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Il NOVECENTO: PERIODIZZAZIONI E INTERPRETAZIONI.

UN MONDO INTERDIPENDENTE: VICENDE E TEMI DELL’ETÀ


CONTEMPORANEA – Silvio Pons

Obiettivi di apprendimento

Acquisire consapevolezza critica intorno al tema delle periodizzazioni in storia,


con particolare riferimento all’età contemporanea.
Orientarsi sulle origini e gli sviluppi storici dei principali temi proposti nel
modulo: le rivoluzioni industriali, la società di massa, l’imperialismo, la guerra
industriale novecentesca, la guerra fredda, la decolonizzazione, l’integrazione
europea, la globalizzazione attuale.
Comprendere in linea generale le relazioni intercorrenti tra i grandi fenomeni
storici illustrati nel modulo.

1
Premessa
Questo modulo è stato concepito come un viaggio attraverso processi e vicende
fondamentali della storia contemporanea, una disciplina giovane e che ha tuttavia
conosciuto grandi trasformazioni rispetto ai suoi esordi. In Italia la storia
contemporanea ha conquistato una presenza accademica significativa solo a partire dagli
anni settanta, dopo una lunga lotta di emancipazione dalla storia del Risorgimento, a sua
volta introdotta negli anni trenta per marcare la specificità del segmento più recente
della storia moderna. In principio la storia contemporanea è stata essenzialmente
politica e il suo obiettivo fondamentale era l’analisi dei nodi politici che avevano
caratterizzato il cammino dello Stato nazionale unitario in Italia. Non venivano applicati
alla contemporaneità i metodi della rivoluzione storiografica novecentesca, che
attraverso esperienze come quella della rivista francese “Annales” avevano collegato la
storia alle nuove scienze sociali come l’antropologia, la psicologia, la sociologia, la
geografia economico-sociale. Eppure queste nuove discipline erano nate proprio alla
ricerca di risposte dinanzi agli impetuosi sviluppi del mondo contemporaneo. Il limite
non riguardava comunque solo la contemporaneistica italiana e a riprova di ciò
possiamo osservare che la stessa rivista “Annales” fino a una certa data aveva fornito un
contributo assai ridotto al campo della storia contemporanea. Il fatto è che la nuova
storia, lavorando sulle mentalità e sulle grandi strutture sociali, si prestava a indagare
preferibilmente sui tempi lunghi del cammino umano, e quindi nell’ambito di discipline
come la storia medievale e quella moderna.
Da questa limitazione iniziale la storia contemporanea è uscita con grande slancio nel
giro di poco tempo. In particolare vi è stato l’ingresso a pieno titolo della storia
economica e della storia sociale nella sfera d’interesse della disciplina; ma l’elenco dei
nuovi apporti potrebbe essere allungato di molto, dalla storia urbana e rurale a quella
delle donne, dalla storia delle comunicazioni di massa a quella delle migrazioni.
Strumenti un tempo riservati alla dimensione della lunga durata sono stati sempre più
riadattati e applicati allo studio delle vicende a noi più prossime. Il principio che si è
affermato è che non conta la distanza temporale dagli avvenimenti trattati per fare una
storia scientifica, bensì le scelte metodologiche che si compiono e le domande che si
rivolgono alle fonti. Si è così cercato di superare un vecchio pregiudizio circolante
intorno alla storia contemporanea, ritenuta poco obiettiva perché troppo politicizzata e
vicina ai fatti esaminati, quindi prigioniera delle passioni del presente (in realtà, si

2
potrebbe obiettare, grandi libri di storia sono nati proprio dalla penna di personaggi che
avevano vissuto in prima persona gli accadimenti narrati: si pensi alla Guerra del
Peloponneso di Tucidide o alla Storia della seconda guerra mondiale di Winston
Churchill).
Una peculiarità della storia contemporanea è che, trattando i problemi e gli avvenimenti
che sono avvertiti come caratteristici del mondo presente, i suoi termini di partenza sono
mobili e soggetti a periodici aggiornamenti. In passato era dominante l’idea di partire
dalla doppia rivoluzione – quella industriale inglese e quella politica francese – di fine
Settecento, che in effetti si stagliano ancor oggi come due colonne d’Ercole per l’entrata
nel nostro mondo. Un tempo i programmi scolastici per l’ultimo anno di medie e
superiori in Italia partivano dal Congresso di Vienna del 1815. A livello accademico,
nella divisione dei compiti fra modernisti e contemporaneisti, si è accettato a lungo il
confine del 1870, che si prestava a tale compito per una serie di motivi: fine del
Risorgimento con la presa di Roma, unificazione della Germania (con i risvolti cruciali
della questione tedesca per la successiva storia europea e mondiale), avvento di un
nuovo capitalismo finanziario e su larga scala, avvio della spartizione imperialista del
continente africano. Col tempo vi è stata una tendenza a spostare in avanti le lancette,
partendo con l’esperienza della Grande Guerra, considerata come la vera porta della
contemporaneità, anche in questo caso per un complesso di fattori: crisi dell’assetto
eurocentrico e irruzione sulla scena mondiale degli Stati Uniti, primo colpo all’edificio
coloniale, avvento definitivo dell’interventismo statale in economia e della società di
massa, rivoluzione russa e sfida globale portata dal movimento comunista. Ma
registriamo anche la scelta di un termine a quo più avanzato: il 1945, ad esempio, in
quanto inizio dell’età nucleare e della possibile autodistruzione del genere umano;
oppure gli anni settanta, in quanto crisi del lungo ciclo economico e sociale del
fordismo, col conseguente avvio dell’età “post industriale”, segnata dalla rivoluzione
elettronico-informatica. Più recentemente, vi è stato chi ha deciso di partire dalla
conclusione della guerra fredda (1989-1991), considerando quindi la storia
contemporanea come coincidente con la cosiddetta età della globalizzazione.
Tutti questi approcci hanno una loro legittimità e dei punti di forza. Una via d’uscita per
tenerli insieme sarebbe quella di considerare i diversi inizi come il segno di cesure e
sottoperiodi esistenti nell’età contemporanea. Nelle pagine che seguono, ad ogni modo,
si è adottata la linea se vogliamo classica dell’ultimo trentennio dell’Ottocento, nel
segno dello sviluppo combinato di una seconda rivoluzione industriale e delle prime

3
forme di società di massa. Fenomeni che conoscono la loro prima manifestazione nella
comunità occidentale e atlantica: riconoscere questo non vuol dire però cadere in un
pregiudizio culturale o in un’ottica occidentalista. Se la storia contemporanea riguarda
l’età in cui il mondo si unifica, dobbiamo osservare che la prima globalizzazione sette-
ottocentesca è guidata dalla Gran Bretagna, mentre quella novecentesca sarà di marca
statunitense. È l’imperialismo europeo a collegare le diverse parti del mondo (e questo
processo conosce sviluppi cruciali proprio intorno al termine da noi adottato del 1870),
a sottoporre i popoli dell’emisfero meridionale a una accelerazione della storia
traumatica. Di matrice europea è il socialismo, che a partire dalla rivoluzione russa del
1917 lancia la sua sfida globale per una modernizzazione alternativa a quella capitalista.
Occidentale è il modello di stato-nazione che si estende a tutto il mondo e che vede oggi
essere membri dell’ONU quasi duecento paesi. Ciò non significa che non ci sia stato un
apporto originale dei popoli extraoccidentali: dobbiamo anzi vedere l’età
contemporanea come un incontro-scontro tra il mondo occidentale e le altre aree del
pianeta, all’insegna di un rapporto dialettico che ha cambiato il volto di tutti gli
interlocutori e ha determinato connessioni globali di una portata senza precedenti. È in
questa prospettiva che indirizzano le indagini nuove correnti storiografiche come quella
della World History, un movimento di innovazione della ricerca che questa volta non ha
trovato impreparati i contemporaneisti. Il suo programma ci riporta al fatto che l’età
contemporanea ha come filo rosso la crescente interdipendenza tra le diverse aree del
pianeta, in un cammino che ha molti secoli alle spalle e che trova nella presente
globalizzazione l’approdo più recente, ma non certo ultimo.

4
1. La nascita del mondo contemporaneo

1.1. Quando inizia la storia contemporanea?

Fra le consorelle disciplinari come la storia medievale e quella moderna, la storia


contemporanea ha la particolarità di spingersi fino ai nostri giorni. Questo suo rapporto
col presente traspare nella espressione stessa “storia contemporanea”, dove il sostantivo
indica la profondità diacronica del campo d’indagine, mentre l’aggettivo parrebbe
rimandare alla stretta attualità. Per questo motivo, vi è chi ha sostenuto che parlare di
storia contemporanea rappresenta quasi una contraddizione in termini, un ossimoro.
Legata a questa argomentazione vi è anche il pregiudizio che la disciplina non possa
ambire a uno status scientifico pieno, trattando di vicende e problemi su cui manca la
necessaria distanza storica per compiere un esame imparziale1.
Se è chiaro il termine ad quem della storia contemporanea, niente affatto scontata
appare l’individuazione del termine a quo. In altre parole, dove dobbiamo collocare
l’inizio dell’età contemporanea? Alla domanda si possono dare risposte diverse, e
questo ci fa comprendere come vi sia sempre un forte grado di soggettività nelle scelte
dello storico. Individuare il momento di inizio e di fine di un processo o di un
determinato periodo vuol dire appunto periodizzare. Si tratta di un aspetto fondamentale
nella ricostruzione della storia, perché solo individuando dei blocchi cronologici
coerenti possiamo conferire un senso alla nostra narrazione. La periodizzazione è
dunque un conferimento di senso e presuppone una interpretazione: una operazione che
non può mai essere neutrale2.
Nel nostro caso sceglieremo come approccio più convincente quello che fa risalire
l’avvio dell’età contemporanea alla fase in cui prendono forma l’organizzazione
economica e sociale secondo i caratteri a noi familiari: quelli della grande industria
moderna ad alta intensità tecnologica e della società di massa. Si tratta delle colonne
d’Ercole per entrare nel mondo del XX secolo, dapprima varcate dai paesi dell’Europa
occidentale e del Nord America, e poi via via da altri popoli del pianeta. Tutto questo ha

1
Per una trattazione più approfondita delle caratteristiche disciplinari della storia contemporanea, si veda
C. Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2014.
2
Cfr. V. Vidotto, Periodizzazione, in Enciclopedia italiana, VII Appendice, 2007, reperibile alla pagina
web http://www.treccani.it/enciclopedia/periodizzazione_(Enciclopedia-Italiana)/; si veda inoltre K.
Pomian, Periodizzazione, in Enciclopedia Einaudi, vol. 10, Torino, Einaudi, 1980, pp. 603-50.

5
avuto alla base degli sviluppi tecnico-scientifici imponenti3. Dopo la Rivoluzione
industriale “classica” realizzata dall’Inghilterra tra la fine del Settecento e i primi
decenni dell’Ottocento – immortalata nei romanzi di Charles Dickens e legata
all’energia a vapore e all’industria tessile4 –, gli ultimi decenni del XIX secolo vedono il
realizzarsi di una “seconda rivoluzione industriale”, che porta alla nascita delle grandi
fabbriche come siamo abituati a concepirle: impianti popolati da moltitudini di operai
(le tute blu), affiancati da uno stuolo di tecnici e di personale amministrativo (i colletti
bianchi), altrettanto necessari per il buon funzionamento di una organizzazione sempre
più complessa, che organizzata per turni produce per 24 ore al giorno, senza spegnere
mai le sue macchine5.

1.2. Fordismo e capitalismo finanziario

Una vicenda esemplare per rendere conto di questi fenomeni rivoluzionari è quella
dell’ingegnere statunitense Henry Ford (1863-1947), fondatore dell’omonimo marchio
automobilistico6. Nelle sue officine egli introduce la catena di montaggio, un nuovo
sistema di produzione standardizzata in cui ogni fase è basata su operazioni meccaniche
uniformi nei modi e nei tempi. Ne risulta una razionalizzazione ottimale del processo
produttivo, con vantaggi sul piano della qualità delle merci e del ritmo di assemblaggio:
il tempo per costruire una Ford modello T – l’utilitaria protagonista della
motorizzazione degli Stati Uniti, prodotta in oltre 15 milioni di esemplari – passa dalle
iniziali 12 ore a circa 90 minuti. Un nastro trasportatore trasferisce la vettura in
costruzione nei diversi reparti della fabbrica, dove a ogni operaio spetta una singola
azione delle numerose in cui è stato scientificamente scomposto l’intero processo
produttivo. Nel fordismo, che si diffonde negli Stati Uniti e viene da lì esportato in tutti
i paesi industrializzati, il tradizionale lavoratore specializzato, dotato di esperienza e
capacità artigianali, viene sostituito dall’operaio-massa, non qualificato e addestrabile in
poco tempo. Questa nuova figura può lavorare in impianti più sicuri, con turni certi e
paghe superiori alla media, ma la ripetitività meccanica dei suoi gesti ne annulla ogni
capacità creativa e spirito critico, esponendolo ai rischi dell’alienazione. Il cinema – la

3
Cfr. D.S. Landes, Cambiamenti tecnologici e sviluppo industriale nell’Europa occidentale, 1750-1914,
in Storia economica Cambridge, Torino, Einaudi, 1974-1980, vol. VI, tomo 1.
4
Cfr. E.A. Wrigley, La rivoluzione industriale in Inghilterra. Continuità, caso e cambiamento, Bologna,
Il Mulino, 1992.
5
Cfr. P. Bairoch, Industria, in Enciclopedia Einaudi, vol. VII, Torino, Einaudi, 1979, pp. 313-52.
6
Cfr. H. Ford, La mia vita e la mia opera, Introduzione e Postfazione di P. Ortoleva, Milano, La
Salamandra, 1980.

6
nuova forma artistica peculiare dell’età contemporanea – rappresenta questa situazione
con le masse impersonali e dalle movenze militari di Metropolis di Fritz Lang (1927), e
con l’omino che a forza di stringere bulloni si ritrova prigioniero negli ingranaggi della
macchina in Tempi moderni di Charlie Chaplin (1936).
Accanto agli Stati Uniti, l’altro grande paese protagonista della seconda rivoluzione
industriale è la Germania, che nel 1870-71 proprio in ragione della sua superiorità
tecnologica sconfigge l’impero francese di Napoleone III e approda all’unificazione
sotto la casata prussiana degli Hohenzollern. L’industria tedesca si pone all’avanguardia
in tutti i nuovi settori produttivi (acciaio, chimica, elettricità), realizzando un connubio
formidabile tra ricerca scientifica, applicazione tecnologica e innovazione industriale. I
politecnici tedeschi sono un modello per il mondo intero e fino agli anni della prima
guerra mondiale il paese è la principale fucina di premi Nobel. Il risultato è che la
Germania tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento infrange il lungo
primato industriale britannico, divenendo la principale potenza economica in Europa: se
nel 1890 la produzione annuale di ferro e acciaio della Gran Bretagna ammonta a 8
milioni di tonnellate contro i 4,1 della Germania, nel 1910 siamo rispettivamente a 6,5 e
13,6. Entrambi i contendenti vengono comunque surclassati dal nuovo colosso
statunitense, che in quell’anno produce 26,5 milioni di tonnellate, dunque quasi il
doppio della Germania e oltre quattro volte la produzione britannica7. In questa “sfida
triangolare” per la supremazia mondiale l’Europa è ancora il centro del potere
finanziario e militare, ma l’America ha rivelato il suo potenziale egemonico.
Si afferma un gigantismo industriale che richiede investimenti di capitali senza
precedenti. Mentre nella prima rivoluzione industriale e fino a quel momento il singolo
imprenditore era riuscito a finanziare le proprie attività reinvestendo i proventi
accumulati, adesso la grande fabbrica viene gestita da società che hanno alle spalle
gruppi bancari. In Germania viene creata la nuova “banca mista”, che raccoglie il
risparmio dei cittadini e lo indirizza verso gli investimenti strutturali in campo
industriale, garantendo le necessarie condizioni di stabilità finanziaria. Imprenditori
siedono nei consigli di amministrazione delle banche e banchieri in quelli dei gruppi
industriali, in una intima compenetrazione che caratterizza il nuovo “capitalismo
finanziario”, analizzato dall’economista Rudolf Hilferding in un lavoro divenuto un

7
P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, Garzanti, 1989, pp. 286-91.

7
classico per riflettere sui mutamenti del mondo contemporaneo (Il capitale finanziario,
1909).
Lo studioso tedesco evidenzia la formazione di enormi concentrazioni di potere che
sempre più condizionano l’economia e le scelte strategiche dei diversi paesi: esse
vengono chiamate cartelli (accordi commerciali tra imprese dello stesso settore sulle
tariffe da praticare) e trust (accordi tra imprese anche a livello della produzione, fino
all’unificazione vera e propria). Attraverso la formazione di grandi trust, alcune società
arrivano a controllare interi settori dell’economia, conquistando nel loro ambito una
posizione di monopolio. Per questo si dice che il capitalismo diventa in questa fase
monopolistico. Gli esempi più rilevanti di questa nuova situazione li troviamo negli
Stati Uniti e in Germania. Nel 1879 la Standard Oil di John D. Rockefeller controlla il
90% delle raffinerie petrolifere americane. In Germania nello stesso periodo lo Stahl-
Verein domina nel settore dell’acciaio; al principio del Novecento, nel secondo Reich
meno dell’1% delle aziende assorbe oltre i ¾ del carbone e dell’elettricità necessari al
processo produttivo. Soprattutto in America, viene affrontato il problema di varare una
legislazione anti trust che possa limitare il potere di questi colossi: nel 1890 il
Congresso approva lo Sherman Antitrust Act, che pur applicato in modo discontinuo
condurrà alla divisione in società minori di gruppi come la potente American Tobacco
Company (smembrata nel 1911 in quattro distinte società). In generale, comunque, i
governi preferiscono raggiungere degli accordi con i grandi monopoli, specie con quelli
che operano in settori rilevanti per la sicurezza nazionale.

1.3. L’avvento della società di massa

Tutti questi cambiamenti nel campo dell’economia vengono accompagnati da un


profondo mutamento sociale, sintetizzabile nel concetto della nascita di una società di
massa. Le nuove industrie, e i complessi servizi indispensabili per il loro
funzionamento, stimolarono una intensa urbanizzazione8. Nasce la città contemporanea,
caratterizzata dalle fumose cinture industriali, dai quartieri operai separati da quelli del
ceto medio e dalle aree residenziali dell’alta borghesia, dai mezzi di trasporto pubblico
nati col progresso tecnologico, dai cinema e da altre forme innovative di svago, dalle
scuole pubbliche necessarie a formare i nuovi cittadini-lavoratori, dalle caserme dove si

8
Sui rapporti fra urbanizzazione, modernità e cambiamento sociale si veda il “classico” G. Simmel, Le
metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando, 1995 [ed. orig. tedesca, 1903]. Parimenti ricco di
suggestioni è il volume di L. Mumford, La città nella storia, Milano, Comunità, 1963.

8
addestrano le reclute degli eserciti di massa che devono mantenere l’ordine e difendere
la nazione9. Da tutto questo scaturisce una inedita sensazione di sovraffollamento e
scomparsa delle prerogative degli individui, schiacciati dall’irrompere di una grande
massa indifferenziata. La filosofia e le arti esprimono a cavallo del secolo le
inquietudini, le paure e le speranze legate a questi processi epocali. Il tedesco Friedrich
Nietzsche profetizza la fine del mondo borghese ottocentesco e prospetta l’avvento di
una nuova generazione di superuomini in grado di elevarsi sulle moltitudini. Lo
spagnolo José Ortega y Gasset nel suo La ribellione delle masse (1930) descrive «le
case piene d’inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. I treni, pieni di viaggiatori. I caffè,
pieni di consumatori. Le strade, piene di passanti. Le anticamere dei medici più noti,
piene di ammalati. Gli spettacoli, pieni di spettatori. Le spiagge, piene di bagnanti». Il
risultato che salta all’occhio è che «quello che prima non soleva essere un problema,
incomincia ad esserlo quasi ad ogni momento: trovar posto». Tutti i momenti della
giornata vengono sistematicamente regolati, dagli orari dei mezzi con cui si va al
lavoro, dagli orologi che segnano i turni negli uffici e nelle fabbriche, le lezioni nelle
scuole; anche il tempo libero si standardizza e vede grandi masse concentrarsi
periodicamente in determinati luoghi10.
Il passaggio dalle tradizionali comunità urbane ai moderni agglomerati urbani cambia
tutto il complesso delle relazioni sociali. Le masse operaie irrompono sulla scena,
acquisendo rapidamente coscienza del loro ruolo nel sistema produttivo e nella società.
Il grande padronato lega le sue fortune alla crescita di questa forza lavoro, ma ne teme
le potenzialità di mobilitazione e sovvertimento dei rapporti gerarchici. Se fino alla
metà del secolo l’iniziativa rivoluzionaria è nelle mani della borghesia emergente, che
lotta per abbattere l’assolutismo e i privilegi nobiliari e del clero, in seguito è il
proletariato ad apparire il motore di una futura rivoluzione, destinata a sostituire il
capitalismo col socialismo. Già alla vigilia del 1848, ultima grande fiammata
rivoluzionaria della borghesia europea, Karl Marx e Friedrich Engels possono scrivere
che «uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della
vecchia Europa si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro:
il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi. [...] È ormai
tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di

9
Cfr. P. Villani, La città europea nell’età industriale, in Modelli di città. Strutture e funzioni politiche, a
cura di P. Rossi, Torino, Einaudi, 1987.
10
Cfr. S. Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino,
1988.

9
vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del
comunismo un manifesto del partito stesso»11. Nel 1864 viene fondata a Londra
l’Associazione internazionale dei lavoratori, dove si sperimentano delle prime forme di
coordinamento tra le organizzazioni operaie dei diversi paesi. Nel 1870 la Comune di
Parigi, per quanto non frutto di un vero piano rivoluzionario, ravviva la forza dello
“spettro” e sembra originare il primo governo operaio e popolare. L’incedere della
seconda rivoluzione industriale infoltisce le file del proletariato e stimola la formazione
di partiti e sindacati socialisti. Modello è la SPD, il partito socialdemocratico tedesco,
che nel congresso di Erfurt del 1891 si dota di un programma di ispirazione marxista12.
In alcuni paesi industriali si manifesta la tendenza reazionaria a sbarrare la strada al
socialismo col pugno di ferro, impedendo le attività sindacali e ponendo fuori legge le
organizzazioni dei lavoratori, ma la via si rivela impraticabile. In Germania il
cancelliere Bismarck promuove “leggi eccezionali” contro i socialisti e al tempo stesso
cerca di integrare le masse operaie attraverso la creazione di un sistema di sicurezza
sociale: vengono introdotte nel corso degli anni ottanta assicurazioni obbligatorie contro
le malattie, gli infortuni e per la vecchiaia. Anche se in forme meno estese, reti di
protezione di questo tipo sorgono in vari paesi. È l’inizio di un cammino che nel corso
del Novecento conduce alla nascita del moderno Welfare State, che si fa carico del
benessere dei cittadini “dalla culla alla tomba” (come diranno gli artefici del Welfare
britannico)13.
Sotto la spinta della società di massa, la politica diventa di massa. I partiti socialisti
sono un esempio del nuovo partito di massa, basato su un programma e su una classe
dirigente che viene eletta dai tesserati. Esso sostituisce il tradizionale partito dei
notabili, formato da reti di personalità influenti con un loro seguito locale 14. Dietro tutto
questo vi è anche l’allargamento progressivo del suffragio, che nell’arco di alcuni
decenni porta a riconoscere il diritto di voto a tutta la popolazione maschile (solo in
seguito tale diritto viene esteso alle donne). In Italia al momento dell’unificazione
(1861) può votare solo il 2% della popolazione adulta, percentuale che viene elevata al
7 con la riforma del 1882. Solo trent’anni dopo, nel 1912, viene introdotto il suffragio
11
Cfr. E.J. Hobsbawm, Introduzione a Manifesto del partito comunista, Milano, Rizzoli, 2001.
12
Cfr. F. Andreucci, La diffusione e la volgarizzazione del marxismo, in Storia del marxismo, vol. II, Il
marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Torino, Einaudi, 1979, pp. 5-58.
13
Cfr. J. Alber, Dalla carità allo stato sociale, Bologna, Il Mulino, 1986; F. Girotti, Il Welfare State.
Storia, modelli e critica, Roma, Carocci, 2004.
14
Cfr. P. Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, Bologna, Il Mulino, 1987. Sul partito di
massa si veda anche lo studio classico di R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia
moderna, Bologna, Il Mulino, 1976 [ed. orig. tedesca 1911].

10
generale maschile. Le donne dovranno attendere il 1946 per recarsi per la prima volta
alle urne. In generale, si registra un ritardo dei paesi cattolici nel riconoscimento del
diritto di voto rispetto ai paesi protestanti, dove vi è anche un tasso di alfabetizzazione
superiore.
Su quest’ultimo fronte vengono compiuti progressi significativi in tutto il mondo
industrializzato grazie alla costituzione di una scuola pubblica, resa obbligatoria nel suo
ciclo primario. Ai principi del Novecento si può dire che sia generalizzato l’obbligo
della frequenza sino ai dieci anni. La nuova società industriale e di massa ha bisogno di
cittadini più istruiti, in grado di inserirsi e svolgere mansioni lavorative in una società
dalla complessità crescente15. Oltre a soddisfare le esigenze tecniche e lavorative, la
scuola diventa anche il luogo cruciale dove si stimola il processo di integrazione e
nazionalizzazione delle masse16, per completare il passaggio dal vecchio Stato
patrimoniale dell’assolutismo al nuovo Stato nazione. Si creano miti nazionali identitari
atti anche a contrastare la propaganda socialista e internazionalista del movimento
operaio. In Italia generazioni di ragazzi vengono educati all’amor di patria col libro
Cuore di Edmondo de Amicis (1886), scandito da racconti edificanti di cui sono
protagonisti giovani di tutte le parti d’Italia.
Nelle letture scolastiche abbondano i temi militari e si inculca lo spirito del sacrificio
estremo per il proprio paese, sino alla morte. Si parla ai ragazzi che nel giro di alcuni
anni si ritroveranno a compiere il servizio militare, che in questo periodo viene reso
obbligatorio in tutti i principali paesi europei, con l’eccezione rilevante della Gran
Bretagna, che compirà questo passo solo per sostenere le sanguinose battaglie della
Grande Guerra. I nuovi eserciti di massa hanno il compito di formare il cittadino
soldato, secondo un modello che ha avuto il suo primo grande esempio nella Francia
rivoluzionaria di fine Settecento: la levée en masse del 1793 aveva consentito alla
Convenzione repubblicana di impedire l’invasione del paese, introducendo un nuovo
modello di esercito. Esso non ha solo il compito di fornire un addestramento militare,
ma anche di curare la formazione civile dei giovani, completando il lavoro avviato dalla
scuola. Nel caso dell’Italia, questo ruolo pedagogico delle forze armate viene
15
Cfr. C. Cipolla, Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale, Torino,
UTET, 1971; F. Vaniscotte, L’Europa dell’educazione. Sistemi scolastici, istituzioni comunitarie e
priorità formative in Europa, Brescia, La Scuola, 1994.
16
Su questo concetto lo studio spartiacque è quello di G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse.
Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, 1815-1933, Bologna, Il Mulino 1975. Per una
visione del dibattito storiografico su questo tema si veda la voce Nazionalizzazione delle masse di A.M.
Banti in Enciclopedia Italiana, VII Appendice, 2007, consultabile alla pagina web
http://www.treccani.it/enciclopedia/nazionalizzazione-delle-masse_(Enciclopedia-Italiana)/.

11
sottolineato e perorato con forza da studiosi e politici, preoccupati dal distacco tra classe
dirigente e governati, e coscienti delle basi ancora ristrette su cui poggia l’edificio
nazionale17. Saranno le trincee della Grande Guerra a rappresentare una sorta di
collaudo della solidità del giovane Stato nazionale e del ruolo di collante svolto
dall’esercito. Anche per quanto riguarda il caso francese, paese che pur vantava una
lunga storia unitaria, lo studioso Eugen Weber ha parlato del primo conflitto mondiale
come approdo nel cammino «da contadini a francesi»18.

1.4. L’età dell’imperialismo

La formazione degli eserciti di massa solleva all’epoca delle preoccupazioni in parte dei
ceti dominanti. Ci si chiede se non rappresenti un pericolo fornire una preparazione
militare a masse che un giorno potrebbero rivoltarsi contro l’ordine costituito, aderendo
alla propaganda rivoluzionaria dei movimenti socialisti e anarchici. In caso di guerra si
potrà fare affidamento sui soldati di leva? Non sarebbe stato più sicuro puntare su corpi
professionali più ristretti? Queste domande vengono in un certo senso superate dagli
sviluppi tecnologici e industriali, come pure dagli interessi economici e dalle nuove
politiche di potenza: la produzione in serie consente di dotare milioni di uomini di
fucili, proiettili, uniformi e ogni altro mezzo necessario alla vita di un grande esercito 19.
Tutto questo attira enormi interessi e rappresenta un volano per lo sviluppo economico,
incentivato dalle commesse statali. Non intervenire in questi campi della produzione
viene percepito come una minaccia per la sicurezza nazionale. Interi settori
dell’industria pesante diventano strategici e intorno a essi si manifesta un forte
interventismo dello Stato. Non essere presenti in questa gara militare viene considerato
a un certo punto impossibile. Si devono allestire questi grandi eserciti e si deve
competere nella sfida per armamenti più moderni, pena la rinuncia a un ruolo
internazionale di alto profilo. Paesi come l’Italia e la Russia, che hanno un ritardo
rispetto ai paesi industriali più avanzati, si sforzano di realizzare un decollo produttivo
proprio intorno ai settori nevralgici legati alla corsa agli armamenti. Le acciaierie Terni
in Italia e le grandi officine Putilov di Pietroburgo – quest’ultime legate a doppio filo a

17
Cfr. G. Conti, Fare gli Italiani. Esercito permanente e nazione armata nell’Italia liberale, Milano,
Angeli, 2012. Un ruolo fondamentale nell’educazione al sacrificio in guerra viene svolto anche dalle
organizzazioni giovanili del movimento cattolico: si veda al riguardo F. Piva, Uccidere senza odio.
Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana, 1868-1943, Milano, Angeli, 2015.
18
E. Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale, 1870-1914, Bologna, Il
Mulino, 1989.
19
Cfr. G.W.F. Hallgarten, Storia della corsa agli armamenti, Roma, Editori Riuniti, 1972, Parte prima.

