intende assumere rispetto a questo modello
dominante (Zanardo, 2012).

Che vita sarebbe senza l’oggetto? «Nell’universo pubblicitario, la vita non ha un senso intrinseco
e non si giustifica da sola; essa richiede un’autorizzazione che solo la presenza rassicurante
dell’oggetto è in grado di garantire. L’oggetto, in tal senso, preannuncia il raggiungimento di un
nuovo stato possibile nel quale il vuoto strutturale che abita l’essere umano viene radicalmente
abolito. […] L’inganno è profondo. Per un verso, instaura l’infinitizzazione del processo di
richiesta attraverso l’induzione di bisogni sempre nuovi – scongiurando così il pericolo di una
soddisfazione ‘ultima’ e conclusiva che bloccherebbe l’economia capitalistica e il sistema stesso
– per l’altro verso, spinge il soggetto a defilarsi progressivamente dal rapporto con l’Altro, non
più supposto possessore dei ‘beni’ capaci di realizzare il proprio desiderio. L’asse della libido si
sposta, in questo modo, dal partner al Centro Commerciale». Ecco la mutazione antropologica:
«È al suo interno, infatti, che ferve l’attività pulsionale della contemporaneità. La merce è
esposta per sedurre il potenziale acquirente; ogni oggetto urla – attraverso l’immagine
pubblicitaria che su di lui è stata confezionata – la propria particolarità rivendicando lo statuto
di assoluta indispensabilità per chi non lo possiede ancora. Così come la truppa di Ulisse nel
passaggio davanti alle scogliere delle Sirene, il moderno consumatore, tra gli scaffali
dell’Ipercentro, tende ad abbandonarsi al dolce canto pubblicitario e a lasciarsi affascinare dalla
promessa di felicità che soavemente risuona nel comfort plastificato dell’atmosfera commerciale»
(Lolli, 2012, p.107, corsivo mio). È così che molti tra filosofi e psicanalisti intendono la società
contemporanea, tossicomanica ed edificata su un nuovo imperativo sociale: Godi! (Recalcati
2010, Žižek 2009)
Nuovi (s)legami. Il regno dell’immaginario è il luogo in cui posso essere finalmente me stesso,
quello che ho sempre desiderato essere e avere, con la mia libertà di scelta limitata alle
identificazioni prêt-à-porter proposte dal sistema televisivo, sottocategoria di un macrosistema
che orienta le vite e i desideri. Un rapporto diretto si stabilisce tra l’uomo e il suo oggetto del
desiderio, feticisticamente rappresentato dal gadget, dal bene di consumo. Il canale di questo
circuito chiuso è il medium televisivo, nuovo partner con cui non è previsto dialogo se non
unilateralmente. Il televisore costringe al silenzio; una tale situazione è sul versante
dell’indottrinamento, dove chi parla è il maestro che deve formare gli allievi. La nuova
formazione al consumismo avviene oggi in casa, durante il pranzo, la cena.
Dicevamo che il simbolico impallidisce all’ombra della potenza dell’immaginario. Se la nuova
alterità con cui confrontarsi è falsata negli specchi-schermi, se il partner non è più l’oggetto verso
cui si indirizza il mio interesse, il mio eros, se il mandato sociale invita a ricercare redenzione nel
possesso del gadget, che fine fa la parola, la domanda insita in ogni parola rivolta all’altro? È
possibile ipotizzare che la dimensione della parola, il livello della dialettica tra io e altro, vada
dissipandosi.
1985: Italo Calvino, termometro culturale del secondo Novecento, afferma: «Alle volte mi sembra
che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè
l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva ed
immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione su formule più generiche,
anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla
che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non m’interessa qui chiedermi se le
origini di quest’epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità
burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media
cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la
letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio»
(Calvino, 2000, p. 60). Immaginario ipertrofico, simbolico appestato, blobbato.

Per concludere vorrei dire due parole sul precipitato clinico di una cultura delle immagini: il
grande tema del narcisismo (Con ciò non intendo stabilire, sia chiaro, una determinazione forte
cultura televisiva-psicopatologia, cosa che reputo impossibile. Quello che mi interessa è il
discorso sociale e la tv come specchio, amplificatore di segnale, nuovo Altro). Dagli anni ’50 –
periodo dei primi studi sul tema – a oggi, sappiamo che il narcisismo e la depressione possono
presentarsi come le due facce di una stessa medaglia. L’esistenza dubbia, «l’insicurezza
ontologica primaria» (Laing, 2001), il vissuto del vuoto sono le condizioni vitali che meglio si
sposano con il culto dell’immagine. Il soggetto vuoto è il candidato ideale per la nuova cultura
fondata sull’immaginario, desideroso per esigenze strutturali di riprodurla. Dalla psicoanalisi
degli stati limite, in particolare da Donald Winnicott ed Helene Deutsch, sappiamo che più è
integra la maschera, la persona, più è angosciante il vuoto che essa cela; si punta tanto più sull’Io
e sulle sue connotazioni immaginarie, sul ‘tutto d’un pezzo’, ‘sarò come desiderate’, quanto più si
deve far qualcosa per sanare il vuoto, per sopportare la sensazione di essere simbolicamente nulla.
Il conformismo identitario si chiama camaleontismo nel geniale Zelig, di Woody Allen. Il film è
tutto incentrato sul protagonista Leonard Zelig, che manifesta uno strano comportamento: a
contatto con le persone, ne assume letteralmente le sembianze, si trasforma in ciò che i suoi
interlocutori sono, fisicamente e psicologicamente. «Un uomo che non ha un sé né una
personalità. Egli è letteralmente l'immagine proiettata degli altri, uno specchio che restituisce alle
persone la propria immagine» (Gabbard G., Gabbard K. 2000, p. 341). Non è un caso che Allen
presenti il suo personaggio come un caso clinico e allo stesso tempo come un fenomeno sociale,
una moda. Nel film, Leonard Zelig è tanto una personalità da studiare quanto un perfetto
personaggio dello spettacolo. Venute a conoscenza del caso Zelig, le persone lo imitano, lo
scimmiottano. Dunque imitano il re degli imitatori. Gioco di specchi.
L’industria delle immagini oggi non è qualcosa di limitato al campo del mercato. Si tratta invece
del palliativo di prima scelta. Non è solo consumo, ma il tentativo di circoscrivere, arginare e, in
ultima analisi, celare il vuoto interiore. Quando il mondo interno è deserto, la vita è totalmente
orientata dall’esterno. Se non abbiamo un discorso interiore a cui attingere perché l’apparato
simbolico è inconsistente, l’unica possibilità che sembra restare per il soggetto che desideri
ancora entrare a far parte del consorzio umano è l’adorazione dell’immagine, propria e dell’idolo
(o di pezzi di idolo), come fuga nella normalità (Recalcati 2010). Una normalità che promette
benessere, bellezza e felicità. L’angoscia oggi è imbavagliata dal sorriso, la depressione nascosta
al cuore delle vite brillanti e delle grandi bellezze.

Bibliografia

Anders 1956
Anders, Gunther, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda
rivoluzione industriale, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino, 2006

Calvino 1988
Calvino, Italo, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano,
2000

Debord 1967
Debord, Guy, La società dello spettacolo, Massari, Bolsena, 2002

Gabbard G., Gabbard K.1999


Gabbard, Glen O., Gabbard, Krin, Cinema e psichiatria, Raffaello Cortina, Milano, 2000

Lacan 1958
Lacan, Jacques, La direzione della cura e i principi del suo potere , in Scritti, 2 voll., a cura di G.
B. Contri, Einaudi, Torino, 2002 vol. I
Laing 1955
Laing, Ronald, L’io diviso, Einaudi, Torino, 2001

Lolli 2012
Lolli, Franco, L’epoca dell’inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno
borderline, Mimesis, Milano – Udine, 2012

Recalcati 2010
Recalcati, Massimo, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello
Cortina, Milano, 2010

Zanardo 2012
Zanardo, Lorella, Il corpo delle donne, http://www.youtube.com/watch?v=EBcLjf4tD4E
Žižek 2009
Žižek, Slavoj, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri,
Torino, 2009

Alessandro Siciliano, 26 anni, laureato in psicologia clinica ad Urbino. Volge sguardi serrati al
mondo totalizzante in cui ci ritroviamo immersi e tenta di indurre un'apertura al desiderio,
all'infinito, alle linee di fuga. In formazione psicoanalitica, si tace filosofo, ma sa d'averne
profonda attitudine. Fondatore dell’associazione culturale Rizoma, scrive per alcune riviste web e
lavora come educatore presso la R.S.R. “Gaibola”, Bologna.
TV e nuovi media all’epoca di Internet e della New Age: la cura
di Luca Casadio

La condizione postmoderna

Jean-Francois Lyotard, nel suo fortunato libro La condizione postmoderna, pubblicato in Italia nel
1981, un vero e proprio rapporto sul sapere nelle società “avanzate”, prevedeva, grazie alla
diffusione dell’informatica e dei personal computer, l’avvento di una rivoluzione. Una rivoluzione
basata su una diffusione del sapere tanto peculiare da caratterizzare l’epoca che ne sarebbe
scaturita, appunto quella postmoderna.
Questa nuova “era” avrebbe rotto con le logiche marxiane, legate ai mezzi di produzione delle
idee, e avrebbe portato a una capillare diffusione di testi, su scala planetaria, e di banche dati
sensibili, dando vita ad una vera e propria democratizzazione delle conoscenze.
Si tratta, senza dubbio, di una trasformazione dei costumi. Una trasformazione che oggi, ognuno
di noi, che possiede almeno un computer, un tablet o uno smatphone, con il relativo accesso ai
social network, può apprezzare e valutare di persona.
Oggigiorno viviamo una condizione postmoderna? E che ne è della profezia di Jean-Francois
Lyotard? Come possiamo considerarla a conti fatti? E, cosa che ci interessa particolarmente, in
questa società postmoderna come sono cambiate le comunicazioni per quanto riguarda la cura e la
sanità mentale?

Postmodernismo e cura

Lyotard, in maniera molto lucida, nel suo saggio, sottolineava più volte che il problema delle
scienze, nella postmodernità, sarebbe stato quello della loro legittimazione. Con il superamento
delle cosiddette “grandi narrazioni” (di tutti i grandi sistemi di senso fino a quel momento
accettati) e la conseguente incredulità nei confronti delle meta narrazioni, anche le scienze si
sarebbero dovute affidare a delle storie, a delle vere e proprie narrazioni, capaci di convincere il
più vasto pubblico della loro efficacia, soprattutto di tipo tecnica.
Oggi, che abbiamo abbondantemente superato il primo decennio del secondo millennio, e che non
possiamo vivere se non continuamente connessi alla “rete”, possiamo valutare le previsioni di
Lyotard e osservare, dall’interno di questa rivoluzione, tutta una serie di trasformazioni nel campo
del sapere. In particolar modo per quanto riguarda i processi di cura; il vero tema di questo breve
saggio.

