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Isabella Milani © COPYRIGHT 2011

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autorizzazione scritta.
Le immagini di copertina sono opera di Paolo Moisello, in
arte “Moise”, vignettista e illustratore.

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Piccola introduzione.

Cari giovani colleghe e colleghi, insegno da


molti anni, ma non abbastanza da aver
dimenticato quello che provavo agli inizi della
carriera.
Avrei voluto essere come il migliore degli
insegnanti che avevo incontrato nella vita, e mi
ero ripromessa di non essere mai come i
professori che non mi piacevano.
Provavo grande entusiasmo, timore di non
essere all’altezza del compito che mi veniva
affidato, emozione perché finalmente mi trovavo
dall’altra parte della barricata; mi sentivo
disorientata perché nessuno mi aveva spiegato
che cosa dovevo fare una volta in classe, davanti
agli alunni. Avrei voluto che qualcuno mi desse
dei consigli, mi sorreggesse nelle difficoltà, mi
consolasse quando mi accorgevo di aver
sbagliato. Ma non c’era mai nessuno.
Dunque, eccomi qui a darvi dei consigli.
Consigli pratici, non discorsi teorici.
Sono suggerimenti, indicazioni, avvertimenti,
raccomandazioni che possono servirvi ora che
state per iniziare, o avete iniziato ad insegnare.
Servono a darvi delle indicazioni, dei
suggerimenti che vi spingano a riflettere sugli

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errori che avete fatto o su quelli che potreste
commettere.
Nell’insegnamento non si può sbagliare senza
conseguenze.
Dunque è importante conoscere i principali
errori che si possono fare.
Sedere in cattedra è come fare un concerto: se
sbagli fin dalle prime note, verrai giudicato un
pianista di poco valore e ti fischieranno; se
sbagli, ma il pubblico ti conosce già,
probabilmente ti perdonerà. Ma sempre c’è un
prezzo da pagare, per gli errori.
Con l’esperienza arriverete probabilmente da
soli alle stesse conclusioni, ma leggere un po’
prima questi consigli potrà rendervi le cose
meno difficili e a volte meno traumatiche.
Non c’è un solo modo di insegnare.
Il mio è uno, ma credo che possa essere un buon
punto di partenza per le vostre riflessioni.
Ricordo un’obiezione all’idea di un libro di
consigli:
“i ragazzi non sono tutti uguali e quindi non ci
possono essere regole fisse.”
Naturalmente, un insegnamento efficace è frutto
di esperienza e l’esperienza non si può trasferire
agli altri. La parola “esperienza”, dal punto di
vista etimologico, contiene in sé il concetto di

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“prova”. Non si può fare esperienza senza
provare. Ogni caso è un caso a sé, e quello che
può andare bene in una situazione può non
funzionare in un’altra.
L'esperienza è essenziale. Si impara dagli errori,
ma pur essendo le classi tutte diverse, ci sono
atteggiamenti, problemi e soluzioni che si
ripetono. Bisogna essere preparati a tutte le
evenienze. E' come una partita a scacchi: devi
muovere dopo aver previsto le possibili
contromosse dell'avversario. In un rapporto
difficile l'alunno è un avversario da battere,
anche se nel senso positivo del termine. Più
precisamente, dobbiamo battere la sua
diffidenza e la sua resistenza. Imparerete ad
insegnare in modo più efficace solo ponendovi
ogni giorno l’obiettivo di capire che cosa è
meglio fare in ogni situazione. Dovete conoscere
la psicologia degli alunni. Pensare ai casi difficili
che vi si presentano, cercare di capire perché
quel certo bambino o ragazzo si comporta così.
Dovete convincervi del fatto che è vostro dovere
aiutarlo. Un alunno che si comporta male non è
un nemico da combattere, ma un uccellino
sperduto o ferito da soccorrere.
L’esperienza degli altri è preziosa solo se sapete
adattarla in modo diverso ad ogni situazione. Vi
serve perché vi fa suonare un campanello
d’allarme quando sta per verificarsi una

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situazione difficile. Ma dovete decidere a casa
che cosa potete fare in quel caso.
Nel momento in cui un ragazzino (bambino o
ragazzo) vi sfida, dovete saper raccogliere la
sfida e vincere. Se lui vi deride, non potete
lasciarlo fare. No. Dovete trovare una soluzione.
E subito. Vi provoca per vedere dove può
arrivare. Tutti gli insegnanti lo sanno. Ma molti
non riescono a non cadere nella trappola e
rispondono arrabbiandosi, o tentando la strada
delle spiegazioni e delle paternali, (ma non
funziona perché non c'è nulla da spiegare, in
realtà).
Alcuni cadono talmente nella trappola che
perdono totalmente il controllo e passano alle
offese. La soluzione, invece, consiste nel
dimostrare al provocatore che non avete paura.
Voi dovete fare arrabbiare lui e non viceversa.
Se vi sfida siete costretti a combattere e a
vincere. È questo che vuole: vedere se riesce a
vincervi. Ma dovete vincere voi. Non per
vendicarvi, ma per avere la sua stima e quella
della classe che assiste al “duello” nel quale
l’alunno difficile vi ha trascinato. Dovete sentire
dentro di voi che, anche se state facendo di tutto
per metterlo in difficoltà, lo state facendo per
aiutarlo, per fargli capire che non può
comportarsi così. Non c'è speranza per un
insegnante che prova davvero sentimenti

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negativi nei confronti degli alunni, perché se ne
accorgono e gliela fanno pagare.
Quando siete a casa, perciò, immaginate tutto
quello che potrebbe succedere e decidete che
cosa fareste, voi, se vi capitasse quella
situazione. Allenatevi, insomma. Divertitevi,
anche. Nessuno ascolta qualcuno che appare
come un perdente. Allenatevi ad apparire
(anche prima di essere) un vincente.
Dice “maestra buuu”? Voi chiedete “Che cosa
dici? Buuu? Che cosa vuol dire buuuu?”. Lui
perde le staffe ancora di più e magari vi insulta
(ricordate: dovete pensare a tutte le evenienze)?
E vi rabbuiate e dite, preoccupati. “Oh,
poverino, ha perso la calma. Che cosa ti
succede? Perché dici così?”.
Sempre calmissimi.
E dentro di voi dovete sentire che lo state
facendo per aiutarlo. E tutti lo devono sentire,
che volete aiutarlo, anche se lo sgridate.
Il rispetto ve lo dovete guadagnare. Dovete
conquistare la loro fiducia, e potete farlo solo se
riuscite ad apparire una guida, sicura di quello
che fa.
Il vostro punto di forza, quando insegnate, deve
essere il fatto che gli alunni - tutti – percepiscono
che vi interessano molto. Anche mentre li

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sgridate. Anche quando li mettete in difficoltà se
vi sfidano ad un simbolico braccio di ferro.
Ogni insegnante, poi, è diverso dall’altro: io
reagisco in un modo e voi in un altro. In ogni
situazione raccolgo dei dati, faccio domande,
studio la situazione. I consigli che vi do devono
essere sempre adattati alla situazione che voi
avete davanti in quel momento. Dovete
raccogliere i vostri dati, fare le vostre domande,
studiare la situazione che vi si presenta.
L’esperienza vi insegnerà. Ma sono consigli utili,
soprattutto per sapere che cosa non fare, e a che
cosa si deve fare attenzione quando si insegna o
quando ci si trova in difficoltà. Conoscere in
anticipo la casistica, i problemi e le difficoltà può
aiutare moltissimo.
Ogni insegnante è diverso dall’altro, perché
parte da storie di vita e culturali diverse.
Ciascuno deve partire dal suo bagaglio culturale
ed arricchirsi dell’esperienza degli altri. In
realtà, ed è già una prima indicazione, quasi
tutto può essere un buon punto di partenza per
una lezione efficace.
Un altro concetto essenziale per un
insegnamento efficace è questo: dovete essere
preparati a colpire la loro fantasia, a suscitare il
loro interesse; dovete stupirli, coinvolgerli,
affascinarli. Come? Studiando. Provando,
leggendo. Riflettendo. I ragazzi, e ancora di più i

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bambini, devono vedere in voi una persona che
sa quello che fa, che conosce tante cose
interessanti, che merita di essere ascoltata. E fra
queste non c’è un dibattito sulla raccolta
differenziata. Quello si può fare solo quando li
avrete conquistati.
Meritate di essere ascoltati? Avete un ricco
bagaglio di attività e conoscenze che possano
rendervi interessanti e divertenti ai loro occhi?
Imparate ad usare la voce in modo espressivo;
perfezionate la vostra capacità di leggere;
imparate a recitare. Cercate di entusiasmarvi,
perché l’entusiasmo si trasmette, come si
trasmettono la noia o la paura.
Vi deve interessare tutto quello che in qualche
modo vi può fornire materiale per catturare
l’attenzione dei vostri alunni: un libro sui disagi
dell’adolescenza; un articolo sulla sessualità e gli
adolescenti; uno sulle chat; un saggio sui diari
scolastici; un’inchiesta sui rapporti fra ragazzi di
religioni diverse, sui disturbi alimentari dei
ragazzi, sull’ultima moda, sui cellulari, sulla
musica. Ma anche un disegno, una scritta su un
muro, una fotografia, un oggetto, un
programma televisivo, un film.
I tipi di lettura che possono far parte del
bagaglio di un insegnante sono molti: ci si deve
costruire, ciascuno secondo i propri interessi e il

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proprio background culturale, una specie di
«biblioteca di emergenza ».
Più cose avete nel vostro bagaglio e più potrete
tirarne fuori durante le lezioni.
Vorrei precisare anche il fatto che, in questo
libro, uso spesso, di proposito, un linguaggio
molto aderente al parlato colloquiale. La
punteggiatura che scelgo è tesa a rendere il
discorso immediatamente comprensibile, cosa
che non sempre si ottiene quando ci sono molte
frasi secondarie. Ho cercato di scrivere come
parlo, insomma. Perché, quando parlo, in classe,
uso un linguaggio di questo tipo, fatto di frasi
brevi che diano a tutti il tempo di pensare a
quello che stanno ascoltando.
Il linguaggio che uso non è tecnico, perché mi
rivolgo ad insegnanti che, come me, vogliono
fatti e non parole.
Le persone più interessanti che conosco, del
resto, parlano e scrivono in modo chiarissimo,
usando parole semplici. La complessità del
discorso, se c’è, è nel concetto, non nelle parole.
Tutto quello che troverete in questo libro ha lo
scopo di aiutarvi a fare bene il vostro lavoro,
ricordando che la persona più importante per
voi, quando siete in classe, è l’alunno con la sua
personalità, le sue difficoltà, il suo piccolo
bagaglio di vita.

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Nei consigli che do faccio riferimento a un
generico “ragazzo”, ma la maggior parte di
quello che scrivo può essere usato, con qualche
cambiamento, a tutte le età.
È ovvio che non posso rivolgermi allo stesso
modo a un bambino di otto anni e a un ragazzo
di diciassette. Ma il concetto di base è sempre lo
stesso: per insegnare dovete trovare il modo di
essere credibili, autorevoli, preparati e
interessanti.
Chi insegna alle superiori obietta spesso che i
consigli che valgono per le elementari e per le
medie non possono valere per le superiori.
Questa obiezione nasce dal fatto che si guardano
le parole e non i concetti. Bisogna sapersi
adeguare alle situazioni, e non sempre è facile.
Ma si può fare. Se riuscite ad avere
autorevolezza ce l’avete con chiunque. Il difficile
è imparare ad averla.
Insegnare è un lavoro, non una missione. Ma è
anche un compito straordinario, se fatto con
passione. Chi ama insegnare vuole fortemente
trovare una soluzione che sia anche il bene
dell'alunno. C’è chi insegna perché non trova
altro lavoro, chi perché può avere molti
pomeriggi liberi. A questi insegnanti suggerisco:
se non avete la passione, se non provate
emozione all’idea di lasciare un’impronta nella
vita degli alunni, mettetecela tutta per

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andarvene appena potete, perché non si riesce a
resistere alle difficoltà, a volte lievi, ma a volte
molto pesanti, che l'insegnamento comporta.
Cercate subito un altro lavoro. È meglio. Per
tutti.

N.B. Gli spazi bianchi dopo ogni capitolo


servono per i vostri appunti. Usatele!

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Prima di cominciare: che cosa significano i
verbi “insegnare” ed “educare”.

Prima di tutto vorrei raccomandarvi di iniziare


la vostra carriera (o di rivederla, se non siete
soddisfatti di quello che avete raggiunto fino ad
oggi) partendo da una domanda, che se ne porta
dietro altre: che cosa significano i verbi
“insegnare” ed “educare”?
Siete insegnanti: dovete avere ben chiaro che
cosa vi si chiede di fare e perché avete scelto
questo lavoro, per essere credibili.
“Perché insegno?” “Perché ho scelto questo
lavoro?”. Se siete insegnanti chiedetevelo. È
indispensabile.
Vi dico perché io ho scelto di insegnare. No, non
vi dirò che ho sempre sognato di insegnare. Non
è vero. I fatti della vita hanno deciso per me, ma
poi mi sono innamorata dell’insegnamento.
Insegno perché in classe mi aspettano tanti
ragazzi che hanno tutta una vita da vivere. So
che la vita è molto impegnativa. So che a volte è
dolorosa, che servono strumenti adatti e che se
ne hai molti ti è più facile viverla bene. Per
questo insegno, per dar loro degli strumenti. È
come se sapessi che devono accingersi a fare un
lungo e pericoloso viaggio e io fossi lì a
controllare che abbiano preso tutto, a mettere in

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valigia tutto quello che posso, prevedendo che
potranno avere sete, fame, freddo, caldo; che
potranno ammalarsi, perdersi, stancarsi,
annoiarsi. E mi arrabbio se mi accorgo che non
mettono nella valigia cose che ritengo essenziali.
Mi arrabbio perché mi preoccupo per loro. Se
non riesco a mettere tutto, rimprovero me stessa,
e tutto ciò che mi rende difficile equipaggiarli
come si deve. Sono costretta a litigare con loro
per riuscire a riempire la loro valigia, perché
sono ragazzi e non si rendono conto di quanto è
importante avere tutto quello che serve, perché
durante il viaggio molte volte non potranno
fermarsi a fare rifornimento, o non troveranno
nessuno che vorrà o potrà aiutarli. Protestano
perché non hanno voglia di fare la valigia e
vogliono viaggiare leggeri, ma io non cedo.
Studio continuamente, perché credo che noi
insegnanti, per primi, dobbiamo chiederci se
quello che mettiamo nella loro valigia va ancora
bene. Perché credo che se continuiamo a mettere
sempre gli stessi vestiti, da anni, o mettiamo,
uguali identici, quelli che ci hanno passato i
nostri genitori o i nonni, ci sono buone
possibilità che li vestiamo con abiti fuori moda
che li faranno deridere o trovare in difficoltà.
Molti insegnanti insegnano e continuano a
studiare per questo motivo. Ma non tutti.
Se la pensate come me, vi avverto che
l’insegnamento è un lavoro molto frustrante:

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vorreste riempire quella valigia ma molto spesso
non ci riuscite, perché non ci sono esperti che vi
aiutino a riconoscere i deficit di apprendimento,
non ci sono libri, non c’è tempo, non ci sono
spazi, non ci sono soldi. E poi, dovete
combattere contro colleghi che pensano che
l’insegnamento consista nel travasare delle
nozioni, contro dirigenti che vi mettono i bastoni
fra le ruote, contro genitori che partono dal
presupposto che se rimproverate il loro figlio è
perché non capite nulla e non sapete fare il
vostro lavoro.
Per essere un buon insegnante non basta
“insegnare”. Bisogna anche “educare”.
“Educare” significa “guidare nella crescita
intellettuale e morale; deriva dal latino
“educare”, che significava “tirare fuori,
condurre fuori, guidare fuori”. Significa quindi
tirar fuori dal bambino e dal ragazzo ciò che ha
dentro di buono, di positivo. Significa guidarlo
verso la cultura e verso la vita.
“Insegnare” vuol dire “far imparare qualcosa a
qualcuno” e deriva dal latino “In signare”, cioè
tracciare dei segni, delle indicazioni.
L’azione di educare e quella di insegnare
presuppongono che ci sia una persona che vuole
insegnare e una che vuole imparare.
Ecco: qualunque sia il motivo per cui insegnate,
se non siete appassionati quando educate e

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insegnate, se non volete veramente insegnare ai
vostri alunni, se non siete disposti a studiare
continuamente, ad auto-aggiornarvi e a mettervi
sempre in discussione, non potete essere
davvero insegnanti efficaci. Gli alunni se ne
accorgono, se siete mossi da passione o se siete
mossi da semplice necessità di lavorare e
provate noia e fastidio. L’ho già detto: la
passione è contagiosa. Come la noia e il fastidio,
appunto. Siete voi quelli che devono fare in
modo che l’alunno voglia imparare.
Bisogna entrare in classe, dunque, avendo chiaro
in mente che cosa si deve insegnare, perché si
devono insegnare quelle cose e come si devono
insegnare.

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Essere, ma anche apparire

Ancora prima di entrare in classe, è necessario


che abbiate chiaro anche questo concetto: se
volete essere bravi insegnanti è necessario che
siate davvero preparati e capaci di trasmettere
quello che sapete. In altre parole: dovete aver
studiato bene la materia che insegnate, perché se
non la conoscete, quando parlate tentennate e
risultate impacciati. E questo non significa che
non possiate sbagliare o che non ci possa
capitare di non conoscere un particolare. Chi è
più preparato sa quanto è immenso il sapere e
quanto è assurdo pretendere di sapere tutto.
Insegnate questo concetto agli alunni e, se
sbagliate, non abbiate paura di riconoscerlo.
Capiranno.
Per riuscire a trasmettere quello che sapete è
essenziale essere capaci di interessare gli alunni
e, ovviamente, di mantenere la disciplina, senza
la quale nessuno riesce ad ascoltarvi.
Ma non basta “essere”; bisogna anche
“apparire”: essere e apparire preparati, essere e
apparire forti; essere e apparire sicuri di voi
stessi; essere, ma anche apparire comprensivi,
giusti, equilibrati, ecc.
Bisogna apparire sempre, oltre che essere,
corretti e disponibili.

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Conquistare la stima di venticinque o trenta
alunni diversi fra loro è un’impresa non facile: ci
vuole tempo, pazienza, impegno e attenzione.
Potete riuscire a conquistare e mantenere la
stima. Ma potete anche perderla in un attimo.
Ed è facilissimo, ma dovete combinarne una
davvero grossa. Basta tenere uno dei
comportamenti che i ragazzi non perdonano.
Un insegnante, per loro, deve essere giusto.
Quindi non perdonano le ingiustizie. Se, anche
una sola volta, fate un’ingiustizia, li deludete e
perdono la fiducia che avevano in voi.
Un insegnante deve essere adulto. Se vi
comportate come un bambino, per esempio
facendo una cosa per ripicca, cessano di
considerarvi una persona matura.
Un insegnante deve essere onesto. Se vi
scoprono falso o bugiardo, si sentiranno traditi e
non vi crederanno più.
Un insegnante deve essere coerente. Se cambiate
idea ogni minuto, se dite una cosa e ne fate
un’altra, vi considereranno una banderuola.
Un insegnante deve essere serio, misurato. Se vi
mostrate eccessivi, farete loro pena e vi
derideranno.
Un insegnante deve essere un insegnante. Se vi
atteggerete ad amiconi cercheranno di darvi

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delle pacche sulle spalle, ma vi considereranno
ridicoli, e perderanno la stima.
Dovrete evitare, pur rimanendo voi stessi, tutti
gli atteggiamenti troppo lontani dal vostro ruolo
di educatori.
Le richieste devono essere reciproche. Il discorso
non deve essere a senso unico. Prima direte “Vi
prometto rispetto e pretendo rispetto”, “Vi
prometto attenzione e pretendo attenzione”, e
solo dopo potrete chiedere loro che cosa
promettono e in cambio di che cosa.
I ragazzi sono molto più severi di voi.

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Gli alunni vi vedono come vi vedete voi.

Ecco un concetto importante: gli alunni vi


vedono come vi vedete voi. Quindi, prima di
chiedervi come vi vedono gli alunni, dovete
chiedervi come vedete voi stessi. Noi
comunichiamo loro la nostra idea di noi stessi.
Se ci vediamo come insegnanti che non hanno le
idee chiare, loro ci vedranno confusi; se ci
vediamo come insegnanti che forse non
riusciranno ad interessarli, loro ci percepiranno
come noiosi e disorientati.
Se ci vediamo come persone che temono di
essere prese in giro, che non hanno la capacità di
reagire, state sicuri che ci prenderanno in giro. E
non ci seguiranno. Non si segue una guida che
appare timorosa di perdersi per la città.
Se la fama che abbiamo è ”con quell’insegnante
si può fare confusione quanto si vuole perché
tanto non ci succede nulla”; “quell’insegnante è
ridicolo, è noioso, è ingiusto”, non abbiamo il
prestigio necessario a farci ascoltare. Non
abbiamo autorevolezza.
Nel rapporto alunno/insegnante un altro
elemento chiave, infatti, correlato
all’autorevolezza, è il rispetto.
Il rispetto è un atteggiamento di stima verso una
persona che è, o viene ritenuta, superiore o

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particolarmente degna, ed è anche un
sentimento di riguardo e di attenzione, che ci
trattiene dall’offenderla, dal trattarla
bruscamente o in modo inadeguato.
È evidente il fatto che se noi abbiamo una bassa
stima di noi stessi e di quello che vogliamo
insegnare, se per primi non riconosciamo il
nostro ruolo di insegnanti, difficilmente
riusciremo a conquistare il rispetto e la stima
degli alunni.
Dunque: prima di entrare in classe lavorate sulla
vostra autostima e chiaritevi qual è il vostro
ruolo; convincetevi di essere in gamba e capaci
di conquistare la fiducia e la stima degli alunni.

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Il ruolo dell’insegnante.

Un tempo l’autostima, almeno in classe, ci


veniva data insieme al titolo di studio e ci
veniva rafforzata dal riconoscimento sociale del
nostro ruolo: si sapeva che, per il fatto stesso di
avere un titolo di studio, saresti stato “il signor
maestro”, “il signor professore”. Ora, per la
società, in cuor vostro sapete di essere solo “il
signor sfigato”. E potete soltanto cercare di
costruirvi la stima sociale degli alunni e dei
genitori. Ma la vostra autostima non deve
dipendere dal fatto che gli alunni si alzano o no
quando entrate. Se siete convinti del fatto che è
un dovere degli alunni quello di non mancare di
rispetto all’insegnante, non dovete accettare che
vi si manchi di rispetto. Neanche per un attimo.
Questo deve trasparire. Deve essere evidente a
tutta la classe che non siete una persona alla
quale si possa mancare di rispetto. È importante,
però, che siate davvero convinti del fatto che nel
rapporto alunno – insegnante il rispetto deve
essere assolutamente reciproco. Deve risultare
chiaro agli alunni che l’insegnante pretende
rispetto, perché non mancherà mai loro di
rispetto. E ci tengo a precisare che non sempre al
rispetto corrisponde la simpatia, o l’affetto.
L’insegnante non può permettersi di cercare, da
parte dei ragazzi, almeno all’inizio,
l’approvazione, la simpatia, l’accettazione dei

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rimproveri. Capita molto spesso, anzi, che un
insegnante autorevole, severo, venga percepito
da alunni abituati ad essere liberi da qualsiasi
regola, come un insegnante “rompiscatole”, e,
da genitori permissivi, come “esagerato” o
“insensibile”, soprattutto perché spesso i
rimproveri fatti agli alunni, sui ritardi, sulle
assenze, sulle giustificazioni, vengono
considerati (e a volte sono) come rimproveri
anche alla famiglia.
Ma bisogna avere pazienza e, alla fine, i ragazzi
e i genitori capiranno.
Soprattutto, ricordate: non siete amici.
Siete giovani, lo capisco, ma questo non vi deve
far dimenticare un concetto educativo base.
L’insegnante non deve sperare di essere “amico”
dell’alunno. E questo vale anche per i genitori.
L’insegnante, come il genitore, deve essere una
guida, un allenatore, un coach. Non un amico.
Meritare la fiducia e la stima di un ragazzo è
molto importante. Se ci riuscite il ragazzo si
confiderà con voi e voi potrete aiutarlo meglio. È
questo che desidera, in realtà. Gli amici li ha già.
Non dobbiamo mai dare l’impressione che il
nostro sia un rapporto alla pari. Non lo è: è un
rapporto asimmetrico, come dovrebbe essere
quello fra genitori e figli.

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“Asimmetrico” significa che uno è su e l’altro è
giù. Più basso perché sta imparando, non perché
è meno importante. È una questione di ruoli
diversi, non di importanza diversa.
Se entrate in classe come se foste uno di loro vi
tratteranno come uno di loro, si rivolgeranno a
voi con battute da bar, risponderanno “non ne
ho voglia”, “chissenefrega”, “non rompere”; vi
manderanno a quel paese e vi insulteranno.
Proprio come fanno con gli amici.

24
Gli insegnanti sono tutti diversi.

Vorrei ribadire un concetto: i consigli che vi do


sono soltanto indicazioni, che vi permettono di
fare delle riflessioni utili a trovare la vostra
strada.
Non c'è un solo modo di insegnare, un solo
modo di porsi, un solo tono della voce efficace.
Se siete persone timide, non riuscirete come per
magia a diventare sicure. Ma dovete imparare
ad apparirlo. Se nella vita quotidiana siete
persone taciturne e riservate, non diventerete
loquaci e comunicative solo perché lo volete. Ma
è necessario che impariate a sembrare più aperti.
Ma se nella vita quotidiana siete bruschi,
autoritari, vendicativi, musoni, esageratamente
ansiosi, irascibili, o iracondi dovete sforzarvi di
cambiare. Chi ha queste caratteristiche non può
riuscire ad essere un insegnante efficace.
Se insegnate la vostra materia esattamente come
si insegnava trent’anni fa, quando i ragazzi, i
genitori, gli adulti e la società erano diversi, vi
invito a mettere in discussione il vostro modo di
insegnare.
Se non tenete in nessun conto, quando
insegnate, il mondo esterno, vi invito a farlo,
perché la Scuola non può trasmettere contenuti e
capacità inutili nell’attuale mondo lavorativo.

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Se cercate di imporre agli alunni solo le vostre
idee, vi invito a non farlo: i ragazzi devono
imparare a pensare con la loro testa, per non
essere preda, nella vita, di chi saprà imporre loro
le sue idee.
Se credete che quello che avete studiato a scuola
e all’Università sia sufficiente per sempre, come
bagaglio di conoscenze da trasmettere, vi invito
a ricredervi e ad aggiornarvi sempre.
Ma, detto questo, ognuno di voi è una persona
speciale, con il suo modo di essere, di pensare,
con il suo bagaglio di competenze e conoscenze.
Dovete trovare da soli la vostra strada, come
insegnanti.

