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Pedagogia Generale Modulo II Preadolescenti a scuola

Preadolescenti a scuola Insegnare nella secondaria di primo grado – Giorgio de Rubeis

Introduzione: Educazione, pedagogia, scuola Premessa: il punto di vista pedagogico La


pedagogia è una forma di conoscenza scientifica che ha come proprio specifico
oggetto di ricerca l’educabilità umana e quindi la fenomenologia dei processi
educativi. Essa ha come proprio oggetto di indagine quei processi, individuali e sociali,
attraverso i quali, in ogni società e in ogni momento storico, l’esperienza umana della
crescita si materializza in forme di umanità adulta, forme che ogni cultura riconosce e
apprezza come desiderabili per i propri membri. La pedagogia è un sapere
interpretante e anche descrittivo. L’oggetto di analisi della pedagogia, pur essendo
molto specifico, è anche molto vasto e articolato. L’assunto che tutto sia educazione
per quanto molto diffuso costituisce una categoria erronea.

L’educabilità è una caratteristica specifica del soggetto umano; è una specifica forma
di malleabilità e insieme di adattamento attivo del piccolo dell’uomo rispetto al suo
ambiente di nascita.

I presupposti pedagogici impliciti e le immagini dell’educazione La parola educazione


presenta nell’uso comune delle lingue moderne una triplice stratificazione:
formazione, insegnamento o allevamento e buone maniere.

L’educazione come insegnamento, Il modello del contenitore e del travaso Spesso la


nozione di educazione viene identificata con quelle di istruzione e di insegnamento: le
conoscenze sembra possano essere trasmesse in termini lineari e unidirezionali, da
chi sa di più a chi sa di meno. Questa rappresentazione intellettualistica favorisce la
costruzione di immagini della mente che apprende come una sorta di contenitore. La
mente viene rappresentata come identificata con la sua materialità (la testa) e viene
assimilata essa stessa a un contenitore. Nella immagine mentale del contenitore
l’azione dell’insegnamento viene perciò identificata con un travaso, un trasferimento
di contenuti da una testa/contenitore ad un’altra, e la conoscenza stessa viene così
materializzata e rappresentata in pacchi/contenitori, a loro volta depositati.

Se la conoscenza è un bene materiale, il primo obiettivo di una politica di promozione


sociale e culturale diventa il consentire l’accesso ad essa.

In termini reali, la conoscenza umana si rigenera nelle menti che apprendono, e


chi insegna efficacemente non solo non perde la propria conoscenza ma piuttosto la
vede accrescersi e modificarsi.

Riteniamo che sia lo smarrimento sociale di una idea di educazione condivisa che
determina la perdita di efficacia educativa, ovvero emergenza educativa, della società
presente accresce le difficoltà della generazione adolescente e giovane nell’assumere
il controllo simbolico del proprio progetto esistenziale. Detto in parole povere, è la
concezione diversa dell’educazione che diverse persone hanno a far si che lo studente
si sente sempre meno invogliato nello studio.

Fenomenologia dell’educazione Anche se la scuola non è tutto può fare moltissimo. Il


concetto di educazione è il seguente:

processo di interazione che si sviluppa per tutto il tempo dell’età evolutiva fra un soggetto
giovane ed un certo numero di adulti significativi per lui; questi ultimi si affiancano, si
alternano, si succedono nella relazione, ma possono anche entrare in conflitto fra loro e
con la persona che cresce.

Si aggiunge alla definizione:

processo vitale interattivo, protratto almeno per tutta l’età evolutiva, sempre collocato
dentro un orizzonte culturale e socio-storico dato, per il quale ogni nuovo nato entra in
una specifica relazione con una serie di persone adulte significative per lui, con cui egli si
identifica e da cui viene, per molti versi, psicologicamente contenuto, fino al momento in
cui egli diventerà capace di auto-contenersi, e avrà raggiunto una soglia di autonomia,
intellettuale ed etica, in base alla quale potrà assumere il controllo e la responsabilità delle
proprie condotte.

Mentre l’educando è quindi anche una persona singola, la cui unità determina l’unità
del processo educativo medesimo, l’educatore costituisce piuttosto un soggetto
collettivo. Dunque, la relazione educativa è sempre asimmetrica e non statica:

all’inizio, l’adulto educatore esercita un’autorità, cui corrispondono l’assenza di


autonomia; nello sviluppo della relazione, via via che l’educando cresce, questi
assume una progressiva corresponsabilità nella sua stessa educazione; l’educando
accetta il progetto educativo, la proposta di seno che gli adulti gli hanno fatto, anche
se, pure nel condividerla, egli inevitabilmente la trasformerà parzialmente. L’autorità
educativa dell’adulto costituisce quindi una autorità a termine, ma soprattutto
un’autorità finalizzata all’autonomia.

C’è sempre un progetto di vita che sostiene il processo evolutivo.

Nel processo educativo in senso stretto dobbiamo quindi includere quel complesso di
azioni, narrazioni, rituali, comunicazioni dirette che alcuni adulti appartenenti ad un
gruppo sociale esplicano nei confronti di un singolo individuo in crescita, mediando
personalmente nei suoi confronti l’intero orizzonte culturale di riferimento, e
promuovendo con vario grado di intenzionalità la sua progressiva autonomia
personale nelle forme previste dalla loro cultura.

Le costanti educative sono:

1. Immaturità malleabile

2. Relazione educativa

3. Orizzonte culturale

4. Autonomia come compito ed esito del processo stesso

L’autonomia è la condizione esistenziale di un soggetto divenuto capace di fissare a sé


stesso le norme del proprio agire.

Relazione educativa e identificazione I processi di identificazione nella relazione


educativa tra l’educando e l’educatore rappresentano la più potente, e spesso
inconsapevole, motivazione all’insegnamento e all’apprendimento intenzionali. I
processi identificativi sono di segno diverso e di diversa intensità in relazione all’età di
un soggetto; apparentemente seguono una logica che rende decrescente la loro
importanza con il crescere dell’età.

Il bambino si identifica assumendo simbolicamente un Io vicario, lo fa interiorizzando


l’Io dell’adulto significativo in una forma mitizzata, e lo fa per sostenere esperienze per
le quali non sarebbe ancora pronto. Nella situazione concreta, egli non si comporta
tanto come si comporterebbe il suo modello interiorizzato nella stessa situazione, ma
piuttosto come egli immagina che questi si comporterebbe. Nel corso dell’età
evolutiva, in rapporto ad una identità dell’Io progressivamente più strutturata, le
identificazioni si riducono nella durata e possono crescere di numero, estendendosi a
figure di adulti significativi incontrati fuori dal nucleo familiare.

Nel dinamismo dell’identificazione infantile si nasconde una motivazione potente, una


vera e propria spinta alla crescita, e alla costruzione di sé. Nella forma di umanità
culturalmente e socialmente caratterizzata. Nelle identificazioni dell’adulto si genera
viceversa una comprensione profonda, di tipo empatico e ne deriva una motivazione
al prendersi cura.

La trasformazione adulta alla formazione Con il termine formazione affermiamo


l’esistenza di un processo più ampio, che include l’educazione già avvenuta e la
presuppone, e si innesta su di essa. Concetto di formazione:

il processo attraverso il quale ogni adulto, nell’arco della vita, e nelle diverse stagioni di
essa, esercita la propria conquistata autonomia per continuare a prendere forma alla
propria umanità individuale, in una direzione da lui giudicata desiderabile rispetto ad un
proprio sistema di motivazioni e valori, e rispetto all’orizzonte socio-culturale in cui egli
vive.

Concetto di trasformazione:

costituisce un dinamismo psichico parallelo ai mutamenti psicofisici dell’età adulta, e che


nell’adulto sostituisce la crescita in senso proprio. Una trasformazione quindi non
comporta necessariamente nell’adulto intenzionalità e decisioni volontarie, ed essa si può
configurare talora anche come una stasi e addirittura una involuzione.

L’insegnamento: una definizione provvisoria Definizione di insegnamento:

qualsiasi atto umano che intervenga per modificare l’esperienza di un altro essere umano,
sia anticipandola, sia controllandola, sia mediandola, sia rendendola consapevole, per
mezzo di contenuti conoscitivi di svariata natura.

In ogni atto di insegnamento la relazione con l’allievo è stabilita a partire da un


oggetto di insegnamento. Insegnare diventa un’azione promozionale dell’oggetto
preso in esame. Si promuove perché si rigenera nella persona.

1. I luoghi e le forme dell’esperienza educativa Le forme strutturali o modelli Esistono


tre forme strutturali, o luoghi simbolici/materiali, fondamentali per l’educazione e
sono:

1. Famiglia

2. Apprendistato e scuola

3. Gruppo dei coetanei

Quest’ultimo è trasversale rispetto agli altri due, e fornisce supporti, o determina


ostacoli, per lo sviluppo dell’identità personale.

Tutti i modelli educativi comportano strutturalmente una esperienza di tipo


partecipativo: il soggetto entra nel processo educativo in quanto partecipe della vita di
un gruppo umano.
Il modello familiare è il modello educativo paradigmatico, in quanto il gruppo
familiare ha in sé legami sociali, sia di tipo istituzionali, sia di tipo emotivo affettivo. Il
gruppo familiare molto spesso è un gruppo primario basato sulla convivenza. La
convivenza appare la condizione della sopravvivenza della nostra specie. La famiglia è
una condizione umana universale trasversale rispetto alle varie culture. La sua
esistenza sembra attestare la socialità solidale. La famiglia di origine determina la
qualità di cui il piccolo sarà progressivamente capace. La scuola e la famiglia non
collaborano. La scuola deve dare un orizzonte culturale alternativo rispetto
all’ambiente famigliare.

L’apprendistato è una struttura educativa che lega i suoi componenti in maniera


pratica rispetto ad uno scopo/lavoro. L’esperienza dell’apprendistato è di tipo
partecipativo e di immersione totale nel tessuto.

La scuola invece rappresenta una forma strutturale simbolica, in quanto allontana


dall’esperienza socioculturale per interrogarla.

Il modello familiare Nella famiglia il bambino apprende durante la crescita


direttamente dagli adulti e sperimenta l’utilità delle norme e delle informazioni che gli
vengono impartite. L’insegnamento/apprendimento nell’ambiente familiare ha anche
la durata più lunga dal punto di vista esistenziale. Qualunque sia la
composizione/lacerazione interna, la famiglia si presenta al nuovo nato come
un’entità superindividuale rispetto alla quale potrà avere una dinamica di
appartenenza/ separazione. Si può ipotizzare che il senso di appartenenza del nuovo
nato sia la condizione della partecipazione alla vita comune del gruppo familiare e che
la partecipazione sia la generatrice del senso di appartenenza, in un crescente
dinamismo interattivo.

Sia l’identificazione, sia il senso di appartenenza costituiscono le due più potenti


motivazioni intrinseche all’apprendimento.

Il processo educativo genera motivazioni intrinseche ed è sostenuto da esse; nel


passaggio dalla famiglia alla scuola il nuovo ambito non potrà avere successo
didattico se non riuscirà a suscitare motivazioni intrinseche.

Il modello dell’apprendistato L’apprendistato comporta un’esperienza di partecipazione


in un mondo vitale il cui prototipo è la bottega artigiana in tutti i suoi equivalenti.
Nell’apprendistato il soggetto molto giovane viene precocemente inserito in una
situazione operativa globale. La durata del percorso di apprendistato può variare
ampiamente.
Nella forma dell’apprendistato l’insegnamento assume caratteri di assoluto rilievo: il
maestro si colloca sempre in un contesto materiale concreto, in un mondo vitale e
non in un ambito artificiale/simulato, in una prevalente relazione faccia a faccia.