12
programmi di ammodernamento tecnologico di cannoni e corazze insieme al colosso
francese Schneider-Creusot – incarnano questo sforzo dei paesi late comers per stare al
passo con i tempi20.
Lo sviluppo di questa dimensione industriale degli eserciti non rimane certo fine a se
stesso, ma è parte fondamentale di una nuova corsa al dominio del mondo, guidata dalla
vecchia Europa. L’età della seconda rivoluzione industriale e della formazione delle
società di massa è anche l’età dell’imperialismo, un fenomeno complesso e dalle mille
sfaccettature21. Il termine rimanda alla costruzione di imperi territoriali coloniali, che
hanno la funzione di garantire alle potenze l’accesso alle materie prime e uno sbocco ai
propri commerci. Si afferma una visione darwiniana delle relazioni internazionali: come
il naturalista inglese nel suo L’origine delle specie (1859) aveva teorizzato l’esistenza di
un processo evolutivo che, attraverso il meccanismo della selezione naturale, conduceva
alla sopravvivenza degli esseri più idonei, così adesso prevale l’idea che la lotta fra le
nazioni per garantirsi territori e risorse rivelerà chi è il più forte, il più adatto a
primeggiare. Corollario non marginale di questa visione è che l’assoggettamento dei
popoli colonizzati sia legittimo, in quanto inevitabile sottomissione del più debole. Si
delinea una visione gerarchica delle popolazioni che assolutizza i rapporti di forza
esistenti in quel momento storico e, nella declinazione più benevola, affida all’uomo
bianco il compito di avviare i popoli arretrati ai benefici della civiltà moderna. È il
«fardello dell’uomo bianco» di cui scrive l’inglese Rudyard Kipling, mentre spiega ai
suoi connazionali i “misteri” esotici del subcontinente indiano22.
Il dibattito sulla natura dell’imperialismo, sul suo significato storico e le lezioni da
trarne, comincia già tra i contemporanei. Se per molti vale l’ottica darwiniana appena
richiamata, per l’economista inglese John A. Hobson si tratta di una manifestazione
della modernità economica e industriale, che vede i paesi più avanzati in lotta per
conquistare mercati e aree di influenza. Questa lotta però per Hobson è degenerata, in
quanto le potenze hanno abbandonato la strada virtuosa della libera competizione per
costruire delle sfere imperiali esclusive, protette da cannoniere e barriere doganali
(Imperialism. A Study, 1902). La meta che egli indica è quella di tornare a una sfida
20
Sul tema del decollo industriale e della modernizzazione dei paesi che devono colmare un divario, si
vedano le fondamentali riflessioni di A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica,
Torino, Einaudi, 1965; ID., Lo sviluppo industriale in Europa e in Russia, Roma-Bari, Laterza, 1971.
21
Cfr. G. Procacci, Storia del XX secolo, Milano, B. Mondadori, 2000, pp. 3-5; T. Kemp, Teorie
dell’imperialismo. Da Marx a oggi, Torino, Einaudi, 1969; D.K. Fieldhouse, L’età dell’imperialismo,
1830-1914, Roma-Bari, Laterza, 1975.
22
Cfr. B. Bagnato, L’Europa e il mondo. Origini, sviluppo e crisi dell’imperialismo coloniale, Firenze,
Le Monnier, 2006.

13
aperta e non militarizzata, prima che si giunga a conflitti rovinosi. La sua può essere
considerata una profezia inascoltata, in quanto nel giro di alcuni anni l’Europa
precipiterà appunto in una guerra devastante e che sarà globale anche per l’esistenza
degli imperi coloniali. A essere influenzato da Hobson e dal dibattito sull’imperialismo
è il leader dei bolscevichi russi Lenin, che a conflitto in corso enuncia la teoria
dell’imperialismo come «fase suprema del capitalismo»: nella sua ottica l’imperialismo
è il prodotto necessario dello sviluppo capitalistico, che tende a unificare le diverse parti
del mondo e crea così le premesse per il suo superamento. Nel 1917, prendendo il
potere in Russia, Lenin si propone di aprire la via alla fine del capitalismo,
trasformando la guerra imperialista in guerra civile all’interno di ogni nazione. Per
Lenin, dunque, l’imperialismo è sì frutto della modernità, ma contrariamente al liberale
Hobson non lo ritiene una degenerazione, bensì la logica espressione di un processo
storico che dovrà condurre alla sconfitta del capitalismo e all’affermazione del
socialismo su scala globale. Sia Lenin che Hobson vengono a loro volta contraddetti
dall’economista austriaco Joseph A. Schumpeter, che nel suo studio Sociologia
dell’imperialismo (1919) interpreta quest’ultimo come atavismo, vale a dire come frutto
di residui arcaici legati al militarismo e al sistema di valori delle tradizionali aristocrazie
europee. Per Schumpeter, dunque, l’imperialismo e la Grande Guerra non sono il frutto
inevitabile del capitalismo, bensì l’effetto dell’influenza mantenuta dai ceti dirigenti
precapitalisti. Secondo questa visione – tradotta in termini storiografici da Arno J.
Mayer nel suo studio sul «potere dell'Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale» –
il capitalismo non ha alcun interesse a rimanere prigioniero di una mentalità obsoleta, di
matrice feudale, e dovrebbe anzi tendere alla creazione di una economia mondiale
integrata. Osserviamo che la prospettiva di Schumpeter in qualche modo intercetta
quella che sarebbe stata l’ascesa della nuova potenza americana, che rispetto alle
potenze imperialiste europee non avrebbe puntato alla conquista dei mercati tramite
l’occupazione militare e la creazione di colonie, bensì assumendo la guida di un sistema
finanziario e commerciale globale23.
La cosa certa è che l’espansione imperiale degli europei è resa possibile da una
strabordante superiorità tecnologica, che li rende quasi imbattibili su ogni campo di

23
Per approfondimenti sulle diverse interpretazioni dell’imperialismo si veda Bagnato, L’Europa e il
mondo, cit., pp. 81 sgg.

14
battaglia24. I loro avversari finiscono con l’arrendersi contro un potere che a tratti
sembra soprannaturale. Nel 1866 l’imperatore abissino Teodoro ordina che sia
imprigionata una ambasceria britannica perché non ha ottenuto da Londra un
riconoscimento del suo status di regnante. Imprigionati in una sperduta fortezza, gli
emissari della regina Vittoria paiono senza speranza. Ma dall’India viene inviato un
contingente per liberarli dotato degli armamenti più moderni. Per gli etiopici non c’è
scampo: in uno scontro di breve durata registrano 700 morti e numerosi feriti, mentre
fra i britannici non muore nessuno. Le porte della fortezza si aprono e a Teodoro non
resta che il suicidio per lavare l’onta della disfatta. Un numero relativamente limitato di
soldati equipaggiati in modo moderno ha avuto facilmente ragione delle difese di un
impero tra i più organizzati nel continente africano25.
La superiorità dei colonizzatori non è limitata alle armi. Fondamentale è il loro controllo
delle comunicazioni a distanza: la spedizione contro Teodoro viene organizzata da
Londra per via telegrafica, con il nemico che neanche può sospettare questa capacità
immediata di reazione26. Anche i progressi della medicina e della chimica farmaceutica
si rivelano cruciali. L’introduzione del chinino intorno al 1850 consentirà agli europei di
addentrarsi nel cuore dell’Africa nera senza essere falcidiati dalla malaria. Se ancora nel
1863 il romanziere francese Jules Verne per consentire ai protagonisti di una sua celebre
storia di esplorare l’Africa da Zanzibar sino alla costa atlantica si vede costretto a dotarli
di un avveniristico aerostato, per sottrarli al pericolo mortale delle febbri malariche e di
altre gravi malattie27, nei decenni successivi grandi contingenti possono spingersi verso
l’interno del continente grazie all’avanzata delle conoscenze mediche28.
I due grandi teatri della corsa imperialista sono l’Africa e l’Asia. La prima viene quasi
completamente spartita nell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Alla Conferenza di
Berlino del 1885 i governi delle potenze europee si accordano sulle rispettive sfere
d’influenza: la sorte di interi popoli, completamente ignari del loro destino, viene decisa
a migliaia di chilometri di distanza sotto la regia del cancelliere Bismarck, che mira a
indirizzare le energie francesi in Africa per distogliere Parigi dalle mire di revanche in
Europa dopo la sconfitta del 1870. Il colonialismo rappresenta una sorta di
24
Cfr. D.R. Headrick, Al servizio dell’impero. Tecnologia e imperialismo europeo nell’Ottocento,
Bologna, Il Mulino, 1984.
25
Cfr. A. Desiderio, Guerre del 21° secolo, Firenze, Giunti, 2008, pp. 24-25.
26
Sulla rivoluzione del telegrafo cfr. P.J. Hugill, Le comunicazioni mondiali dal 1844. Geopolitica e
tecnologia, Milano, Feltrinelli, 2005.
27
Cfr. H.R. Lottman, Jules Verne. Sognatore e profeta di fine millennio, Milano, A. Mondadori, 1999, pp.
3-7, 92-100.
28
Cfr. G. Cosmacini, Guerra e medicina. Dall’antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 160-71.

15
accelerazione distorta della storia per molte parti dell’Africa sub sahariana, dove gli
europei portano la loro tecnologia e i loro commerci, nonché la loro organizzazione
militare e amministrativa, sottomettendo popolazioni che non hanno una cultura scritta e
una tradizione statuale. Il loro contatto con la modernità avviene dunque in forme
brusche e traumatiche, che minano alle fondamenta le loro civiltà29.
Diverso è il discorso per l’Asia, dove i colonizzatori hanno di fronte popoli che hanno
dato vita a imperi e civiltà complesse, e che in lunghe fasi del passato hanno
sperimentato standard di vita superiori a quelli europei. Si pensi al caso della Cina, che
mantiene una indipendenza formale ma di fatto finisce sotto il controllo delle potenze
europee. Dopo le guerre dell’oppio (1839-42, 1856-60) i cinesi devono accettare
l’aggressiva penetrazione commerciale degli europei, che impongono l’apertura dei
porti e il cosiddetto regime delle concessioni: vaste regioni del paese sono attribuite al
controllo economico delle diverse potenze occidentali, i cui cittadini operano senza
dover rispondere alle autorità locali. Sotto il controllo degli europei finiscono le
principali banche, il servizio postale e le linee di comunicazione marittime. Dopo la
repressione della rivolta xenofoba dei Boxer (1898-1901), il Celeste Impero sembra
sull’orlo dello sgretolamento30.
L’altro grande colosso asiatico, l’India, è invece appannaggio esclusivo della Gran
Bretagna. Dopo il sollevamento anti inglese dei sepoys (1857) – reparti di soldati
indiani inquadrati nell’esercito della Compagnia delle Indie Orientali –, il governo
britannico stabilisce un controllo diretto sul subcontinente, insediando una propria
amministrazione guidata da un viceré. Nell’immensa area viene allora avviato un piano
di modernizzazione, caratterizzato da riforme legislative tese a superare una serie di
costumi tradizionali, bonifiche in campo agricolo, costruzione di un sistema di linee
ferroviarie, uso ufficiale della lingua inglese per superare la varietà di idiomi parlati nel
subcontinente. Inizia a prendere corpo l’India come entità unitaria nei termini in cui la
conosciamo oggi31. In questo come in altri casi, ogni tentativo di resistere ai
colonizzatori viene sconfitto anche perché rivolto al passato e alla difesa statica delle
tradizioni: per ritrovare l’indipendenza, questi popoli dovranno invece, nel corso del
Novecento, accettare la sfida della modernizzazione, cercando un loro posto in un

29
Si vedano al riguardo i numerosi spunti in B. Bernardi, Africa. Tradizione e Modernità, Roma, Carocci,
1998; J. Ki-Zerbo, Storia dell’Africa nera. Un continente tra la preistoria e il futuro, Torino, Einaudi,
1977.
30
Per approfondimenti si veda J. Osterhammel, Storia della Cina moderna, Torino, Einaudi, 1992.
31
Cfr. S. Wolpert, Storia dell’India. Dalle origini della cultura dell’Indo alla storia di oggi, Milano,
Bompiani, 1985, pp. 210 sgg.

16
mondo definitivamente trasformato dagli sviluppi tecnologici e industriali e da una
espansione dei commerci senza precedenti32.
L’imperialismo è insomma un vettore di una grande ondata di globalizzazione, che
precede quella a guida americana successiva al 1945 e quella dei nostri giorni. Tale
globalizzazione ottocentesca avviene sotto la leadership della Gran Bretagna – la
principale potenza coloniale, la cui moneta e le cui riserve auree assicurano la stabilità
finanziaria mondiale. La Borsa di Londra è la principale piazza del pianeta, mentre la
flotta britannica e il primato britannico nelle telecomunicazioni (non a caso Guglielmo
Marconi va oltre Manica per realizzare i suoi brevetti sulla radio) sono due pilastri
dell’ordine mondiale33. Non ci sorprende che il già citato Jules Verne, scrittore quanto
mai rappresentativo di questo ciclo storico, scelga un distinto gentiluomo inglese per
compiere Il giro del mondo in 80 giorni (1873), con Londra e il suo meridiano di
Greenwich come punto di partenza e arrivo. Il protagonista può parlare in inglese e
utilizzare le sterline in tutti i luoghi dove passa. Il suo viaggio può svolgersi in soli 80
giorni e con una precisa tabella di marcia grazie alla rivoluzione dei trasporti in atto: la
navigazione a vapore assicura tempi certi rispetto alla vela; l’apertura del canale di Suez
consente di evitare il periplo dell’Africa per andare in Oriente; le ferrovie indiane
consentono di attraversare il subcontinente con una rapidità senza precedenti; negli Stati
Uniti è stata da poco completata la ferrovia che collega il Pacifico all’Atlantico: i giorni
sono contati per il vecchio Far West, quando arrivano i binari del treno e i pali del
telegrafo. Proprio quest’ultimo mezzo permette a una folla di scommettitori di seguire il
viaggio quasi in tempo reale, al pari delle guerre, delle transazioni commerciali e di ogni
vicenda rilevante che accade ai quattro angoli della Terra. Per la prima volta l’intero
pianeta può essere abbracciato in una dimensione realmente unitaria: nelle pagine di
Verne si riflette il vero inizio dell’età contemporanea34. Tutto il successivo cammino
può essere letto secondo la prospettiva dell’incessante crescita dell’interdipendenza
mondiale, e dei modi con cui l’umanità ha preso coscienza e fatto i conti con questa
rivoluzione della storia globale.

32
Cfr. G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale. La penetrazione europea e la crisi
delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Milano, Rizzoli, 1977.
33
Cfr. P. Wende, L’impero britannico. Storia di una potenza mondiale, Torino, Einaudi, 2009, pp. 107
sgg.; N. Ferguson, Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Milano, Mondadori,
2007.
34
Cfr. P. Macry, La società contemporanea. Una introduzione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pp.
162-63.

17
La pressione dell’imperialismo e del capitalismo finanziario unifica il pianeta vincendo
ogni resistenza di tipo tradizionale. Chi non si adegua ai nuovi strumenti economici e
militari è destinato a soccombere o comunque a svolgere un ruolo subordinato. Le
finanze egiziane e l’intero paese finiscono sotto la tutela britannica a partire dal 1882.
La Persia, anch’essa depositaria di una antica civiltà, diventa terreno di una contesa fra
potenze per accaparrarsi le sue risorse petrolifere, specie dopo che la marina britannica
ha deciso di passare nelle nuove imbarcazioni dalla propulsione a vapore ai motori
alimentati a gasolio (1908). In tal modo l’Ammiragliato britannico intende ribattere alla
sfida navale lanciata dalla Germania, assicurando prestazioni migliori alle proprie unità.
Si tratta di una svolta tecnologica che renderà sempre più importante nei decenni
successivi il controllo sul Medio Oriente, man mano che in quell’area si scoprono nuovi
giacimenti di idrocarburi. I tedeschi reagiscono e cercano a loro volta di inserirsi nel
“grande gioco” mediorientale, in particolare mettendo sotto le proprie ali l’impero turco
– altro esempio di potenza tradizionale che non riesce a reggere il passo della
modernizzazione finanziaria e tecnologica. Il grande progetto della ferrovia di Baghdad
(1903) mostra la forza dell’ingegneria e dell’industria tedesca, allarmando i britannici.
Alla fine della Grande Guerra a Baghdad sventolerà la Union Jack, con la costituzione
dell’Iraq come mandato britannico sotto l’egida della neocostituita Società delle
Nazioni. Nel frattempo, il secolo del carbone avrà lasciato il posto al secolo del
petrolio35.
L’unico esempio di civiltà extraeuropea che riesce in quel periodo a contrastare la
pressione occidentale avviando una propria autonoma modernizzazione industriale è
offerto dal Giappone. I nipponici, dopo che americani ed europei gli hanno imposto
l’apertura ai commerci, riescono in poco tempo a passare dalla katana – la spada
tradizionale dei samurai – alle corazzate con cui cominciano ad affermarsi sui mari
orientali. I giapponesi comprendono che se vogliono mantenere la loro indipendenza
devono costruire una forza industriale moderna, base di un esercito completamente
riformato sul modello europeo. Esperti giapponesi cominciano a studiare la tecnica,
l’economia e gli armamenti delle potenze “bianche”, mentre nel Sol Levante giungono
specialisti stranieri nel campo dell’industria e dell’addestramento militare. Viene
introdotta la coscrizione obbligatoria e rafforzata la scuola pubblica per dotare il paese

35
Cfr. G. Pinella, Oro nero d’Oriente. Arabi, petrolio e imperi tra le due guerre mondiali, Roma,
Donzelli, 2006; ID., Frontiere. L’impero britannico e la costruzione del Medio Oriente contemporaneo,
Roma, Carocci, 2013.

18
delle competenze di cui ha bisogno. Viene accettata anche la sfida della
modernizzazione politica e istituzionale, con l’introduzione di un sistema ricalcato su
quello del Reich guglielmino. La nuova potenza nipponica si manifesta dapprima con la
vittoria sulla Cina (conflitto del 1894-95) e soprattutto con la successiva affermazione
sulla Russia (1904-1905) nella contesa per la Manciuria. I giapponesi sconfiggono i
russi per terra e per mare: la loro flotta – e all’epoca la marina da guerra rappresenta una
frontiera tecnologica, come in seguito saranno gli aeroplani e le armi nucleari – batte
nettamente quella zarista, ponendo fine al mito della invincibilità dell’uomo bianco36.
Non a caso la guerra russo-giapponese viene salutata con favore nel mondo coloniale da
tutti quegli esponenti che preconizzano una lotta per l’emancipazione dei loro popoli37.
Anche se all’epoca molti non se ne avvedono, il conflitto russo-giapponese mostra i
caratteri terribilmente distruttivi di una guerra di logoramento industriale: in Manciuria
grandi eserciti si fronteggiano lungo la linea del filo spinato, consumando fiumi di
risorse senza riuscire a compiere sfondamenti di rilievo38. Questo stallo sanguinoso
esaspera la popolazione in Russia e contribuisce a far scoccare la scintilla rivoluzionaria
del 1905. Al fronte la situazione anticipa la carneficina delle trincee che inizierà nel
1914 mietendo milioni di vite umane. La globalizzazione imperialista sfocia in una
guerra totale per estensione geografica e mobilitazione delle forze.

36
Si veda il racconto classico di F. Thiess, Tsushima. Il romanzo di una guerra navale, con una cronaca
di L. Barzini, Torino, Einaudi, 2000 [ed. orig. tedesca 1936].
37
Cfr. G. Procacci, Dalla parte dell’Etiopia. L’aggressione italiana vista dai movimenti anticolonialisti
d’Asia, d’Africa, d’America, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 12 e passim.
38
Cfr. O. Cosson, Esperienze di guerra all’inizio del XX secolo: la guerra anglo-boera, la guerra in
Manciuria, le guerre nei Balcani, in La prima guerra mondiale, a cura di S. Audoin-Rouzeau e J.-J.
Becker, ediz. italiana a cura di A. Gibelli, vol. I, Torino, Einaudi, 2007, pp. 77-88.

19
Per un’autovalutazione

1.Indicare quali sono i criteri adottati per individuare l’inizio dell’età contemporanea.
2.Ricostruire i legami e riflettere sulle interazioni tra la seconda rivoluzione industriale
e l’avvento della società di massa.
3.Chiarire le diverse interpretazioni dell’imperialismo indicate nella narrazione.

20
2. L’età della guerra totale

Tra il 1914 e il 1918 l’Europa e il mondo vengono sconvolti dalla Grande Guerra. Essa
diventerà la prima guerra mondiale dopo che fra 1939 e 1945 un secondo conflitto
globale, ancor più distruttivo del primo, avrà cambiato la faccia del pianeta. Per questo
il trentennio tra il 1914 e il 1945 può essere considerato complessivamente come l’età
delle guerre mondiali, in cui si manifesta tutto il potenziale distruttivo degli armamenti
prodotti dalla rivoluzione industriale. Esso appare sempre più insostenibile, al punto che
anche per i vincitori i benefici appaiono non commisurati alle perdite subite. L’Europa
del 1945 è una distesa di macerie attraversata da milioni di profughi39: il Vecchio
continente ha perduto per sempre la posizione di dominio mondiale raggiunta nella fase
storica precedente. Il mondo non ha più un assetto eurocentrico: la distanza appare
enorme rispetto a quell’estate del 1914 in cui decisioni cruciali per le sorti dei popoli di
tutto il pianeta vennero assunte in un pugno di cancellerie europee.

2.1. La scoperta della guerra industriale tecnologica

Per combattere la guerra scoppiata nell’agosto di quell’anno le potenze mobilitano tutto


il loro apparato industriale e gli eserciti di massa allestiti durante la corsa imperialista.
Si tratta di una sorta di collaudo della solidità economica e sociale degli Stati
belligeranti: la vittoria non dipenderà tanto dal valore militare, quanto piuttosto dalla
capacità di mantenere in efficienza al fronte milioni di uomini, superando il nemico in
quantità e qualità dei prodotti necessari alla prosecuzione delle ostilità40. In Italia, tra il
1915 e il 1918 il numero delle mitragliatrici prodotte mensilmente passa da 25 a 1.200,
dei proiettili prodotti al giorno da 10.400 a 88.400, dei motori d’aviazione assemblati
annualmente da 606 a 14.820. Imprese come la FIAT e la Pirelli, che nel 1914 hanno
ancora una dimensione artigianale, grazie alle commesse belliche crescono a dismisura
e assumono l’aspetto di imprese moderne, con migliaia di operai e impianti rinnovati. I
Comitati della mobilitazione industriale, guidati da un militare, assegnano le materie
prime e fissano le priorità produttive a tutte le aziende coinvolte nello sforzo bellico.
Una guerra di materiali, dunque, che si combatte non solo al fronte ma anche, se non
soprattutto, alle catene di montaggio del “fronte interno”, dove gli operai lavorano sotto

39
Cfr. S. Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il
Mulino, 2008; K. Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale,
Roma-Bari, Laterza, 2016.
40
Cfr. J. Winter, Lo sforzo bellico, in La prima guerra mondiale, vol. I, cit., pp. 393-402.

21
un regime militare che proibisce scioperi e contestazioni. Il sindacato viene coinvolto
nella mobilitazione e nei diversi paesi viene chiamato a collaborare alla pace sociale, in
cambio di tutele economiche per i lavoratori. D’altra parte in numerosi casi il
movimento operaio non si è opposto all’entrata in guerra, aderendo anzi al clima di
mobilitazione nazionale. Il caso principale è quello della influente socialdemocrazia
tedesca, i cui deputati al Reichstag il 4 agosto del 1914 votano i crediti di guerra,
giustificando il passo con la necessità di difendere la patria contro il reazionario imperio
zarista, bastione della conservazione europea. I socialisti francesi, a loro volta,
appoggiano il governo con la motivazione di resistere al militarismo germanico:
inascoltati cadono gli appelli del leader socialista Jaurès, che il 31 luglio 1914 viene
assassinato a Parigi da un nazionalista. È la fine degli ideali di fratellanza tra i popoli
contenuti nel programma della Seconda Internazionale, nei cui congressi più volte era
stata enunciata l’estraneità della classe operaia ai disegni imperialisti delle borghesie
nazionali. Aveva fatto epoca nel 1904 l’abbraccio tra Sen Katayama e Plechanov in
occasione del congresso di Amsterdam dell’Internazionale, mentre si stava combattendo
la guerra russo-giapponese41. Dieci anni dopo il messaggio internazionalista subisce un
duro colpo e si rivela in tutta la sua forza il processo di nazionalizzazione delle masse,
che è riuscito a integrare ampi strati della classe operaia.
Nel 1914-18 il carattere di guerra di logoramento industriale è reso particolarmente
evidente dallo stallo delle trincee, immortalato in Niente di nuovo sul fronte occidentale
del tedesco Remarque, romanzo a base autobiografica in cui il conflitto appare come un
massacro insensato, in cui migliaia di giovani periscono ogni giorno senza che la linea
del fronte si sposti di un centimetro. Il fatto è che la situazione tecnologica dell’epoca
favorisce chi si difende rispetto a chi attacca, col risultato che basta l’organizzazione di
trincee ben presidiate perché ogni sforzo di avanzata in profondità risulti vano. È la
guerra della mitragliatrice e dei reticolati di filo spinato, delle comunicazioni radio che
contribuiscono a eliminare ogni effetto di sorpresa. Diversa sarà l’evoluzione tecnica e
strategica al tempo della seconda guerra mondiale, quando l’avvento di divisioni
indipendenti di carri armati, gli sviluppi dell’aviazione, la miniaturizzazione degli
apparecchi radio e altri fattori conferiranno maggiore forza alle dottrine offensive,

41
L’episodio è ricordato da J. Romein, Il secolo dell’Asia. Imperialismo occidentale e rivoluzione
asiatica nel secolo XX, Torino, Einaudi, 1969, p. 44. Al ritorno in patria, il dirigente giapponese venne
arrestato con l’accusa di «tradimento della nazione».

22
consentendo di realizzare la guerra di movimento (ad esempio la “guerra lampo”
tedesca).
La guerra industriale risulta spogliata di ogni dimensione eroica: si avanza in massa
verso le linee nemiche senza che abbia senso alcun atto di eroismo individuale; si vive
per settimane come formiche nelle trincee, lottando contro il fango e i parassiti. Le
divise sgargianti tradizionali devono essere messe da parte in favore di colori mimetici,
e questo vale anche per gli ufficiali. Milioni di uomini si trovano sul nastro di
montaggio verso una morte meccanizzata di massa: la guerra ingoia esseri umani allo
stesso modo con cui consuma proiettili, divise, autocarri, benzina, cibo in scatola 42. Il
moderno sistema della produzione di massa si rovescia in un meccanismo di distruzione
di massa, che consuma risorse in modo spropositato. In Gran Bretagna il deficit
pubblico sale dai 324 milioni di sterline dell’esercizio 1914-1915 ai 2.130 di quello del
1918-1919; per la Francia le cifre sono rispettivamente 6.175 e 49.858 milioni di
franchi. È il progresso tecnico e industriale a rendere possibile che il conflitto duri più
di quattro anni: un tempo, quando arrivava il tempo della semina, gli eserciti composti
da contadini si dissolvevano e i soldati dovevano tornare alle proprie terre. Per quanto il
più delle volte inesorabile e crudele, il ciclo maltusiano delle risorse costituiva un freno
alla violenza organizzata. Con l’età industriale queste colonne d’Ercole sono state
varcate nel bene e nel male43.
A rendere possibile il protrarsi delle ostilità è anche l’inquadramento politico e sociale
delle masse realizzato dagli Stati europei nei decenni precedenti. Opportunamente
governata, la società di massa rivela una solidità e un potenziale militare di tutto
rispetto. Lo spettro di una sollevazione popolare resta sulla scena, specie quando si
arriva al 1917, l’anno in cui la stanchezza collettiva si manifesta sia al fronte che nelle
retrovie, generando una repressione durissima immortalata in Orizzonti di gloria di
Stanley Kubrick (pellicola tratta da un romanzo del canadese Humphrey Cobb)44. Ma la
vera “notizia”, per usare il gergo giornalistico, è che milioni di uomini continuano in
condizioni estreme a ubbidire fino all’ultimo a ordini di cui il più delle volte non
comprendono la logica e le finalità. Vi è una sorta di rivincita del ceto medio, l’altro
grande protagonista della società di massa, che in passato era parso schiacciato – vaso di

42
Cfr. E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale,
Bologna, Il Mulino, 1985.
43
Cfr. la riflessione di P. Kennedy, Verso il XXI secolo, Milano, Garzanti, 1993, pp. 17-25.
44
Cfr. L.V. Smith, Renitenze, ammutinamenti e repressioni, in La prima guerra mondiale, vol. I, cit., pp.
339-52; E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Roma-
Bari, Laterza, 1998.

23
coccio nel confronto tra padronato e classe operaia –, esposto al rischio
dell’impoverimento e della proletarizzazione. La piccola borghesia, nelle cui file sono
sempre stati forti i sentimenti patriottici e nazionalisti, fornisce agli eserciti quegli
ufficiali di complemento che sono fondamentali per la conduzione della guerra. Ai loro
occhi il conflitto in corso deve rappresentare una rigenerazione nazionale, tale da
educare le masse contadine e operaie all’amor di patria, estirpando la mala pianta del
socialismo. L’instabilità generale del dopoguerra assesterà un duro colpo a tali
aspirazioni. Vi sono poi giovani borghesi che tornano dalle trincee senza credere più
nella retorica nazionalista e avvertendo un legame di tipo nuovo con le masse sfruttate e
mandate al macello: si pensi al sardo Emilio Lussu, che consegnerà questa sua
esperienza di vita nelle pagine di Un anno sull’altipiano45.
Per le comunità che escono dalla prova della guerra totale si pone il problema cruciale
di conferire un senso ai sacrifici sostenuti. Si afferma il culto dei caduti attraverso la
celebrazione rituale del milite ignoto e la costruzione di cimiteri e sacrari di guerra46. In
ogni paese il monumento ai caduti rende capillare la pedagogia nazionale. Si tratta in
verità del culmine di un processo già iniziato prima del 1914: lo storico George Mosse
ha illuminato in particolare il caso tedesco, dove il culto dei caduti prende il via dalle
guerre di liberazione contro Napoleone47. Mentre cresce il grado di secolarizzazione
delle società – accelerato fortemente dall’industrializzazione e dagli stili di vita urbani –
vi è un travaso di religiosità verso lo Stato e i suoi simboli. La politica si sacralizza48 e
lo Stato nazione industriale diviene quel “Leviatano 2.0” di cui ha parlato lo storico
Charles Maier, per il quale ci si attende che i cittadini sacrifichino quanto hanno di più
caro, sino alla propria vita49.
Oltre ai morti, si deve urgentemente pensare alla cura dei milioni di mutilati, invalidi e
disadattati prodotti dal conflitto. La necessità di sostenere questa enorme massa dolente
stimola con una forza senza precedenti l’interventismo pubblico nel campo della
sicurezza sociale e della salute dei cittadini. Specie in Europa centro-occidentale, si
gettano le basi di quello che sarà il Welfare State. Inizia un cammino che verrà
completato dopo il 1945, sulla spinta di un conflitto ancora più catastrofico e totale nei
45
E. Lussu, Un anno sull’altipiano, Parigi, Edizioni italiane di coltura, 1938. Alla testimonianza di Lussu
si ispira Uomini contro (1970), film di denuncia contro la guerra di Francesco Rosi.
46
Cfr. J.M. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Bologna, Il
Mulino, 2014.
47
G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990.
48
Cfr. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari, Laterza, 2013.
49
Cfr. Ch.S. Maier, Leviatano 2.0. L’ideazione dello stato moderno, in Storia del mondo, vol. 5, I mercati
e le guerre mondiali, 1870-1945, Torino, Einaudi, 2015.