Che ne è della cura, delle sue teorie di riferimento, delle sue tecniche e delle sue evoluzioni
all’epoca di Facebook e della New Age?
Oggi, possiamo dire che le cose non sono andate proprio come ipotizzava Jean-Francois Lyotard,
alla fine degli anni ’70. In verità, come accade sempre, d’altronde, l’evoluzione postmoderna non
ha solamente aggiunto al mondo precedente un nuovo modo di produrre e di diffondere il sapere,
ma ci ha letteralmente portati altrove. In un nuovo contesto, in un nuovo scenario culturale, che
nessun filosofo, negli anni ’80, avrebbe mai potuto immaginare.
In questo contributo, vorrei cercare di analizzare meglio questo contesto comunicativo, soprattutto
per quanto riguarda le relazioni di cura, o meglio, l’offerta sociale che ruota intorno alle diverse
modalità di cura.
Perché, almeno per quanto riguarda questo tema, e in particolar modo per la cura “psicologica” e
“psichiatrica”, in senso lato, l’informazione non ha portato una nuova diffusione del sapere, più
aperta e più democratica, bensì un nuovo modo di relazionarsi a queste proposte; una sorta di
“legge del più forte” (o del più furbo), applicata a tutto ciò che può (o che potrebbe) far bene.
Per Lyotard, l’era postmoderna si sarebbe caratterizzata per la morte delle grandi narrazioni, per
la fine e il superamento di quei saperi secolari considerati, nelle ere precedenti, come dei veri e
propri dati oggettivi.
La comunicazione relativa al campo della cura e del sapere psicologico, da questo punto di vista,
appare molto interessante, un aspetto da studiare e da comprendere a fondo.
Più che a una democratizzazione del sapere, oggi assistiamo a un processo del tutto diverso; un
fiorire di narrazioni, di spiegazioni, ma anche di banalizzazioni e di fraintendimenti su cosa sia un
percorso di cura, su quali siano le principali teorie di riferimento e sui nuovi possibili campi
d’indagine. Un vero disastro.

Facebook e Twitter

Prendiamo Facebook. Sul più seguito dei social network troviamo una bacheca personale, visibile
a tutti i propri contatti, gli “amici”, su cui scrivere i propri pensieri (anche se nella maggior parte
dei casi gli utenti si limitano alla descrizione dell’attività che stano svolgendo o del piatto che
stanno mangiando, corredato da immancabile foto).
Oltre ai propri e altrui pensieri, sulla bacheca si possono condividere anche altri testi: articoli,
libri, estratti da Wikipedia, citazioni tratte dai blog, articoli in rete e anche quelli della stampa
comune, che, in questo modo, vengono “pubblicati”.
Alla pubblicazione di uno di questi contenuti, poi, segue immancabilmente il rito del “mi piace”,
“non mi piace”, e, solo in alcuni casi, segue la fila dei diversi commenti.
Su Twitter, invece, a parte la brevità dei messaggi, che caratterizza il mezzo di comunicazione, e
l’assenza di scambi ripetuti e bilaterali tra i soggetti, riservati solo ad alcuni follower, spesso ci si
trova davanti a dei commenti brutali, al limite dell’insulto.
Sia chiaro: in queste pagine non si vuole criticare Facebook, Twitter o i nuovi media. L’unico
intento è quello di comprendere meglio come su questi mezzi circoli l’informazione.
Sui social network, la comunicazione relativa ai vari percorsi di cura, o alle attività cliniche e di
formazione, è molto rilevante, molto diffusa. Infatti, i social network rappresentano un ottimo
veicolo di informazioni e di pubblicità. Ma per mettere “mi piace” o “non mi piace” su Facebook,
o per condividerlo sulla propria bacheca, non serve certo un grande ragionamento, e neanche avere
una conoscenza approfondita del tema. Anzi, spesso non è necessario neanche aver letto per intero
il contributo o il link proposto; basta solo schierarsi, a favore o contro.
Ogni tanto nasce anche una discussione, ma è rara. Più spesso si tratta di una serie di
fraintendimenti e di scontri personali, che non aggiungono molto alla comprensione del
messaggio proposto. L’approfondimento di questi temi, così, viene delegato a dei gruppi specifici,
quasi sempre composta da studiosi della stessa provenienza, gruppi monotematici che delimitano
una comunità, che condivide teorie, un linguaggio specifico e un particolare punto di vista.
Quando questi specialisti diffondono ai loro “contatti” dei messaggi relativi alla cura, si
trasformano subito in “sostenitori”, in “venditori” di una qualche filosofia di cura, qualunque essa
sia.
Diciamo che il dispositivo insito nei social network, tende a creare proseliti più che a sviluppare
confronti o anche una semplice divulgazione scientifica. I social network, in questo modo, creano
per lo più dei veri e propri “promotori”, dei “militanti”, piuttosto che una schiera di persone
informate.
In estrema sintesi: in questo modo i nuovi media hanno risolto il problema della legittimità posto
da Lyotard, ormai più di trent’anni fa.
Le diverse tradizioni di cura, vengono così offerte e commentate su questi mezzi di
comunicazione di massa, ma quasi mai discusse o approfondite. Non si giunge mai a un punto di
vista critico o a un sapere, in qualche modo, riflessivo.

TV e cura

A questo proposito mi torna alla mente un programma televisivo, molto seguito, che, a volte,
vedevo anch’io quando ero ragazzo: il Maurizio Costanzo Show.
Anche se, negli anni ’80, le televisioni erano “generaliste” e dominavano ancora i palinsesti, il
Maurizio Costanzo Show costituiva un perfetto spettacolo postmoderno. Infatti, Costanzo, il
machiavellico ideatore della trasmissione che portava il suo nome, spesso invitava, ad arte, un mix
di esperti di un qualche settore e dei perfetti sconosciuti. In questo strano insieme, ovviamente,
non poteva mancare uno psicologo, uno psichiatra, un curatore d’anime o un sedicente tale.
Il gusto perverso degli spettatori, quorum ego, stava proprio in quel mix letale, in quel confronto
improbabile difronte a un solo giudice: il gradimento del pubblico.
Non a caso il programma si svolgeva all’interno di un teatro e il pubblico, prima ancora
dell’esistenza di Twitter o Facebook, interveniva sonoramente facendo sentire la propria opinione,
applaudendo o fischiando gli ospiti della trasmissione.
A parte il divertimento sadico, simile a quello della Corrida, il Maurizio Costanzo Show metteva
in pratica l’ideale postmoderno. Tutti gli esperti, infatti, venivano messi sul palcoscenico, sia lo
studioso che il mentecatto, il professore universitario e il malato di protagonismo, il mago e
l’economista. In mezzo a tutto questo caos dominava il conduttore, il gran visir del tubo catodico,
che, con un solo gesto (spesso poco visibile ai più), decretava il successo o il fallimento di
qualunque contributo.
Dopotutto, molti personaggi pubblici italiani, sono usciti proprio da quella trasmissione,
confermando la celebre intuizione di Andy Warhol sui mass media.
La filosofia sottostante era chiara: tutto è possibile. Tutto è accettabile. Tutto è sullo stesso piano.
Basta solo che convinca uno spettatore distratto, umorale e spesso anche francamente annoiato.
Quando, nel 2006, uscì un mio libro sull’umorismo, fui anch’io invitato a partecipare al Maurizio
Costanzo Show. Ma dopo una lunga telefonata con la redazione rifiutai di partecipare al
programma. In pratica, i giornalisti della redazione del Costanzo Show volevano che esplicitassi
con loro le mie teorie sull’umorismo, e che, in un solo minuto, affermassi, in sintesi, che “ridere
fa bene”. Massima che non solo non condivido – anche se la ritrovo pressoché ovunque a proposto
dell’umorismo - ma che reputo anche priva di fondamento. Ridere come una specie di medicina,
come un atto che cura.
Ovviamente non partecipai.
In quel programma, lo scienziato sedeva accanto allo psicoanalista, a lato del pranoterapeuta e
vicino al giovane attore che doveva ancora farsi conoscere e, in ultimo, anche all’immancabile
mago di turno.
L’unico metro di giudizio era, in qualche modo, “democratico”: riuscire a convincere il pubblico.
Qualcuno che non ne sapeva nulla di quello che stava ascoltando e di cui, spesso, non gliene
importava assolutamente niente. E così, quasi sempre, veniva apprezzato il più simpatico, il più
timido, il più strano, se non il più improbabile degli esperti, il meno affidabile, il portatore della
teoria meno credibile e fondata.
E, dopotutto, ci si potrebbe chiedere: come può uno spettatore qualunque valutare una teoria della
mente o delle conoscenze sulla psicologia e la cura? Come spiegare, in un teatro, in mezzo a mille
altri discorsi, e magari in un paio di minuti, le relazioni di “attaccamento”, i “meccanismo di
difesa”, o le “terapie paradossali”?
E, soprattutto, come farlo senza considerarli dei dati di fatto, ma dei costrutti e dei concetti che
derivano da una tradizione storica e da un determinato punto di vista sul mondo e sull’uomo?