26
Le classi sono tutte diverse.

All’inizio dell’anno, è abitudine degli insegnanti


scambiarsi opinioni sulle classi nuove: “Mi
sembra una bella classetta”. La “bella classetta”
è una classe nella quale si riesce a fare lezione
senza avere grossi problemi a tenere la
disciplina; nella quale ci sono diversi alunni che
studiano, e stanno attenti. E se il numero di
quegli alunni è alto diventa “una buona classe”.
Ma queste “belle classette” capitano sempre più
di rado. Oggi si dice spesso “sembra una brutta
classe”. Il che significa che dalle schede degli
alunni emergono difficoltà nello studio e
problemi di comportamento.
Bisogna essere preparati anche alle classi
“difficili”. Il lavoro dell’insegnante consiste
nell’insegnare a tutti. Per tutte le classi, però, è
importante il primo approccio. Sbagliare
l’approccio iniziale con la classe significa
sbagliare tutto.
Raccomando agli insegnanti giovani di ricordare
questo: la classe è il vostro interlocutore. È
quella che dovete conquistare, prima ancora di
conquistare i singoli alunni. Dovete affascinarla
e soprattutto guadagnarvi la sua fiducia e il suo
rispetto. Quella fiducia e quel rispetto che non
dovete mai, per nessuno motivo, neanche una
volta, perdere. La classe non è una somma di

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individui, è un corpo unico. È come un grappolo
d’uva. Dovete considerare il grappolo intero,
non i singoli acini, che non sono tutti uguali, non
hanno la stessa perfezione di forma; alcuni sono
ben maturi, altri sono ancora un po’ acerbi; altri
ancora sono un po’ sciupati. Quello è il grappolo
che vi è stato affidato. Dovete averne cura.
Come non ci sono due grappoli perfettamente
uguali, non ci sono due classi perfettamente
uguali. Non è scontato, perché se lo fosse,
nessun insegnante pretenderebbe di insegnare
sempre allo stesso modo. Allora diventa
davvero importante capire com’è quella classe.
Prima studiate il grappolo e solo dopo gli acini.
La classe è un insieme nel quale vivono i
ragazzi.
Un ragazzo, in classe, si comporta in modo
diverso rispetto a quando è solo con te. Più
timido, più spavaldo, più sfrontato, più
sgarbato.
In classe i ragazzi interagiscono e si creano
dinamiche che non ci sono quando il ragazzo si
trova fuori dall’aula, in un piccolo gruppo o
solo. Ogni ragazzo è come un componente
chimico che da solo non è pericoloso, o dannoso
o esplosivo, o utile, ma combinato con altri si
trasforma. Ed è molto diverso da quando si
trova a casa. Ecco perché accade molto spesso
che il genitore non crede alla descrizione di

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comportamenti del figlio. Secondo loro, il figlio
a casa è diverso e se si comporta male la colpa è
dell’insegnante o dei compagni. Oppure non è
vero ed è l’insegnante che ce l’ha con lui.
Non dovete mai dimenticarlo.

29
Gli alunni sono tutti diversi.

Ho scritto: “La classe non è una somma di


individui, è un corpo unico. È come un grappolo
d’uva.”
All’inizio viene la classe: tutte le classi sono
diverse e dovete prima di tutto saper gestire la
classe nel suo insieme. Ma poi è importante
considerare un altro concetto: tutti gli alunni
sono diversi e un vostro atteggiamento che va
benissimo per un alunno è sbagliato per un
altro. Ecco la difficoltà: parlare per la classe nel
suo insieme e, contemporaneamente, per i
singoli alunni, che sono tutti diversi e
dovrebbero essere affrontati con strategie
individualizzate.
Come si fa? Direi che è praticamente
impossibile. Bisognerebbe che le classi fossero
composte da dieci alunni e invece sono sempre
più numerose. Accontentatevi di non fare gli
errori più grossi. Se ci riuscite siete già bravi. Ma
mettetecela tutta.
“Handicap” significa “condizione sfavorevole,
svantaggio”. Voglio chiamare qui “portatori di
svantaggio” tutti i bambini e i ragazzi che sono
in qualche modo svantaggiati: sono figli di
genitori che non possono seguirli, sono stranieri
e non sanno l’italiano; hanno una menomazione
fisica; hanno dei ritardi psicofisici; sono molto

30
poveri; sono diabetici; sono obesi; sono
caratteriali; sono figli di genitori depressi, o
alcolisti, o tossicodipendenti, o ricchi e assenti;
sono figli di genitori disonesti o violenti; o
hanno subito dei traumi, o sono depressi come i
genitori, o hanno attacchi di panico, per
esempio.
Il numero dei “portatori di svantaggio”, in Italia
come nel mondo, è decisamente molto superiore
a quello dei ragazzi che hanno una vita
cosiddetta “tranquilla”, “normale”. E allora che
cosa si deve fare? Che cosa deve fare la società
degli adulti di tutti quei portatori di svantaggi?
Li ignora? Li isola? Li segue e li aiuta? Si dedica
solo ai pochi alunni bravi?
C’è qualcuno che dice: i bravi avanti e i non
bravi a casa. Non fatelo, soprattutto se insegnate
nella scuola dell’obbligo.
Riflettete sul fatto che per i “portatori di
svantaggio”, per chi ha “bisogni educativi
speciali”, ma non ha handicap dichiarati, non c’è
nessun sostegno. Nessun sostegno per ragazzi
che non conoscono la lingua, che hanno
difficoltà di socializzazione, di apprendimento,
che non sanno superare traumi affettivi, che
hanno svantaggi socio culturali, se queste gravi
condizioni non vengono riconosciute come
handicap.

31
Diventa troppo costoso per la società, e allora
ecco che, non solo si ignorano i problemi dei
ragazzi svantaggiati, ma, semplicemente, si
“mettono”, come se fossero pacchi scomodi, più
alunni disabili, con patologie o problemi diversi,
con un solo insegnante. Troppo semplice e
troppo comodo per la società. Così, non riesce a
studiare né chi ha abilità “normali”, né chi ha
abilità “diverse”. Le difficoltà che sorgono in
una classe nella quale vengono inseriti ragazzi
con problemi particolari, e diversi gli uni dagli
altri, porta gli insegnanti, a trascurare gli alunni
disabili. Non per cattiva volontà, ma perché è
praticamente impossibile fare lezione
contemporaneamente ad alunni normodotati, ad
alunni svantaggiati e ad alunni con “abilità
diverse”.
Alunni con ritardi cognitivi, con turbe affettivo-
relazionali, non vedenti, non udenti, iperattivi,
psicotici, affetti da autismo, da dislessia, non
possono seguire tutti lo stesso programma.
I problemi e la frustrazione, per un insegnante
che lavora con coscienza, sono grandi.
Insegnanti non si nasce, si diventa. E
aggiungerei anche, “a forza di errori”. Non
dovete sentirvi in colpa se incontrate delle
difficoltà e non riuscite a superarle subito.
Capita a tutti, e dobbiamo accettarlo. Leggere
libri, studiare conta molto, ma l’esperienza è più

32
importante. Incontrerete ogni anno nuovi
ragazzi, affronterete problemi e li risolverete.
Ma non sempre andrà bene. A volte le
condizioni sono talmente difficili che non basta
la buona volontà. Dovete studiare ogni caso
difficile che vi si presenta e, con cautela, fare dei
tentativi, osservare i risultati e poi prendere
delle decisioni. Un caso simile vi si presenterà
una seconda volta, e poi una terza. E voi, usando
l’esperienza dei casi precedenti, potrete fare
sempre meglio.
Non vi demoralizzate mai!
Non vi si chiede di fare miracoli, ma di fare del
vostro meglio.

33
Prima di entrare in classe.

Come entrare in classe? Come rivolgersi alla


classe? Che cosa dire? E, soprattutto, che cosa
non dire? È essenziale che vi poniate queste
domande, prima di entrare in classe, soprattutto
se volete insegnare ai ragazzi dagli undici anni
in su.
Dovendo parlare a tutti gli alunni
contemporaneamente, c’è un modo che sia
comprensibile a tutti, che raggiunga tutti i
diversi modi di capire dei ragazzi? Chi decide
che cosa insegnare? Dobbiamo punire o no? I
provvedimenti disciplinari servono davvero?
Dobbiamo premiare o no?
Ma uno dei problemi più importanti nasce dalla
constatazione che non esistono due alunni
uguali. Se è vero, bisogna tener conto del fatto
che dobbiamo essere continuamente disposti ad
adattarci all’alunno che abbiamo davanti. Non
viceversa. Certo, non è possibile fare questo
completamente, perché in classe abbiamo
venticinque e anche trenta alunni. Ma si può
almeno cercare di farlo al massimo delle
possibilità.
Avete studiato le materie che insegnate; avete
letto libri, seguito lezioni. Potete essere
preparatissimi, ma se non riuscite a farvi
ascoltare, tutta la vostra preparazione è inutile.

34
Dovete mirare ad essere “bravi insegnanti”, non
bravi letterati, bravi informatici, bravi
matematici, bravi esperti d’arte. E per essere
“bravi insegnanti” dovete conoscere la materia
che insegnate, certo, ma anche avere
autorevolezza.
L’autorità è la facoltà di esercitare
legittimamente un potere o una funzione. Ma
“autorità” significa anche “avere, prestigio,
credito, stima”.
Quando entrate in classe per la prima volta,
come docenti, avete la facoltà di esercitare la
funzione di insegnante, questo è vero. Ma, per
“tenere la classe” e per farvi ascoltare, non basta
l’autorità: dovete godere della stima degli
alunni, cioè avere autorevolezza. Il che equivale
a dire che, per quanto preparati possiate essere,
se non siete stimati e autorevoli, non riuscirete
ad insegnare quasi nulla.
Allora, come si conquista l’autorevolezza, il
rispetto degli alunni?
Il discorso è lungo perché per riuscirci bisogna
tenere certi comportamenti e bisogna evitarne
molti altri.
Prima di tutto: l’entrata in classe - soprattutto la
prima volta - è determinante. Bisogna entrare
dando l’impressione di essere la persona che
loro si aspettano come insegnante; una persona
che sa il fatto suo, preparata, che potrà aiutarli,

35
che li capirà, che sarà giusta; un adulto maturo,
insomma, che si sente forte abbastanza da
guidarli, nello studio e nella vita. Certo, avere
un carattere forte è importante, ma ci si può
lavorare un po’, sul carattere. E dove non si
arriva con il carattere si può arrivare con la
tecnica, con le strategie.

36
La vostra prima volta in una classe.

Ecco, siete davanti alla porta della classe dove


entrerete per la prima volta in vita vostra.
Emozione, paura. Domande che si affollano alla
mente.
“Che cosa faccio ora? E se mi prendono in giro?
Se si mettono a ridere? Se mi succede come
all’insegnante di quel film al quale tirano penne
e astucci? Se mi dimentico quello che sto
dicendo? Se non so che cosa dire? Se sbaglio? Se
dico delle sciocchezze?”
Allora: niente “se”. Non pensate. Entrate come
ho già spiegato, avendo chiaro qual è il vostro
ruolo e avendo deciso a casa il tono che volete
tenere.
Non mostrate paura, perché la paura si vede
benissimo. Tutti abbiamo avuto paura. Non c’è
nulla di male se vi capita, ma è importante che
impariate a non mostrarla, perché, credetemi, se
se ne accorgono, non farete tenerezza ai ragazzi,
né pena: un insegnante che ha paura appare
ridicolo. Dimostrare sicurezza è indispensabile.
Quando voi entrate loro non sanno – né devono
saperlo – che è la vostra prima volta. Per loro,
che siate giovanissimi o no, siete “il professore”
o “la professoressa”. Non possono immaginare
che non avete mai compilato un registro

37
personale o di classe. Informatevi su come si
compilano i registri, prima di entrare in classe.
Purtroppo, nella maggior parte delle scuole gli
insegnanti nuovi vengono lasciati a loro stessi,
che siano “novellini” o insegnanti trasferiti da
un’altra scuola. Per quanto riguarda i registri,
sappiate che non sono tutti uguali, soprattutto i
registri personali. E le scuole sono tutte diverse.
Scuola che vai, abitudini e regole che trovi.
Dunque, visto che nessuno si preoccuperà di
informarvi, prendete l’iniziativa. Guardatevi
intorno in sala insegnanti, cercate di
individuare un collega disponibile e chiedete
come si compita il registro personale. Di solito i
registri di classe sono abbastanza omogenei:
guardate che cosa hanno scritto i colleghi e
seguite l’esempio. Normalmente c’è una casella
per la data, una per la firma, una per la materia,
una per le assenze, una per l’argomento delle
lezioni e una per le comunicazioni.
Arrivate in classe preparati.

38
Come si entra in classe.

Ho già detto della grande importanza


dell’ingresso in classe, sottolineando il concetto
che, poiché gli alunni vi vedono come vi vedete
voi, è molto importante, prima di entrare in
classe, lavorare sulla vostra autostima e chiarirvi
qual è il vostro ruolo.
I ragazzi di solito sono bravi ragazzi. Anche
quelli vivaci o vivacissimi. Presi singolarmente.
Ma sono un gruppo classe e si sa che l’essere
umano, in gruppo, cambia. Peggiora. E chi non
ha, da solo, il coraggio di trasgredire, riesce a
farlo quando si sente “coperto” dal gruppo.
Crede perfino di risultare invisibile. E lo
diventa, se l’insegnante non acquisisce la
capacità di osservare e di notare (cosa che non si
può fare nella confusione).
Ritorniamo allora all’interrogativo di partenza –
come dovrebbe entrare in classe, un insegnante?
– Ribadisco - mai abbastanza - il concetto che
deve essere evidente a tutti gli alunni il fatto che
siete un professore al quale non si può mancare
di rispetto.
Perciò, se quando entrate stanno chiacchierando,
correndo, saltando e ridendo e, anche quando vi
vedono, non si scompongono e continuano come
se voi non foste neanche entrati, come se foste
trasparenti, ecco, vi hanno già mancato di

39
rispetto. Se voi entrate comunque, poi, questo
confermerà l’impressione che si sono fatti di voi:
possono continuare a fare il loro comodo, perché
voi lo permettete (e lo permetterete). Se ci
riescono una volta sono autorizzati ad aspettarsi
di riuscirci sempre.
Allora, per esempio, non entrate. Fate solo due
passi e fermatevi a guardarli, senza dire nulla.
Guardateli, con espressione seria, senza dire
neanche una parola. Come se steste valutando
fino a che punto arrivano prima di intervenire.
Vi accorgerete del fatto che, se lo avete fatto
bene, molti, se non tutti, non riuscendo a capire
dove andrete a parare, si preoccupano e vanno a
posto. Rimarranno in piedi, male che vada, solo
i ragazzi più difficili, che potrete così
individuare subito. Non vi deve sfuggire nulla,
nessun movimento. È essenziale tenere tutto
sotto controllo e fare in modo che vedano che
siete molto attenti. Se non bastano le occhiate,
potrete chiedere spiegazioni sul loro
comportamento. Chiedete “Come mai c’è questa
confusione?”, anche quando c’è pochissima
confusione. L’esperienza mi ha insegnato che
questo è un forte deterrente all’aumento della
confusione.
Quando vi siete affacciati alla porta alcuni erano
seduti, altri in piedi, altri camminavano o
giocavano. Quando sarete riusciti a farvi
adeguatamente notare, di solito accadrà che si

40
siedono tutti. Nelle situazioni di “pericolo” il
banco viene da loro visto come la “tana” del
gioco del nascondino.
Appena si sono seduti tutti, e prima di andare
verso la cattedra, chiedete che si alzino in piedi
perché siete entrati.
In realtà, non c’è un motivo vero per cui devono
alzarsi. Infatti, alcuni insegnanti pensano che sia
un semplice retaggio della scuola del passato,
una cosa sciocca e inutile, da abolire subito.
Concordo sul fatto che non c’è nessun motivo
perché loro debbano alzarsi quando entrate voi,
perché, diciamo che la cosa dovrebbe essere
reciproca. Ma dissento sul fatto che sia inutile.
In realtà, questo alzarsi tutti
contemporaneamente quando entrate è il
segnale che non siamo più in piazza o al bar:
siamo in classe e c’è una gerarchia. Il rapporto,
come ho detto, è asimmetrico e l’alzarsi in piedi
serve solo a sottolineare, per loro, questo
concetto.
Vado alla cattedra e non mi siedo. Loro, quasi
tutti, si siedono. Rimango in piedi, fissando
quelli che si sono seduti. Dopo pochi secondi
chiedo come mai si sono seduti se io non sono
seduta e non ho dato loro il permesso di
accomodarsi.

41
È il momento in cui si stabiliscono i ruoli: il mio
è quello della guida, dell’insegnante. Il loro è
quello di chi è guidato, di chi deve imparare. È
importante che capiscano che il rapporto alunno
- insegnante non è un rapporto simmetrico. Non
siete sullo stesso piano: siete su piani
asimmetrici, ma in un rapporto di reciproco
rispetto. Il rapporto deve essere costruito giorno
per giorno. Non esiste un rispetto che vi è
dovuto per qualche motivo. Dovete desiderare
una relazione positiva alunno – insegnante,
perché è anche nel vostro interesse raggiungerla,
se volete insegnare davvero. Il rapporto
insegnante alunno non è un rapporto basato sul
passaggio a senso unico dall’alto al basso; non si
travasa; si offre e si chiede; si porge e si riceve. È
un rapporto di reciproco scambio e di porzioni
di vita, come se il nostro lavoro consistesse nel
passeggiare con loro per il pezzetto di strada di
vita che capita di fare insieme. Anche loro ci
danno quello che hanno, che possono e sanno
dare; se sappiamo guadagnarcelo, ci danno
emozioni, simpatia, perfino affetto, entusiasmo,
forza. Anche quando ci stancano moltissimo. Ed
è importante capire che queste convinzioni, se
lasciate trasparire, possono diventare il punto di
forza del nostro insegnamento. I nostri alunni
devono percepire con chiarezza il fatto che ci
interessano.

42
Le regole devono essere subito molto chiare.

All’inizio date molta importanza e non tollerate


neanche il più piccolo comportamento che non
segua le regole. La tolleranza e la comprensione,
nel rapporto iniziale con gli alunni, vengono
interpretate come debolezza e permissivismo. Al
contrario, il fatto di mostrare stupore e
disapprovazione per una piccola mancanza
porta i ragazzi a pensare: “Se una sciocchezza
come questa è così importante, mi conviene
evitare comportamenti più scorretti”. Ecco,
bisogna avere in mente che il comportamento
corretto deve essere preteso. Perciò, solo quando
tutti gli alunni sono al loro posto, entrate.
E ora che siete entrati, se entrate così, se riuscite
ad ottenere silenzio e attenzione siete a buon
punto. La vostra entrata dovrà avere un effetto:
“entra la professoressa Milani in persona” e non
“entra una poveraccia incapace di farsi
ascoltare”.
Autorevolezza, non autoritarismo. Rispetto, non
paura.
Può succedere che, nonostante questa “entrata
alla cowboy che entra nel saloon”, e se le vostre
occhiate non sono abbastanza efficaci, qualcuno
più sfrontato o temerario continuerà a fare il suo
comodo. Non si possono fare lezioni di
“occhiatologia”, purtroppo, e perciò bisogna

43
concentrarsi di nuovo sul concetto che loro non
possono mancarvi di rispetto (e voi nemmeno).
Per la mia esperienza, sia alle medie che alle
superiori, la maggioranza dei ragazzi capisce
benissimo le occhiate e quello che significano.
Ma devono essere davvero cariche di messaggi
sottintesi del tipo “azzardati a mancarmi di
rispetto e ti faccio vedere io”, “non credere di
fare il furbetto perché io sono più furbetta di te”,
“ti consiglio di non fare il furbo perché con me
non ce la fai”, “non so se ti conviene, qualunque
cosa tu stia per fare”; “non mi mancare di
rispetto, bello, perché per me il rispetto è sacro”.
Queste occhiate non devono essere aggressive,
perché voi non dovete essere aggressivi. Devono
trasmettere il messaggio che comportamenti
scorretti avranno delle conseguenze. Dovete
essere convinti del fatto che il comportamento
deve essere corretto, prima di tutto.
Se per esempio voi siete persone molto
disponibili, dovete mettervi in mente, prima di
entrare in classe, che loro non possono
assolutamente ricambiare la vostra disponibilità
non ascoltandovi, o ridendo, o giocando. Dovete
offendervi davvero e lasciare trasparire quello
che provate. Dovete far percepire chiaramente
che sono stati ingiusti. Soprattutto, non dovete
pensare che il fatto che vi manchino di rispetto
sia un fatto ineluttabile perché sono ragazzi.

44
Non è vero che se vi mancano di rispetto non
potete farci nulla.
L'esperienza, lo ripeto, conta molto.
Ovviamente, ognuno deve seguire il suo modo
di essere. Ma bisogna anche imparare a recitare
un po'. Molte volte non riuscite ad arrabbiarvi
con loro. Dovete fingere di farlo, se si sono
comportati male. A loro serve come indicazione
di comportamento.

45
I primi minuti di lezione.

Siete entrati in classe, siete riusciti a farlo in


modo che, arrivati alla cattedra avete una classe
che vi ascolta. È già molto, ma è solo l’inizio. Le
fondamenta del rapporto devono essere gettate
giorno per giorno, dai primi giorni di scuola. Il
novanta per cento del rapporto si costruisce nei
primi trenta o quaranta giorni. Se sbagliate
questo momento, molto difficilmente riuscirete a
recuperare e dovrete rimandare all’anno
scolastico successivo.
Quando entro in una classe nuova e arrivo alla
cattedra con l’atteggiamento che vi ho già
descritto, quando ho ottenuto il silenzio, li invito
a sedere, senza far rumore e rimango in piedi.
Voglio che mi vedano bene, che mi percepiscano
come una persona che sta lavorando, che sa che
cosa deve fare. Voglio che sentano che sono
concentrata per fare al meglio il mio lavoro. Per
questo rimango in piedi.
Di buon effetto è il fatto di imparare subito i
nomi e cognomi di alcuni alunni e chiamarli per
nome. Capiscono che sono individuabili e
questo scoraggia le intenzioni di comportarsi in
modo scorretto.

46
Ho ben chiaro che cosa desidero comunicare in
quelle prime ore. Voglio apparire sicura di me e
a loro disposizione. Sostanzialmente desidero
che traspaiano i seguenti concetti: io sono
l’insegnante che vi insegna e voi siete gli alunni
che imparano; alla base della mia idea di
insegnamento c’è un concetto base: il rispetto
reciproco.
Rendo espliciti questi concetti con frasi chiare e
inequivocabili, che ripeterò spesso durante
l’anno, in tutte le occasioni che si presentano.
Do informazioni su di me: come mi chiamo, che
cosa insegno, da dove vengo, se sono sposata, se
ho dei figli, che cosa ho fatto nella vita fino a
quel momento, che cosa mi piace, ecc. Desidero
che percepiscano che sono interessata a loro.
Che tengo al fatto che loro sappiano tutto di me,
che mi fido di loro e quindi racconto loro notizie
della mia vita. Che desidero impostare un
rapporto importante che, come accade nella vita
fuori della scuola, prevede che ci si scambiano
notizie sulla vita.

47
Dimostrate sicurezza, innanzi tutto.

Sempre considerando importante il principio


secondo il quale seguiamo una guida in una
foresta solo se la consideriamo esperta e sicura
di sé, possiamo concludere che gli alunni
seguono un insegnante solo se lo considerano
preparato e sicuro di sé.
Dedico parecchio spazio ai primi momenti in
classe perché – lo ribadisco – sono quelli nei
quali dovete guadagnarvi la fiducia e la stima
degli alunni, e, se sbagliate, vi giocate la
credibilità.
Una volta che siete entrati, date delle direttive o
fate delle domande, precise: “Buongiorno! Che
cosa dovevate portare per oggi? Tizio, per
favore, ricordamelo tu.”. “Lo avete fatto tutti?”
“Prendete il quaderno. Aprite il libro alla pagina
89.”, ecc.
Niente tentennamenti, niente tempi morti
durante i quali vi mettete a pensare a quello che
dovete fare. Finché non avete acquisito
l’abitudine all’insegnamento e a tutto quello che
bisogna fare in classe, pensateci a casa, fatevi
una scaletta da consultare (di nascosto, è ovvio).
Siate decisi.
Siate attentissimi.

48
Siate attentissimi a tutto quello che accade in
classe, a quello che gli alunni fanno, a quello che
non fanno e che dovrebbero fare. Non vi
distraete, neanche quando state scrivendo
qualcosa.
Non dovete mai perdere il controllo della
situazione, neanche per pochi minuti.
Se decidete di permettere che parlino, mentre,
per esempio entra un vostro collega che deve
darvi delle informazioni che non possono
aspettare, o un bidello che deve farvi firmare
una circolare, dite che state facendo una
concessione: “Ragazzi, mentre sono un
momento occupata, ripassate, o parlate
pianissimo”.
Se sapete che l’interruzione sarà più lunga dei
tre minuti, assegnate qualcosa da fare. Finché
non siete allenati, preparate a casa qualcosa per
queste occasioni.
È molto importante che vi accorgiate delle
occhiate che si scambiano, di quello che fanno
sotto il banco. Se vi sembra che un ragazzo stia
usando il cellulare, per fare un esempio, ma non
ne siete sicuri, alzatevi dalla cattedra e
velocemente andate verso il banco come se
andaste a vedere qualcosa in fondo all’aula, o
fuori dalla porta, o alla finestra, ecc. Passando
dal banco del ragazzo “sospettato”, guardate e,
se ha il cellulare in mano, agite secondo le regole

49
decise dalla scuola al riguardo. Mai perdonare
un comportamento che rappresenta mancanza
di rispetto delle regole: se lo fate per uno sarete
poi costretti a farlo per tutti, altrimenti verrete
considerati ingiusti. Se l’alunno è riuscito a
nascondere il cellulare o qualunque altra cosa
che stava facendo di nascosto, non vi resta che
fingere di non aver visto: mai accusare un
alunno di qualcosa che non potete dimostrare.
Rischiereste di apparire ingiusti o affetti da
mania di persecuzione. O di essere ingiusti:
obiettivamente, potreste aver visto male. Non
conviene rischiare.
Uno dei motivi per cui un ragazzo sta attento a
quello che fa (cioè, a non comportarsi in modo
scorretto) è proprio il fatto di sapere che
l'insegnante molto probabilmente lo
“pizzicherà” e dovrà subire delle conseguenze.
Al contrario, continuerà a comportarsi male
quando avrà verificato il fatto che l'insegnante
non si accorge di nulla e, che, se se ne accorge,
non prende nessun provvedimento.

50
Studiate delle strategie.

Studiate delle strategie per essere speciali,


interessanti, originali.
Ma ricordate che le strategie più efficaci sono i
comportamenti che servono a conquistare il loro
rispetto e la loro stima. Vi faccio degli esempi.
Se promettete una lezione interessante dovete
davvero cercare di rendere piacevole e
interessante la lezione, scegliendo argomenti
accattivanti. La credibilità va conquistata.
Quello che promettete dovete farlo.
E se per esperienza sapete già che cosa
desiderano gli alunni, prometteteglielo, se sono
cose che potete mantenere. Per loro sarà
tranquillizzante. Ma poi, naturalmente, fate
davvero quello che avete promesso. Se li
deludete si sentono imbrogliati e perdete la loro
stima.
Il rispetto deve essere reciproco.
Se volete che i ragazzi vi rispettino dovete
rispettarli. Il rispetto deve essere reciproco. Se
fate una promessa dovete mantenerla.
Quando vi suggerisco di dir loro frasi gentili e di
fare promesse di rispetto e attenzione, intendo
sottintendere che tutto deve essere
assolutamente vero. I ragazzi si accorgono

51
subito se mentite. Colgono quello che sentite,
glielo trasmettete anche involontariamente:
paura, se avete paura, simpatia, se la provate,
entusiasmo, noia, fastidio, disinteresse e ogni
sentimento che provate.
Tutto il vostro interesse per loro deve essere
sottolineato da “prove pratiche” di gentilezza e
rispetto, che devono essere una prassi da seguire
sempre, anche se all’inizio in modo più
frequente.
Chiedete qualcosa come “Per favore, puoi aprire
la finestra?” e, quando l’hanno aperta dite:
“Grazie!”. Quando un alunno sta parlando,
ascoltatelo con evidente attenzione e invitate
tutti ad ascoltare in silenzio; se dovete dire
qualcosa interrompetelo dicendo “Scusa se ti
interrompo, mi interessa sapere che cosa intendi
quando dici…” ecc. Questo fa sì che sia chiaro
che non siete una persona che si limita a
impartire ordini; siete una guida. E siate
decisamente ed evidentemente gentili. Chiedete
“per favore” e ringraziateli per qualunque cosa.
La buona educazione non deve essere data per
scontata. Usate formule come “Per favore puoi
controllare se nel tuo astuccio hai un pennarello
rosso?”. “Ti dispiace andare a vedere se c’è la
bidella e chiederle se per favore viene un
momento qui?”. Le formule di cortesia sono
evidentemente ridondanti, ma servono a creare
un’atmosfera di cordialità che è molto lontana

52
da eventuali mancanze di rispetto. In sintesi:
siate così attenti a mostrare rispetto e gentilezza
che all’alunno diventa quasi impossibile
mancarvi di rispetto. È una strategia
semplicissima e molto efficace. Bisogna fare in
modo che, se anche ad un alunno viene in mente
di rispondere male, la grande cortesia con cui
viene trattato gli faccia istintivamente percepire
che se lo facesse verrebbe considerato ingiusto
anche dai compagni. Per capire meglio il
concetto: se un ragazzo risponde in modo
sgarbato a un insegnante che manca di rispetto
agli alunni, diventerà, per i compagni, un eroe.
Se manca di rispetto ad un insegnante gentile,
corretto e attento, verrà giudicato ingiusto e
sgarbato, almeno dalla maggioranza. Se ci
pensate, infatti, ci sono insegnanti che sanno
tenere bene la disciplina anche essendo persone
dall’apparenza mite. Sono quelli dei quali si dice
“non alza mai la voce, eppure riesce a tenere la
disciplina”. Quelli che hanno un modo di porsi
naturalmente molto gentile, non alzano mai la
voce e trattano, tutti con cortesia, anche se con
fermezza, proprio perché è nel loro carattere.
Bisogna insegnare con l’esempio, oltre che con le
parole. Vi descrivo, come esempio, qualche
comportamento che vi suggerisco di tenere con
gli alunni della vostra scuola, anche quelli di
altre classi.