24
suoi effetti sulla popolazione. Lo Stato che chiede l’estremo sacrificio ai propri cittadini
deve assumere l’impegno di provvedere alle loro famiglie, all’istruzione e al lavoro
degli orfani, alla cura degli anziani rimasti soli. Tendenze comunque presenti
all’intervento dello Stato, legate ai problemi di tipo nuovo della società industriale,
vengono stimolare e accelerate dal turbine della guerra.
L’ampliamento e il rafforzamento del ruolo dello Stato colpisce diversi osservatori
mentre la Grande Guerra è ancora in corso. Si inizia a intuire che l’esperienza bellica
rappresenta una cesura che apre una fase storica inedita. Il paese che più si spinge in
avanti sulla strada del controllo pubblico sull’economia e la società è la Germania, in
quanto ha il problema di razionalizzare al massimo l’impiego delle proprie risorse a
causa del blocco navale e territoriale cui è sottoposta dalle potenze dell’Intesa. Stretti
nel cuore dell’Europa, i tedeschi per aumentare la loro produzione bellica fanno dei veri
e propri miracoli di organizzazione e di tecnica. La chimica tedesca, all’epoca la più
avanzata del mondo, consente di produrre le sostanze sintetiche che possono sostituire
le merci straniere. Un governo militare gestisce con cronometrica regolarità tutto
l’apparato produttivo e pianifica nei minimi dettagli l’attività delle aziende e i
rifornimenti sia per l’esercito che per i civili. Si arriva a parlare di “socialismo di
guerra” per riassumere in una formula ciò che si realizza in Germania. Economisti russi
che poi saranno tra gli artefici della pianificazione sovietica studiano con molta
attenzione quanto sta avvenendo nel Secondo Reich. Non solo la Germania, ma il
complesso delle potenze belligeranti viene invece analizzato da esperti giapponesi
inviati in Europa dal governo imperiale, per apprendere le tecniche della mobilitazione
totale. A conflitto concluso, nel 1919, in Giappone viene approvata una legge sulla
mobilitazione di guerra che poi sarà applicata negli anni trenta e quaranta. I giapponesi,
mentre combattono la prima guerra mondiale, si preparano già per la seconda50.

2.2. Guerra totale e interdipendenza

La guerra si combatte principalmente sui campi di battaglia europei, ma appare subito


chiara la sua dimensione globale, dovuta al fatto che l’Europa è legata al resto del
pianeta in un intreccio caratterizzato dalla crescente interdipendenza51. Le potenze
mobilitano le loro risorse coloniali a fondo: massimo esempio è la Gran Bretagna, le cui
50
Cfr. W. Schwentker, L’Estremo Oriente prima e durante la guerra, in La prima guerra mondiale, vol.
I, cit., pp.579-90.
51
Sul carattere globale del conflitto si veda O. Janz, 1914-1918. La Grande Guerra, Torino, Einaudi,
2014.

25
forze armate sono costituite per un sesto da soldati delle colonie, tra cui 1.300.000
indiani. Saranno alla fine 60.000 i caduti indiani e i reduci che tornano nel
subcontinente portano una rinnovata consapevolezza dei diritti del loro popolo.
Fondamentale è anche il contributo dei soldati dei dominions, le colonie britanniche di
popolamento bianco che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento si sono visti
riconoscere una crescente autonomia nei loro affari interni. Gli australiani combattono
contro i turchi a Gallipoli in uno scontro che forgia la loro identità nazionale: non a caso
l’Australia è il paese che nel 2014 ha speso più di tutti per le celebrazioni del centenario
della Grande Guerra. A Londra, l’Imperial War Cabinet ha un carattere davvero globale:
ne fanno parte personalità come il generale sudafricano Smuts, che sarà tra gli ideatori
dell’istituto del mandato; nel 1917 vi viene ammessa anche l’India, in virtù del
contributo rilevante che sta fornendo allo sforzo bellico.
Anche per questo suo carattere di “rivelazione” dell’interdipendenza mondiale, la
Grande Guerra è stata considerata da molti la vera porta della contemporaneità, l’inizio
effettivo del ventesimo secolo. Chi scrive propende invece per una considerazione
unitaria del periodo 1870-1945, come fase in cui l’intreccio tra seconda rivoluzione
industriale e società di massa fornisce agli Stati nazionali il potenziale distruttivo che
viene poi applicato nelle guerre mondiali. Una “età dell’acciaio” che vede l’apogeo
della supremazia europea e poi il suo crollo nella “seconda guerra dei trent’anni” (1914-
1945) che apre la via alla nuova egemonia statunitense52. Proprio l’entrata in guerra
degli Stati Uniti, nell’aprile del 1917, è un segno della globalità dello scontro che sta
avvenendo. Gli americani non possono più assistere indifferenti a quanto accade in
Europa, perché nell’ottica ormai globale dei rapporti di forza economici e militari, una
massa euroasiatica controllata dalla Germania rappresenterebbe una minaccia per
Washington, che ha bisogno di mantenere aperti i mercati mondiali per sostenere la sua
crescita impetuosa, iniziata dopo il termine della Guerra di secessione (1865). Alla fine
la Germania di Guglielmo II viene sconfitta e il conflitto si rivela un momento cruciale
dell’ascesa degli Stati Uniti, che tra 1914 e 1919 acquistano la leadership in numerosi
mercati che gli europei hanno dovuto forzatamente abbandonare, e al tempo stesso da
debitori passano alla condizione di creditori delle altre potenze vincitrici. Quest’ultime,
al termine del conflitto, devono complessivamente agli americani circa 7 miliardi di

52
Sul tema delle periodizzazioni si vedano gli spunti in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm
del Secolo breve, a cura di S. Pons, Roma, Carocci, 1998.

26
dollari. Cambiano gli equilibri finanziari e si inizia a vedere il sorpasso tra la Borsa di
Londra e Wall Street53.
L’intervento americano del 1917 è legato anche a un altro evento cruciale della storia
mondiale: lo scoppio in Russia, nel febbraio di quell’anno, di un moto rivoluzionario
che travolge lo zar. Il governo provvisorio, di impronta liberaldemocratica, annuncia
l’intenzione di proseguire la guerra e onorare i trattati di alleanza, ma non si può avere
molta fiducia nel contributo che l’esercito russo potrà dare, considerato che è sull’orlo
dello sfaldamento completo. Wilson, dunque, rompe gli indugi perché la Germania sta
vincendo la guerra a Est e potrebbe presto essere libera di concentrare tutte le sue forze
sul fronte occidentale, per stabilire la sua egemonia sull’intera Europa. L’impero zarista
si rivela il meno adatto a sostenere lo sforzo della guerra industriale totale: è l’anello
debole della catena imperialista di cui parla Lenin, il leader di quei bolscevichi che in
ottobre abbattono il governo provvisorio e si presentano come la scintilla che dovrà
appiccare il fuoco rivoluzionario a tutta l’Europa. “Fare come in Russia” diventa in quel
periodo uno slogan assai popolare tra le file operaie e contadine.
La guerra totale potrebbe dunque sfociare nella rivoluzione globale. Il comunismo russo
si concepisce fin dal principio come un progetto globale, al punto che i leader
bolscevichi appaiono convinti che se l’incendio rivoluzionario non si estenderà alla
Germania e ad altri paesi, non sarà possibile mantenere il potere in Russia54. Gli
americani si ergono subito a controparte dei bolscevichi in una sfida per conquistare i
cuori delle masse e l’opinione pubblica mondiale: al decreto sulla pace di Lenin
contrappongono al principio del 1918 i Quattordici Punti del presidente Wilson, un
manifesto per la riorganizzazione dell’Europa in senso democratico (attraverso la
“autodeterminazione dei popoli”) e per lo sviluppo dei commerci mondiali liberati dai
vincoli protezionistici dell’imperialismo coloniale55. Alla “libertà dei mari” Wilson
aggiunge l’abbandono della “diplomazia segreta”, che con i suoi accordi di potenza
viene ritenuta responsabile del conflitto. A essa deve subentrare una conduzione
trasparente della politica estera, che nei diversi paesi possa essere sottoposta al controllo
democratico dell’opinione pubblica. Sulla base di queste aspirazioni alla fine della
guerra nasce la Società delle Nazioni, incaricata di regolare pacificamente le

53
Cfr. S. Pollard, Storia economica del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 82-83.
54
Cfr. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Torino, Einaudi,
2012, pp. 3-9.
55
Cfr. A.J. Mayer, Wilson vs. Lenin. Political Origins of the New Diplomacy, 1917-1918, New York
1963.

27
controversie internazionali e di impedire atti di aggressione. Le potenze coloniali
dell’Intesa hanno bisogno del loro grande alleato d’oltreoceano e manifestano dunque
pubblico appoggio alle idee wilsoniane, ma sottobanco inizia un confronto con
Washington in cui Londra e Parigi difendono le barriere commerciali nei loro
possedimenti coloniali e una applicazione dell’autodeterminazione dei popoli temperata
dalla Realpolitik.
La diplomazia segreta viene condannata anche dai bolscevichi, che dopo la presa del
Palazzo d’Inverno si affrettano a rendere pubblici tutti i trattati firmati dalle potenze
dell’Intesa, allo scopo di denunciare le trame imperialiste e le falsità della propaganda
anglo-francese. Quella in corso è una guerra per la spartizione del mondo – afferma
Lenin – e le promesse di libertà e democrazia dei vari governi borghesi sono solo degli
artifici per mantenere i soldati nelle trincee e gli operai alle catene di montaggio. Anche
i bolscevichi cavalcano l’autodeterminazione delle nazioni oppresse, ma diversamente
da Wilson estendono pienamente questo principio al mondo coloniale, dichiarando
guerra all’imperialismo britannico e a tutti gli altri colonialismi. Viene teorizzata una
alleanza tra il proletariato industriale della metropoli e i movimenti di liberazione delle
periferie, tale da far cadere l’intero sistema imperialista. A Baku, nel Caucaso azero, si
svolge nel 1920 un Congresso dei popoli dell’Oriente in cui viene lanciata la parola
d’ordine della “guerra santa” contro l’Occidente e il capitalismo.
La guerra totale alimenta i progetti di rigenerazione totale dell’ordine internazionale e
delle società: agli occhi di milioni di uomini solo un rinnovamento radicale potrà
giustificare le immani sofferenze del conflitto. Sono in molti a parlare della necessità di
un “ordine nuovo” nel confuso dopoguerra, ma dopo la fase travagliata del “biennio
rosso” (1919-1920) l’ordine borghese tradizionale sembra tenere in Europa, al pari degli
edifici coloniali. Del resto, in forme diverse, i due paesi “araldi” del cambiamento si
ritirano dalla scena internazionale: negli Stati Uniti vincono le tendenze isolazioniste e
prevale quindi l’idea che sia stato un errore partecipare al conflitto e immischiarsi nelle
contese di potenza dell’Europa; la Russia rivoluzionaria finisce invece nel tunnel della
guerra civile, da cui riemergerà come URSS e con la necessità di concentrarsi sulle
questioni interne. In questa situazione sembra quasi che si possa restaurare il mondo
prebellico e mantenere un assetto eurocentrico, ma tale aspirazione si rivelerà illusoria.
Stati Uniti e Unione Sovietica ritorneranno con un ruolo di primo piano attraverso una
seconda e ancor più distruttiva guerra totale.

28
2.3. La guerra fuori controllo e i totalitarismi

La Grande Guerra assesta un colpo mortale alla prospettiva di un “incivilimento” dei


conflitti tra paesi progrediti: questa idea, coltivata a partire dall’illuminismo, aveva
prodotto nel corso dell’Ottocento una serie di accordi di carattere umanitario tesi a
limitare la distruttività delle operazioni militari56. Era stata creata la Croce rossa
internazionale per la cura dei feriti sul campo di battaglia e si era pensato alla tutela dei
prigionieri. Un cardine di questo sforzo giuridico era stato il principio della protezione
della popolazione civile, che non doveva in alcun modo essere coinvolta in azioni di
guerra. All’Aja due storiche conferenze della pace (1899 e 1907) avevano suscitato
grandi speranze, ma la terza conferenza, prevista per il 1915, non si era poi svolta a
causa dello scoppio della guerra, che introduce uno scenario drammatico. La totalità del
nuovo conflitto conduce adesso a teorizzare l’affamamento del nemico per vincerne la
resistenza. Il blocco a cui è sottoposta la Germania produce numerose vittime tra la
popolazione e un aumento impressionante di malattie come il rachitismo infantile. Nelle
zone occupate le garanzie per i civili non vengono il più delle volte rispettate. Si
verificano casi di deportazione e violenze sistematiche contro intere popolazioni: il caso
più tragico è lo sterminio degli armeni a opera dell’esercito turco, che li considera
nemici interni. A centinaia di migliaia muoiono in estenuanti marce di trasferimento nel
deserto.
Il coinvolgimento dei civili avviene anche con un mezzo rivoluzionario che fa il suo
esordio in guerra: l’aeroplano, che “manda in pensione” il dirigibile e viene utilizzato in
azioni di bombardamento contro i centri urbani57. A Londra, Parigi, nei centri della
Renania, alla fine delle ostilità si contano alcune migliaia di vittime. Alle conferenze
dell’Aja era stato vietato il lancio di ordigni sulle città da aerostati, ma adesso questi
limiti umanitari vengono ignorati, nello sforzo di colpire il morale del nemico. La
guerra aerea totale viene ritenuta pienamente legittima, in quanto il “fronte interno”, con
le sue officine e i suoi centri direzionali, deve essere considerato a tutti gli effetti un
obiettivo militare. La guerra industriale contemporanea emerge come un fenomeno
tendenzialmente senza limiti: sempre più nel corso del Novecento risuonerà la formula

56
Cfr. G. Best, Humanity in Warfare. The modern history of the international law of armed conflicts,
London, Weidenfeld & Nicolson, 1980.
57
Tra i primi teorizzatori della guerra aerea totale vi è il generale italiano Giulio Douhet. Si vedano E.
Lehmann, La guerra dell’aria. Giulio Douhet, stratega impolitico, Bologna, Il Mulino, 2013; Th.
Hippler, Bombing the people. Giulio Douhet and the foundations of air power strategy, 1884-1939,
Cambridge, Cambridge University Press, 2013.

29
che la guerra non si può più umanizzare, ma si deve solo mettere al bando se si vuole
evitare la catastrofe per intere società.
Negli anni venti e trenta circolano fosche previsioni su quello che accadrà ai centri
abitati nel caso di una nuova guerra fra potenze industriali. Si parla di bombardamenti
aerochimici che ridurranno a città morte metropoli come Londra, Parigi e Berlino.
Ormai si accetta come inevitabile il fatto che in caso di guerra il meglio della tecnologia
e dell’industria sarà impiegato contro la popolazione nemica. Ne consegue la necessità
di prepararsi per tempo addestrando i civili ad affrontare il pericolo degli attacchi aerei:
in tutti i paesi nascono programmi di difesa civile, che prevedono l’organizzazione di
esercitazioni antiaeree, la costruzione di rifugi, piani di evacuazione di massa, la
formazione di corpi speciali per la rimozione delle macerie. Si determina uno scenario
in cui l’intera popolazione acquisisce uno status paramilitare, ed è tenuta a ubbidire agli
ordini come i soldati. La guerra totale esige l’addestramento permanente dei civili e il
loro inquadramento dal tempo di pace, per non correre il rischio che una fulminea
aggressione aerea del nemico getti il paese nella più completa disorganizzazione. È
questa la prospettiva che viene a maturazione negli anni trenta, e che appare come una
sinistra anticipazione degli scenari della guerra atomica. Tale consapevolezza della
catastrofe incombente marca una differenza cruciale tra lo scoppio della prima e della
seconda guerra mondiale: mentre la prima può essere considerata la scoperta degli abissi
che si aprono dinanzi alla civiltà industriale, e quindi in qualche modo “giustificabile”,
la seconda è certamente una colossale “sconfitta della ragione” – così la definisce
Giuliano Procacci nella sua Storia del XX secolo.
Questo clima di militarizzazione delle società europee coincide con una ritirata generale
della democrazia nel Vecchio continente58. Negli anni trenta solo un pugno di paesi
conservano istituzioni democratiche, mentre il resto è retto da governi autoritari
tradizionali oppure da regimi fascisti (li chiamiamo così perché ha fatto da battistrada il
fascismo italiano, che ha preso il potere nel 1922). Il fascismo in Italia e il nazismo in
Germania si distinguono dagli autoritarismi del passato in quanto sono dei regimi di
massa, che alla capillarità delle strutture repressive affiancano moderni meccanismi per
mobilitare le masse e ottenerne il consenso59. Si tratta di sistemi reazionari di tipo
moderno, concepiti per governare una società di massa, come iniziano a notare i più

58
Cfr. S. Colarizi, Novecento d’Europa. L’illusione, l’odio, la speranza, l’incertezza, Roma-Bari,
Laterza, 2015, pp. 127-33, 152 sgg.
59
Cfr. E. Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 2004.

30
attenti osservatori dell’epoca. Tra loro vi è il comunista italiano Palmiro Togliatti, che
in un suo corso moscovita ai quadri del partito tenuto nel 1935 si sofferma sul carattere
di massa degli istituti del fascismo, che emerge come una forma peculiare di
modernità60. Togliatti parla ai suoi allievi nell’URSS di Stalin, dove si sta svolgendo un
esperimento sociale senza precedenti di modernizzazione dall’alto a tappe forzate sotto
il controllo del partito Stato, che ubbidisce al suo capo assoluto. Alcuni iniziano a
notare delle analogie tra il comunismo staliniano, il nazismo e il fascismo: un partito
dominante, una ideologia guida, un capo carismatico, il controllo completo dei mezzi di
informazione, e così via. Tale comunanza darà vita alla categoria del totalitarismo, che
pur avendo gravi limiti esplicativi, è utile per rendere la situazione degli anni Trenta e
l’attesa di una nuova guerra totale61.
Quando si arriva alla seconda guerra mondiale è largamente circolante l’idea che i
totalitarismi saranno più efficienti nel combattere i conflitti del futuro, in quanto stanno
realizzando quella militarizzazione e quel controllo delle masse che saranno
indispensabili per sopravvivere. Le democrazie, al contrario, per loro intima natura non
possono raggiungere questo grado di coesione militare e sono dunque destinate a
soccombere. Un pensatore assai rappresentativo di questo clima è il francese Élie
Halévy, che nel suo L’era delle tirannie (1936) prevede che una nuova guerra si
concluderà col definitivo seppellimento degli ideali liberaldemocratici 62. Il legame
ottocentesco tra industrializzazione, progresso civile e crescita delle libertà – condiviso
da illustri pensatori come dagli uomini comuni – sembra lasciare il passo al suo
rovescio: la modernità produce scenari da incubo, che trovano in George Orwell un
raffiguratore d’eccezione. Nel suo romanzo 1984 (1949) il mondo del futuro versa in
uno stato di guerra perenne tra grandi potenze che se lo sono spartito; tale conflitto è
consustanziale alla natura di questi Moloch, che da esso traggono la giustificazione per
la soppressione delle libertà interne e per mantenere un controllo ossessivo su tutte le
persone. In ogni luogo vi sono degli schermi attraverso cui le autorità possono
sorvegliare tutta la popolazione in ogni momento della giornata63.

60
P. Togliatti, Sul fascismo, a cura di G. Vacca, Roma-Bari, Laterza, 2004. Si veda inoltre E. Gentile,
Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002.
61
Cfr. le considerazioni di Procacci, Storia del XX secolo, cit., pp. 212-14. Per una utile sintesi si veda S.
Forti, Il totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001.
62
Cfr. Élie Halévy e l’era delle tirannie, a cura di M. Griffo e G. Quagliariello, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2001.
63
Cfr. B. Crick, George Orwell, Bologna, Il Mulino, 1991; L. Marrocu, Orwell. La solitudine di uno
scrittore, Pisa-Cagliari, dP, 2009.

31
Orwell, estremo interprete di una tradizione satirica di denuncia che ha prodotto
capolavori come I viaggi di Gulliver, coglie nella sua opera ed estremizza tutti i segnali
più inquietanti dell’epoca. Mentre scrive 1984, sul mondo si proietta l’incubo di una
terza guerra globale combattuta fra Stati Uniti e Unione Sovietica, in cui sarà utilizzata
la bomba atomica, il nuovo micidiale ordigno sperimentato per la prima volta nel 1945
contro le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.

2.4. L’era nucleare: fine della “razionalità” della guerra

La vicenda della costruzione dell’arma atomica è quanto mai rappresentativa dei


caratteri assunti dalla guerra industriale: in essa si intrecciano militarizzazione della
scienza, interventismo pubblico a fini bellici, influenza di un gigantesco complesso
militare-industriale che condiziona a ogni livello la vita americana64. Il progetto
Manhattan comporta la spesa enorme di circa due miliardi di dollari dell’epoca, occupa
una concentrazione di cervelli senza precedenti e mobilita decine di migliaia di tecnici e
lavoratori sparsi in numerosi laboratori e impianti. Intere città come Los Alamos
vengono edificate dal nulla, mentre enormi estensioni desertiche vengono attrezzate per
esperimenti in un regime di assoluta segretezza. Anche le democrazie possono dunque
realizzare programmi totalitari con alto grado di militarizzazione. Nasce la cosiddetta
Big Science, che produce le sue gigantesche installazioni come le antiche civiltà
edificavano piramidi, palazzi imperiali, cittadelle fortificate.
L’arma atomica rappresenta in un certo senso l’apoteosi della guerra industriale
tecnologica: la sua comparsa apre infatti le porte a un modello di conflitto in cui è
definitivamente impossibile distinguere tra militari e civili. Si tratta dello strumento per
eccellenza della guerra totale, in quanto può essere impiegato solo contro le città nel
loro complesso, con effetti di distruzione totale. A un attacco atomico si può resistere
solo con un alto grado di militarizzazione della società e l’unica risposta a esso consiste
in una rappresaglia nucleare contro i centri urbani nemici. Gli scenari degli anni trenta
relativi alla guerra aerea si ripropongono alla massima potenza, al punto da rendere
quasi inconcepibile il compito di addestrare la popolazione. Negli Stati Uniti un piano
per la costruzione di rifugi antiatomici viene abbandonato negli anni cinquanta a causa
della crescita esponenziale del potere distruttivo degli ordigni. Si passa allora allo studio
di piani di evacuazione e vengono costruite grandi vie autostradali per l’abbandono

64
Cfr. R. Rhodes, L’invenzione della bomba atomica, Milano, Rizzoli, 1990.

32
rapido delle città: le grandi arterie a sei e più corsie rese familiari dai film americani
sono figlie della guerra totale non meno che della consumistica motorizzazione di
massa. Ma anche i piani di evacuazione segnano a un certo punto il passo dinanzi alla
scoperta della contaminazione radioattiva, un vento che in caso di deflagrazione
ucciderà inesorabilmente tutte le persone rimaste all’aperto.
Vent’anni dopo Hiroshima diviene concreta la prospettiva di una reciproca distruzione
totale dei contendenti in caso di guerra: un conflitto nucleare vorrebbe dire MAD,
acronimo di Mutual assured destruction, ma anche “pazzo” nella lingua inglese. Un
gioco di parole per rendere l’idea della follia rappresentata ormai dalla guerra. La
distruzione completa non riguarderebbe solo i paesi belligeranti, ma potrebbe estendersi
all’intero pianeta, attraverso il fenomeno dell’inverno nucleare: un certo numero di
esplosioni nucleari avvolgerebbe infatti la Terra in una coltre di nubi tale da impedire
l’effetto serra e la fotosintesi clorofilliana per un lungo periodo di tempo. Il risultato
sarebbe una estinzione di massa per moltissime specie, analoga ad esempio a quella che
aveva portato alla scomparsa dei dinosauri 65 milioni di anni prima. L’Homo sapiens
diventa così la prima specie in grado di estinguere se stessa e buona parte della vita sul
pianeta a causa delle sue attività: l’Olocene volge in Antropocene, l’era segnata dalla
presenza aggressiva dell’Homo Faber in tutti gli ecosistemi terrestri65.
Il baratro che si apre dinanzi all’umanità condiziona i calcoli strategici delle
superpotenze atomiche, Stati Uniti e Unione Sovietica, le cui classi dirigenti si trovano a
dover gestire una fase storica inedita e paradossale66. Si sviluppa una corsa ad
accumulare arsenali dal potere distruttivo tale da annientare innumerevoli volte la vita
sul pianeta, e che quindi appaiono inutilizzabili nelle crisi locali. Le armi atomiche
inducono Mosca e Washington a cercare un equilibrio: dopo lo scontro più acuto
dell’immediato dopoguerra, si parla allora di “coesistenza pacifica” e “distensione”.
Secondo vari osservatori, la spada di Damocle atomica ha contribuito fortemente a non
far scoppiare la terza guerra mondiale, nonostante i diversi momenti di tensione vissuti
tra Est e Ovest. Governanti e militari scoprono che non ci si può più permettere una
guerra totale. La guerra tra potenze ha perduto del tutto la sua razionalità
clausewitziana, secondo cui la guerra è “la prosecuzione della politica con altri

65
Cfr. la riflessione di K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, Milano, Pgreco, 2013 [ed.
orig. tedesca 1958].
66
Cfr. M. Trachtenberg, History and Strategy, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1991; N.
Labanca, Guerre contemporanee. Dal 1945 a oggi, Firenze, Giunti, 2008.

33
mezzi”67. Questa idea dei conflitti come partite a scacchi in cui si combatte finché il
gioco vale la candela decade di fronte a uno scenario in cui fin dal primo scambio di
colpi missilistici il proprio territorio sarebbe una distesa spettrale di rovine.
Dopo il 1945, lo scontro che prende il nome di “guerra fredda” si svolge anche tra due
modelli di organizzazione per la guerra industriale. Quello americano è caratterizzato da
una ricerca incessante del predominio tecnologico nei settori ritenuti più avanzati.
Laboratori, imprese e forze armate lavorano a stretto contatto, influenzando con le loro
scelte ed esigenze l’orientamento delle amministrazioni presidenziali che si succedono.
Dwight Eisenhower, nel suo discorso d’addio alla nazione del 1961, evidenzia la
«congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari ed un’enorme industria di
armamenti» come fatto «nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale
nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità, viene sentita in ogni città, in ogni
organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Noi riconosciamo il bisogno
imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprendere le
sue gravi implicazioni». È una allarmata riflessione su quel “complesso militare-
industriale” che aveva rivelato tutta la sua forza nel primo conflitto mondiale: sorto in
Europa, questo formidabile intreccio organizzativo ed economico giunge alle sue punte
estreme nel Nuovo Mondo. Siamo ormai nell’era in cui il presidente americano viaggia
con la valigetta contenente i codici per il lancio dei missili nucleari: in caso di crisi e di
attacco nemico in corso, si deve decidere in pochi minuti come rispondere. Ciò
comporta una modifica irreversibile del significato delle istituzioni democratiche: un
pugno di uomini intorno al presidente deve stabilire immediatamente cosa fare, senza il
tempo di poter riunire il Congresso e ogni altro organismo democratico.
L’American Way of War riproduce sul piano militare i caratteri industriali e manageriali
della società statunitense. La produzione degli armamenti, che ha contribuito a far uscire
il paese dalla depressione degli anni trenta, diventa un volano permanente
dell’economia nazionale. Si stabilisce una forma di “keynesismo militare” che consente
di superare le fasi recessive attraverso la leva della spesa pubblica e dei finanziamenti
alla ricerca. La presenza del nemico sovietico mantiene la società in uno stato di
mobilitazione, simboleggiato dai piani delle esercitazioni antiatomiche. L’attesa di un
Armageddon nucleare intercetta strati profondi della cultura nazionale, segnata da miti
della rigenerazione.

67
Sulla figura del militare e teorico cfr. G.E. Rusconi, Clausewitz, il prussiano, Torino, Einaudi, 1999.

34
Ancora più ossessiva e totalizzante appare l’attesa dello scontro finale col nemico nel
modello sovietico, tutto condizionato dall’esigenza di prepararsi a ulteriori aggressioni
del mondo capitalista, dopo l’Operazione Barbarossa del 1941. Soprattutto le scelte
dell’ultimo Stalin sono segnate dall’idea della inevitabilità della guerra, ritenuta
consustanziale all’imperialismo. Tutte le risorse vengono indirizzate in via prioritaria
verso l’industria pesante e il settore bellico. Nata dagli sconvolgimenti di una guerra
totale, l’URSS è segnata in tutta la sua parabola dall’obiettivo di essere in grado di
vincere questo tipo di guerra. Anche dopo la morte di Stalin, il sistema della
pianificazione militarizzata non viene abbandonato e l’URSS conserva il suo imprinting
staliniano. Specularmente all’America, in URSS opera un potente complesso militare-
industriale, che si nutre dell’attesa di una nuova grande guerra.

35
Per un’autovalutazione

1. Individuare i principali caratteri della guerra totale industriale novecentesca.


2. Descrivere il carattere rivoluzionario dell’arma atomica.
3. Riflettere sui legami fra guerre mondiali e fine dell’assetto eurocentrico.