Il panorama attuale

Bene, con le dovute differenze, il panorama di oggi è simile a quello di allora, anche se il pubblico
oggi è cambiato.
Se, negli anni ’80 e ’90, i telespettatori non ne sapevano nulla di ipnosi o del cosiddetto “mondo
interno” (e non ne faceva mistero), oggi non possiamo considerare nessuno privo di un’opinione.
Di qualunque tema si tratti.
Chiunque ha orecchiato qualcosa sui “processi inconsci”, sulla “percezione subliminale” e, con
estrema disinvoltura, si discetta comunemente se la “psicoanalisi classica” sia o no sorpassata, se
i “traumi emotivi” possano causare delle malattie psicosomatiche e se i vaccini provochino
l’autismo nei bambini.
Il cosiddetto pubblico oggi si è evoluto, in una maniera assurda, ipertrofica: tutti ormai hanno
orecchiato qualcosa a proposito della cura, delle teorie della mente, di qualche approccio, grazie
anche all’amplificazione dei social network. E ognuno, in qualche modo, si è fatto una sua
opinione su qualunque tema; dalle staminali, alle terapie elettroconvulsive, fino alle psicoterapie
brevi.
Dopotutto, un’opinione non richiede nessun pensiero. Nessuna ora di studio. Nessuna lezione. E
neanche nessun reale confronto con uno o più esperti, ormai del tutto inflazionati. Ecco il punto.
L’enorme diffusione di informazioni e il meccanismo del “mi piace” ha reso il fruitore dei social
network dei sostenitori (o degli avversari) di idee che neanche possono comprendere. Tutto si
gioca sulle simpatie e le antipatie del soggetto. In qualche modo, ognuno sa dire qualcosa, anche
un semplice “è bene” o “è male”, su qualunque tema e, in particolar modo, per quanto riguarda i
processi di cura. Cure che possono essere equiparate a delle merci pregiate, messe in bella mostra
in quello straordinario e luccicante discount della comunicazione di massa rappresentato dai nuovi
social network.
Oggi è passata la filosofia del “tutto può essere”, del “basta che funzioni”, anche se nessuno ha
mai valutato attentamente gli studi sull’efficacia dei processi di cura di cui stanno parlando.
Non è solo l’apertura di credito verso sedicenti medici, verso cure miracolistiche che in realtà
sono delle truffe, o nei confronti di veri e propri imbroglioni, come le ultime cronache
testimoniano. Il problema è più grave. È questa melassa, superficiale e incompetente, a
preoccupare maggiormente. Una forma di protopensiero che si diffonde molto velocemente e che
porta il semplice cittadino a credere di essere portatore di un’idea, di un’opinione, anche quando
non è nella posizione di averla.
Ed ecco allora una sfilza di persone che parlano di “energie” (personali, cosmiche, psicologiche,
universali), di concetti sfocati e privi di una semplice definizione. Quando non discettano di
“tecniche sperimentali”, di “nuovi approcci” e di rimedi straordinari che, però, le società
farmaceutiche non lascerebbero mai diffondere.
Ovviamente, esiste anche un uso virtuoso della televisione e dei nuovi mezzi di comunicazione,
ma raramente riguarda un discorso relativo alla cura. E ancora più raramente questo va a fondo tra
le diverse teorie, i punti di vista e i dubbi che pervadono il campo di studi.

Allora è più semplice affidarsi a un “esperto”, uno qualunque. E ce ne sono per tutti i gusti. Siamo
tutti presi e travolti da un ciclone che confonde tutto: dai fiori di Bach alla riflessologia plantare,
dal massaggio Shiatzu, alla PNL, fino al “pensiero positivo”. Tutto è messo sullo stesso livello,
alla pari, perfino di discipline serie e comprovate. Di quei saperi di cui parlava Lyotard, che si
basavano su conoscenze che ormai sono morte con la nascita della cultura postmoderna.
Ma un concetto, più di ogni altro, sembra oggi in voga. Un concetto in qualche modo “perfetto”
per la società postmoderna: l’energia.
Infatti, per un gruppo indefinibile di persone, una vera e propria massa, “esiste” di fatto
un’energia, impalpabile, indefinibile, qualcosa di non misurabile, quasi di non pensabile, che però
determinerebbe i processi di malattia e di cura. Qualcosa che basta nominare per far comprendere
quello di cui si sta parlando.
E questa “energia positiva” (o “negativa”, nei casi di patologia) si diffonde velocemente; piace,
attecchisce e “gira” perfettamente sui social network.
Anche molti stimabili professionisti, perfino dei colleghi che conosco e che apprezzo, magari
dopo un viaggio negli Stati Uniti, usano anche loro il concetto di “energia” (“raccogliere le
energie”, “questo posto ha un’energia”, “percepisco la tua energia”, “l’energia che cura”, ecc.),
nello stesso modo in cui s’impara un modo di dire, da utilizzare solo al giusto punto di
un’ipotetica conversazione per essere sicuri di non sbagliare.
In pratica, una specie di contagio ha colpito prima il pubblico dei non esperti, grazie ai nuovi
media, e da questo si è diffuso anche ad alcuni professionisti, almeno ai più intraprendenti.

Conclusioni

Ma che cosa sarebbe questa energia?


Si tratta di un concetto del tutto auto-evidente, mai spiegato o mai definito da alcuno. Un concetto
che una persona del Novecento non userebbe mai se non collegato alla fisica o all’elettrodinamica.
Un concetto semplice, banale, che ha le sue radici nelle scienze “dure”, la termodinamica
dell’ottocento, ma che ora sembra invece collegato a pratiche esotiche, a nuove prospettive, a
nuove visioni; la chiave di volta per comprendere nuove idee e nuove forme di cura.
Un concetto totalitario, nuovo talmud della rete, spacciato come un dato oggettivo su alcune
sedicenti riviste o sui settimanali, sui supplementi, dati in omaggio con i quotidiani, nuovi
Maurizio Costanzo Show dell’oroscopo, del mangiare biodinamico, della ayurvedica e
dell’articolazione e dell’indirizzo di tutte le possibili “energie mentali”.
Un concetto che si apprende solo ascoltandolo, utilizzandolo, ottimo per validare tutti quei luoghi
comuni sulla cura e il benessere. Un concetto ormai radicato, che nessun esperto può confutare.
Che nessuna lettura (che comunque non viene fatta) può negare. Che niente al mondo potrà mai
scalfire. Resta così come un dato di fatto: oggettivo, monolitico, preso per buono e santificato con
un semplice click del mouse.

Le “nuove terapie” (che spesso non sono affatto tali), la New Age, rappresentano una calamita
irresistibile per l’uomo tecnologico, che mastica termini come: Mindfulness, ipnosi regressiva,
che clicca “mi piace” su misteriosi “interventi psicosomatici” o su sorprendenti “cure olistiche”.
Ogni cosa, basta che sia proposta come nuova, e che possa investire, “toccare” o trasformare delle
misteriose energie, viene comunque accolta a braccia aperte e proposta a ignari lettori e, cosa
peggiore, usata concretamente in diversi contesti di cura.
E, nella maggior parte dei casi, l’“esperto” è sempre uno che ha un interesse, e che non dice di
averlo. Che propone immagini, diagrammi, testi, spesso meno che banali. Che risponde alle
telefonate del pubblico per radio o per televisione, oppure sui tutorial in rete, e che consiglia le
sue prassi, i suoi metodi: in pratica se stesso.
Non può stupire allora che anche Tata Lucia (un personaggio inventato, legato a un programma
televisivo, che vorrebbe sembrare una sorta di documentario che tratta di cure pedagogiche, ma
che, in verità, propone immancabilmente una sorta di copione predefinito. Un copione
chiaramente artificioso) possa scrivere un suo libro, e proporre le “sue” idee sull’educazione e la
cura dei bambini. Sappiamo già che venderà ben più di altri testi, magari anche seri e ben
documentati. Dopotutto sarà più leggero e più divertente di un libro “serio”.
In fondo, se cancelliamo gli esperti – dopo aver annullato anche “gli intellettuali” – se ripianiamo
ogni possibile complicazione, e se rendiamo ogni messaggio semplice e comprensibile, non ci
resta che chiedere aiuto a Tata Lucia. Al nulla che ci circonda.

Luca Casadio, Psicologo e Psicoterapeuta, ha lavorato per dieci anni come Dirigente per la USL di
Modena. È docente per diverse scuole di specializzazione in Psicoterapia ed esperto di
psicoterapia degli adolescenti e di psicologia dell'arte. Ha pubblicato molti articoli e libri sulla
psicoterapia, l'epistemologia e la psicologia dell'arte tra cui: Sistemica. Voci e percorsi nella
complessità (Bollati Boringhieri, 2002); Le immagini della mente. Per una psicoanalisi del
cinema, dell'arte e della letteratura (Franco Angeli, 2004); Tra Bateson e Bion: alle radici del
pensiero relazionale (Antigone Edizioni, 2010) e Biografie e molteplicità dei sé (Guaraldi, 2014).
Inoltre, ha pubblicato un romanzo sull'esperienza avuta nei Centri di Salute Mentale e nei reparti
di psichiatria Il padrone di casa (Progetto Cultura, 2013).
Bisogna difendere la scuola! Biopolitica e istruzione in Italia
di Fabio Milazzo

«Resisterà alle dolci lusinghe la Fortezza Bastiani?


Bugiardi imbonitori l'assediano
con violenze degne di Tamerlano»
F. Battiato-M. Sgalambro, Fortezza Bastiani (2004)