53
Quando riconoscete degli alunni della scuola,
ovunque siano in città, salutateli sempre con un
cordiale “buongiorno”. Usate “buongiorno” e
non “ciao” perché nei saluti è meglio mettervi
alla pari: loro vi dicono “buongiorno” e voi fate
lo stesso. Ricordate che ci sono alunni stranieri
che nella loro lingua non usano il “lei”: dovete
insegnarglielo, non dare per scontato che lo
sappia.
Quando incontrate nel corridoio un ragazzo
qualunque della scuola e vedete che ha una
mano fasciata, fermatevi un attimo e chiedetegli
se si è fatto male. Ascoltate e poi dite qualcosa di
gentile, come per esempio: “Vedrai che ti passa
presto”.
Se vi capita di andare in una classe, e c’è una
ragazza non si sente bene, se la incontrate il
giorno dopo, chiedetele “Come stai, oggi?”.
Se avete sgridato un ragazzo difficile della
Scuola, appena lo vedete salutatelo e
sorridetegli, come se il rimprovero non fosse
mai avvenuto. Probabilmente sarà arrabbiato
con voi perché l’ avete sgridato, ma alla lunga
vedrete che capirà che lo avete fatto perché era
giusto.
Se un alunno è stato protagonista di un episodio
spiacevole e contro le regole, e nei giorni
seguenti decidete che è utile farvi riferimento,
fatelo in modo bonario, mai umiliante.

54
Come quando entrate in classe non accettate
mancanze di rispetto da parte di nessuno, che
siano o no vostri alunni, perché altrimenti
lasciate pensare che con voi si può fare
qualunque cosa senza che interveniate, anche
nei corridoi della scuola non permettete che in
vostra presenza si tengano comportamenti
inadeguati: se stanno scherzando in modo
pericoloso, o insultandosi, o anche
semplicemente se sono seduti sulla cattedra,
richiamateli con decisione. E, cosa molto
importante, fatelo sempre. Se un alunno fa
qualcosa di non permesso, come correre e salire
su un banco, rimproveratelo decisamente e, se si
tratta di un comportamento pericoloso, chiedete
che i colleghi gli facciano una nota scritta sul
registro della sua classe. Anche in questo caso,
quando lo incontrerete nel corridoio o fuori,
salutatelo e sorridetegli, come se per voi il
comportamento scorretto che lui ha tenuto fosse
stato solo un episodio che pensate che non si
ripeterà, e che non influisce sulla vostra
disponibilità di insegnante nei suoi confronti.
Se promettete, mantenete. Altrimenti non
promettete. E se non riuscite a mantenere la
promessa, scusatevi. E scusatevi anche quando
sbagliate.
Quando fate qualcosa cercate sempre di
anticipare le vostre intenzioni, in modo che
possano regolarsi: per esempio dite che state

55
esponendo un certo concetto perché poi
chiederete loro di esprimere un parere.
Cercate di chiedere spesso delle opinioni e, se lo
fate, poi ascoltateli con evidente interesse.
Se siete impegnati in qualche attività
burocratica, per esempio quella di parlare con
un bidello entrata in classe per una circolare, sia
sempre vostra cura quella di impegnarli in un
lavoro preciso.
Non perdeteli mai di vista. Osservateli sempre
tutti.
Se un alunno vi chiede di uscire e state
spiegando, dopo avergli chiesto se è
indispensabile, dategli il permesso dicendogli:
“Se è urgente vai pure. Ti aspetto”. E aspettatelo
davvero finché non torna, senza spiegare,
mostrando a lui e a tutta la classe che per voi è
importante qualsiasi alunno e non volete che
nessuno perda una parte della lezione. È vero, si
perde un po’ di tempo, ma si guadagna da
un’altra parte.
Se vi chiedono di parlare con voi, ascoltateli.
Se vi chiedono un favore, e lo fanno con serietà,
cercate di accontentarli, se potete, anche se si
tratta di non assegnare compiti perché vanno ad
una festa.
Chiedete loro dei piccoli favori: spiegarvi
qualcosa che non sapete sulle automobili, sui

56
motorini, sui cellulari, su qualche programma;
andare ad informarsi su qualcosa che vi serve,
ecc. Insegnerete loro il concetto che si può fare
qualcosa per favore; mostrate che credete nel
fatto che loro vi faranno un favore in cambio di
nulla e non perché siete l’insegnante.
Soprattutto, chiedetelo ai ragazzi più difficili.
Se sapete che un alunno sa fare qualcosa di
particolare, come riparare una moto, o curare
l’orto, appena potete chiedete di spiegarvi
qualcosa relativo alle sue competenze.
Chiarite sempre che vi interessano molto, ma
che non siete amici: avete un rapporto
amichevole, questo sì, ma voi siete l’insegnante
che sta insegnando e loro sono gli alunni che
stanno imparando.
Se un alunno tiene un comportamento scorretto
rimproveratelo, chiunque sia, anche se è il più
bravo della classe. Non fate distinzioni di
nessun tipo. Non accettate regali di alcun
genere, e spiegate che non potete accettare
perché chi non ha nulla da regalarvi potrebbe
trovarsi a disagio.
Se un alunno che si comporta sempre male, un
giorno si comporta bene, non fate osservazioni
al riguardo. Non fate dell’ironia, e non lo lodate.
Il comportamento corretto deve essere una cosa
normale. Se insegnate ai bambini o ai ragazzi
più piccoli, per lo stesso motivo non scrivete

57
mai, sul registro o sul suo diario personale
“Oggi Filippo si è comportato bene.”
Se vi accorgete che un alunno timido ha una
maglia nuova e percepite che ne è fiero,
mostrate apprezzamento per la maglia.
Se un alunno è stato assente più giorni per
motivi di salute quando torna chiedetegli come
sta.
Se vi sembra che un alunno sia triste chiedetegli
se c’è qualcosa che non va. Se vi dice che sta
bene, spiegategli che glielo avete chiesto perché
vi sembrava triste ed eravate un po’ preoccupati
per lui.
Se un alunno manca di rispetto a un compagno,
invitatelo a scusarsi.
Se un giorno un compagno manca di rispetto a
un ragazzo che di solito manca di rispetto agli
altri, chiedete che si scusino anche con lui.
Scherzate su di loro, ma scherzate anche su voi
stessi. E permettete loro di scherzare su di voi,
purché non passino mai il limite, che consiste
nella consapevolezza che non siete loro coetanei.
Cercate di sdrammatizzare i rimproveri: per
esempio se notate un alunno poco attento
interrompete quello che state facendo e
chiedetegli: “Scusa, ti abbiamo svegliato?”;
oppure bisbigliate“Parliamo più piano perché
Mario sta dormendo”.

58
Non usate mai espressioni che inchiodino un
alunno ad un cliché negativo, come “sei sempre
il solito casinista”; “fai sempre confusione”, “Sei
sempre il solito maleducato”, “Sei sempre tu la
causa”.
Se sapete che chiederete loro di parlare di se
stessi, prima parlate di voi. Raccontate qualcosa
della vostra vita, anche privata, e sottolineate il
fatto che raccontate un particolare della vostra
vita perché avete fiducia in loro, e che siete
consapevoli del fatto che vi esponete, facendolo.
E aggiungete che lo fate perché credete che sia
giusto, parlare di voi, perché vorreste che anche
loro parlassero tranquillamente di ciò che sta
loro a cuore.
Tutti questi comportamenti hanno in comune
una grande attenzione nei loro confronti; deve
trasparire la fiducia che riponete negli alunni,
che è il prerequisito della fiducia e del rispetto
che è necessario che otteniate da loro.
Quando vi rivolgete ai vostri alunni parlate loro
come se fossero speciali fra tutti gli alunni.
Speciali per voi. Appena vi capita l’occasione,
parlate del fatto che sperate per loro una vita
serena, felice, piena di soddisfazioni, anche
lavorative. Dite frasi come queste:
“Ci tengo a insegnarvi tutto quello che posso,
perché spero di incontrarvi, magari tra quindici
anni, e sentirmi raccontare: ‘Professoressa, lo sa

59
che sono diventato avvocato?’ Oppure: ‘Lo sa
che sono parrucchiere e il mio salone è uno dei
migliori? Lo sa che ho tanto lavoro? Ho messo
su un bel ristorantino e va molto bene.’ E io dirò:
‘Ecco, sono davvero felice e soddisfatta! E poi,
ragazzi, chi mi dice che uno di voi non possa
diventare importante? Non so, magari scoprire
una medicina che cura una grave malattia?
Oppure diventare un famoso scrittore? O il
presidente della Repubblica?“ A questo punto
loro sorridono soddisfatti e scherzano su questo.
Poi continuo: “Perché no? Può essere, no? E se
capitasse mi darei tantissime arie e direi:
‘Vedete quello scrittore là sul palco? Era mio
alunno!’ E da sotto il palco vi saluterei nella
speranza di farmi notare e magari di sentirvi
dire: ‘Ecco là in platea vedo la mia professoressa.
La professoressa Milani. Vado a salutarla,
scusate’. E sarei molto fiera di voi. “
Questi momenti sono molto importanti perché
servono a costruire i sogni alternativi al sogno
del diventare velina. I sogni si coltivano. E
servono anche a far percepire che avete fiducia
in loro, e che ritenete possibile per loro una
realtà felice, e se capitasse, anche una cosa
straordinaria: che loro diventino migliori di voi.
Dei loro insegnanti.
A una persona che crede tanto in loro, che li
rispetta, che sogna per loro vite meravigliose, è
difficile che possano rispondere male, mancarle

60
di rispetto. Si arrabbiano, magari, ma alla fine, di
solito, accettano i rimproveri.

61
Che cosa non dovete mai fare e mai dire.

Quando si insegna ci sono errori che non si


possono fare.
Non dovete mai apparire come una persona che
non sa che cosa fare. Non dareste l’idea di una
guida.
Se avete paura (di fare brutta figura, di essere
presi in giro, che vi si manchi di rispetto, di non
riuscire a tenere la classe, di fare degli errori,
ecc.) non dovete mai mostrarlo. I canarini
beccano il canarino ferito. Così succederebbe a
voi. Se siete stanchi o nervosi per qualunque
motivo, non perdete il controllo, mai. La perdita
di controllo è una prova di debolezza. Non si
segue una guida che non ha la bussola.
Un insegnante deve essere forte. Chi urla senza
riuscire a dominarsi, non ha neppure la forza
per controllare se stesso, e perciò appare debole.
Non dovete mai perdere le staffe, mettervi ad
urlare in falsetto e facendo anche qualche stecca,
in modo scomposto e isterico; soprattutto se non
avete una voce ferma, non alzate la voce.
Se alzate la voce – cosa a volte più che necessaria
- non dovete mai apparire come persone che
hanno perso la calma. La calma è la virtù dei
forti (e le urla sono il segnale della debolezza e
della paura).

62
Non dovete sbattere gli oggetti, perdere il
controllo.
Non fate mai vedere che vi viene da piangere
per la rabbia: qualcuno di loro potrà rimanere
mortificato, pentito, ma sicuramente i ragazzi
meno sensibili e quelli decisamente difficili
proveranno un senso di potenza per essere
riusciti a “far impazzire” l’insegnante. Lo
racconteranno a tutti, divertiti. E lo faranno per
anni. Voi perderete autorevolezza e la farete
guadagnare ai ragazzi difficili.
Se vi sentite male e la pazienza, per questo, è
minore, non perdete il controllo. È meglio, in
questo caso, dire ai ragazzi che vi sentite male e
che non potrete essere al vostro meglio.
Pregateli di comportarsi meglio del solito.
Aggiungo che, se notate che un ragazzo si sente
male, se vi è possibile, naturalmente, fate in
modo di restituire il favore, per far capire che
voi li rispettate come loro hanno rispettato voi:
“Questo lo facciamo un altro giorno, perché
Mario si sente male e facciamo troppo chiasso”.
Non solo Mario rimarrà colpito.
Non raccogliete mai le loro provocazioni.
Se un alunno vi fa uno sberleffo, non c’è tempo
da perdere: voi dovete essere preparati, sapere
già che cosa fare. Non potete fare la faccia
stupita o scandalizzata di chi non se lo

63
aspettava. Oppure arrabbiarvi e urlare. Dovete
reagire senza perdere mai il controllo.
Faccio un esempio: il bambino (o il ragazzino, o
il ragazzo) porta a scuola un palloncino. E voi
che cosa fate? Volete farlo ragionare sul fatto che
non si deve portare? Ma lui lo sa benissimo! Lo
sta facendo apposta! Sa che se riesce a farvi
perdere il controllo apparirà potente (più di voi)
agli occhi dei compagni. Allora, prendete il
palloncino e, con il sorriso sulle labbra, fatelo
scoppiare con la punta di una matita. Poi dite
“Opsss! È scoppiato!”. E andate avanti così, con
altri palloncini. Deve vedere che non è riuscito a
farvi arrabbiare. Non vi preoccupate per il
palloncino: non è un oggetto a lui caro. È
importante che gli altri vedano che il compagno,
con i palloncini, non riesce a destabilizzarvi, e
che, anzi, vi divertite a scoppiarglieli. Non è
vero, ma deve sembrare così. Quando avete
finito ditegli “Mi dispiace, te li ho
rovinati…Domani te li ricompero. Ma solo
domani. La prossima volta non te li comperò
più”. Mostrate sicurezza (anche se avete paura).
Il bambino si toglie le scarpe e le usa come porta
penne? Non continuate la lezione. Rivolgetevi
agli altri alunni e dite loro “Ohhhh, guardate,
bambini..Luigino non ha un porta penne.
Qualcuno può prestargliene uno? Perché la
scarpa poi fa puzzare le penne” Qui, per la mia
esperienza, i bambini rideranno. Di lui, non di

64
voi. Con voi, non, con lui, e di voi. Guardatelo
come per dire “Ti ho fregato. Non mi fai paura”.
Ma non dite altro.
Non avrà conseguenze il fatto che i compagni
hanno riso di lui. In quel momento tutti sono
consapevoli che quello che si sta svolgendo è un
duello, un braccio di ferro.
Canta? Fermate la lezione e chiedetegli di
cantare. Canta di nuovo? Sta eseguendo il vostro
ordine. Non canta? Era quello che volevate.
Scarabocchia la lavagna? Voi “Bello! Che cos’è?”
Qualsiasi cosa risponda, voi ribattete: “Ah sì? Mi
sembrava un elefantino”. Gli altri rideranno. Poi
aggiungete: “Dai, fanne un altro.” E ritorniamo
alla situazione di prima.
Un altro esempio: state spiegando con la
massima serietà, citate l’imperatore Adriano e
chiedete chi era. Un alunno risponde “Adriano
Celentano! ” e la classe ride. Rimanete
assolutamente calmi, dominate la rabbia che vi
assale. Mai arrabbiarsi e perdere il controllo,
ricordate. Interrompete e fate in modo che
l’alunno si trovi in imbarazzo, che la sua battuta
e la sua provocazione scoppino come una bolla
di sapone. Rispondete per esempio, seriamente
come se lui avesse voluto dare una risposta
seria: “Celentano quale?”. O non sa più come
replicare, o risponde “Quello che canta
‘Azzurro’”. “E che cosa ci fa nell’antica Roma?

65
Canta “Azzurro”?” Qui la classe ride e il
provocatore è stato messo all’angolo. Poi
concludete, senza voce astiosa: “No, non è lui
l’imperatore”. La volta successiva
probabilmente ci penserà, prima di provocare.
Non mancate mai, nemmeno una volta, per
nessun motivo, di rispetto ai ragazzi. Mai
riferirsi a loro dicendo che “questi
rompiscatole”, “queste bestie”, o peggio. Mai
offenderli con parole come “deficiente” o
“stupido” o simili. Mi dispiace dirlo, ma so che
c’è qualcuno che lo fa. Mai dire “non capisci
nulla” ecc. All’istante, se lo fate anche una sola
volta, la vostra autorevolezza scompare per
sempre. Non solo per chi ha ricevuto l’offesa:
per tutta la classe. E ve la faranno pagare.
Con errori come quelli che ho descritto potete
non guadagnare mai il loro rispetto, ma potete
anche perderlo se eravate riusciti a guadagnarlo.
Un insegnante che offende o insulta un alunno
dovrebbe cambiare mestiere. O essere obbligato
a farlo.

66
Le note sul registro

Se vi capita di scrivere note come quelle che


trascrivo qui, nelle quali sentite evidentemente il
bisogno di giustificarvi, significa che avete già
perso la stima dei ragazzi, e che provate senso
di colpa, rabbia o paura :
“Nonostante la mia buona volontà, non riesco a
fare lezione”.
“La classe tiene un comportamento tale che non
mi è possibile fare lezione”.
“A*** richiamato perché non ha fatto il compito,
non lo esegue neanche in classe, è sordo ai
richiami”.
“M*** disturba, anche se richiamato
ripetutamente dall’insegnante”
“Molti alunni non si siedono, continuano a
sporgersi dalla finestra e si siedono sul
davanzale ignorando i miei rimproveri”.
“G*** continua a fare versi animaleschi,
nonostante i richiami”.
“F ***si rifiuta di consegnarmi il diario”.
“M *** si rifiuta di consegnarmi il quaderno”.
“C*** esce dalla classe senza permesso e si
rifiuta di rientrare”.

67
“B***, nonostante i miei continui richiami,
continua a fare versi, a cantare, a parlare ad alta
voce, a ridere sguaiatamente e a dire parolacce,
ostacolando lo svolgersi della lezione”.
“T*** si sdraia in terra e non vuole alzarsi,
nonostante io gli abbia messo una nota”.
Scrivere note come queste equivale, soprattutto
le note a tutta la classe, equivale, agli occhi di
chiunque legge, ad una ammissione di
incapacità di tenere la disciplina. Le note alla
classe intera, poi, non solo sono perfettamente
inutili, ma dimostrano che non sapete tenere la
classe.
Probabilmente, con quella classe, ormai,
qualcosa avete sbagliato, senza accorgervene., e
avete perso la credibilità. Ma non vi
demoralizzate. Evitate di scrivere note,
chiedetevi dove avete sbagliato e fate tesoro
dell’esperienza per il prossimo anno.

68
L’autorevolezza.

Fin dai primi giorni di scuola, quando sto per


parlare di una cosa importante, che sia una
notizia, una spiegazione di grammatica,
l’illustrazione di un concetto o la proposta di un
lavoro, entro in classe come al solito e vado a
sedermi in cattedra. Poi, senza preamboli, mi
alzo, vado lentamente verso la finestra, mi giro
verso di loro, mi appoggio al termosifone, mi
atteggio a persona che pensa a quali parole
scegliere per introdurre un discorso molto
importante e, dopo qualche secondo, solo nel
perfetto silenzio delle grandi occasioni, inizio a
parlare. Li guardo da una posizione diversa da
quella abituale. Loro sono costretti a rivolgersi
tutti verso di me. Se qualcuno guarda avanti o
sul banco me ne accorgo immediatamente.
Questo mio andare alla finestra è una specie di
rituale che ben presto acquista un chiaro
significato: “La professoressa sta per dire
qualcosa di importante. Per lei è importante, e
quindi so che si aspetta che io rispetti le sue
parole. Devo stare attento.” Per farvi un esempio
pratico, dico:
“Ascoltate, per favore.” Aspetto, osservandoli, e
appena c’è perfetto silenzio, inizio:
“Ecco, ragazzi. Ora vi spiego come vorrei che
voi mi consideraste. Vorrei che voi mi

69
consideraste come qualcuno che vuole aiutarvi
e, soprattutto, incoraggiarvi a continuare e a
migliorare quello che sapete fare. E per fare
questo, voglio dirvelo sinceramente, sarò
costretta anche a rimproverarvi, a volte anche
duramente. Ma vorrei che ricordaste sempre che
lo faccio per voi. Immaginate una grande strada.
Stiamo camminando tutti insieme. Ad un certo
punto vedo che voi state andando verso destra,
imboccando una strada sbagliata. Volete che ve
lo dica? che vi avverta, che vi chiami, magari
urlandovi di tornare indietro, perché state
sbagliando strada, o volete che stia zitta, che vi
lasci andare dove volete?”
Secondo la mia esperienza, i ragazzi, se non
sono ragazzi difficili, rispondono sempre che
desiderano essere avvertiti. E così voi
continuate, giorno dopo giorno, a proporvi
come guida che insegna e che aiuta a crescere.
È molto importante che siano loro a dire che
vogliono che voi indichiate loro la strada giusta.
Che vi chiedano di essere avvertiti se sbagliano.
In sostanza, sono loro che devono darvi
l’autorità. Nel momento in cui vi troverete a far
loro notare che stanno sbagliano atteggiamento,
potrete richiamare alla loro mente questa lezione
e ricordare loro che vi hanno chiesto di avvertirli
se sbagliavano. E, soprattutto, quando sarete
costretti a rimproverarli, si arrabbieranno, forse,
in un primo momento, ma poi accetteranno il

70
rimprovero perché sapranno che state
aiutandoli.
Esiste la possibilità, specialmente alle superiori,
che qualcuno dica, per provocarvi, che non
vuole che gli indichiate la strada giusta. Non
reagite alla provocazione. Limitatevi a
rispondere come se avesse detto la cosa più
sensata e seria del mondo e rispondete: “va
bene, non ti avvertirò”.
Una riflessione importante merita il
comportamento da tenere durante le ore di
sostituzione dei colleghi assenti.
Siete insegnanti, non sorveglianti, non babysitter
perciò dovete fare quello che fa un insegnante,
non quello che fa un sorvegliante: insegnate.
I ragazzi, grazie a molti insegnanti che durante
le ore di supplenza dicono “fate i compiti” o,
peggio, “fate quello che volete, purché lo
facciate piano”, sono abituati a credere che
“durante l’ora di supplenza non si fa nulla”.
Malissimo.
Quando andate in una classe per sostituire un
collega assente, dopo essere entrati secondo le
modalità e l’atteggiamento descritti, stabilite voi
che cosa devono fare. Fate lezione. Preparatevi
qualcosa di piacevole, di interessante, di
particolare e che non sia in contrasto con il
lavoro che sta facendo il loro insegnante. Se siete
persone creative non avrete che l’imbarazzo

71
della scelta. Se non lo siete, procuratevi dei libri
che suggeriscano delle attività. Provatele con i
vostri alunni e scegliete quelle che godono del
loro apprezzamento, per gli alunni di classi non
vostre. Insegnare in classi non nostre è più
difficile.
Fate quello che sapete fare bene. Non chiedete
che cosa vogliono fare, soprattutto se avete poca
esperienza e un carattere arrendevole, perché
rischiate di diventare il bovaro disperato di una
mandria impazzita. Non permettete che facciano
quello che vogliono, o che studino o che
ripassino o che giochino alla battaglia navale,
altrimenti, dopo pochissimi minuti, ci sarà il
caos più completo e non potrete più riprendere
le redini della situazione.
Al massimo, fate scegliere fra due lezioni che
avete deciso voi. Fate quella che sceglie la
maggioranza. Per esempio, dite: “preferite fare
qualcosa di scritto o preferite parlare di un
argomento interessante?” Di solito scelgono di
parlare. Ma se sapete di avere difficoltà a
guidare un dibattito ordinato, non proponetelo.
Offrite la scelta fra due attività scritte. Se
qualcuno vi chiede di ripassare o di fare altri
compiti, dite che non è possibile perché avete
deciso di fare quella lezione. Se occorre, fate
notare il fatto che per voi sarebbe più comodo e
riposante dire che possono fare quello che
vogliono, ma non è corretto perché per loro è

72
più utile una lezione nuova. Mostrerete loro così
che anteponete il loro interesse al vostro e darete
dei concetti di correttezza che saranno molto
importanti per il vostro rapporto con loro, anche
se vedrete di nuovo quella classe magari dopo
un mese o due. Probabilmente vi
considereranno dei rompiscatole, ma vi
stimeranno e vi costruirete la fama di insegnante
che sa quello che vuole e che lavora in modo
corretto.
Anche questo atteggiamento contribuisce a
costruire la vostra autorevolezza.

73
La disciplina si ottiene con la paura?

Molto spesso si crede che la disciplina si ottenga


con la paura.
Sono molto interessanti questi passi di un
articolo del 1939, anno XVII dell’era fascista:
“Disciplina significa obbedienza perfetta e norme di
vita e di azione e questa obbedienza si esige
soprattutto nella collettività soggetta ad una autorità.
Ma questa disciplina come si ottiene?
Ecco il problema sopra il quale, specie il giovane
educatore, deve riflettere. Tante volte ho sentito dire:
“Se i ragazzi non stanno buoni è inutile vengano a
scuola. Si dura fatica, si perde tempo e non si ottiene
un bel nulla”
Ed ho sentito rispondere: “Certo, avete ragione! Ma
voi, per piacere, fate conto che il mio figliolo sia
vostro e se lo merita castigatelo [...], tanto io non
sono una mamma tenera e se viene a casa e so che è
andato in castigo o che l’avete picchiato ne piglia
dell’altre”.
Allora la disciplina si ottiene con mezzi molto
semplici: voce grossa, zeri in condotta o in profitto e,
magari, busse.
Bisogna riconoscere che a tenere la disciplina in
questo modo, forse occorrono buoni polmoni, ma certo
non occorre l’arte.