36
3. Guerra fredda e decolonizzazione

3.1. Un nuovo ordine bipolare e asimmetrico

Il secondo conflitto mondiale è una guerra “costituente”, nel senso che viene combattuta
per il dominio sulle diverse parti del pianeta e il suo verdetto stabilisce una nuova
gerarchia e un nuovo ordine internazionale68. La sconfitta della Germania, dopo quella
subita nel 1918, pone fine al tentativo di questo paese di diventare la potenza egemone
sull’Eurasia e una delle massime potenze planetarie, insieme agli Stati Uniti e
all’impero britannico (al quale fino all’ultimo Hitler appare disposto a riconoscere un
ruolo d’ordine sui popoli non bianchi). Nel complesso, viene ridimensionata
severamente l’Europa: anche i paesi vincitori, Francia e Inghilterra, devono rinunciare
alla posizione imperiale e non possono più agire come potenze globali. Emergono
invece come “superpotenze” gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, anche se l’assetto
bipolare cui danno vita appare sin dal principio profondamente asimmetrico: l’America,
infatti, esce dal conflitto in una condizione di schiacciante vantaggio su tutti gli altri
paesi industrializzati69. Le distruzioni non hanno riguardato il territorio americano, la
cui economia ha beneficiato in modo formidabile della funzione di “arsenale delle
democrazie”: nel 1945 circa il 50% della produzione manifatturiera mondiale avveniva
negli USA, i quali detenevano anche i 2/3 delle riserve auree. Per contro, l’Unione
Sovietica aveva registrato terribili devastazioni sul proprio territorio e oltre 20 milioni
di morti (alcune stime attribuiscono all’URSS almeno il 50% delle vittime dell’intero
conflitto). Il paese si presentava come un gigante militare, ma le condizioni di vita al
suo interno non si potevano neanche lontanamente paragonare a quelle del popolo
americano. Questa disparità sarebbe stata un elemento strutturale della guerra fredda: la
rincorsa sovietica al benessere dell’Occidente sarebbe rimasta incompiuta e Mosca
avrebbe retto il confronto con Washington sul piano militare e della Big Science, non su
quello dello sviluppo complessivo.
Possiamo dunque capire come negli anni successivi al 1945 i sovietici giocassero
essenzialmente sulla difensiva, mentre solo gli americani potevano ambire a un ruolo
egemonico globale e quindi assicurare a livello internazionale una “stabilità
egemonica”, secondo l’espressione utilizzata dallo studioso Robert Gilpin. Nella

68
Cfr. R. Gilpin, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Bologna, Il Mulino, 1989.
69
Cfr. S. Luconi, La «nazione indispensabile». Storia degli Stati Uniti dalle origini a oggi, Firenze, Le
Monnier, 2016, pp. 156-58.

37
globalizzazione ottocentesca tale stabilità veniva garantita dall’impero britannico, poi
nell’età delle guerre mondiali era sorta una “sfida triangolare” tra Gran Bretagna,
Germania e Stati Uniti che aveva lasciato il sistema senza un chiaro leader. Il carattere
catastrofico della crisi finanziaria del 1929, e la lunga depressione mondiale degli anni
trenta che ne è scaturita, secondo diversi studiosi sono dovuti a questa assenza di una
leadership. Londra, che pure ha cercato di restaurare il dominio della sterlina, non è più
in grado di svolgere il ruolo stabilizzatore di un tempo; gli americani, dal canto loro,
non sono ancora pronti ad assumersi responsabilità sistemiche e rimangono sulla linea
dell’isolazionismo. Il risultato è che ogni paese cerca di uscire dalla crisi in modo
unilaterale, e il quadro di crescente frammentazione che ne deriva contribuisce a
generare quella serie di crisi politiche e militari che condurranno allo scoppio del
secondo conflitto mondiale70.
La nuova guerra mondiale dà il colpo finale all’assetto eurocentrico delle relazioni
internazionali e segna l’ascesa definitiva degli Stati Uniti a un ruolo egemonico, sotto la
guida di Franklin Delano Roosevelt, uno dei massimi statisti del secolo. Il suo Grand
Design prevede la costruzione di un nuovo ordine sotto la guida americana, tale da
assicurare un lungo periodo di stabilità e pacifica espansione del commercio
internazionale71. Il pilastro economico-finanziario di questa architettura viene fondato
dagli accordi di Bretton Woods (luglio 1944), che istituiscono il Fondo monetario
internazionale, la Banca Mondiale e gettano le basi di un sistema finanziario centrato sul
dollaro, che assume il ruolo un tempo svolto dalla sterlina72. Il pilastro politico è
rappresentato dalla nascita delle Nazioni Unite, il nuovo organismo sovranazionale
concepito per porre rimedio ai limiti mostrati dalla Società delle Nazioni73.
Quest’ultima aveva sofferto della diarchia tra Assemblea e Consiglio, che aveva
inficiato la sua efficacia operativa; adesso nell’ONU i poteri vengono concentrati nel
Consiglio di sicurezza, dove siedono in permanenza le potenze a cui Roosevelt affida il
compito di “poliziotti” benevoli dell’ordine mondiale: Stati Uniti, Unione Sovietica,
Gran Bretagna, Francia, Cina. Si cerca così di infondere una linfa di maggiore realismo
nel progetto originario wilsoniano, di fronte al quale l’America si era poi ritratta. Ora,
70
Cfr. ad esempio Ch.P. Kindleberger, La grande depressione nel mondo, 1929-1939, introduzione di F.
Caffè, Milano, ETAS, 1982.
71
Cfr. M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2006, Roma-Bari, Laterza, 2008,
pp. 250-74.
72
Cfr. B. Steil, La battaglia di Bretton Woods. J. Maynard Keynes, Harry D. White e la nascita di un
nuovo ordine mondiale, Roma, Donzelli, 2015.
73
Si vedano A. Polsi, Storia dell’ONU, Roma-Bari, Laterza, 2006; P. Kennedy, Il parlamento dell’uomo.
Le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale, Milano, Garzanti, 2007.

38
nonostante la morte di Roosevelt (aprile 1945), gli Stati Uniti confermano il loro
impegno egemonico: il mutamento degli equilibri mondiali è simboleggiato dal
trasferimento dalla vecchia sede ginevrina della SDN al nuovo Palazzo di Vetro di New
York dell’ONU, inaugurato nel 1952.
Nelle intenzioni di Roosevelt l’America dovrebbe esercitare un ruolo guida in
collaborazione con le altre potenze, cui spetterebbe il compito della stabilizzazione
regionale. In particolare, l’ordine europeo dovrebbe riposare su un condominio anglo-
sovietico, mentre alla Cina e alla stessa URSS sarebbe affidata la funzione di
stabilizzare il panorama asiatico e impedire risorgenze dell’imperialismo nipponico.
Inizialmente, l’URSS con Stalin sembra aderire a questo progetto, che sancirebbe quel
riconoscimento dello status di grande potenza all’Unione Sovietica a cui il leader
georgiano ha sempre aspirato. L’insorgere della guerra fredda blocca questa
“normalizzazione” del ruolo dell’URSS. Alla stagione della alleanza antifascista
subentra una nuova contrapposizione manichea fra capitalismo e socialismo, che trova
terreno fertile nella cultura politica e nella visione del mondo di entrambe le
superpotenze: per gli americani si tratta di sbarrare la strada al “totalitarismo” sovietico
dopo aver sconfitto quello nazista; per i sovietici si ripropone il paradigma
dell’accerchiamento capitalistico e della guerra come fattore ineludibile nel passaggio
storico dall’imperialismo al socialismo. Entrambi i contendenti raffigurano il nemico
come una nuova minaccia analoga al nazismo, vale a dire come il male assoluto.

3.2. La guerra fredda dall’Europa al mondo

Lo scoppio pieno della guerra fredda – espressione usata dallo scrittore inglese George
Orwell e resa popolare dal giornalista americano Walter Lippmann – avviene nel 1947,
quando prende corpo la strategia americana del containment nei confronti del
comunismo74. Esso non è inteso solo sul piano militare: fondamentale appare la capacità
di risollevare economicamente i paesi dell’Europa occidentale, in modo che non
rappresentino terreno fertile per la protesta sociale e per l’azione dei partiti comunisti
(particolare preoccupazione destano la Francia e l’Italia, dove operano i partiti
comunisti più forti del mondo occidentale; entrambi nel 1947 vengono costretti ad
abbandonare gli esecutivi di unità nazionale di cui facevano parte). Per questo nel
giugno del 1947 il segretario di Stato americano George Marshall annuncia un grande
74
Cfr. F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009, pp.
49-59.

39
piano di sostegno alla ricostruzione europea, che prenderà il suo nome. Il programma è
rivolto a tutti i paesi europei, blocco sovietico incluso, ma è chiaro che a Washington si
mette in conto un rifiuto di Mosca, considerato l’obiettivo del piano di integrare le
economie del Vecchio Continente e inserirle nella globalizzazione a guida statunitense.
Il no dei sovietici arriva infatti puntuale, ed esso vale per tutti i paesi satellite
dell’Europa Orientale, che vengono costretti ad abbandonare il tavolo delle trattative. Il
Piano Marshall nei quattro anni successivi vede l’erogazione di ben 17 miliardi di
dollari, con effetti importanti nella ripresa di tutti i meccanismi economici e
produttivi75. I sovietici rispondono con un irrigidimento ideologico e politico: nel
settembre 1947 viene fondato il Cominform e Andrej Ždanov, stretto collaboratore di
Stalin, enuncia la “dottrina dei due campi”, che sancisce l’inconciliabilità tra il mondo
socialista e il fronte dei paesi capitalisti76.
Gli stanziamenti del Piano Marshall vengono estesi alle regioni della Germania
occupata gestite da americani, inglesi e francesi. Per impedire che dalla loro
unificazione nasca uno Stato tedesco occidentale, di cui teme il potenziale militare,
Stalin nel 1948 ordina il blocco di Berlino, nel tentativo di isolare la parte della città
presidiata dalle potenze occidentali e indurle così a tornare al tavolo delle trattative. Si
apre una crisi molto grave, che si conclude però senza che si spari un colpo e che appare
rappresentativa del modo di combattere la guerra fredda, in una sorta di partita a scacchi
condotta facendo attenzione a non varcare la soglia fatale che determinerebbe lo scoppio
di un conflitto cruento. Il blocco dei sovietici, che gli angloamericani aggirano
organizzando il più grande ponte aereo della storia, può essere accostato al blocco
navale che gli americani nel 1962 stabiliranno intorno a Cuba. Anche nei Caraibi si
svolgerà un confronto di nervi in cui ogni mossa è concepita per lasciare una via
d’uscita, facendo conto anche sulla ragionevolezza degli avversari77. Il che rimanda a
uno dei fattori fondamentali che impediscono alla guerra fredda di diventare “calda”: né
Mosca né Washington desideravano una nuova guerra generale.
La crisi di Berlino produce effetti opposti a quelli auspicati da Stalin: invece di mettere
in difficoltà i governi occidentali si trasforma in una loro prova di forza; invece di
riaprire i negoziati sulla Germania fa precipitare la divisione in due del paese. Nel 1949

75
Per il caso italiano si veda J.L. Harper, L’America e la ricostruzione dell’Italia, 1945-1948, Bologna, Il
Mulino, 1987.
76
Cfr. Pons, La rivoluzione globale, cit., pp. 200-14.
77
Cfr. M.R. Beschloss, Guerra fredda. Kennedy e Kruscev, Cuba, la crisi dei missili, il muro di Berlino,
Milano, Mondadori, 1991.

40
nascono così a ovest la Repubblica federale tedesca, e ad est la Repubblica democratica
tedesca, inserita nel blocco sovietico. Nello stesso anno viene firmato il Patto Atlantico,
col quale gli Stati Uniti si impegnano in una alleanza militare permanente con i paesi
dell’Europa occidentale. Il Grand Design rooseveltiano è rimasto incompiuto, ma
conosce intanto una prima sua applicazione “atlantica”: il blocco costituito dal
Nordamerica e dall’Europa occidentale, insieme al Giappone, sarà la locomotiva di
questa prima globalizzazione a guida americana, che tra il dopoguerra e gli anni settanta
determina il periodo di crescita economica globale più lungo e mediamente sostenuto
dell’era industriale. È il periodo in cui avvengono i “miracoli economici” degli ex
nemici dell’America – l’Italia, la Germania, il Giappone – ora divenuti bastioni per
contenere l’espansione del comunismo.
Nel 1949 la guerra fredda si è stabilizzata in Europa: la divisione della Germania
completa la definizione dei confini tra i due campi, che per quarant’anni, fino al crollo
del muro di Berlino del 1989, saranno rispettati dalle due superpotenze. Della
intangibilità di questa separazione fra le due Europe si avrà una conferma importante
nel 1956, quando, nonostante il profluvio propagandistico occidentale, gli insorti
ungheresi saranno lasciati completamente soli a fronteggiare l’invasione dell’Armata
Rossa. Il 1949 è anche l’anno in cui si conclude la guerra civile in Grecia, con la vittoria
dei monarchici e il mantenimento del paese nella sfera occidentale. Tra i fattori che
determinano l’esito del conflitto vi è il venir meno dell’appoggio sovietico ai partigiani
comunisti: Stalin intende infatti rispettare le sfere di influenza e riconosce la Grecia
come zona di pertinenza occidentale – cosa che del resto aveva già fatto nel noto
“incontro dei bigliettini” con Churchill dell’ottobre 1944, quando per la Grecia aveva
previsto un 90% di influenza britannica e solo il 10% per l’URSS. Sia a Mosca che a
Washington si considera la divisione come un dato di fatto e un elemento di stabilità.
La guerra fredda non fa in tempo però a stabilizzarsi in Europa che conosce un
drammatico allargamento all’Asia, con la vittoria del comunismo in Cina (ottobre
1949)78 e lo scoppio di un sanguinoso conflitto in Corea (giugno 1950)79. Si aprono gli
anni più bui della guerra fredda, in cui una terza guerra mondiale sembra a un certo
punto imminente. In URSS si assiste all’ultima tragica stagione dello stalinismo, i cui
metodi vengono “esportati” anche nei paesi dell’Europa Orientale; in America il doppio

78
Sulle vicende cinesi si veda G. Samarani, La Cina del Novecento. Dalla fine dell’impero a oggi,
Torino, Einaudi, 2004.
79
Cfr. S.H. Lee, La guerra di Corea, Bologna, Il Mulino, 2003.

41
shock della Cina in mano ai “rossi” e della realizzazione della bomba atomica da parte
dei sovietici alimenta una psicosi anticomunista che viola pesantemente le libertà civili:
sono gli anni del maccartismo, così chiamato per il ruolo svolto dal senatore McCarthy,
inflessibile persecutore delle “attività antiamericane”. La raffigurazione del comunismo
come corpo estraneo e mortale per lo spirito della nazione alimenta tra l’altro una ricca
stagione hollywoodiana di film di fantascienza popolati da alieni minacciosi, carica di
un messaggio politico abbastanza esplicito.
Stalin autorizza il leader nordcoreano a invadere la Corea del Sud perché ritiene che gli
americani non interverranno per puntellare il corrotto e impopolare regime di Syngman
Rhee. Del resto, non avevano da poco assistito passivamente all’entrata dell’esercito di
Mao a Pechino? In realtà, come accaduto in vari altri casi, Stalin non comprende le
logiche dei governi occidentali. Proprio perché uscito sconfitto dal dibattito interno
sulle vicende cinesi, Truman non può più mostrarsi incerto e disposto ad accettare una
nuova espansione delle forze comuniste. Rischia di essere compromessa anche la
credibilità dell’impegno americano in Europa ad arginare la pressione dell’Armata
Rossa. Per questo il containment viene ora declinato su scala globale e gli Stati Uniti
intervengono con le loro truppe in Corea alla testa di un contingente internazionale sotto
la bandiera dell’ONU. Ne scaturisce un lungo conflitto che provoca oltre due milioni di
vittime e coinvolge massicciamente i civili, concludendosi con il sostanziale
mantenimento dei confini di partenza tra le due Coree. La barriera ipermilitarizzata che
ancora oggi corre lungo il 38° parallelo è l’ultimo muro della guerra fredda rimasto in
piedi.
La crisi coreana rappresenta l’ultimo tentativo di guadagnare terreno nella sfera
d’influenza avversaria scaturita dalla seconda guerra mondiale. Come per l’Europa,
anche in Asia si afferma il principio della intangibilità di questi confini. Nelle fasi
successive della guerra fredda, la sfida si sposta verso i territori che si stanno liberando
dal colonialismo e si trovano quindi di fronte all’alternativa tra il modello capitalista e
quello socialista. Quest’ultimo, agli occhi dei movimenti indipendentisti, sembra offrire
la ricetta giusta per colmare in poco tempo il divario con i paesi più avanzati.
L’esperienza sovietica della modernizzazione accelerata rappresenta per molti la prova
che è la pianificazione centralizzata la via per superare la condizione drammatica di
arretratezza in cui versano tanti popoli dell’Asia e dell’Africa. Anche l’affermazione del

42
comunismo in un grande paese come la Cina pare indicare che in sistemi di tipo
collettivista risieda il futuro del mondo in via di decolonizzazione80.
Proprio le vicende coreane marcano una nuova rilevanza del ruolo di Pechino e la sua
aspirazione a fungere da faro per il comunismo del Sud del mondo: sono infatti le
truppe cinesi a impedire a un certo punto del conflitto che l’intera Corea finisca sotto il
controllo americano, ricacciando le forze internazionali dell’ONU nella parte
meridionale della penisola. Anche in questo caso, come per la Germania, i calcoli di
Stalin si rovesciano nella situazione opposta: autorizza Kim Il-sung ad attaccare per
riaffermare la sua leadership sul movimento comunista e si determina invece un
rafforzamento del peso della Cina. Quest’ultima è troppo grande per essere ridotta alla
gestione monolitica del comunismo internazionale affermata da Stalin negli anni venti.
A tale immagine monolitica prestano peraltro fede gli americani, i quali sottovalutano
gli elementi di tensione in realtà esistenti fra Mosca e Pechino, che dal principio degli
anni sessanta esploderanno in forme clamorose. Legata all’idea di un organico disegno
comunista mondiale è la paura del cosiddetto effetto domino, spesso evocato dai
responsabili della politica estera statunitense per giustificare le loro scelte. Esso consiste
nella diffusione a macchia d’olio del comunismo da un paese all’altro a meno che non si
intervenga con le maniere forti per bloccare il contagio, stabilendo una sorta di cordone
sanitario.
Dopo la Corea l’effetto domino viene chiamato in causa per motivare l’impegno
americano in Indocina, dove nel 1954 le forze francesi subiscono la traumatica sconfitta
di Dien Bien Phu. Parigi si vede costretta a negoziare con il movimento indipendentista
vietnamita e a firmare gli accordi di Ginevra, che portano alla divisione del Viet Nam
lungo il 17° parallelo. A una parte nord sotto la guida del Viet Minh – forza di
liberazione dal colonialismo che combina originalmente comunismo e nazionalismo – si
contrappone il Viet Nam del Sud, il cui governo si pone sotto la protezione occidentale.
Gli americani si trovano a subentrare ai francesi (in crisi politica e sulla strada di un
altro grave conflitto, quello algerino) nel ruolo di protettori del Viet Nam meridionale,
con l’obiettivo di fermare una ulteriore avanzata del comunismo. Lo stesso presidente
Eisenhower parla di un effetto domino che potrebbe condurre alla vittoria del
comunismo in tutto il Sud-Est asiatico, alterando gravemente gli equilibri strategici
della guerra fredda. Si tratta di una visione che, oltre a sopravvalutare le forze nemiche,

80
Cfr. F. Bettanin, Modernizzazione, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, a cura di S. Pons e R.
Service, vol. II, Torino, Einaudi, 2007, pp. 43-47.

43
applica gli schemi della guerra fredda in contesti dove il significato storico
fondamentale degli eventi che stanno accadendo è quello della lotta contro il
colonialismo. Dal 1964, l’escalation della crisi vietnamita porterà gli americani a inviare
in quell’area oltre 500 mila uomini e a lanciare sul Viet Nam del Nord una quantità di
esplosivo superiore a tutta quella impiegata durante la seconda guerra mondiale, ma
senza piegare un popolo che stava combattendo la sua guerra di liberazione ed era
dunque disposto a lottare sino all’estremo. Tutto questo determina una contraddizione e
una ferita nella società americana: gli Stati Uniti, che pure condannano il colonialismo e
si ritengono pienamente alternativi alle sue pratiche, nel nome della guerra contro il
comunismo si trovano a ereditare il ruolo delle vecchie potenze coloniali
nell’appoggiare regimi conservatori corrotti e nel contrastare movimenti per
l’indipendenza81.

3.3. I tre mondi e il non allineamento

Anche i sovietici, dopo la morte di Stalin (1953), la cui politica era rimasta centrata
sulla salvaguardia delle posizioni acquisite in Europa, varano una nuova strategia
internazionale per conquistare influenza nelle aree in via di decolonizzazione. A Mosca
si parla di una naturale alleanza tra i paesi comunisti e quelli in via di sviluppo, che
devono unirsi contro il comune nemico imperialista. Prende forza il paradigma dei “tre
mondi” – quello capitalista, quello socialista e il Terzo Mondo, costituito dai paesi che
si stanno liberando dal giogo coloniale82. In questo Terzo Mondo vi è però chi, dopo
aver lottato contro i colonialisti europei, non vuole cadere in nuove forme di dipendenza
verso gli Stati Uniti o l’URSS. Secondo questa prospettiva, il Terzo Mondo deve
cercare il proprio cammino verso la libertà e lo sviluppo senza finire invischiato nei
condizionamenti della guerra fredda. Tali idee rappresentano il brodo di coltura del
movimento dei paesi “non allineati”, che sorge sulla scena internazionale negli anni
cinquanta e poi si accresce man mano che accedono all’indipendenza nuovi Stati (un

81
Cfr. M. Frey, Storia della guerra del Vietnam. La tragedia in Asia e la fine del sogno americano,
Torino, Einaudi, 2008.
82
L’espressione Terzo Mondo si deve allo studioso francese Alfred Sauvy, che la conia negli anni
cinquanta per indicare il gruppo di paesi né capitalisti né socialisti, in larga parte coincidenti con le aree in
via di decolonizzazione. La formula è ricalcata su quella del Terzo Stato protagonista della Rivoluzione
francese. Al pari delle passate lotte del Terzo Stato, anche il Terzo Mondo è impegnato in una battaglia
per il riconoscimento del proprio diritto allo sviluppo. Per approfondimenti si veda G. Calchi Novati,
Decolonizzazione e Terzo Mondo, Roma-Bari, Laterza, 1979.

44
passaggio simbolico è quello del 1960, “l’anno dell’Africa”, nel corso del quale
diventano indipendenti ben 17 paesi dell’Africa subsahariana)83.
L’evento rivelatore del nuovo protagonismo assunto dai paesi liberatisi dal colonialismo
è la conferenza afro-asiatica che si svolge nel 1955 a Bandung, in Indonesia. La scelta
del luogo risponde a motivi precisi: l’Indonesia soddisfa il doppio requisito di non
appartenere ad alleanze militari legate alla guerra fredda e di essere retta da un governo
di coalizione in cui siedono nazionalisti, comunisti ed esponenti dei partiti islamici. Dai
lavori di Bandung scaturisce una condanna senza appello del colonialismo e l’impegno
a chiuderne il più rapidamente possibile la pagina. Vengono inoltre enunciati i principi
che dovrebbero regolare la collaborazione tra i diversi paesi, riassumibili nella formula
della “coesistenza pacifica”. Si chiede anche il definitivo riconoscimento
dell’uguaglianza delle razze da parte della comunità internazionale, questione già posta
in passato dalla delegazione giapponese alla conferenza di Versailles e in altre
circostanze ufficiali come il congresso panafricano di Parigi del 192184.
A Bandung si afferma l’importanza che i paesi di nuova indipendenza si aiutino a
vicenda ed evitino di entrare in alleanze economiche e militari legate agli interessi di
uno dei due blocchi della guerra fredda. Una simile condotta non è però semplice da
realizzare per i paesi in via di sviluppo, che hanno bisogno delle risorse finanziarie e
tecnologiche dei paesi più avanzati del Nord del mondo. Lo si vede bene nel caso
dell’Egitto, il cui leader, Gamal Abd el-Nasser, interpreta il non allineamento come
diritto dei paesi emergenti a dialogare con entrambi gli schieramenti della guerra fredda,
senza aggiogarsi al carro di nessuno dei due. Ma il suo equilibrismo va in crisi quando
gli americani, in reazione a un suo accordo per forniture militari col blocco sovietico,
ritirano i finanziamenti per la costruzione della grande diga sul Nilo ad Assuan, progetto
cardine del piano di modernizzazione dell’Egitto. Allora il leader egiziano, per non
rinunciare alla diga, decide di nazionalizzare la compagnia che gestisce i proventi del
traffico navale nel canale di Suez, in mano a inglesi e francesi. A Londra e a Parigi non
si accetta questa decisione e si decide di intervenire militarmente stipulando un patto
segreto con Israele. Quando le forze israeliane avanzano dalla penisola del Sinai, gli
anglofrancesi occupano i punti strategici del canale con il pretesto di garantire la

83
Su questi processi di liberazione si veda B. Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Milano,
B. Mondadori, 2007.
84
Su questi temi si veda Terzo Mondo addio. La conferenza afro-asiatica di Bandung in una prospettiva
storica, a cura di G. Calchi Novati e L. Quartapelle, Roma, Carocci, 2007. Sulla questione specifica della
richiesta nipponica a Versailles cfr. N. Shimazu, Japan, Race and Equality. The Racial Equality Proposal
of 1919, London-New York, Routledge, 1998.

45
sicurezza del naviglio. Si apre una crisi molto grave, in cui la Francia e l’Inghilterra
vengono a trovarsi in una condizione di isolamento internazionale. Il leader sovietico
Chruščëv minaccia di reagire con una rappresaglia nucleare a questo rigurgito di
colonialismo vecchio stile. Ma è soprattutto l’ostilità americana a costringere Londra e
Parigi a un umiliante passo indietro: la Casa Bianca prospetta infatti il ritiro del suo
sostegno finanziario alle economie dei due paesi, eventualità che li porterebbe alla
bancarotta. La crisi si conclude quindi con il ritiro anglofrancese dal canale: è il canto
del cigno del colonialismo europeo; non a caso la decolonizzazione in Africa conoscerà
una accelerazione negli anni seguenti. Diventa chiaro al mondo che le vecchie potenze
coloniali non sono più in grado di intervenire autonomamente in Asia e Africa contro il
volere delle nuove superpotenze. Il canale di Suez, che aveva segnato l’apertura della
corsa alla spartizione dell’Africa, diventa ora l’emblema della morte del colonialismo85.
Si è aperta per contro la gara tra Mosca e Washington per conquistare consensi negli
immensi territori che vanno liberandosi: la guerra fredda condiziona pesantemente la
decolonizzazione, venendone a sua volta influenzata. L’intreccio tra l’asse Est-Ovest e
la direttrice Nord-Sud caratterizza la storia del secondo Novecento: nei giorni della crisi
egiziana del 1956 la cosa diventa particolarmente evidente per la coincidenza temporale
con la repressione dei moti ungheresi da parte dei sovietici. Sembra anzi che la
decisione finale di Chruščëv di intervenire in Ungheria sia legata alle notizie che
provengono dal Mediterraneo: a Mosca si nutre il timore che la Francia e l’Inghilterra
stiano agendo in combutta con gli Stati Uniti e che la coincidenza con i fatti d’Ungheria
non sia casuale; potrebbe essere in atto un piano occidentale per destabilizzare il blocco
sovietico e la stessa URSS. Il mito del nemico monolitico non vale insomma solo a
Washington ma anche a Mosca.
Dopo il 1956 le superpotenze interverranno massicciamente nel Sud del mondo,
finanziando piani di sviluppo e firmando accordi economici, ma anche alimentando
guerriglie e appoggiando colpi di Stato86. Del resto, l’assetto bipolare tende a risolversi
in un “gioco a somma zero”, in cui la perdita di influenza in un determinato contesto si
risolve automaticamente in un vantaggio dell’avversario: ciò induce ad agire e a

85
Si vedano J.L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra, Torino, Einaudi, 2007; M.
Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Roma-Bari, Laterza, 2012; M. Campanini, Storia
del Medio Oriente contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2014.
86
Cfr. O.A. Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo. Le relazioni
internazionali del XX secolo, Milano, Il Saggiatore, 2015.

46
occupare spazi che altrimenti sarebbero appannaggio del nemico 87. A fare le spese in
senso negativo delle pressioni della guerra fredda è soprattutto l’Africa, che diventa il
regno delle guerre intestine, dove si fronteggiano fazioni sovvenzionate dal campo
occidentale o da quello socialista. Drammatiche sono ad esempio le vicende legate alla
decolonizzazione portoghese degli anni settanta: sia l’Angola che il Mozambico
diventano teatro di lunghe e sanguinose guerre civili che si protraggono fino agli anni
novanta. Conflitti di questo tipo sarebbero probabilmente scoppiati in ogni caso in paesi
senza una tradizione statuale e segnati da divisioni etniche e religiose, ma l’influenza
della contesa sovietico-americana (cui si aggiungono le trame di vecchi gruppi
coloniali) contribuisce in molti casi ad aggravarli.

3.4. Est-Ovest vs Nord-Sud: da una direttrice all’altra

Tra gli anni sessanta e settanta, man mano che la guerra fredda si stabilizza e si entra
nell’epoca della “distensione”, aumenta il numero dei governi e degli esperti
internazionali portatori della tesi che la vera discriminante negli affari mondiali non
passa più lungo l’asse Est-Ovest, bensì attraverso quello Nord-Sud. Lo sostengono ad
esempio all’ONU i paesi promotori dell’UNCTAD (United Nations Conference for
Trade and Development), organismo che a partire dal 1964 si batte per una revisione
delle regole del commercio internazionale, le quali risultano regolarmente penalizzanti
verso i paesi più deboli. Si scopre che i rapporti di subordinazione tra centro e periferia
tipici del colonialismo sono sopravvissuti alla stagione delle indipendenze politiche, che
non si sono risolte in indipendenze economiche. Da ciò scaturisce il fenomeno del
neocolonialismo: i paesi che ne soffrono gli effetti sono rimasti in una condizione di
dipendenza e di sottosviluppo. È una sorta di deragliamento dal cammino della speranza
in un futuro migliore che aveva accompagnato la stagione della decolonizzazione. Ciò
non riguarda tutti i paesi divenuti indipendenti: ve ne sono alcuni che riescono a
inserirsi positivamente nell’economia internazionale, i cui scambi commerciali vengono
ora regolati dalle periodiche conferenze del GATT (General Agreement on Tarifs and
Trade). È il caso ad esempio delle “tigri asiatiche” – Corea del Sud, Taiwan, Singapore,
Hong Kong – alle quali dagli anni ottanta si aggiungono le tigri di seconda generazione
– Thailandia, Malesia, Filippine, Indonesia. Il loro modello di sviluppo è centrato sulla
capacità di esportare sui mercati anche dei paesi più avanzati, grazie a fattori come il
87
Cfr. M. Kramer, Bipolarismo, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, a cura di S. Pons e R.
Service, vol. I, Torino, Einaudi, 2006, pp. 61-66.