Il rapporto didattico si articola in un far vedere, far fare, verificare e in un reciproco


vedere, provare, eseguire, fare, verificare. L’apprendista può correggere il tiro
immediatamente, e può essere gratificato immediatamente. Il precorso di
apprendistato rassicura l’Io giovanile circa il proprio valore. L’apprendistato guadagna
in efficacia, concretezza, specializzazione ciò che non acquisisce in ampiezza e
generalità.

Il modello dell’apprendistato è una sintesi di partecipazione e insegnamento, la cui


efficacia è bilanciata dalla sua elevata specializzazione, che ne restringe gli obiettivi
educativi generali: l’inesperienza dell’allievo è direttamente e costantemente messa a
confronto con la situazione per il tramite della maggiore esperienza/competenza del
maestro.

Apprendistato ha un implicito strutturale che è l’idea che lavorare si impara


lavorando.

2. La scuola come ingresso nella vita della ragione Il tempio e la foresta Possiamo dire
che si costituisca una scuola ogni volta che un gruppo di soggetti si raccoglie intorno a uno
o più maestri, in uno spazio, fisico o simbolico, allo scopo di acquisire conoscenze e abilità
specifiche, attraverso un preciso itinerario formativo. Le prime scuole erano quelle del
tempio in cui si formavano i primi sacerdoti. Le scuole del tempio formavano una
classe dirigente variamente reclutata, una aristocrazia/meritocrazia non tanto e non
solo di nascita, quanto soprattutto di destino e responsabilità sociale, e anche di
potenzialità e doti personali, che nel percorso scolastico sarebbero state
sistematicamente messe alla prova.

Esistono anche le scuole della foresta, in cui si applicavano periodi di segregazione di


ragazzi e ragazze per periodi abbastanza lunghi.

Elementi costanti nella fenomenologia della scuola Nella scuola si privilegia sempre un
complesso di conoscenze a cui ciascuna società storica attribuisce un valore
prioritario. La scuola si occupa di conoscenze giudicate socialmente importanti o
addirittura indispensabili. Possiamo dire che le scuole si costituiscono sempre intorno
a due nuclei strutturali:

• Teoria della mente


• Teoria della cultura

Dewey ha detto che le scuole nascono quando il patrimonio conoscitivo di una società
umana è divenuto tale da non poter essere appreso dai nuovi nati attraverso la
semplice imitazione e partecipazione diretta alla vita del gruppo. La nascita della
scuola dipenderebbe direttamente dallo sviluppo della conoscenza razionale e dal suo
accumulo.

L’apprendimento per imitazione è uno dei più antichi ed appartiene a prospettive


filosofico-pedagogiche di tipo naturalistico-spontaneistico: ci si concentra
sull’apprendimento spontaneo e sulla descrizione di esso tralasciando
l’apprendimento volontario. Il problema dell’apprendimento per imitazione
(meccanico) è la qualità invece che la funzionalità. È molto meglio l’apprendimento
volontario che per imitazione, perché il primo permette l’autonomia dell’individuo che
espande le proprie abilità in maniera auto-espansiva.

La mente e la cultura formale La forma/istituzione che chiamiamo scuola è sempre in


rapporto con un patrimonio determinato di conoscenze e di abilità simboliche che
diventano materia dell’insegnamento. La scuola rende possibile la trasmissione del
patrimonio conoscitivo di ciascun gruppo umano e la sua continua trasformazione. Se
per un verso la scuola è richiesta dalla presenza di un ampio patrimonio culturale di
tipo formale, per l’altro verso è la scuola che rende possibile lo sviluppo del
patrimonio di un gruppo. La trasformazione della cultura e la trasformazione della
mente sono fra loro in un circolo virtuoso intergenerazionale, in cui mente e cultura si
modellano reciprocamente in una dinamica auto- espansiva.

La scuola come forma educativa è il luogo che prende le distanze dall’esperienza


per conferire significato ad essa.

Dal punto di vista delle caratteristiche strutturali della scuola si può dire che si tratta
sempre di una forma istituzionalizzata: una società storica regolamenta il
funzionamento di questo luogo, prescrivendo chi, e per quanto tempo, lo debba
frequentare, e chi, e come, vi debba insegnare.

Una seconda caratteristica è rappresentata dalla separatezza o secondarietà della


scuola rispetto all’esperienza immediata: la scuola è sempre fisicamente e
simbolicamente separato. Separazione fra la conoscenza e la sua applicazione.

Il tempo e il luogo disteso costituisce un’altra caratteristica strutturale della scuola.

La banchisa corallina e la cassetta degli attrezzi La cultura formale costituisce in ogni


momento un enorme deposito conoscitivo, e insieme e in parallelo anche la cassetta
degli attrezzi, che permette l’accesso al metaforico deposito e la sua manutenzione.
Ogni persona umana e ogni civiltà umana hanno depositato i loro gusci vuoti,
trasformandoli in una solida banchisa corallina, e la generazione viva e vitale può
vivere umanamente solo sul rapporto della base rocciosa della banchisa. Le culture
non sono statiche e monolitiche come le banchise coralline, a cui sono paragonabili
solo per ampiezza, forza e stratificazione successiva, ma posseggono piuttosto un
dinamismo inarrestabile e una vitalità che sono loro conferiti dalla vitalità dei loro
membri. La novità specifica introdotta dalla forma educativa di tipo scolastico per
eccellenza è la particolare connessione che in essa si opera fra la malleabilità infantile
e l’esistenza di un complesso specifico di informazioni e di competenze cui si
attribuisce o si riconosce un valore intrinseco. La scuola deve insegnare la realtà, il
passato, il presente e il futuro.

La prima caratteristica essenziale dell’istruzione scolastica consiste nella sua intenzionale


artificialità, nella sua progettazione come luogo separato, in cui accogliere soggetti
ancora immaturi per finalità diverse da quelle dell’apprendistato, finalità che hanno
sempre a che vedere con un oggetto degno di essere insegnato.

3. La scuola media italiana Una scuola per un popolo di cittadini La scuola media è un
segmento scolastico triennale destinato a un allievo di età compresa fra gli undici e i
quattordici anni, viene detta anche scuola secondaria di primo grado. Prima del 1940,
il termine “media” faceva riferimento all’intero segmento secondario, cioè ai livelli
scolastici intermedi fra l’istruzione elementare e il grado universitario. Il nome scuola
media unica appare nel 1940, in seguito a una riforma strutturale che unificava i gradi
iniziali di tutte le scuole secondarie, in termini tendenzialmente assimilativi al vecchio
ginnasio.

Un sistema scolastico è sempre costituito da una serie di elementi strutturali e


normativi che ne regolano l’istituzione e il funzionamento, e, in parallelo, dei
programmi/indicazioni che ne costituiscono l’anima pedagogico-didattica. Inoltre, c’è
uno stretto rapporto tra il livello scolastico di una popolazione e le sue possibilità di
sviluppo economico. Tutti gli elementi strutturali si integrano all’interno di quella che
potremmo chiamare una cultura di scuola più generale.

Giorgio Chiosso parla di sviluppo e declino della scuola italiana nel trentennio
compreso fra il 1962 e il 1992, con riferimento esplicito alla scuola media e alle
trasformazioni socioculturali e anche politiche dello stesso trentennio. La crisi della
scolarizzazione occidentale non coincide, per tempi e per estensione, con la crisi dello
specifico segmento scolastico di cui ci stiamo occupando. Il suo ipotizzato declino
diventò presumibilmente percepibile solo quando essa venne toccata
progressivamente dell’onda dagli effetti da essa stessa generati: la diffusione
generalizzata dell’istruzione secondaria rende abituale una frequenza scolastica
tendenzialmente universale dei ragazzi, e ciò cancella nella memoria sociale i meriti
iniziali della scuola medina in questa direzione.
Le competenze valutabili negli adolescenti italiani sembrano dimostrare un
progressivo regresso. Ma esiste soprattutto la percezione sociale globale di una
perdita di competenza professionale in ogni strato e in ogni settore della popolazione.
Il vero dato problematico è l’insuccesso scolastico generalizzato dell’intero sistema, a
partire appunto dalla scuola secondaria di primo grado, e progressivamente
ampliatosi alla secondaria superiore, per quanto in essa parzialmente occultato dal
meccanismo dei debiti formativi.

Per quanto riguarda la scuola media, la vera linea spartiacque fra due periodi di
ascesa e declino può essere forse individuata nel momento in cui la scuola media ha
smesso di dichiarare l’insuccesso al proprio interno. Fino a quando la scuola media ha
combattuto dall’interno l’insuccesso e la disaffezione dei suoi allievi, essa è stata di
fatto un laboratorio didattico vitale in tutte le sue dimensioni. In Italia la percezione di
una crisi e di un declino della scuola media si è avvertita massicciamente alla fine degli
anni Novanta, quando un gran numero di docenti medi abbandonarono la scuola
media per la secondaria superiore, sentendosi minacciati dal progetto dell’allora
ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer di dar vita a un ciclo unico di sette anni nel
quale procedere la fusione di scuola elementare media.

Novità e originalità della riforma del 1962

L’istituzione della scuola media nel 1962 fu il risultato di una larga convergenza
politica delle forze allora al governo e all’opposizione, e vide la luce, dopo un travaglio
legislativo di almeno quindici anni. Notevole fu l’impegno dei cattolici per la scuola
media unificata.

Il sistema scolastico italiano ebbe la sua origine giuridica, negli anni successivi
all’unificazione politica del 1861 con la legge Casati che definiva le condizioni di
formazione e recultamento dei maestri da parte dei comuni, ai quali era demandata
l’attuazione della legge per quanto riguardava l’istruzione elementare.

Nel 1877 la legge Coppino estese l’obbligo scolastico elementare.

Nel 1904 la legge Orlando ridusse il corso elementare a quattro anni, a istituì la V e la
VI classe postelementare, estendendo in tal modo l’obbligo scolastico dai nove ai
dodici anni.

Nel 1911 la legge Daneo-Credaro avocava allo Stato le scuole elementari,


sottraendole ai comuni. L’avocazione avvenne concretamente tra il 1931 e il 1933.
Questo comportò:
• La centralizzazione e la verticalizzazione della struttura del sistema;

• Il miglioramento e la stabilizzazione delle condizioni economiche dei maestri


elementari;

• Un programma di finanziamento dell’edilizia scolastica, per mezzo di un sistema di


mutui ai comuni.

Nel 1923 la riforma Gentile mantenne e consolidò un impianto giuridico -


amministrativo di tipo centralistico verticistico.

Il sistema scolastico italiano conservava, all’inizio degli anni Sessanta, un impianto


piramidale e una struttura secondaria a canne d’organo di diversa lunghezza: alla
base una scuola elementare di cinque anni, divisa in due cicli interni; la già detta
scuola media unica triennale, cui si accedeva, in possesso della licenza elementare,
con un esame di ammissione selettivo, e che si concludeva con un esame di licenza. Il
titolo di licenza media permetteva l’accesso ai diversi canali dell’istruzione secondaria
di secondo grado. La licenza media era considerata un titolo di media cultura.
Esistevano anche una scuola postelementare e la scuola di avviamento professionale,
che davano accesso solo alle scuole e agli istituti professionali. L’apprendistato sul
lavoro prevedeva l’obbligo di frequentare dei corsi di istruzione a tempo parziale.
L’accesso all’università era diversificato, in relazione alle facoltà e alla scuola
secondaria superiore frequentata.