74
Il maestro che, entrando in classe, porta con sé
un’ondata di gelo è forse un buon educatore? No, egli
otterrà il silenzio che però non è attenzione, non è
comunanza di spirito. Sotto i banchi, con molta
cautela (la paura aguzza la mente) si scribacchia, si
fanno pupazzetti, da una fila all’altra si scambiano
frequenti sorrisi e lunghe occhiate birichine assai
eloquenti. Poi prende la noia e la noia mette addosso
ai ragazzi un nervosismo insopportabile, che i più
vivaci o i meno furbi pagano con un castigo.
Il tempo passa scolorito e pesante e il suono della
campanella è la liberazione.
Il sospiro di sollievo, il balzo sul banco, la fretta nel
fare le cartelle ci indicano chiaramente che gli scolari
sono lontani da noi e che la nostra lezione fa a loro
l’effetto della pioggia quando, in un autunno grigio,
batte monotona contro i vetri della finestra.
E la noia non agisce sugli spiriti infantili. Esempio:
in una sala sono raccolte cinquecento persone,
obbligate in un certo modo ad ascoltare un conferenza
che si manifesta, subito, monotona e priva di
interesse.
Dopo poco cominciamo a notare tra gli ascoltatori
una certa distrazione. Qualcuno si volta, tossisce, si
soffia il naso, si muove, parla a bassa voce, sbuffa.
Poi, in fondo alla sala, comincia l’esodo silenzioso dei
fortunati che sono vicini alla porta. Se a queste
persone che escono si domandasse notizia della
conferenza, risponderebbero: ‘Per carità, non ne

75
parliamo, un mattone terribile.’ – oppure - : ‘ Sono
dovuto scappare! Credi! Io non capisco per quale
ragione dobbiamo essere costretti a farci venire la
barba lunga fino ai piedi’. (…)
Se la mancanza di interesse genera un risentimento
così forte nelle persone adulte, perché allora alla
scuola si sgridano i ragazzi per l’indisciplina causata
in loro dalla medesima ragione?
È certo che il maestro rigido è obbedito solo per il
timore del castigo che può infliggere e non solo il
fanciullo nutre per lui una profonda riluttanza ma,
per un innato bisogno, cerca di vendicarsi, escogita
birichinate, si vanta di rompere un suo divieto e,
quando può, lo motteggia. (…)
Alla cosiddetta disciplina esteriore noi maestri
dobbiamo ricorrevi quando siamo incapaci, o
negligenti, ma quella che intendiamo veramente per
disciplina, è un bisogno, un atto di volontà spontaneo
che si verifica solo in determinate circostanze e cioè,
quando in mezzo ai ragazzi, vi è un vero maestro.”1
Sono un ottimo spunto di riflessione anche
queste parole di Quintiliano, di quasi duemila
anni fa:
“[…] non basta che il maestro si mostri
irreprensibile, se poi con il rigore della propria
disciplina non riesce ad arginare anche i

1 Sebastiani Anna Maria, Il problema della disciplina in Problemi


attuali della Scuola fascista, Arti Grafiche Tornar, 1939, XVII.

76
comportamenti dei ragazzi che si raccolgono
intorno a lui.
Verso di loro, dunque assuma anzitutto i
sentimenti di un padre, e sia convinto di
prendere il posto di quanti gli affidano i figli. [5]
Egli non abbia vizi e non li ammetta negli altri.
La sua serietà non assuma i tratti della cupezza e
la sua affabilità non sia sguaiata, affinché a
causa della prima non gli venga antipatia e a
causa della seconda scarso rispetto. Parli senza
risparmio di ciò che è onesto e di ciò che è bene:
quanto più spesso ammonirà, tanto più
raramente punirà. Si adiri il meno possibile, ma
non finga di non vedere i difetti da correggere,
sia semplice nelle spiegazioni, resistente alla
fatica, assiduo ma non eccessivo. [6] Risponda di
buon grado a chi gli fa domande, di sua
iniziativa interroghi chi non gliene pone. Nel
lodare le esercitazioni degli allievi non sia né
troppo stretto né troppo largo, poiché il primo
atteggiamento fa venire a noia lo studio, il
secondo genera eccessiva sicurezza. [7] Quando
corregge gli errori non si mostri aspro e offenda
il meno possibile, perché il fatto che alcuni
biasimino i ragazzi quasi come se provassero
astio verso di loro, ne allontana molti dal
proposito di studiare.”2

2 Quintiliano, Institutio oratoria di II, 2, 4-7

77
I concetti che esprimo sulla necessità di trovare
un modo per farsi stimare dagli alunni non sono
nuovi. Chi si occupa di problemi legati
all’educazione finisce sempre per arrivare alle
stesse conclusioni: un alunno segue l’insegnante
quando l’insegnante è autorevole e interessante.
Non quando “fa paura”.
Spesso sembra che i ragazzi abbiano paura di un
professore autorevole: in realtà temono il suo
giudizio e temono di perdere la sua stima.

78
Non si può tornare al passato.

C’è chi dice che per eliminare “l’ignoranza”


degli alunni, si deve semplicemente tornare a
pretendere dei contenuti. Il suo ragionamento
diventa questo: l’insegnante sa quello che serve
e deve imporlo ai ragazzi, pena la bocciatura.
Non importa se non capiscono perché si deve
studiare quel contenuto: lo sanno gli insegnanti
e questo deve bastare. È tempo perso chiedersi
quali competenze servono per entrare nel
mondo del lavoro: se hai una buona cultura sei a
posto. È molto semplificato, ma il concetto che
esprimono è questo.
Ma non si può - e non si deve - tornare al
passato.
Secondo me, invece, bisogna individuare quali
sono gli strumenti culturali di base, i prerequisiti
che ci permettano di studiare e di approfondire
tutto ciò che nella vita ci servirà.
Propongo un esempio: supponiamo che io
insegni il gioco della pallacanestro. Per
insegnare a fare canestro spiego come si deve
fare. Se l’alunno non ci riesce non devo dire
semplicemente “cerca di fare canestro”, ma devo
esaminare i suoi errori e poi dargli consigli
precisi su come fare canestro, su come deve
mettere gambe, mani e braccia, facendogli
notare dove sbaglia.

79
I contenuti sono importanti, ma solo se non
vengono slegati dai metodi e dai bisogni che li
rendono necessari.
Per suscitare il bisogno di sapere non devo dirgli
che è importante sapere, che può servirgli in
futuro, ecc., ma devo fare delle attività e delle
riflessioni che lo portino a desiderare di sapere.
Per insegnargli la solidarietà non devo
spiegargli, dirgli e fargli studiare che è
importante la solidarietà; devo trovare delle
strategie che lo portino a vivere la solidarietà,
che gli facciano sperimentare la solidarietà.
Cerco di sintetizzare:
- dobbiamo selezionare quello che insegniamo,
decidendo che cosa serve davvero;
- dobbiamo farlo in modo da essere ascoltati;
- dobbiamo insegnare un metodo di studio.
Si può insegnare tutto seguendo
sostanzialmente lo stesso metodo, che consiste
nello studiare cercando sempre di capire da soli
come si arriva ad una certa affermazione e non
limitandosi semplicemente a ripetere le
conclusioni alle quali altri sono arrivati.
Frasi come “scrivi in modo più chiaro”, “leggi
meglio”, “non senti che è sbagliato, che non
suona?”, “dai, è facile”, “su, rispondi”, “devi
fare meno errori”, “devi essere meno prolisso”,

80
“usa parole più appropriate”, sono assurde. Se
il ragazzo sapesse scrivere in modo più chiaro,
leggere meglio, “sentire” che è sbagliato; se
sapesse come rispondere, fare meno errori e
scegliere parole più appropriate lo farebbe
senz’altro.
Bisogna dirgli come deve fare, perché capisca e
impari.

81
Catturare l’attenzione e motivarli ad ascoltarvi.

Come si cattura l’attenzione degli alunni? Come


si motivano ad ascoltarvi?
Ecco, ora sto per dirvi una cosa di straordinaria
importanza. Di tutto quello che troverete scritto
in questo libro, il concetto che sto per esprimere
è senz’altro il più importante, perché è un
concetto che vi permetterà di capire tantissime
cose; se ci rifletterete con attenzione vi servirà,
non solo, nel vostro lavoro di educatori, ma
anche in molte altre situazioni nella vita. È
talmente importante che ci tengo molto a trovare
le parole migliori per dirlo. Mi fermo qui. Se
avete letto le righe precedenti e avete percepito
che dovevate leggere con attenzione, avete già la
risposta al titolo. Prima di spiegare, di
qualunque argomento si tratti, per catturare
l’attenzione faccio sempre così. Inizio come ho
iniziato questa parte. “Sto per dirvi una cosa di
straordinaria importanza. State attenti perché è
una cosa che vi servirà moltissimo, ecc.”. Poi,
subito dopo, spiego esattamente perché quella
cosa è importante. A volte ragiono insieme a
loro, per trovare insieme i motivi. Se mi è
possibile, colgo tutte le occasioni reali che mi
permettano di introdurre un certo argomento.
Faccio solo un esempio: so che nel mio piano di
lavoro ho inserito l’educazione alimentare. Se mi

82
capita di leggere la tragica notizia del suicidio di
un ragazzo che veniva preso in giro con la
parola “ciccione”, non aspetto il momento
dell’anno scolastico in cui avevo previsto di
introdurre l’argomento. Lo spiego il giorno in
cui posso leggere l’articolo di cronaca.
Ho affermato che un alunno segue l’insegnante
quando l’insegnante è autorevole e interessante.
Davvero, questa, per me, è una frase
determinante. Bisogna ragionare sulla parola
“interessante”. Memorizziamo solo ciò che ci
interessa.
La lettura di testi che insegnano a sviluppare la
creatività, le tecniche di memorizzazione, di
lettura veloce, di comunicazione efficace sono
utilissimi, perché potete avere spunti per
catturare la loro attenzione e la loro
ammirazione e perché contengono riflessioni e
osservazioni che saranno utili nella pratica
didattica.
Se catturare l’attenzione è difficile, mantenerla è
ancora più difficile.
Bisogna abituarsi ad osservare gli alunni,
cercando di cogliere ogni segno di noia o di
difficoltà.
Dobbiamo avere a disposizione molte carte da
giocare. Leggere libri o riviste di vario tipo che
tocchino argomenti vari; interessarsi di
argomenti che interessano loro, guardare

83
qualcuno dei programmi che guardano. Tenere
presenti gli interessi degli alunni e cercare di
citarli nel discorso che facciamo, scegliendo
esempi legati a quegli interessi. Per esempio: se
sapete che c’è un alunno che suona il pianoforte,
uno che fa yoga, uno che pratica judo o gioca a
pallacanestro, uno che da grande farà il cuoco, o
una ragazza che ama la danza o sa fare delle
belle collane, ricordatevi, negli esercizi che
scegliete come esempio, di fare riferimenti ai
loro interessi, alla pallacanestro, allo judo, alla
danza o alle collane, in modo che ci si
riconoscano.
È molto importante coinvolgerli continuamente
alla lezione, che sia dedicata a spiegare un
argomento nuovo o ad interrogare. Non bisogna
mai perdere il controllo della loro attenzione,
per esempio quando compiliamo il registro,
parliamo con un genitore venuto a prendere il
figlio, quando cerchiamo qualcosa sul libro: in
quei casi si deve trovare il modo di impegnarli
con un lavoro individuale, perché altrimenti,
mentre siete occupati, mentre ascoltate il bidello
che vi consegna una circolare, i ragazzi si
mettono a parlare, perdono la concentrazione e
voi il controllo della situazione.
Per motivarli all’ascolto è indispensabile che
prendiate l’abitudine di anticipare e spiegare
sempre che cosa stanno studiano, perché lo

84
stanno studiando, e a che cosa servirà quello che
impareranno.
L’interrogazione non è un buon motivo per
studiare, come invece generalmente si crede.

85
Come devo insegnare?

Prima di tutto: non dite le cose dall’esterno, non


date le soluzioni, non fornite i risultati trovati da
altri; guidateli a vedere le cose, a scoprirle da
soli. Se la cultura fosse una stanza piena di
oggetti, non fate vedere gli oggetti dando voi
tutte le spiegazioni preconfezionate, facendo
notare voi tutto quello che si può notare,
limitandovi a chiedere che capiscano bene
quello che avete spiegato e che sappiano
riferirlo.
Accompagnateli nella stanza e suscitate tutte le
curiosità; trovate le frasi e le domande che
portino loro a scoprire da soli quello che voi
sapete che è importante che scoprano. Insegnate
loro, cioè, il percorso mentale da fare per
studiare il lavoro, l’oggetto, l’argomento.
Essenziale è insegnare a studiare da soli. Voi
insegnate il metodo e loro dovrebbero essere
capaci di studiare l’argomento sul libro prima
che voi glielo spieghiate. Naturalmente, dipende
molto dall’età degli alunni. I più piccoli
potranno farlo in classe, insieme a voi. I ragazzi
delle medie inferiori lo faranno in classe e poi lo
concluderanno, da soli, a casa. I ragazzi più
grandi, dovrebbero cavarsela da soli. Per tutti è
molto importante che spiegate con esattezza
quello che vi aspettate da loro. Quando spiegate,

86
loro devono già sapere di che cosa state
parlando, per interagire con voi, per collaborare
alla spiegazione, per rendersi conto di quello che
non hanno capito. Non spiegate qualcosa che c’è
sul libro di testo prima che loro lo abbiano letto
da soli. A meno che non si tratti di argomenti
che pensate che possano non capire bene.
Molto spesso usiamo le parole senza percepirne
appieno il significato esatto. Prendiamo la
parola “condividere”. È un verbo abbastanza
usato. Si dice “condividere un’idea”,
“condividere un lavoro”, condividere un
progetto”. Ma non sempre ci soffermiamo su
quanto è interessante e importante il suo
significato, che è quello di dividere, di spartire
con gli altri. Ecco: la lezione deve essere
condivisa con gli alunni. Gli alunni devono
“collaborare”, cioè dare il loro contributo,
partecipare ad un progetto, ad un lavoro. Per
fare questo devono studiare da soli e poi offrire
alla lezione, a voi e ai compagni, quello che
sanno. Se non lo fanno significa che non siete
riusciti a motivarli o che avete preteso una
competenza che non possedevano.
Credo che possa esservi utile riflettere su alcuni
concetti.
Si deve stupire (dire per esempio: “oggi vi
insegno a ricordare a memoria trenta parole
dopo averle ascoltate solo una volta”).

87
Si deve incuriosire (anticipare ciò che state per
fare, senza essere espliciti sui contenuti).
Si deve far pensare che abbiamo molte cose da
insegnare.
Si deve coinvolgere ognuno di loro, tutti.
Si deve suscitare entusiasmo (non dire: questo è
stupendo, ma portarli a pensare che è
stupendo…).
Si devono creare situazioni che rendano utile,
necessario, imparare in quel momento quella cosa.
Per fare tutto questo, noi stessi dobbiamo
crederci, dobbiamo credere che quello che
facciamo servirà, che il gioco, anche nostro, vale
la candela; dobbiamo davvero avere tante cose di
tutti i tipi da insegnare; dobbiamo voler stupire,
voler incuriosire, voler suscitare entusiasmo, voler
trasmettere voglia di imparare e di sapere.
Altrimenti non siamo credibili e non ci
ascoltano.
Quando iniziamo una lezione sempre nello
stesso modo, con la stessa successione di
movimenti tutti giorni, siamo troppo
prevedibili. Noiosi. E quello che di bello
possiamo dare va spesso sprecato perché non ci
ascoltano.
Invece se entriamo e diciamo una frase
apparentemente strana; se spieghiamo partendo

88
dalla fine anziché dall’inizio, ecc. forse creiamo
curiosità, interesse.
Nel nostro bagaglio di educatori dobbiamo
avere tantissime conoscenze del mondo di oggi:
terminologia tecnica, film, libri che trattano
argomenti diversi (psicologia applicata, tecniche
di comunicazione, viaggi, cinema, scienze,
economia, narrativa, storia, ecc.); articoli di
giornale, ecc. Più il bagaglio è pieno e più mezzi
abbiamo per essere convincenti.
Dobbiamo ricordare che per ogni abilità servono
prerequisiti e strumenti particolari, specifici. Per
imparare a scrivere un testo letterario servono
concetti ed esercizi specifici; per scrivere una
pagina web altri strumenti; per leggere e capire
una poesia altri ancora; per ascoltare per
prendere appunti servono altre strategie, ecc.
È così per ogni materia.
Per insegnare in modo efficace, bisogna
teorizzare tutto quello che facciamo.
Bisogna essere in grado di esaminare il concetto
che vogliamo insegnare e cercare di risalire a
come abbiamo fatto a capirlo, quale percorso
mentale abbiamo seguito. Solo a questo punto
siamo in grado di insegnarlo ai ragazzi.
Dobbiamo insegnare tutto il percorso, non
soltanto il punto a cui siamo arrivati. Se
facciamo vedere loro solo la foce, non sapranno

89
mai che cos’è un fiume, anche se ne
impareranno la definizione.
Bisogna diventare consapevoli di come avviene
il processo di conoscenza, di come funziona la
nostra mente quando apprende.

90
La maleducazione e i problemi di disciplina.

Ciò che sta accadendo nella Scuola (che ha


cominciato ad accadere in maniera più decisa da
una decina d'anni) è il frutto di gravi problemi
sociali e culturali.
Dire che oggi i bambini sono viziati è poco. Le
famiglie, nonni e bisnonni compresi, fanno a
gara a chi accontenta di più i bambini.
Come se fossero eterne bambine che giocano con
le bambole, mamme e nonne si divertono a
comperare scarpine mignon a bambini che
ancora non camminano, come se fossero
bambolotti da vestire come Barbie o Ken, e le
pagano come scarpe da adulti, ben sapendo che
dopo venti giorni non andranno più bene.
Alcune si sacrificano e fanno economia
sull’alimentazione per comperare, a prezzi
assurdi, jeans per bambini di quattro mesi o una
giacchettina di montone con tanto di bavero di
pelliccia (finta) per il nipotino di due anni. Padri
orgogliosi comperano giacchettine di pelle,
costosissimi completini da pilota della Ferrari a
bambini di due anni.
Non vengono rimproverati se urlano, se pestano
i piedi, se lanciano oggetti.
Se non vogliono scendere dalla giostra non
devono neanche protestare, perché il genitore o

91
il nonno si è già precipitato a comperare altri
gettoni.
I bambini che oggi hanno la macchinina, a
diciotto anni avranno la macchina, freschissimi
di patente. Certo, non tutti. Ma quelli che non
rientrano in questa casistica soffriranno perché
si sentiranno dei diversi.
I genitori che scelgono di non viziare i figli
spesso si trovano dei figli emarginati dagli altri e
quindi infelici.
Moltissimi ragazzi non hanno mai sentito a casa
l’espressione “Non si può” e neppure “No, non
lo puoi avere”. Crescono pensando che le uniche
espressioni giuste siano: “Se lo vuoi te lo do” e
“Certo che lo puoi fare, chi te lo impedisce?”.
Non acquisiscono perciò la capacità di
sopportare la frustrazione del “no”, del “non lo
puoi avere”.
Se i ragazzi vengono abituati a non trovarsi mai,
o quasi, a dover rinunciare a qualcosa, a non
essere, a non avere e a non possedere, finisce che
non contemplano neppure l’eventualità di non
ottenere – e subito – quello che vogliono.
I genitori tolgono loro tutte le difficoltà e gli
ostacoli che li possono privare di quello che
vogliono. I ragazzi si formano l’idea che tutto sia
loro dovuto, tanto che raramente sanno provare
ed esprimere gratitudine.

92
Questa incapacità di accettare la frustrazione
crea grossi problemi quando si tratta di seguire
le regole della convivenza sociale. Per esempio
può avere effetti disastrosi, a volte, quando una
ragazza dice loro “No, non ti voglio” o “Non ti
voglio più”.
Non parliamo delle conseguenze in ambito
scolastico, dal punto di vista sia didattico che
disciplinare. Si possono riassumere in tre
concetti: faccio quello che voglio, non devo
faticare, ma devo essere comunque promosso.
È difficile, poi, che il genere di genitore che
educa al “hai il diritto di fare il tuo comodo”, sia
di appoggio alla Scuola. Anzi.
Più precisamente: gli insegnanti notano sempre
più spesso genitori assenti, che non vengono a
parlare con loro neppure se vengono invitati a
un colloquio con lettera raccomandata; notano
che i figli rimangono soli per molte ore, liberi di
fare quello che possono (o vogliono); ma
contemporaneamente, constatano che quei
genitori diventano sempre presenti, quando
devono difendere i diritti loro e quelli dei figli,
anche quando di diritti non si tratta. I genitori
non concedono quasi mai all’insegnante il diritto
di rimproverare i loro figli.
Naturalmente, non tutti i genitori sono così. Ma
il loro numero è molto superiore a quello che si
crede.

93
Il desiderio di picchiare (in senso più o meno
figurato) alunni e professori è abbastanza
diffusa fra quelli che vedono la Scuola
completamente dal di fuori, o che la vedono
attraverso gli occhi dei loro figli. C’è la variante
degli insegnanti che vorrebbero picchiare
alunni, genitori e certi colleghi. Si tratta, in
questo caso, di insegnanti che vorrebbero
sbarazzarsi di tutte le difficoltà
dell’insegnamento, semplicemente
cancellandole. Per esempio sono insegnanti che
ce l’hanno con i colleghi che cercano di aiutare
gli alunni difficili (e quindi considerano quei
colleghi come insegnanti deboli, che vogliono
insegnare ai ragazzi a diventare dei debosciati
ignoranti). Ce l’hanno con i ragazzi poco
intelligenti o indisciplinati ( “mandiamoli via
dalla scuola!”). E con i genitori che protestano
(“Via i genitori dalle scuole!”).
Se c’è una cosa che regna sovrana in Italia è la
banalizzazione dei problemi.
Abbiamo una scuola fatiscente, senza personale
sufficiente ad affrontare i problemi, senza
adeguate risorse. Abbiamo pseudo riforme della
scuola che mirano a lanciare sbuffi di fumo negli
occhi degli elettori e peggiorano ogni volta un
po’ di più la situazione. Vengono imposti
continui, assurdi e soprattutto inutili
cambiamenti, che rendono tutto più difficile.
Assistiamo alle menzogne di chi spaccia per

94
fannulloni gli insegnanti che chiedono altre
risorse, inventando il fatto che ci sono tante
risorse. Abbiamo media che insegnano ad
ammirare cose futili, persone stupide e
ignoranti, e a considerare vecchia e inutile la
cultura. I genitori educano i figli a credere a ciò
che dicono i media e li abituano ad amare l’ozio
e ad odiare il lavoro, a seguire i propri comodi e
a calpestare quelli degli altri. Viviamo in una
società in cui l’idiota viene osannato e
l’intelligente deriso, e nella quale trionfano la
volgarità, lo spreco, la disonestà, la
prevaricazione, la corruzione.
Ma diamo la colpa ai ragazzi e diciamo che sono
fragili, maleducati, sciocchi; li accusiamo di
pensare alle cose stupide, di non aver voglia di
lavorare. Diciamo che sono viziati, come se si
fossero viziati da soli.
Li abbiamo viziati noi adulti. Li abbiano stressati
da piccoli, li abbiamo lasciati soli, ne abbiamo
fatto dei bambini paurosi, violenti, indolenti,
stanchi, presuntuosi. E poi diciamo che sono
paurosi, violenti, indolenti, stanchi, presuntuosi.
Li abbiamo abituati noi a credere che tutto sia
loro dovuto.
Ma ci sono tante persone che pensano che i
ragazzi siano da punire, da schiaffeggiare, da
buttare fuori dall’aula se si comportano come il
mondo ha loro insegnato.

95
Il mondo: noi adulti e noi genitori. Non noi
insegnanti. Noi siamo in classe e abbiamo tanta
difficoltà a cercare di porre rimedio ai danni fatti
sui ragazzi. Cerchiamo di recuperare i ragazzi,
senza le risorse necessarie. Siamo stanchi, siamo
anche un po’ stufi. Almeno, che chi guarda dal
di fuori non si metta anche a criticare.
I ragazzi maleducati sono male educati.

96
Che cosa significa “classe difficile”.

Che cosa potrebbe accadervi entrando in una


classe?
Se non ci sono problemi di disciplina, alunni
difficili da gestire, non avrete grossi problemi.
Ma potreste trovarvi di fronte ad una “classe
difficile”.
È buona norma informarsi prima dai colleghi
che conoscono la classe se ci sono alunni
"difficili".
Può esservi utile anticiparvi alcune situazioni
nelle quali potete venirvi a trovare entrando in
una classe difficile le prime volte, o entrando in
una classe nella quale dovete fare un'ora di
supplenza, se si tratta di una classe difficile.
Tutto quello che ho detto riguardo a come si
entra in classe in questo caso è molto più
importante.
Se la classe è problematica dal punto di vista
della disciplina, allora concentratevi e
preparatevi a momenti difficili.
Oggi tutti gli insegnanti hanno dei problemi che
un tempo non c’erano. Soprattutto gli insegnanti
giovani. Hanno, spesso, molto entusiasmo,
insegnano volentieri, ma credono di entrare in
classe e spiegare, e invece scoprono che non è

97
così semplice, perché spesso incontrano le classi
difficili.
Ma anche gli insegnanti con anni di esperienza
possono avere delle difficoltà a rapportarsi con
ragazzi che vivono in un mondo tanto distante
dal loro.
Definiamo una classe difficile. È una classe che
ha problemi di disciplina importanti: la
maggioranza degli alunni non si impegna e/o
tiene comportamenti scorretti; oppure ci sono
alcuni alunni con gravi problemi di
comportamento. Ma basta uno solo, per renderci
la lezione molto difficile. Naturalmente le
caratteristiche dipendono molto dall’età degli
alunni.
Quali comportamenti potrete incontrare in una
classe con problemi disciplinari?
I ragazzi possono urlare, cantare a squarciagola,
sghignazzare, sdraiarsi in terra, saltare,
picchiarsi, passare fra i banchi gettando a terra i
libri dei compagni, protestare battendo i pugni
sul banco, sbattendo i libri, urlando parolacce e
insulti contro un compagno o contro di voi, farvi
il verso quando parlate, fare una pernacchia
mentre spiegate.
Se chiedete a un ragazzo di venire alla cattedra
può rifiutarsi dicendo “Non ci penso nemmeno”
o “Ma vaffanculo”, oppure camminare verso la

98
cattedra come facendo una sfilata per provocare
risate generali.
Mentre scrivete sul registro, magari una nota,
può arrivarvi addosso una gomma, una matita,
un astuccio. Quando chiedete chi è stato
possono dire tutti “Io!” e ridere. Se vi arrabbiate
possono farvi di nuovo il verso. Possono
strapparvi il registro dalle mani per non farvi
scrivere.
Se chiedete a un alunno particolarmente
maleducato come si chiama può darvi un nome
falso.
Potete trovarvi in mezzo a un inferno, di fronte
ad alunni che rispondono ai vostri rimproveri
frasi come “Ma questa è ubriaca”, “Ma che cazzo
crede di fare ‘sta troia?”, “Ma va via, scema!”.
Se vi spaventate e cercate di uscire dall’aula
potete vedervi arrivare alle spalle altri oggetti,
un astuccio, il cestino della carta, una lattina
vuota.
Un ragazzo può mettersi ad aprire e chiudere la
porta sbattendola furiosamente e provocando
un baccano pazzesco. Può capitarvi di
raggiungere l’uscita tra gli insulti e appena fuori
dall’aula potreste ricevere anche un calcio nel
sedere. Anche se vi volterete all’istante, saranno
tre o quattro, e non potrete identificare il
colpevole. Se chiamate il preside può capitarvi
che dicano, in modo molto convincente, che li

99
avete provocati voi, che avete chiamato
“stronzo” un alunno, o che ne avete preso uno
per un braccio e gli avete fatto male. La classe
confermerà le loro parole e non le vostre. Un
incubo, insomma.
Ecco altri esempi di comportamenti che possono
verificarsi in classi difficili, come risultano da
note disciplinari scritte sul registro di insegnanti
di varie regioni d’Italia. Quelle che seguono non
sono note tratte da libri, sono note vere.
Purtroppo oggi, invece, vengono pubblicate e
lette come se fossero scritti esilaranti,
rafforzando, senza rendersene conto, l’idea
diseducativa generalizzata che quei ragazzi
maleducati sono dei gran simpaticoni. Si
leggono le note per ridere, insomma. Invece
dovremmo leggerle per quello che sono: frasi
piuttosto tristi, specchio di una società in grave
disagio.
“S*** continua con il suo atteggiamento a non
permettere lo svolgimento della lezione. Parla
continuamente ad alta voce, fa attività che non
attengono alla lezione, come scrivere sul banco e
insultare la compagna B***”
“N***. continua a non permettere lo
svolgimento della lezione perché parla forte con
la compagna e la insulta, dandole della
“stronza”.
“O*** chiama ‘mongola’ la compagna”

100
“Chiamato alla cattedra dall’insegnante, M*** si
mette a camminare come saltellando con le mani
in alto, mentre la classe lo applaude”
“T*** e M*** si sono picchiati ferocemente”
“G*** e C*** si tirano oggetti, insultandosi in
modo molto volgare”
“ D*** continua a truccarsi e a tagliarsi le unghie,
invece di seguire la lezione.”
“C*** continua, nonostante i miei continui
richiami, a fare versi, cantare, parlare ad alta
voce, dire parolacce, ostacolando lo svolgersi
della lezione”
“G*** tira aeroplanini fuori dalla finestra”
“M*** gioca con la porta e la toglie dai cardini”
“L*** minaccia un compagno durante
l’interrogazione dicendogli ‘Fuori ti spacco la
faccia. Ti taglio la gola’”
“A*** si diverte a rovesciarsi le palpebre invece
di stare attento alle interrogazioni.”
“Z*** dà un pugno a M*** e spinge
violentemente L*** contro l’armadio”
“Nel cambio tra la 4° e la 5° ora, mentre
l’insegnante è sulla porta con la madre di
C***che deve uscire prima, L*** e S*** si
picchiano con violenza. Intervengo per farli
smettere e li faccio uscire dalla classe, con me,
per farli calmare. Mentre congedo la madre

101
ricevo un astuccio sulla tempia, lanciato da
R***.”
“V*** ha bestemmiato a voce alta e ha mandato
la professoressa…...”
“B*** minaccia il compagno dicendo ‘Vediamoci
fuori che ti faccio la sorpresina’”
B*** urla imitando la voce dell’insegnante.
C*** salta, corre per l’aula e si aggrappa
all’appendiabiti. Inoltre si getta per terra
continuamente
F*** si rifiuta di rimanere al suo posto e, con urla
e schiamazzi crea grande disturbo e dice
all’insegnante “stai zitta!”
L*** lancia un astuccio a una compagna e,
rimproverato dall’insegnante, le risponde:
“Drogata! Che tu possa crepare!”
M*** si rifiuta di sedersi e urla all’insegnante
parolacce. Vengono inoltre tirati alla sottoscritta
un astuccio e una matita e viene rovesciato il
cestino della carta.
Questa è una classe difficile.
Non crediate che siano esagerazioni.
Sono situazioni che possono accadervi; ma
potete fare in modo che non vi accadano.
E non cambia molto se siete uomini o donne.