La fortezza assediata

La scuola italiana, al pari della Fortezza Bastiani di Buzzati cantata da Battiato, è sotto assedio:
«bugiardi imbonitori l’assediano», forti del suo essere ridotta a nulla di più che un rudere isolato
al centro di un paesaggio brullo: la società italiana fiaccata dal ventennio di berlusconismo.
In verità, la distruzione della scuola pubblica è un processo più antico del ventennio causa di tutti
i mali e deve essere ricondotto alle mutate esigenze di addomesticamento degli italiani. Infatti,
non sfuggirà a nessuno che la funzione politica della scuola è centrale per ogni governo. La scuola
– come palestra per l’edificazione di un certo tipo di italiano – è il punto di partenza di ogni
analitica che si prefigga di analizzare la situazione, lo stato e i mali della principale agenzia
educativa nazionale. All’interno di ciò che resta di questa istituzione, insegnanti e personale
scolastico vario, animati da maggiore o minore volontà, provano a mandare avanti un avamposto
prima strategico e ora assolutamente anacronistico.
Almeno questo è ciò che vogliono far credere le politiche governamentali questi ultimi decenni,
attraverso riforme nate come aborti con il solo fine di destrutturare e di impoverire le risorse
umane e materiali della scuola. A chi fa comodo avere una scuola debole che sforna ignoranti?
Possiamo offrire qualche rapida risposta sulla base del solo buon senso. Innanzitutto fa comodo a
chi sposa altri modelli d’istruzione, alternativi a quello pubblico; secondariamente fa comodo a
chi è interessato a governare un popolo dotato di scarse risorse critiche utili per problematizzare i
termini del dibattito pubblico; infine, serve a chi considera pessimo il modello democratico,
quello che prevede la partecipazione attiva del singolo alla vita politica, attraverso le necessarie
competenze di cittadinanza attiva. Probabilmente sono queste le risposte che verrebbero in mente
all’ipotetico sig. Mario Rossi, cittadino italiano di media cultura chiamato ad esprimere la propria
opinione sulla questione. Almeno sono quelle che, a nostro parere, potrebbero essere le risposte-
tipo, in grado di spiegare qualcosa di apparentemente in-spiegabile, vale a dire “perché” in Italia,
da qualche decennio a questa parte, ci si stia dando tanto da fare per distruggere ciò che resta del
sistema di istruzione pubblico, quello che dovrebbe educare alla cittadinanza attiva e favorire la
nascita di intelligenze critiche in grado di promuovere l’esercizio attivo del processo democratico.
Infatti, dovrebbe essere chiaro a tutti che un sistema di governo quale la «democrazia» (dal greco
δ μος -démos “popolo” e κράτος -kràtos “potere”), che etimologicamente significa “governo del
popolo”, ovvero sistema di governo in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente,
dall'insieme dei cittadini, non sussiste, di fatto, se non tutti i cittadini sono in grado di esercitare
attivamente la loro funzione politica. È il motivo per cui Piero Calamandrei, politico e costituente,
riteneva indispensabile la conoscenza e la metabolizzazione della Costituzione da parte tutti i
cittadini perché si potesse parlare di una “vera” democrazia e non di un semplice simulacro
(Calamandrei 2008, p. 94).
La Costituzione, come antidoto nei confronti della barbarie costituita da ogni forma di
totalitarismo, prevede una scuola – pubblica – che la illustri, la insegni, la spieghi, che si faccia
garante della pluralità di indirizzi con il fine di educare gli studenti alla cittadinanza attiva,
sancendo così quella svolta che dovrebbe segnare il post-illuminismo in politica: la
trasformazione della moltitudine da sudditi a cittadini. La Costituzione, sorta dalle ceneri della
tragedia fascista, era per Calamandrei la condizione per l’esercizio di un diritto politico attivo in
grado di rendere ogni cittadino qualcosa di più che un Suddito.
«Vera democrazia non si ha là dove, pur essendo di diritto tutti i cittadini ugualmente elettori ed
eleggibili, di fatto solo alcune categorie di essi dispongano dell’istruzione sufficiente per essere
elementi consapevoli ed attivi nella lotta politica. La democrazia non è, come i suoi critici hanno
cercato di raffigurarla deformandola, la tirannia della quantità sulla qualità, […] della massa
analfabeta sui pochi competenti colti; ma deve, per dare i suoi frutti, essere consapevole scelta dei
valori individuali operata non in una ristretta cerchia di privilegiati dalla cultura, ma nell’ambito
di tutto un popolo reso capace dall’istruzione di giudicare i più degni» (Calamandrei, 2008, pp.
112-3).
Proprio la differenza tra «suddito» e «cittadino» è la chiave di volta di tutte le trasformazioni
politiche della tarda età moderna e il lascito più sensibile della Rivoluzione Francese. Come ben
sapeva Calamandrei, non esistendo in natura qualcosa come il «cittadino» ed essendo tale
categoria sempre in pericolo di trasformarsi in un vuoto simulacro formale dietro il quale celare
tanta verbosa retorica pan-democratica, era necessario pensare – e salvaguardare – un dispositivo
in grado di trasformare ogni individuo in un «cittadino», un attore politico garante dell’esercizio
sostanziale della «democrazia». Tale dispositivo, che ha il compito di stipulare le regole del
gioco, mancando le quali non sussisterebbe la pratica democratica, è la «costituzione». Il suo
ruolo è paragonabile a «quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il
sangue» (Calamandrei, 2008, p. 85). La scuola, secondo Calamandrei, avrebbe dovuto svolgere il
ruolo – necessario - di ambiente d’apprendimento costituzionale, cioè di spazio d’educazione alla
convivenza civile sulla base di quelle regole generali codificate nel dettato costituzionale. La
scuola come spazio di educazione alla cittadinanza attiva sulla base della Costituzione, garanzia di
pluralità e di mediazione tra le diverse istanze antifasciste che l’hanno posta in essere.

Dal «divieto» alla «normalizzazione»: la «biopolitica»

Questo legame fecondo tra la politica e la scuola, attraverso la mediazione della Costituzione,
pensato da Calamandrei per favorire l’esercizio democratico, indica quanto le politiche
scolastiche siano centrali per qualsiasi agenda di governo di qualunque colore e ideologia. Se,
però, nel caso del giurista toscano la scuola doveva essere pensata - e quindi riformata - dalla
politica per svolgere la funzione di «varco facilitatore» (frayage) per l’esercizio della cittadinanza
attiva da parte della popolazione (Citton, 2013, p. 41), non è detto che tutte le riforme scolastiche
pensate dalla politica si propongano fini così alti e condivisibili. Ciò che non può essere messo in
discussione è l’ambiguo e sempre vacillante rapporto tra il potere e le pratiche d’istruzione. Ogni
programma educativo cela - a volte a fatica - un progetto ideologico di addomesticamento dei
giovani in relazione a una certa idea, a un certo modello di società. Per tale ragione la scuola si
configura come lo spazio d’elezione per qualunque analitica sulle pratiche governamentali, cioè
sulle modalità attraverso le quali vengono gestite dai governi le comunità. Stiamo parlando di una
politica che si fa carico della vita dei governati: la «biopolitica».
Il termine «biopolitica», reso celebre dalle analisi di Michel Foucault, indica una variazione
epocale nelle politiche di governo adottate in Europa e negli Stati Uniti. A partire dalla tarda età
moderna, e comunque secondo partizioni cronologiche lente e non immediatamente identificabili,
Il classico potere sovrano, quello esercitato attraverso il divieto dal re nei confronti dei sudditi, si
è trasformato in biopotere; al vecchio esercizio positivo sui sudditi - il potere di vita e di morte -
si sostituisce la pratica di governo indiretta sulla «popolazione» ridotta a entità biologica
(Foucault 1997, p. 212). Il nuovo criterio identificativo verso cui si rivolge la pratica di governo
biopolitica sostituisce alla massa indistinta dei «sudditi» l’insieme della «popolazione», concetto
quest’ultimo che in maniera più vischiosa rimanda a un ordine bio-economico capace di generare
perimetri politici. L’emergere di questa inedita soggettività politica comporta l’adozione di nuove
pratiche di gestione e di governo che si esercitano sul dato biologico, in termini di cura o,
comunque, di accrescimento della salute dei governati: «una politica della salute […] come
problema politico ed economico» (Foucault, 1997, p. 188).
Il nuovo soggetto politico è lo spazio d’elezione su cui deve esercitarsi l’azione di governo: «La
biopolitica ha a che fare con la popolazione. Più precisamente: ha a che fare con la popolazione in
quanto problema al contempo scientifico e politico, come problema biologico e come problema di
potere» (Foucault, 1997, p. 212). Identificare gli elementi che decidono della politicità
dell’individuo e su quelli esercitare le «pratiche di governo», vischiose, sottili e melliflue è il
nuovo imperativo dei governanti. La vita stessa del soggetto è lo spazio d’esercizio e di intervento
del «potere». La conseguenza di questa trasformazione epocale è la saldatura tra il sapere,
attraverso cui si rende la vita oggetto di una narrazione in grado di «creare una comunità» (Citton,
2013, p. 85), e il potere che si esercita indirettamente attraverso la «regolazione», degli effetti di
verità, dei discorsi e delle rappresentazioni attraverso le quali la «popolazione» si riconosce e di
identifica. In altre parole, ciò che è centrale per la biopolitica è la disposizione delle condizioni
trascendentali che regolano i saperi, le credenze, le illusioni, i criteri discriminanti attraverso i
quali una determinata popolazione si soggettivizza e si riconosce in quanto insieme.
La «popolazione» non viene più governata attraverso «esercizi di potere sovrano» ma attraverso la
disposizione, la regolazione e la normalizzazione delle «forme di vita» ammesse in quanto
riconosciute dalla comunità come razionali, normali, regolari. La biopolitica si configura come
insieme di politiche educative atte a disciplinare, attraverso gli «effetti di verità» (véridiction)
prodotti dalla diade normale/anormale, i modi di vita leciti. Lungi dall’essere un dato neutro,
l’insieme di caratteri distintivi che individuano il soggetto politico - e quindi il modo di
governarlo - è il risultato di politiche di verità artificiali che rappresentano la vera posta in gioco
dell’arte di governo: controllare il sapere è la condizione necessaria per esercitare il «governo
degli uomini» (Foucault, 1997).
La forma di potere paradigmatica della biopolitica è la «psichiatria» che, secondo Foucault,
esercita la sua funzione normalizzatrice attraverso la pratica regolatrice delle forme di esistenza.
I l potere psichiatrico si esercita al contempo su scala individuale attraverso la cura, e su scala
collettiva disciplinando le condotte pubbliche mediante la sanzione dei comportamenti
«anormali» (Foucault, 2000). In tal senso si configura come dispositivo di igiene pubblica e
principio di intellegibilità delle condotte e delle forme di vita. L’esercizio del «biopotere», palese
nel caso della psichiatria, si estende all’intero spettro delle pratiche governamentali che, avendo
come oggetto la «vita» in quanto tale, «plasma, modifica e dirige non solo i corpi ma le fibre molli
del cervello» (Cutro, 2005, p. 10). Facendosi carico della salute dei corpi l’esercizio biopolitico
modella anche le sinapsi, i contatti neurali, in un processo di continua ri-definizione tra l’ambito
biologico e quello psichico. Se, dunque, la caratteristica distintiva del potere sovrano era il
divieto, il biopotere si caratterizza per la messa in opera di criteri individuanti il corpo politico e
tecniche adeguate per governarlo attraverso gli effetti di verità. La caratteristica del biopotere è la
sua azione pervasiva sul doppio versante delle singolarità, che vengono prese in carico attraverso
la produzione discorsiva degli effetti di verità, e sulla collettività attraverso la regolazione dei
modi di vita e delle condotte facenti funzione di norma. Il biopotere «è centrifugo, agisce su
circuiti più larghi e su flussi. Agisce sulla realtà attraverso la realtà: cioè regola i fenomeni in
base alle variabili che sono loro proprie» (Cutro, 2005, p. 12).
La scuola, per le politiche attraverso le quali si attua il biopotere, assume la duplice funzione di
spazio di soggettivazione e di fabbrica dei saperi attraverso i quali si pongono le condizioni
trascendentali per la determinazione della verità; controllarne i programmi, amministrane le linee
guida, scandirne i tempi e gli spazi, le attività, regolarne la dimensione comunitaria e di
cittadinanza, selezionarne il personale con funzione di «soggetti supposti sapere», è di
fondamentale importanza per le strategie di governo di chiunque detenga il potere – sia esso
soggetto individuale o collettivo.