La riforma del 1940 aveva unificato i trienni dell’istruzione secondaria superiore. Nel
1940 i trienni iniziali confluirono in un unico tipo di scuola assai simile nei programmi
al vecchio triennio inferiore del ginnasio. Questa scuola conservava la vocazione di
scuola preparatoria ai gradi secondari e superiori dell’istruzione, e in ciò risiedeva
sostanzialmente la sua natura intrinsecamente aristocratica. Essa mirava a preparare
futuri studenti universitari e la futura classe dirigente. L’impianto didattico della media
del 1940 era di tipo sistematico e disciplinarista.

La nuova scuola media del 1962 ereditò un patrimonio di aspettative ampie e si


sperava che riuscisse ad aprire un’opportunità di sviluppo sempre basato sul merito.
Nella scuola media il modello didattico tendeva a generare comprensione razionale a
partire da una prassi definita, suscitando un profilo di competenze professionali
concrete per mezzo della pratica di officina o di laboratorio. La scuola media era a
canale unico perché l’opzione per un percorso o un altro era determinato soprattutto
dalle aspirazioni e dalle possibilità economiche delle famiglie degli allievi.

L’apertura di un unico spazio scolastico alla totalità di ogni classe di età, aveva lo
scopo politico di favorire l’incontro delle diversità umane, l’integrazione sociale di
classi socio-economiche e gruppi regionali diversi. La scolarizzazione universale
almeno fino ai quattordici anni si configurava come l’esito naturale dello sviluppo
scientifico-tecnologico, e insieme come la garanzia di detto sviluppo.

La nuova stagione della scuola media unificata, che raggiunse davvero la totalità della
popolazione degli undici- quattordicenni solo alla metà-fine degli anni Settanta, fu
anche segnata, in quegli stessi anni, dall’ingresso in servizio di una nuova generazione
di giovani docenti provenienti da un sistema universitario attraversato dalle
contestazioni del 1968 e dalle sue prime riforme strutturali.

L’obiettivo politico della riforma del 1962 era quello di accelerare e consolidare il
processo di costruzione di una cultura comune e condivisa che completasse la
democrazia italiana. Era stato abolito il preesistente esame di

ammissione dalla scuola elementare alla scuola media, esame selettivo e severo e, al
tempo stesso, la licenza media consentiva l’ingresso in tutti i canali scolastici
dell’istruzione secondaria di secondo grado.

Democratizzazione e scuola universale La scolarizzazione di base era generalmente


concepita come uno dei mezzi più efficaci per rimuovere gli ostacoli che limitavano di
fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. La scuola media assume un carattere
propedeutico, nel senso che doveva perseguire l’obiettivo di una fondamentale
cultura comune del popolo di cittadini, anziché preparare una parte di loro agli studi
successivi. Propedeutico, non preparatorio.

Una tradizione pedagogico-didattica stratificata L’innovazione pedagogica e didattica più


rilevante e caratteristica della scuola media intervenne con i Programmi del 1979.
All’interno dell’assetto scolastico ogni innovazione appare più come uno strato che
ricopre quello passato invece che come una vera e propria rivoluzione. Questo sta ad
indicare che non si può cambiare mai del tutto il sistema ma bisogna certamente
cambiare alcuni aspetti e aggiungerne degli altri. La stratificazione della cultura di scuola
ci sembra un criterio importante per un lettore che debba affrontare il contesto
professionale della scuola. La stratificazione culturale dipende dal fatto che i nuovi
modelli non possono cancellare o sostituire in tempi brevi la cultura di scuola
preesistente.

Una idea forte degli anni Settanta riguarda il tema della comunità scolastica, della
scuola come parte della comunità territoriale. Questa idea è soprattutto della
tradizione anglosassone e statunitense. John Dewey ambiva ad una scuola concepita
come espressione di una comunità locale che partecipa attivamente alla sua gestione.
L’idea suggerisce che ogni scuola debba costituirsi come una comunità scolastica,
sottolineando la responsabilità condivisa fra docenti e studenti nei processi educativi.

L’idea di comunità scolastica sembra dare i suoi frutti migliori solo in attività parziali,
singole iniziative, che pure sono molto importanti ed efficaci. L’idea forte è sempre
quella di una ricostruzione continua della dimensione comunitaria in situazione, fra
genitori e insegnanti, dirigenti e amministratori, a partire dalla presenza dei ragazzi a
scuola.

La centralità dell’alunno e la personalizzazione La seconda idea pedagogica forte, di cui


siamo debitori ai programmi del 1979, è quella della centralità dell’alunno di
apprendimento e nella sua esperienza scolastica. Per Dewey la centralità dell’allievo
deriva dalla necessità che questi sia attivo, che faccia, che esprima e sviluppi interessi
personali. Purtroppo, la nozione di obiettivo didattico, ovvero il criterio guida dei
programmi, risente della letteratura pedagogico-didattica di stampo americano che
mirava alla razionalizzazione dei percorsi degli allievi. L’idea forte nella nozione di
obiettivo è che non sia essenziale in sé il contenuto dell’apprendimento, ma piuttosto
l’esito che esso determina, cioè l’obiettivo raggiunto dall’allievo in termini di personali
conoscenze, abilità, atteggiamenti, competenze. L’attenzione focalizzata sugli obiettivi
ha indotto erroneamente molti insegnanti a giudicare i contenuti secondari, addirittura
irrilevanti, rispetto agli obiettivi.

Bisognerebbe personalizzare il percorso dell’allievo.

4. L’allievo della scuola media Sviluppo e ciclo della vita: alcune premesse Il lungo stadio
della vita umana caratterizzato da un forte dinamismo è in genere definito come
evolutivo. Al piccolo dell’uomo non bastano la maturazione cognitiva e lo sviluppo
corporeo per raggiungere una effettiva condizione di maturità adulta: egli ha bisogno
di acquisire ed esercitare le modalità conoscitive di maturità adulta: egli ha bisogno di
acquisire ed esercitare le modalità conoscitive e sociali proprie della sua specie. Il
piccolo dell’uomo è chiamato a conferire un significato alla propria crescita, e deve in
qualche misura progettarsi in forma di umanità desiderabile.

La nozione di età evolutiva suppone che esistono almeno due grandi stagioni della
vita, di cui una, quella appunta definita evolutiva, sarebbe caratterizzata da dinamismi
di sviluppo molto veloci e complessi, mentre l’altra apparirebbe relativamente definita
e tendenzialmente statica.

L’età evolutiva Se distinguiamo l’età evolutiva dall’età adulta, osserviamo che al grande
dinamismo dell’infanzia e dell’adolescenza, con le loro rapide ed evidenti
trasformazioni accrescitive, seguono poi fasi di stabilità adulta e infine l’involuzione
dell’invecchiamento.

Freud distinse l’età evolutiva in cinque fasi di sviluppo psicosessuale, in relazione alla
zona erogena prevalente in ogni periodo, parlando di una fase orale, fase anale, fase
fallica, periodo di latenza e fase genitale (coincidente con l’adolescenza). Eric Erikson
reinterpreta lo schema freudiano in termini psicosociali.

Oggi la condizione adulta non è più proposta esplicitamente come traguardo e


compito esistenziale a bambini e adolescenti. La sua sparizione dall’orizzonte culturale
ha indebolito anche la nozione di età evolutiva: questo fenomeno può essere
considerato una delle cause dell’attuale emergenza evolutiva.

Oggi il costume sembra anticipare le condotte adulte in bambini e adolescenti mentre,


nello stesso tempo, si tende piuttosto a deresponsabilizzare i minori rispetto ai loro
compiti, e comunque a indulgere fortemente rispetto alle loro condotte irresponsabili
o negative. Proprio i caratteri di indefinitezza, i ritmi differenti di crescita e
l’ambivalenza dei compiti di sviluppo contribuiscono alle incertezze e paure degli
adolescenti e favoriscono l’irrequietezza e l’oscillazione delle loro condotte, in una fase
in cui sono chiamati a definire sia la loro identità sia la loro capacità sociale.

L’adolescenza nel ciclo della vita secondo Erikson Lo schema e l’analisi operata da
Erikson suggerisce come obiettivo della didattica scolastica un agire in sostegno
dell’Io, un principio che ritroviamo anche in Bruner nella formulazione del principio
dell’identità e dell’autostima.

La prima idea del modello è data dall’ipotesi che ci sia un compito evolutivo per ogni
fase del ciclo vitale; inoltre Erikson colloca fra i cinque stadi evolutivi e i tre stadi adulti
un punto di confine concreto individuabile nel consolidamento dell’identità dell’Io.

Vi è un dinamismo sostanziale che contrassegna la vita in tutti i suoi stadi; ma questo


dinamismo acquista una figura sempre più strutturata e irripetibile in termini
soggettivi. La crescita umana vorrebbe una dinamica cumulativa, che tende perciò a
orientare e favorire gli sviluppi successivi della vita individuale curvandoli nella stessa
direzione già percorsa. Nella fase fra i dodici e i diciotto anni esistono possibilità
oggettive di reintegrare anche i compiti di sviluppo irrisolti o incompiuti nelle fasi
infantili.

Ogni fase evolutiva presenta poi un intero dinamismo, una polarità fra due tendenze,
spinte opposte che nell’acquisizione di ciascuna virtù dell’Io trovano un nuovo
equilibrio dinamico. Le sorti e lo sviluppo personale non sono quindi separabili dallo
sviluppo di ogni generazione, vale a dire che non sono mai separabili dalla cultura e
dalla storia degli uomini.

La polarità crescita/stasi Fase vitale Virtù/Compito di sviluppo

Nucleo patologico

Polarità
Fase orale

Infanzia (primo anno di vita)

Speranza

Ritiro

Fiducia/Sfiducia

Fase anale

(2-3 anni circa)

Volontà

Coercizione

Autonomia/Vergogna

Fase fallica

Età del gioco (3-5)

Fermezza, finalizzazione

Inibizione

Iniziativa/Senso di colpa

Periodo di latenza

Età scolare 6-11

Competenza

Inerzia

Industriosità/Senso di inferiorità

Adolescenza (12-18/20)

(pre-adolescenza, 12-13;

media adolescenza, 14-16;


Fedeltà

Rifiuto del ruolo

Identità/Dispersione di identità

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tarda adolescenza, 17-19) I stadio adulto

Giovinezza

(20-40 oppure 25-45)

Amore

Esclusività

Intimità/Isolamento

II stadio adulto

Media età adulta

Adulto generativo

(40-60 oppure 45-65)

Cura

Negazione

Generatività/Stagnazione

III stadio adulto

Vecchiaia

Saggezza

Disprezzo

Integrità/Disperazione
L’ipotesi di due spinte contrapposte, che si susseguono stadio per stadio, ricalca la tesi
freudiana di un conflitto intrapsichico, metaforicamente rappresentato dai termini
eros/thanatos. L’idea è che ogni momento della vita personale comporti una rinnovata
opzione della nostra energia vitale, o verso la crescita, espressa dalla figura
metaforica di morte/thanatos. L’irreversibilità non è della singola opzione in un
momento dato, ma è certamente l’esito della ripetizione rinnovata delle opzioni
sempre nella stessa direzione. Nel dinamismo psichico dobbiamo pensare a qualcosa
di simile a una biosfera, in cui esistono stati precoci, più interni e strati più esterni e
via via superficiali.