102
Magari cambia se siete uomini alti un metro e
novanta e siete pieni di muscoli. I ragazzi
difficili hanno rispetto per la forza fisica. Nel
loro mondo spesso vige la legge del più forte.
Se i ragazzi si comportano male anche dopo un
paio di giorni da quando li avete incontrati per
la prima volta significa che avete sbagliato
qualcosa, senza accorgervene.

103
Come comportarsi con una classe difficile.

Supponiamo che dobbiate fare una lezione di


inglese, o di letteratura, o di storia, in una classe
difficile. Vi trovate ad insegnare, per esempio,
ad una classe difficile che ha venticinque alunni
di cui metà stranieri, di nazionalità che spaziano
dal Marocco alla Romania, dall’Egitto alla
Moldavia alla Tunisia, all’Albania, alla Cina.
Religioni diverse, quindi. Ci sono magari sei o
sette alunni con gravi problemi
comportamentali che non hanno nessuna voglia
di venire a scuola, non capiscono quello che dite
perché non hanno mai studiato, hanno gravi
problemi familiari e considerano nemiche tutte
le persone che ricoprono un ruolo sociale, come
per esempio gli insegnanti. E voi.
Come potete pretendere di entrare in una classe
così e mettervi a insegnare l’inglese, o la
letteratura, o la storia? A loro, alla grande
maggioranza, non interessa neppure imparare
l’italiano, figuriamoci l’inglese. Allora, che cosa
dovreste fare, secondo le persone che non hanno
mai provato, compresi i ministri? Arrabbiarvi
con loro perché non capiscono che quando
andranno in viaggio d’affari a Londra, o in
vacanza a New York si troveranno male se non
sanno l’inglese? Stupirsi del fatto che non si
rendono conto di come è bello declamare dei

104
versi di Gabriele D’annunzio mentre il sole
tramonta sul mare di un’isola del Mediterraneo?
Scuotere la testa di fronte ai mille errori di
ortografia e alla loro indifferenza, e dire loro che
con quello scritto scorretto non diventeranno
mai avvocati? Il fatto è che loro non avranno mai
bisogno dell’inglese, perché non faranno viaggi,
non guarderanno il tramonto sul Mediterraneo,
non dovranno fare conferenze né diventare
avvocati. E lo sanno benissimo anche gli
insegnanti, ma devono fingere di non saperlo. E
i ragazzi non capiscono neanche perché devono
stare seduti su sedie di scomodissimi banchi, ad
ascoltare una persona che parla di cose inutili e
se ne frega di loro. È il loro punto di vista, ma è
quello che importa.
Dovete cercare di far cambiare loro idea. Come?
Purtroppo dovrete trovare voi delle soluzioni, di
volta in volta. Ma possono servirvi alcuni
suggerimenti.
Prima di tutto, ricordate che l’insegnante che
entra in una classe difficile deve dimenticare la
lezione normale, quella frontale.
Deve rinunciare ad insegnare cose che a loro
non interessano, e cioè quasi tutto quello che di
solito si studia a scuola. È ovvio che mi riferisco
alla scuola dell’obbligo, perché alla scuola
superiore non si può evitare di chiedere i

105
contenuti e le competenze previste dai
programmi.
Quando entrate in una classe difficile, perciò,
dedicatevi completamente a gestire la classe, a
guadagnarvi la loro fiducia. I ragazzi che si
comportano in quel modo sono ragazzi in
difficoltà, che spesso non hanno avuto
un’educazione adeguata dalle famiglie o –
peggio – che non hanno ricevuto alcuna
educazione o hanno ricevuto una diseducazione.
Non prendetevela con loro. Resistete.
Insegnare a ragazzi capaci di autocontrollo,
seguiti dalle famiglie, pieni di opportunità,
intelligenti, educati, ai quali, già a casa, hanno
insegnato ad interessarsi di tutto e perciò
motivati, è abbastanza facile.
Ma conquistare la fiducia di chi è abituato a
considerare gli adulti, soprattutto gli insegnanti
e tutti quelli che vogliono far loro rispettare le
leggi, come nemici, a chi a casa deve vivere
situazioni difficili e non ha mai avuto
opportunità è davvero difficile. È il compito più
arduo, faticoso e stressante dell’insegnamento.
Insegnare loro le cose più importanti per la loro
vita è ancora più arduo.
Riuscirci è la gratificazione più grande, per un
insegnante.
Rinunciare a provare, sostenendo che non ne
vale la pena è una sconfitta.

106
È come se un medico lasciasse morire tutti i
malati gravi.
Non possiamo fare lezione normalmente, in una
classe difficile. Dobbiamo partire noi da come
vedono loro la scuola e non pretendere che loro
capiscano il nostro punto di vista, se la loro
realtà è completamente diversa.
Se volete aiutare i ragazzi svantaggiati, per
aiutare tutta la società, dovete convincerli che il
mondo nel quale vive la “gente perbene” è
anche loro; che la “gente perbene” non li rifiuta;
che, anche se adesso la loro vita è difficile, esiste
la speranza che possa, in futuro, diventare
migliore, che possano riscattarsi , e perciò, che
possano loro servire anche l’inglese, la
matematica, l’italiano.
Quando entrate in una classe difficile dite loro
che volete aiutarli e che non chiederete loro cose
che non possono dare. Rassicurateli, fate loro
sentire che volete fare di tutto per farli stare
bene a scuola. Se insegnate inglese non
insegnateglielo subito. Raccontategli dei Paesi
dove si parla l’inglese. Chiedete loro quali
parole vorrebbero imparare. Partite da quelle,
anche se sono parole sciocche o provocatorie.
Non importa la quantità, importa la qualità di
ciò che si insegna. Quando avrete conquistato la
loro fiducia, vedrete che riuscirete ad avere
grandi soddisfazioni da loro. Qualunque cosa

107
riusciate ad ottenere da loro, siate contenti,
perché avete già fatto miracoli.
Per riparare ai guasti che abbiamo prodotto
come adulti su alcuni ragazzi diventati bulli,
dovremmo, come Scuola, tentare strade
alternative e non usare semplicemente mezzi
repressivi che emarginano e incattiviscono,
senza recuperare e rieducare. Come per i
tossicodipendenti, che non sanno affrontare la
vita in modo corretto, positivo e maturo, o per le
prostitute, che non hanno la dignità sufficiente a
non vendere il proprio corpo, così per i bulli, che
non sanno convivere con gli altri e integrarsi
nella società, limitarsi a reprimere non ha senso.
L'opinione pubblica di solito fa molto presto:
pensa di risolvere tutti i problemi
accantonandoli, togliendoseli davanti,
semplicemente mettendo in prigione chi sbaglia,
punendolo per quello che ha fatto. E così, via i
drogati, via le prostitute, via i bulli.
Semplicemente. Che problema c'è? Se non li
vedono non esistono più. Almeno per loro. E
invece esistono, eccome. Quell'opinione
pubblica vota chiunque urli a squarciagola "via i
drogati, via le prostitute, via i bulli". Non
importa se poi si legge di politici che fanno
festini con prostitute e cocaina. Non importa se
si legge di politici che hanno comportamenti da
bulli. A volte, anzi, sono quelli che urlano più
forte. Quell'opinione pubblica crede che siano

108
diventati tossicodipendenti, prostitute o bulli
perché sono nati brutti e cattivi? Si interroga? Si
mette in discussione, prima di lanciare anatemi?
Legge studi di specialisti, medici, psichiatri,
sociologi, psicologi, per capire le cause di certi
comportamenti, prima di pronunciare, senza
ombra di dubbio, la sentenza: "Sono così perché
sono nati cattivi, hanno il sangue cattivo, sono
malati, sono sporchi, sono depravati, sono
delinquenti nati, sono degradati, ecc."? E allora
credo che dovremmo guardare bene alla radice
del problema. E curare lì, perché la malattia è lì.
Bisognerebbe sì, sanzionare, mandare in
prigione chi delinque, ma poi pensare a vere
strategie rieducative. Soprattutto, bisognerebbe
investire molto di più sull'educazione, senza
aspettare di trovarsi a dover rieducare. Non si
può più tagliare sull’istruzione. Prevenire è
davvero meglio che curare. E nel frattempo – lo
ribadisco - bisogna riparare i guasti nella
Scuola, ormai fatti.
Bisogna anche chiarire un concetto, che molti
sostengono: “Allora, mio figlio, bravo,
intelligente, diligente, seguito dalla famiglia,
che si trova in classe con ragazzi difficili non ha
diritto a studiare e ad essere seguito per vedere
potenziare le sue capacità? Dobbiamo livellare
tutto verso il basso?”
Sintetizzare è difficile, ma provo: immaginiamo
di fare come vogliono i genitori di quei “ragazzi

109
bravi”. Immaginiamo di formare una classe solo
con alunni bravi. Innanzitutto c’è questo
problema: “bravi”, in che senso? Che si
comportano bene? che sono intelligenti? che
sono studiosi? che sono intelligenti, silenziosi,
corretti e studiosi contemporaneamente? Allora:
ci sono alunni che si comportano bene, ma non
studiano; alunni che si comportano bene, ma
non capiscono. Queste due categorie non le
possiamo mettere perché creano ritardi. Ci sono
alunni che sono intelligenti, ma si comportano
male. Non possiamo metterli nella classe.
Alunni che sono intelligenti e si comportano
bene, ma non studiano: via anche loro. Gli
alunni studiosi, ma non intelligenti ce li
mettiamo solo se è proprio necessario, perché
sarebbero da togliere anche loro. Gli alunni
intelligenti, silenziosi, corretti e studiosi ce li
mettiamo senz’altro. Ma quanti sono in
percentuale? Nella mia esperienza, più che
ventennale, direi pochi. Quante classi facciamo,
mettendo insieme quegli alunni? Metto numeri a
caso: due? tre? Forse anche una sola.
E qui ci sono due domande interessanti. Prima
domanda: e le altre classi come diventano? A
questo punto i genitori dello studioso non molto
intelligente non vuole in classe con suo figlio
quello che non studia; quello intelligente che
studia poco non vuole stare con quello che si
comporta bene, ma non capisce, e così via. E

110
quelli che si comportano male dove li mettiamo?
Li mandiamo per le strade a comportarsi ancora
peggio, sperando che, se spaccano qualche
specchietto e rigano qualche macchina non si
tratti della nostra? O li mettiamo tutti insieme,
come propongono in molti e decidiamo, come
ho letto in un forum in internet, di “creare una
classe di bulli e di metterli tutti lì. Affidare la
lezione a maestro super bullo. Riprendere con
videotelefonino e farlo vedere ai non bulli.” ?
E come riuscirebbero gli insegnanti ad insegnare
in classi con venticinque bulli? È opportuno? È
giusto?
Seconda domanda: se si facesse una classe di
“bravi” (intelligenti, silenziosi, corretti e studiosi
contemporaneamente), senza altri tipi di alunno,
senza far vedere loro che nella vita esiste il
problema, il difetto, il disagio, che, anzi, è molto
più diffuso l’imperfetto del perfetto,
imparerebbero di più, certo, ma che idea si
farebbero della vita? Imparerebbero a vivere, a
rapportarsi con tutti? Ad accettare chi non ha le
capacità che hanno loro? E che cosa succederà
quando entreranno nel mondo non selezionato,
quello di tutti i giorni, dove invece incontrano
tutti? E quando dovranno lavorare per ore in
uno stesso ufficio con un collega che disturba? O
chiederanno uffici differenziati per carattere e
capacità?

111
Non è così facile, dunque. A meno che non
abbiamo la mentalità secondo la quale “io penso
a mio figlio e gli altri si arrangino! Non è
compito mio trovare delle soluzioni, non mi
interessa”.
Secondo me è giusto e opportuno che le classi,
soprattutto nella Scuola dell’obbligo, vengano
formate con tutti i tipi di alunno.

112
Tanti tipi di alunno e tanti tipi di problema.

Pensiamoci bene: per aiutare ogni singolo


alunno in tutti i problemi che incontra, nella
classe dovrebbero esserci solo due o tre alunni.
Come possiamo pensare di aiutare ventotto
alunni, tutti diversi, con caratteri e problemi
diversi, con situazione socio - culturale diversa,
nella stessa ora? Nella stessa ora possiamo fare
lezione a tutti e ventotto, questo sì, fingendo che
siano uguali. Possiamo dare una mano un
giorno a uno un giorno all’altro. Chiamare fuori
classe e parlare dei problemi ora di uno ora di
un altro. Ma come possiamo riuscire ad aiutare
ogni singolo alunno, tutti i giorni? Pensiamo a
quanto è difficile dare una mano a un nostro
figlio che ha dei problemi, pensiamo di metterne
ventotto tutti insieme, e risulteranno chiare le
difficoltà. Mi limito, comunque, a fare qualche
esempio, per rendere l’idea dei tipi di alunno,
delle problematiche che si incontrano, e di
qualche possibile soluzione. Per aiutare gli
alunni, singolarmente, bisogna capirli. Per
capirli bisogna osservarli molto. Sebbene i
ragazzi non siano mai uguali, possono però
essere simili e l’esperienza serve a ricordare
come ci siamo comportati con un certo alunno
anni prima, in una situazione difficile simile. Mi
riferisco a ragazzi (o ragazze) delle medie, ma

113
dato che non si cambia mai del tutto, il discorso
cambia poco per le superiori.
Ci sono, insomma, degli alunni-tipo.
Per primo mi viene in mente l’alunno
prevenuto, perché è uno dei più difficili. Perché
se è prevenuto lo è a causa di esperienze o di
idee sulle quali non avete nessuna
responsabilità, per cui non potete fare
riferimento a fatti che non conoscete. È quello
che quando vi guarda, anche se non vi ha mai
visto prima, vi guarda già con disprezzo, o evita
di guardarvi, ostenta disinteresse e fastidio.
Con lui bisogna evitare lo scontro e continuare
ad aiutarlo senza badare al suo atteggiamento.
Bisogna conquistare a poco a poco la sua fiducia,
mostrare per lui attenzione e disponibilità; fare
in modo che alla fine cominci a sentirsi
imbarazzato quando risponde in modo sgarbato.
È molto utile chiedere spesso la sua opinione,
che all’inizio non darà o darà malvolentieri, ma
piano piano esprimerà con soddisfazione.
Poi c’è il timido. Se lo guardate abbassa gli occhi
o arrossisce; tenta in ogni modo di passare
inosservato perché è terrorizzato dalla
possibilità che lo costringiate a farsi notare
domandandogli qualcosa. E se lo fate, prima vi
fissa e poi con rapidi movimenti degli occhi
guarda a destra e a sinistra per vedere se gli altri
lo guardano.

114
Ricordo un’alunna davvero timidissima.
Possiamo dire che era come irrigidita in una
specie di statua di ragazzina che,
apparentemente, a chi la guardava senza
conoscerla, appariva come una bambina che non
parlava mai perché non aveva nulla da dire.
Stava seduta nel banco, diritta, attenta e
impettita, fissando l'insegnante come se
null'altro intorno contasse al di fuori di quello
che diceva. Come se qualcuno a casa le avesse
detto "Stai sempre attenta" e lei eseguisse, tutti i
minuti di tutte le ore di lezione di tutto l'anno.
Non parlava mai. Per quasi tre anni non ha mai
espresso un parere, fatto una qualunque
domanda se non in risposta a una domanda
dell'insegnante. Ogni tanto un timido sorriso,
ma di solito, neanche quello. Seria e muta. Un
silenzio vigile. Sereno. Nonostante le avessi
parlato tante volte di quanto era importante
parlare, esprimere le proprie opinioni e lei mi
avesse risposto fissandomi, con un sorriso. E
durante l'intervallo sempre sola. Perché? Perché,
da sola? Perché questo fissare continuo, come se
non dovesse perdere una sillaba, come se non se
fosse di vitale importanza non distrarsi neanche
un minuto? Non aveva niente di suo da dire?
Ma quando scriveva ti accorgevi che aveva tante
cose da dire, che pensava tante cose. E allora,
perché tutto quel silenzio? La mamma, quando
esprimevo la mia preoccupazione, rispondeva
che parlavano tutti tanto...ed era un bene che ci

115
fosse qualcuno, come sua figlia, che faceva
silenzio.
Solo negli ultimi mesi della terza, quando ormai
avevo perso le speranze, un giorno alzò la mano
e disse il suo parere. Per me fu come ricevere un
premio.
Non parlò mai tanto, certo, ma iniziò a dire
qualcosa, come se dal bozzolo fosse uscita una
farfalla. Il problema dei timidi è importante, ma
non si deve rinunciare a migliorare il suo
approccio con il mondo dicendo semplicemente
“è fatto così, è il suo carattere”. Bisogna non
rinunciare a provare.
Il timido deve capire che se parla non gli
succede nulla. Non serve a nulla rassicurarlo con
le parole, bisogna farlo con i fatti. Il timido ha
paura del palcoscenico, degli occhi dei
compagni. Mettiamolo il più possibile davanti,
in modo che, quando deve parlare, non veda gli
altri. Quando è vicino alla cattedra rivolgiamoci
a lui per chiedere qualcosa che non dia problemi
per la risposta: una penna, che ore sono, che
materia hanno all’ultima ora, che cosa c’era da
studiare. Facciamo in modo che gli altri non
rispondano al suo posto e, soprattutto, che non
si girino a fissarlo mentre parla. Poi
chiediamogli di cancellare la lavagna o di fare
qualcosa che lo obblighi ad alzarsi e a
camminare per l’aula. Dopo qualche tempo

116
preghiamolo di uscire a prendere qualcosa dai
bidelli o a portare qualcosa in un’altra classe.
Insomma, poco per volta, cerchiamo di trovare
attività brevissime e semplici che lo obblighino
ad esporsi, finché non sarà migliorato.
L’alunno demotivato, invece, lo si riconosce
perché non sta attento e giocherella un po’ con
tutto o guarda fuori della finestra. Tutto da solo.
Deve passare il tempo. Anche questo è difficile
da coinvolgere, e perciò con lui dovrete partire
dall’inizio.
Il simpaticone: piace anche a noi insegnanti, se
non passa i limiti. Vivacizza la classe e non è un
ragazzo difficile, sempre se siamo in grado di
tenere a bada le risate e riportare subito un certo
ordine. Se non ci riusciamo significa che non
abbiamo sufficiente autorevolezza, e allora,
dobbiamo cercare di recuperarla.
Il ragazzo che non ha alcuna autostima: crede di
non valere nulla, si sente sempre inadeguato. Di
solito è figlio di genitori severi che lo
rimproverano molto. Bisogna cercare di
aumentargliela, trovando attività che lo facciano
sentire vincente. Quali? Dipende dalle capacità
che riusciamo a trovare in lui. E bisogna parlare
con i genitori e spiegare loro che anche a casa
devono farlo sentire accettato per quello che è.
Un ragazzo che si incontra frequentemente è il
tipo tranquillo che tira a campare. È quello che

117
fa quello che può senza preoccuparsi più di
tanto; quello che, se gli chiedi se da grande
vuole fare un lavoro dove decide da solo o vuole
che qualcuno gli dica che cosa fare, sceglie la
seconda possibilità. Anche questo non è un
ragazzo difficile. Per lui bisogna lavorare per
sviluppare l’entusiasmo, la voglia di fare,
l’ambizione. Bisogna ricordarsi di interpellarlo
spesso, di trattarlo con grande considerazione,
perché provi la piacevole sensazione di essere
stimato.
Poi c’è l’alunno straniero: albanese, polacco,
cinese, rumeno, russo, moldavo, peruviano,
argentino. L’alunno straniero a volte è molto
motivato. Vuole emergere. O appartiene ad una
famiglia com’era la famiglia italiana anni
Cinquanta: desiderosa di riscattarsi. Altre volte è
poco integrato, e non capisce quello che fanno o
dicono i compagni, con conseguenti problemi
nei rapporti con gli altri, perché ritiene offensivi
comportamenti che invece sono soltanto battute
“alla moda” fra i ragazzi. L’atteggiamento
dipende molto dal paese di origine. Ci vuole
molto impegno anche con loro. E la loro
presenza in classe ci porta anche il problema di
come vengono visti dai compagni e, soprattutto,
dai genitori italiani dei compagni.
Quando, fuori dalla scuola, in televisione, dal
giornalaio o in pasticceria, sento dire frasi come
“Questi stranieri sono ladri, delinquenti,

118
spacciatori, dovrebbero rispedirli da dove sono
venuti”, mi arrabbio moltissimo. Mi arrabbio
perché non penso a generici “stranieri” che
possono essere delinquenti (come possono
esserlo gli italiani, del resto), penso subito ai
miei alunni: Amir, Fara, Nadira, Ivan, Igor,
Asad, Leonid, Alexandra, Nassor, Aziza, Borak,
Ana, Anila, Khristofor, Maxim, Dimitriu, Admir,
Medina, Liviu, Jamal, Zaklina.
Poi ci sono i ragazzi con disturbi neurologici e
deficit di apprendimento. Ma per loro ci vuole il
sostegno degli specialisti.
La maggior parte delle persone crede che ciò che
distingue un buon insegnante sia la sua
preparazione. Non è così.
Non sempre un insegnante preparato è un buon
insegnante. Per esserlo, l’insegnante deve,
soprattutto, saper gestire una classe, e suscitare
negli alunni la voglia di studiare. In assenza di
questi ultimi due aspetti, la sua preparazione è
quasi inutile. In fondo è meglio un insegnante
un po’ meno preparato, che sappia mantenere la
disciplina, che sappia farsi amare e far amare lo
studio, di un genio che non ha capacità
comunicative.
Le difficoltà maggiori, per un insegnante, sono i
ragazzi difficili e quelli che non studiano.

119
Un caso a parte: i ragazzi difficili

Tutti gli insegnanti hanno problemi con ragazzi


difficili, anche i più esperti. È molto difficile
gestirli senza rifiutarli.
Ci sono poi i ragazzi arrabbiati con tutta la
società, (e quindi anche con gli insegnanti e
spesso anche con i compagni) o tristi dentro,
perché hanno dei problemi, più o meno gravi.
Come possono studiare, essere sereni e quindi
comportarsi bene, per esempio, se a casa vivono
l’atmosfera delle famiglie in cui il padre ha
perso o sta per perdere il lavoro? O in quelle
dove si vive la violenza, anche solo verbale, di
chi si sta separando? Se capiamo perché si
comportano male, perché fanno i prepotenti,
forse riusciamo ad aiutarli. Se pensiamo che
sono solo ragazzi maleducati, per i quali non c’è
più nulla da fare, che “disturbano” i ragazzi
cosiddetti “normali”, e l’unica strategia che
troviamo è quella di disapprovarli con rabbia, di
isolarli, di punirli, non riusciremo mai né a
stabilire un rapporto positivo con loro né ad
aiutarli né a risolvere i problemi che il loro
comportamento scorretto crea nella classe. Non
immaginate neanche quanti problemi, quanti
dolori, quanto disagio, quante solitudini vedrete
nella vostra carriera. Dovremmo ignorarli? Se ad
uomo rimangono le dita schiacciate dalla

120
portiera dell’auto e si mette ad urlare per il
dolore, che cosa facciamo? Apriamo la portiera o
gli tappiamo la bocca perché ci disturbano le sue
urla?
L’adolescenza è un’età in cui anche problemi
oggettivamente poco importanti diventano
importantissimi, figuriamoci cosa accade con
quelli seri. Sono drammi che spesso contrastano
con la facciata allegra che, forse per istinto di
sopravvivenza, quei ragazzi e quelle ragazze
mostrano. E sono drammi che compromettono a
volte l’apprendimento, a volte il comportamento
o tutte e due le cose. Ne cito alcuni, per rendere
l’idea, oltre a quelli ai quali ho già fatto
riferimento: una bambina senza madre né padre
che aveva scoperto di avere il diabete e non
voleva accettarlo; una ragazza che era stata
violentata; una ragazza che non voleva avere la
pelle scura; una che non accettava di sembrare
un ragazzo; un bambino che rimaneva fuori
dalla scuola, quando ormai erano andati tutti
via, ad aspettare i genitori che si dimenticavano,
tutti e due, di venirlo a prendere; quello che
aveva un solo rene, quello che aveva avuto un
tumore, quello che aveva attacchi di panico; la
ragazza alla quale era morto il padre e dopo un
anno la madre; il ragazzo con i genitori separati
che si picchiavano fuori dalla scuola perché tutti
e due volevano portarlo a casa; un ragazzo
(parecchi) preso in giro perché effeminato;

121
ragazzi con padre o madre alcolisti o violenti;
abbandonati e rifiutati; adottati e restituiti;
ragazzi pochissimo intelligenti con genitori che
pretendevano da loro bei voti; ragazzi obesi che
si alzavano di notte, e mangiavano di nascosto
anche il cibo surgelato; ragazze che rasentavano
l’anoressia; e poi, tantissimi, troppo bassi,
troppo magri, con i denti troppo grandi, con le
orecchie troppo a sventola; con troppa pancia,
con troppo seno, con i capelli troppo lisci o
troppo ricci. E anche se non è vero, non sentono
ragioni e vivono giorni davvero difficili in una
società in cui l’aspetto è tutto.
Quando mi trovo in una classe in cui c’è un
ragazzo che ha dei comportamenti scorretti,
apparentemente assurdi, inspiegabili, non penso
mai che sia un maleducato, un asociale. Penso
immediatamente di trovarmi di fronte a un
enorme disagio.
Se in un’isola sperduta, ad un gruppo di
naufraghi è toccata la parte di isola che ha acqua
e cibo, e all’altra è toccata quella dove l’acqua e
il cibo scarseggiano, quelli che hanno tutto
vogliono vivere in pace e gli altri vogliono
combattere per migliorare la loro situazione.
Solo chi sta bene vuole la pace, perché vuole
lasciare le cose come stanno.