47
basso costo del lavoro. Si tratta quindi di una integrazione competitiva nel sistema del
commercio globale a guida americana. I paesi che invece si ispirano al modello
sovietico di sviluppo puntano sul principio della “sostituzione delle importazioni”, vale
a dire sulla capacità di costruire una industria nazionale che possa produrre le stesse
merci importate dall’esterno, ponendo fine quindi alla dipendenza tecnologica e
commerciale. Uno degli svantaggi di questa via è che essa può essere seguita con
ragionevoli speranze di successo solo da paesi abbastanza grandi, che abbiano
sufficiente disponibilità di risorse territoriali e umane, nonché un mercato interno
significativo. Un caso interessante di sviluppo “misto” è l’India, che dopo
l’indipendenza si impegna nel costruire una industria pesante sotto il controllo dello
Stato con evidente ispirazione al modello sovietico (e con l’URSS stipula accordi
importanti), ma al tempo stesso non rinuncia a integrarsi nei mercati internazionali della
sfera capitalista, aderendo al Commonwealth e stipulando accordi finanziari con gli ex
colonizzatori britannici. In generale, possiamo dire che man mano che la guerra fredda
si sviluppa, dopo la fase iniziale in cui la via americana e quella sovietica erano parse
concorrere sullo stesso piano, si assiste a una graduale affermazione del modello
occidentale, le cui reti di integrazione e la cui capacità attrattiva si rivelano superiori.
Nel 1980 una commissione dell’ONU guidata dall’ex cancelliere tedesco Willy Brandt
rende noto un Rapporto sullo sviluppo globale che anima accese discussioni88. In esso si
rileva che la frattura principale che rende insicuro il futuro del mondo non è quella fra
Est e Ovest, bensì quella fra Nord e Sud. I paesi ricchi dell’emisfero settentrionale
hanno 1/5 della popolazione del pianeta ma consumano i 4/5 delle risorse: l’80%
dell’umanità deve quindi accontentarsi del rimanente quinto. A questo si deve
aggiungere l’enorme sperequazione sociale che esiste in molti paesi del Sud, la quale
rende ancora più gravi le condizioni di vita del grosso della popolazione. Il Rapporto
Brandt chiede quindi ai paesi del Nord di rinegoziare i termini dello scambio globale e
di spostare risorse dal settore degli armamenti a quello degli aiuti allo sviluppo. La
risposta sarà la cosiddetta “seconda guerra fredda” degli anni ottanta, che registra una
impennata delle spese per le armi e ulteriori tensioni nei paesi in via di sviluppo, che
subiscono i gravi contraccolpi del rinnovato clima di scontro. I moniti del rapporto
Brandt sopravvivranno a quest’ultima stagione della guerra fredda, nutrendo il dibattito
su un più giusto ordine internazionale nell’epoca della globalizzazione.

88
Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza. Rapporto della Commissione indipendente sui
problemi dello sviluppo internazionale, ed. italiana a cura di F. Saba Sardi, Milano, Mondadori, 1980.

48
Per un’autovalutazione

1. Indicare i caratteri del bipolarismo asimmetrico che si instaura dopo il 1945.


2. Illustrare il passaggio della guerra fredda dalla dimensione europea a quella globale.
3. Analizzare gli intrecci fra guerra fredda e decolonizzazione.

49
4. Guerra fredda e integrazione europea

Tra i fattori che rendono possibile la decolonizzazione vi sono le nuove convenienze


degli Stati imperialisti europei: l’occupazione coloniale diventa un costo sempre più
oneroso e si preferisce concedere l’indipendenza e mantenere delle relazioni
commerciali e finanziarie con l’oltremare. Ciò vale tanto di più nel momento in cui
diventano prioritari gli investimenti sul grande mercato europeo che si sta formando
nella metà occidentale del Vecchio continente. Dagli anni cinquanta assistiamo a
notevoli progressi dell’integrazione economica tra i paesi dell’Europa Occidentale, che
diventano uno dei poli principali del commercio mondiale. Nell’Europa Orientale si
sviluppa invece un processo alternativo di integrazione sotto la guida sovietica. Ancora
più che nella prima metà del secolo, due Europe nettamente distinte si stagliano sulla
scena internazionale.

4.1. L’Europa Occidentale

Eppure nel 1945 vi era stata la diffusa speranza che dall’immane conflitto potesse
scaturire una stagione di cooperazione tra tutti i popoli europei, dell’Est e dell’Ovest. Si
prefiguravano sfere di influenza, ma non chiuse come quelle che avrebbero
contrassegnato la guerra fredda. Nella “Dichiarazione sull’Europa liberata” approvata a
Yalta nel febbraio del 1945 ci si richiamava ai principi della Carta Atlantica e si
riconosceva il «diritto di tutti i popoli di scegliere la forma di governo sotto il quale
intendono vivere»89. Lo stabilirsi della “cortina di ferro” dal Baltico all’Adriatico,
secondo una espressione resa celebre da Churchill nel discorso di Fulton del 1946,
avrebbe deluso queste aspettative e separato i cammini delle due parti d’Europa.
Tuttavia, mentre precipita la guerra fredda e pure a strappo consumato fra Mosca e
Washington, si sviluppa un dibattito molto vivo e con proposte anche audaci su come
dovrà essere organizzata una futura Europa integrata a livello non solo economico, ma
anche politico90. Si fronteggiano le tesi più ardite dei federalisti, che propugnano la
nascita degli Stati Uniti d’Europa, e quelle degli ambienti europeisti più moderati, i
quali auspicano una cooperazione continentale che non faccia cadere le prerogative
statuali dei singoli paesi. Questa discussione si riflette nei lavori di appuntamenti come

89
Sulla conferenza si vedano la ricostruzione di D.S. Clemens, Yalta, Torino, Einaudi, 1975; J. Dullfer,
Yalta, 4 febbraio 1945. Dalla guerra mondiale alla guerra fredda, Bologna, Il Mulino, 1999.
90
Cfr. M. Maggiorani, La sfida dell’Unione. Storia, economia e culture dell’Europa Unita, con un saggio
introduttivo di P. Dogliani, Bologna, CLUEB, 2004, pp. 36-38.

50
il congresso europeista svoltosi all’Aja nel 1948 e trova un primo approdo concreto
nella costituzione del Consiglio d’Europa, avvenuta nel 1949. Lo slancio europeista di
quegli anni è testimoniato dal dibattito costituzionale che si svolge in paesi come l’Italia
e la Germania. Nel caso italiano, un gruppo di costituenti chiede che un riferimento
all’unità europea sia inserito nell’art. 11, quello che stabilisce le limitazioni alla
sovranità nazionale rispetto all’auspicato avvento di organismi internazionali in grado di
assicurare la pace. A Montecitorio questa richiesta non viene accolta, ma resta a
conferma dello spirito dell’epoca. Prevale l’idea che il principio della fratellanza
europea sia implicito nel testo dell’articolo. Nella Legge fondamentale della Repubblica
federale tedesca (1949) si afferma invece esplicitamente l’importanza di essere «animati
dal proposito di servire la pace mondiale come parte di una Europa unificata».
A conferire una grande spinta al moto europeista sono in questa prima fase gli Stati
Uniti, che vedono in una Europa integrata – almeno nella sua parte occidentale – una
garanzia di stabilità dinanzi alla temuta espansione del comunismo. Inoltre, la
ricostruzione europea e la nascita di un mercato su scala continentale
rappresenterebbero uno sbocco fondamentale per le merci americane. Washington punta
dunque sull’integrazione dei paesi europei nella sua sfera di controllo come passaggio
chiave del progetto di integrazione atlantica. È questa prospettiva il retroterra del Piano
Marshall, che viene annunciato nel giugno del 194791. Come ai tempi della crisi legata
alle riparazioni tedesche (1923-24), il ruolo dell’America è indispensabile per far
ripartire l’economia europea, ma questa volta non sono i banchieri di Wall Street a
impegnarsi, bensì il governo americano in prima persona. Un’altra differenza
fondamentale rispetto ai prestiti del passato è che questa volta non si tratta di un
sostegno direttamente in denaro fornito ai singoli Stati, ma di un programma collettivo i
cui beneficiari accettano di coordinarsi e sottoporre il proprio operato a organismi di
controllo guidati dagli americani. Per questo motivo il piano viene rifiutato dai sovietici,
che vedono in esso una pericolosa ingerenza statunitense nella vita dei paesi europei.
Secondo la sua prospettiva, Mosca non ha torto: il piano è effettivamente concepito per
guidare gli europei verso forme di integrazione commerciale e finanziaria, seguendo
modelli liberisti.
In circa tre anni il Piano Marshall convoglia verso l’Europa occidentale prodotti e
materie prime per un valore di oltre 13 miliardi di dollari. È un apporto cruciale per

91
Ivi, pp. 47-50.

51
stabilizzare i paesi europei occidentali e velocizzare la loro ricostruzione. Nel caso
dell’Italia, gli aiuti americani sono un elemento chiave nel processo che determina
l’espulsione delle sinistre dal governo e la nascita del centrismo democristiano: vengono
gettate le basi durature di quel sistema di governo a guida DC che durerà praticamente
per tutta la guerra fredda, sia pure con successivi aggiustamenti. Anche i tedeschi
dell’Ovest beneficiano massicciamente del programma: i francesi, memori delle
esperienze del precedente dopoguerra, quando l’atteggiamento punitivo verso la
Germania si era rivelato controproducente, e preoccupati inoltre da una possibile
espansione del comunismo, accettano che il nemico storico tedesco venga aiutato. Si
iniziano a creare le basi per quella intesa franco-tedesca che sarà il motore principale
delle successive tappe dell’integrazione europea.
La spinta americana conduce a un altro importante traguardo nel 1950, quando 17 paesi
aderiscono alla nuova Unione europea dei pagamenti (UEP), che attraverso la
costituzione di un sistema di crediti reso possibile dai fondi del piano Marshall consente
di ripristinare la convertibilità fra le monete europee. Ciò fornisce quell’impulso
indispensabile alla ripresa dei commerci e alla nascita di un mercato continentale.
Corollario importante dell’iniziativa è il fatto che i paesi aderenti sono tenuti a
rimuovere tutte le misure protezioniste considerate indebite e a favorire una progressiva
liberalizzazione commerciale92.
È in questo clima che nasce al principio degli anni cinquanta il progetto della Comunità
europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Essa mette in comune le risorse
carbosiderurgiche dei paesi membri della nuova istituzione (Francia, Germania
occidentale, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Italia)93. Oltre a favorire il generale
processo di crescita produttiva, il passo acquista un significato politico, in quanto la
scelta di cooperare in questo settore di base significa in pratica la rinuncia a lanciare un
piano nazionale di riarmo, secondo i modelli seguiti alla vigilia di entrambe le guerre
mondiali. Per questo all’epoca vi sono esponenti politici che vedono nella CECA una
via verso una integrazione anche politica e militare, ossia verso una cessione sostanziale
di sovranità nazionale da parte dei paesi membri. Che si tratta però di aspettative troppo
spinte si vede bene nel 1954, quando fallisce il nuovo progetto della Comunità europea
di difesa (CED). Esso consiste nella costituzione di un esercito dei paesi della CECA

92
Sulla UEP e il contesto in cui nasce cfr. Pollard, Storia economica del Novecento, cit., pp. 173-79.
93
Cfr. B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione
dell’Unione, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 20-24.

52
formato da brigate miste, con soldati di diverse nazionalità. Anche in questo caso il
piano viene a un certo punto appoggiato da Washington, che vede in una simile scelta il
modo affinché gli alleati europei si assumano maggiori responsabilità militari. Ma il
progetto viene alla fine affossato dal Parlamento francese: a Parigi non si è ancora
pronti a un passo indietro nel campo della difesa nazionale e a consentire di fatto il
riarmo della Germania, sebbene diluito nell’esercito sovranazionale94. La vicenda
chiarisce un punto cruciale per la comprensione storica: l’integrazione europea non è
una marcia trionfale verso scelte unitarie sempre più vincolanti, bensì un percorso
accidentato e dominato da insicurezze e ripensamenti. Non a caso lo storico Tony Judt,
infrangendo una certa retorica europeista, ha parlato della costruzione europea come di
un «figlio insicuro dell’ansia»95.
Il fallimento della CED ha un valore periodizzante: da quel momento vengono
accantonate le aspirazioni federaliste e l’integrazione europea si mette pienamente sui
binari del funzionalismo economico. Un processo guidato dagli interessi dei più potenti
Stati nazione che lo animano, il cui successo segna un rafforzamento di questi Stati
invece che una loro cessione di sovranità – apparente paradosso evidenziato da studiosi
come Alan Milward96.
Il buon funzionamento della CECA incoraggia i sei paesi membri a estendere il progetto
al complesso della produzione, dei commerci e dei servizi: si decide così la costituzione
della Comunità economica europea (CEE), avente l’obiettivo di creare un Mercato
europeo comune (MEC). Sorta nel 1957, la CEE in pochi anni vede crescere in modo
impetuoso il volume degli scambi fra i paesi membri, che conoscono tutti una stagione
di grande sviluppo. Nel nuovo organismo ad assumere le decisioni più importanti è il
Consiglio dei ministri, che non è (come il nome lascerebbe intendere) un vero governo
europeo, ma solo un consesso che riunisce i delegati dei diversi governi, i quali possono
porre il loro veto a decisioni sgradite. Si tratta quindi di un meccanismo basato su
compromessi fra i diversi paesi e quindi sulla capacità di trovare la migliore mediazione
possibile fra gli interessi, a volte discordanti, dei paesi membri. L’Italia, ad esempio,
accetta di vedere penalizzato a molti livelli il suo settore agricolo e ottiene in cambio dei
vantaggi sul piano industriale. È una Europa complessa, frutto di intese tecniche che in

94
Cfr. D. Preda, Storia di una speranza. La battaglia per la CED e la Federazione europea nelle carte
della delegazione italiana (1950-1952), Milano, Jaca Book, 1990.
95
Si veda il suo volume Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Milano, Mondadori,
2007.
96
Cfr. A.S. Milward, The European rescue of the nation-state, London, Routledge, 1992.

53
genere passano sulla testa di una opinione pubblica non molto informata, e che non
sembra avere alcun potere di controllo sul processo decisionale della CEE. Quest’ultima
è composta anche da un Parlamento, che però a lungo ha un ruolo solo consultivo ed è
formato da rappresentanti dei parlamenti nazionali. Solo nel 1979 si arriva alla prima
storica elezione diretta del Parlamento europeo: i cittadini possono decidere quali
deputati inviare a Strasburgo, dopo una campagna elettorale che rafforza la
consapevolezza del ruolo svolto dalle istituzioni europee.

4.2. Il paradosso americano e la società del benessere

La nascita e lo sviluppo della CEE riflettono la crescente autonomia assunta dai governi
europei rispetto agli americani. Man mano che l’Europa progredisce economicamente,
infatti, si attenua la dipendenza dagli aiuti di Washington. Gli Stati Uniti si trovano
dunque a fare i conti con alleati che agiscono sempre più per loro conto e senza
attendere gli input d’oltreoceano. Se nella costituzione della CECA era stata
fondamentale la pressione americana per una intesa franco-tedesca che stabilizzasse
definitivamente l’economia europea, la CEE invece sorge primariamente per iniziativa
dei sei governi che già stanno collaborando nella CECA (sebbene Washington continui
a essere favorevole a ogni progresso dell’integrazione in Europa occidentale).
Con l’avvento della CEE l’area di scambio dell’Europa occidentale entra nell’età dei
“miracoli economici”. La possibilità di poter collocare i propri prodotti in un grande
mercato senza barriere rappresenta per le imprese un vantaggio cruciale. A trarne
particolare profitto sono le aziende dei paesi industrialmente meno avanzati e con un
costo del lavoro più basso: esemplare è il caso dell’Italia, che proprio in questi anni
realizza il passaggio da paese ancora agricolo-industriale a compiutamente industriale.
Il volume complessivo delle transazioni commerciali aumenta a un ritmo superiore alle
aspettative. Per la fine degli anni sessanta si approda all’eliminazione completa dei dazi
doganali. L’area CEE si presenta come uno dei grandi poli di un sistema economico
integrato a guida americana.
I progressi economici più impressionanti avvengono nei tre ex nemici degli Stati Uniti
della seconda guerra mondiale: in Italia e nella Repubblica federale tedesca nel 1960 si
raggiunge il traguardo del raddoppio del PIL rispetto a quello anteguerra, e negli anni
seguenti la crescita procede a ritmo sostenuto; impressionante è anche il “miracolo”
giapponese, che porta il paese del Sol Levante a primeggiare in molti settori

54
d’avanguardia e a diventare per gli anni settanta la seconda economia del mondo dopo
quella americana. Questa grande stagione di sviluppo è caratterizzata anche
dall’affermarsi di vasti programmi di welfare nei diversi paesi. A fare da battistrada è
l’Inghilterra laburista del 1945-51, dove si gettano le basi dell’assistenza per i cittadini
“dalla culla alla tomba”, ma presto seguono tutte le altre nazioni. Come è stato
osservato, risiede in questa capacità di mettere insieme politiche liberiste e tutele sociali
– conciliando, per dirla con una formula fortunata, Adam Smith e John Maynard
Keynes – la peculiare fortuna del modello europeo occidentale. A proposito di esso si
parla di “economia sociale di mercato” e anche di “capitalismo renano”, facendo
riferimento in particolare all’esperienza tedesca.
Ad animare la crescita concorre una pluralità di fattori, dal nuovo ciclo di sviluppo
tecnologico al boom demografico. Prende corpo la cosiddetta “società del benessere”,
che vede la diffusione di consumi e stili di vita un tempo riservati a ristrette élite97. In
Europa occidentale si diffondono quei beni di consumo durevoli che avevano già
cambiato la società americana tra le due guerre. Di enorme rilievo è il fenomeno della
motorizzazione di massa, per le sue ricadute sull’economia, sulla gestione dei tempi e
degli spazi, del lavoro e del tempo libero, sulla stessa mentalità degli uomini98. In
Europa occidentale alla fine degli anni sessanta circola una vettura ogni cinque abitanti:
trent’anni prima il rapporto era di uno a cinquanta. La società di massa diventa società
del consumo di massa, sul modello del laboratorio americano. L’immaginario europeo
subisce una forte influenza dei modelli e delle mode provenienti dall’altra parte
dell’oceano: quella che si verifica è una americanizzazione della società europea,
sebbene attraverso una mediazione con gli elementi della tradizione99.
La guida statunitense di questo ciclo di globalizzazione non si regge dunque solo su una
primazia militare, produttiva e finanziaria, ma anche su una indubbia capacità
egemonica a livello culturale e di produzione di miti. Basti citare il caso delle nuove
culture giovanili, che irrompono in Europa contribuendo ad accrescere le differenze
generazionali. Dal mondo contadino di un tempo, in cui un figlio sapeva che sarebbe
vissuto nello stesso modo del padre, riproducendo i suoi orizzonti mentali, si passa a
una società in continua trasformazione in cui ogni generazione vuole marcare la sua
presenza originale e distaccarsi dai padri. All’inizio di questo fenomeno si manifesta

97
Cfr. Pollard, Storia economica del Novecento, cit., pp. 199-210.
98
Cfr. F. Paolini, Un paese a quattro ruote. Automobili e società in Italia, Venezia, Marsilio, 2005; ID.,
Storia sociale dell’automobile in Italia, Roma, Carocci, 2007.
99
Cfr. le osservazioni di Maggiorani, La sfida dell’Unione, cit., pp. 50-54.

55
soprattutto la valenza socio-economica e degli stili di vita: col 1968 e la contestazione
studentesca esplodono anche le sue implicazioni politiche100. Anche qui è l’America a
fare da battistrada: sono infatti gli studenti dell’Università di Berkeley, in California, a
inaugurare nel 1964 forme di protesta che non temono di scontrarsi con l’autorità,
disorientata da questa manifestazione di disagio giovanile. Alla generazione più
anziana, che si sente artefice della costruzione del benessere, sembra un atteggiamento
da ingrati quello dei giovani che gridano contro l’organizzazione sociale di cui
dovrebbero invece sentirsi i futuri responsabili e dirigenti. Questo moto di protesta si
trasferisce in Europa occidentale, dove rispetto agli Stati Uniti si verifica una saldatura
tra organizzazioni giovanili e movimento operaio. È interessante osservare che cambia
la posizione dei giovani rispetto ai loro padri per quanto riguarda l’immagine
dell’America: per i padri è il paese che ha liberato l’Europa e l’ha aiutata a risollevarsi,
mentre per i figli è il paese della segregazione razziale e dell’oppressione imperialista in
Viet Nam e in altre parti del mondo. Eppure, questi giovani continuano ad ascoltare
musica americana e a indossare i blue jeans, a riprova della forza attrattiva universale
del modello americano. Questa fase di globalizzazione omogeneizza i comportamenti
dei cittadini consumatori e dei giovani europei: si diventa più simili e ciò avviene in
buona parte nel segno unificante della cultura popolare e del modello di consumi
d’oltreoceano. È l’affermazione di quell’«impero irresistibile» di cui ha scritto la
studiosa Victoria de Grazia101.
Da questo boom europeo occidentale rimane esclusa la Gran Bretagna, che pur avendo
vinto la guerra e mantenuto un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, risente della
decolonizzazione e del carattere obsoleto del suo apparato industriale. Negli anni
sessanta gli inglesi si mantengono lontani dal traguardo del raddoppio del PIL rispetto
all’anteguerra, raggiunto e superato invece da tedeschi e italiani. Le merci inglesi
risentono delle barriere che proteggono il mercato continentale dei paesi della CEE.
Londra promuove un’area alternativa di integrazione, quella dell’EFTA (European Free
Trade Association), comprendente i paesi scandinavi, Portogallo, Austria e Svizzera.
Ma i ritmi di crescita dei membri del MEC si mantengono decisamente più sostenuti e
Londra decide quindi di presentare la propria domanda di ammissione alla CEE,

100
Per approfondimenti si veda M. Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2008.
101
V. de Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo,
Torino, Einaudi, 2006.

56
inaugurando una linea che seguirà anche in seguito: aderire alle iniziative europee solo
dopo che hanno dato prova di buon funzionamento.
La richiesta britannica è appoggiata dagli Stati Uniti, che vedono in questo allargamento
della CEE un passo verso quella “comunità atlantica” vagheggiata dal presidente
Kennedy, con l’obiettivo di mantenere la leadership americana sul campo occidentale.
Gli Stati Uniti hanno infatti perduto l’egemonia incontrastata del 1945 e vedono nel
corso degli anni sessanta l’Europa comunitaria e il Giappone superare la quota di
mercato occupata dalle merci americane. Il sistema capitalista torna ad essere
multipolare; questo multipolarismo economico interagisce col bipolarismo militare della
guerra fredda102. Per gli americani si determina una situazione con tratti paradossali:
patrocinatori dell’integrazione europea, devono adesso fronteggiarne i risultati, non
sempre graditi. Gli europei, forti dei loro successi economici, non sono più disposti
come prima ad accettare passivamente le indicazioni di Washington e assumono anzi un
crescente dinamismo nella politica estera e in quelle commerciali. Lo si vede bene
quando la domanda britannica di ammissione alla CEE incontra il veto della Francia del
generale De Gaulle, il quale motiva la propria contrarietà con il fatto che l’entrata della
Gran Bretagna snaturerebbe lo spirito e gli equilibri della costruzione comunitaria,
esponendola all’influenza diretta degli interessi americani: Londra quindi come una
sorta di cavallo di Troia di Washington. Sono gli anni in cui il leader francese parla di
una Europa delle patrie dall’Atlantico agli Urali, mostrando di voler superare le
divisioni della guerra fredda e conferire ai paesi europei una piena sovranità sui loro
destini. Nel 1966 la Francia abbandona le strutture della NATO, pur rimanendo nel
Patto Atlantico103.

4.3. Al di là della cortina di ferro: l’Europa comunista

L’aspirazione a un superamento della divisione dell’Europa è comunque troppo avanti


sui tempi. La solidità della cortina di ferro, verificata in occasione della crisi ungherese
del 1956, conosce una nuova conferma nel 1968, quando l’esperimento riformatore
della Primavera di Praga viene represso dalle truppe del Patto di Varsavia senza che i
paesi occidentali possano andare al di là di proteste verbali. L’obiettivo realistico è
allora quello di riallacciare dei rapporti fra le due Europe, stabilendo relazioni
diplomatiche e commerciali. In questa direzione si muove con successo la Ostpolitik del
102
Cfr. F. Romero, Storia internazionale dell’età contemporanea, Roma, Carocci, 2012, p. 90.
103
Cfr. Maggiorani, La sfida dell’Unione, cit., pp. 96-101.

57
tedesco Willy Brandt, che porta la Germania Ovest a stipulare dei trattati con la Polonia
e l’URSS, oltre che a un primo riconoscimento fra le due Germanie104. Cancelliere della
Repubblica federale tedesca tra il 1969 e il 1974, il socialdemocratico Brandt apre una
nuova fase dopo la lunga stagione del democristiano Konrad Adenauer, in cui la
Germania era stata la punta avanzata dello schieramento occidentale. Adesso, pur
ribadendo la fedeltà di campo, Brandt delinea una strategia di graduale superamento dei
blocchi e di un futuro ricongiungimento tra le due Germanie nell’ambito di una Europa
riappacificata. La sua immagine mentre sta inginocchiato in raccoglimento a Varsavia
dinanzi al monumento che ricorda l’insurrezione del ghetto durante la feroce
occupazione nazista rappresenta una delle foto simbolo dell’intero Novecento. Brandt
compie tale gesto nel dicembre del 1970, mentre firma con la Polonia un trattato che
riconosce i confini scaturiti dalla seconda guerra mondiale: è la storica accettazione da
parte della Germania Occidentale delle perdite territoriali subite con la sconfitta. Viene
rimosso uno dei macigni del lungo dopoguerra europeo; si tratta di un contributo
fondamentale al processo internazionale di “distensione” tra i due blocchi avviato dopo
la crisi dei missili di Cuba (1962).
L’Europa Occidentale torna dunque a svolgere un ruolo autonomo sulla scena
diplomatica e una gamba della distensione è tutta europea. La speranza è che si
intensifichino i contatti tra le due metà del Vecchio continente: i paesi della CEE
guardano con crescente interesse alla possibilità di sbocchi commerciali a Est che
possano sostenere la loro impetuosa crescita produttiva. Qual è la situazione in cui si
trovano i popoli al di là della cortina di ferro? Essi sono passati attraverso esperienze
complesse e ardue, che in questa sede possiamo solo riepilogare105. Negli anni
successivi al 1945, sull’Europa Orientale si è stabilito un rigido controllo sovietico, che
ha condotto nei vari paesi, in forme più o meno cruente, al monopolio comunista del
potere.
Non sappiamo quanto tale esito sia stato preventivato da Stalin, o quanto invece sia stata
la divisione della guerra fredda a indurlo a una linea dura. Secondo le memorie del
dirigente jugoslavo Milovan Djilas, Stalin gli avrebbe a un certo punto detto che
«questa non è una guerra come quelle del passato: chiunque occupa un territorio vi

104
Cfr. Romero, Storia internazionale, cit., pp. 92-94.
105
Per approfondimenti si vedano Maggiorani, La sfida dell’Unione, cit., pp. 65-86; S. Bottoni, Un altro
Novecento. L’Europa Orientale dal 1919 a oggi, Roma, Carocci, 2011.