Suscitare la sfiducia Quella forza orientata iniziale che possiamo chiamare fiducia di
base, si genererebbe fin dal primo anno di vita dall’incontro con figure materne
rassicuranti, che assolvono funzioni di maternage materiale, ma che soprattutto
suscitano la fiducia e ne permettono il radicamento. Risulta essenziale comprendere
che l’interazione continua fra la fiducia/sfiducia in sé e quella negli altri può generare
una sorta di circolo vizioso, per il quale chi non si fida di sé non può fidarsi dell’altro e
chi non si fida di nessuno non può fidarsi di sé stesso. Solo una conquistata o ri-
conquistata fiducia negli adulti potrà accompagnare i ragazzi a ritrovare la fiducia in
sé stessi.

Erikson preferisce usare il termine speranza, per indicare quella che nel linguaggio
chiamiamo fiducia di base: egli evidenzia che questa forza dell’Io non coincide tanto
con una indimostrata e illimitata fiducia a 360⁰, ma che si tratta piuttosto della
capacità di mantenere la fiducia, nelle persone e negli avvenimenti, pur sapendo che i
desideri potrebbero non avverarsi e il bene potrebbe non compiersi.

Un certo grado iniziale di fiducia/speranza può essere indotto mostrando all’allievo


una fiducia indimostrata nelle sue possibilità future; in tal modo è possibile fornirgli
una provvisoria immagine di sé in termini progettuali, che auspicabilmente sarà
sostituita da successive espressioni di stima e di riconoscimento oggettivo dei
progressi realizzati se l’allievo migliorerà le proprie prestazioni e/o la propria
condotta.

L’opposto della fiducia di base non è sempre la sfiducia, ancorché generalizzata, ma


piuttosto la paura. Paura di affrontare nuovi compiti, con conseguenza di sfiducia in
sé stessi.

Promuovere l’autonomia È la volontà l’effetto del dinamismo polare fra una spinta
all’autonomia, espressione evidente della tensione dell’eros, nella fase evolutiva anale,
e, all’opposto, una tensione inibitoria e paralizzante, espressa dal senso di vergogna.
La volontà esercita sempre soprattutto una spinta al controllo del desiderio. Si tratta
di una seconda capacità fondamentale e precoce dell’Io, che coincide con il potere di
investire e concentrare la propria energia psichica su qualcosa di determinato. La
spinta verso l’autonomia traduce il primo tentativo da parte dell’Io di assumere il
controllo, interno ed esterno, delle proprie funzioni vitali.

L’allievo preadolescente è ancora contraddistinto da una spinta orientante per il


controllo interno, che si esprime soprattutto nel rifiuto del controllo esterno: di fatto
si presenta a noi tendenzialmente indisciplinato, spesso aggressivo, o almeno
eccessivamente reattivo a richiami e rimproveri che tentino di controllarlo.

Erikson chiama volontà la virtù di sintesi positiva di questo stadio, cioè la capacità di
investire l’energia psichica nella direzione del controllo, interno ed esterno, all’Io
questa virtù sarà la condizione della progressiva autonomia personale del soggetto in
crescita. La lacuna di questa virtù si manifesta nei preadolescenti nel senso di
vergogna. In questo caso

11

l’educazione deve essere propositiva invece che repressiva, cercando di mettere in


gioco l’individuo e di spingere la sua autonomia.

Il mondo interiorizzato Nella fase fallica, che è anche l’età del gioco e della fantasia, e in
cui si struttura il Super Io, si costituisce il rudimento di quella virtù che Erikson
definisce fermezza di propositi, cioè la capacità di perseguire intenzionalmente delle
mete. Qui le polarità contrapposte sono il senso di iniziativa e il senso di colpa. La
fermezza di propositi altro non è che la capacità attiva dell’Io di investire energia su
obiettivi precisi, e di mantenere l’energia investita in termini costanti fino al
perseguimento dello scopo prefissato. La contrapposizione fra senso di iniziativa e
senso di colpa rivela la presenza di un dialogo interno alla struttura dell’Io e la prima
interiorizzazione di un mondo esterno cui sono stati conferiti significato e valore. La
percezione di una realtà esterna, la scoperta e l’interiorizzazione delle norme, e la
costruzione del Super Io si avviano parallelamente e si intrecciano, già dell’età
compresa fra i tre e i cinque anni.

L’Io infantile opera una sorta di salto nella sua strutturazione interna quando mostra
di aver acquisito il senso della norma.

L’esercizio della trasgressione e l’assunzione di responsabilità rispetto a essa sono


indicatori effettivi dello sviluppo progressivo di questo processo, sia pure in un
percorso ancora molto lungo.

A partire dagli undici-dodici anni l’allievo è spinto a una verifica critica dell’ordine del
mondo e del valore delle regole, compito di sviluppo che lo rende particolarmente
critico e reattivo alle proposte, ai modelli delle norme, sia in famiglia che a scuola.
È importante che il conflitto tra educatore ed educando non si riduca ad uno scontro
di volontà personali, ma che richiami il soggetto in crescita al significato della sua
azione e della sua condotta.

Nell’adolescenza auto-contenersi deve coincidere con il lasciarsi controllare da norme


e da oggetti esterni all’Io, che da esso siano stati riconosciuti e liberamente assunti
come confine al desiderio e al narcisismo dell’Io stesso.

La competenza come compito di sviluppo Nella fase sei-undici anni vi è la competenza.


Essa emergerebbe dalla polarità fra le spinte contrapposte della industriosità e del
senso di inferiorità. La mancata conquista di questo traguardo avrebbe come esito un
orientamento regressivo dell’Io, che Erikson definisce inerzia.

5. Il preadolescente e discontinuità dello sviluppo Continuità e discontinuità dello


sviluppo Lo sviluppo psicofisico può essere definito come un processo a scatti e con
relative pause, che attraversa una serie di stadi critici. Non solo l’adolescenza sarebbe
importante almeno quanto l’infanzia nel percorso di sviluppo personale, ma la
potenziale discontinuità dello sviluppo spiegherebbe come si possano avere
un’infanzia felice e matura e una successiva pre-adolescenza difficile e problematica.
L’intero periodo adolescenziale è stato tendenzialmente distinto in almeno tre sotto-
periodi interni: una preadolescenza, periodo caratterizzato dalla coesistenza di
elementi infantili e di nuovi innesti, che, sul piano cognitivo ed emozionale, indicano
l’ingresso effettivo del soggetto nel nuovo stadio; una adolescenza media o matura,
che è il momento critico in senso proprio; una tarda adolescenza, segnata dalla
emergenza di alcuni caratteri proprio della giovinezza, ma in cui sembra perdurare,
almeno sul piano emozionale, le caratteristiche dell’adolescenza media.

È noto che le bambine maturano in genere prima dei loro coetanei.

Dal punto di vista pedagogico-didattico, l’adolescenza si configura, in tutti i suoi sotto-


stadi, come un’età delicata ed esigente. Essere adolescenti, significa soprattutto avere
un’esperienza personale di vita ancora insufficiente a reggere emotivamente la
scoperta di sé stessi e insieme quella di una modificata immagine del mondo. La
coscienza degli adolescenti non è sempre lucida, ma si caratterizza per una sensibilità
morale inquieta e problematica. L’adolescenza è l’età in cui il soggetto ha
maggiormente bisogno di una particolare forma di protezione e di compagnia
educativa.

Preadolescenza e prestazioni scolastiche

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Jean Piaget si era posto per primo il problema del rapporto fra la predisposizione
innata delle strutture cognitive umane e l’influenza dell’ambiente culturale, in
particolare della scolarizzazione. Per Bruner esiste una predisposizione genetica al
pensiero formale e ai suoi prodotti; questo patrimonio genetico, dell’individuo e della
specie, subisce uno sviluppo, tendenzialmente auto-espansivo, nel corso dei processi
di crescita dell’intero ambiente culturale e relazionale umano.

L’essere umano è predisposto al linguaggio e alla matematica, ma ne diviene capace


solo se essi gli vengono insegnati. In questa affermazione risiede la legittimazione di
fondo dell’insegnamento intenzionale e dei sistemi scolastici. È difficile affermare con
certezza se la cultura e l’educazione possano far evolvere la natura umana ma
dobbiamo necessariamente ipotizzare che ciò sia accaduto.

Si osservano nelle generazioni giovani delle trasformazioni in relazione al tipo di


strumenti culturali e alle tecnologie comunicative cui queste accedono fin dall’infanzia.

Assunta che la mutazione antropologica riguarda la malleabilità propria della mente


umana, nel suo rapporto interattivo con gli strumenti culturali di cui dispone in ogni
momento storico, è possibile che la condizione presente esiga interventi in
controtendenza più che supposti adattamenti. La scolarizzazione costituisce
certamente una forma di stimolazione cognitiva e di canalizzazione qualitativa
dell’intelligenza umana.

Recente è la percezione generalizzata, fra insegnanti ed educatori, di un netto divario


nello stesso allievo fra la sfera cognitiva e quella emotiva-affettivo-sociale. I nostri
allievi preadolescenti e adolescenti si presenterebbero emotivamente infantili anche
quando cognitivamente maturi, evidenziando per tutta l’adolescenza, e forse fino alla
giovinezza, un intimo squilibrio fra cognizione ed emozione, che un tempo sembrava
caratterizzare in termini transitori, e quasi fisiologici, soltanto la preadolescenza.

La grande malleabilità dell’essere umano ha presumibilmente dei limiti, e la sua lunga


stagione di immaturità si può leggere anche come una risorsa da sottovalutare.
L’uomo esige il tempo lungo dell’infanzia e dell’adolescenza; un eccesso di stimolo per
la maturazione anticipata potrebbe configurarsi come una perdita di risorse.

L’immaturità osservata dagli insegnanti negli ultimi decenni nei loro allievi è
soprattutto emotivo-affettiva, in termini relativamente indipendenti dalla maturità
cognitiva conquistata. Poiché la crescita comporta la differenziazione e
specializzazione progressive degli apparati psichici in termini di abilità/competenze,
rientra nella normalità la eventualità della riduzione dei potenziali infantili. Non è
detto che un’anticipata maturità cognitiva nell’infanzia acceleri la successiva
maturazione adolescenziale. L’anticipazione delle condotte nell’infanzia e
nell’adolescenza, per via della tolleranza e/o dell’apprezzamento sociale, non
comporta il reale anticipo della maturazione personale, né cognitiva né socioaffettiva.
L’insegnamento e le attività scolastiche in genere hanno lo scopo di perseguire la
stimolazione e il consolidamento di conoscenze, abilità e competenze cognitive e
sociali nell’allievo preadolescente, momento per momento, senza mai dare per
scontata l’acquisizione stabile dello sviluppo pregresso, ma anzi valutando
continuamente la possibilità di stasi e di involuzione di tali abilità. È dunque
necessario continuare a stimolare, sostenere, anticipare, esercitare e consolidare
competenze di preadolescenti e adolescenti, mettendo in conto non solo il mancato
sviluppo delle nuove potenzialità, ma anche il rischio di involuzione di quelle
competenze apparentemente acquisite alla fine del ciclo scolastico elementare.

L’insuccesso scolastico della scuola media raramente dà luogo a un successo


posteriore, ma, a sua volta, il successo scolastico tra gli undici e i quattordici anni non
è garanzia certa di successo nella secondaria superiore.

