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La superficie dello spazio pubblico

Il lavoro “sul piano” nel progetto dei vuoti urbani

Paola Veronica Dell’Aira1

Alla fine degli anni quaranta mi avevano insegnato


che l’architettura aveva a che fare con massa e volume.
Lo spazio è arrivato negli anni cinquanta.
Denise Scott Brown

Abstract: Il Paper affronta il tema del “ritorno alla superficie” che impegna l’odierna
progettazione dello spazio aperto urbano: una dimensione malvista dal pensiero mo-
derno, la quale torna oggi ad assumere peso e ... “rilievo”. La superficie, l’orizzontale
come la verticale, non è più lo spazio della capricciosa decorazione. Landscaping,
texture, colorazioni, effetti tattili, visivi, sonori, sono oggi materiali strutturanti. Con-
figurano azioni deboli dagli effetti forti. Il suolo, in particolare, è la “pelle” dello
spazio pubblico, il suo volto. Promenade, piazze, slarghi, crocevia, tendono oggi a
complessificarsi in prestazionalità e immagine, intensificando l’esperienza fruitiva.
Indicano funzionalità specifiche, attraverso un design a palinsesti. Tirano le linee a
terra dei giochi di squadra, tracciano le mappe d’installazione dei manufatti di arredo,
alloggiano le reti tecnologiche, danno luce e aria ai sottosuoli, incorporano l’illumi-
nazione. Come le facciate, anche i suoli moltiplicano la propria stratigrafia divenendo
complessi congegni tecnologici e bioclimatici. Come pareti ventilate, pavimenti mon-
tati “a secco”. Come schermi verticali, brise-soleil e serigrafie a parete, così anche alti
e bassi, ondulazioni e dislivellamenti, suoli tecnici, pavimenti galleggianti, reticoli
plug-in, parterre verdi: dal second screen al ... second pavement!
Il testo ne illustra tecniche, sviluppi morfologici, fattibilità. Ne traccia un excursus di
esempi dalla storia passata e recente.

Keywords: spazio pubblico urbano, smaterializzazione, vuoto, progetto di suolo,


ritorno alla superficie, lavoro “sul piano”, azione “orizzontale”, second pavement,
patchwork, design a terra.

Un antefatto
Nel 1986, in Progetto di suolo, sulle pagine di Casabella, Ber-
nardo Secchi riferiva del positivo indulgere, nella progettazione urbani-
stica coeva, sulla definizione morfologica e figurativa degli spazi aperti,

1. Paola Veronica Dell’Aira, DiAP Dipartimento di Architettura e Progetto, Sapienza Università di


Roma, email: paolaveronica.dellaira@uniroma1.it

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ancorché disegnati alle scale vaste della città e del territorio. Esprimeva
una chiara condanna della trascuratezza, nei confronti degli spazi “inter-
medi” della città, che aveva in vario modo attraversato i decenni prece-
denti, vuoi come convinzione ideologica (l’isotropia della città moderna
d’inizio ‘900), vuoi come scarsa attenzione e disimpegno (la povertà
semantica della città successiva al 2° conflitto mondiale).
Erano i segnali di un benefico cambio di riguardo verso il siste-
ma dei vuoti urbani.
L’interesse nuovo risultava, per Secchi, evidente, negli stessi
elaborati grafici degli urbanisti del tempo: «[...] il loro modo di rappre-
sentare cartograficamente il proprio progetto, è cambiato: in una sorta di
ritorno alle origini ne è straordinariamente aumentato il carattere iconico
e metaforico, diminuito quello codificato».
«Tutto ciò – proseguiva – vuole spostare l’attenzione: dall’edi-
ficio al suolo, alla superficie che intercorre tra gli edifici e che non può
essere negata o ridotta a puro spazio tecnico»2.
Tornando sul tema, dopo circa vent’anni, e titolando Progetto di
suolo 2, Secchi ribadiva il concetto, ancorandolo, più decisamente, alla
tradizione della città storica. Riferiva, in special modo, della lezione di
Siena, dell’esperienza dello spazio medievale che, negli anni ottanta, lui
stesso stava conducendo con l’incarico per il Piano Urbanistico della cit-
tà. «Siena – scriveva – da sempre ha sollecitato l’immaginario: non solo
quello individuale, ma soprattutto quello collettivo». Di Piazza del Cam-
po elogiava il carattere forte emanato da semplici scelte di dimensione,
orientamento e materiali utilizzati per le pavimentazioni. «Chi abbia
provato ad osservare a lungo la piazza, ad osservare come nelle diverse
stagioni l’ombra e il sole si spostano e come vengono frequentate le sue
diverse parti; chi ha provato a rimanere seduto sul pavimento di questa
piazza, riparata dal vento, ad apprezzare il calore morbido dei mattoni
e la sua pendenza, chi ha osservato i modi semplici nei quali il disegno
della pavimentazione facilita lo scolo dell’acqua [...], i modi nei quali lo
stesso disegno suggerisce le sue modalità d’uso senza imporle, non può
che convenire che è soprattutto il grande comfort di questo spazio del
pubblico ciò che appartiene all’esperienza comune e lo fa amare»3.