Come «allevare» l’homo œconomicus

Il carattere amministrativo del biopotere, secondo Foucault, è tipico del «liberalismo», tanto che
solo dopo aver «saputo cos’è questo regime governamentale […] potremo sapere cos’è la
biopolitica» (Foucault, 2004, p.23). Sullo sfondo resta ancora una domanda inevasa: quali logiche
articolano il biopotere che pienamente si dispiega con il «liberalismo»? Quale grammatica
seleziona e struttura l’ordine discorsivo e i suoi effetti di verità (véridiction)? Secondo Foucault è
l’economia, la sua ratio, che articola e dirige le politiche governamentali, i suoi punti di presa, i
suoi a-priori. Sulla base delle logiche del costo-beneficio si esercita il governo dei viventi e si
amministra la comunità. Il mercato assume il valore di criterio per organizzare e giudicare le
politiche di governo che rispondono innanzitutto alla dialettica posta in essere dalla legge della
domanda e dell’offerta. Non c’è altra procedura di veridizione: il mercato è il criterio di
legittimità della politica. Nel caso della scuola questo significa innanzitutto procedure di
razionalizzazione della spesa, mascherate attraverso i voli pindarici della retorica come quella
messa in campo dal ministro Gelmini nel tentativo di obliare i colpi di machete inferti al bilancio
della scuola (pubblica) durante il suo ministero: «razionalizzare la spesa non significa tagliare, ma
liberare risorse per la qualità» (Gelmini, 2013). E nonostante De Andrè, in «Via del campo»
cantasse che «dai diamanti non nasca niente, dal letame nascon i fior» (De Andrè, 1967), a noi
qualche dubbio resta sul fatto che tagliare un bilancio e privare le scuole finanche della carta
igienica possa liberare qualità (Laudanna, 2010).
La seconda conseguenza di pratiche governamentali che hanno il loro banco di prova nella ratio
economica è l’imperativo alla quantificazione e alla standardizzazione delle procedure educative e
dei criteri di valutazione: gli alunni devono poter dimostrare oggettivamente di aver appreso le
nozioni necessarie per riciclarsi nel mercato del lavoro ed espletare la loro funzione di gangli del
sistema. Questo è possibile se la scuola è ridotta a una fabbrica di competenze misurabili e
quantificabili, uno spazio che esalta la normalizzazione e riduce le differenze in nome
dell’omologazione e della sistematizzazione del singolo all’interno dell’insieme costruito
attraverso le procedure di esclusione. Insomma: la scuola che «alleva» (Sloterdijk, 2004, p. 149)
bravi consumatori e cittadini obbedienti. Questo progetto epocale che riduce la scuola a una
fabbrica di alunni-gadget, tutti uguali, standardizzati e produttivi, si è giovato, in particolare
nell’ultimo decennio, di un mantra ripetuto ossessivamente dai media, dagli intellettuali che si
ergono a difensori della «nozione di scuola [che] è anche fatica, attenzione, autorità, disciplina»
(Augias, 2005, p. 16): la “meritocrazia”. Selezionare gli alunni in base al merito non è di per sé
negativo, anzi… motivare gli studenti a dare il massimo sulla base delle potenzialità possedute è
per molti versi auspicabile e consente di esaltare le differenze nel rispetto della singolarità
irriducibile che contraddistingue ognuno. Contrastare le biopolitiche «normalizzanti» significa –
anche - esaltare le differenze che contraddistinguono le soggettività e, quindi, consentirne
l’emergenza individualizzante nel singolo alunno. La scuola, non dimentichiamolo, dovrebbe
fungere non soltanto da adeguato «ambiente d’apprendimento» ma anche da «spazio di
soggettivazione», da luogo in cui si riconoscono e si esaltano i caratteri individuanti le singole
personalità, le abilità relazionali, l’apertura verso l’alterità (Bonato, 2013, p. 20).
Il tranello obliato dalle presunte politiche del merito non consiste nel criterio di differenziazione
degli alunni in base al riconoscimento del lavoro svolto, della propensione allo studio, del valore
riconosciuto all’auto-costruzione del sé attraverso la fatica, del rispetto delle consegne (tutti
elementi auspicabili in una scuola che funziona), ma nel fantasma celato dietro il concetto di
«meritocrazia». Cosa si vuol intendere, infatti, con la selezione per meriti nelle attuali narrazioni
biopolitiche? Questo è l’interrogativo centrale per ogni analitica che si propone di indagare lo
svuotamento di senso e la destrutturazione del sistema di istruzione pubblico. Fondamentalmente
con “meritocrazia” si intende processo di selezione sulla base di prestazioni quantificabili e
misurabili, che tradotto significa: rendimenti traducibili in numeri, quindi valutabili con pretese
di oggettività. Vi sembra di sentire l’eco delle logiche di mercato? Se sì è perché avete
perfettamente ragione! In effetti, valutare e quantificare una prestazione in maniera oggettiva
attraverso una grammatica asettica è tipico della ratio economica, quella che Foucault identificava
come principio ordinatore della realtà e criterio di veridizione per l’homo œconomicus, la figura
paradigmatica della biopolitica liberale.
L’ideologia meritocratica, che punta a quantificare il valore delle prestazioni di ogni singolo
utente (alunno o docente che sia), si serve di un dispositivo d’eccezione: i test atti a misurare le
capacità logico-matematiche e di lettura e comprensione del testo. La somministrazione avviene
tanto a livello nazionale ad opera dell’Invalsi (Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema di
Istruzione) quanto a livello europeo e internazionale per merito dell’Ocse-Pisa. Dell’Invalsi si è
recentemente molto discusso per la possibile ricaduta sul finanziamento alle singole scuole o sulla
progressione di carriera dei docenti in base ai livelli raggiunti dagli alunni nei test somministrati
(ci si interroga su quali correttori eviteranno la prevedibile emissione di fondi verso le scuole di
“serie A” a scapito di quelle disagiate, o “di frontiera”, ma questa non è la sede per approfondire
l’argomento). L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) è
un’organizzazione internazionale che «raggruppa 34 Paesi membri e 70 Paesi partner. Nel 2010 ha
compiuto 50 anni e il suo obiettivo dichiarato è quello di far crescere l’economia e proteggere
l’ambiente. È un dispositivo internazionale che, attraverso dei test standardizzati, mira a valutare
le competenze in «Lettura, Matematica e Scienze» - il 5 Dicembre sono stati resi noti le indagini
per il 2012 (OCSE PISA 2012). L’acronimo Pisa traduce il Programme for International Student
Assesment: il programma di valutazione internazionale degli studenti» (Intravaia, 2012, p. 47).
Dal 2000 il Pisa misura le competenze degli studenti quindicenni in Lettura, Matematica, Scienze
e Problem Solving. Nel 2012 si è valutata anche la financial literacy, cioè:
«un insieme di conoscenze e capacità di comprensione di concetti di carattere finanziario unito
alle abilità, alla motivazione e alla fiducia nei propri mezzi che consentono di applicare quelle
stesse conoscenze e capacità di comprensione per prendere decisioni efficaci in molteplici e
diversi contesti di carattere finanziario, per migliorare il benessere degli individui e della società
e per consentire una partecipazione consapevole alla vita economica» (OECD-Pisa 2012).
Si vuol constatare il grado di abilità degli alunni in relazione a quella figura paradigmatica che
Foucault ha definito l’homo œconomicus, quella figura che si riconosce nei principi e nelle leggi
del mercato; qualora i risultati - come nel caso degli alunni italiani, ancora troppo recalcitranti
(Invalsi, OCSE PISA 2012) - risulti inferiore ai parametri attesi, la scuola procederà con il suo
progetto di ingegneria sociale a base di test, misurazioni ed educazione che seguono le logiche del
management, appositamente pensate per produttori efficienti e per consumatori contenti.
Certo, un sistema di istruzione che dovesse continuare a non produrre dei risultati all’altezza delle
aspettative dovrebbe - di necessità - essere sostituito con dispositivi di istruzione alternativi e con
agenzie formative più efficaci e, magari, maggiormente compromessi con lo spirito del
management. Si razionalizzerebbe - finalmente! Direbbe qualcuno… - la spesa e si raggiungerebbe
il fine di una programmazione pienamente conforme alle logiche aziendali desiderate. I progetti
scuola-lavoro, i tirocini formativi e finanche il piano di riduzione di un anno dei licei, al fine di
facilitare anagraficamente l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, appaiono soltanto come
momenti interlocutori che anticipano logiche biopolitiche di ben più ampio respiro e che si
possono soltanto immaginare.

Biopolitiche e contro-condotte

Cosa resta da fare a chi ha a cuore un altro modello di scuola? Attaccarsi alla nostalgia per il
passato aureo della scuola, quello durante il quale gli alunni studiavano e faticavano consapevoli
del valore della cultura in quanto tale? Rigettare in toto il principio meritocratico secondo cui
deve essere valorizzato chi mostra «interesse e maggiore propensione allo studio [rispetto a]
coloro che invece non si impegnano affatto e snobbano il lavoro per tutto l’anno contando
sull’altissima percentuale delle promozioni?» (Bonato, 2013, p. 14) Lamentarsi con i colleghi per
i corridoi o nelle aule docenti durante i momenti di pausa? Partecipare saltuariamente agli
scioperi attraverso i quali le organizzazioni sindacali provano a ricordare alla collettività il loro
esser qualcosa di più che una voce di prelievo sulla busta paga?
Noi crediamo che il primo passo consista nel mettere radicalmente in discussione la narrazione
che ha colonizzato l’immaginario collettivo sulla scuola. Nel far prendere alla comunità le
distanze da una rappresentazione della scuola pubblica «sotto il genere della commedia»
(Sandrucci, 2012). La descrizione caricaturale del mondo-scuola, i tic e le idiosincrasie dei prof.,
l’ignoranza inconsapevole degli alunni, l’avidità dei dirigenti scolastici, mistificano lo stato di
cose elevando a norma, a sistema, tutto ciò che non va al fine di sottacere le risorse umane, i
processi di crescita, gli ambienti d’apprendimento realizzati, l’educazione alla cittadinanza attiva,
insomma: tutti quegli elementi che rendono la scuola un momento formativo per le esistenze.
Esaltare, attraverso adeguate strategie discorsive, il fallimento della scuola e veicolarne o
rafforzarne un’immagine distorta fatta di slogan, di sbandierate emergenze educative, di presunti
privilegi attraverso i quali si dispone la classe docente al senso di colpa verso la società, di false
alternative concettuali come quella che oppone il lassismo alla valorizzazione del merito (la
meritocrazia è un’altra cosa), ecco cosa si deve smontare! Questo lavoro, da farsi attraverso saggi,
ricerche, inchieste è una delle contro-condotte necessarie quando il problema è la percezione e le
credenze comuni. Nessuna battaglia può essere vinta prescindendo dal piano dell’immaginario
collettivo. Questo senso comune che non riconosce alcuna importanza al processo educativo e
all’istanza di soggettivazione svolta dalla scuola è funzionale alle esigenze di quanti desiderano
sostituire il sistema di istruzione pubblico con qualche agenzia formativa di tipo confessionale. È
necessaria un’operazione di clinica dell’immaginario, cioè di critica (dal greco krinein,
“discernere”, “giudicare”) di quell’insieme di credenze irriflesse che costituiscono l’inconscio
collettivo sulla scuola, quello che anima le reazione emotive, patiche, di pancia, della
popolazione. È fondamentale perché nessuna battaglia per e sulla scuola può essere avviata senza
il consenso di chi della scuola usufruisce: alunni e genitori. A loro deve essere mostrata una
narrazione alternativa, meno caricaturale e più vicina alla complessità dell’universo-scuola.
Foucault, la nostra guida in questa breve disamina affermava:
«Là dove c’è potere c’è resistenza e […] tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in
posizione di esteriorità rispetto al potere. Bisogna dire che si è necessariamente “dentro” il potere,
che non gli si “sfugge”, che non c’è, rispetto ad esso, un’esteriorità assoluta, perché si sarebbe
immancabilmente soggetti alla legge? O che, se la storia è l’astuzia della ragione, il potere
sarebbe a sua volta l’astuzia della storia - ciò che vince sempre? Vorrebbe dire misconoscere il
carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere. Essi non possono esistere che in funzione
di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di
avversario, di bersaglio, di appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono
presenti dappertutto nella trama di potere» (Foucault, 1978, pp. 84-5).
Rintracciare questi «punti di resistenza» per sviluppare - su di essi, a partire da essi - le contro-
condotte più idonee, questo, insieme alla clinica dell’immaginario, l’esercizio etico necessario per
difendere, riabilitare e affermare la centralità della scuola pubblica, quella di Calamandrei, della
cittadinanza attiva e dell’educazione alla critica di tutti i poteri, di qualunque colore e ideologia.