L’identità come compito di sviluppo della preadolescenza Lo studente, alla fine del
percorso, deve:

• Prendere coscienza della dinamica che porta all’affermazione della propria


identità;

• Interrogarsi sulle dimensioni e sulle difficoltà di questo processo interiore di


unificazione della molteplicità;

• Scoprire l’importanza decisiva che assume il conferimento di senso che ciascuno


attribuisce all’insieme delle esperienze e dei problemi di cui è protagonista;

il consolidamento dell’Io costituisce fra gli stadi evolutivi in senso proprio e le


successive fasi adulte. Bruner ha definito il sostegno all’identità dell’Io sia come un
principio metodologico didattico, sia come un obiettivo fondamentale per
l’educazione complessiva dell’allievo.

Socialità e orizzonti culturali nello sviluppo dell’Io

Esiste un intreccio continuo fra la dimensione sociale e quella culturale, lo sviluppo


della socialità e il continuo di senso alla realtà esterna. Se la persona umana è un
essere sociale fin dalla sua origine, è anche egualmente vero che essa diventa sociale,
e che la sua socialità assume una forma e una qualità dentro l’orizzonte culturale e
relazionale in cui si cresce. Tutto lo sviluppo dell’Io si accompagna a un continuo
conferimento di senso, un processo dinamico che permette la conoscenza e sviluppa
un sistema di orientamenti e di motivazioni personali. Il significato è in primo luogo
dettato da un orizzonte di senso condiviso da ciascun adulto con un proprio gruppo di
riferimento. Questo non esclude la possibilità di ripensare e reinterpretare i significati
sociali delle relazioni. Le relazioni sociali di insegnanti e di allievi fra loro sono oggetto
di costanti negoziazioni e patteggiamenti.

La differenza culturale e l’egualitarismo scolastico Il multiculturalismo induce un


ripensamento complessivo nelle rappresentazioni della scuola e nella filosofia della
scolarizzazione, questioni ben più significative e dirompenti rispetto ai pur complessi
problemi educativi e didattici concreti che si incontrano nella quotidianità scolastica.
Le società umane sopravvivono e si sviluppano sempre progettando idealmente il loro
futuro, e dunque anche i gradi e le forme di integrazione socioculturale e il grado e la
gestione dei conflitti sociali. L’educazione alla cittadinanza costituisce sempre un
progetto ideale in cui si intrecciano la memoria storica e le sue mitizzazioni con l’utopia
etico-politica di un desiderabile mondo nuovo. Il riconoscimento della differenza
culturale diventa quindi un principio pedagogico decisivo. La filosofia scolastica si
basa sul presupposto di un diritto universale all’istruzione senza differenze di sesso, di
religione, di razza, di etnia e di condizione socio-economica. La scolarizzazione si è
quindi sempre prefissata di eguagliare.

Il diritto alla conservazione della cultura d’origine mantiene la sua valenza positiva
solo se accompagnato dal riconoscimento del diritto soggettivo alla trasformazione
della propria identità culturale. Il primato è della persona, non della cultura, ed è la
cultura al servizio della vita umana, e non viceversa.

L’orizzonte massmediatico Il conferimento di senso costituisce una dinamica più


profonda dalla semplice proposta di modelli di condotta perché esso anticipa
l’esperienza cognitiva e sociale successiva in specie dei minori. Occorre pensare alla
presenza di un insieme di significati e valori pervasivo che può penetrare
capillarmente e precocemente nelle rappresentazioni infantili.

Il sistema massmediatico non offre una finestra aperta sul mondo perché anche esso
costituisce un sistema di mediazioni culturali. Non ha caratteri di oggettività e neutralità.
L’apparato psichico che chiamiamo Io è il luogo di selezioni e di continue sintesi attive
dell’esperienza culturale, ma nelle fasi precoci del suo sviluppo, e in funzione di una
capacità di selezione ridotta o inesistente, è più facile pensare che le rappresentazioni
introdotte dall’esterno si stratifichino casualmente, determinando un sistema di
aspettative e di precondizioni agli apprendimenti successivi.

Esplicitare l’implicito, negoziare i significati, proporre un orizzonte La necessità che gli


insegnanti non diano per scontato il significato che gli allievi attribuiscono alla scuola
e alle relazioni con gli insegnanti e con i compagni, e che non lascino impliciti elementi
importanti, che vanno viceversa sempre esplicitati, ed eventualmente rinegoziati.

La scuola è chiamata alla responsabilità di proporre l’orizzonte di senso,


confrontandosi con tutti gli elementi culturali che si possono intercettare
nell’esperienza, compiuta e in atto, degli allievi. Proporre un orizzonte di senso
significa in concreto esplicitare e spiegare ogni elemento proposto, in primo luogo le
regole sociali, chiedere sempre agli allievi di pronunziarsi e di aderire a esse, in una
sorta di continuo e rinnovato patteggiamento.

Bisogna che la scuola generi un’esperienza cognitiva riflessa. Questo stile


didattico, sempre esplicato dagli impliciti, sarà di particolare aiuto nei confronti degli
allievi di origine straniera, accrescerà la sicurezza personale di ciascun’alunno, e
permetterà di costruire di volta in volta la classe come soggetto sociale consapevole,
richiamandola ogni volta a pronunziarsi su singoli episodi e condotte.

Insegnanti ed educatori dovrebbero lavorare a costruire un orizzonte di significato


idealmente coincidente con la vita della singola classe scolastica, trasformandola
deliberatamente in un micro-universo simbolico in cui si devono integrare. Per quanto
il progetto così delineato possa apparire complesso, in verità esso spesso si genera da
una dinamica spontanea e incontrollata, legata all’esperienza di crescita. Per ogni
soggetto preadolescente la sua classe è sempre un micro-universo simbolico.
L’insegnante dovrà assumere la leadership del gruppo per mezzo della sua modalità
comunicativa e a condizione di introdurre l’azione didattica come obiettivo
momentaneo del gruppo stesso. La leadership non può venire riconosciuta in quanto
istituzionale, ma va piuttosto conquistata sul campo e riconosciuta dagli allievi nella
situazione concreta.

Funzioni vicarie del gruppo dei coetanei?

Si può ipotizzare che le amicizie con i coetanei e le precoci esperienze sessuali e


affettive svolgano funzioni sostitutive e vicarianti rispetto a quelle genitoriali.

La cultura massmediatica offre una smisurata ricchezza di contenuti, che i


giovanissimi possono condividere, fornendo loro l’illusoria rappresentazione di una
cultura giovanile. Sfugge facilmente a essi la matrice economica e commerciale di
molto del materiale culturale che essi consumano, l’aspetto passivizzante e
massificante. I contenuti proposti dalla scuola vengono neutralizzati nella loro
funzione di portatori potenziali di significato, e ridotti a contenuti da acquisire
temporaneamente per sostenere una interrogazione.

Oggi è necessario che insegnanti ed educatori tentino di direzionare intenzionalmente


il dinamismo della vita di classe. L’unica arma educativa che si può giocare
efficacemente è quella che passa attraverso la partecipazione attiva di ogni allievo alla
propria crescita. Gli allievi vanno attivati e coinvolti. La condivisione di materiali con i
ragazzi o l’accettazione di proposte di contenuto avanzate da loro non è una scelta
giovanilistica o democratica, ma piuttosto una strategia didattica molto efficace.
L’insegnante non è mai veramente pari ai suoi allievi, e la relazione conserva quella
asimmetria strutturale su cui è fondata. Un insegnante non può essere tentato di
diventare l’amico dei suoi allievi anche se gli è richiesta autentica cordialità di
espressione.

6. Pensiero formale, memoria, introspezione L’ingresso nella preadolescenza: linguaggio


e comprensione Secondo Piaget, la radicale novità determinata con l’inizio della
preadolescenza è l’avvio al pensiero formale. Ciò che distingue l’accesso alla
preadolescenza è una crescente consapevolezza, e la possibilità di verbalizzare,
esplicitandole, le proprie categorie logiche.

È importante stimolare i processi cognitivi di tipo formale senza tuttavia sorprendersi


della loro apparente inadeguatezza: si tratta di ricordare sempre che il livello cognitivo
segue la stimolazione dell’insegnamento. Per esempio, costituiscono manifestazioni
significative del nuovo livello cognitivo nella preadolescenza sia l’analisi logica di un
periodo, sia la risoluzione di un’espressione algebrica. È fisiologico che i ragazzi
mostrino verso questi tipi di esercizi una evidente fatica e un modesto entusiasmo.
Però bisogna considerare che l’analisi logica del periodo è una condizione decisiva per
lo sviluppo ulteriore della competenza linguistica, in particolare per tradurre da una
lingua all’altra. Si tratta cioè di una abilità logica di esercitare durevolmente anche
quando alcuni alunni non fossero in grado di esprimere subito correttamente il
concetto e le categorie utilizzate. Intendo dire che il potere di analisi logica della frase
e del periodo può presentarsi come una conoscenza implicita attiva e funzionale. Ne
deriva che in questa fase di passaggio potrebbe essere utile concordare fra più
docenti una forte insistenza sulla tradizione della lingua madre a quella straniera,
usando la tradizione come esercizio per lo sviluppo dell’analisi logica.

Ripetuti e infiniti esercizi individuali, per la noia e la ripetitività estenuante che


comportano, finiscono per suscitare rifiuto e disimpegno. Occorre piuttosto lavorare
sulla produzione linguistica e narrativa, personale e di gruppo: occorre giocare con la
lingua e la scrittura. Possono essere utili esercitazioni collettive, proposte come
laboratori, e scambi cooperativi dei ragazzi fra loro, magari in tandem variabili in cui
l’uno deve provare a far capire all’altro cosa e come ha capito. È spesso utile sollecitare
l’allievo debole a fare il maestro, perché l’impegno richiesto può attivarlo, dargli fiducia,
e soprattutto serva a non irrigidire la distinzione bravi/non bravi. Il tentativo di
spiegare a un altro attiva sempre dinamiche di autoconsapevolezza personale.

Gli insegnanti dovrebbero farsi pilotare non tanto dalle letture che a essi piacciono,
ma tutt’al più da quelle che piacevano loro quando avevano l’età dei loro allievi.

La qualità cognitiva che identifica la preadolescenza risiede in una diversa capacità di


comprensione rispetto allo stadio precedente. Il pensiero definito formale è
sempre un pensiero critico, capace di analizzare oggetti con apparati categoriali
differenti e sui livelli differenti. Ma ciò si osserva solo se l’allievo è stimolato in
questa direzione. La comprensione diventa condizione irrinunciabile, e insieme
motore interno, dell’apprendimento personale.
Nel preadolescente in parallelo alla sua cresciuta capacità cognitiva, la mancata
comprensione diventa consapevole, con un effetto demotivante e inibitorio.

La memoria nello sviluppo dell’identità Un ulteriore salto qualitativo proprio della


preadolescenza è dato dallo stabilizzarsi della memoria in termini continuativi.
Comincia a essere pienamente possibile ricostruire la propria storia in sequenze
cronologiche e raccontarla ad altri. Alcune attività ludiche non sono altro che azioni di
messa in scena del proprio Io, attraverso le quali il pensiero narrativo drammatizza
sotto copertura il proprio vissuto. Nell’utilizzare didatticamente giochi

drammatici e attività teatrali gli insegnanti sono invitati a mai dimenticare la


potenziale rilevanza educativa di tali attività per tutti i loro allievi.

La continuità della memoria è la condizione della capacità introspettiva.


Memoria e introspezione segnano così sempre maggiore consapevolezza dell’Io
personale.

Lo stabilizzarsi della memoria e l’avvento dell’introspezione costituiscono un forte


elemento di discontinuità dello sviluppo: nella narrazione autobiografica dell’adulto
emerge spesso la memoria di questo salto. Mentre i ricordi d’infanzia emergono come
spezzoni e brandelli, spesso frammentari e molto influenzati dalle emozioni positive o
negative vissute, l’inizio della preadolescenza segna appunto la continuità della
memoria, come condizione del senso della propria identità e dell0emergere della
coscienza.