2. Secchi 1986.
3. B. Secchi, Progetto di suolo 2, in Aymonino, Mosco 2006.

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Attualizzare l’esempio di Siena: questo l’invito. L’uomo di oggi,


percettore del calore emanato da una finitura pavimentale del passato,
incarna la tradizione: fondamento antico di imperituri valori. Nell’os-
servare quel permaner seduti, vive l’intento di far tesoro di una preziosa
eredità, considerandola, più che un bene del passato, una ancor valida
lezione. Piazza del Campo non è lo spazio da ritrovare nei tessuti co-
struiti più antichi, non lo spazio da rimpiangere, unendosi al coro dei
lamenti sulla sua presunta, odierna, morte. Siena non è un lascito, bensì
l’indicazione di un benessere da rinnovare, della felicità dello stare in-
sieme all’aperto nello spazio “di tutti”. Piazza del Campo è una realtà da
replicare. Sempre che il progetto contemporaneo sappia e voglia tenerne
conto.

Siena, Piazza del Campo (Foto di Paola Veronica Dell’Aira).

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Superfici di ... “spessore”


In effetti, positivamente, la dimensione superficiale, nel proget-
to dello spazio aperto, si mostra oggi in rimonta. È una dimensione
tutta contemporanea, ove si fondono economicità, ecologia, apertura di
metodi e processi, flessibilità, differibilità.
Senza spingersi troppo indietro nel tempo, questa attenzione per
la definizione bidimensionale dell’ambito pubblico urbano, la verticale
dei margini, ma, soprattutto, l’orizzontale a terra, abbinata spesso alla
progettazione di piani di copertura, trova solide radici nel pensiero no-
vecentesco.
Vero è che «l’ideologia del Primo Moderno [...] diffidava dalla
superficie in quanto luogo della delittuosa decorazione», ma «è pro-
prio il maestro delle superfici lisce e bianche a ricusare tra i primi que-
sta ideologia; già nei primi anni quaranta infatti Le Corbusier inizia
ad applicare la sua ricerca pittorica alle superfici in calcestruzzo non
intonacate»4.
È soprattutto l’orizzonte cubista a far da tramite. Come in Bra-
que e Picasso, i volumi si schiacciano sul piano della tela, così, negli
edifici del maestro, la terza dimensione trae partito dai motivi indagati
nell’esercizio grafico e pittorico. Dapprima è principalmente il purismo
a far da guida, istruendo il geometrismo dei primi lavori; in seguito, son
le culture figurative più arcaiche: dalle forme sinuose delle bagnanti,
alle nature morte, ai divertissement su flora, fauna, animali. È un dialo-
go serrato tra superficie e spazio: un dialogo che passa anche attraverso
l’incisione della parete, come nella sagoma del Modulor impressa nel
basamento dell’Unité d’Habitation di Firminy Vert, o nelle raffigura-
zioni scolpite sulle Prime Pietre: il ciclo solare, il concept dell’edificio,
le informazioni su autori e date. A Marsiglia, a Firminy, a Rezé Nantes,
le moli delle Unité sono trattate come fondali iconici dello spazio aper-
to di complemento.
Nel Campidoglio di Chandigarh avviene qualcosa di più, più
degli inserti di colore nel cemento, più dei riquadri pittorici parietali,
più dei bassorilievi. C’è sì il pannello affrescato come Portone dell’E-
dificio dell’Assemblea, ci sono i grandi arazzi appesi alle pareti delle

4. Aymonino, Mosco 2006.

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Le Corbusier, Casa della Cultura, Firminy, Bruneaux-Loire, 1959-1967.


Bassorilievo impresso sulla testata dell’edificio (Foto di Paola Veronica Dell’Aira).

Le Corbusier, Campidoglio di Chandigarh, il Plateau,1952.


Schizzo (Immagine tratta da Aymonino, Mosco 2006, p.252, in Bibliografia).

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aule di giustizia, e i murales che incorniciano la Hall, ma, soprattutto,


c’è lo spazio aperto, la spianata che collega le moli del Parlamento, del
Segretariato, del Palazzo del Governatore, del Palazzo di Giustizia. Per
tener la scala di tanta architettura, il plateau assume forza e rilievo. È
forse lui il principale edificio del Campidoglio: un grande piano teso,
una lastra compatta che viaggia orizzontalmente “sbracciandosi” per
legare tra loro gli edifici governativi.
Tutto era nato da un invito rivolto a Corbù da Maxwell Fry:
«Lei ha il dovere di introdurre nel cuore stesso del Campidoglio i segni
che esprimono da una parte la sua concezione urbanistica, dall’altra il
5
suo pensiero filosofico [...]» .
Di qui, la concezione della grande Dalle. Percorrerla è fonte di
sorpresa continua. Sì perché, contrariamente alle uniformi e diagram-
matiche distanze inter-partes di una Ville contemporaine, la Piazza di
Chandigarh si articola in “alti” e “bassi”, in rilevati e sfondamenti, in
molteplici dettagli plastici e materici, nel design di forme simboliche
utili a produrre esperienza e comunicare valori: l’incisione su cemento
della sagoma dell’uomo “modulare”, il grafico della spirale armonica,
l’ideo-gramma dell’alternarsi del giorno e della notte, gli specchi d’ac-
qua, il giardino ribassato della Fosse de la Consideration, la scultura
della Main Ouverte.
Con il Le Corbusier, “pittore” degli spazi aperti, sta il Carlo
Scarpa degli eruditi patchwork materici da esterno urbano: gli intarsi a
terra degli ingressi IUAV di Tolentini e della Fondazione Querini Stam-
palia di Venezia, del Giardino del Museo di Castelvecchio di Verona.
Con Le Corbusier, stanno le tinte forti di Louis Barragán; sta la
“città scena” di Venturi e Scott Brown; c’è l’understatement di Pikionis
ad Atene, ove il lavorare a terra è arte di non confliggere con le incom-
parabili eminenze in alzato, c’è il paesaggismo di Roberto Burle Marx,
il capolavoro di una delle Promenade più celebri del mondo, il Lungo-
mare di Copacabana. E la lista potrebbe proseguire a oltranza: superfici
tanto importanti e curate da farsi volumi. La bidimensionalità, in queste
prove, è tutt’altro che terreno progettuale di sacrificio, tutt’altro che
rinuncia. Essa ci parla di uno “spessore” di segno diverso, opposto a