122
I ragazzi difficili, come tutte le persone in
difficoltà, non vogliono la pace, perché vogliono
la loro parte di felicità.
L’esperienza mi ha insegnato che quando un
ragazzo reagisce molto male, risponde
sgarbatamente, si dimostra strafottente e
aggressivo, non lo fa perché è “cattivo”, ma
perché ha paura. Un ragazzo che ha paura
diventa aggressivo, ostenta menefreghismo,
disprezzo, e, soprattutto, ci tiene a dimostrare
che niente gli fa paura. In realtà, è come un
animale spaventato.
Un ragazzo che soffre, invece, diventa cattivo
con gli altri, picchia i più deboli, li deride, vuole
fare pagare a qualcuno la sua sfortuna e la sua
sofferenza. Vuole fare agli altri quello che di
male capita a lui. Non se ne accorge. Lo fa
perché è un animale ferito. Non li giustifico, non
li lascio fare, cerco di capire che si tratta di
ragazzi che vivono situazioni di degrado o di
violenza e tento di aiutarli ad imparare un
comportamento corretto, facendo loro vedere
che esiste un’altra realtà della quale possono far
parte e dove non tutti lo trattano male.
Ci sono delle ragazze che ridono sguaiatamente
di tutto, si comportano malissimo a scuola.
Spesso sono decisamente sovrappeso, ridono in
modo esagerato, sempre sopra le righe, perché ci
tengono a dimostrarsi sempre allegre, come per

123
dire “Sono grassa, ma non me ne importa nulla”.
Sono generose con gli amici, ai quali regalano in
continuazione qualcosa: caramelle, dolci,
oggettini. Sono ragazze, in realtà, che soffrono
molto, che non hanno nessuna autostima e
cercano disperatamente di fare in modo che
nessuno se ne accorga. L’unica loro speranza,
dal loro punto di vista, è quella di essere
accettate per la loro simpatia, per la loro allegria.
Non sempre chi ride è felice.
I ragazzi che sono aggressivi o che soffrono
perché hanno paura devono essere aiutati.
Bisogna cercare di capire il motivo del disagio e
trovare delle strategie. È vero che gli altri, in
classe con loro, lavorano e studiano con più
fatica, a causa loro, ma credo che non si possano
abbandonare i ragazzi che hanno già preso tanti
calci dalla vita. Dobbiamo trovare come aiutarli.
Di solito, quindi, i ragazzi si comportano male
involontariamente, perché non sanno e non
riescono a tenere un comportamento corretto.
Nel caso di un ragazzo che lo fa apposta, e in
modo consapevole, bisogna usare molte
strategie, e non è detto che funzionino, se il suo
rifiuto è molto forte e il tempo per recuperarlo è
poco.
Possono servire queste osservazioni:
- tutti i ragazzi che si comportano male hanno
dei grossi problemi. Problemi enormi e di tutti i

124
tipi: problemi con i genitori, problemi
economici, vissuti di violenza o di abbandono o
di emarginazione. Sono maleducati, sgarbati,
strafottenti, violenti perché la vita li ha resi tali.
Verrebbe voglia di lasciarli al loro destino
perché spesso sono sgradevoli e molto difficili
da accettare, ma pensate a quanto è gratificante
riuscire ad entrare in quella scorza nera e
portare un po’ di rosa.- Voi e tutti gli insegnanti
siete per lui nemici. Ma lo dovete capire.
- Le punizioni e note non lo interessano, perché
non gli interessa la scuola. Sarebbe come se a me
fosse impedito di giocare a calcio. Non mi
interessa.
Quando vedete un ragazzo così dovete subito
guardarlo come una persona in difficoltà che ha
bisogno di aiuto, e non come un ragazzo che vi
sta dando noia e vi rende difficile la lezione (e
un po’ anche la vita). Se lo guardate con gli occhi
di chi lo rifiuta (quelli che vede sempre) non
avete speranza di arrivare a lui per farvi
ascoltare.
Un alunno che si comporta male non è un
nemico da combattere, ma un uccellino sperduto
o ferito da soccorrere.
Non dovete mai perdere la pazienza, e, se la
perdete, dovete assolutamente fare in modo che
non si veda: chi dà in escandescenze, insieme
alla pazienza ha perso la partita.

125
Quando vi rivolgete a lui trattatelo sempre con
estrema gentilezza, usando un tono di voce
dolce, ignorando il suo atteggiamento. Sarà
diffidente e sgarbato, perché non è abituato, ma
vedrete che lo apprezzerà. È difficile essere
sgarbato a lungo con chi ti tratta bene.
I ragazzi, presi da soli sono molto diversi
rispetto a quando sono in classe. Se nessuno li
vede non hanno bisogno di mostrarsi ribelli o
arroganti. Avete più possibilità di parlare con
loro a tu per tu fuori dalla classe. State attenti:
non rimanete mai soli con lui in un’aula, perché
potrebbe venirgli l’idea di farvela pagare
inventandosi che lo avete offeso, o peggio.
Un ragazzo che si sente rifiutato e ferito la fa
pagare a tutti quelli che incontra, anche se non
c’entrano nulla. Forse lo faremmo anche noi.
Un ragazzo che in casa e nella vita ha preso solo
calci si aspetta calci da tutti e quindi cerca di
darli per primo. È un po’ come quando un cane
è abituato a prendere calci. Se ti avvicini si
comporta come se anche tu stessi per picchiarlo.
Lo scopo della scuola, in casi come questo, non è
l’insegnamento della grammatica o della
letteratura, o della matematica. Prima si deve
recuperare il ragazzo dal punto di vista umano.
Tutti hanno dei pregi, ma i difetti si vedono
molto di più. Cercate di trovare i suoi pregi.

126
Ci sono buone probabilità che, anche
impegnandovi molto, ne usciate sconfitti, perché
non tutti i colleghi si impegnano in questo
senso; altri, anzi, lo offendono e lo rifiutano. Ma
se volete essere bravi insegnanti dovete provare.
Può aiutarvi qualche consiglio:
chiamate fuori dall’aula il ragazzo che dimostra
un atteggiamento fuori dalle regole e mettete le
carte in tavola: ditegli che lo volete aiutare.
Chiedetegli che cosa gli hanno fatto che lo porti
a tenere un atteggiamento come quello che
mostra in classe. Ditegli che sapete che ha dei
pregi. Fategli osservare che voi con lui siete
sempre gentili e che non è giusto che lui la faccia
pagare a voi per una colpa che non avete.
Chiedetegli che cosa potete fare per lui, ma
precisate che in nessun modo accetterete da
parte sua che manchi di rispetto a voi o ad altri.
Spiegategli che per voi insegnanti sospenderlo
continuamente e bocciarlo è molto più facile che
cercare di convincerlo a comportarsi bene. Ma
ditegli che non volete farlo, perché lo volete
aiutare, a meno che lui non vi costringa a farlo.
Concentratevi sul fatto che gli altri lo trovano un
ragazzo coraggioso, capace di dire quello che
tutti o quasi vorrebbero dire ai professori: “vai a
quel paese”. Dovete assolutamente
ridimensionarlo ai loro occhi, dimostrando che
siete più forti. Ma non con le note: quella è una

127
vigliaccata, ai loro occhi. Dovete vincerlo con la
psicologia. Ricordate che lui è pur sempre un
ragazzo.
In classe non accettate la minima mancanza di
rispetto da parte sua. Se manca di rispetto a voi
o ad altri non lasciate perdere sperando che
smetta: non smetterà. Anzi. Quindi: non fate
lezione ma passate tutta l’ora a dargli fastidio,
cercando di prendere voi le redini del suo gioco.
Se lui canta, ordinate a tutti di cantare. Se si alza,
ordinate a tutti di alzarsi. Naturalmente, non
fate cantare tutti come ubriachi all'osteria. Se si
alza non fate fare la "ola" come allo stadio. Fate
tutto in modo da metterlo in difficoltà, in modo
che con la sua provocazione non ottenga l'effetto
che desidera. L'effetto che lui desidera in quel
momento è quello di suscitare la vostra reazione
e di mostrare ai compagni il suo coraggio. La
vostra reazione può suscitarla se dà uno schiaffo
ad un compagno. Se tiene un comportamento
sciocco trattatelo come un bambino che
accontentate perché è piccolo. Dovete
dimostrare anche voi agli altri di essere
coraggiosi e, soprattutto, più forti di lui. Non
dovete dimenticare che ogni ragazzo fa parte di
una classe.
Se si sdraia in terra, ordinate a lui di rimanere a
terra. Se si alza, avete vinto perché volevate farlo
alzare, e se rimane a terra avete vinto lo stesso,
perché ha eseguito il vostro ordine. Se dice

128
qualcosa di scorretto, chiedete a tutti di
guardarlo. Rendete esplicito quello che sta
facendo, in modo che se lui voleva che i
compagni ridessero di voi, la situazione si
capovolga e sia lui ad essere deriso. In pratica,
dovete cercare di usare la sua mossa per farlo
cadere. Come nello judo. Deve capire che voi
siete l’insegnante. Lo dovete fare, con calma,
senza cattiveria. Non è per vendetta che vi state
comportando in quel modo, ma perché, in quel
momento è l’unica soluzione per non perdere la
vostra credibilità di fronte alla classe. Lui e tutta
la classe devono percepire che lo state aiutando
a capire. Si arrabbierà ancora di più con voi.
Resistete.
Non sono soltanto questi i ragazzi che vi
impegneranno di più: troverete sul vostro
cammino di insegnanti, ragazzi con disturbi
neurologici, con deficit di apprendimento, con
Disturbo Ossessivo Compulsivo e Sindrome da
deficit di attenzione e iperattività, affetti
dislessia, disgrafia, balbuzie, problemi di
mancinismo e legati alla brutta grafia ecc. ecc.
Dovrete studiare bene questi problemi, per
evitare di rimproverare un alunno per un
comportamento, che è soltanto il frutto di un
problema, e fare così, senza accorgercene, delle
gravi ingiustizie ecc.
Dovrete cercare di aiutarli.

129
Altri alunni difficili: quelli che non studiano.

Uno degli aspetti più frustranti


dell’insegnamento consiste nel fatto che spesso
si insegna con impegno, ma non si riesce a far
studiare gli alunni.
La maggior parte delle persone (compresi gli
insegnanti, anche quelli che scrivono libri)
credono che basti entrare, spiegare ed essere
chiari, per ottenere dei risultati.
Sarebbe bello, ma non è vero.
Un insegnante può essere molto preparato,
molto chiaro nelle spiegazioni, molto
disponibile, e riuscire soltanto ad ottenere
l’attenzione degli alunni. Ma se l’alunno sta
attento a scuola, ma non studia, i risultati
saranno probabilmente negativi.
Bisogna riflettere molto sui motivi per cui un
alunno non studia.
Prima di tutto: un alunno non studia, quando
non capisce perché deve studiare. Qualunque
cosa facciate per obbligarlo a studiare è
destinata all’insuccesso o ad un successo solo
temporaneo, se lui non individua chiaramente
uno scopo utile per lui, che vada al di là del
voto.

130
Moltissimi insegnanti usano le minacce e le
punizioni. Lo stesso fanno i genitori.
La frase dei genitori “Abbiamo provato di tutto.
A togliergli il PC, a metterlo in punizione, a
togliergli il calcio o la danza, ma non studia lo
stesso. Che cosa dobbiamo fare?” è un classico
delle ore di ricevimento.
Eppure, nonostante continuiamo a sentirla, non
capiamo che non serve e proviamo anche noi la
linea dura.
Oppure, un po’ meno frequentemente, i genitori
raccontano di premi e regali che non danno
risultato.
E anche noi, a volte, proviamo con i voti regalati,
“per premiare la sua buona volontà”, anche se è
solo occasionale.
Forse è meglio riflettere sul perché un ragazzo –
ma è un concetto che vale a tutte le età- studia, o
si impegna.
Qual è la motivazione allo studio più forte?
I concetti sono, in fondo, molto semplici.
Un ragazzo studia davvero soltanto se vuole
studiare.
Per imparare bisogna capire: se non capisce non
impara, si sente frustrato e non studia.
Per capire bisogna che l’alunno voglia capire. Se
non vuole non capisce e non studia.

131
Perché l’alunno voglia capire bisogna che sia
interessato. Se non è interessato non studia.
Un ragazzo studia quando è lui a volerlo. E per
volerlo deve sentire che quella di studiare è una
sua decisione, non un obbligo. Può capitare
addirittura che un ragazzo che già studia, smetta
di farlo se percepisce che l’insegnante o il
genitore gli fanno capire che sono convinti del
fatto che sono loro che lo obbligano.
Il discorso è molto complesso perché le variabili
sono molte. Prima di tutto un ragazzo studia
quando la famiglia lo ha educato ad osservare, a
riflettere, ad interessarsi delle cose, e quando ha
suscitato in lui, fin da piccolo, l’amore per il
sapere, permettendogli di avere un ruolo attivo
nella ricerca, e nella scoperta del mondo.
Un ragazzo non studia, quando la famiglia lo ha
abituato a considerare perfettamente inutile
conoscere tutto ciò che non ha un’utilità
immediata, o gli ha impedito di scoprire da
solo il mondo che lo circondava,
somministrandogli tutte le soluzioni già
confezionate, escludendolo da qualsiasi
osservazione autonoma, e convincendolo, così,
del fatto che non è compito suo sforzarsi di
capire, e quindi di studiare.
Un ragazzo non studia quando è stato abituato
ad avere tutto senza dare nulla in cambio,
perché è convinto del fatto che non serve faticare

132
per ottenere qualcosa, perché quel qualcosa
arriverà da solo, come è sempre accaduto.
Quindi non sa sopportare la fatica dello studio.
Un ragazzo non studia quando è vissuto sempre
in un ambiente in cui non si dà alcun valore allo
studio, e quindi, per appartenere al gruppo, non
ha alcuna necessità di studiare. Anzi, a volte lo
studio può addirittura essere qualcosa di cui
vergognarsi.
Un ragazzo desidera avere le competenze che
vengono apprezzate nell’ambiente in cui vive: se
vive in un ambiente in cui viene apprezzata
l’abilità nello scassinare una serratura, si
applicherà per avere quella capacità; se nel suo
ambiente viene ammirato chi rutta più forte,
vorrà imparare a ruttare forte.
Ma un ragazzo non studia neppure quando è
vissuto in un ambiente in cui i genitori erano
bravi a scuola, il fratello maggiore è molto
bravo, e lui non si sente all’altezza delle
aspettative e rinuncia in partenza.
Un ragazzo studia quando vive in un ambiente
in cui chi ha studiato viene invidiato e
ammirato; in una famiglia in cui i genitori lo
ammirano per quello che sa, perché è superiore
a quello che sanno loro, e lo interpellano per
avere da lui un aiuto su qualcosa di “culturale”.
Per lui, studiare significa essere ammirato e
avere successo nel suo ambiente.

133
Un ragazzo non studia (e non sta attento e
disturba la lezione) quando non capisce: se sono
troppe le cose che non capisce, rinuncia del
tutto. Non si rende conto neppure lui del perché
non ascolta e non studia, e, quando gli diciamo
che deve studiare, ostenta disinteresse o ci
guarda con la faccia di chi prende delle
bastonate e non sa perché.
Cercare di spingere un alunno a studiare
facendo leva sulla vergogna, sulla competizione,
sulla paura non può che avere – se lo ha – un
risultato solo temporaneo.
Atteggiamenti di semplice imposizione e di
punizione molto spesso ottengono il risultato di
peggiorare le cose, perché il ragazzo lotterà per
far valere il suo diritto istintivo a decidere della
sua vita. La nostra esperienza di adulti non si
può semplicemente imporre e sostituire alla sua.
Se si è convinti, ragazzi e adulti, che quello che
si sta facendo è una decisione personale e ha
un’utilità ben definita, ci si impegna.
Il ragazzo (ma anche l’adulto che impara) deve
trovare un ambiente che favorisca il suo
desiderio naturale di imparare, e non, come
spesso accade, atteggiamenti di rifiuto, di
condizionamento, e imposizioni, ostacoli alla
sua personalità.
Si pretende che il ragazzo si adegui ai bisogni, ai
tempi e alle richieste degli altri.

134
Gli incoraggiamenti sono molto più efficaci dei
rimproveri e delle minacce. Ma nella scuola
l’insegnante, dovendo parlare in presenza di
molti altri alunni, trova spesso difficile
incoraggiare un ragazzo che i compagni vedono
spesso non studiare e comportarsi male.
Se si presenta a un alunno realtà e mentalità
diverse da quelle in cui vive, bisognerebbe
lasciargli la possibilità di decidere se accettarle o
rifiutarle. Ma nella Scuola italiana, com’è
strutturata, dove è necessario uniformare i
comportamenti per poter gestire la classe, non è
quasi mai possibile.
Conseguenza di queste riflessioni è la
consapevolezza che riuscire ad insegnare ad
amare lo studio a tutti gli alunni è quasi
un’utopia.
Allora, come si fa? Purtroppo la Scuola, come è
strutturata in Italia (oggi, ma anche in passato) e
la società (oggi più che mai) non permettono un
reale recupero delle differenze fra gli alunni:
bisognerebbe che le classi fossero composte da
pochissimi alunni, che le risorse per recuperare
le differenze culturali fossero molto maggiori,
che gli insegnanti fossero preparati a capire e ad
affrontare queste difficoltà degli alunni, che ci
fossero dei corsi anche per le famiglie, perché
imparassero anche loro a rendersi conto delle

135
difficoltà e delle necessità culturali dei figli. Non
c’è quasi nulla di tutto questo.
Bisogna cercare, quindi, di insegnare agli alunni
quali sono i comportamenti considerati positivi
nella scuola (rispetto delle regole, attenzione in
classe e impegno nello studio a casa) in modo
tale che diventi per loro importante decidere di
farli propri per appartenere alla comunità degli
insegnanti e dei compagni di scuola.
Bisogna cercare di essere stimati, come
insegnanti, in modo tale da far desiderare agli
alunni di guadagnare la nostra fiducia,
comportandosi correttamente.
Solo quando l’alunno vuole imparare può
resistere agli ostacoli che gli si presentano: i
brutti volti, i rimproveri, le frustrazioni.
Una cosa molto importante che possiamo fare è
cercare di impostare il nostro insegnamento in
modo da rendere gli alunni autonomi nello
studio, per permettere loro di sentire di avere
una parte attiva nel processo di apprendimento.
Perché l’alunno sia interessato deve capire che
cosa sta studiando e perché lo sta studiando.
Perché l’alunno capisca che cosa sta studiando e
perché lo sta studiando l’insegnante deve
insegnargli un metodo di lavoro e di studio che
lo porti a individuare sempre che cosa studia e
perché lo studia.

136
Quando si insegna c’è una persona che deve
trasmettere agli altri quello che sa. Se lo
trasmette in un certo modo gli alunni non lo
ascoltano. O dimenticano presto quello che
hanno sentito. Se lo trasmette in un altro modo
lo ascoltano e ricordano. Cioè imparano.
È il modo di insegnare che fa la differenza.
Bisogna insegnare in modo da creare interesse.
Bisogna tenere presente che per studiare e per
capire bisogna voler capire.
Si deve suscitare il bisogno di sapere.
Si deve suscitare la necessità di imparare.
Si deve far percepire che c’è una utilità in quello
che fanno (dire loro: quello che stiamo per fare
oggi vi servirà…).
Si deve suggerire che il gioco vale la candela.
Si deve motivare all’ascolto e allo studio,
dimostrando che lo scopo dello studio è il
processo di apprendimento e non soltanto i
contenuti.
Si deve trovare il modo di far capire agli alunni
che chi non sa, non sa scegliere, e che solo le
conoscenze li rendono liberi di scegliere se
accettare o meno i vari aspetti della vita.
Ogni caso è un caso a sé: ogni insegnante deve
trovare come farlo. Una volta che si capisce il
concetto, diventa un po’ più facile.

137
Come risolvere il problema del bullismo.
Si è parlato fino alla nausea dei bulli e del
bullismo. Ai bulli sono stati dedicati tante volte
titoli in prima pagina.
Uno per tutti:
“Galleggiante in gola: ‘Ingoia o sei una checca’.
Episodio di bullismo o incidente? … Inchiesta
interna della scuola. Gli altri studenti raccontano
che è stato un gioco”.
I ragazzi, oggi, fanno di tutto e poi, se li
rimproveri dichiarano, stupiti, “ma era uno
scherzo!”. Anche il bullismo, dunque, appare
come un gioco agli occhi dei bulli.
Come se fosse un fenomeno molto chiaro e
semplice, sul bullismo tutti hanno le idee chiare
su come risolvere il problema. Per esempio, in
internet, nei forum sul bullismo si possono
leggere interventi come questi :
“ Ai nostri giovani pargoli altro che merendine e
play station; carne cruda e scudisciate col nervo
di bue...”
“La colpa è della televisione che distrugge la
capacità cerebrale di sapere ciò che è meglio da
ciò che è peggio […] il bambino vuole sempre di
più, e dopo che ha tutti i beni materiali che
desidera decide di mettere sotto il compagno
più debole. Ci vorrebbero più schiaffi e meno
cellulari.”

138
“Mi rincresce molto dover sostenere una tesi del
genere, ma credo che si dovrebbe ritornare alle
care vecchie punizioni di una volta: bacchettate
sulle mani, in ginocchio sui ceci, e roba del
genere.”
“ I buoni metodi antichi sono sempre migliori di
tutte le fandonie che raccontano gli psicologi
infantili.
“ Violenza nelle scuole: quali soluzioni? Il lavoro
in miniera! Pene severe ci vogliono, ma non solo
per questi balordi anche i genitori andrebbero
puniti , perché i genitori come principio hanno il
sacrosanto dovere di insegnare ai propri figli a
rispettare il prossimo e non ci sono scusanti che
tengano.
“Creare una classe bullista e metterli tutti lì.
Lezione affidata a maestro super bullo.
Riprendere con videotelefonino e farlo vedere ai
non bulli.”
Alla violenza dei bulli si risponde con la
violenza.
Li abituiamo ad assistere alla violenza e a
giocare a videogiochi violenti e poi ci stupiamo
se considerano la violenza "un gioco" o “uno
scherzo”. È come se addestrassimo ai
combattimenti dei pitbull e poi li picchiassimo
perché sono diventati aggressivi.

139
Chi cerca di sconfiggere il bullismo pensa di
farlo o con la semplice repressione o spiegando
ai bulli che non devono essere bulli. Che si tratta
di un’assurdità appare chiaro se si riflette sulla
definizione di “bullismo”. Definiamo il
fenomeno, nel modo più semplice possibile: “il
bullismo è il fenomeno che si verifica quando
uno o più ragazzi picchiano, deridono, e
perseguitano un compagno, per divertimento o
per motivi apparentemente insignificanti”.
Un bullo non è un vandalo, non è un teppista,
non è un maleducato, non è un ragazzo
svogliato. Anche se alla radice dei
comportamenti asociali c’è fondamentalmente lo
stesso disagio.
Il bullo picchia, minaccia, perseguita, estorce,
tortura, per dimostrare di essere forte e per
nascondere le sue debolezze. Sceglie le vittime
fra i compagni più deboli, perché deve essere
sicuro di vedere la paura nei loro occhi. Paura
che funziona come adrenalina, per lui. Deve
avere un seguito di deboli che lo temono, e che
forse, a volte, lo disapprovano, ma che scelgono
la strada più facile dell’assecondarlo per evitare
grane, perché vivono di luce riflessa, “sono
qualcuno” perché sono amici del bullo. E
quando un bullo incontra un altro bullo,
avvengono gli scontri fra bande.

140
Ora, un comportamento che ha radici profonde
come quello del bullo, come si può pensare di
risolverlo con azioni che agiscono a livello
superficiale come i manifestini o gli opuscoli
contro il bullismo? E poi: a chi sono diretti? Ai
bulli, che leggendoli si pentono? Alle potenziali
vittime che devono non temerlo più, o devono
denunciarli, vincendo la paura, perché un
adulto, per loro “il nemico”, ha detto loro di
farlo? Quanto è probabile che i seguaci del bullo
o il bullo stesso si mettano a leggere con
interesse degli opuscoli sul bullismo? Le vittime
dei bulli, che giorno dopo giorno vedono che il
bullo continua nei suoi comportamenti asociali e
nessuno riesce impedirglielo, dovrebbero non
temere le sue rappresaglie e trovare il coraggio
di denunciarlo o di affrontarlo?
Cioè: se ragazzini indifesi di dodici, ma anche
ragazzi di quindici o sedici anni, leggono
manifestini e opuscoli, come per incanto, andrà
via la paura, verrà avanti il coraggio, e il
bullismo sarà sconfitto? Allora, secondo questo
sistema, contro la mafia può bastare mettere dei
manifesti che invitino la gente a denunciare e a
non avere paura delle minacce di morte? A me
non sembra davvero così facile. Ci vuole ben
altro.
Come possiamo fare ai ragazzi una lezione sul
bullismo?