Bibliografia

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Augias, Corrado, Lettere. Risponde Corrado Augias in La Repubblica, 8/06/2005

Calamandrei 2008
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Citton, Yves, Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, trad. it. di G. Boggio Marzet
Tremoloso, Roma, Alegre 2013

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Cutro, Antonella, (a cura di) Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, Verona, Ombre Corte
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Laudanna, Claudio, Scuola, mancano i soldi: "Costretti a comprare la carta igienica" in La
Nazione, 2/10/2010

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Sandrucci, Roberto, La scuola sotto il genere della commedia. Rappresentazioni della scuola
pubblica italiana: studio su sette casi, Pisa, ETS, 2012

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Sloterdijk, Peter, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, trad. it. di A. Calligaris -
S. Crosara, Milano, Bompiani, 2004

Fabio Milazzo, docente precario di Storia e Filosofia nei licei e blogger. È membro esterno di
LiberaParola, centro multidisciplinare di psicoanalisi applicata che opera nell’ambito dell’attività
scientifica e clinica del Campo Freudiano. Scrive sul blog Sentieri erranti e sulla rubrica “Lo
spirito e l’osso. Immaginario, filosofia e psicoanalisi” su Psychiatry on line Italia. È redattore
della web-magazine Haecceitas. Oltre ad alcuni saggi su Lacan e su Sciascia (deComporre
Edizioni) ha partecipato con un contributo al pamphlet “Il nuovo realismo è un populismo” (Il
nuovo Melangolo). Attualmente sta lavorando a un saggio sull’opera di Jacques Lacan.
La mente vuota dell’Imperatore
di Riccardo Capecchi