58
impone anche il proprio sistema sociale»106. I ricordi personali sono sempre una fonte
da utilizzare con riserve e da integrare, ove possibile, con altra documentazione. In ogni
caso, questa citazione è di grande efficacia nel tratteggiare ciò che effettivamente
avviene nelle due Europe in contemporanea, con una differenza fondamentale: mentre a
Ovest vi è una contiguità storica tra le società uscite prostrate dalla guerra e la società
americana, a Est l’impatto del modello sovietico su società in larga parte arcaiche e
contadine presenta dei caratteri traumatici. L’egemonia americana sulla parte
occidentale appare in buona misura consensuale, al punto che si parla di impero “su
richiesta”: sono gli europei stessi a chiedere l’attivo intervento degli Stati Uniti nel
processo di ricostruzione. Tutto lo sviluppo dell’Europa Occidentale avviene sotto la
protezione dell’apparato militare americano, che consente ai paesi del MEC di
concentrarsi sulle priorità dello sviluppo economico, mentre sono gli Stati Uniti a
garantire la sicurezza strategica.
Diversa è invece la situazione in Europa Orientale: qui l’egemonia sovietica si regge
sulla forza militare dell’Armata Rossa e gli elementi consensuali sono decisamente più
ridotti. Stalin non si accontenta di avere dei governi amici nell’area e vi promuove la
bolscevizzazione totale: vengono costruiti sistemi produttivi analoghi a quello sovietico,
quindi basati sulla collettivizzazione delle campagne e una pianificazione centrata sullo
sviluppo dell’industria pesante. Il tutto viene subordinato alle esigenze di sicurezza
dell’URSS, sulle quali Stalin si concentra in modo ossessivo negli ultimi anni di vita.
Ciò provoca gravi distorsioni economiche, compressione delle condizioni di vita
generali e conduce i paesi del blocco in una situazione critica. L’importazione dello
stalinismo nei diversi paesi comporta anche il tragico contorno delle “purghe” e
dell’onnipotenza della polizia politica.
Solo dopo la morte di Stalin le “democrazie popolari” possono uscire dallo stato di
economia di guerra cui erano state costrette al di là delle loro possibilità. Cessa anche
l’imperversare del terrore, anche se i governi mantengono dei tratti fortemente
autoritari. Può iniziare allora la fase migliore per l’altra metà d’Europa, che riesce a
inserirsi nella congiuntura generale dell’età dell’oro dell’economia mondiale. Non si
realizzano i “miracoli” del blocco occidentale, e anzi il livello dei consumi privati
rimane decisamente basso, ma si ottengono significativi risultati nei settori dei servizi
pubblici, della sanità e dell’istruzione, della sicurezza sociale in genere. Per quanto

106
M. Djilas, Conversazioni con Stalin, Milano, Feltrinelli, 1962.

59
rimangano centrali le priorità fissate dall’URSS, i suoi partner acquisiscono maggiore
voce in capitolo. Dopo una prima fase di dominio sovietico, il COMECON – Consiglio
per la mutua assistenza economica, creato come contraltare agli istituti dell’integrazione
occidentale – esce dalla logica dei rapporti bilaterali e promuove una maggiore
concertazione sulle scelte produttive e gli accordi commerciali. Certo, non avviene nulla
di paragonabile al livello di integrazione che si raggiunge all’Ovest, e ciò rappresenta
una sconfitta per il socialismo, che si concepisce come un sistema più moderno ed
efficiente rispetto a un capitalismo ritenuto in crisi. Alla prova dei fatti, invece, i paesi
socialisti rimangono legati maggiormente a una dimensione nazionale, con tratti
nazionalisti, mentre è nel blocco occidentale che si gettano le basi per la
globalizzazione107.
Ad ogni modo, tra gli anni cinquanta e settanta i paesi dell’Est progrediscono nei loro
indicatori economici e sociali: la partita fra capitalismo e socialismo può ritenersi
ancora aperta agli occhi dei contemporanei, specie se si considerano le condizioni di
partenza di grave arretratezza da cui sono partite molte regioni dell’Europa Orientale.
Nell’Uomo di marmo di Andrzej Wajda (1976) si mostrano le violenze commesse dal
regime polacco (e le speranze deluse dopo il 1956), ma anche la costruzione di Nowa
Huta, la grande città dell’acciaio sorta nei pressi di Cracovia, secondo i dettami del
gigantismo industriale sovietico: per la prima volta contadini poverissimi hanno la
possibilità di vivere in case moderne, con l’elettricità e i riscaldamenti. Oggi risalta il
carattere tetro di una certa architettura socialista, ma all’epoca per molti fu una
conquista di civiltà. Certo, l’angolazione cambia se consideriamo il punto di vista di chi
abitava in zone più sviluppate, come la già industrializzata Boemia, e che aveva alle
spalle una tradizione di democrazia politica. Per tutti i paesi, comunque, nel periodo
considerato si registrano incrementi significativi del PMN – il Prodotto materiale netto,
che è un po’ l’equivalente statistico socialista del PIL108: in Romania arriva a sfiorare il
10% annuo, nella Repubblica democratica tedesca il 5.
Anche allo zenit, tuttavia, nello sviluppo del blocco sovietico restano i limiti di un
modello centrato sulle esigenze militari e dell’industria pesante, a discapito dei beni di
consumo, che restano limitati e di bassa qualità. L’URSS allestisce arsenali missilistici e
nucleari, manda uomini nello spazio, ma nel paese non si trovano lavatrici e può essere
difficile procurarsi anche una penna biro. Quando negli anni settanta finisce il lungo

107
Cfr. Pollard, Storia economica del Novecento, cit., pp. 219-23.
108
Ad ogni modo – precisa Pollard –, «non è facile determinare l’esatto rapporto tra i due» (ivi, p. 219).

60
ciclo di crescita del dopoguerra – due date simbolo sono il 1971 (abbandono
dell’ancoraggio del dollaro all’oro da parte degli Stati Uniti e ritorno all’instabilità
monetaria)109 e il 1973 (impennata del prezzo del petrolio decisa dai paesi fornitori
dell’OPEC, come rappresaglia contro l’appoggio occidentale a Israele) 110 – i paesi
dell’Est non hanno la stessa capacità di quelli dell’Ovest di riadattare il proprio sistema
produttivo ai tempi mutati e all’avvento di nuove tecnologie trainanti. Restano
prigionieri del modello primigenio di sviluppo, sclerotizzati come l’URSS della
stagnazione brezneviana, e ciò crea le premesse della loro caduta. All’epoca la cosa non
è evidente, né la dobbiamo ritenere inevitabile col senno di poi, ma si pongono
certamente le basi per l’affermazione del modello occidentale su quello orientale.

4.4. Ricomposizione delle due Europe: da Helsinki a Maastricht

Per il momento nessuno prevede grandi smottamenti e, se si parla di declino o crisi, il


pensiero dei contemporanei va soprattutto all’America alle prese con difficoltà
economiche, la guerra del Viet Nam e lo scandalo del Watergate, che conduce alle
dimissioni del presidente Nixon (1974). In Europa il quadro appare definitivamente
stabilizzato e il processo di distensione raggiunge il suo apogeo con gli accordi di
Helsinki del 1975, un trattato paneuropeo con la partecipazione di Stati Uniti e Canada
che sancisce il riconoscimento collettivo dei confini scaturiti dalla seconda guerra
mondiale e chiude in tal modo il lungo dopoguerra europeo. La guerra fredda sembra
così allentarsi al punto da consentire una maggiore integrazione europea, basata su un
rinnovato dialogo tra Est e Ovest.
I negoziati di Helsinki ricevono il via libera nel maggio 1972, quando Nixon e Breznev
si incontrano a Mosca per firmare gli storici accordi SALT (Strategic Armaments
Limitation Treaty), che per la prima volta regolamentano la corsa agli armamenti
nucleari, ponendo un freno alla loro crescita esponenziale. Tra il 1973 e il 1975 si
svolgono nella capitale finlandese i lavori della Conferenza per la sicurezza e la
cooperazione in Europa. Come lascia intendere il nome dell’organismo, non si tratta
solo di fissare i confini e raggiungere un equilibrio militare, ma anche di gettare le basi

109
La decisione è frutto della pressione combinata della crescente concorrenza commerciale che gli Stati
Uniti devono affrontare e del loro impegno militare globale. Giungono al pettine i nodi di quel paradosso
della posizione americana di cui abbiamo parlato prima. Con l’abbandono del sistema monetario di
Bretton Woods, «da perno sistemico dell’economia mondiale gli USA diventavano il maggior centro di
un sistema effettivamente multipolare» (Romero, Storia internazionale, cit., p. 91).
110
Cfr. Pollard, Storia economica del Novecento, cit., pp. 241-47.

61
di rapporti economici e culturali tra le due metà del Vecchio Continente. L’Atto finale
del 1975 recepisce questa aspirazione, fissando le linee di un futuro interscambio in una
pluralità di settori, dalla ricerca tecnologica al turismo. L’impegno assunto a riunire
periodicamente la Conferenza per assicurare l’applicazione dei protocolli firmati lascia
sperare alcuni in una attenuazione progressiva della cortina di ferro.
Tuttavia, l’intesa raggiunta rappresenta per entrambe le superpotenze una conferma e un
atto di reciproco riconoscimento delle loro sfere di influenza, non un loro
indebolimento. Non a caso, un principio centrale degli accordi è quello della non
ingerenza negli affari interni di ciascun paese, il che si traduce nel divieto di intervenire
nelle questioni riguardanti l’altra sfera. Questa stabilizzazione degli equilibri
corrisponde sia alla visione del Cremlino che alla linea realista seguita dalla Casa
Bianca sotto la guida di Henry Kissinger, mente della politica estera americana tra il
1969 e il 1976, negli anni delle amministrazioni repubblicane di Nixon e Ford 111. Per
Kissinger gli Stati Uniti debbono fronteggiare il comunismo abbandonando lo spirito
ideologico da crociata e trovando con esso un compromesso ragionevole. Per indurre i
sovietici a negoziare secondo i suoi piani non esita a ristabilire le relazioni diplomatiche
con Pechino, arrestatesi dai tempi della vittoria di Mao nel 1949112. Il suo viaggio
segreto in Cina, che apre la strada alla visita ufficiale di Nixon del 1972, è mosso dai
dettami della diplomazia classica europea, di cui lo storico e politologo Kissinger è un
attento studioso: in un sistema a tre potenze, gli Stati Uniti devono fare leva sul timore
delle altre due potenze di rimanere isolate; egli si inserisce quindi nel clamoroso
contrasto che ha diviso i due massimi centri del comunismo mondiale, portandoli ai
gravi scontri di frontiera del 1969. Per Kissinger, l’intesa con l’URSS deve reggersi in
primo luogo sul rispetto degli equilibri dell’Europa, dove si gioca ancora la partita più
importante della guerra fredda, nonostante la sua avvenuta globalizzazione. In tal modo
si rassicura Mosca e la si responsabilizza nel mantenimento dell’equilibrio: Kissinger
sembra puntare a una normalizzazione della politica estera sovietica, che ne espunga la
carica rivoluzionaria. Contestuale a questa impostazione è il piano kissingeriano di
accordi e concessioni all’URSS graduato rispetto alla disponibilità sovietica a venire
incontro alle esigenze statunitensi – un approccio negoziale dunque non ideologico e
basato invece su un sistema di contropartite capace di comporre i reciproci interessi.

111
Sulla politica di Kissinger si veda Del Pero, Libertà e impero, cit., pp. 354-63.
112
Cfr. H. Kissinger, Cina, Milano, Mondadori, 2011.

62
È in tale architettura diplomatica e strategica che le due Europe iniziano a rafforzare i
loro scambi, in applicazione degli accordi di Helsinki. Aumentano per i turisti
occidentali i viaggi oltrecortina, dove giungono più informazioni su quello che accade
nel “corrotto” mondo capitalista. Pregiudizi e forzature propagandistiche cominciano a
cedere il passo a una maggiore conoscenza reciproca. Il risultato strutturale più
importante è la penetrazione economica e finanziaria del più forte blocco occidentale
nei paesi del blocco sovietico, che proprio in questo periodo cadono in una stagnazione
da cui non si riprenderanno più. Secondo alcuni calcoli statistici, tra il 1973 e il 1989
nei paesi del blocco sovietico il reddito procapite rispetto all’Europa Occidentale cala
mediamente dal 49 al 37%. Il declino maggiore viene registrato dalla Polonia, che
scende dal 43 al 33%. Negli anni settanta l’ammontare complessivo dei debiti che
gravano sui paesi dell’area sale da 6 a 79 miliardi di dollari. Anche in questo caso in
condizioni particolarmente critiche viene a trovarsi la Polonia, insieme a Ungheria,
Jugoslavia e Bulgaria. La dipendenza dall’Ovest emerge in frangenti come il ritiro dei
crediti occidentali all’Ungheria dell’aprile 1981, che costringe Budapest a cercare il
sostegno del Fondo monetario internazionale. Il FMI stanzia i prestiti richiesti, ma li
condiziona all’attuazione di riforme economiche strutturali. Mentre i paesi del MEC
escono dalla crisi degli anni settanta aprendo un nuovo ciclo tecnologico e sociale –
quello del terziario avanzato e della informatizzazione –, all’Est non avviene nulla di
tutto questo e si manifesta una crisi di fiducia generale nella capacità del sistema di
progredire. La dinamicità e la forza attrattiva dell’Ovest è confermata anche
dall’allargamento della CEE (Grecia, 1981; Spagna e Portogallo, 1986), che si configura
non solo come un’area di libero scambio ma anche come un progetto di tutela ed
espansione della democrazia. La Grecia un tempo retta dai colonnelli e le ex dittature
iberiche possono entrare nella Comunità solo dopo un percorso di costruzione degli
istituti democratici113.
Le difficoltà dei paesi dell’Est sono accresciute dall’avvento della “seconda guerra
fredda”: con tale espressione si indica il ritorno di uno stato di forte tensione tra le due
superpotenze in seguito a vicende come l’invasione sovietica dell’Afghanistan
(dicembre 1979). In tale contesto di rinnovato scontro militare e ideologico l’Europa
diventa teatro della crisi degli “euromissili”: al dispiegamento da parte sovietica dei
missili SS-20 – vettori a medio raggio, esclusi dagli accordi SALT – gli americani

113
Cfr. Olivi, Santaniello, Storia dell’integrazione europea, cit., pp. 109-13.

63
rispondono decidendo di schierare in Europa Occidentale i missili Pershing e Cruise.
L’incubo nucleare torna ad aleggiare sul Vecchio Continente, dove però, rispetto al
passato, è cresciuta una opposizione di fondo a fare da campo di battaglia della sfida di
nervi tra Mosca e Washington. Quando arriva la seconda guerra fredda, gli europei non
hanno alcuna voglia di combatterla e perdere così quanto si è guadagnato in termini di
distensione tra le due Europe. A Ovest alcuni paesi accettano di schierare i missili
americani, nella speranza che lo stabilimento di una parità strategica allontani i venti di
guerra. Tuttavia, non si vogliono interrompere i legami economici e finanziari con l’Est,
rinunciando ai progetti avviati. Inoltre, i governi devono fronteggiare un movimento
pacifista sempre più radicato nella società civile (in Italia rivela la sua vitalità nella
mobilitazione contro lo schieramento dei missili americani nella base siciliana di
Comiso). La volontà europea occidentale di non far calare una nuova cortina di ferro
emerge anche nella particolare vicenda del boicottaggio dei Giochi olimpici di Mosca
del 1980: lanciata dagli americani, la proposta di disertare la manifestazione non
riscuote molti consensi tra gli alleati europei; alla fine solo la Germania Ovest e la
Norvegia non inviano i propri atleti, mentre gli altri paesi si limitano a ritirare le
bandiere e partecipare sotto le insegne del Comitato olimpico. Una simile
manifestazione di indipendenza non sarebbe stata possibile ai tempi della guerra di
Corea.
A Washington si guarda con malcelato fastidio a scelte di questo tipo, ma l’alleanza
occidentale regge bene la prova complessiva. La situazione europea si rasserena
rapidamente a partire dal 1985, quando in URSS sale al potere Michail Gorbačëv, il
quale annuncia un vasto piano di riforme interne per migliorare l’economia e accrescere
le libertà. Si diffondono le parole d’ordine della perestrojka (ristrutturazione) e della
glasnost (trasparenza). Sul piano dei rapporti internazionali, il nuovo leader si adopera
per stemperare le tensioni con l’Occidente e avviare il disarmo, in modo da poter
destinare maggiori risorse all’economia civile e ai consumi114. Una serie di storici
summit con il presidente americano Reagan creano un clima di speranza e vedono il
raggiungimento di accordi significativi, come quello del 1987 per la rimozione dei
missili a medio raggio dispiegati in Europa.
A proposito del Vecchio Continente Gorbačëv indica la prospettiva di una pacifica
cooperazione tra i due blocchi nell’ambito della «casa comune europea»115. Ma il corso

114
Cfr. F. Benvenuti, Storia della Russia contemporanea 1853-1996, Roma-Bari, Laterza, 1999, cap. IX.
115
M.S. Gorbačëv, La casa comune europea, Milano, Mondadori, 1989.

64
tumultuoso degli eventi nel giro di pochi anni travolge questa impostazione,
determinando il crollo dei regimi comunisti in Europa Orientale116. Un po’ come era
accaduto nel 1956, l’iniziativa riformatrice partita dall’URSS destabilizza i governi dei
paesi satellite, già in preda a una crisi profonda di legittimazione. Quando diventa
chiaro che Mosca non interverrà con la forza per mantenere il potere comunista in quei
paesi, i sistemi a partito unico ed economia pianificata cadono come castelli di carte. Il
tutto avviene in modo complessivamente pacifico: non a caso si è usata l’espressione
“rivoluzioni di velluto”. Vi sono comunque le eccezioni della Romania, dove si cerca di
reprimere con la forza l’insurrezione popolare e il dittatore Ceausescu viene condannato
a morte, e soprattutto della Jugoslavia, paese peraltro non facente parte del blocco
sovietico (dopo la clamorosa rottura fra Stalin e Tito del 1948 si era verificato ai tempi
di Chruščëv un riavvicinamento fra Mosca e Belgrado, ma quest’ultima aveva
mantenuto la sua autonomia). La federazione jugoslava si disgrega attraverso una serie
di conflitti sanguinosi, che a partire dal 1992 si concentrano sulla multietnica Bosnia.
Riemergono in tutta la loro forza odi nazionali, divisioni religiose e altre fratture
identitarie che la lunga stagione del comunismo sembrava aver relegato definitivamente
in soffitta117.
A due secoli esatti dalla Rivoluzione francese, culla dell’Europa contemporanea, il 1989
vede un altro terremoto generale cambiare il volto del Vecchio continente. Non si può
parlare di rivoluzione nel senso classico del termine, in quanto non vi è una nuova
classe sociale che soppianta precedenti dominatori, ma comunque finisce un’epoca: il
mondo della guerra fredda viene consegnato al passato. Questa cesura diventa totale nel
1991, quando la stessa URSS cessa di esistere e sul Cremlino la bandiera sovietica viene
sostituita da quella russa. Tra il 1989 e il 1991 non vi è un rapporto di necessità, ma
certo i sommovimenti in Europa Orientale, con un effetto pendolo tipico della storia, si
ripercuotono sul centro sovietico iniziatore del moto, acuendo le spinte centrifughe e
facendo degenerare il confronto tra riformatori e conservatori. Quest’ultimi nell’estate
del 1991 cercano di congelare il cambiamento con un tentativo di colpo di Stato che
però fallisce, a causa soprattutto di una diffusa reazione popolare, e finisce col
travolgere quanto resta del potere sovietico. Il PCUS viene di fatto sciolto e le diverse
repubbliche proclamano la secessione dall’Unione Sovietica. Il colpo finale viene dato

116
Cfr. M. Kramer, Rivoluzioni di velluto, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, vol. II, cit., pp.
368-73.
117
Cfr. J. Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991-1999, Torino, Einaudi, 2002.

65
dalla nascita nel dicembre del 1991 della nuova Comunità degli Stati indipendenti, che
raggruppa (con legami assai più tenui) undici delle quindici repubbliche facenti parte
dell’URSS. La più grande formazione multietnica della storia esce dalla scena
mondiale. Dopo una lunga fase in cui politologi e scienziati sociali si erano concentrati
sul problema del declino americano, è invece la controparte a implodere, in un modo
sostanzialmente pacifico. Ciò è per molti versi sorprendente, in quanto nella storia le
grandi potenze sono sempre uscite di scena attraverso conflitti sanguinosi.
Sulle riforme del sistema perseguite da Gorbačëv gli studiosi hanno evidenziato la
miscela destabilizzante costituita dai cattivi risultati in campo economico e dalla libertà
che adesso vi era di criticare le autorità e manifestare dissenso per come andavano le
cose. In relazione a ciò, ci si è chiesti se non sarebbe stato possibile salvare lo Stato
sovietico con una “strategia in due tempi”, avviando dapprima la ristrutturazione
dell’economia e solo in seguito, dopo un miglioramento delle condizioni di vita,
sperimentare misure di liberalizzazione politica. È stato compiuto anche un paragone
con la via seguita dai cinesi dopo la morte di Mao: il lancio, sotto la guida di Deng
Xiaoping, di un piano di modernizzazione del paese e di apertura al libero mercato nelle
Zone economiche speciali (istituite a partire dal 1979 e progressivamente ampliate),
senza però rinunciare al monopolio del potere da parte del partito comunista e al suo
ferreo controllo sulla società. Non avrebbe potuto Gorbačëv – questa la domanda che è
stata posta – attenersi, almeno in una prima fase, a una condotta analoga? La verità è
che il leader sovietico era portatore di una concezione del socialismo di tipo europeo, in
cui il momento politico non poteva essere agevolmente scisso da quello economico.
Nella sua visione – così scriveva nel 1987 – «l’Europa “dall’Atlantico agli Urali” è
un’entità storico-culturale unita dalla comune eredità del Rinascimento e
dell’Illuminismo, dei grandi insegnamenti filosofici e sociali del XIX e del XX
secolo»118. La Russia è dunque parte integrante di questa tradizione, che mette al centro
l’uomo e la sua emancipazione; il suo socialismo riformato, per conservare una
legittimazione storica, deve necessariamente distaccarsi dal dispotismo: perciò la “via
asiatica” è fuori dell’orizzonte di Gorbačëv. La data spartiacque di due destini
divergenti è il 1989: mentre le riforme di Mosca conducono alla fine dell’impero
sovietico esterno in Europa Orientale, in Cina viene represso nel sangue il movimento

118
M. Gorbačëv, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Milano, Mondadori,
1987, p. 264.

66
studentesco di Piazza Tienanmen, che reclama l’introduzione delle libertà politiche e di
espressione.
Il crollo del muro di Berlino pone all’ordine del giorno il tema della riunificazione
tedesca, che viene realizzata rapidamente (ottobre 1990), ma non senza apprensioni119.
In Europa, le speranze suscitate dalla fine definitiva della guerra fredda convivono con
il timore di un nuovo strapotere tedesco – per il momento economico, ma un domani
forse anche militare. Alcuni spettri del passato riaffiorano e sono ben visibili durante le
trattative per l’unificazione tra le due Germanie; ciò, tuttavia, non impedisce che alla
fine tutte le principali cancellerie europee diano il via libera, decidendo di scommettere
sul radicamento della democrazia in Germania e sulla pluridecennale integrazione
tedesca nelle strutture comunitarie europee. I tedeschi da parte loro comprendono che
per rassicurare i popoli vicini devono dare prova di buona volontà e rinnovare il loro
impegno nella costruzione europea, scartando alla base ogni suggestione di potenza. Il
cancelliere Helmut Kohl, a riprova solenne di tutto questo, acconsente ai nuovi piani di
unione monetaria europea: la rinuncia al marco, moneta forte del Vecchio Continente, è
la migliore testimonianza che la Germania concepisce il suo futuro all’interno di una
Europa sempre più integrata, in un disegno di benessere comune con gli altri popoli
europei.
Gli eventi del 1989-90 rappresentano dunque un fattore di accelerazione del processo di
integrazione europeo: nel luglio del 1990 viene avviata la prima fase dell’Unione
economica e monetaria, che poi si concluderà con la creazione di una moneta unica
europea; nel febbraio 1992 viene firmato il trattato di Maastricht, che istituisce la nuova
Unione europea. Pochi mesi dopo vengono indicati i criteri che dovranno regolare
l’ammissione alla UE dei paesi dell’Europa centro-orientale intenzionati a farne
richiesta. Con la fine della guerra fredda non ci sono più due Europe e cresce la
speranza che l’Europa comunitaria, nata nel segno della spaccatura del continente, possa
diventare la casa di tutti i popoli europei. Il modo in cui nel quarto di secolo successivo
si è cercato di tradurre in pratica questa aspirazione costituisce un processo storico
ancora aperto.

119
Sulle vicende che conducono alla fine della Repubblica democratica tedesca si veda Ch.S. Maier, Il
crollo. La crisi del comunismo e la fine della Germania Est, Bologna, Il Mulino, 1999.

67
Per un’autovalutazione

1. Indicare le principali differenze tra il corso storico dell’Europa Occidentale e quello


dell’Europa Orientale dopo il 1945.
2. Indicare la differenza tra il modello egemonico americano sull’Europa Occidentale e
quello sovietico sull’Europa Orientale.
3. Riflettere sui fattori di lungo e breve periodo alla base della crisi dei sistemi
comunisti in Europa Orientale.

68
5. L’età della globalizzazione

5.1. Rivoluzione elettronica e capitalismo globale

Con la fine della guerra fredda entriamo nel quarto di secolo a noi più vicino e inizia
quella che potremmo definire la storia contemporanea nel senso più stretto del termine.
Si delineano vicende e problemi che in molti casi sono ancora aperti e parte cruciale del
nostro presente. Se abbiamo cominciato la trattazione esaminando la seconda
rivoluzione industriale di fine Ottocento, quella che adesso manifesta pienamente i suoi
effetti è una terza rivoluzione industriale, compendiabile nella formula della rivoluzione
elettronica e informatica120. L’intera economia, e quindi la vita quotidiana di buona
parte dell’umanità, vengono trasformate dall’avvento dei satelliti e dei computer
personali, dalla robotica e dalla conseguente automazione di molti processi produttivi.
L’evoluzione tecnica consente di disporre di macchine sempre più sofisticate e
miniaturizzate, in grado di accompagnare l’uomo in un numero crescente di attività. Un
bambino con un telefono cellulare di ultima generazione può disporre di molte più
informazioni sul mondo di quante ne aveva un imperatore o un grande condottiero
dell’età antica. Il problema diventa proprio come gestire questa mole crescente di dati,
sapendo distinguere quelli più importanti e attendibili.
Lo strumento che meglio incarna questa nuova condizione umana è la rete di Internet,
che collega tutti i computer del mondo e crea un nuovo tipo di comunità universale. La
sua origine, come quella di molte altre invenzioni, è di natura militare: nasce infatti col
nome segreto di Arpanet nel corso della guerra fredda, come sistema che dovrebbe
consentire ai diversi centri politici e militari americani di continuare a comunicare tra
loro in caso di attacco nucleare. Al principio degli anni novanta una parte di questa
tecnologia viene liberata per gli usi civili: col protocollo di lettura World Wide Web la
rete informatica globale diventa realtà, con un bacino iniziale di quasi mezzo miliardo di
utenti121.
Il nuovo balzo tecnologico affonda le sue radici negli anni settanta, quelli degli shock
petroliferi e della crisi del fordismo classico nella terra americana dove era nato, per poi
rivelare a pieno i suoi effetti negli anni novanta. Il sistema della grande catena di

120
Cfr. E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica,
Milano, Franco Angeli, 2014 [5ª ediz. aggiornata], parte III.
121
Per approfondimenti si vedano T. Detti, G. Lauricella, Le origini di Internet, Milano, B. Mondadori,
2013; J. Ryan, Storia di Internet e il futuro digitale, Torino, Einaudi, 2011.

69
montaggio e della produzione standardizzata perde terreno a favore di pratiche più
flessibili122. La grande industria tende a trasferire parte delle sue attività in impianti più
piccoli, a volte situati in posti lontani, dove il costo del lavoro e il regime fiscale sono
più favorevoli. Più che produrre lo stesso oggetto nel massimo numero possibile di
esemplari a parità di tempo, nella competizione conta adesso la capacità di mutarne
rapidamente le caratteristiche a seconda dei cambiamenti nel gusto del pubblico,
provvedendo a una offerta sempre più sofisticata e differenziata. La combinazione tra
processi di automazione e trasferimento delle produzioni all’estero determina imponenti
fenomeni di deindustrializzazione in aree forti dell’industria novecentesca: un esempio
assai noto è quello della rust belt statunitense, una grande area nel Nord-Est del paese
che ora diviene la “cintura della ruggine” in riferimento ai grandi impianti abbandonati
ed esposti alla corrosione delle intemperie. Nel 1979 desta sensazione il fatto che il
governo americano debba intervenire con un grande prestito per salvare dal fallimento
la casa automobilistica Chrysler, un tempo colonna del sistema produttivo. Come in
ogni fase di crisi del capitalismo, a vecchie produzioni in affanno subentrano nuovi
settori emergenti: a quattro anni prima, al 1975, risale la fondazione in un garage da
parte di due ventenni sconosciuti, Bill Gates e Paul Allen, dell’azienda Microsoft, che
negli anni novanta diventerà una multinazionale trainante per l’intera economia
americana, acquisendo un semimonopolio dei programmi informatici.
Nelle nuovi condizioni il capitalismo si globalizza definitivamente, sia a livello
produttivo che finanziario123. Le multinazionali diventano transnazionali, nel senso che
tendono a perdere il radicamento con il paese d’origine e a diventare degli organismi
senza fedeltà nazionali e patriottismi, regolati puramente dalle convenienze
economiche. Le borse del pianeta sono collegate in un flusso ininterrotto di transazioni:
la situazione dei mercati asiatici condiziona l’apertura delle piazze affari europee, i cui
andamenti si ripercuotono a loro volta su Wall Street, cuore pulsante della
globalizzazione finanziaria. La rete telematica consente di spostare in un arco
brevissimo di tempo capitali da una parte all’altra del pianeta: le economie di interi
paesi possono tremare dinanzi a scelte repentine di milioni di risparmiatori collegati alle
borse con i loro computer. Sembra prendere corpo quella unificazione del mondo che
alcuni scienziati sociali avevano previsto nel tempo, dalle pagine ottocentesche di Marx

122
Cfr. T. Ohno, Lo spirito Toyota, Introduzione di M. Revelli, Torino, Einaudi, 1993.
123
Cfr. Kennedy, Verso il XXI secolo, cit., pp. 67-89.

70
sul ruolo planetario svolto dalla borghesia europea al “villaggio globale” teorizzato da
Marshall McLuhan.
Un mondo più piccolo non vuol dire necessariamente un mondo più pacificato e
armonioso. Nel villaggio, per quanto globale, possono sempre scoppiare delle faide. La
globalizzazione è caratterizzata dalla crescita di vecchie e nuove disuguaglianze, dal
montare di tensioni con tratti inquietanti. Gli Stati nazionali e gli strumenti tradizionali
della politica si trovano in difficoltà nel gestire le nuove condizioni tecnologiche,
produttive e commerciali: si ripropone in forme aggiornate la riflessione di Antonio
Gramsci sui pericoli per la pace che derivano dal contrasto fra il cosmopolitismo
dell’economia e il nazionalismo della politica. Il fiorire di movimenti no global a partire
dagli anni novanta è un segno rivelatore delle paure e delle resistenze, nonché
dell’oggettivo disagio provocato dalle trasformazioni in corso. La galassia no global
esprime la protesta sia di ambienti del mondo sviluppato che si deindustrializza e
conosce l’avvento della società dei servizi, sia di realtà del mondo in via di sviluppo che
si industrializza accogliendo le produzioni che si spostano e sperimenta le tensioni
connesse a un simile processo. La frammentarietà e la profonda diversità delle istanze di
protesta impediscono che il moto antiglobalizzazione diventi una realtà politica e
culturale unitaria124.

5.2. Vittoria occidentale e “fine della Storia”

Ad ogni modo, a prescindere da ogni forma di contestazione, la situazione che si


afferma con la fine della guerra fredda sembra essere quella di una piena affermazione
dell’economia di mercato di stampo occidentale, non più contrastata dal progetto
alternativo di società comunista. Come abbiamo visto, infatti, all’implosione dell’URSS
si accompagna anche la “conversione” della Cina al capitalismo, caratterizzata da un
pragmatismo per certi versi spiazzante: «non importa che il gatto sia nero o bianco,
l’importante è che riesca a catturare il topo», aveva affermato nel 1961 Deng Xiaoping;
le riforme degli anni ottanta e novanta sono una gigantesca applicazione di questa
filosofia. I cinesi prendono atto che il sistema capitalista sta funzionando meglio del
loro nel generare sviluppo, e iniziano quindi a introdurlo nei propri confini. Per contro, i
sistemi comunisti cadono in una crisi che si rivelerà irreversibile: i metodi che li
contraddistinguono hanno avuto una loro efficacia nella fase di decollo
124
In merito alle diverse posizioni sulla globalizzazione si veda D. Held, A. McGrew, Globalismo e
antiglobalismo, Bologna, Il Mulino, 2010.

