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Segnature

Collana diretta da
Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone

30
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a cura di
Gianfranco Marrone

Sensi alterati
Droghe, musica, immagini

MELTEMI
Indice

p. 7 Presentazione

9 Droghe come forme di vita: per una semio-narcotica


Juan Alonso

21 Vedere suoni: musica e psichedelia


Lucio Spaziante

43 No sex, No drugs, No rock’n roll.


Il paradossale caso dell’ascetismo vitalista punk
Federico Montanari

65 Ritmi e forme di un’audiovisione alterata


Paolo Peverini

85 Toxic cinema, toxic dream


Nicola Dusi

113 Sostanze tossiche, forme stupefacenti


Gianfranco Marrone

139 Bibliografia
Presentazione

A partire da una più ampia riflessione sulla corpo-


reità e le sue configurazioni socio-culturali, attualmente
in corso negli studi sul senso e la significazione, questo
libro raccoglie alcuni scritti che indagano il nesso fra
esperienze con droghe ed esperienze musicali e visive1.
Tale nesso viene esplorato in più direzioni. Innanzitutto,
rendendo conto delle trame espressive con cui certe al-
terazioni sensoriali provocate dalle sostanze stupefacenti
vengono rese – tradotte più che rappresentate – in testi
diversi come le canzoni pop, i videoclip o il cinema. In
secondo luogo, ricostruendo temi e ragioni di alcune
subculture (hippy, psichedelia, punk) che si sono auto-
costituite intorno a un’alterazione dei sensi programma-
ticamente ottenuta grazie al consumo concomitante di
droga e di musica. Infine, ipotizzando alcune somiglian-
ze formali, e dunque possibili passaggi, fra i due tipi di
esperienza, quella “tossica” e quella musicale, tali da
giustificare sia termini o comportamenti comuni (lo
“sballo”) sia, più profondamente, le due questioni pre-
cedenti.
Si tratta di accostarsi a un universo tanto ampio
quanto bistrattato quale quello delle droghe – spesso af-
frontato in senso aprioristicamente moralistico o inge-
nuamente entusiastico – con gli strumenti della sociose-
miotica. Al di là dello sguardo medico e psicologico,
della riflessione filosofica e antropologica, dell’interpre-
 GIANFRANCO MARRONE

tazione giuridica e politica, dell’analisi economica e so-


ciologica, ecco la prospettiva trasversale della sociose-
miotica, che arretra il passo rispetto alle pose precedenti
cercando di coglierne forme e motivazioni. Lavorando
su pratiche testuali e comportamenti significativi, su
esperienze di vita e linguaggi a esse sottostanti, la socio-
semiotica aspira a porsi come studio al tempo stesso ri-
goroso e critico della società e della cultura contempora-
nee. In vista di una loro comprensione e, forse, trasfor-
mazione.
g.m.

1
I testi di Alonso, Dusi, Peverini e Spaziante sono una rielaborazione dei
loro interventi nella tavola rotonda su “Droghe e altre dipendenze”, che s’è
tenuta a Spoleto il 29 ottobre 2004, all’interno del XXXII Congresso della As-
sociazione italiana di studi semiotici dedicato a “Il discorso della salute. Testi,
pratiche, culture”. Quelli di Marrone e Montanari sono stati scritti diretta-
mente per questo volume.
Droghe come forme di vita: per una semio-narcotica
Juan Alonso

Les drogues nous ennuient avec leur paradis.