La Natura ha orrore del vuoto (Natura abhorret a vacuo, impropriamente attribuita a Descartes):
questa osservazione scolastica, così profonda da contenere in sé il nocciolo della termodinamica,
funziona in modo ironico ancora oggi quando ci guardiamo intorno e osserviamo il panorama
culturale che ci circonda. La desolazione che ci prende deriva da una percezione di vuoto, che però
non è visibile: è sostituito dal posticcio, dal falso, dal chiaro e rassicurante. La mente riempie le
caselle mancanti per completare un disegno che può maneggiare, o accetta di buon grado una
spiegazione semplice. Il vuoto nudo, la pura assenza, sarebbe di per sé intollerabile.
Quando abbiamo smesso di dubitare del falso, di avvertire finto, di strappare l’idolo? Riconoscere
la verità è necessario per la nostra sopravvivenza; la distinzione tra un bastone e un serpente è
cablata nel profondo dei nostri circuiti cerebrali (cfr. Changeux, 2003) (e forse non è un caso che
la trasformazione dall’uno all’altro sia un famoso esempio biblico di miracolo). Il tradimento non
è solo dei critici, intesi come figura specifica, militante, che dà l’esempio (o officia un rito), ma
della critica, del senso critico, di quelle armi del pensiero che devono essere diffuse il più
possibile tra la popolazione e usate per legittima difesa.
Se non è facilmente individuabile il momento di riduzione collettiva del senso critico, è facile
vedere chi può trarre giovamento da una massa che accetta acriticamente quel che le viene
suggerito. Che l’ignoranza sia funzionale al mantenimento dell’ordine costituito è un’idea
comprensibile. Ma questo è un passo ulteriore: l’esercizio della critica è qualcosa che è distinto
dalla conoscenza. Oggi abbiamo un accesso virtualmente continuo alle informazioni, siamo
immersi in un flusso di contenuti che però, con la scomparsa del senso critico, si rivelano inutili e
spesso dannosi, responsabili di una saturazione informativa anestetizzante e incomprensibile. Da
chi produce contenuti (in ultima analisi, per finalità economiche) viene privilegiata la comodità, il
rapido accesso, in una progressiva sparizione del medium. I contenuti sono immediati e in forma
semplificata. Con l’occultamento del medium si ottiene una riduzione del tempo di fruizione,
l’illusione dell’adesso; si riduce in questo modo anche la pausa temporale necessaria per
elaborare le informazioni, per discernere i dati sensibili, tracciare collegamenti e formulare
domande. Mark Lombardi, un artista concettuale americano morto nel 2000, ha indirettamente
mostrato nelle sue opere la complessità della gestione delle informazioni odierne. I suoi disegni,
che lui chiamava “Strutture Narrative”, sono simili a sociogrammi, grafi capaci di esemplificare
in modo tangibile, attraverso linee e frecce e collegamenti logici, la rete di rapporti e i flussi di
denaro tra persone e vicende degli scandali finanziari del tempo, diventando in questo modo una
realistica (e letterale) tessitura del Potere – o meglio, dei poteri e dei loro rapporti di forza. I grafi
di Lombardi giunsero a una ricchezza tale di dettagli (non a caso l’artista aveva lavorato a lungo
come archivista e bibliotecario) che alcuni di essi furono al centro di un’indagine dell’FBI
successiva all’Undici Settembre (Glenn, 2003).
Allo stesso tempo si ha una riduzione della consapevolezza del medium, della sua struttura. Fino
agli anni ’90 l’utilizzo di Internet presupponeva una conoscenza informatica che partiva dal
funzionamento logico dell’hardware passando dai rudimenti di programmazione necessari a far
funzionare il sistema operativo. La semplificazione del mezzo, che ha permesso la diffusione
popolare del PC e di Internet, ha pagato una perdita di consapevolezza sul medium che, con le app
su dispositivi touch come tablet e smartphone e un futuro prossimo fatto di occhiali e oggetti
ancora più integrati, ha raggiunto la sua naturale evoluzione. Il medium, che sia un’applicazione,
un’interfaccia web, un sito di social network, appare sempre più un dispositivo (in senso
deleuziano) che incanala in modo invisibile la nostra percezione del mondo. In questo sistema,
questa rete di dispositivi, tanto efficace a individuarci (letteralmente: basti pensare allo scandalo
di Pulcinella sull’NSA), viene ad essere distorta anche la fruizione dell’informazione
giornalistica, sempre più infotainement. Basta un’occhiata disincantata al sito di Repubblica per
rendersene conto. Manca lo spazio-tempo dell’inchiesta, dell’approfondimento, del collegamento,
sacrificato sull’altare degli inserzionisti. FOTO – GUARDA IL VIDEO – SEGUI LA DIRETTA.
L’archivio evapora, così come la competenza specifica del suo utilizzo. Con la mancanza
dell’esempio costante, dell’esercizio, è sempre più difficile apprendere e tenere viva l’analisi
critica.
C’è un problema epistemologico nel nostro rapporto con la conoscenza. Su questo ci stiamo
giocando una partita prossima alla biopolitica di Canguilhelm e Foucault. Perché l’incapacità di
analisi si riverbera nel politico, non solamente nell’annichilimento della critica politica, sostituita
da slogan, parole d’ordine, battute o vaffanculi. Vi chiedo l’indulgenza di seguirmi, e di intendere
il termine epistemologia nell’accezione anglosassone. Un popolo ignorante in ambito scientifico,
non solo cioè povero di nozioni di matematica, biologia, fisica o chimica, ma che non conosce il
metodo scientifico, come funziona la sua logica di base, sarà incapace di discernere in questo
ambito il vero dal falso, lasciandosi dominare dall’emozione, come una tifoseria. Sarebbe
preferibile un mondo in cui tutti ancora credessero all’esistenza dell’etere ma in cui fosse chiaro a
ciascuno che cos’è e come funziona la scienza. Il tipo di distorsione informativa finora
tratteggiata, al netto di poche mosche bianche (Le Scienze su tutti, non a caso “traduzione” italiana
dello Scientific American), non fa che aggravare il quadro. Aggiungiamo a questo un problema
strutturale ulteriore (causa e conseguenza insieme, inevitabile concatenazione): in Italia la figura
del divulgatore scientifico è pressoché scomparsa dalle redazioni dei giornali principali. Gli
articoli di argomento scientifico vengono in genere affidati a chi si occupa di high tech, ovvero da
appassionati di gadget tecnologici, non sempre in possesso della conoscenza necessaria alla
comprensione (e quindi alla sintesi) efficace e corretta di un articolo scientifico. A questo segue la
“necessità giornalistica” della trasformazione di una scoperta scientifica in una “storia”, con gli
eroi, il colpo di genio, il titolo roboante che possibilmente rimandi a qualcosa di pop – in pratica,
nulla a che vedere con la scoperta. Un panorama desolante.
Si pensi adesso a due casi eclatanti: Stamina e Di Bella. Di recente su un ottimo blog, Medbunker,
il cui autore è un medico ginecologo che da tempo si occupa di pseudoscienze, è stato pubblicato
un articolo (Di Grazia, 2013) in cui si analizza in maniera efficace queste due vicende,
evidenziandone le affinità. Vi ricorderete il caso Di Bella: nel 1997 un anziano professore di
fisiologia finì al centro delle cronache italiane e internazionali per aver sviluppato un protocollo
farmacologico alternativo alle cure tradizionali (il cosiddetto “Metodo Di Bella”) capace, a quanto
si diceva, di curare una grande varietà di tumori. Le sostanze che compongono il protocollo sono
Somatostatina, Retinoidi, Vitamine E, D, C, Melatonina, Bromocriptina e chemioterapici
tradizionali a dosi ridotte. L’uso delle singole sostanze non era privo di razionale (ad esempio,
esistono prove di un moderato effetto antitumorale della somatostatina su alcuni tumori): quel che
mancava era l’esistenza di una statistica sugli effettivi risultati conseguiti dai pazienti trattati,
nonché una qualunque pubblicazione scientifica sull’argomento, senza contare il rifiuto dal parte
del professore degli schemi chemioterapici convenzionali. Il clamore suscitato dalla notizia,
gonfiato da articoli sensazionalistici, portò a un coinvolgimento emotivo dell’opinione pubblica.
Si diffusero voci di guarigioni mediante il Metodo Di Bella, in seguito non confermate. Vi furono
pressioni da parte di associazioni di pazienti per ottenere libero accesso ai farmaci che facevano
parte del trattamento. Il costo dei farmaci necessari per il protocollo era molto alto; nel Dicembre
del ’97 il pretore di Maglie ordinò all’Azienda sanitaria locale di competenza di fornire
gratuitamente i farmaci a un paziente. Col tempo quelle sostanze si fecero introvabili,
alimentando in certe regioni un vero e proprio mercato nero. Nacquero raccolte di firme da parte
di cittadini per far partire la sperimentazione di quella che veniva chiamata “Cura Di Bella”. La
Commissione Unica del Farmaco espresse a tal proposito parere contrario. Tuttavia l’allora
Ministro della Sanità Rosy Bindi autorizzò la sperimentazione con un provvedimento urgente,
giustificando l’atto con ragioni di ordine pubblico. La sperimentazione venne concordata alla fine
di Gennaio del 1998, con protocolli sottoscritti da Luigi Di Bella. L'accordo prevedeva la
sperimentazione di nove protocolli (sarebbero poi diventati undici) per altrettante neoplasie, per
un totale di seicento pazienti, e un ulteriore protocollo di osservazione che avrebbe coinvolto
duemila pazienti. Occorre qui una precisazione: solitamente per testare un qualunque farmaco
esiste un iter che valuta inizialmente la tossicità della sostanza in questione (la cosiddetta Fase I
della sperimentazione clinica) e successivamente l’attività terapeutica del farmaco stesso (la Fase
II). Solo in un secondo momento si passa alla Fase III, ovvero alla sperimentazione clinica sui
pazienti su larga scala. Nel caso del Metodo Di Bella, contemporaneamente alla Fase III partirono
indagini di Fase II. In ambito oncologico, significa valutare se un determinato trattamento è in
grado di ridurre le dimensioni delle masse tumorali in un numero significativo di pazienti. I
risultati furono desolanti: quelle sperimentazioni non avevano prodotto alcuna prova che
giustificasse ulteriori trial clinici e la sperimentazione si interruppe. I sostenitori del metodo
contestarono la corretta esecuzione del protocollo, mentre a livello internazionale vi furono aspre
critiche da parte della comunità scientifica per la sperimentazione condotta in mancanza delle
minime evidenze necessarie.
Quindici anni dopo l’Italia si conferma il paese di Vico. La storia tende a ripetersi, con piccoli
ritocchi. Un nuovo “guaritore”, Vannoni (stavolta non un professore di fisiologia, ma un docente
di psicologia esperto in comunicazione persuasiva), si presenta con un’idea scientifica aggiornata
coi tempi, “plausibile”: usare cellule staminali per curare malattie degenerative. Inizia la sua
attività “terapeutica” nel 2005 servendosi di due biologi di origine russa. Un tribunale, in seguito a
un’inchiesta su presunti pagamenti e irregolarità legate alla somministrazione di queste terapie,
sospende le procedure effettuate agli Spedali Civili di Brescia sotto forma di “cure
compassionevoli”. Le famiglie dei pazienti protestano, coinvolgendo una trasmissione televisiva,
“Le Iene”, per chiedere un intervento del ministero e risolvere la situazione. I media si interessano
del caso, che monta e cresce. Si crea una fazione di sostenitori del Metodo Vannoni. Anche in
questo caso, nascono petizioni e raccolte firme per autorizzarne la sperimentazione clinica. E
anche questa volta dalla comunità scientifica internazionale si lanciano avvertimenti circa la
totale assenza di metodologia, ventilando l’ipotesi che l’Italia possa diventare un paese simile al
Messico, meta di malati disperati per terapie pseudoscientifiche, fonte di lucro per ciarlatani
senza scrupoli (si veda un editoriale apparso su Nature, dal titolo Stem cell fiasco must be stopped
(2013). Vannoni non ha mai pubblicato nessun dato sui suoi presunti risultati, non ha mai provato
gli effetti di queste cure. Dal 2007 somministra terapie in condizioni che secondo un'ispezione dei
NAS e dell'AIFA sono preoccupanti. Dalle indiscrezioni giornalistiche, infatti, della relazione del
comitato ministeriale su Stamina emerge che nelle infusioni somministrate non è stata rinvenuta
traccia di cellule staminali. L’utilizzo di derivati del sangue senza un’adeguata lavorazione e
un’origine certa può essere fonte di prioni (i vettori del morbo di Creutzfeldt-Jakob, la variante
umana dell’encefalopatia spongiforme bovina) o di virus. Stavolta la beffa di una sperimentazione
“in regime d’emergenza” è stata evitata, anche se la vicenda si dibatte e contorce e riserba ancora
gli ultimi colpi di coda. Mentre scrivo il tribunale di Pescara ha accolto l’ennesimo ricorso di un
malato di Sla contro gli Spedali Civili di Brescia: dovrà essere curato col “Metodo Stamina”
(come era già successo per il caso Di Bella).
Le analogie tra questi due casi sono impressionanti. Il nodo focale della questione, per me, è che
manca senso critico. In questo caso è una forma peculiare di senso critico, il “senso scientifico”
che manca, ovvero la capacità di distinguere tra pseudoscienza e scienza. Non è banale, sia chiaro.
Presuppone la conoscenza diffusa di come funzionino le scoperte scientifiche. Dimentichiamo per
un attimo i principali autori di filosofia della scienza e vediamo se troviamo un accordo. In
qualunque disciplina scientifica, per supportare un’affermazione nuova (una scoperta) devo
portare delle prove. Un teorema matematico necessita di una dimostrazione; una nuova galassia
sarà individuata da coordinate; una scoperta in ambito biologico sarà dimostrata da un
esperimento. La prova non deve solo essere consistente, deve anche poter essere messa a
disposizione per la verifica da parte di chiunque: nel caso di un esperimento, significa che deve
essere riproducibile. Col tempo si è messo a punto un sistema di controllo delle scoperte
scientifiche: vengono annunciate mediante articoli, i quali rispettano alcuni parametri (vengono
descritti i metodi di realizzazione dell’esperimento, la statistica, le tabelle con i risultati, ecc.).
Questi articoli vengono quindi rivisti da esperti del settore che ne verificano la plausibilità e la
chiarezza prima di venire rifiutati (il più delle volte) o pubblicati nelle riviste specializzate.
Questo non significa che ciò che viene pubblicato è la verità: a volte capitano errori, altre volte
una serie di dati vengono interpretati in maniera parziale o, col tempo, compare una teoria che
ingloba dati precedenti sotto una luce nuova (il paradigm shift reso famoso da Kuhn). La scienza è
un accordo tra sciocchi, sempre pronta a vacillare – ed è comunque quanto di meglio si possa
disporre. Anzi, proprio per questa sua natura ferocemente autocritica, che rivede costantemente i
propri confini e le proprie fondamenta, quel che sorge dalle continue macerie è sempre più solido
e netto dell’edificio che c’era prima. Se ci accostiamo con questo bagaglio ai casi Di Bella e
Vannoni salta agli occhi in modo grossolano la mancanza di pubblicazioni, ovvero di confronto
scientifico internazionale. Tanto è vero che l’unica cosa che può giustificare questa discrepanza
tra i fautori del metodo è una contro-narrazione fatta di multinazionali (“Big Pharma”) che
controllano il mondo scientifico e impediscono l’emergere di metodi contrari ai loro profitti. La
trasformazione della scienza in una narrazione qualsiasi è lo specifico movimento retorico che fa
saltare il senso stesso di metodo scientifico: se la scienza è un racconto come un altro, vale
esattamente quanto un’altra narrazione. Il dubbio è il pertugio attraverso il quale passa l’onda
dell’emotività, magari in familiari di persone che soffrono per malattie incurabili.
Facciamo un esperimento mentale. Cosa succederebbe se Vannoni, anziché parlare di staminali,
affermasse che ciò che cura i pazienti è l’immersione in una vasca colma di sangue di toro? Gran
parte delle persone disposte a credere al suo metodo non lo sarebbe più, relegandolo nell’ambito
della magia. Un tempo i cultori del dio Mitra non sarebbero stati d’accordo. Se al sangue taurino,
però, sostituiamo le “staminali”, tutto funziona, tutto diviene plausibile. Poco importa se le cellule
staminali che vengono utilizzate nel protocollo sono probabilmente mesenchimali, cioè derivanti
da un tessuto differente da quello del sistema nervoso. Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare
di staminali come cura potenziale di diverse malattie: pubblicazioni non specialistiche per meri
fini sensazionalistici hanno trasferito nozioni scientifiche in un contesto narrativo, rimuovendo i
passaggi necessari per trasformare una teoria biologica in una conferma e infine in una terapia
praticabile – ovvero, cancellando il metodo scientifico. Nella narrazione della “cura miracolosa”
si compie un atto di fede su elementi che hanno un’origine scientifica. Le staminali divengono il
nuovo fluido mesmerico. Quel che fa più rabbia è che effettivamente, al momento, sono in corso
sperimentazioni rigorose per l’utilizzo delle cellule staminali in pazienti con malattie
neurodegenerative. E quindi cosa significa, che ha ragione Vannoni? Il punto è che non abbiamo
né dimostrazioni di efficacia, né conosciamo i rischi di tali terapie, le dosi necessarie per ottenere
dei risultati (se mai ve ne sono), i migliori processi di coltura degli estratti tissutali, ecc. Se
Vannoni avesse davvero voluto portare un significativo e disinteressato contributo al benessere
dei pazienti, avrebbe divulgato alla comunità internazionale i dati delle sue ricerche, cosa che non
ha fatto (al contrario, esistono dei discussi “brevetti” della sua cura). Questo è il punto: la
possibilità della verifica. La trasparenza. C’è stato recentemente un altro caso di cura
“alternativa” che ha fatto discutere, ma con esiti molto differenti. Un chirurgo vascolare di
Modena, il prof. Zamboni, ha sostenuto che molti malati di Sclerosi Multipla fossero affetti da
una particolare malformazione venosa a livello giugulare (che ha chiamato CCSVI), la quale
poteva essere dimostrata mediante eco doppler. Operando quindi una dilatazione meccanica della
stenosi venosa tramite stent, si riuscirebbe, a detta del chirurgo, a ristabilire un flusso corretto di
sangue in uscita dal cranio. Il professore sostiene che con tale manovra (chiamata, con malcelato
ottimismo, “di liberazione”) si inducono miglioramenti nella sintomatologia dei pazienti. La
teoria è stata accolta con scetticismo in ambito medico, poiché si ritiene al momento che la
Sclerosi Multipla sia una malattia immunomediata, ovvero causata da un danno diretto da parte
del sistema immunitario. Tuttavia, in questo caso il medico ha scelto di aprirsi alla comunità
scientifica internazionale, diffondendo dati, pubblicando su riviste del settore, dove si è sviluppato
un dibattito (anche feroce). Attualmente sia negli Stati Uniti che in varie parti d’Italia sta partendo
la sperimentazione della metodica. Alla fine del percorso, numeri alla mano, sapremo se davvero
questa insolita teoria ha portato un significativo miglioramento nella vita dei pazienti. In tal caso,
potrebbe essere necessario un cambio di paradigma per conciliare le precedenti conoscenze sulla
Sclerosi Multipla con questi risultati. E sarebbe magnifico. Anche se non occorre farsi illusioni:
troppi studi hanno messo in discussione la teoria di Zamboni. Ma sarebbe comunque una vittoria
del metodo scientifico. Una recente ricerca mette in crisi l’ipotesi che questa anomalia vascolare
possa essere associata alla sclerosi multipla, mostrando con uno studio in doppio cieco che tale
malformazione è presente in una bassa percentuale sia nei pazienti analizzati sia in controlli sani
(Traboulsee et al., 2013). Al momento non esistono studi controllati che dimostrino l’effettiva
efficacia della manovra di liberazione o che ne valuti la reale sicurezza. Altissima è l’incidenza
delle restenosi post-intervento. Nonostante questo, si calcola che dal 2010 la manovra di
liberazione venga eseguita in strutture private di 40 Paesi e che già 30000 pazienti si siano
sottoposti a tale procedura. Purtroppo esistono medici senza scrupoli che, in assenza di evidenze
definitive, al di fuori di protocolli di studio speculano sulla speranza dei malati per meri motivi
economici.
Ho parlato di metodo scientifico, ma come avete visto la faccenda si complica. Perché non basta
avere ben presente il meccanismo su cui si reggono le conoscenze scientifiche: occorre
distinguere il discorso scientifico da altri tipi di discorso. Quel che ho chiamato “critica” e che
finora ho trattato come un monolito in realtà si compone di diverse competenze che si articolano
tra loro in modo armonico, come ingranaggi in un orologio.
Come fare dunque per diffondere il senso critico? Si possono immaginare insegnamenti
“alternativi” alle canoniche materie scolastiche e tuttavia essenziali per la formazione
dell’individuo? La lista che ho provato a tratteggiare descrive in realtà un campo di forze, i cui
confini trascendono da un argomento all’altro come vasi comunicanti. C’è l’epistemologia, intesa
come metodo scientifico; c’è la semiotica, la logica matematica, la filologia (nel senso di
genealogia e uso delle fonti), lo storytelling (cfr. Wu Ming 2, 2009). In una parola, vorrei
chiamare questo campo di forze “retorica”. Niente di nuovo: l’arte della retorica, rivista e adattata
ai tempi, mostra all’individuo il tessuto di rapporti di forza (politici, economici, informazionali)
che definisce il nostro piano di esistenza. Non solamente come deterrente per manovre persuasive
da parte di altri, ma anche, come suggerisce Ginzburg (2000) seguendo Aristotele, retorica come
strumento per arrivare alla prova, sia in ambito storiografico che, estendendo, epistemologico.
Una diagnostica necessaria per mettere in luce la forma, l’architettura del mondo. La mancanza di
questo strumento critico, la cecità di questo occhio, si riverbera nel politico: una popolazione in
preda all’emotività, ad esempio, costringerà i propri governanti a sperimentazioni irragionevoli o
a richiedere interrogazioni parlamentari sulle scie chimiche. Non è un caso, ad esempio, che del
Metodo Di Bella furono pervicaci sostenitori uomini politici di Alleanza Nazionale e che ancora
nel 2003, sotto l’allora Ministro della Sanità Storace, si tentò di far inserire nella lista dei farmaci
dispensati dal Sistema Sanitario Nazionale quelli che componevano il protocollo Di Bella. (È
curioso a questo punto ricordare come Di Bella divenne professore di Fisiologia a Modena nel
1939 e prese parte dal ’41 al ’43 alla campagna italiana in Grecia in qualità di ufficiale medico.)
In un meccanismo politico basato sul consenso, questa stessa ignoranza plasma la mente
dell’Imperatore. Il pensiero critico ci fa vedere che il Re è vuoto: porta al disvelamento del suo
mistero taumaturgico, mostra i flussi di denaro e di informazione che intersecano e individuano i
nessi di potere. Il passo successivo è dire la verità.
Le cose non sono così semplici. Occorre esercitare in modo ricorsivo il senso critico sui suoi
stessi fondamenti, dissezionarne le fibre, se vogliamo che la costruzione sia solida e la nostra voce
ferma. Anche in questo caso, la colonna portante della differenza tra scienza e narrazione, il
metodo scientifico, che a prima vista appariva lucido e netto, si rivela poroso e meno solido del
previsto. Il sistema internazionale del peer-review è lungi dall’essere perfetto. I finanziamenti per
i laboratori scientifici vengono assegnati in base a criteri non sempre trasparenti, tendendo a
premiare centri famosi di grosse università che producono numerosi articoli sulle più importanti
riviste scientifiche (e che quindi, per tali motivi, hanno già sufficienti fondi). I fondi sono
necessari per l’acquisto di apparecchiature all’avanguardia, il cui solo possesso determina la
possibilità di realizzare prima di altri articoli preclusi ai più, alimentando il circolo vizioso dei
finanziamenti. Si può tratteggiare un Capitale scientifico che mostra come la ricerca non sia
davvero libera, ma dominata da rapporti economici e di potere tra università, riviste, centri di
finanziamento (e, ça va sans dire, industrie farmaceutiche). Certi moniti di Feyerabend vanno
ancora ascoltati. Infine, parte di ciò che ha reso la Scienza un Mistero è imputabile ai suoi
officianti, troppo distanti per una divulgazione su larga scala e a volte interessati a mantenere le
conoscenze in ambito prettamente specialistico.
Nonostante tutto, il senso critico, basato su quell’insieme di strumenti analitici per affrontare il
mondo che ho chiamato retorica, è l’arma più efficace che abbiamo a disposizione. La scienza è
parte integrante di quel bagaglio. Incerta, fallace come tutte le cose umane, criticabile. Ma da ogni
critica trae maggiore forza, come l’araba fenice che risorge dalle ceneri. E che importa se appare
sgraziata: del resto, l’evoluzione ci dice che, come fenice, è meglio un solido tacchino che un
fragile pterodattilo (cfr. ad esempio Chiusi, 2014).