71
dell’industrializzazione, quando si trattava di traghettare verso la modernità paesi
contadini molto poveri; ma adesso, dinanzi alla rivoluzione elettronica e all’avvento
della società dell’informazione, non riescono a tenere il passo con la controparte
occidentale.
La caduta dei comunismi e la vittoria dell’economia di mercato determinano in
Occidente una ondata di trionfalismo e di celebrazione del proprio modello economico e
sociale. In certi ambienti l’epilogo della guerra fredda viene vissuto come il prevalere in
una guerra vera e propria, con tutto il contorno ideologico e identitario che ciò
comporta. Tale clima si respira in particolare negli Stati Uniti, dove molti considerano
la vittoria sul comunismo come un evento storico di portata analoga alla sconfitta del
nazifascismo nel 1945. Il Novecento diviene allora ancora di più il “secolo americano”,
in cui gli Stati Uniti hanno rappresentato il mondo libero e abbattuto in successione tutti
quei sistemi “totalitari” che hanno incarnato visioni alternative. Dalla tradizionale
politica di equilibrio tra le potenze europee, passando poi per il bipolarismo della guerra
fredda, si è approdati al “mondo unipolare”, in cui non vi sono paesi in grado di porre in
discussione l’egemonia americana. Alla fine del Novecento gli Stati Uniti sono l’unica
potenza globale, in grado di intervenire contemporaneamente in più parti del mondo, per
azioni di guerra come per recare soccorso a popoli colpiti da conflitti e calamità
naturali.
Nel dibattito vi è chi cerca di stemperare gli entusiasmi e fa osservare che gli Stati Uniti,
pur essendo una iperpotenza militare senza rivali di pari grado, debbono però fare i
conti con un mondo multipolare dal punto di vista economico. La concorrenza
tecnologica e commerciale di entità come l’Europa comunitaria e il Giappone, di colossi
sempre più dinamici come l’India e la Cina, unita al fardello della responsabilità
militare che pesa su Washington, espone gli americani a un quasi inevitabile declino
relativo – fenomeno già osservato a partire dagli anni sessanta. In altre parole, la vittoria
del 1945 appare irripetibile in termini di strapotere sul resto del mondo; la vittoria della
guerra fredda lascia inoltre una serie di complesse eredità sulle sole spalle americane,
mentre con l’assetto bipolare vi era stata una condivisione stabilizzatrice con l’Unione
Sovietica. Diventa lecito chiedersi se gli Stati Uniti potranno intervenire in ogni
situazione di crisi, e quali effetti potrà determinare un loro mancato intervento. In altre
parole, quanto potrà essere stabile un mondo unipolare, che si regge su una sola gamba?
Non dovrebbero gli Stati Uniti promuovere una sorta di direttorio informale con le varie

72
potenze regionali? Lanciati al principio degli anni novanta, questi interrogativi
caratterizzano ancora i nostri giorni125.
Al di là del peso che potrà esercitare l’America, vi è chi ritiene che la conclusione della
guerra fredda abbia segnato la vittoria definitiva del modello liberaldemocratico
occidentale, di cui gli Stati Uniti hanno rappresentato l’incarnazione più avanzata. Lo
studioso più noto attestato su queste posizioni è l’americano Francis Fukuyama, analista
presso il Dipartimento di Stato e la Rand Corporation. Nel suo libro La fine della Storia
e l’ultimo uomo – pubblicato nel 1992 e tradotto in oltre venti lingue – individua nei
paesi della comunità occidentale l’espressione di una formazione economico-sociale e
statuale definitiva, destinata a estendersi su tutto il pianeta, secondo un moto già iniziato
e che adesso non viene più contrastato da un campo socialista126. Siamo dunque a un
approdo definitivo del corso storico nel senso hegeliano del termine: il tribunale della
Storia ha emesso un verdetto che non ammette repliche. A prevalere globalmente è un
modello liberale e democratico che pone al centro la promozione dei diritti umani e la
libertà di iniziativa individuale. Negli sviluppi più progressisti di questa visione, si
avverte la speranza che in tale modello lo Stato non sia più il Leviatano al cui servizio i
cittadini sono tenuti al massimo sacrificio, ma al contrario sia lo Stato a legittimare la
propria esistenza in quanto strumento in grado di porsi al servizio dei cittadini,
promuovendo il loro benessere.

5.3. Nuovo ordine democratico o “scontro di civiltà”?

L’assetto unipolare conosce un suo precoce e cruento collaudo nel 1990-91, in


occasione della crisi generata dall’invasione del Kuwait a opera dell’Iraq, che ne
rivendica il possesso come diritto storico negato dagli interessi coloniali delle potenze
europee. Anche se al Consiglio di sicurezza dell’ONU siede ancora il rappresentante
dell’URSS, sono gli americani a farsi carico integralmente della costituzione di una
forza di intervento internazionale – formata da soldati di oltre trenta paesi – che ponga
fine all’occupazione e ribadisca il principio che le controversie fra Stati non possono
essere risolte con la forza. Scaduto l’ultimatum a Saddam Hussein affinché ritiri le sue
truppe, una campagna di bombardamenti aerei e missilistici mette in ginocchio l’Iraq
senza che vi sia bisogno di un intervento terrestre. L’ultimo atto è l’annientamento dal

125
Cfr. J.S. Nye jr, Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può più agire da
sola, Torino, Einaudi, 2002.
126
F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.

73
cielo delle colonne irachene mentre stanno abbandonando il Kuwait. L’operazione
Tempesta nel deserto, autorizzata da una risoluzione dell’ONU, mostra l’efficacia del
potenziale bellico americano. Sul suo impiego nell’ambito delle Nazioni Unite si regge
l’aspirazione manifestata all’epoca di un nuovo ordine mondiale, che possa mettere al
bando la guerra, ridurre le spese per gli armamenti (alimentate dal sistema della guerra
fredda) e indirizzare risorse crescenti verso lo sviluppo delle aree arretrate, focolaio da
sempre di conflitti che acuiscono miseria e degrado.
Questo quadro ottimistico si rivela però di assai breve durata. Esso si sgretola dinanzi a
nuove crisi come quella della Somalia, dove gli scontri interni fra i “signori della
guerra” hanno condotto a una dissoluzione completa delle strutture statuali, con la
popolazione che versa in condizioni critiche a livello sanitario e alimentare. Anche in
questo caso l’ONU decide l’intervento e le forze americane assumono un ruolo guida,
ma l’esito si rivela fallimentare. L’amministrazione Clinton, dopo l’esplodere di una
vera e propria guerriglia urbana per le vie di Mogadiscio, che provoca una serie di
vittime nelle file statunitensi, decide di porre fine alla missione. In Somalia la guerra
civile continuerà a mietere vittime per anni, senza che la comunità internazionale riesca
a far cessare le violenze. L’opinione pubblica americana, e quelle degli altri paesi
occidentali, appaiono poco disposte ad accettare forme di intervento a rischio elevato. Il
genocidio ruandese del 1994 assesta un altro grave colpo alle speranze di un nuovo
corso nella gestione dei conflitti e delle crisi umanitarie. Le drammatiche vicende del
Ruanda destabilizzano tutta la regione dei Grandi Laghi, accendendo in particolare un
lungo conflitto in Congo. Scoppia quella che per le sue implicazioni generali e il
coinvolgimento di numerosi paesi è stata definita “la prima guerra mondiale africana”,
combattuta in diverse fasi tra il 1996 e il 2004, conclusasi con il bilancio di oltre tre
milioni di vittime, per la maggior parte civili127.
Dinanzi a questi sviluppi viene proposta l’immagine dell’Africa come una sorta di
“buco nero della globalizzazione”, dove non solo vecchie e nuove potenze non hanno
interesse a intervenire per fermare i conflitti, ma traggono da essi profitti inconfessabili.
A questa visione ne è stata però contrapposta una alternativa, che ha invece sottolineato
i progressi democratici compiuti da diversi Stati africani a cavallo della fine della guerra
fredda. Il caso più citato è stato quello del Sudafrica, dove negli anni novanta è caduto il

127
Cfr. G. Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 109-21, 147-
53; S. Bellucci, Storia delle guerre africane. Dalla fine del colonialismo al neoliberalismo globale,
Roma, Carocci, 2006, pp. 67-84.

74
regime di segregazione razziale. Questa avanzata della democrazia nello spazio
subsahariano è stata da alcuni inquadrata in un moto generale in cui si deve includere il
crollo del comunismo in Europa Orientale e l’esaurirsi delle dittature militari un tempo
insediate in buona parte dell’America Latina. Rispetto a ciò, sono state oggetto di un
dibattito vivace le teorie del politologo statunitense Samuel Huntington sui processi di
democratizzazione alla fine del ventesimo secolo. Egli ha individuato una “terza
ondata” di diffusione planetaria della democrazia – dopo la prima ottocentesca e la
seconda legata alla vittoria sui fascismi e alla decolonizzazione –, iniziata negli anni
settanta con la caduta delle dittature della penisola iberica128.
Visioni di questo tipo sollevano interrogativi assai difficili da sciogliere: non è forse
arbitrario mettere in relazione cambiamenti politici e sociali avvenuti in aree del pianeta
così diverse tra loro? Non si rischia di condurre l’analisi su un modello idealtipico di
democrazia, basato sulle consuetudini occidentali, smarrendo così il significato più
profondo di quanto avviene in contesti distanti da tale tradizione? La discussione
intorno a questi interrogativi è stata alimentata dall’economista indiano Amartya Sen,
che si è sforzato di evidenziare esperienze e teorizzazioni della democrazia compiute nel
corso dei secoli in Asia, ed esterne alla tradizione occidentale129. Ne è scaturita una
difesa della democrazia come valore universale dai toni appassionati e di grande valore
civile, ma con una serie di limiti sul piano della validità storica.
Un dato di fondo del dibattito sulla democrazia è che la sconfitta dei comunismi ha
delegittimato i modelli autoritari come possibili soluzioni nel cammino verso la
modernizzazione. La maturità di un paese a operare nella globalizzazione è stata dunque
giudicata non solo sulla base della sua apertura economica e della struttura produttiva,
ma anche della democraticità delle sue istituzioni e delle libertà individuali130. La
democrazia è rimasta in campo come unico modello politico-sociale idoneo, e tale
situazione è stata generalmente considerata una riprova e il logico frutto della vittoria
occidentale nella guerra fredda. Al di là delle rivendicazioni di Amartya Sen, nel Sud
del mondo in molti hanno vissuto il moto di democratizzazione come un segno della
pressione egemonica occidentale, divenuta ormai pervasiva. Ciò ha contribuito ad
alimentare reazioni localiste e identitarie molto forti, tese a contrastare l’adozione delle

128
S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Bologna, Il
Mulino, 1998.
129
A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Milano,
Mondadori, 2005.
130
Rappresentativo di questo clima è un volume dello stesso Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché
non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2001.

75
pratiche politiche e più in generale dei costumi “occidentali”, dall’economia al tempo
libero, dalle culture giovanili alla condizione femminile. Il cammino della
globalizzazione, dipinto all’inizio con toni trionfalisti, si è rivelato molto più complicato
del previsto.
In altre parole, la globalizzazione – intesa come sistema economico compiutamente
integrato e crescente omologazione di principi politico-sociali, mentalità e stili di vita –
ha suscitato diffusi fenomeni di rigetto dove è stata vissuta come occidentalizzazione
forzata. Ci si è allora scagliati contro quello che il politologo americano Benjamin
Barber ha definito il McMondo, il sistema globale che tende a uniformare
comportamenti e gusti di centinaia di milioni di consumatori sparsi in tutto il pianeta131.
La lotta contro il McMondo prende la forma dei nazionalismi e soprattutto dei
fondamentalismi religiosi, con particolare riguardo al mondo islamico, dove si verifica
un ritorno a tradizionalismi che sembravano ormai sepolti e si registrano anche casi di
“invenzione della tradizione”, vale a dire di pratiche spacciate per antiche ma in realtà
mai esistite132. Il radicalismo islamico si diffonde in quella fascia centrale musulmana
che va dal Nordafrica sahariano al Sud-Est asiatico, passando per il Medio Oriente e
l’Asia Centrale; il processo è favorito dalla miscela esplosiva costituita da crisi militari,
esplosione demografica, vasta disoccupazione133.
È sullo sfondo di un simile contesto che il citato Samuel Huntington propone negli anni
novanta il discusso modello dello “scontro di civiltà”, secondo il quale le vicende
mondiali saranno caratterizzate dal «crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà».
Questa visione si colloca agli antipodi di quella proposta da Fukuyama: invece della
vittoria pacifica di una globalizzazione guidata dalle liberaldemocrazie occidentali, si
delinea uno scenario di divisioni e nuove guerre. Se per Fukuyama l’epilogo della
guerra fredda ha rappresentato la fine della storia, per Huntington il crollo del
bipolarismo ha aperto il vaso di Pandora delle pulsioni nazionaliste e identitarie, rimaste
in precedenza “congelate” nella partita fra USA e URSS134.

131
B. Barber, Guerra santa contro McMondo, Milano, Tropea, 2002.
132
Su questo paradigma si veda E.J. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Torino,
Einaudi, 1987.
133
Cfr. B. Lewis, La crisi dell’Islam. Le radici dell’odio verso l’Occidente, Milano, Mondadori, 2004;
ID., La costruzione del Medio Oriente, Roma-Bari, Laterza, 2006.
134
S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997.

76
L’episodio più clamoroso dello scontro di civiltà è rappresentato dagli attacchi
terroristici di Al Qaeda sul territorio americano avvenuti l’11 settembre 2001135. Essi
sono stati letti come una conferma delle tesi di Huntington e hanno contribuito ad
accrescere nei circoli occidentali una certa nostalgia della guerra fredda, quando il
nemico era una entità statuale ben precisa e non manipoli di terroristi difficili da
individuare e pronti a colpire in ogni luogo e momento. La nuova “guerra contro il
terrore” di cui si parla a Washington è forzatamente “asimmetrica”, con regole molto
diverse dai conflitti “classici” tra forze armate regolari. Ad ogni modo, il
fondamentalismo islamico fornisce un nuovo nemico all’America, continuando dunque
a legittimare quell’apparato militare-industriale che nel segno del keynesismo militare
ha rappresentato un volano stabilizzatore fondamentale per l’economia americana, e
dunque globale, dalla seconda guerra mondiale in poi. Adesso la sfida diventa quella di
riformare le forze armate secondo le tecnologie rese disponibili dalla rivoluzione
elettronica, seguendo i dettami anche della guerra asimmetrica136.
Tutto questo non vuol dire che la decisione americana di rispondere all’11 settembre
andando a combattere in Afghanistan e rovesciando il regime di Saddam Hussein in Iraq
debba essere interpretata in termini rozzamente economicisti. È importante osservare
che con questi interventi gli Stati Uniti tornano a porsi come difensori (e diffusori)
“armati” della democrazia137, ma rispetto agli anni novanta viene meno la loro
disponibilità a promuovere un nuovo ordine internazionale basato su procedure
collettive e istituzionalizzate. Non vi è più l’ancoraggio alle Nazioni Unite, con le quali
anzi si produce una clamorosa divergenza a proposito dell’invasione dell’Iraq138.

5.4. Riforma dell’ONU e sfide globali

L’insofferenza americana è legata anche al declino delle speranze che l’ONU possa
riformarsi e iniziare a svolgere un ruolo di governo mondiale, senza con questo
intendere una sorta di super Stato. Il progetto di riforma dell’ONU viene infatti bloccato
dai veti incrociati e dall’effettiva difficoltà di approntare procedure decisionali agili e al
tempo stesso sufficientemente democratiche e condivise. Il risultato è che si parla di

135
Sulla vicenda si veda L. Wright, Le altissime torri. Come Al-Qaeda giunse all’11 settembre, Milano,
Adelphi, 2007.
136
Cfr. J. Black, Le guerre nel mondo contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2006.
137
Cfr. F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Torino,
Lindau, 2005.
138
Si veda la riflessione di A.M. Schlesinger Jr, War & the American Presidency. La guerra e la
Presidenza americana, Roma, Treves, 2009.

77
nuovo ordine mondiale dopo la fine della guerra fredda, ma il Consiglio di sicurezza –
vero cuore del problema della auspicata riforma – continua a esprimere gli equilibri del
1945. Alcuni paesi che hanno acquisito un peso indiscusso sulla scena internazionale
avanzano la propria candidatura a un seggio permanente: tra essi ci sono i due grandi ex
sconfitti, Germania e Giappone, ma anche l’India che ha superato il miliardo di abitanti,
e nazioni emergenti come il Brasile, che esercitano forme di leadership a livello
regionale. Alla loro richiesta si contrappongono progetti come quello italiano, che non
prevedono nuovi posti fissi per determinate potenze, ma un sistema di rotazione con
rappresentanze regionali139. Sulle diverse proposte si registra uno stallo prolungato.
Particolarmente sconfortante è il quadro offerto dalla diplomazia europea, che offre un
quadro di grande frammentazione: ai paesi detentori del seggio permanente, e che non
intendono porlo in discussione (Francia e Gran Bretagna), si giustappone l’attivismo
della candidatura tedesca (che però spaventa molti dei partner europei) e il tentativo
italiano di creare un consenso tra i paesi extraeuropei sulle ipotesi di rotazione. Una
quarta opzione, quella di affidare un seggio permanente all’Unione Europea, si rivela
assai difficile dal punto di vista tecnico, non essendo la UE uno Stato. Si pongono
quindi una serie di problemi, tra cui la questione se tale seggio andrebbe inteso come un
posto a rotazione fra i paesi membri oppure da affidare a una istituzione dell’Unione già
esistente o da creare ad hoc; inoltre, il nuovo seggio, unito a quelli già detenuti da
Londra e Parigi, darebbe troppo peso al Vecchio Continente, sollevando le opposizioni
dei paesi extraeuropei e rivelandosi incompatibile con l’ipotesi di riorganizzazione del
Consiglio di sicurezza su base regionale.
Gli affanni dell’ONU appaiono tanto più preoccupanti quanto più il carattere globale di
una serie di grandi problemi esigerebbe una risposta collettiva da parte della comunità
internazionale. Oltre alle gravi crisi legate alle guerre avanzano nuove sfide, come
quelle legate ai rischi ambientali, che non possono essere risolte unilateralmente dai
singoli paesi, per quanto influenti essi siano. Alle grandi trasformazioni rese possibili
dal mutamento tecnologico è necessario dare nuove risposte di tipo politico, che devono
superare i limiti tradizionali delle politiche nazionali. Non si tratta più solo di
armonizzare i diversi interessi nazionali quando sorgono i problemi, ma anche di
progettare politiche collettive ab origine. All’utopia del mercato autoregolantesi,
presente negli anni novanta e mezzo secolo prima analizzata da Karl Polanyi 140, è

139
Cfr. N. Andreatta, La riforma dell’ONU, a cura di M. Colimberti, Roma, AREL, 2005.
140
K. Polanyi, La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974 [ediz. orig. 1944].

78
subentrata una maggiore coscienza delle conseguenze distruttive per la società e
l’ambiente di un approccio che conferisce primazia e autonomia alla sfera economica141.
Si è giustamente detto che la fine della guerra fredda, al di là di certi trionfalismi
propagandistici, non ha mutato determinate distorsioni dell’economia e del commercio
internazionale, che continuano a penalizzare la maggior parte della popolazione di intere
aree del pianeta.
Le statistiche dell’ONU e di altri organismi internazionali ci mostrano che negli ultimi
decenni, se si è ristretto il gap tra paesi avanzati e arretrati a proposito di indicatori
come la durata media della vita, la mortalità infantile e la disponibilità di cibo, il divario
è invece aumentato per i fattori qualificanti dello sviluppo e di una condizione di
benessere142. Vecchie e nuove disuguaglianze stanno crescendo, anche all’interno delle
società del Nord del mondo. Tra il 1980 e il 2010 lo 0,01% più ricco della popolazione
statunitense ha visto quadruplicare la propria quota di risorse rispetto al totale nazionale.
A livello mondiale, sempre intorno al 2010, il 10% della popolazione mondiale dispone
di circa l’85% delle ricchezze. Quasi la metà della popolazione del pianeta, oltre tre
miliardi di persone, per la maggior parte concentrate in Africa, Asia e America Latina,
devono sopravvivere con meno di 2,5 dollari al giorno. È chiaro che rispetto a questi
dati acquisisce un senso rinnovato anche il dibattito sulla democrazia e i diritti umani
prima richiamato: non possiamo infatti scindere le valutazioni sulla democraticità di un
sistema dal rispetto di tutta una serie di diritti sociali, ai quali è legata la dignità degli
individui.
Non sappiamo come gli storici del futuro giudicheranno il tempo presente.
Probabilmente, però, essi saranno molto critici sui meccanismi di funzionamento della
globalizzazione, che conducono a un uso spesso irrazionale delle risorse e a beneficio di
minoranze. L’aspetto forse più clamoroso dal punto di vista storico di tale irrazionalità è
il predominio assunto dalla finanza rispetto all’economia reale. Se dai tempi
dell’antichità classica fino a Novecento inoltrato gli strumenti finanziari sono stati al
servizio dello sviluppo della produzione e dei commerci, ora le priorità si invertono, al
punto che nel 2011 il valore complessivo delle transazioni finanziarie è pari a quasi
141
M. Armiero, S. Barca, Storia dell’ambiente. Una introduzione, Roma, Carocci, 2004; F. Paolini, Breve
storia dell’ambiente nel Novecento, Roma, Carocci, 2009.
142
Le Nazioni Unite diffondono periodicamente un Rapporto sullo sviluppo umano, comprensivo di una
classifica per nazioni sulla base di un Indice dello sviluppo umano, calcolato attraverso l’elaborazione di
parametri economici e sociali, come l’aspettativa di vita e l’alfabetizzazione. Il principio che in tal modo
si afferma è che lo sviluppo di un paese non può essere valutato solo rispetto ai suoi indicatori economici.
Per consultare l’ultima edizione del Rapporto si veda United Nations Development Programme, Human
Development Reports, in http://hdr.undp.org/en/2015-report.

79
dieci volte l’ammontare del PIL mondiale. Possiamo ipotizzare che gli studiosi
rifletteranno su questo sbilanciamento senza precedenti storici, e sulle sue conseguenze.
Ciò che invece conosciamo bene è il modo in cui gli storici del nostro tempo si sono
posti dinanzi all’avvento di questa globalizzazione, cercando di intuirne gli sviluppi,
seppure con doverosa cautela. «Poiché nessuno – ha scritto ad esempio Paul Kennedy
nel 1993 – è in grado di leggere nel futuro, è impossibile dire con certezza se le
tendenze generali in atto condurranno a terribili disastri, oppure verranno modificate da
stupefacenti progressi nel campo delle conoscenze umane. La sola certezza è che,
venuta meno la guerra fredda, quello in cui oggi ci troviamo a vivere non è un “nuovo
ordine mondiale”, bensì un pianeta insicuro e frammentato, con problemi che meritano
seria attenzione sia da parte dei governi che dei cittadini comuni»143. Sono trascorsi più
di vent’anni da quando tali osservazioni sono state formulate, ma esse conservano la
loro attualità, insieme ai doveri che richiamano e che sono di fronte a tutti noi.

143
Kennedy, Verso il XXI secolo, cit., p. 443.

80
Per un’autovalutazione

1. Indicare le principali caratteristiche e conseguenze della rivoluzione elettronica.


2. Illustrare i caratteri fondamentali dei due paradigmi alternativi della “fine della
Storia” e dello “scontro di civiltà”.
3. Chiarire le questioni che rendono complessa la riforma dell’ONU

81
BIBLIOGRAFIA

N.B. Il presente elenco intende essere solo un supporto per approfondimenti storiografici, senza alcuna
pretesa di esaustività rispetto ai temi trattati. Vengono citati solo testi disponibili in italiano, in ordine
alfabetico per autore.

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87
Sommario
Obiettivi di apprendimento ........................................................................................... 1
Premessa .......................................................................................................................... 2
1. La nascita del mondo contemporaneo ................................................................... 5
1.1. Quando inizia la storia contemporanea? ............................................................ 5
1.2. Fordismo e capitalismo finanziario.................................................................... 6
1.3. L’avvento della società di massa ....................................................................... 8
1.4. L’età dell’imperialismo.................................................................................... 12
2. L’età della guerra totale ....................................................................................... 21
2.1. La scoperta della guerra industriale tecnologica .............................................. 21
2.2. Guerra totale e interdipendenza ....................................................................... 25
2.3. La guerra fuori controllo e i totalitarismi ......................................................... 29
2.4. L’era nucleare: fine della “razionalità” della guerra ........................................ 32
3. Guerra fredda e decolonizzazione ....................................................................... 37
3.1. Un nuovo ordine bipolare e asimmetrico ......................................................... 37
3.2. La guerra fredda dall’Europa al mondo ........................................................... 39
3.3. I tre mondi e il non allineamento ..................................................................... 44
3.4. Est-Ovest vs Nord-Sud: da una direttrice all’altra ........................................... 47
4. Guerra fredda e integrazione europea ................................................................ 50
4.1. L’Europa Occidentale ...................................................................................... 50
4.2. Il paradosso americano e la società del benessere ........................................... 54
4.3. Al di là della cortina di ferro: l’Europa comunista .......................................... 57
4.4. Ricomposizione delle due Europe: da Helsinki a Maastricht .......................... 61
5. L’età della globalizzazione.................................................................................... 69
5.1. Rivoluzione elettronica e capitalismo globale ................................................. 69
5.2. Vittoria occidentale e “fine della Storia” ......................................................... 71
5.3. Nuovo ordine democratico o “scontro di civiltà”? .......................................... 73
5.4. Riforma dell’ONU e sfide globali ................................................................... 77
BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................... 82

88
MODULO 1
ESERCITAZIONE

Si illustri sinteticamente il motivo per cui la storia contemporanea viene considerata l’età
dell’interdipendenza.

storia@baicr.it

1
MODULO 1
TEST

1. La seconda rivoluzione industriale è caratterizzata da:


a) l’affermarsi di aziende dalle dimensioni più piccole;
b) l’ascesa dell’Inghilterra a massima potenza industriale;
c) l’emergere di nuovi settori industriali (chimica, elettricità, produzione
dell’acciaio);
d) l’avvio dell’industrializzazione delle colonie asiatiche e africane.

2. In cosa consiste il fordismo?


a) nell’avvento della catena di montaggio per realizzare una produzione
standardizzata;
b) in un sistema produttivo in regime di monopolio;
c) in un legame tra industria e banche;
d) nella creazione di un nuovo legame tra industria e agricoltura.

3. Tra le caratteristiche della società di massa annoveriamo:


a) bassi tassi di urbanizzazione;
b) l’assenza di conflitti sociali;
c) la contrazione delle dimensioni degli eserciti;
d) una inedita sensazione di sovraffollamento e controllo sulla vita delle persone.

4. Per politica di massa intendiamo:


a) l’affermarsi di partiti dominati da gruppi di notabili;
b) un sistema politico che opprime le masse;
c) un sistema politico caratterizzato sempre più dalla partecipazione delle masse;
d) l’avvento di forme violente dell’agire politico.

5. Nell’età dell’imperialismo osserviamo:


a) un declino della posizione dell’Europa nel mondo;
b) una rinnovata corsa coloniale fra le potenze europee;
c) una delegittimazione delle teorie di Darwin;
d) regressi nel campo delle comunicazioni che rendono più frammentato il mondo.

6. Come viene interpretato il fenomeno imperialista dagli studiosi dell’epoca?


a) in forme assai varie e anche antitetiche;
b) all’epoca non si percepiscono le specificità dell’imperialismo;
c) vi è un clima di generale plauso verso i progressi della tecnica e dell’economia;
d) come una conseguenza inevitabile del declino europeo.

7. Tra i caratteri della prima guerra mondiale osserviamo:


a) il prevalere della guerra di movimento sulla guerra di posizione;
b) un processo di deindustrializzazione che riguarda tutti i belligeranti;
c) la mobilitazione totale degli apparati industriali delle nazioni belligeranti;
d) l’incapacità degli Stati a intervenire nell’economia nazionale.

1
8. Tra gli esiti della prima guerra mondiale includiamo:
a) l’instaurarsi del dominio anglo-francese sull’Europa;
b) la spartizione dell’Europa tra russi e americani;
c) la diffusa aspirazione a un ordine nuovo che giustifichi le sofferenze patite;
d) una sostanziale conferma di quelle che erano le gerarchie tra le potenze
dell’epoca.

9. Il modello novecentesco di guerra industriale tende a:


a) militarizzare l’intera popolazione;
b) concentrare le distruzioni al fronte, risparmiando le retrovie e le città;
c) avvantaggiare i paesi che non hanno una base industriale;
d) delegittimare la guerra aerea.

10. Cosa distingue i fascismi dai regimi autoritari tradizionali?


a) l’uso sistematico della violenza;
b) una linea molto aggressiva di politica estera;
c) il fatto di essere regimi di massa;
d) l’opposizione frontale alle democrazie.

11. Cosa si intende per “complesso militare-industriale”?


a) l’insieme delle attività militari e industriali di un paese;
b) l’intreccio economico e organizzativo tra forze armate e industria bellica;
c) un particolare settore delle forze armate che lavora per l’industria;
d) un processo di militarizzazione del settore industriale.

12. Tra gli effetti della bomba atomica comprendiamo:


a) la diminuzione dei costi delle guerre;
b) una crescita della libertà della ricerca scientifica;
c) il rifiuto della costruzione di questo tipo di arma da parte della comunità
internazionale;
d) l’entrata del genere umano nell’età della possibile autodistruzione.

13. Perché definiamo “asimmetrico” il bipolarismo che si instaura dopo la seconda


guerra mondiale?
a) perché si stabilisce un divario troppo grande tra le due potenze guida e tutti gli
altri paesi;
b) perché le due potenze guida escono dalla guerra in condizioni profondamente
diverse;
c) perché le due potenze guida sono rette da due forme di organizzazione
economico-sociale agli antipodi fra loro;
d) perché una delle potenze guida ha la leadership economica, mentre l’altra ha la
leadership militare.

14. Cosa intendiamo con l’espressione “stabilità egemonica”?


a) la stabilità del sistema internazionale basata sull’egemonia di una potenza guida;
b) un ordine internazionale illiberale, basato sul dominio di alcune potenze;
c) il prevalere di un equilibrio tra potenze al fine di garantire la stabilità
internazionale;
d) la capacità di esercitare in modo stabile una funzione egemonica.
15. In cosa consiste il Grand Design di Roosevelt?
a) nell’affidare tutti i problemi internazionali alle Nazioni Unite;
b) in una intesa diretta con l’URSS per la soluzione dei problemi mondiali;
c) nella costruzione di un nuovo ordine internazionale sotto la guida degli Stati
Uniti;
d) nella vittoria della guerra e nel successivo ritorno all’isolazionismo americano.