5. W. Boesiger, H. Girsberger, Le Corbusier 1910-1965, Zanichelli, 1987.

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Carlo Scarpa, Museo di Castelvecchio, Verona, 1958-1964.


Giardino-Corte (Foto di Paola Veronica Dell’Aira).

Dimitris Pikionis, Percorso di risalita all’Acropoli, Atene, 1958.


(Immagine tratta da Repertorio 01 in Sitografia).

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Roberto Burle Marx, Lungomare di Copacabana, Rio de Janeiro, 1970.


Paving Patterns (Immagine tratta da Repertorio 02 in Sitografia).

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Jorge Oteiza, Caja vacía,1958.


(Immagine tratta da Repertorio 03 in Sitografia).

quello di uno sviluppo volumetrico e, proprio per questo, meno banale,


più di sfida; ci parla di uno “spessore” fondato sull’intensità dell’azione
più che sulla sua oggettualità, di uno “spessore” che punta a essere,
paradossalmente... il più sottile possibile!

Spazi di ... “concetto”


La neo-cultura bidimensionale, nello spazio aperto pubblico, af-
fonda le sue radici, da un lato nel laboratorio teorico e applicativo in tema
di smaterializzazione e di vuoto, fertile nell’architettura come nelle altre
arti del secolo scorso6, dall’altro essa attinge dall’arte concettuale, per cui
il produrre significato vale più che non il creare cose e spazi.
La contemporaneità marca un passaggio, un’inversione d’indiriz-
zo, rispetto alle epoche direttamente precedenti. La contemporaneità ar-
chitettonica e urbana guarda all’intellettualismo di artisti come J. Kosuth,
B. Nauman, J. Beuys, si lega all’astrattismo pittorico di un Malevič, allo
spazialismo di un Fontana, si ispira all’universo a-scultoreo di J. Oteiza,
alle lame piegate, fatte di sole larghezze e lunghezze, ma incommensu-
rabilmente piene di volume. Nella contemporaneità, il progetto muove
volentieri dalle cose agli spazi, dal chiuso all’aperto, dal pieno al vuoto.
La contemporaneità porta l’accento sui tessuti, sulle relazioni tra
fatti urbani, sugli in-between. Guarda all’apertura del paesaggio, rifugge

6. Bocchi 2015.

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dallo stigma chiuso della forma urbis. Cura le congiunzioni tra le cose
più delle cose in sé. Di qui l’imporsi, tra i temi, di categorie interventuali
un tempo ritenute marginali e di servizio, dalle infrastrutture, ai percorsi,
ai “corridoi qualificati” (artistici, archeologici, ecologici), alle operazioni
“invisibili” del cablaggio.
Proprio dalla cultura digitale, emerge un buon senso auto-limi-
tativo per cui l’azione è tanto più efficace quanto meno si impone al
contatto e alla vista. Il “poco visibile” va per la maggiore. Autorizza la
leggerezza degli intenti. Legittima il progetto giocoso e anti-retorico. Fa-
vorisce l’eclettismo linguistico, libera la ricerca morfologica, incoraggia
la sperimentalità tecnologica. Si afferma, in sostanza, nella sottigliezza
(spesso esiguità) delle operazioni, un pensiero “debole”, nell’accezione
positiva del termine, portatore di un modo fecondo di osservare l’intorno,
sub specie incompiuta, aperta, interattiva. L’intensità vi prevale rispetto
alla densità, la percezione soggettiva ha la meglio sulla determinazione
oggettivante e anti-dialogica, l’evanescenza vince sulla consistenza, la
variabilità sulla permanenza.
Parliamo di contemporaneità, ma le premesse sono già contenu-
te nel miglior pensiero moderno. Le Corbusier, lo si è detto, occupa un
primo piano, proprio per l’esser stato un grande manipolatore di volumi,
poeta, prima di tutto, della plastica tridimensionale. Ma la promenade e
l’open plan lo trasportano con il cuore oltre i valori scultorei dei volumi e
degli spazi verso il loro maggior ruolo di tramite reciproco e di relazione
con l’intorno. È lui l’apostolo dello spazio “liberato”. È lui che si compia-
ce della dimensione “a volume zero”, quando nella Maison des Hommes
esprime la speranza per una contesto antropico sconfinato.
Con lui, su questa linea, son grandi autori quali Giovanni Miche-
lucci e Leonardo Ricci, sostenitori dell’importanza dello spazio “fuori
dalle cose”. «[...] vorrei togliere ogni diaframma all’interno della città:
aprire gli ospedali, le carceri e perfino i cimiteri [...] abbattere [...] quelle
muraglie che dividono la vita di coloro che sono ‘dentro’ dalla vita di
coloro che sono ‘fuori’»7.
Minoritario giammai, lo spazio a dominanza orizzontale, poco
oggettuale e principalmente vuoto, catalizza il pensiero e gli interessi di

7. G. Michelucci, Perfino i cimiteri, in G. Cecconi (a cura di), Giovanni Michelucci. Dove si incontrano
gli angeli, Zella Editore, 2005.

