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Dante Alighieri, Vita nova

Tanto gentil e tanto onesta pare


la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,


benignamente d'umilta' vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi si' piacente a chi la mira,


che da' per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender non la puo' chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova


uno spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.
F. Petrarca, Il Canzoniere, I.

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono


di quei sospiri ond’io nutriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono


fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto


favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,


e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno

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F. Petrarca, Il Canzoniere, XXXV.

Solo et pensoso i più deserti campi


vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi


dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge

et fiumi et selve sappian di che tempre


sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge


cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.

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F. Petrarca, Il Canzoniere, LXI.

Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno,


e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto,
e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto
da’ duo begli occhi che legato m’hanno;

e benedetto il primo dolce affanno


ch’i’ebbi ad esser con Amor congiunto,
e l’arco, e le saette ond’i’ fui punto,
e le piaghe che ’nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch’io


chiamando il nome de mia donna ho sparte,
e i sospiri, e le lagrime, e ’l desio;

e benedette sian tutte le carte


ov’io fama l’acquisto, e ’l pensier mio,
ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’ha parte.
F. Petrarca, Il Canzoniere, CXXXIV

Pace non trovo, et non ò da far guerra;


e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.

Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,


né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra;
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;


et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;


egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.

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F. Petrarca, Il Canzoniere, CCCXI.

Quel rosignol, che sí soave piagne,


forse suoi figli, o sua cara consorte,
di dolcezza empie il cielo et le campagne
con tante note sí pietose et scorte,

et tutta notte par che m’accompagne,


et mi rammente la mia dura sorte:
ch’altri che me non ò di ch’i’ mi lagne,
ché ’n dee non credev’io regnasse Morte.

O che lieve è inganar chi s’assecura!


Que’ duo bei lumi assai piú che ’l sol chiari
chi pensò mai veder far terra oscura?

Or cognosco io che mia fera ventura


vuol che vivendo et lagrimando impari
come nulla qua giú diletta, et dura.

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F. Petrarca, Il Canzoniere, CCCX.

Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,


e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.

Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;


Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i piú gravi


sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;

et cantar augelletti, et fiorir piagge,


e ’n belle donne honeste atti soavi
sono un deserto, et fere aspre et selvagge.

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F. Petrarca, Il Canzoniere, CXXVI

Chiare, fresche et dolci acque,


ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenzia insieme
a le dolenti mie parole extreme.
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S’egli è pur mio destino,


e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.

Tempo verrà anchor forse


ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi: et, o pieta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da’ be’ rami scendea


(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito et perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: Qui regna Amore.

Quante volte diss’io


allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Così carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso
m’aveano, et sì diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?;
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sì, ch’altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,


poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente
F. Petrarca, Il Canzoniere, LII.

Non al suo amante piú Dïana piacque,


quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,

ch’a me la pastorella alpestra et cruda


5posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda,

tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo,


tutto tremar d’un amoroso gielo.

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U. Foscolo, A Zacinto

Nè più mai toccherò le sacre sponde


Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
Del greco mar, da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde


Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L’inclito verso di Colui che l’acque

Cantò fatali, ed il diverso esiglio


Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,


O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
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Ugo Foscolo, In morte del fratello Giovanni

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo


di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.

La madre or sol, suo dì tardo traendo,


parla di me col tuo cenere muto:
ma io deluse a voi le palme tendo;
e se da lunge i miei tetti saluto,

sento gli avversi Numi, e le secrete


cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!


Straniere genti, l’ossa mia rendete
allora al petto della madre mesta.

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Giovanni Pascoli, La mia sera in Canti di Castelvecchio.

Il giorno fu pieno di lampi;


ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei poppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! Che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle


nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.

È, quella infinita tempesta,


finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.

Che voli di rondini intorno!


Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io...e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don...Don...E mi dicono, Dormi!


mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi!bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre...poi nulla...
sul far della sera.
Giovanni Pascoli, Il gelsomino notturno in Canti di Castelvecchio

E s'aprono i fiori notturni,


nell'ora che penso a miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le frafalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi.


là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala


l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.

Un'ape tardiva sussurra


trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.

Per tutta la notte s'esala


l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala:
brilla al primo piano: s'è spento.

È l'alba: si chiudono i petali


un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

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