16. La guerra di Corea segna:


a) la fine della guerra fredda in Europa;
b) l’allargamento della guerra fredda al teatro estremo orientale;
c) la vittoria del comunismo in Cina;
d) la riunificazione tra le due Coree.

17. In cosa consiste il “non allineamento”?


a) nella mancanza di una linea di politica estera chiara da parte dei paesi che
acquisivano l’indipendenza;
b) nell’incapacità dei paesi di nuova indipendenza nel collaborare tra loro;
c) nel tentativo dei paesi ex coloniali di svincolarsi dalla dipendenza economica
verso l’Occidente;
d) nel tentativo dei paesi di recente indipendenza di non finire schiacciati nella
contesa della guerra fredda.

18. Il fenomeno del neocolonialismo determina:


a) una nuova stagione di conquiste coloniali da parte delle potenze europee;
b) la mancanza di una effettiva indipendenza economica dopo aver raggiunto quella
politica;
c) il rovesciamento dei rapporti di forza tra mondo industrializzato e mondo in via
di sviluppo;
d) l’esclusione dall’ONU dei paesi di recente indipendenza.

19. Negli anni successivi al 1945 quale è l’atteggiamento statunitense verso i


progetti di integrazione europea?
a) di opposizione, in quanto una Europa unita sarebbe una rivale pericolosa
dell’economia americana;
b) di indifferenza, in quanto gli Stati Uniti non vogliono rimanere coinvolti nei
problemi europei;
c) di moderata apertura;
d) di attivo sostegno, a livello economico e militare.

20. Perché il Piano Marshall viene rifiutato dall’Unione Sovietica?


a) perché Stalin non vuole aiuti nell’opera di ricostruzione;
b) perché gli stanziamenti appaiono insufficienti per le esigenze di Mosca;
c) perché i sovietici lo considerano un atto di ingerenza e subordinazione al
capitalismo americano;
d) perché quando il piano viene proposto la ricostruzione sovietica è ormai
completata.
21. Cosa si intende con l’espressione “società del benessere”?
a) un modello sociale che mette al primo posto le cure mediche per tutti i cittadini;
b) l’espansione del modello socialista sovietico in altre aree del mondo;
c) una società che ha come obiettivo un futuro stato di benessere per la collettività;
d) una società dei consumi di massa ricalcata sul modello americano.

22. Quale posizione assume la Gran Bretagna verso la prima fase dell’integrazione
europea?
a) si pone tra i paesi guida del processo intuendone le potenzialità economiche;
b) combatte il processo temendone la concorrenza commerciale;
c) rimane fuori dalla CECA e dal MEC e promuove un’area alternativa di
integrazione;
d) vorrebbe farne parte ma non accetta la divisione tra Europa capitalista ed Europa
comunista.

23. L’Ostpolitik di Willy Brandt si propone di:


a) riprendere delle relazioni stabili con la Germania Orientale e il blocco sovietico;
b) realizzare in tempi molto rapidi la riunificazione delle due Germanie;
c) portare la Germania Ovest su una posizione di neutralità rispetto ai due blocchi
della guerra fredda;
d) rimettere in discussione le frontiere tra i paesi dell’Europa centro-orientale, e in
particolare tra Germania e Polonia.

24. In un giudizio sintetico sulle vicende economico-sociali delle democrazie


popolari del blocco sovietico potremmo dire che:
a) questi paesi rimasero in una condizione di drammatico sottosviluppo dal
principio alla fine;
b) questi paesi riuscirono a realizzare progressi significativi in campo agricolo, ma
furono tagliati fuori dallo sviluppo di una industria moderna;
c) dopo la morte di Stalin, questi paesi riuscirono a realizzare progressi significativi
a livello economico e sociale, ma senza mai avvicinarsi ai livelli di consumo
dell’Europa Occidentale;
d) questi paesi svilupparono un modello economico-sociale sostanzialmente
analogo a quello occidentale, nonostante fossero nella sfera di influenza
sovietica.

25. La conferenza di Helsinki del 1975 rappresenta:


a) il culmine del processo di distensione fra Est e Ovest;
b) il nuovo livello di emergenza raggiunto dalla corsa agli armamenti;
c) la volontà di americani e sovietici di porre fine al loro impegno strategico in
Europa, per diminuire i costi della guerra fredda;
d) la caduta definitiva della cortina di ferro che aveva separato le due Europe.

26. Tra gli obiettivi della politica di Gorbačëv includiamo:


a) porre fine alla guerra fredda per conservare immutato il sistema sovietico;
b) una riforma sia del modello sovietico che della politica estera dell’URSS;
c) la riforma del sistema sovietico per riuscire a vincere la sfida militare col campo
occidentale;
d) una riforma democratica della società sovietica ma senza mutarne
l’organizzazione economica.
27. Dopo la morte di Mao, lo sviluppo della Cina è stato caratterizzato:
a) da una graduale introduzione dell’economia di mercato e dal mantenimento
del monopolio del potere del partito comunista;
b) da riforme economiche e politiche che hanno condotto alla fine del potere
comunista;
c) da un modello basato sulle esportazioni e sul totale immobilismo interno;
d) da una militarizzazione dell’economia che ha impedito le riforme politiche.

28. In cosa consiste il concetto di “fine della Storia” proposto da Francis


Fukuyama?
a) nel fatto che con la fine della guerra fredda abbiamo la vittoria definitiva del
modello liberaldemocratico;
b) nel fatto che l’umanità nel suo complesso ha raggiunto il massimo livello di
benessere possibile rispetto alle risorse del pianeta;
c) nel fatto che con la caduta del comunismo termina l’ultimo grande progetto di
trasformazione sociale;
d) nel fatto che con la globalizzazione si vivrà in uno stato di schiacciamento sul
presente, e verrà attribuita poca importanza allo studio del passato.

29. Cosa indica il paradigma dello “scontro di civiltà” proposto da Samuel


Huntington?
a) che la guerra fredda è stata l’ultimo grande confronto tra modelli diversi di
organizzazione sociale e culturale;
b) che si rischia una grande spaccatura all’interno del mondo occidentale nel
corso del XXI secolo;
c) che il mondo procede verso una civiltà globale, consegnando al passato gli
scontri fra culture diverse;
d) che, terminata la guerra fredda, i nuovi conflitti e le nuove divisioni saranno
tra diverse civiltà.

30. Tra i fattori che hanno impedito la riforma dell’ONU includiamo:


a) la sostanziale conservazione degli equilibri di potenza esistenti all’atto della
sua fondazione;
b) la volontà di alcuni paesi di abbandonare il loro posto nel Consiglio di
sicurezza;
c) l’esistenza di progetti diversi di riforma di assai difficile conciliabilità;
d) la prospettiva della creazione di un nuovo organismo internazionale che
sostituirà quasi completamente le attribuzioni dell’ONU.
st
ori
a@bai
cr.
it
NOTE

1. Per una trattazione più approfondita delle caratteristiche disciplinari della storia
contemporanea, si veda C. Pavone, Prima lezione di storia contemporanea,
Roma-Bari, Laterza, 2014.
2. Cfr. V. Vidotto, Periodizzazione, in Enciclopedia italiana, VII Appendice, 2007,
reperibile alla pagina web
http://www.treccani.it/enciclopedia/periodizzazione_(Enciclopedia-Italiana)/; si
veda inoltre K. Pomian, Periodizzazione, in Enciclopedia Einaudi, vol. 10,
Torino, Einaudi, 1980, pp. 603-50.
3. Cfr. D.S. Landes, Cambiamenti tecnologici e sviluppo industriale nell’Europa
occidentale, 1750-1914, in Storia economica Cambridge, Torino, Einaudi, 1974-
1980, vol. VI, tomo 1.
4. Cfr. E.A. Wrigley, La rivoluzione industriale in Inghilterra. Continuità, caso e
cambiamento, Bologna, Il Mulino, 1992.
5. Cfr. P. Bairoch, Industria, in Enciclopedia Einaudi, vol. VII, Torino, Einaudi,
1979, pp. 313-52.
6. Cfr. H. Ford, La mia vita e la mia opera, Introduzione e Postfazione di P.
Ortoleva, Milano, La Salamandra, 1980.
7. P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, Garzanti, 1989, pp.
286-91.
8. Sui rapporti fra urbanizzazione, modernità e cambiamento sociale si veda il
“classico” G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando,
1995 [ed. orig. tedesca, 1903]. Parimenti ricco di suggestioni è il volume di L.
Mumford, La città nella storia, Milano, Comunità, 1963.
9. Cfr. P. Villani, La città europea nell’età industriale, in Modelli di città. Strutture
e funzioni politiche, a cura di P. Rossi, Torino, Einaudi, 1987.
10. Cfr. S. Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e
Novecento, Bologna, Il Mulino, 1988.
11. Cfr. E.J. Hobsbawm, Introduzione a Manifesto del partito comunista, Milano,
Rizzoli, 2001.
12. Cfr. F. Andreucci, La diffusione e la volgarizzazione del marxismo, in Storia del
marxismo, vol. II, Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Torino,
Einaudi, 1979, pp. 5-58.
13. Cfr. J. Alber, Dalla carità allo stato sociale, Bologna, Il Mulino, 1986; F.
Girotti, Il Welfare State. Storia, modelli e critica, Roma, Carocci, 2004.
14. Cfr. P. Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, Bologna, Il Mulino,
1987. Sul partito di massa si veda anche lo studio classico di R. Michels, La
sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna, Il Mulino,
1976 [ed. orig. tedesca 1911].
15. Cfr. C. Cipolla, Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo
occidentale, Torino, UTET, 1971; F. Vaniscotte, L’Europa dell’educazione.
Sistemi scolastici, istituzioni comunitarie e priorità formative in Europa,
Brescia, La Scuola, 1994.
16. Su questo concetto lo studio spartiacque è quello di G. Mosse, La
nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in
Germania, 1815-1933, Bologna, Il Mulino 1975. Per una visione del dibattito
storiografico su questo tema si veda la voce Nazionalizzazione delle masse di
A.M. Banti in Enciclopedia Italiana, VII Appendice, 2007, consultabile alla
pagina web http://www.treccani.it/enciclopedia/nazionalizzazione-delle-
masse_(Enciclopedia-Italiana)/.
17. Cfr. G. Conti, Fare gli Italiani. Esercito permanente e nazione armata
nell’Italia liberale, Milano, Angeli, 2012. Un ruolo fondamentale
nell’educazione al sacrificio in guerra viene svolto anche dalle organizzazioni
giovanili del movimento cattolico: si veda al riguardo F. Piva, Uccidere senza
odio. Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana, 1868-
1943, Milano, Angeli, 2015.
18. E. Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale,
1870-1914, Bologna, Il Mulino, 1989.
19. Cfr. G.W.F. Hallgarten, Storia della corsa agli armamenti, Roma, Editori
Riuniti, 1972, Parte prima.
20. Sul tema del decollo industriale e della modernizzazione dei paesi che devono
colmare un divario, si vedano le fondamentali riflessioni di A. Gerschenkron, Il
problema storico dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1965; ID., Lo
sviluppo industriale in Europa e in Russia, Roma-Bari, Laterza, 1971.
21. Cfr. G. Procacci, Storia del XX secolo, Milano, B. Mondadori, 2000, pp. 3-5; T.
Kemp, Teorie dell’imperialismo. Da Marx a oggi, Torino, Einaudi, 1969; D.K.
Fieldhouse, L’età dell’imperialismo, 1830-1914, Roma-Bari, Laterza, 1975.
22. Cfr. B. Bagnato, L’Europa e il mondo. Origini, sviluppo e crisi
dell’imperialismo coloniale, Firenze, Le Monnier, 2006.
23. Per approfondimenti sulle diverse interpretazioni dell’imperialismo si veda
Bagnato, L’Europa e il mondo, cit., pp. 81 sgg.
24. Cfr. D.R. Headrick, Al servizio dell’impero. Tecnologia e imperialismo europeo
nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1984.
25. Cfr. A. Desiderio, Guerre del 21° secolo, Firenze, Giunti, 2008, pp. 24-25.
26. Sulla rivoluzione del telegrafo cfr. P.J. Hugill, Le comunicazioni mondiali dal
1844. Geopolitica e tecnologia, Milano, Feltrinelli, 2005.
27. Cfr. H.R. Lottman, Jules Verne. Sognatore e profeta di fine millennio, Milano,
A. Mondadori, 1999, pp. 3-7, 92-100.
28. Cfr. G. Cosmacini, Guerra e medicina. Dall’antichità a oggi, Roma-Bari,
Laterza, 2011, pp. 160-71.
29. Si vedano al riguardo i numerosi spunti in B. Bernardi, Africa. Tradizione e
Modernità, Roma, Carocci, 1998; J. Ki-Zerbo, Storia dell’Africa nera. Un
continente tra la preistoria e il futuro, Torino, Einaudi, 1977.
30. Per approfondimenti si veda J. Osterhammel, Storia della Cina moderna,
Torino, Einaudi, 1992.
31. Cfr. S. Wolpert, Storia dell’India. Dalle origini della cultura dell’Indo alla
storia di oggi, Milano, Bompiani, 1985, pp. 210 sgg.
32. Cfr. G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale. La
penetrazione europea e la crisi delle società tradizionali in India, Cina e
Giappone, Milano, Rizzoli, 1977.
33. Cfr. P. Wende, L’impero britannico. Storia di una potenza mondiale, Torino,
Einaudi, 2009, pp. 107 sgg.; N. Ferguson, Impero. Come la Gran Bretagna ha
fatto il mondo moderno, Milano, Mondadori, 2007.
34. Cfr. P. Macry, La società contemporanea. Una introduzione storica, Bologna, Il
Mulino, 1992, pp. 162-63.
35. Cfr. G. Pinella, Oro nero d’Oriente. Arabi, petrolio e imperi tra le due guerre
mondiali, Roma, Donzelli, 2006; ID., Frontiere. L’impero britannico e la
costruzione del Medio Oriente contemporaneo, Roma, Carocci, 2013.
36. Si veda il racconto classico di F. Thiess, Tsushima. Il romanzo di una guerra
navale, con una cronaca di L. Barzini, Torino, Einaudi, 2000 [ed. orig. tedesca
1936].
37. Cfr. G. Procacci, Dalla parte dell’Etiopia. L’aggressione italiana vista dai
movimenti anticolonialisti d’Asia, d’Africa, d’America, Milano, Feltrinelli,
1984, p. 12 e passim.
38. Cfr. O. Cosson, Esperienze di guerra all’inizio del XX secolo: la guerra anglo-
boera, la guerra in Manciuria, le guerre nei Balcani, in La prima guerra
mondiale, a cura di S. Audoin-Rouzeau e J.-J. Becker, ediz. italiana a cura di A.
Gibelli, vol. I, Torino, Einaudi, 2007, pp. 77-88.
39. Cfr. S. Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo
dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008; K. Lowe, Il continente selvaggio.
L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2016.
40. Cfr. J. Winter, Lo sforzo bellico, in La prima guerra mondiale, vol. I, cit., pp.
393-402.
41. L’episodio è ricordato da J. Romein, Il secolo dell’Asia. Imperialismo
occidentale e rivoluzione asiatica nel secolo XX, Torino, Einaudi, 1969, p. 44.
Al ritorno in patria, il dirigente giapponese venne arrestato con l’accusa di
«tradimento della nazione».
42. Cfr. E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella
Prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1985.
43. Cfr. la riflessione di P. Kennedy, Verso il XXI secolo, Milano, Garzanti, 1993,
pp. 17-25.
44. Cfr. L.V. Smith, Renitenze, ammutinamenti e repressioni, in La prima guerra
mondiale, vol. I, cit., pp. 339-52; E. Forcella, A. Monticone, Plotone di
esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1998.
45. E. Lussu, Un anno sull’altipiano, Parigi, Edizioni italiane di coltura, 1938. Alla
testimonianza di Lussu si ispira Uomini contro (1970), film di denuncia contro
la guerra di Francesco Rosi.
46. Cfr. J.M. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale
europea, Bologna, Il Mulino, 2014.
47. G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari,
Laterza, 1990.
48. Cfr. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi,
Roma-Bari, Laterza, 2013.
49. Cfr. Ch.S. Maier, Leviatano 2.0. L’ideazione dello stato moderno, in Storia del
mondo, vol. 5, I mercati e le guerre mondiali, 1870-1945, Torino, Einaudi,
2015.
50. Cfr. W. Schwentker, L’Estremo Oriente prima e durante la guerra, in La prima
guerra mondiale, vol. I, cit., pp.579-90.
51. Sul carattere globale del conflitto si veda O. Janz, 1914-1918. La Grande
Guerra, Torino, Einaudi, 2014.
52. Sul tema delle periodizzazioni si vedano gli spunti in L’età degli estremi.
Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di S. Pons, Roma, Carocci,
1998.
53. Cfr. S. Pollard, Storia economica del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1999, pp.
82-83.
54. Cfr. S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-
1991, Torino, Einaudi, 2012, pp. 3-9.
55. Cfr. A.J. Mayer, Wilson vs. Lenin. Political Origins of the New Diplomacy,
1917-1918, New York 1963.
56. Cfr. G. Best, Humanity in Warfare. The modern history of the international law
of armed conflicts, London, Weidenfeld & Nicolson, 1980.
57. Tra i primi teorizzatori della guerra aerea totale vi è il generale italiano Giulio
Douhet. Si vedano E. Lehmann, La guerra dell’aria. Giulio Douhet, stratega
impolitico, Bologna, Il Mulino, 2013; Th. Hippler, Bombing the people. Giulio
Douhet and the foundations of air power strategy, 1884-1939, Cambridge,
Cambridge University Press, 2013.
58. Cfr. S. Colarizi, Novecento d’Europa. L’illusione, l’odio, la speranza,
l’incertezza, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 127-33, 152 sgg.
59. Cfr. E. Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 2004.
60. P. Togliatti, Sul fascismo, a cura di G. Vacca, Roma-Bari, Laterza, 2004. Si veda
inoltre E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza,
2002.
61. Cfr. le considerazioni di Procacci, Storia del XX secolo, cit., pp. 212-14. Per una
utile sintesi si veda S. Forti, Il totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001.
62. Cfr. Élie Halévy e l’era delle tirannie, a cura di M. Griffo e G. Quagliariello,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001.
63. Cfr. B. Crick, George Orwell, Bologna, Il Mulino, 1991; L. Marrocu, Orwell. La
solitudine di uno scrittore, Pisa-Cagliari, dP, 2009.
64. Cfr. R. Rhodes, L’invenzione della bomba atomica, Milano, Rizzoli, 1990.
65. Cfr. la riflessione di K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo,
Milano, Pgreco, 2013 [ed. orig. tedesca 1958].
66. Cfr. M. Trachtenberg, History and Strategy, Princeton (N.J.), Princeton
University Press, 1991; N. Labanca, Guerre contemporanee. Dal 1945 a oggi,
Firenze, Giunti, 2008.
67. Sulla figura del militare e teorico cfr. G.E. Rusconi, Clausewitz, il prussiano,
Torino, Einaudi, 1999.
68. Cfr. R. Gilpin, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Bologna, Il
Mulino, 1989.
69. Cfr. S. Luconi, La «nazione indispensabile». Storia degli Stati Uniti dalle
origini a oggi, Firenze, Le Monnier, 2016, pp. 156-58.
70. Cfr. ad esempio Ch.P. Kindleberger, La grande depressione nel mondo, 1929-
1939, introduzione di F. Caffè, Milano, ETAS, 1982.
71. Cfr. M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2006,
Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 250-74.
72. Cfr. B. Steil, La battaglia di Bretton Woods. J. Maynard Keynes, Harry D.
White e la nascita di un nuovo ordine mondiale, Roma, Donzelli, 2015.
73. Si vedano A. Polsi, Storia dell’ONU, Roma-Bari, Laterza, 2006; P. Kennedy, Il
parlamento dell’uomo. Le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale,
Milano, Garzanti, 2007.
74. Cfr. F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa,
Torino, Einaudi, 2009, pp. 49-59.
75. Per il caso italiano si veda J.L. Harper, L’America e la ricostruzione dell’Italia,
1945-1948, Bologna, Il Mulino, 1987.
76. Cfr. Pons, La rivoluzione globale, cit., pp. 200-14.
77. Cfr. M.R. Beschloss, Guerra fredda. Kennedy e Kruscev, Cuba, la crisi dei
missili, il muro di Berlino, Milano, Mondadori, 1991.
78. Sulle vicende cinesi si veda G. Samarani, La Cina del Novecento. Dalla fine
dell’impero a oggi, Torino, Einaudi, 2004.
79. Cfr. S.H. Lee, La guerra di Corea, Bologna, Il Mulino, 2003.
80. Cfr. F. Bettanin, Modernizzazione, in Dizionario del comunismo nel XX secolo,
a cura di S. Pons e R. Service, vol. II, Torino, Einaudi, 2007, pp. 43-47.
81. Cfr. M. Frey, Storia della guerra del Vietnam. La tragedia in Asia e la fine del
sogno americano, Torino, Einaudi, 2008.
82. L’espressione Terzo Mondo si deve allo studioso francese Alfred Sauvy, che la
conia negli anni cinquanta per indicare il gruppo di paesi né capitalisti né
socialisti, in larga parte coincidenti con le aree in via di decolonizzazione. La
formula è ricalcata su quella del Terzo Stato protagonista della Rivoluzione
francese. Al pari delle passate lotte del Terzo Stato, anche il Terzo Mondo è
impegnato in una battaglia per il riconoscimento del proprio diritto allo
sviluppo. Per approfondimenti si veda G. Calchi Novati, Decolonizzazione e
Terzo Mondo, Roma-Bari, Laterza, 1979.
83. Su questi processi di liberazione si veda B. Droz, Storia della decolonizzazione
nel XX secolo, Milano, B. Mondadori, 2007.
84. Su questi temi si veda Terzo Mondo addio. La conferenza afro-asiatica di
Bandung in una prospettiva storica, a cura di G. Calchi Novati e L. Quartapelle,
Roma, Carocci, 2007. Sulla questione specifica della richiesta nipponica a
Versailles cfr. N. Shimazu, Japan, Race and Equality. The Racial Equality
Proposal of 1919, London-New York, Routledge, 1998.
85. Si vedano J.L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra,
Torino, Einaudi, 2007; M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al
1991, Roma-Bari, Laterza, 2012; M. Campanini, Storia del Medio Oriente
contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2014.
86. Cfr. O.A. Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica
e il mondo. Le relazioni internazionali del XX secolo, Milano, Il Saggiatore,
2015.
87. Cfr. M. Kramer, Bipolarismo, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, a
cura di S. Pons e R. Service, vol. I, Torino, Einaudi, 2006, pp. 61-66.
88. Nord-Sud: un programma per la sopravvivenza. Rapporto della Commissione
indipendente sui problemi dello sviluppo internazionale, ed. italiana a cura di F.
Saba Sardi, Milano, Mondadori, 1980.
89. Sulla conferenza si vedano la ricostruzione di D.S. Clemens, Yalta, Torino,
Einaudi, 1975; J. Dullfer, Yalta, 4 febbraio 1945. Dalla guerra mondiale alla
guerra fredda, Bologna, Il Mulino, 1999.
90. Cfr. M. Maggiorani, La sfida dell’Unione. Storia, economia e culture
dell’Europa Unita, con un saggio introduttivo di P. Dogliani, Bologna, CLUEB,
2004, pp. 36-38.
91. Ivi, pp. 47-50.
92. Sulla UEP e il contesto in cui nasce cfr. Pollard, Storia economica del
Novecento, cit., pp. 173-79.
93. Cfr. B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra
fredda alla Costituzione dell’Unione, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 20-24.
94. Cfr. D. Preda, Storia di una speranza. La battaglia per la CED e la Federazione
europea nelle carte della delegazione italiana (1950-1952), Milano, Jaca Book,
1990.
95. Si veda il suo volume Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi,
Milano, Mondadori, 2007.
96. Cfr. A.S. Milward, The European rescue of the nation-state, London, Routledge,
1992.
97. Cfr. Pollard, Storia economica del Novecento, cit., pp. 199-210.
98. Cfr. F. Paolini, Un paese a quattro ruote. Automobili e società in Italia,
Venezia, Marsilio, 2005; ID., Storia sociale dell’automobile in Italia, Roma,
Carocci, 2007.
99. Cfr. le osservazioni di Maggiorani, La sfida dell’Unione, cit., pp. 50-54.
100. Per approfondimenti si veda M. Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve
storia, Roma, Carocci, 2008.
101. V. de Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana
alla conquista del mondo, Torino, Einaudi, 2006.
102. Cfr. F. Romero, Storia internazionale dell’età contemporanea, Roma,
Carocci, 2012, p. 90.
103. Cfr. Maggiorani, La sfida dell’Unione, cit., pp. 96-101.
104. Cfr. Romero, Storia internazionale, cit., pp. 92-94.
105. Per approfondimenti si vedano Maggiorani, La sfida dell’Unione, cit., pp.
65-86; S. Bottoni, Un altro Novecento. L’Europa Orientale dal 1919 a oggi,
Roma, Carocci, 2011.
106. M. Djilas, Conversazioni con Stalin, Milano, Feltrinelli, 1962.
107. Cfr. Pollard, Storia economica del Novecento, cit., pp. 219-23.
108. Ad ogni modo – precisa Pollard –, «non è facile determinare l’esatto
rapporto tra i due» (ivi, p. 219).
109. La decisione è frutto della pressione combinata della crescente
concorrenza commerciale che gli Stati Uniti devono affrontare e del loro
impegno militare globale. Giungono al pettine i nodi di quel paradosso della
posizione americana di cui abbiamo parlato prima. Con l’abbandono del sistema
monetario di Bretton Woods, «da perno sistemico dell’economia mondiale gli
USA diventavano il maggior centro di un sistema effettivamente multipolare»
(Romero, Storia internazionale, cit., p. 91).
110. Cfr. Pollard, Storia economica del Novecento, cit., pp. 241-47.
111. Sulla politica di Kissinger si veda Del Pero, Libertà e impero, cit., pp.
354-63.
112. Cfr. H. Kissinger, Cina, Milano, Mondadori, 2011.
113. Cfr. Olivi, Santaniello, Storia dell’integrazione europea, cit., pp. 109-13.
114. Cfr. F. Benvenuti, Storia della Russia contemporanea 1853-1996, Roma-
Bari, Laterza, 1999, cap. IX.
115. M.S. Gorbačëv, La casa comune europea, Milano, Mondadori, 1989.
116. Cfr. M. Kramer, Rivoluzioni di velluto, in Dizionario del comunismo nel
XX secolo, vol. II, cit., pp. 368-73.
117. Cfr. J. Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991-1999, Torino, Einaudi, 2002.
118. M. Gorbačëv, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il
mondo, Milano, Mondadori, 1987, p. 264.
119. Sulle vicende che conducono alla fine della Repubblica democratica
tedesca si veda Ch.S. Maier, Il crollo. La crisi del comunismo e la fine della
Germania Est, Bologna, Il Mulino, 1999.
120. Cfr. E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla
rivoluzione informatica, Milano, Franco Angeli, 2014 [5ª ediz. aggiornata], parte
III.
121. Per approfondimenti si vedano T. Detti, G. Lauricella, Le origini di
Internet, Milano, B. Mondadori, 2013; J. Ryan, Storia di Internet e il futuro
digitale, Torino, Einaudi, 2011.
122. Cfr. T. Ohno, Lo spirito Toyota, Introduzione di M. Revelli, Torino,
Einaudi, 1993.
123. Cfr. Kennedy, Verso il XXI secolo, cit., pp. 67-89.
124. In merito alle diverse posizioni sulla globalizzazione si veda D. Held, A.
McGrew, Globalismo e antiglobalismo, Bologna, Il Mulino, 2010.
125. Cfr. J.S. Nye jr, Il paradosso del potere americano. Perché l’unica
superpotenza non può più agire da sola, Torino, Einaudi, 2002.
126. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli,
1992.
127. Cfr. G. Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, Bologna, Il
Mulino, 2005, pp. 109-21, 147-53; S. Bellucci, Storia delle guerre africane.
Dalla fine del colonialismo al neoliberalismo globale, Roma, Carocci, 2006, pp.
67-84.
128. S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla
fine del XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1998.
129. A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione
dell’Occidente, Milano, Mondadori, 2005.
130. Rappresentativo di questo clima è un volume dello stesso Amartya Sen,
Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano,
Mondadori, 2001.
131. B. Barber, Guerra santa contro McMondo, Milano, Tropea, 2002.
132. Su questo paradigma si veda E.J. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione
della tradizione, Torino, Einaudi, 1987.
133. Cfr. B. Lewis, La crisi dell’Islam. Le radici dell’odio verso l’Occidente,
Milano, Mondadori, 2004; ID., La costruzione del Medio Oriente, Roma-Bari,
Laterza, 2006.
134. S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale,
Milano, Garzanti, 1997.
135. Sulla vicenda si veda L. Wright, Le altissime torri. Come Al-Qaeda
giunse all’11 settembre, Milano, Adelphi, 2007.
136. Cfr. J. Black, Le guerre nel mondo contemporaneo, Bologna, Il Mulino,
2006.
137. Cfr. F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine
mondiale nel XXI secolo, Torino, Lindau, 2005.
138. Si veda la riflessione di A.M. Schlesinger Jr, War & the American
Presidency. La guerra e la Presidenza americana, Roma, Treves, 2009.
139. Cfr. N. Andreatta, La riforma dell’ONU, a cura di M. Colimberti, Roma,
AREL, 2005.
140. K. Polanyi, La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974 [ediz. orig.
1944].
141. M. Armiero, S. Barca, Storia dell’ambiente. Una introduzione, Roma,
Carocci, 2004; F. Paolini, Breve storia dell’ambiente nel Novecento, Roma,
Carocci, 2009.
142. Le Nazioni Unite diffondono periodicamente un Rapporto sullo sviluppo
umano, comprensivo di una classifica per nazioni sulla base di un Indice dello
sviluppo umano, calcolato attraverso l’elaborazione di parametri economici e
sociali, come l’aspettativa di vita e l’alfabetizzazione. Il principio che in tal
modo si afferma è che lo sviluppo di un paese non può essere valutato solo
rispetto ai suoi indicatori economici. Per consultare l’ultima edizione del
Rapporto si veda United Nations Development Programme, Human
Development Reports, in http://hdr.undp.org/en/2015-report.
143. Kennedy, Verso il XXI secolo, cit., p. 443.

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