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coloro i quali vollero, più che fissare assetti e forme, lavorare su come
correlare queste ultime tra loro, convinzione per cui lo spazio non è mai
qui o là, bensì, sempre, tra qui e là.
Il vuoto tra le cose ci porta dal territorio sconfinato delle visioni
di B. Taut, alle monumentali ariosità di A. Aalto, dalla “città vivente” F.L.
Wright, alla “città verde” di Ginzburg, Ladovskij e Melnikov.
Hans Scharoun lo definiva zwischenraum (spazio tra), ovvero
ciò che si infrappone agli ambienti più connotati delle sue architettu-
re. Lo chiamava così perché travalicasse il semplice ruolo distributivo,
assumendo maggior forza e peso, divenendo, più che collegamento tra
spazi, spazio esso stesso: ampio, abbondante, generoso. In questo, egli
riconosceva la colonna vertebrale dell’organismo spaziale, mentre ne
esaltava quel peculiare “non conoscere mai” una forma univoca e pre-
cisa, dovendo al suo meglio distendersi, come un liquido, nel continuo
moltiplicarsi delle invenzioni spaziali. Proprio in virtù di tale condizione,
lo zwischenraum diveniva lo spazio democratico e partecipativo per ec-
cellenza, un ambito di indeterminatezza capace di catturare l’utente, di
coinvolgerlo attivamente per definirlo e/o completarlo. Nei progetti urba-
nistici denominati Wohnzelle, in particolare, nella libera costellazione di
volumi che le caratterizzava, lo zwischenraum era tutto l’ambiente aperto
intorno alle case. Era lo spazio di nessuno e quindi di tutti, il vero spazio
pubblico, vuoto perché in attesa d’azione, vuoto perché d’invito all’in-
terpretazione collettiva, vuoto come speranza di un futuro d’integrazione
sociale a-gerarchica e non-costrittiva8.
Tra lo zwischenraum e il continuum della “città mondo”9, c’è poi
il verde e la natura. E anche qui, nell’orizzontale paesaggistica, i riferi-
menti non mancano. Le distese “viventi” di Lawrence Halprin parlano ai
giardini “in movimento” di Gilles Clément, i piani scolpiti di Corbù ai
vuoti pop di Martha Schwartz, i geometrismi green di Ernst Cramer al
Cosmological Garden di Charles Jencks.
Un capitolo a parte è dato dal ruolo dalla grafica e del messaggio
pubblicitario nella definizione dell’ambiente urbano. E qui Las Vegas non
smette di “insegnare”.
«La struttura urbana di allora [...] – scrive Denise Scott Brown

8. Hans Moldenschardt 1994.


9. Il concept ricorre sia in Michelucci che in Ricci.

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Ernst Cramer, Poet’s Garden, Zurigo, 1959.


(Immagine tratta da Repertorio 04 in Sitografia).

Charles Jencks, Maggie Keswick, Cosmological Garden, Dumfries, Scozia, 1988.


(Immagine tratta da Repertorio 05 in Sitografia).

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– non era dominata dagli edifici ma dalle insegne». La densità non si


dava nell’infittirsi dell’edificato, bensì “nell’intensificarsi del ritmo della
comunicazione”. La piatta insegna era modo, per Venturi e Scott Brown,
di introdurre il tema della decorazione “super-sottile” nell’architettura
moderna, passando per il confronto con la decorazione barocca, con la
classica, con il motivo rococò, con il bassorilievo art déco. Quella con-
temporanea è «[...] una decorazione [...] con profondità vicino allo zero
[...], l’ideale sono i diodi luminosi che hanno lunghezza e altezza ma non
hanno profondità [...] la decorazione è costituita da LED e quindi dotata
di sola superficie»10.

Azioni ... “orizzontali”


Entriamo ora negli sviluppi contemporanei di tante celebri
premesse.
Ci si compiace, anzitutto, nell’osservare la tendenza degli
architetti di oggi a guardar sí, come in tante prove del passato, al
miglior rapporto istituibile con il contesto, lavorando tuttavia in ab-
braccio stretto tra le co-appartenenti caratteristiche dell’edificio e del
suo intorno: travasi morfologici, interferenze concettuali, funzionali
e formali.
Parla infatti, al contemporaneo pensiero architettonico, la pro-
posizione di Christopher Alexander del “non occupare superficie”,
costruendo cose isolate, ma piuttosto del saperne qualificare l’ambito
circostante, del saper, prima di tutto, “riparare il mondo intorno”11.
Enric Miralles trae, dalle sue strutture al coperto, intrecci cal-
ligrafici che ne estendono il ritmo e le curve a terra, nei complemen-
tari spazi esterni (Municipio di Utrecht, Tiro con Arco Olímpico,
Biblioteca di Palafolls ...); Lapeña & Torres Tur rielaborano il piano
di copertura del Baluard del Príncep di Palma di Maiorca, raccordan-
dolo al Paseo de las Murallas; Daniel Libeskind graffia il parterre
del giardino del Museo Ebraico di Berlino, con scheggie di pietra,
aguzze come le ferite che incidono le sue pareti zincate, significando,
anche al di fuori, lo strazio della shoah.
Sempre più l’edificio contemporaneo si fa design generator

10. D. Scott Brown, Presentazione, in AYMONINO, MOSCO 2006.


11. Alexander 1977.

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imprimendo al di-fuori le proprie matrici morfologiche.