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(consultato il 7 luglio 2014)

Nature 2013
Nature, 504, 331, 19 dicembre 2013, http://www.nature.com/news/stem-cell-fiasco-must-be-
stopped-1.14375 (consultato il 7 luglio 2014)

Traboulsee 2014
Traboulsee, Anthony L. et al, Prevalence of extracranial venous narrowing on catheter
venography in people with multiple sclerosis, their siblings, and unrelated healthy controls: a
blinded, case-control study, in The Lancet, 383 (2014), pp. 138-45

Wu Ming 2 2009
Wu Ming 2, La salvezza di Euridice, in New Italian Epic. Narrazioni, sguardi obliqui, ritorni al
futuro, Einaudi, Torino, 2009

Riccardo Capecchi (1982), medico specializzando in Immunologia Clinica. È tra gli autori del
romanzo collettivo In Territorio Nemico (minimumfax, 2013). Scrive sciocchezze in rete con lo
pseudonimo di Blepiro. Qualche volta ha anche una vita sociale.
Conclusioni
di Claudia Boscolo

In questa raccolta di saggi abbiamo cercato di fornire un quadro di ciò che accade nella mente del
telespettatore quando assiste al tentativo da parte delle “teletate” di normalizzare famiglie
presentate come disfunzionali. Abbiamo illustrato questo furore normalizzante
contestualizzandolo nella cornice narrativa dei nostri tempi, che tendono a mostrare una realtà
ridotta, semplificata e banalizzata rispetto ai processi mentali che governano la vita di un
individuo, le sue pulsioni e i suoi desideri, i quali spesso cozzano con la recinzione normativa e, di
conseguenza, educativa attraverso cui si ordina e contiene la collettività a detrimento della
dimensione individuale.
Abbiamo intrapreso questa avventura nell’auspicio di diffondere alcuni fondamenti teorici e
riferimenti bibliografici, per semplificare un po’ la vita al lettore che volesse esplorare un
approccio critico all’universo normalizzante in cui siamo immersi e in cui si svolge la nostra vita
quotidiana.
Con l’augurio che questa raccolta di saggi abbia soddisfatto il lettore, attendiamo critiche,
osservazioni, ampliamenti, spin-off, e soprattutto ci auspichiamo che la discussione venga
mantenuta viva nella realtà e attraverso la Rete e i media. È infatti in un’ottica transmediale che ci
siamo imbarcati in questa impresa, sperando che i contenuti di questi saggi trovino riscontro,
rielaborazione e continuazione nelle discussioni pubbliche, nella carta stampata, nella
rappresentazione scenica e in tutte le modalità espressive e comunicative attraverso le quali il
messaggio di questi scritti possa rimanere vivo.
Ringraziamenti

Questo e-book nasce da una intuizione di Maddalena Mapelli, trasferita prontamente in rete con lo
scopo di raccogliere adesioni alla prima bozza del progetto, che si è poi trasformato in questa
pubblicazione collettanea. Il principale ringraziamento va quindi agli autori che hanno deciso di
partecipare a questa avventura mossi da un genuino interesse per il tema proposto, a Sabrina
Manfredi che ci ha gentilmente ceduto la sua opera Uncanny (1993) e a Massimo Giacci per la
realizzazione grafica della copertina.
Ringraziamo inoltre Mario Galzigna per averci sempre incoraggiate e per averci offerto la sua
preziosa esperienza. È grazie a lui e all’interesse di Francesco Bollorino se questa raccolta di
saggi ha trovato una ubicazione prestigiosa in Rete presso il sito di Psychiatryonline.it.
Un ringraziamento particolare va ad Antonio Vigilante per il suo supporto tecnico nella
realizzazione dell’e-book.

CB
1)
Il presente testo corrisponde, con qualche variazione, a una parte
del capitolo VI di T. Ariemma, Sul filo del rasoio. Estetica e
filosofia del taglio, Roma, Aracne 2014. ↵

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