141
La risposta è semplice: non possiamo farla. Né ai
bulli né alle vittime dei bulli né agli ammiratori
dei bulli. I bulli non la ascolterebbero o si
sentirebbero più importanti. Le vittime
disprezzano il bullo, ma se non ne avessero
paura non si porrebbe il problema. Gli
ammiratori dei bulli li ammirano anche di più.
Dobbiamo approfondire i motivi per cui il bullo
è diventato bullo e, quando lo abbiamo scoperto,
tentare di rimuovere le cause, anche se alle
medie è già una mossa molto tardiva.
Chiediamoci perché mai un ragazzo si diverte
tanto ad umiliare, picchiare, perseguitare un
altro ragazzo. “Perché è cattivo”? Non è
“cattivo”. Il vandalo fa alle cose ciò che il bullo
fa alle persone. Ci chiediamo sempre che gusto
ci provano. Perché il vandalo se la prende con
un oggetto tanto da danneggiarlo, da volerlo
vedere rotto? In realtà ce l’ha con qualcuno, e
quell’oggetto è importante per la persona che lui
considera “il nemico”. Vuol danneggiare la
persona e gli rompe l’oggetto che gli è caro. Ride
della disperazione di chi trova rigata la
macchina; vuole far vedere alle persone
“perbene”, quelle che lo disapprovano, che lui
“se ne frega altamente” di loro e delle loro cose.
Vuole danneggiare il ricco, perché lui non lo è, e
gli spacca la macchina; vuole danneggiare tutto
il resto della società, che gli sembra che non lo
aiuti, e spacca qualunque cosa: giardini, fiori,

142
aiuole, statue; danneggia sedili del treno o del
pullman, perché non si sente parte della società,
ma escluso, emarginato dalla società; non sente
il treno “roba sua”; vuole danneggiare gli
insegnanti e spacca gli oggetti della scuola; il
bullo ce l’ha con i compagni studiosi, che vanno
a casa e hanno una vita regolare senza
problemi? Rovina i loro libri, nasconde o rompe
i loro astucci, o i loro occhiali. I bulli e i vandali
sono ragazzi sofferenti, resi duri e crudeli dalla
vita, nel corso degli anni. Come si può pensare
di “smontare il bullo” con qualche lezione,
qualche opuscolo o con dei manifesti? E come si
può pensare di risolvere il problema
semplicemente ripristinando il voto di condotta?
Come si può credere che i bulli temano il 5 in
condotta o la bocciatura? Le soluzioni sono
troppo semplici e troppo semplicistiche. Al
massimo possiamo mettere una toppa,
assegnando ai ragazzi indisciplinati delle
sanzioni disciplinari; può servire ristabilire un
minimo di ordine, cosa assolutamente
necessaria. Non certo a risolvere il problema. C’è
tanto da lavorare.
La lezione sul bullismo è questa: bisogna capire
il bullo, individuare il suo disagio e tentare di
farlo sentire parte della società in cui vive;
dobbiamo trovare un modo perché “senta” che
la società lo accetta e lo aiuta. Certo, non
limitandosi a dire “non si devono strappare le

143
azalee delle aiuole perché sono di tutti”. Questa
frase non è convincente, perché in realtà la
società rifiuta, di fatto, un certo tipo di persona.
Non mette i fiori per loro. Per loro, in realtà, c’è
poco. Non è vero che le azalee sono di tutti. Le
aiuole sono di quelli che sanno apprezzare i
fiori; di quelli che hanno un lavoro e nel tempo
libero portano i bambini a giocare ai giardini. Le
azalee non sono dei disperati, dei disoccupati,
degli emarginati.
Non è vero che la Scuola è di tutti, i banchi sono
di tutti. Per i vandali e per i bulli la Scuola
finisce quasi subito. Quando vanno a casa, di
solito, non hanno genitori festosi che chiedono
loro “Come è andata la scuola, tesoro?”; i libri
non sono “importanti”, per loro, perché in casa
loro non ci sono libri e non ci saranno mai;
l’educazione non importa nulla, perché a loro
nessuno l’ha insegnata, e conoscere le buone
maniere, per la vita che faranno, a loro non
servirà mai. Ma loro, i vandali, i bulli, lo sanno
che il mondo “degli altri” è migliore, più sereno,
più bello. Non capiscono che cosa hanno fatto di
male per essere condannati, già da bambini, a
non entrarci mai. Sono arrabbiati con il mondo
“degli altri” e si vendicano, gli uni, contro gli
oggetti, gli altri contro le persone. Spesso quei
ragazzi sono figli di bulli e di vandali ai quali la
società dei consumi continua a sbandierare un
benessere, reale o fittizio, al quale loro non

144
riescono ad accedere. Stessa rabbia, stesso
rancore di quei genitori e di quei figli.
La società dovrebbe occuparsi di più dei disagi.
Invece molti vogliono soltanto “che la
smettano”, che vengano puniti. Se i bulli, i
vandali, e tutte le persone svantaggiate fossero
cani, la società li prenderebbe a calci. Ma ci sono
tante persone alle quali la Vita, fin dalla nascita,
dà calci dalla mattina alla sera. Darne altri non è
una soluzione intelligente. Naturalmente, è una
questione anche politica e dovrebbe esistere un
vero dibattito. Ma non c’è.
Come si risolve il problema del bullismo nelle
scuole? Si cambia la società, smettendo di
proporre modelli - bulli (utopia, in questo
contesto socio-politico), si cambia l’ottica che
usiamo per guardare i ragazzi difficili e i bulli e,
soprattutto, si assegnano alle scuole molte più
risorse per recuperare i ragazzi in difficoltà.

145
Come si danno i voti (e come non si danno)

I voti sono lo strumento che l’insegnante


possiede per valutare gli alunni. E sono il mezzo
principale che hanno alunni e genitori per
valutare i progressi.
Di solito viene data moltissima importanza ai
voti. Anche dal Ministero della Pubblica
Istruzione.
Il motivo per cui i voti sono così importanti
nella scuola è che essi rappresentano per
alcuni insegnanti un'arma da sbandierare
all'occorrenza quando, in assenza di carisma o
di autorevolezza, non sanno più come tenere
la disciplina. E' un po' come il discorso dei
libri di testo: ci sono insegnanti che, se buttati
senza preavviso un paio d'ore in una classe,
vengono presi dal panico e protestano: " Due
ore? e che cosa faccio? non si può! Non hanno
neanche il libro! All'occorrenza si dovrebbe
poter fare lezione senza voti e senza libri. O
no?
Personalmente sono convinta del fatto che
nella scuola, soprattutto in quella dell’obbligo,
i voti servono a poco (o a nulla). Prendiamo i
voti non numerici che c’erano. Quelli erano
ancora più assurdi dei voti in cifre.
‘Insufficiente’(che copriva la gamma dall’1 al
5): era l’unico che ti condannava. Si fa per dire
perché diventava quasi sempre ‘suff.’

146
Poi c’era ‘sufficiente’ che diventava ‘buono’
perché, “se abbiamo dato ‘sufficiente’ a Tizio,
a Caio non possiamo dare lo stesso voto e
quindi alziamo a ‘buono’”. E non è che ci si
passava così facilmente. C’era il‘quasi
sufficiente’, ‘quasi sufficiente ’, il ‘quasi
sufficiente’ e, salendo un po’, il ‘sufficiente ’, il
‘sufficiente ’ (e si arrivava anche ai tre meno),
per rimanere abbarbicati a quel ‘sufficiente’
che permetteva poi di promuovere senza
problemi. Il capolavoro dell’assurdo era il
‘distinto’. Distinto da che cosa? Nessuno l’ha
mai capito davvero. Se ‘buono’ era più o meno
7, ‘distinto’ era un non ben precisato quasi 8,
quasi 9. Era un “quasi”, nulla di definito.
Quello che diventava ‘Ottimo’ se a Sempronio
avevamo dato ‘distinto’ e Mevio meritava un
po’ di più. Con le cifre non è cambiato molto,
se non la possibilità di sbizzarrirsi. Da 1 a 10.
Ma, in realtà 1 e 2 non si possono dare perché
sono umilianti e perciò si comincia da 3.
Anche se il ragazzo fa scena muta o consegna
in bianco. E anche il 10 crea dei problemi di
coscienza del tipo “ma posso dare 10? 10 è la
perfezione. Non gli ho chiesto tutto…Mah!
Facciamo 9, sarà meglio!”. La gamma è più
vasta, ma il valore è discutibile perché per lo
stesso compito Tizio dà 3, Caio 4, Sempronio
4½, Mevio 5, Filano 5½ e Calpurnio, il più
buono, tocca la sufficienza con un bel 6-.
Oltre agli abbinamenti dei +, dei -, dei = ,

147
esiste , per i più indecisi, il “fra ”., detto anche
“dal”: 5/6 che suona “fra il 5 e il 6” oppure
“dal 5 al 6”. Il voto si colloca perciò in un
luogo misterioso che può essere inteso (e
intendetelo un po’ come volete) o vicino al 5 o
vicino al 6. Per chi non ha ancora deciso è una
soluzione fantastica, che serve a prendere
tempo fino agli scrutini. È ovvio che per il
giorno degli scrutini un voto bisogna darlo. E,
soprattutto, bisogna decidere se promuovere il
ragazzo o no. Nella scuola dell’obbligo decide
il Consiglio di classe. Se si dice che i ragazzi
devono avere tutte sufficienze non c’è
problema: si cambiano i voti e si trasformano
in 6. Anche se sono 4? Anche. Quanti?
Massimo per due materie. E se le materie
insufficienti sono tre? Niente paura: c’è il ‘voto
di consiglio ’. E poi , anche se si facesse la
media dei voti, verrebbe fuori, per esempio,
questo: 4 di italiano, 5 di storia, 5 di geografia,
4 di inglese, 4 di spagnolo, 4 di matematica, 5
di scienze, 7 di tecnologia, 9 di musica, 9
artistica, 10 di ginnastica, 9 di condotta: media:
più della sufficienza. Scuola dell’obbligo.
Tutte le materie sono identiche. Un bravo
artista/ginnasta che si comporta bene
dovrebbe conoscere l'ortografia, avere qualche
nozione culturale, saper fare di conto o no?
Evidentemente no. Ma poi ci sono le
motivazioni che spingono verso la
promozione o verso la bocciatura. Importanti

148
motivazioni: 1. promuoviamolo, non lo voglio
più vedere, 2. se lo bocciamo poi va a finire in
classe con Tizio ed è un disastro; 3. ma l'avete
vista la mamma? con una mamma così che
cosa poteva fare?; 4. è disturbato; 5. tanto non
ne ha voglia, è inutile bocciarlo; 6.tanto non
capisce, è inutile bocciarlo; 7. ha rotto le
scatole tutto l’anno: una bocciatura gli serve di
lezione; 8. mandiamolo avanti, il prossimo
anno vediamo; 9. se bocciamo lui dobbiamo
bocciare anche Tizio; 10. se promuoviamo lui
allora promuoviamo anche Caio.
Gli insegnanti giovani vorrebbero spesso fare la
domanda “Come si danno i voti?”, ma,
vergognandosi parecchio, perché sono convinti
che dovrebbero saperlo fare, non la pongono
quasi mai. La grande maggioranza degli
insegnanti con più esperienza, poi, mai e poi
mai ammetterebbe di avere dei dubbi su come
valutare gli alunni. Invece avere dei dubbi è
l’unica cosa che ha un senso.

Secondo me i giovani insegnanti non


dovrebbero vergognarsi. Dovrebbero farlo quelli
che danno i voti senza porsi nessun problema.

Ci sono molti libri sulla valutazione, ma non


credo che leggerli serva a molto. Soprattutto
perché, quasi sempre, sono scritti da persone che
non hanno mai insegnato. Bisognerebbe, invece,

149
rifletterci continuamente, e tanto, tutti, sul
problema del voto.

Il voto è solo un numero che viene assegnato al


lavoro di uno studente, e che dovrebbe essere la
certificazione del livello di conoscenze e
competenze raggiunte. Il voto più importante è
il 6, perché sul 6 regoliamo tutti gli altri voti, con
il criterio di “un po’ di più, di più, molto di più”
(o di meno, ovviamente)

Quando diamo un valore al 6, facciamo un


grosso errore: lo riempiamo della nostra idea di
“sufficienza”.

Quello di cui riempiamo il 6, però, non è uguale


per tutti: per me significa una cosa, per il mio
collega un’altra, per l’alunno, per il padre, per la
madre vuol dire qualcos’altro ancora. Anche i
compagni interpretano in modo diverso il voto
che hai preso: quello che studia e va bene a
scuola lo interpreta come “che voto scarso!”, e
per quello che va male a scuola vuol dire “bel
voto!”. Dunque non significa nulla di preciso e
oggettivo. Uno, nessuno e centomila: il voto è
uno, ma ha centomila significati e quindi,
nessun vero significato.

Chi ci dice che la nostra idea di “sufficienza” sia


giusta? E chi ci dice che la nostra idea di
“eccellenza” sia corretta?

150
Inoltre, il valore del voto cambia, non solo da
insegnante a insegnante, da tipo di scuola a tipo
di scuola, ma anche da un ordine di scuola ad
un altro. Prendiamo la scuola media (da un po’
di tempo chiamata “scuola secondaria di primo
grado).

Io, insegnante, do 6 e lo considero un


rimprovero, perché voglio fare capire al ragazzo
che quello che fa non basta. Ma per un altro
alunno posso considerarlo un premio, in
considerazione del fatto che ha già dato il
massimo.

Tu genitore consideri il 6 una soddisfazione,


perché tu da ragazzo prendevi sempre 4.
Oppure un voto misero, perché pensi che “solo
la sufficienza” sia troppo poco. E così via.

“Sa da 6”, “Sa da 7” sono espressioni assurde.


Ma che cosa significa “sapere da 6”, come se
fosse la cosa più sicura e obiettiva del mondo?

Alle superiori usano molto di più le valutazioni


“oggettive”, a punteggio. Molti sono convinti
che il loro modo di valutare sia il massimo
dell’oggettività, ma, in realtà, chi ha detto che il
punteggio che decido di assegnare ad ogni parte
dell’esercizio sia giusto? E, soprattutto, chi ci
assicura che l’esatta comprensione di
quell’esercizio, al quale diamo il voto “10”

151
corrisponda ad una conoscenza della materia da
10?

È il problema delle prove ministeriali Invalsi: ha


senso valutare gli alunni su qualcosa che forse il
docente ha deciso di non insegnare,
privilegiando qualcosa che ha ritenuto più
importante? E chi stabilisce che ciò che ha scelto
di inserire chi ha preparato le prove Invalsi
(senza avere nessuna conoscenza delle
situazioni, delle classi, delle realtà sociali e
culturali) sia più giusto di quello che ha scelto
l’insegnante (anche in base alla conoscenza di
tutti gli alunni della classe e dei loro bisogni
didattico-educativi)? E chi stabilisce che cosa
rende effettivamente più preparato un ragazzo
di scuola media, quando ogni giorno
constatiamo che il successo lavorativo ha una
grande quantità di variabili, che vanno ben al di
là dei risultati scolastici?

E perché non si dà un punteggio anche alle


condizioni emotive, o di salute, dell’alunno
mentre svolgeva il compito assegnato? Oppure
alla spigliatezza, alla sicurezza, alla velocità,
ecc.? E se effettivamente questo extra punteggio
fosse inserito, chi ci dice che sia davvero giusto
inserirlo?

E perché non inseriamo anche la variabile


“condizioni emotive o di salute dell’insegnante

152
mentre corregge”? Perché, siamo onesti, sul voto
influiscono un po’anche il nervosismo, la
stanchezza, la ripetitività di certe correzioni, la
frustrazione del trovare lo stesso errore su dieci
compiti diversi e la constatazione che non hanno
capito nulla di quello che con tanta fatica
abbiamo spiegato. Succede che al decimo alunno
che ha sbagliato sei furibonda come se avesse
fatto lui l’errore, per dieci volte consecutive. E se
la sua grafia è pessima e ti costringe a metterci il
triplo del tempo e della fatica, o a prendere la
lente di ingrandimento per controllare se si
tratta di una “a” o di una “o”, o a inclinare il
foglio in ogni direzione per vedere se riesci a
capire se c’è scritto “”sella” o “nella”, il voto ne
risente, in qualche modo. È come trovare un
capello in un bel piatto di spaghetti alle vongole.

I ragazzi, inoltre, dovrebbero – almeno - essere


sempre al corrente di quello che ogni voto
significa. Ma troppo spesso non lo possiamo
spiegare perché abbiamo le idee confuse anche
noi.

Troppo spesso il voto diventa una piccola o


grande arma, gratificazione, vendetta. L’unica
che abbiamo e alla quale molti di noi non sanno
rinunciare. Ed è anche per questo che molti si
rifiutano di concordare il valore dei voti. Finché
rimane la possibilità di riempirlo di qualcosa di
soggettivo, di personale, che può cambiare a

153
seconda delle necessità, rimane un potere nelle
nostre mani. Magro, ma sempre potere.
Non è tanto importante sapere come si danno i
voti. È molto importante capire come non si
danno.
E cercare di essere “insegnanti” e non
“distributori di voti”.

154
Promuovere o bocciare?

Il discorso dei voti è strettamente legato a quello


della bocciatura.
Per un insegnante, decidere se un ragazzo
merita o no la bocciatura è molto difficile. Un
insegnante che cerca di fare al meglio il suo
lavoro, ovviamente. E dovrebbe essere ancora
più difficile, perché bocciare significa
respingere, certificare che quell’alunno non ha
fatto quello che ci si aspettava da lui. Ma il
problema è: si valuta abbastanza attentamente
quello che si chiede al ragazzo? Siamo stati
abbastanza chiari su quello che gli si chiedeva?
Abbiamo fatto tutto il nostro dovere per
prepararlo?
Direi che ci sono principalmente due tipi di
bocciatura: il ragazzo viene bocciato per
obiettive difficoltà, oppure perché non riesce a
trovare la motivazione a studiare, a comportarsi
in modo corretto, anche se, magari, è
potenzialmente intelligente.
Primo caso: non riesce ad ottenere risultati
sufficienti per difficoltà obiettive e personali.
Quali sono queste difficoltà? Per esempio può
avere difficoltà nello studio, perché ha un tipo di
intelligenza diversa da quella che serve per le
materie scolastiche, e quindi studia, ma non
capisce. Oppure può avere problemi familiari

155
(continue liti in famiglia, padre violento, madre
alcolizzata, fratelli portatori di handicap gravi,
genitori che lo obbligano a fare da baby sitter a
fratellini, ecc.); o personali (problemi di salute,
oppure psicologici o psichiatrici lievi, che, dal
ministero, non vengono considerati sufficienti
per assegnare un insegnante di sostegno (accade
sempre più spesso).
Secondo caso: non studia. Perché? Non trova un
motivo valido per affrontare le difficoltà (e la
fatica) dello studio. Se non ha il tipo di
intelligenza giusto per la scuola che frequenta (a
volte perché è stato obbligato a scegliere quel
corso di studi, o ha deciso di frequentarlo senza
aver ben ponderato la scelta) studiare è molto
frustrante, e non ha voglia di affrontare la
frustrazione della sconfitta. Cioè non studia
perché non capisce.
Se a casa i genitori non sono presenti, è facile che
si perda fra le mille distrazioni che lo circondano
(amici, facebook, internet, giochi).
Se i genitori non hanno studiato, spesso non si
rendono conto delle difficoltà dello studio e gli
chiedono o di essere aiutati nel lavoro o, al
contrario, che ottenga buoni risultati, superiori a
quelli che può dare. E lui rinuncia a studiare. Se
i genitori hanno studiato e ottenevano ottimi
risultati, non studia perché si sente comunque
inferiore e non alla loro altezza. E rinuncia a

156
studiare. Se i genitori denigrano scuola e
professori, anche lui lo fa, e non capisce perché
dovrebbe fare quello che dicono. E infatti non lo
fa.
Se frequenta amici che non studiano e
considerano “secchione” chi perde tempo a
studiare, si vergogna di stare sui libri. E
preferisce non studiare che essere criticato dagli
amici. E così via.
Dunque, come considerare la bocciatura? È utile
bocciare o è meglio promuovere?
A volte bocciare non serve. Ma a volte sì. Se il
ragazzo frequenta le medie può servire (se
aveva il tipo di intelligenza utile nella Scuola,
altrimenti è assurdo bocciarlo). Nella scuola
primaria è importante domandarsi se non si sta
chiedendo al ragazzo quello che non può dare;
cercare di valutare bene i suoi limiti; farsi un
esame di coscienza, per controllare di aver fatto
effettivamente tutto il possibile per aiutarlo,
parlare con lui e valutare insieme come
affrontare l’anno successivo; aiutarlo, aiutarlo e
aiutarlo in tutti i modi.
Se frequenta le superiori,ripetere l’anno può
servire(se aveva il tipo di intelligenza utile a
quella Scuola)a far capire che deve studiare (a
volte la volontà di non essere bocciati può essere
una motivazione provvisoria, in attesa che ne

157
trovi altre) oppure che deve cambiare corso di
studi.
Il discorso è molto complesso. Molte volte noi
insegnanti finiamo per bocciare alunni che non
sono colpevoli né della loro incapacità scolastica
né della loro mancanza di motivazione. A volte
siamo addirittura noi la causa delle loro
difficoltà scolastiche. E non possiamo offrire
ancore di salvezza, spesso per mancanza di
risorse, ma li bocciamo lo stesso. Non sappiamo
dar loro la motivazione a studiare, ma li
bocciamo lo stesso. La motivazione è
difficilissima da dare. Sono in completo
disaccordo con chi scrive libri sulla Scuola
lamentandosi della mancanza di motivazione, e
proponendo come soluzione semplicistica quella
di bocciare chi non ce l'ha (e anche chi non ha le
capacità), per lasciare studiare i "bravi" più
tranquillamente.
E quando un genitore vi chiede se deve aiutarlo
anche se non ha studiato e “si è fatto bocciare”, o
deve punirlo, rispondete che deve aiutarlo. Non
è vero che si è fatto bocciare. Nessuno vuole
essere bocciato. Non è riuscito a farsi
promuovere. Non ha saputo farsi promuovere.
Di chi è la colpa? Non importa: bisogna aiutarlo
e basta. Le punizioni a che cosa servono? A
nulla. O a fargli odiare la scuola. Aiutate
l’alunno in difficoltà a trovare una motivazione.
Per farlo, dovete essere convinti di quello che

158
dite. Gli insegnanti che riescono a trasmettere la
volontà di studiare sono quelli che sono convinti
che i ragazzi possono farcela (se non ci si mette
di mezzo la famiglia o la mancanza di risorse).
Aiutate i genitori a capire questi concetti.
Essere bocciati è un trauma, anche per chi
ostenta indifferenza. Quando escono i quadri,
molti leggono che sono stati promossi, e pochi
che sono stati bocciati. Reazioni? Cellulare
subito in mano per avvertire “Sì! Mi hanno
promosso!” “Che botta di culo”, “Ti credo! È il
quarto anno che sono qui!”. Urla, battute,
abbracci, salti.
Ma anche suicidi.
Negli anni mi è capitato troppe volte di leggere
di ragazzi che si buttavano dalla finestra perché
erano stati bocciati. Alla scuola media, ma
soprattutto alla scuola superiore. O anche
all’esame della patente. O perché avevano
“distrutto l’auto del padre”. Quando gli
insegnanti decidono di bocciare un ragazzo la
possibilità che faccia il famoso “insano gesto”
esiste. Remota, ma esiste. Allora che cosa si fa?
Si promuovono tutti? Il suicidio è un gesto
insano. Non sano. Una pazzia. E allora bisogna
capire il perché di questa pazzia. Chiedersi se si
può prevedere. Come insegnante ci ho pensato
tante volte, quando leggevo di qualche “gesto
insano”. Mi sono posta delle domande e mi sono

159
risposta che se è un gesto insano non si può fare
nulla. Certo, se il ragazzo è gravemente
depresso bisogna stare molto attenti, chiedere
un supporto psicologico o psichiatrico, parlare
con i genitori. Ma se, come accade, si tratta di
uno studente tanto normale che tutti si dicono,
poi, assolutamente sorpresi, bisogna rendersi
conto del fatto che la bocciatura non c’entra
nulla. Il suicidio è una fuga da qualcosa (o da
qualcuno) che non si sa affrontare ed è, molto
spesso, una punizione anche per le persone che
vengono ritenute responsabili del dolore
provato. Di solito sono i genitori, quelle persone.
Quelli che fanno loro credere che la promozione
sia una questione di vita o di morte. No, gli
insegnanti non sono mai così importanti per i
ragazzi.
I ragazzi di oggi sono così terribilmente fragili.
Moltissimi non sanno affrontare la minima
difficoltà. Noi adulti li abbiamo resi così fragili.
Ora dobbiamo maneggiarli con cura come si fa
con un cristallo sottilissimo e fragilissimo.
Potrebbero rompersi per sempre.
Noi insegnanti dobbiamo preparare i ragazzi ad
una eventuale bocciatura. Dobbiamo presentare
l’eventualità come una soluzione che li aiuterà.
È importante che il ragazzo sappia che se verrà
bocciato ci dispiace. Se dobbiamo dirgli che
continuando a non studiare verrà bocciato,
dobbiamo fargli capire che non vogliamo che

160
accada perché ci dispiace perderlo in quella
classe. Dobbiamo insegnargli a riconoscere e ad
accettare i suoi limiti. Soprattutto, dobbiamo
smettere con le minacce “ti boccio” (sottinteso:
“così impari a dar noia”). Non tanto per quello
che verrà respinto, al quale spesso non importa
nulla, quanto per quello che soffre in silenzio
perché non ce la fa. Alla scuola media chi non ce
la fa viene aiutato e spesso promosso, ma alle
superiori questo non avviene (ed è
comprensibile che non avvenga).Noi, come
insegnanti, possiamo contribuire a rendere la
bocciatura una tragedia, certo. Ma il problema
grosso nasce in famiglia. Certi genitori,
inconsapevolmente, alimentano giorno dopo
giorno i concetti “la bocciatura è una cosa
terribile”, “se vieni bocciato sei rovinato”, “se ti
bocciano è meglio che tu non torni a casa”, “se ti
fai bocciare ci dai (ingiustamente, a noi che
facciamo tutto per te) un dolore enorme”, “la
bocciatura è la prova che non vali niente”, “se
vieni bocciato vai a lavorare”, “solo uno scemo
si fa bocciare”, “studia! Noi facciamo tutto per
te. Non ci deludere”, “nella nostra famiglia
nessuno è stato mai bocciato: non vorrai essere
tu il primo, no?”, “se ti fai bocciare dopo tutte le
lezioni private che ti abbiamo pagato, vuol
proprio dire che non capisci nulla”, “io e tua
mamma siamo in crisi: se ti fai bocciare ci
separiamo di certo perché lei dirà che è colpa
mia”, e così via. Tutte cose che ho sentito dire

161
nella mia carriera. E a queste, il ragazzo ci
aggiunge una sua terribile quanto sbagliata
conclusione: “se vengo bocciato i miei genitori
non mi vorranno più bene. Non posso
deluderli”.
Una bocciatura è un fatto temporaneo. La morte
è definitiva. Dobbiamo insegnare anche ai
genitori a controllare quello che dicono sulla
promozione e la bocciatura.
E, noi insegnanti, cerchiamo di fare proprio di
tutto perché gli alunni meritino di essere
promossi.

162
Gli adulti con cui avete a che fare.

Il vostro lavoro si svolge a scuola, e consiste


nell’insegnare agli alunni. Ma non avete a che
fare soltanto con gli alunni. Anzi, molto spesso
le frustrazioni e i problemi vengono creati
soprattutto dagli adulti con cui avete a che fare.
Prima di tutto, i dirigenti.
A scanso di equivoci dirò subito che ci sono
dirigenti in gamba che sanno valorizzare le
risorse umane, che non fanno commercio di
favori, che sanno reperire i fondi come veri
manager, che sanno parlare e ascoltare i docenti,
gratificando chi lavora e rimproverando chi non
lo fa, e non viceversa. Dirigenti autorevoli,
insomma. E capaci. Ma quanti sono? Per la mia
esperienza, diretta e indiretta, davvero pochi.
Pochissimi. E i dirigenti in gamba, quei
pochissimi, ovviamente non vedono
riconosciute le loro capacità.
Il dirigente è il personaggio del mondo
scolastico forse più importante di tutti: è inutile
che ci sia un buon ministro, un genitore attento
e collaborativo, un insegnante preparato, se il
dirigente non sa dirigere, o peggio. Facciamo
delle ipotesi: un ipotetico ministro perfetto
prepara una buona riforma, i genitori sono
partecipi e attenti, i docenti si danno da fare per
fare il loro lavoro ed ecco che un dirigente
incapace riesce a rovinare tutto. Come?