Ma è soprattutto la dimensione bidimensionale in self stan-
ding che convince e sfida.
Tra i territori del suo esercizio vi sono aree verdi, slarghi e
piazze, crocevia, parcheggi a raso, passeggiate e percorsi; vi sono i
no-lands, le aree interstiziali, le zone in abbandono e degrado.
Tra gli obiettivi ricorrenti, c’è il riequilibrio ambientale, il re-
styling territoriale (earthworks e land operations); c’è l’esigenza di
connettere tra loro usi e consumi urbani; c’è l’idea di un continuum
forte e strutturante, di una permeabilità e accessibilità estensiva, di
una con-fusione senza limiti nel moltiplicarsi di specie e tipologie di
“cieli aperti”.
Modellazioni di terreni, disegni e textures pavimentali, co-
lorazioni, rivestimenti, schermi, emittenti sonore, inserti verdi, di-
vengono materiali strutturanti: evidenti, di richiamo, produttori di
comfort. Essi configurano azioni deboli ma procurano effetti forti:
economicamente fattibili, funzionalmente efficaci e facilmente co-
municabili.
Il suolo, in particolare, è la “pelle” dello spazio pubblico, il
suo volto.
Esso tende a complessificarsi in prestazionalità e immagine,
a intensificare l’esperienza fruitiva. I calpestii divengono “piùcche-
superfici”. Indicano funzionalità specifiche, rendendo lo spazio mul-
tivalente attraverso un design a palinsesti. Tirano le linee a terra dei
maggiori giochi di squadra, tracciano le mappe d’installazione plug-
in dei manufatti di arredo, alloggiano e organizzano le reti tecnologi-
che, danno luce e aria ai sottosuoli, incorporano l’illuminazione.
Tra le passeggiate dominano i Lungomare.
A Vila Seca, in Spagna, nel Perruquet’s Pinegrove Park
(2009), del gruppo Artex, l’immagine zenitale restituisce un disegno
di piatte sagome sinuose. Sono grandi vasche resilienti, cigliate in
acciaio corten o in pietra modellata come seduta di bordo. Alloggia-
no peli d’acqua di mitigazione del calore o letti di terra per piantu-
mazioni basse, a prova di agenti salini. Per rinfoltire il continuum
dei pini spogli, gli architetti realizzano alberi artificiali, dagli alti e
sottili fusti in acciaio e fronde superiori, emule delle chiome naturali,

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ma ottenute dalla legatura di un domino di pannelli in fibra di vetro:


un layer parasol, generatore, all’oscillazione, di un piacevole effetto
sonoro, come di rami battuti dal vento12.
Sempre in Spagna, per l’Harbour Remodelling di Malpica
(2009), Creus e Carrasco sovrappongono al sedime di banchina, una
“nuova topografia”, elaborando 7 profili in cemento forgiato che,
accostati in successione, realizzano un second pavement flottante,
lungo le mura storiche: camminamenti, terrazze mirador, pedane di
sosta con panche in legno sovra-montate e intercapedini al disotto
per le canalizzazioni impiantistiche13.
A Benidorm, con la West Beach Promenade, Carlos Ferrater
trasgredisce al suo usuale minimalismo, realizzando gli 1.5 chilome-
tri di waterfront secondo motivi sinusoidali, emuli di onde marine,
in uno zoccolo continuo, che assorbe il dislivello mare-città, rive-
stendosi, superiormente, con un vivace pattern di mattonelle cerami-
che di 22 colori. Le gradazioni cromatiche definiscono gli usi: campi
gioco, aree di sosta, svago e contemplazione. Lo zoccolo risolve il
problema del deflusso acqueo, alloggia le reti infrastrutturali, ospita
il parcheggio, raccorda spiaggia e strada con lievi rampe, eliminando
le barriere architettoniche14.
Le grafie di Enric Miralles, ricchi intarsi musivi pavimentali
(lastre cementizie, cotto, pietra) caratterizzano il fronte portuale di
Hafencity ad Amburgo (2005)15.
Vi sono poi le Garden Line Promenades portoghesi, il sotto-
viadotto del Parque de Cidade e l’Avenida Montevideu a Porto, di
Manuel de Solà-Morales (2001), la vasta piattaforma di granito della
Passeggiata di Matosinhos, di Eduardo Souto De Moura (2002)16; c’è
l’Avenida Atlantica di Vila do Conde di Alvaro Siza (2005)17; c’è il
Caminho da Trincheiras lungo le mura di Madeira, di Paulo David
(2004)18, con tutta la complessità impiantistica sotto-quota, per ali-

12. a + t architecture publishers, Strategy Public, n. 35-36, 2010.