Quale che sia la manifestazione, pur dentro un dinamismo progressivo, il soggetto ha


davvero varcato una sottile e invisibile linea di confine, oltre la quale l’infanzia si è
interrotta. Il preadolescente tuttavia non si percepisce quasi mai come divenuto più
forte o più capace, ma, al contrario, avverte con ansia e fatica, disarmonie e incertezze
personali.

Alcuni esempi di azioni didattiche Fino ai dieci-undici anni un soggetto tende a


raccontare gli avvenimenti secondi i propri riferimenti emozionali e affettivi e in
relazione alla loro vicinanza nel tempo, e non alla cronologia effettiva in cui essi si
sono succeduti. È proprio nella scuola media che vanno introdotti compiti cognitivi di
questo tipo, allo scopo di sviluppare un criterio di classificazione degli avvenimenti di
tipo logico e cronologico, sia con riferimento al vissuto personale, sia con riferimento
alla storia della società. La riflessività, che costituisce un elemento essenziale della
professionalità insegnante, viene stimolata e sviluppata soprattutto nel lavoro e nel
confronto in comune.

Due laboratori scientifici L’insegnante può ricorrere a molte semplici esperienze fisico-
chimiche e operare scelte anche di contenuto assolutamente diverse, mantenendo
tuttavia la struttura didattica da laboratorio. Nelle situazioni didattiche la scelta dei
contenuti e delle strategie dipende sempre da una serie di valutazioni e di decisioni
preventive, nella cui adeguatezza funzionale risiede appunto la professionalità
docente.

7. Forme e strategie di apprendimento e azioni di insegnamento L’apprendimento


L’apprendimento è una delle funzioni caratteristiche dell’essere vivente e ne
accompagna tutto il corso della vita. Si ritiene che l’apparire del pensiero simbolico
costituisca l’elemento distintivo e caratterizzante della natura umana sul piano
evolutivo: l’uomo sarebbe un animale simbolico, e dunque un animale culturale. Le
persone presentano anche consistenti differenze, nei modi e nei livelli di
apprendimento, in rapporto a variabili soggettive, alle identità sociali e culturali che
condividono, e alle stagioni della vita che attraversano. Si stima che la struttura
cognitiva dell’adulto guadagni in specializzazione, profondità e potenza cognitiva quanto
perde di velocità e ampiezza potenziale.

Il segreto di un insegnamento efficace potrebbe risiedere in primo luogo nella


capacità dell’insegnante di suscitare e mantenere motivazioni adeguate
all’apprendimento scolastico di ciascuno dei suoi allievi. È importante capire che le
possibilità di apprendere dell’allievo si modificano e si potenziano anche in rapporto
al lavoro dell’insegnante: questo è il cuore della professionalità docente.

Per insegnare occorre la disponibilità a osservare, comprendere, interagire nonché a


rischiare. La convinzione che esista un’unica modalità universale di apprendimento e
che le differenze osservabili fra gli alunni dipendano solo dal loro livello di intelligenza
genera tendenzialmente consistenti errori didattici. L’insegnante dovrebbe confrontarsi
con le teorie, senza tuttavia assolutizzarne nessuna e praticare piuttosto una forma di
sano eclettismo didattico, perché spesso i modelli in questione descrivono lo stesso
fenomeno da due punti di visa diversi, che perciò non si escludono affatto tra loro.

Un modello cognitivista L’apprendimento umano avviene con modalità articolate e


complesse nelle fasi evolutive iniziali, mentre tende ad assumere un funzionamento
più semplice, di tipo ricettivo, nelle fasi più mature. L’apparente semplicità del
funzionamento cognitivo nelle fasi avanzate dello sviluppo corrisponderebbe alla
sempre maggiore complessità della struttura psichica nel frattempo costituitasi: i
cognitivisti parlano di struttura cognitiva.

La nozione di struttura cognitiva esprime un modello interpretativo del


funzionamento e dello sviluppo psichico umano. Il modello suppone alcune
potenzialità innate, e dunque non modificabili, e, in parallelo, un ruolo determinante
dell’esperienza nell’ambiente umano. L’apprendimento umano è sempre inseparabile
dalle sue

motivazioni e dalle sue interconnessioni emotivo-affettive. La struttura cognitiva si


svilupperebbe in termini di integrazione interna sempre più efficace, e, di norma, essa
lavorerebbe anche nella logica del massimo risultato con il minimo sforzo,
privilegiando strategie più complesse e sofisticate via via che queste emergono.

Apprendimento attivo, iconico e simbolico Bruner ha teorizzato che la forma più


complessa e avanzata di apprendimento tenderebbe ad inibire le precedenti,
sostituendosi ad esse. L’apprendimento definito attivo avviene attraverso i sensi e il
movimento, e quindi coinvolge la corporeità in genere. Esso sarebbe presente in
maniera esclusiva solo nel primo anno di vita.

La modalità iconica (apprendere per immagini) gli sarebbe successiva, e si


sovrapporrebbe alla prima; infine interverrebbe l’apprendimento cosiddetto
simbolico, connesso alla presenza del linguaggio. Nella letteratura divulgativa degli
anni Ottanta la nozione di apprendimento simbolico è stata assimilata alla categoria
di formale, e dunque il termine simbolico, per molti insegnanti, è stato assunto come
sinonimo di logico, o di analitico-deduttivo.

Quale che sia la successione temporale con cui queste modalità si sviluppano, non c’è
dubbio che noi le conserviamo e le utilizziamo tutte quante e per tutto il corso della
vita.

Nello schema bruneriano il termine simbolico si riferisce a tutte le situazioni di


apprendimento in cui la struttura cognitiva elabora informazioni al proprio interno,
indipendentemente dai canali comunicativi utilizzati, costruendo e integrando sempre
nuove categorie logiche. In realtà, la sfera cognitiva indicata in questo caso dal
termine simbolico presumibilmente include moltissimi processi di pensiero: inferenze,
deduzioni, analisi, ma anche gli apprendimenti per scoperta, per intuizione e per
ricezione, normalmente distinti tra di loro. L’unico elemento certo è la funzione
insostituibile del linguaggio in costante interazione on tutti i processi cognitivi sopra
elencati. Le modalità cognitive attive e iconiche confluiscono anch’esse in maniera
interattiva nello sviluppo cognitivo complessivo, che permette gli apprendimenti
attribuiti alla sfera del simbolico.

Tutte le esperienze laboratoriali, le osservazioni guidate, le visite all’esterno, le


esercitazioni individuali o in gruppo, inserite in modo organico nel percorso
curricolare, sono in grado di favorire alcuni esiti di apprendimento efficace proprio sul
piano della concettualizzazione. Per una contro-stimolazione sistematica della
concettualizzazione, saltasse sempre le modalità attive e iconiche, rischia l’astrazione
e la meccanicità dell’apprendimento. I soggetti umani hanno bisogno di attivare e
utilizzare tutte le loro strategie di apprendimento non solo in relazione all’età precoce,
ma soprattutto in presenza di contenuti conoscitivi e di compiti di apprendimento per
essi nuovi. Le scelte didattiche vanno operate tenendo conto quindi non solo dell’età,
ma anche della specifica situazione di partenza in cui l’allievo si trova.
Intuizione, scoperta, soluzione di problemi, ricezione L’apprendimento per
scoperta/invenzione, per intuizione e per ricezione, sono di metodi di apprendimento
cognitivista. La scoperta, per lo scolaretto come per lo scienziato, consiste in un
riordinamento o in una trasformazione delle nozioni possedute in modo da
consentire di spingersi al di là di esse, verso nuovi concetti. Apprendendo attraverso
le proprie scoperte, l’allievo acquisisce maggiore potenzialità intellettuale, maggiore
ricompensa psicologica, migliore tecnica dell’indagine e affinamento dei processi
mnemonici.

La modalità di invenzione/scoperta è un processo lungo e faticoso, e prevale nelle fasi


iniziali della vita umana in relazione alla inesperienza globale di vita del bambino.
Nell’adulto la modalità conoscitiva per invenzione/scoperta sembra fortemente associata
alla creatività intellettuale: in tal caso si osserva come questi riutilizzi le conoscenze
possedute in atto. I creativi e gli inventori sono di moltissime tipologie e livello: si
possono scoprire/inventare teorie scientifiche e apparecchiature tecnologiche di
grande rilevanza sociale, ma si possono scoprire/inventare anche una nuova ricetta di
cucina, un nuovo passo di danza, una nuova strumentazione musicale. La creatività si
associa soprattutto a una struttura cognitiva ben strutturata e ricca di esperienze e
informazioni.

L’apprendimento per scoperta/invenzione presenta caratteristiche molto vicine al


problem solving. L’apprendimento per problemi costituirebbe una modalità per
scoperta/invenzione sollecitata e canalizzata da una percezione di criticità. Il primo a
sottolineare tale criticità percepita come caratteristica della mente individuale fu
Dewey il quale sottolineò la posizione importante dei problemi nel principio di
metodo didattico.

La letteratura psicopedagogica ha sottolineato in più riprese la necessità che la


didattica per la prima e la seconda infanzia si costruisca soprattutto sulla posizione di
problemi. La problematizzazione costituisce una strategia

didattica applicabile in quasi tutte le attività d’aula e in tutti i livelli e le modalità


scolastiche. Può bastare una domanda semplice a indurre gli allievi a riposizionare
una conoscenza in termini problematici.

Lo sviluppo delle competenze complesse in situazione, durante la vita lavorativa


dell’adulto, coincide in larga misura con un continuo affronto di situazioni
problematiche. La soluzione di problemi è una tipologia di apprendimento che
restituisce sul piano emozionale maggiore soddisfazione al soggetto. Quindi
l’apprendimento per soluzione di problemi, quando attivato, presenta una efficacia
consolidazione sulle motivazioni da apprendere. L’intuizione può nascondere una
percezione imperfetta, che può divenire comprensione solo se associata a tappe
conoscitive successive di tipo logico-analitico.
La nozione di un possibile apprendimento per ricezione richiama la possibilità degli
esseri umani di imparare semplicemente da una fonte di informazione esterna,
acquisendo nuovi contenuti in maniera del tutto indipendente da una esperienza
personale diretta. La modalità ricettiva presenta un funzionamento molto semplice,
ma solo in quanto rivela una struttura cognitiva complessa.

Apprendimenti meccanici e significanti Esistono due tipi di apprendimenti: gli


apprendimenti meccanici e quelli significativi.