163
Semplice: rende difficile anche le cose più
semplici per la paura di sbagliare e pagare di
tasca sua per le conseguenze del suo errore;
applica nel
modo più restrittivo possibile anche le leggi
pensate per agevolare il lavoro degli insegnanti;
si lava le mani di ogni problema; non è presente
a scuola; impedisce ogni libero pensiero; rende
difficilissimo l’esercizio dei propri diritti e,
soprattutto, la libertà di espressione; gestisce in
modo dittatoriale la scuola, come se fosse “casa
sua”, invitando chi non è d’accordo su tutto “ad
andarsene”, o, al contrario, non sa prendere
nessuna decisione, perché non vuole scontentare
nessuno; per non avere grane offre dei
cioccolatini agli alunni che dovrebbero essere
rimproverati; inventa continui e immotivati
ostacoli burocratici; crea zizzania; si circonda di
pochi “eletti” e si limita a chiedere il parere
degli altri docenti solo sulla carta, ma li
estromette di fatto da qualsiasi decisione,
arrivando anche a fare del mobbing verso chi
cerca di portare avanti idee diverse o a chiedere
il rispetto della normativa; demanda tutto agli
altri e contemporaneamente vuole avere tutto
sotto controllo; indirizza pesantemente le scelte
didattiche, nonostante il parere contrario dei
docenti.
Non occorre inventare delle sanzioni per
fannulloni e per assenteisti, e non è neppure
giusto, perché finiscono spesso per colpire gli

164
innocenti. Basterebbe invece dare ai dirigenti la
possibilità di licenziare i fannulloni. Ma poi
licenziare i dirigenti scolastici che permettono ai
docenti assenteisti e a quelli fannulloni di
continuare indisturbati.
Sono solo esempi. Non sono tutti così, per
fortuna.
La Scuola italiana va male prima di tutto perché
è spessissimo gestita male da dirigenti
inadeguati, quando non ottusi, impreparati e
vendicativi. La percentuale di dirigenti in gamba
è davvero bassa. Non me ne vogliano i bravi
dirigenti che mi leggono: è la verità e lo sanno
anche loro.
E se incontrerete questo tipo di dirigenti,
incontrerete anche molti altri colleghi che
invece di schierarsi dalla vostra parte, di
difendervi, per evitare di esporsi, di avere delle
ritorsioni o semplicemente di perdere certi
piccoli favori, cominceranno a guardarvi male e
a convincersi che la colpa è vostra, in fondo,
perché siete dei rompiscatole.
E se farete delle critiche, i colleghi, spesso,
diranno che siete degli attaccabrighe, che il
dirigente è quello che è, ma anche voi, insomma,
potreste evitare di puntualizzare, di protestare;
potreste lasciar perdere un pochino; potreste
dargliela vinta, se ci tiene tanto. Come se la
vittima e il violentatore fossero messi sullo
stesso piano e, quando la vittima denuncia il
violentatore, tutti dicessero: “Siete uguali, lui

165
vuole violentarti e tu vuoi ribellarti. Fate muro
contro muro!”.
Ma se voi credete nella giustizia, nella cultura,
nell’onestà, nella dignità, nella buonafede, nella
correttezza, nel bene dei ragazzi, continuate per
la vostra strada. I ragazzi meritano le vostre
fatiche.

I colleghi.
I colleghi, purtroppo, sono spesso diversi da
come li vorreste.
Un insegnante giovane che entra in una scuola si
aspetta di trovare professori "veri". Preparati,
equilibrati, pieni di entusiasmo, seri. Professori
dai quali imparare insomma. Ma la realtà è
triste. C'è qualcuno così, certo. Ma la realtà non
corrisponde al sogno di un insegnante giovane.
Il fatto che gli insegnanti sono diversi fra loro,
che ognuno ha una sua personalità e un suo
modo di insegnare dovrebbe essere un
vantaggio, ma spesso non lo è. Principalmente
perché non hanno la capacità di lavorare in
equipe. Ciascuno crede di essere solo, e non si
rende conto che gli insegnamenti che
impartiscono sono solo una parte
dell’educazione che i ragazzi ricevono a scuola.
Se un insegnante insegna che bisogna andare a
nord e l’altro che è meglio andare a sud, il
risultato è un sicuro disorientamento.

166
Uno vieta una cosa che l’altro sistematicamente
permette. Uno non transige sulla puntualità, e
l’altro lascia correre. E così via.
Da molto tempo l’insegnamento viene
considerato un ripiego. Ecco perché si
incontrano colleghi che non dovrebbero
insegnare.
Nella mia più che ventennale esperienza ne ho
viste di tutti i colori.
Un giorno ho urlato “Smettetela
immediatamente!” ad un gruppo di ragazzini
che durante l’intervallo facevano la lotta per
gioco sul pavimento del corridoio, e, quando
sono riuscita a farmi largo fra gli astanti che
applaudivano super eccitati, ho constatato con
raccapriccio che uno dei due combattenti era un
ruzzante collega di matematica, neanche tanto
di primo pelo.
Ne ho conosciuto uno che diceva che non voleva
insegnare agli extracomunitari e che quindi li
metteva tutti in fondo alla classe. Aggiungeva
anche che secondo la sua personale opinione lo
Stato italiano avrebbe dovuto metterli tutti,
extracomunitari e nomadi, in una specie di
campo di addestramento, con personale di tipo
militare che li inquadrasse ben bene in modo che
poi avremmo potuto sperare di tirarne fuori
qualcuno quasi onesto. E a me, che inorridita gli
dicevo che stava parlando di un ghetto, e che
non avrebbe dovuto essere un insegnante, mi
rispondeva che “ghetto” non era che una parola.

167
Naturalmente per lui l’olocausto era tutta
un’invenzione e perciò si rifiutava di celebrare il
Giorno della memoria.
C’era un collega, quando insegnavo in un paese,
che se accompagnava a casa una collega donna,
la faceva sedere dietro e, se quella, caparbia, si
sedeva davanti, pretendeva che si abbassasse
mentre attraversava il centro perché altrimenti
nel paese avrebbero mormorato.
Il professore di religione, un sacerdote, aveva
l’abitudine di sbattere sulla testa di ragazzi e
ragazze un grosso mazzo di chiavi. Ed era stato
visto da una collega dare calci ad un portatore di
handicap accucciato in terra per ripararsi. E
quando gli ho chiesto, in consiglio di classe, se
era impazzito, mi ha risposto che era solo uno
scherzo. Uno scherzo da prete, evidentemente.
Una volta una collega, poverina, nel bel mezzo
di una lezione, ha cominciato ad urlare
“Inginocchiatevi! C’è la Madonna!” Un’altra
raccontava ai ragazzi che lei, la Madonna, la
vedeva ogni giorno.
Una leggeva le carte, pronosticando per qualche
alunna addirittura una morte imminente;
un’altra andava dicendo che non si doveva
mangiava carne, perché si poteva morire; una si
metteva a piangere quando in classe i ragazzi
non l’ascoltavano.
E, se ci pensassi un po’, mi verrebbero in mente
altri colleghi. E uno potrebbe credere che i
dirigenti non sapessero nulla di questi

168
comportamenti strani, e, in qualche caso, al
limite della pazzia.
Lo sapevano. Lo sanno. E che cosa fanno? Nulla.
O perché non possono fare nulla, o perché non
vogliono.
I momenti in cui avrete a che fare maggiormente
con i colleghi, sono i consigli di classe, i collegi
docenti e gli esami. Ci sono insegnanti che
prendono tutto molto sul serio e altri che non se
ne importano niente. Non che facciano qualcosa
di particolare: traspare. Pensandoci: spesso sono
uomini. Per molti uomini l’insegnamento deve
essere qualcosa di frustrante. Devono far vedere
che se ne fregano della scuola. Sembra che
vogliano trasmettere l’idea :”sono qui, per un
capriccio del destino, ma il mio posto non è qui,
perché sono superiore a tutto questo”. Durante
gli esami, per esempio, c’è chi chiacchiera
(uomini e donne), chi si dedica a sbarrare il
registro personale, a controllare le firme e le
annotazioni necessarie; c’è chi legge il giornale.
Tutti si annoiano abbastanza.
Agli scritti gli insegnanti fanno di tutto per
aiutare i ragazzi a superare l’esame. Ma che cosa
è giusto? Chiedere davvero a tutti quello che
sarebbe necessario che conoscessero? Ignorare
tutte le difficoltà, tutti i problemi personali e
familiari e bocciare tutti quelli che non arrivano
a certi standard? O edulcorare le prove fino a
renderle fattibilissime anche dal peggior
alunno? E poi arrotondare il voto, sempre verso

169
l’alto? E nel dare il voto, che cosa sarebbe giusto
fare? Alzare i voti perché “se a quello abbiamo
dato 6 a quell’altro dobbiamo dare 7”? Oppure
dare ad ognuno il voto che merita? Cioè dare
“pane al pane e vino al vino”?
Durante gli orali le domande sono molto facili. Il
tempo a disposizione è poco. Gli errori
perdonati sono molti. Perché? Perché la Scuola
come è oggi – così poco organizzata e
organizzabile, dove tutto viene affidato alla
buona volontà o alla capacità del singolo - con
che coraggio può essere selettiva? Gli insegnanti
lo sanno, evidentemente. Si comportano così
perché pensano questo.
Gli esami orali di terza media, per esempio,
avvengono più o meno così: il ragazzo si siede.
“Firma qui”. “Hai studiato?” “Da che cosa vuoi
cominciare?” “Hai preparato una ricerca?” “Ah,
non lo ricordi?” “Va bene, allora passiamo ad
altro." “Neppure questo? Ma lo abbiamo detto
tante volte…” “Va bene, basta così. Passa ad
un’altra materia”. “Pensaci bene.”.
Un’insegnante tutta concentrata e professionale
si dà da fare per dare un tono di serietà
all’esame. Due ascoltano. Due, un po’ più in là,
parlano delle vacanze. O di calcio. O
dell’appartamentino che hanno affittato al mare.
“Guarda che sta parlando con te.” "Ah, sì" Si
distolgono dalle chiacchiere e fanno qualche
domanda. “Per me va bene” e tornano al
ristorante e alle vacanze. Uno sbadiglia

170
rumorosamente. Uno legge il giornale. Due
intervengono con domande che vogliono essere
l’ultima occasione per spiegare una cosa non
capita. Una si arrabbia perché c’è il
chiacchiericcio dei colleghi che disturba.
Borbotta
“Ma guarda se bisogna parlare di calcio…”. “Vai
pure”. L’esame è finito, vai in pace. Giudizi.
Sono sempre gli stessi: i professori li scrivono
quasi meccanicamente. Non dicono nulla di
esplicito: si comportano come se eseguissero
degli ordini interiori che sottintendono “dai,
scriviamo le solite sciocchezze, visto che siamo
obbligati a farlo. Sappiamo che non
corrispondono quasi per niente alla realtà, che
sarebbe molto peggiore, ma dobbiamo farlo e lo
facciamo”. Avanti un altro.
Ma non ascoltate i colleghi disfattisti, quelli che
vi consigliano di non impegnarvi perché non
serve a nulla. Hanno torto.
E non disperate: questi sono gli insegnanti che
noterete di più, ma non sono tutti così. Ci sono
anche tutti gli altri: gli insegnanti – una marea -
che, nel loro piccolo fanno del loro meglio, con
la preparazione che hanno ricevuto e con i
pochissimi mezzi a loro disposizione, in questa
Italia in cui la Scuola è considerata meno di
niente. E c'è anche uno zoccolo duro formato da
quel fior fiore di insegnanti combattenti,
irriducibili, che, nonostante tutto, lavorano al di
là delle loro forze, senza essere ricompensati né

171
dal denaro né dalle lodi, chiamando a casa i
ragazzi difficili, trasformandosi, all’occorrenza,
in supporti psicologici per i ragazzi, in
consulenti matrimoniali per i genitori, in spalle
per piangere, in punging ball sui quali scaricare
frustrazioni, delusioni e ignoranza.
L’importante è che sappiate che esistono, anche
se si notano meno degli altri. Cercateli.
Il personale ATA.
Molto spesso c’è, da parte del personale ATA
(bidelli e personale di segreteria), una specie di
astio verso i docenti, considerati gente che
lavora poco e oltretutto pretende molto (da
loro).
Per la mia esperienza bisogna ricordare questo,
per avere dei rapporti corretti.
Il personale di segreteria, soprattutto se non
riesce ad essere efficiente, cercherà di dare a voi
la colpa di quello che non va. Se valorizzerete il
loro lavoro, però, loro rispetteranno il vostro.
Lo stesso vale per i collaboratori scolastici. Ci
sono quelli che lavorano poco e male che vi
odieranno se protesterete, e ci sono quelli che
lavorano molto e bene, che vi apprezzeranno se
constateranno che vi accorgete di quello che
fanno.
I genitori.
Il rapporto con i genitore ha grandissima

172
importanza: rapporti sbagliati con i genitori
possono rendervi impossibile l’insegnamento.
Avete il dovere di stabilire rapporti corretti
anche con i genitori. Se litigate avete sbagliato
qualcosa voi. Perché voi siete quelli che hanno
un dovere istituzionale che loro non hanno.
Che l’educazione sia un grosso problema è
innegabile. Basta osservare attentamente i
comportamenti che i bambini e i ragazzi hanno
davanti ogni giorno. E quelli che vengono, non
solo tollerati, ma addirittura sollecitati, per loro
comodità, da molti genitori.
Troppi genitori permettono, in nome di una
libertà individuale che giudicano un diritto,
anche a discapito di quella degli altri, che i loro
figli si rincorrano fra i tavoli del ristorante come
se fossero ai giardini pubblici; che parlino al
cellulare o giochino ignorando gli altri
commensali; che entrino nella vetrina di un
negozio mentre la mamma fa acquisti e
calpestino tutto con le scarpine e buttino all’aria
magliette o si mettano in testa costumini; che
schiamazzino nei cortili e giochino a calcio
lanciando pallonate contro portoni, auto e
garage; che cantino a squarciagola alle undici di
sera; che ascoltino la musica ad altissimo
volume; che mangino quello che vogliono, che si
sveglino quando vogliono, che vadano dove
vogliono, che rientrino quando vogliono e,

173
soprattutto, senza dire dove vanno e quando
torneranno. E pretendono, in nome del fatto che
sono impegnati (con il lavoro, ma anche con la
palestra, con l’acquagym, con il parrucchiere,
con lo yoga; o con la danza, il calcio, il violino
dei figli) che tutto il mondo ruoti intorno al
bambino. Che tutti permettano al figlio di
sfogare la sua giovanile energia, perché lui è il re
e il mondo è il suo giardino.
Qualche tempo fa, ai giardini pubblici, un
bambino di circa quattro anni, sotto lo sguardo
per nulla preoccupato della mamma, stava
arrampicandosi sulla cancellata che delimita il
giardino. Un anziano, in apprensione perché
temeva che cadesse, diceva “Attento caro, scendi
giù da lì, perché puoi farti tanto male, se cadi”.
Interviene la mamma, una giovane fra i
venticinque e i trent’anni, che gli risponde: “Tu
fatti i cazzi tuoi”. Dunque: una ragazza, a un
vecchietto che si preoccupava che il bambino
non cadesse, risponde “i cazzi tuoi”. Messaggio
educativo per il bambino: “Fai sempre quello
che ti pare e ricordati: nessuno, e meno che mai
un vecchio, ha il diritto di dire a te quello che
puoi o non puoi fare.”
Quando quella giovane mamma manderà a
scuola suo figlio come sarà, come alunno? È del
tutto prevedibile come sarà. C’è un vero e
proprio degrado dell’educazione. Sarà colpa del
bambino? Degli insegnanti?

174
Nella Scuola di oggi il genitore, troppo spesso,
vede l’insegnante come un poveraccio, se va
bene. Gli insegnanti se ne rendono conto ogni
giorno. E non è bello, credetemi. Ma bisogna
riflettere bene su questo concetto e chiedersi,
come insegnanti, ma soprattutto come genitori,
chi la paga. La risposta è chiara: la paga il
ragazzo, che non ha più nessun motivo per
accettare la fatica. Non era più facile, infatti, un
tempo, accettare le difficoltà dello studio,
avendo la certezza (giusta o sbagliata che fosse)
che provenivano da chi stava facendo il nostro
bene?
Chi ha occasione di aspettare un bambino
all’uscita di una scuola può scoprire un mondo
interessantissimo: il mondo dei commenti dei
genitori sugli insegnanti. Anche se a qualcuno
dispiace leggerle, è importante citare le parole
volgari in modo cha appaiano, non attenuate da
asterischi, in tutta la loro volgarità. Ecco le
scenette alle quali si può assistere: bambino che
esce, sbattendo lo zaino ai piedi della mamma:
“La maestra mi ha dato un’altra nota!”.
Mammina: “Ma che cazzo vuole quella lì da te?
Ora mi ha proprio rotto. Vieni un po’ con me
che andiamo a sentire!”.
Bambina: “La maestra ha detto che non
possiamo bere l’acqua della bottiglietta e vuole
che beviamo quella del rubinetto”. Mamma,
mentre le toglie lo zainetto dalle spalle”: “Ma,

175
scusa, a lei cosa gliene frega di che acqua bevi
tu? Sarò padrona o no, di decidere io, che sono
la mamma, che acqua deve bere mia figlia?”.
Ragazzino: “Papà, non posso fare ginnastica
perché non ho le scarpe da ginnastica.” Padre:
“Falla con quelle, no?” Ragazzino: “Il professore
non vuole, perché si sporca la palestra.” Padre:
“E tu non dirglielo, no?!”.
Ragazzino, all’uscita:”Oggi ho dieci problemi da
fare”. Mamma, mentre gli toglie lo zaino dalle
spalle: “Ma cos’è, scema? Ma sono tutti matti
qui! Dieci problemi!”.
Padre, al ragazzo che esce in ritardo dalla
scuola: “Ma dov’eri?!!”. Ragazzo: “Niente… Ero
dalla preside, perché mi sono picchiato con
uno”. Padre tutto rasato, eccetto il codino, tutto
tatuato, gilet di pelle nera sul torso nudo. “E, va
be’, ma allora sono scemi!?? Potevano avvertire!
Ho visto che tutti gli altri erano già usciti! Mi
sono cagato addosso!”.
Questo, all’uscita di elementari e medie.
All’uscita delle superiori usano queste parole
direttamente i ragazzi, che ormai hanno
imparato la lezione dai genitori.
Salta agli occhi, fuori dalle scuole italiane, anche
questa abitudine del togliere subito lo zaino
dalle spalle dei figli: è un esempio della
diseducativa abitudine di togliere i pesi ai figli.
Nonnine traballanti sotto il peso di zaini pesanti,

176
mentre il bambinone in carne e giovanile
baldanza cammina davanti, libero di mangiare i
suoi trenta centimetri di pizza, che non possono
aspettare fino a casa.
Che cosa può fare la Scuola per i figli dei
genitori che a casa diseducano invece di
educare? Di quelli che a casa insegnano il
contrario di quello viene insegnato a scuola? E,
soprattutto: gli insegnanti devono, o no, cercare
di fare qualcosa per i figli di quei genitori? Se
quei ragazzi e quei bambini a scuola si
comportano male è colpa loro? La società ha
interesse che la Scuola cerchi di recuperare in
loro i comportamenti corretti o è meglio lasciarli
al loro destino, come vorrebbero gli altri
genitori? Gli altri genitori, quelli che educano i
loro figli ad essere rispettosi e onesti,
pretendono che gli insegnanti chiamino i
genitori dei ragazzi difficili e dicano loro di
educarli meglio.
Ma non sanno che quei genitori, di solito, non
vengono al colloquio, neanche se chiamati.
Nel rapporto fra i genitori e gli insegnanti c’è un
enorme problema che spesso impedisce una
buona comunicazione: la mancanza di
informazioni vere su quello che significa gestire
una classe.
I genitori non sanno tutto quello che un
insegnante deve tenere presente quando parla

177
ad una classe, composta da una media di 28
alunni, tutti diversi, per fisico, sesso,
intelligenza, intuitività, carattere, problematiche
personali e familiari, storia di vita, provenienza
geografica (e a volte anche religione, lingua,
abitudini), provenienza socioculturale,
esperienze scolastiche, difficoltà, stato di salute,
handicap.
I genitori – se non tutti, molti – credono, invece
che l’insegnamento consista in questo: entrare e
andarsi a sedere in cattedra; chiedere di aprire il
libro; leggere, far leggere o spiegare
l’argomento, così com’è; chiedere di mostrare i
compiti; correggerli, possibilmente tutti, ad uno
ad uno; interrogare, assegnare il compito e la
lezione per la volta successiva e, con un
tempismo perfetto, concludere il tutto al suono
della campanella. Il giorno dopo, ricominciare
da capo. Un po’ come succederebbe se davanti
non avesse nessuno, per esempio in una lezione
a distanza.
Aggiungo che, dai colloqui con i genitori,
emergono spessissimo le seguenti convinzioni:
- l’insegnante se ne frega degli alunni;
- in classe c’è solo mio figlio;
- se l’insegnante vuole che mia figlia studi, deve
controllare che abbia scritto i compiti sul diario;
- l’insegnante dà le insufficienze per vendetta;
- quando l’insegnante dà un’insufficienza o
mette una nota sul diario è perché “ce l’ha con

178
lui” (con la recente variante “perché mio figlio è
straniero”);
- l’insegnante che scherza con un alunno lo sta
prendendo in giro;
- l’insegnante che fa notare ad un alunno che ha
sbagliato “lo vuole umiliare”;
- se l’insegnante interroga spesso un alunno è
perché “ce l’ha con lui”;
- se un insegnante fa interrogare un ragazzo dai
compagni “lo fa apposta per metterlo in
difficoltà”;
- gli insegnanti ci godono a bocciare;
- l’insegnante che chiede al ragazzo “come mai
ieri non sei venuto a scuola?” lede la sua
privacy;
- l’insegnante che informa i genitori che per
l’ennesima volta il ragazzo non ha studiato,
“rompe sempre le scatole con tutte ‘ste note”;
- l’insegnante che dà un brutto voto alla
ragazzina si inventa i voti “perché a casa la
sapeva”;
e così via.
Vorrei riuscire a fare il conto del numero di
parole che escono dalla bocca di un insegnante
in una mattinata di scuola: so che è un numero
altissimo. Vorrei porre l’attenzione sul fatto che
tutte quelle parole sono pronunciate nel contesto
pieno di elementi da tener presenti che ho
descritto sopra.
Credo che sia possibile immaginare, a questo
punto, che possa anche capitare di lasciarsi

179
scappare una parola di troppo. Ma ritenere che
in cattedra ci siano sempre degli incompetenti e
dei malvagi, delle persone che fanno tutto a
caso, mi sembra ingiusto. Credere che si possa
insegnare a ventotto alunni tutti diversi senza
difficoltà, mi sembra ingenuo.
Infine: dare sempre per scontato che quando
l’insegnante rimprovera e dà brutti voti sia
sempre un incapace, mi sembra sciocco; e,
soprattutto, credere di saperne più
dell’insegnante, fino a dargli consigli sulla
didattica, mi sembra davvero presuntuoso.
Sarebbe bene che l’insegnante facesse il suo
lavoro di insegnante, che comporta anche lo
spiegare ai genitori che cosa fa in classe.
Sarebbe bene che il genitore facesse il suo lavoro
di genitore, e lasciasse lavorare gli insegnanti,
dando loro un po’ di fiducia. Forse sono bravi
insegnanti.

Ma, anche se vi verrà detto il contrario da


qualche collega, se emergesse che un genitore
sbaglia, siete voi quelli che devono cercare un
modo per guadagnare la loro fiducia. E lo farete
se dimostrerete sincero interesse per i loro figli.
È anche nel vostro interesse, se volete insegnare.

180
Dove potete trovarmi
Il libro è finito.
Se volete continuare a seguirmi e leggere quello
che scrivo, potete trovarmi sul Blog “La
professoressa Isabella Milani è online”,
all’indirizzo
http://laprofessoressavirisponde.blogspot.com
Se volete scrivermi fatelo all’indirizzo:
professoressamilani@alice.it.
Mi trovate anche su facebook, naturalmente.
Fatemi sapere se il libro vi è piaciuto e se vi è
stato utile.
Ringrazio Moise per i disegni.
Se c’è qualche errore, scusatemi, ma considerate
che ho fatto tutto da sola, con l’aiuto di un’amica
e di un mio ex alunno, che ringrazio.
Non ho ancora trovato una casa editrice e perciò
la pubblicità me la dovrete fare voi!
Grazie!

181
INDICE
Piccola introduzione.
Cari giovani colleghe e colleghi, insegno da
molti..
Prima di cominciare: che cosa significano i
verbi “insegnare” ed “educare”.
Prima di tutto vorrei raccomandarvi di iniziare
la vostra carriera (o di rivederla, se non siete
soddisfatti di quello che avete raggiunto
Essere, ma anche apparire
Ancora prima di entrare in classe, è necessario
che abbiate chiaro anche questo concetto: se
volete essere bravi insegnanti è necessario che
Gli alunni vi vedono come vi vedete voi.
Ecco un concetto importante: gli alunni vi
vedono come vi vedete voi.
Il ruolo dell’insegnante.
Un tempo l’autostima, almeno in classe, ci
veniva data insieme al titolo di studio e ci
veniva rafforzata dal riconoscimento sociale
Gli insegnanti sono tutti diversi.
Vorrei ribadire un concetto: i consigli che vi do
sono soltanto indicazioni, che
Le classi sono tutte diverse.
All’inizio dell’anno, è abitudine degli insegnanti

182
scambiarsi opinioni sulle classi nuove: “Mi
sembra”.
Gli alunni sono tutti diversi.
Ho scritto: “La classe non è una somma di
individui, è un corpo unico. È come un
grappolo..
Prima di entrare in classe.
Come entrare in classe? Come rivolgersi alla
classe? Che cosa dire?
La vostra prima volta in classe.
Ecco, siete davanti alla porta della classe dove
entrerete per la prima volta in vita vostra.
Come si entra in classe.
Ho già detto della grande importanza
dell’ingresso in classe, sottolineando il concetto
che, poiché gli alunni vi vedono
Le regole devono essere molto chiare.
All’inizio date molta importanza e non tollerate
neanche il più piccolo comportamento che non
I primi minuti di lezione.
Siete entrati in classe, siete riusciti a farlo in
modo che, arrivati alla cattedra avete una classe
che vi ascolta. È già molto, ma è solo l’inizio.
Dimostrate sicurezza, innanzi tutto.
Sempre considerando importante il principio

183
secondo il quale seguiamo una guida in una
foresta
Studiate delle strategie.
Studiate delle strategie per essere speciali,
interessanti, originali.
Che cosa non dovete mai fare e mai dire.
Quando si insegna ci sono errori che non si
possono fare.
Le note sul registro
Se vi capita di scrivere note come quelle che
trascrivo qui,…..
L’autorevolezza.
Fin dai primi giorni di scuola, quando sto per
parlare di una cosa importante…
La disciplina si ottiene con la paura?
Sono molto interessanti questi passi di un
articolo del 1939, anno XVII dell’era fascista…
Non si può tornare al passato
C’è chi dice che per eliminare “l’ignoranza”
degli alunni, si deve semplicemente…

Catturare l’attenzione e motivarli ad ascoltarvi


Come si cattura l’attenzione degli alunni? Come
si motivano ad ascoltarvi?

184
Come devo insegnare?
Prima di tutto: non dite le cose dall’esterno, non
date le soluzioni…
La maleducazione e i problemi di disciplina.
Ciò che sta accadendo nella Scuola …
Che cosa significa “classe difficile”.
Che cosa potrebbe accadervi entrando in una
classe?
Come comportarsi con una classe difficile.
Supponiamo che dobbiate fare una lezione di
inglese, o di letteratura, o di storia, in una classe
difficile…
Tanti tipi di alunno e tanti tipi di problema.
Pensiamoci bene: per aiutare ogni singolo
alunno in tutti i problemi che incontra,
bisognerebbe..
Un caso a parte: i ragazzi difficili.
Tutti gli insegnanti hanno problemi con ragazzi
difficili, anche i più esperti …
Altri alunni difficili: quelli che non studiano.
Uno degli aspetti più frustranti
dell’insegnamento consiste nel fatto che ...
Come risolvere il problema del bullismo.
Si è parlato fino alla nausea dei bulli e del
bullismo.

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Come si danno i voti (e come non si danno)
I voti sono lo strumento che l’insegnante
possiede per valutare gli alunni…
Promuovere o bocciare?
Il discorso dei voti è strettamente legato a quello
della bocciatura.
Gli adulti con cui avete a che fare
Il vostro lavoro si svolge a scuola, e consiste
nell’insegnare agli alunni. Ma…
Dove potete trovarmi
Il libro è finito.
Se volete continuare a seguirmi …

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