13. Ibidem
14. Ibidem
15. a + t architecture publishers, In Common III°, Espacios Colectivos, n. 27, 2006.
16. Lotus Navigator, Velocità controllate, n. 8, 2000.
17. a + t architecture publishers, In Common IV°, Espacios Colectivos, n. 28, 2006.
18. Ibidem

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Enric Miralles, Piazza del Municipio di Utrecht, 1977.


(Foto di Paola Veronica Dell’Aira).

Daniel Libeskind, Giardino del Museo Ebraico, Berlino, 2001.


Il Parterre esterno (Foto di Paola Veronica Dell’Aira).

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Artex, Perruquet’s Pinegrove Park, Vila Seca, 2009.


(Immagine tratta da Repertorio 06 in Sitografia).

Creus e Carrasco Arquitectos, Harbour Remodelling, Malpica, 2009.


(Immagine tratta da Repertorio 07 in Sitografia).

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mentare specchi d’acqua e piscine.


La segnaletica orizzontale diviene narrazione nei percorsi
ciclabili, incamerando disegni, utilizzando un lettering accattivante
che rende “distrattiva” l’escursione, alleggerendo la fatica. Fa scuola
il Muro di Sormano (2011), dello Studio Tagliabue-Origgi, lungo il
Giro di Lombardia. La pendenza è il filo conduttore del progetto; il
nastro d’asfalto racconta il paesaggio fisico e quello della memoria
legato al mondo dello sport e agli episodi che hanno consacrato al
mito la storica salita. I disegni e le scritte in vernice bianca fornisco-
no indicazioni altimetriche, illustrano le essenze arboree del bosco,
indicano la direzione e i nomi delle montagne di sfondo, ricordano le
parole dei campioni19.
Per le piazze, quelle periferiche in primis, dominano le aree
attrezzate intercluse tra cielo e terra: superfici basamentali e piani top
di protezione, come nella Theatre Square di Anversa, (2008), di Ber-
nardo Secchi e Paola Viganò, con la sua gigantesca pergola trasluci-
da a 15 metri di altezza20, o nell’Open Center for Public Activities di
Cordova (2010), dello Studio Paredes_Pino con le sue tracce a terra,
indicatrici d’uso, e il suo “soffitto” di dischi metallici colorati di dif-
ferente diametro e altezza: dispositivi intro-illuminati e di raccolta
acque piovane21.
I Centri Storici tendono a trasformare le proprie zone pedo-
nali in “simil-interni” domestici, stendendo pavimenti continui, in
gomma, asfalto o conglomerati gettati in opera, “fodere urbane” a
rivestire suolo e oggetti d’arredo, come avviene nell’Urban Lounge
di St.Gallen (2006) di Pipilotti Rist & Carlos Martinez22. Altrove
si opera con intensificatori di densità, come fanno a Innichen Fuzi
(2005) gli AllesWirdGut. La maggior sfida era quella di sopperire
alla stagionalità: il villaggio è infatti sovra-affollato in estate e inver-
no e poco frequentato in primavera e autunno. «Attraverso semplici
provvedimenti, la superficie fruibile può essere ampliata o contratta:
in primavera e autunno gli spazi chiaramente definiti vengono inon-

19. P. Lazzaro, In punta di pennino, Ediciclo, 2005.


20. a + t architecture publishers, Strategy Space, n. 37, 2011.
21. Ibidem
22. a + t architecture publishers, In Common IV°, Espacios Colectivos, n. 28, 2006.

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Paola Veronica Dell’Aira La superificie dello spazio pubblico

dati d’acqua formando piccoli laghetti geometrici, mentre altri spazi


vengono occupati da fioriere [...]»23.
Sulle coperture di molti edifici, proliferano spazi pubblici di
compensazione rispetto ai sottratti ambiti a terra. È il 5° prospetto
che diviene piazza praticabile come nell’opera di Ken Smith a New
York (2005), o si fa superficie “percettiva”, come nel Mercato Santa
Caterina di Barcellona (2005) di EMBT, rivestendosi in ceramica
multicolore.
Corti e cortili di aree ex-industriali si aprono al pubblico,
come la Lux Steel Court di Esch-Sur-Alzette, Lussemburgo (2004-
2014), degli AllesWirdGut, vasto invaso plug-in, costruibile step by
step, montandovi, in progress, attrezzature sul reticolo delle finiture
pavimentali24.
Tra le aree infrastrutturali dismesse (docet la storica Prome-
nade Plantée parigina), spiccano la newyorkese High Line (2011) di
Field Operation + Diller Scofidio + Renfro25, e il Prag’s Boulevard
di Copenhagen (2005), di Kristine Jensen Tegnestue, un progress di
sistemazioni, declinate a seconda degli usi limitrofi: una piazza, un
giardino di piante aromatiche, un recinto per l’infanzia, un campo
sportivo multivalente, un teatro all’aperto, aree per eventi speciali,
recinti in acciaio, neon verdi, pavimentazioni in granito, motivi gra-
fici pavimentali, superfici in gomma rosse e nere26.
Tra le ricerche progettuali più significative si distinguono tre
giovani gruppi: Topotek1, Superflex e BIG (Bjarke Ingels Group).
I Topotek1, in particolare, svolgono da anni una raffinata
esplorazione delle virtualità riposte in un materiale facile ed econo-
mico come l’asfalto, spesso disprezzato «[...] di fronte alla ‘naturali-
tà’ di materiali come il cotto, le pietre e i ciottoli»27, ma che possiede
incredibili proprietà: mutevolezza, plasticità, fono-assorbenza, ca-
pacità drenante, potere igienizzante e anti-smog, cattura energetica,

23. a + t architecture publishers, In Common I°, Espacios Colectivos, n. 25, 2005.