L’apprendimento meccanico costituisce una forma basilare di apprendimento; questa


tipologia di apprendimento comincia con l’associare saldamente fra loro due elementi
(schema stimolo/risposta), e questa associazione può essere indotta con una
operazione di condizionamento. Si tratta della modalità con cui il bambino manda a
memoria una filastrocca e con cui l’adulto memorizza un codice pin o una password in
qualsiasi momento della vita. Gli apprendimenti definibili come di tipo meccanico
possono essere riconosciuti per il fatto che i loro esiti permettono al soggetto di
compiere operazioni non soltanto cognitive senza coinvolgere la coscienza e con
un’attenzione dedicata modesta o inesistente. La modalità meccanica determina
l’acquisizione di moltissimi coordinamenti sensomotori. L’apprendimento meccanica
presenta la tensione del compito aperto. L’inefficacia è data dal fatto che, dato il
principio di economicità, che regola il funzionamento della struttura cognitiva umana,
e che il mantenimento in sospensione nella memoria di lavoro implica un forte
investimento di energia, quando viene meno il motivo per tenerla in memoria di
massa di informazioni così trattenuta subisce una rapida cancellazione. La tensione
del compito aperto comporta una condizione di recettività e di attivazione della
struttura cognitiva: occorre che la comprensione si determini al suo interno, e che
l’azione didattica intervenga nello stesso momento, favorendo la comprensione, nel
definire anche le modalità di archiviazione dell’informazione compresa e acquisita
dalla classe contestualmente. Alcuni insegnanti riprendono sempre, sintetizzandole, le
conclusioni ricavate dal lavoro della classe nell’ora precedente, i punti che sono stati
dibattuti o che sono rimasti irrisolti, magari con uno schema alla lavagna, oppure
fissano una domanda ulteriore.

L’apprendimento significativo comporta sempre che si varchi una soglia di


comprensione. La comprensione determina un salto di qualità nell’apprendimento
umano, perché da essa dipende una possibilità di archiviazione della nuova
informazione in quelle che potremmo rappresentarci come una serie di directory
specializzate. La soglia di comprensione è la via di accesso a un sistema di archiviazioni,
cioè di categorizzazioni, che consentiranno il recupero dell’informazione acquisita e la sua
utilizzazione in altri contesti. La comprensione è la condizione necessaria, ma non
sufficiente, della conoscenza. Lo sviluppo della conoscenza personale esige un tempo
di sedimentazione e consolidamento degli apprendimenti intervenuti.
Le interrogazioni e le prove in aula hanno un’importanza intrinseca che va ben oltre la
necessità di attribuire dei voti agli allievi. La valutazione è realmente un momento
intrinseco e inseparabile dell’azione didattica.

La distinzione fra meccanico e significante riguarda, quindi, non tanto i modi


dell’apprendimento, quanto la qualità della conoscenza personale che ne deriva: solo
l’apprendimento significativo può generare conoscenza. Il problema didattico
centrale, nella scuola, consiste nella stimolazione e nella verifica continua di
apprendimenti significativi personali, in relazione a vaste aree di conoscenza
disciplinare che una società data ritiene debbano essere conosciute da tutti i propri
immaturi.

Occorre tenere conto dell’esistenza dell’apprendimento involontario che confluisce


tuttavia nello sviluppo cognitivo personale e interviene nel determinare una serie di
conoscenze implicite oppure quei saperi della pratica.

Apprendimento e motivazione In psicologia si definisce motivazione tutto ciò che


spinge all’azione un organismo: la disposizione soggettiva che determina l’inizio, la
prosecuzione e l’arresto di una specifica sequenza comportamentale; più in generale,
l’insieme dei fattori che condizionano la mobilizzazione di energia psico-fisica da parte
dell’individuo, per il raggiungimento di obiettivi che, nel loro insieme, caratterizzano il
suo modo particolare di rapportarsi con il mondo.

Si può presumere che la persona sviluppi un vero e proprio sistema motivazionale


complesso e integrato, legato all’intero sviluppo della sua storia soggettiva. La
motivazione cognitiva, che in altri autori, incluso Bruner, viene definita come desiderio di
padronanza o desiderio di competenza, è l’unica che scaturisce dallo stesso processo
cognitivo e lo accompagna, trasformando un iniziale generico interesse o curiosità
superficiale verso un oggetto in un interesse stabile e dinamico che può diventare
perfino una passione per uno specifico campo di conoscenza e di esperienza. Questa
motivazione può essere concepita come aspirazione a conseguire la competenza e
con riferimento all’energia impiegata per conseguirla. Accanto al desiderio di
competenza/motivazione cognitiva Bruner colloca la curiosità come motivazione
intrinseca di ordine biologico, e sottolinea la distinzione fra questo concetto di
motivazione cognitiva e la nozione di interesse.

L’insegnamento non può attendere l’interesse dell’allievo, ma deve piuttosto impegnarsi


per suscitarlo, accompagnare l’apprendimento, e ottenere che il processo cognitivo si
motivi autonomamente, grazie appunto alla motivazione cognitiva.

La prima radice delle motivazioni intrinseche all’apprendimento risiede nei processi di


identificazione: essa genera un processo che si autoalimenta, in quanto il soggetto
porta con sé il suo modello di identificazione e gli affida il controllo delle proprie
ricompense e punizioni mentre egli assume una certa indipendenza delle ricompense
e punizioni dispensate da persone e gruppi diversi da quelli con i quali egli intende
identificarsi. L’identificazione è un processo inconscio.

L’identificarsi con il gruppo dei coetanei, che abbiamo visto assumere grande
rilevanza nella preadolescenza, può determinare motivazioni intrinseche e perciò
produttive per l’apprendimento. Insegnanti ed educatori devono relazionarsi sempre
con i singoli gruppi casse.

L’altra intuizione di Bruner rispetto alle motivazioni intrinseche fu espressa con il


problematico termine reciprocanza: un profondo bisogno umano di entrare in
rapporto con gli altri membri della società e di agire congiuntamente a essi nel
perseguimento di determinati obiettivi.

8. Come agire da insegnanti efficaci L’azione didattica e la competenza docente La


competenza più caratteristica ed essenziale della professione docente consiste nella
competenza comunicativa complessa. Si tratta di una competenza comunicativa
articolata che intreccia la sfera delle conoscenze, la sfera delle relazioni e la sfera
dell’organizzazione.

La competenza comunicativa si materializza non solo in forme di azione


specificamente didattica, ma anche nelle relazioni con i colleghi e ovviamente in quelle
stabilite quotidianamente con gli allievi e con i genitori.

Una comunicazione umana non è mai una pura espressione di sé. Una comunicazione
suppone un destinatario: si comunica sempre qualcosa a qualcuno. Ciò esige che
esistano condizioni di ascolto nel destinatario: perciò chi intende comunicare
persegue o precostituisce in primo luogo le condizioni di ascolto. Chi comunica, a sua
volta, attende una risposta. Proprio perché aspetta risposte, colui che comunica è
attento a tutti i segnali non verbali che può registrare nei destinatari. La
comunicazione umana efficace si presenta sempre come un dinamismo interattivo.
L’insegnamento è la comunicazione di un oggetto definito a un destinatario designato.
L’insegnare comincia infatti con un atto di pensiero complesso nel quale si
congiungono una percezione, una ideazione e un progetto di comunicazione. Si tratta
di pensare un oggetto definito con riferimento a un destinatario specifico e di trovare
le parole per dire la cosa prescelta come contenuto concreto dell’azione didattica.

Il momento iniziale della comunicazione didattica sembra accompagnarsi a una


sensazione di relativo disagio per la percezione di una divaricazione fra l’ideazione e le
parole che dovrebbero esprimerla. Il passaggio dal concetto alla parola, necessario
per insegnare, è un percorso inevitabilmente lento e determina un travaglio che viene
perfettamente percepito dalla mente di chi insegna. La percezione di una discrepanza
pensiero/parola si accompagna all’esperienza in specie di chi si avvicina
all’insegnamento. La percezione di discrepanza evidenzia che chi insegna non si limita
a ricordare l’oggetto che intende proporre, perché il richiamare alla memoria non
basta a insegnare efficacemente.

La capacità espositiva di un docente efficace si presenta a ritmi alterni: accanto a


momenti di fluidità e linearità, ci possono essere frequenti ripetizioni o riesposizioni,
indizio di una interazione comunicativa che precede il dialogo effettivo con la classe.
L’interazione sta avvenendo già nella mente dell’insegnante, che, mentre spiega, si
rappresenta le menti dei suoi allievi usando come indizi i segnali non verbali che
riceve da essi.

Vorrei che chi mi ascolta comprendesse tutto ciò che comprendo.

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L’interazione comunicativa del docente crea un primo ponte con gli allievi in termini
emozionali e affettivi, costituendo una precondizione alla loro comprensione
intellettuale. Gli alunni avvertono che al docente sta a cuore la cosa che spiega, ma
anche che gli stanno a cuore i ragazzi a cui si rivolge.

La lezione frontale: farsi comprendere La lezione frontale è la più comune e la più


tradizionale delle attività didattiche. Spiegare e interrogare, ma anche far discutere,
proporre o suggerire prove ed esercitazioni e correggerle, gestire dinamiche del
gruppo e momenti ludici oppure di contenimento. La gestione d’aula è intessuta di
molte comunicazioni verbali e non verbali. Il tratto caratteristico della lezione è dato
da un insegnante/formatore/relatore che, talora con un supporto visivo, espone
verbalmente un contenuto. Le lezioni frontali sono apparentemente tutte molto simili
fra loro: un docente che sembra semplicemente esporre o ripetere un contenuto, di
fronte un gruppo di allievi o ascoltatori. La qualità e l’efficacia delle lezioni frontali
sono estremamente variabili e sono anche molto difficili da riconoscere e valutare in
termini oggettivi. La lezione frontale ha origini antichissime e si rifà all’uso antico della
lettura a voce alta davanti a un uditorio tendenzialmente adulto e istruito. Il primo
obiettivo didattico della lezione frontale è di natura esplicativa.

L’eccessiva dipendenza di un insegnamento dal libro di testo adottato genera una


forma di passivizzazione della mente dell’insegnante stesso, che gli impedisce di
ripensare il suo insegnamento. Molti insegnanti che invece spiegano in maniera
abbastanza autonoma rispetto all’impianto del testo in genere producono delle
categorie esplicative iniziali e preparatorie cui gli allievi possono ricorrere
nell’affrontare individualmente il libro di testo. È utile che gli allievi imparino a
prendere appunti durante una lezione, ma si deve scoraggiare assolutamente una
sorta di scrittura sotto dettatura.
In classe bisogna spiegare soltanto ciò che gli allievi hanno preventivamente
affrontato sul testo da soli e dopo aver sondato che cosa essi ne abbiano ricavato.
L’esperienza suggerisce che gli argomenti e problemi devono essere spiegati almeno
due volte.

Una nota sull’ansia In piccole dosi, l’ansia è un buon attivatore cognitivo, che spesso gli
insegnanti utilizzano quasi inconsapevolmente. L’ansia scaturisce nell’allievo dalla
percezione di una possibile inadeguatezza personale di fronte al compito. Il controllo
e la riduzione dell’ansia nella situazione d’aula diventano per ogni insegnante un
obiettivo specifico: occorre che la soglia ottimale non venga mai superata per tutti gli
allievi presenti. Un livello di ansia è pressoché fisiologico nel preadolescente.

La lezione come organizzatore cognitivo Il vero contenuto della lezione diventano le


categorie mentali dentro cui l’oggetto viene collocato; esse fungono da mediatori e da
organizzatori cognitivi per il discendente/ascoltatore, guidandolo e dirigendolo
nell’operazione soggettiva del conferire significato alla realtà. Un allievo
preadolescente è in grado di memorizzare una consistente serie di informazioni
semplicemente ascoltate e di trattenere in una ipotetica tensione da compito aperto
per un tempo variabile.

Qualsiasi esposizione frontale costituisce una mediazione didattica nella misura in cui
la rete concettuale proposta nella lezione opera da filtro fra l’oggetto/contenuto
presentato e la mente dell’allievo. Per farsi comprendere occorre una padronanza
conoscitiva che permette all’insegnante di ripensare, e non appena di ricordare, ciò
che intende insegnare. La possibilità in chi insegna di ripensare le cose e trovare le
parole per comunicarle dipende molto da come egli stesso ha studiato e compreso.
Sul piano delle strategie comunicative esiste una grande ricchezza di soluzioni.