24. a + t architecture publishers, In Common IV°, Espacios Colectivos, n. 28, 2006.
25. a + t architecture publishers, Strategy Space, n. 37, 2011.
26. a + t architecture publishers, In Common III°, Espacios Colectivos, n. 27, 2006.
27. M. Zardini, Asfalto: una nuova crosta terrestre, Lotus Navigator, n. 7, 2002.

35
L’ADC L’architettura delle città. The Journal of the Scientific Society Ludovico Quaroni, n. 10/2017

Studio Tagliabue-Origgi, Muro di


Sormano, Como, 2011.
(Immagine tratta da Repertorio
08 in Sitografia).

Studio Paredes-Pino, Open Center


for Public Activities, Cordova, 2010.
(Immagine tratta da Repertorio
09 in Sitografia).

Pipilotti Rist & Carlos Martinez,


Urban Lounge, St.Gallen, 2006.
(Immagine tratta da Repertorio
10 in Sitografia).

36
Paola Veronica Dell’Aira La superificie dello spazio pubblico

Kristine Jensen Tegnestue


Prag’s Boulevard,
Copenhagen, 2005.
(Foto di Cristine Capetillo
tratta da Repertorio 11 in
Sitografia).

Topotek1, Superflex,
BIG, Superkilen Park,
Copenaghen, 2012.
(Immagine tratta
da Repertorio 12 in
Sitografia).

Topotek1, Aqua Soccer


and Dymaxion Golf,
Amburgo, 2013.
(Immagine tratta
da Repertorio 13 in
Sitografia).

37
L’ADC L’architettura delle città. The Journal of the Scientific Society Ludovico Quaroni, n. 10/2017

reversibilità e riciclabilità28.
L’asfalto, nell’“approccio ludico al progetto” dei giovani te-
deschi si carica di attributi fantastici, divenendo generatore di figure,
texture e collage: dai No-lands berlinesi re-stilizzati29, ai murales a
terra del Parco Postindustriale di Eberswalde (2002)30, alle tracce re-
golamentali per diverse pratiche sportive del Campo per Giochi Ur-
bani di Berlino (2002)31, ai semplici segni a terra, memori delle linee
guida dei vecchi spassosi chalk games.
«La superficie – scrivono – la sottile pellicola tra terra e cielo,
costituisce lo spazio in cui l’uomo esprime sé stesso, il regno dei suoi
movimenti, il luogo delle sue esperienze, il suo punto di contatto con
l’universo; la superficie funge da tela per dipingervi o disegnarvi su.
[...] La superficie comporta un sistema semiotico che noi leggiamo e
mappiamo [...] tutto è visibile sulla superficie»32.
Nel 2011, i 3 studi riuniti – BIG, Topotek1, Superflex – por-
tano a segno una realizzazione tanto esemplare quanto provocatoria.
È il Superkilen di Copenhagen, un vasto Parco con plurime funzio-
nalità. La grande istallazione è costituita da un manto urbano, con
composizioni grafiche che richiamano anche la dimensione verticale
dello spazio. È un gigantesco tappeto, in cemento anti-urto, asfalto,
caucciù e fasce bianche in pietra, articolato in zone di differenti tona-
lità di colore che si estendono dai calpestii alle pareti degli edifici di
bordo. La zona occidentale presenta sfumature di rosso, la seconda,
quella centrale, è in nero e grigio scuro, la terza zona è sistemata a
verde e prati33.

Esperienze
Occorre, in conclusione, rappresentare l’ulteriore vantaggio che
la ri-nobilitata azione “superficiale” comporta, in quanto azione “legge-
ra” e spesso di facile e veloce esecuzione.

28. Laganà 2006.


29. a + t architecture publishers, In Common I°, Espacios Colectivos, n. 25, 2005.
30. Ibidem
31. Ibidem
32. Ibidem
33. Steiner 2013.

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Paola Veronica Dell’Aira La superificie dello spazio pubblico

La più semplice stesura di un manto d’asfalto colorato ne rappre-


senta l’emblema.
«È il paradigma della Landform Architecture, che ‘decostruen-
do’ l’idea modernista del suolo, sostiene un processo di rinascita spazia-
le urbana [...]»34.
La rinascita è soprattutto nell’”apertura”: dei processi program-
matori-decisionali, delle scelte progettuali, delle dinamiche realizzative.
Nella land action è più facile “partecipare”. La land action defi-
nisce, il più delle volte, azioni alla portata dell’utenza, il “volume zero”
consente espressioni libere dal possesso di un sapere tecnico specialisti-
co.
Nasce di qui una dimensione virtuosa dell’operazione trasforma-
tiva.
Tre ne sono le qualità distintive:
1. la complessità interdisciplinare, quale dimensione che coinvolge mol-
teplici saperi;
2. il carattere evolutivo, quale sistema di interventi flessibili, implemen-
tabili, reversibili;
3. la valenza di public realm, ovvero la realizzazione del vero “spazio
di tutti”35.
Il progetto dello spazio “di tutti” è quello che stabilisce infatti
il massimo delle alleanze tra la città e le numerose discipline in essa
coinvolte: architetti, ingegneri, geografi, botanici, economisti, ma anche
filosofi, sociologi, antropologi36.
La possibilità di inscenare, con tecniche elementari e in tempi
rapidi, configurazioni reversibili oltreché catturanti dal punto di vista
utilitario e percettivo (dall’utility temporanea all’happening), ne allarga
il bacino fruitivo, con ricadute sul piano del consenso, e quindi delle
possibili strategie e politiche attivabili, sia in finanza pubblica che priva-
ta.
La nozione di public realm impone di immergersi nell’interpre-
tazione degli immaginari individuali e collettivi, realizza un ambiente

34. G. Celestini, Introduzione, in Laganà 2006.


35. Vedi l’attività del Gruppo ARC_Working with people to make great places. «The quality of our
public realm is [...] in creating environments that people want to live and work in».
36. Altarelli, Ottaviani 2010.

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L’ADC L’architettura delle città. The Journal of the Scientific Society Ludovico Quaroni, n. 10/2017

urbano sensibile alle istanze materiali ed emotive dell’umanità, fissa una


relazione stretta forme architettoniche e bisogni socio-psicologici degli
abitanti.
Non si tratta di sola permeabilità e accessibilità dello spazio,
bensì di un open source urbanism, nel quale sempre più crescono le
azioni “dal basso”, le soluzioni on demand: dalla riappropriazione spon-
tanea degli spazi in abbandono, all’uso ecologico e/o agricolo delle aree
residuali, alle performances di arte pubblica, ai fenomeni di attivismo
urbano37. Proliferano le piazze pop-up, le attrezzature mobili e scompo-
nibili, i ready-made urbani, le opere “provvisionali” realizzate per una
necessità localizzata e destinate a essere smontate e sostituite da altro38.
E poi, il lavoro “sul piano” può essere anche resiliente. Può aprire alle
cosiddette opere “previdenti”, capaci cioè di vedere oltre la propria tem-
poranea utilità, in una logica post-occupativa, ovvero di pensare il luogo
che impegnano al di là della propria scomparsa.

Bibliografia

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Bocchi 2015
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Fernando Espuelas, Il Vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura, Marinotti Edi-
zioni, 2004

Desvigne 2009
Michel Desvigne, Natures Intermediaires. Les Paysages de Desvigne, Birkhauser
Edition, 2009

Clement 2011
Gilles Clement, Il giardino in movimento, Quodlibet, 2011

37. Vedi attività di T SPOON Studio. Al centro della ricerca T SPOON c’è la creazione di
microenvironments, ecosistemi basati sull’interazione tra strategie urbane alla grande scala e la natura
minuta e molteplice della vita quotidiana contemporanea: progetti come griglie aperte di possibilità in
grado di catalizzare mutazioni in un processo dialettico continuo tra lo spazio e gli abitanti.
38. Vedi Esterni speaks public. Idee, progetti e interventi per un design pubblico, Esterni, 2010.

40
Paola Veronica Dell’Aira La superificie dello spazio pubblico

Chillida 2010
Eduardo Chillida, Lo Spazio e il Limite. Scritti e conversazioni sull’Arte, Marinotti
Edizione, 2010

Aymonino, Mosco 2006


Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a
volume zero, Skira, 2006

Cecconi 2005
Giuseppe Cecconi (a cura di), Giovanni Michelucci. Dove si incontrano gli angeli.
Pensieri fiabe e sogni, Zella Editore, 2005

Ricci 2008
Giacomo Ricci (a cura di), Bruno Taut. La dissoluzione delle città, la terra come buo-
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Pierre Alain Croset, Alvar Aalto. Visioni urbane, Skira, 1998

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Frank Lloyd Wright, La città vivente, Einaudi, 2001

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Altarelli, Ottaviani 2010


Lucio Altarelli, Romolo Ottaviani, Il sublime urbano, architettura e new media,
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L’ADC L’architettura delle città. The Journal of the Scientific Society Ludovico Quaroni, n. 10/2017

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Repertorio 02
http://novoambiente.com/blog/o-caminho-de-burle-marx-pelos-olhos-de-bruno-veiga/

Repertorio 03
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jorge-oteiza-cassa-vuota

Repertorio 04
https://en.wikipedia.org/wiki/G59_–_1st_Swiss_Horticulture_Exhibition

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Repertorio 06
http://www.shapedscape.com/projects/pinar-del-perruquet-park

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http://www.archdaily.com/197941/malpica-harbour-creusecarrasco-arquitectos

Repertorio 08
https://martamalavasi.files.wordpress.com/2011/02/mds_page_10_full.jpg

Repertorio 09
http://architecture.mapolismagazin.com/paredes-pino-open-center-civic-activities-
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http://landarchs.com/plaza-design-turns-dead-space-into-vibrant-livingroom-
stadtlounge-switzerland/

Repertorio 11
http://www.dac.dk/en/dac-life/copenhagen-x-gallery/cases/prags-boulevard/

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http://whenonearth.net/superkilen-urban-design-park-copenhagen/

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http://www.landezine.com/index.php/2014/02/aqua-soccer-and-dymaxion-golf-by-topotek1/

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