Il docente ha bisogno dell’accettazione di sé da parte dei suoi allievi: in generale è più


difficile entrare in sintonia con un adolescente rispetto a un bambino delle classi
elementari.

La lezione frontale e la comunicazione espositiva costituiscono una modalità didattica


di tipo deduttivo.

Correre il rischio del fallimento della comunicazione e tenere la scena Nella


comunicazione esiste un aspetto emozionale importante e che si può definire
capacità di correre il rischio del fallimento della comunicazione. La capacità di reggere il
rischio del fallimento è connessa alla intenzionalità comunicativa: gli insegnanti
efficaci non dubitano della propria possibilità comunicativa, ma assumono la
possibilità del fallimento come una costante dell’esperienza, lo tengono presente
come una eventualità e riprovano a comunicare ogni volta che hanno la certezza, o
anche solo il dubbio, che la comunicazione sia fallita. Quelli che non la sviluppano in
modo adeguato spesso sono incapaci di sostenere il fallimento della loro difficoltà a
comunicare.

Mentre gli insegnanti accettano il rischio del fallimento comunicativo diventano


sempre migliori e tendenzialmente sono contenti di insegnare, quelli che lo rifiutano
tendono ad essere mediocri o pessimi insegnanti.

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La competenza comunicativa di un docente si basa su alcune abilità drammatiche,


ovvero del rappresentare e mettere in scena l’argomento trattato. La dimensione
drammatica e rappresentativa della comunicazione serve a richiamare l’attenzione
della classe e a mantenerla concentrata per un tempo variabile. Un insegnante
efficace è in grado di valutare i tempi di attenzione in specie attraverso i segnali non
verbali che ne sono indizio. Questo stare sempre sulla scena e il sentirsi collocati sotto
uno sguardo altrui sempre giudicante, costituiscono una componente del lavoro
docente, faticosa e spesso stressante. Occorre quindi che l’Io sia abbastanza forte per
reggere lo stress della simbolica ribalta.

Al centro della comunicazione didattica sta in primo luogo la padronanza dell’oggetto


didattico.

L’ascolto attivo La competenza comunicativa è un pensiero che pensa il destinatario


insieme a proprio oggetto. Dunque, nella comunicazione didattica l’ascolto è
importante almeno quanto l’espressione verbale. L’ascolto attivo è la condizione della
risposta coerente e funzionale; non è possibile che sappia davvero comunicare
efficacemente una persona incapace di ascoltare. L’ascolto suppone la concentrazione
di un’attenzione intelligente verso la verbalizzazione e l’espressione dell’altro, la
creazione di uno spazio di silenzio interno in cui collocare ciò che viene ascoltato.
L’ascolto attivo è un atto di intelligenza, è una forma di comprensione e anche
interpretazione della espressione dell’altro. È stato Carl Rogers per primo a
sottolineare la potente efficacia dell’ascolto empatico. Rogers e la sua scuola
sottolinearono: la dimensione dell’accettazione incondizionata propria dell’ascolto
empatico; la necessità di una autenticità/congruenza emozionale nella persona del
consulente.

La capacità di ascolto empatico costituisce un aspetto essenziale della professione di


quanti hanno a che fare con relazioni interpersonali. L’ascolto empatico suppone nella
realtà scolastica anche la piena intelligenza dei contenuti, intellettivi e non solo
emotivi, espressi dall’allievo.
Il secondo momento dell’ascolto arrivo è la riverbalizzazione, cioè la riformulazione in
altre parole del contenuto di una comunicazione verbale ascoltata, chiedendo, anche
in termini dubitativi o problematici, la conferma/consenso del partner comunicativo
alla nostra corretta interpretazione della sua verbalizzazione. L’allievo si sente preso
sul serio, riconosciuto, anche nei propri errori, e, ancora, si sente contenuto dal
docente. La riverbalizzazione del docente è anch’essa una strategia didattica, perché,
stimolando e/o favorendo nuove classificazioni del dato appena espresso, permette
all’allievo di riorganizzare nella propria struttura cognitiva alcuni elementi fra quelli
che egli ha appena verbalizzato.

La funzione di contenimento L’ascolto attivo comporta anche una funzione di


contenimento dell’insegnante nei confronti dell’allievo ascoltato. La capacità di
contenimento è commisurabile alla competenza comunicativa degli insegnanti,
sebbene non sia identica a essa ed essa agisca, al tempo stesso, nei confronti del
singolo allievo come del gruppo classe nella sua globalità. La funzione di
contenimento non appare sufficientemente teorizzata e razionalizzata sul piano
pedagogico-didattico: il linguaggio quotidiano parla genericamente di capacità di
mantenere la disciplina, e il termine tecnico più diffuso sembra essere quello di
gestione dell’aula.

Il primo elemento del contenitore è l’ascolto attivo del docente; un secondo elemento
potrebbe essere fornito dalla qualità globale della sua condizione dentro il gruppo. Gli
insegnanti più efficaci sanno introdurre l’oggetto didattico in termini di tale
concretezza al punto che esso si pone quasi automaticamente come contenitore. In
altre parole: essi contengono l’intero gruppo classe semplicemente mediante la
concentrazione sull’oggetto didattico.

9. Come gestire la valutazione perché sia educativa Il problema della


valutazione/verifica Un obiettivo essenziale dell’azione didattica riguarda altresì il
controllo e lo sviluppo in ciascuno allievo di una metodologia di lavoro autonomo,
continuamente sollecitata e verificata. Lo scopo ultimo dell’apprendimento scolastico
è quello di imparare a imparare. La società umana cresce in relazione a una
intelligenza sociale diffusa e sviluppata. Lo sviluppo di una intelligenza consapevole
costituisce la condizione necessaria di qualsiasi ulteriore conquista umana.

L’insegnante più efficace è quello che fa lavorare i ragazzi.

La valutazione è una componente dell’azione didattica, dunque continua e inevitabile.


Le attività di verifica vanno pensate e progettate insieme alle azioni di insegnamento.
L’attività valutativa è sostenuta dall’intelligenza diagnostica, nella quale si
congiungono la padronanza dei contenuti e i modi con i quali essi sono
comunicati/trasmessi all’allievo. La valutazione costituisce l’aspetto meno curato ed
efficace nella tradizione didattica italiana.
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Qualsiasi strumento standardizzato di valutazione utilizzato per attestare


periodicamente il compimento di percorsi scolastici di ciascuno studente costituisce
uno strumento imperfetto.

Valutazione diagnostica e riflessi educativi La valutazione implica in primo luogo una


intelligenza diagnostica nell’insegnante, perché la valutazione dell’allievo costituisce in
sostanza una diagnosi. Si può valutare il quadro generale delle competenze e degli
atteggiamenti dell’allievo. Può capitare che l’abilità di uno studente anche adolescente
di rispondere a una domanda precisa su contenuti che non possiede ne riveli la
lucidità e l’efficacia argomentativa.

Gli insegnanti tendono spesso a comprare gli allievi fra loro, mentre la comparazione
più importante è quella che va condotta sui miglioramenti di ciascun studente e cioè
rispetto al rapporto tra esiti e potenzialità. Un insegnante che spiega a un allievo la
curva del suo profitto mostra attenzione, interesse, sensibilità educativa.

Valutazione prognostica e sul breve periodo Una seconda modalità di valutazione è


quella prognostica, mediante cui si possono valutare le potenzialità, cognitive ed
emotivo-affettive, di uno studente. La valutazione prognostica determina le profezie
che possono influire sugli sviluppi futuri dei processi di maturazione dell’allievo e della
relazione insegnante-allievo.

Ogni allievo sente nella cura dell’insegnante una forma di attesa positiva. La crescita e
i risultati scolastici una forma di attesa positiva. La crescita e i risultati scolastici di un
allievo così motivato ne sono conseguenza diretta.

Una performance può essere incongruente con i risultati paralleli in altri ambiti
disciplinari. È essenziale che i tre livelli di valutazione vengano mantenuti distinti nella
percezione dell’insegnante, anche se essi finiscono ovviamente per intrecciarsi.

La distinzione nella valutazione di livelli interni ci permette di formulare come


principio di metodo essenziale la separazione della valutazione di ogni singola
prestazione/condotta dalla valutazione della persona.

La nozione di valutazione formativa Il termine valutazione formativa è stato introdotto


nella letteratura internazionale all’inizio degli anni Settanta, come distinto dalle
valutazioni sommative.

L’idea di valutazione formativa è inseparabile da una concezione didattica interattiva,


dinamica, tutoriale, che preveda da parte dell’insegnante un monitoraggio costante
dei processi in atto e forme di controllo dei comportamenti degli studenti.
Pop Education Chiaroscuri pedagogici nella cultura di massa

I punti chiave del V romanzo della saga di Harry Potter sono:

• Il POF della scuola di Hogwarts: la canzone del “Cappello Parlante”

• Albus Silente e la scuola di Hogwarts: il Maestro e il Preside

• Dal governo alla “buona” scuola: il “programma” di Mrs. Umbridge

• La “buona” scuola alla prova dell’insegnamento: lo “scarto” e l’errore

• Contro il “modello efficientista”: per una scuola buona

Il Cappello Parlante appare il deposito della memoria al tempo stesso del progetto
della scuola di Hogwarts, costituendo una sorta di “Piano dell’Offerta Formativa”. Il
POF è la carta d'identità della scuola: in esso vengono illustrate le linee distintive
dell'istituto, l'ispirazione culturale-pedagogica che lo muove, la progettazione
curricolare, extracurricolare, didattica ed organizzativa delle sue attività. Il Cappello
Parlante ha messo in guardia tutta la scuola dai pericoli imminenti e a mantenere
salda la collaborazione tra le diverse case.

Patto sincero: Insieme insegnare, vicini restare!

Il patto educativo, stipulato tra i fondatori della scuola di Hogwarts, intrecciava


efficacemente le specifiche funzioni della scuola incarnate nelle diverse sensibilità
degli insegnanti fondatori.

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La scuola buona, nel modello di Silente, è quella che mette assieme le diverse
condizioni umane, psicologiche e/o sociali che siano, prendendosi cura delle nuove
generazioni nella loro interezza.

Ovvero una Scuola Inclusiva.

Silente è il vero Maestro di Harry Potter. Harry ha interiorizzato un “Io vicario” nella
relazione con Silente, che gli permetterà di sostituire il Maestro.

La dedizione di Silente alla scuola e al suo compito di costituire un luogo protetto per i
suoi studenti è ampiamente sottolineata da molteplici episodi. Silente ha la capacità di
avere una fiduciosa attesa verso i cambiamenti delle persone. La sua attenzione a
trattare con dignità ogni essere con cui entra in rapporto può collegarsi alla magia
antica dell’amore. Silente comunque non è perfetto. Si era troppo affezionato ad
Harry e ciò lo aveva portato a mentire, a non porre fiducia nella verità.

L’insegnamento più grande di Silente risiede nella fiducia radicale nella possibilità di
ciascuno di esercitare la propria libertà davanti alle cose e davanti agli altri, andando oltre
il prevedibile e aprendosi all’imprevisto.

Sono le scelte che facciamo, Harry, che dimostrano quel che siamo veramente,
molto più delle nostre capacità

La lezione del Centauro Fiorenzo si basa sul sapere scientifico, libero da ogni
determinismo dogmatico e premessa della libertà etica, che rimane l’obiettivo di ogni
progetto educativo rispettoso della persona.

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