Qu’elles nous donnent plutôt un peu de savoir.
Henri Michaux

1. Un soggetto eccessivo

Questo articolo si inscrive in una più ampia riflessio-


ne sulla dimensione estesica del sociale, e specificamente
sulla possibilità di uno studio semiotico della società at-
traverso l’analisi della sua dimensione sensibile ed esteti-
ca. Tale prospettiva è stata già esplorata dalla semiotica
del quotidiano e delle forme di vita. In questo senso, la
forma di vita, o il comportamento, che vogliamo esplo-
rare si rivela, dietro l’apparenza di una semplice devian-
za o patologia, come una vera e propria ricerca estesica,
estetica e anche – cercheremo di mostrare – epistemolo-
gica. Certo, si potrebbe obiettare che il “caso sociale” di
cui parliamo è un semplice “sregolamento della perce-
zione” – secondo l’espressione di Greimas – e che di
conseguenza non può costituire una forma di vita, dato
che quest’ultima esige una ricerca di costruzione di sen-
so da parte del soggetto. Ma, come continua lo stesso
Greimas (1987, p. 57), “non si tratta per noi di stabilire
causalità, ma di descrivere un fenomeno dagli effetti
strani, strepitosi”; e tale fenomeno, nel nostro caso, pre-
suppone tutta una dimensione narrativa e strategica, in-
tenzionale, non unicamente accidentale poiché dipen-
dente dagli “effetti incontrollabili” delle droghe. In que-
sto senso, tale ricerca di conoscenza attraverso il sensibi-
le si situa in una logica dell’“auto-apprendimento” e
non della “frattura” e dell’“accidente” (Landowski
 JUAN ALONSO

2004, p. 49). Non si tratta di eventi eccezionali e inattesi


ma di una sorta di costruzione di un sapere complesso,
di una ricerca cognitiva e pragmatica di una serie d’ef-
fetti sensibili ed estesici.
Esisterebbe dunque una forma di vita, un comporta-
mento sociale particolare, che, mediante le proprie rego-
larità e stereotipie, diventa uno stile di vita riconoscibile
come tale. È la dipendenza, la tossicomania, l’assuefa-
zione a certe droghe. Si tratta di un comportamento pri-
vato, individuale, ma che diventa un tipo sociale, pub-
blico, una pratica produttrice di senso che non è spiega-
bile se non nell’interazione di un soggetto con il mondo
e con altri soggetti. Da questo punto di vista, si tratta di
una questione che può perfettamente essere analizzata
in una prospettiva sociosemiotica e antropologica, e non
esclusivamente psicologica.
Molto spesso non si pensa questo genere di compor-
tamenti come un vero e proprio modo di essere al mon-
do, ma soltanto come il prodotto di un soggetto affran-
cato dalle norme sociali, e la cui dimensione da studiare
è esclusivamente quella della psicologia. Soggetto “dimi-
nuito” agli occhi di molti, il tossicodipendente viene di
solito ridotto al ruolo d’oggetto medico o giuridico. Il
soggetto che utilizza le droghe viene abitualmente per-
cepito come un semplice non-soggetto, come se la sog-
gettività, sia individuale sia sociale, fosse del tutto scom-
parsa. Sprovvisto di tutto ciò che costituisce un sogget-
to, esso diverrebbe l’oggetto di un soggetto più potente
di lui, la droga, e non potrebbe far altro che sottomet-
tersi ai suoi capricci. Ecco la situazione di questo pove-
raccio: oggetto della droga, dei servizi sociali e degli
esperti psichiatrici, né soggetto individuale né sociale.
Così, esso viene inteso come un soggetto, se ancora pos-
siamo attribuirgli questo appellativo, completamente de-
modalizzato, senza /volere/, /dovere/, /sapere/ o /pote-
re/ fare o essere. In termini generali, soggetto di tutti
DROGHE COME FORME DI VITA 

tranne che di se stesso, il tossico viene presentato come


un “impotente”, incapace di compiere qualsiasi azione,
qualsiasi percorso narrativo e discorsivo. Ma non finisce
qui: esso infatti, nell’opinione comune, non soltanto non
arriva a essere un soggetto pragmatico ma nemmeno un
soggetto paziente, poiché, atarassico, sarebbe al di fuori
della portata delle passioni, impossibilitato a provare
qualsiasi emozione. Da qui la sua manifestazione pubbli-
ca sotto forma di “deficienza”, la sua immagine pubbli-
ca come esito di una disfatta della soggettività.
Ma le cose forse non stanno così. Innumerevoli rac-
conti di pratiche d’uso delle differenti droghe in quanto
modi d’accesso alla conoscenza e all’azione, in moltepli-
ci culture, attestano esattamente il contrario. Perché al-
lora viene rifiutato nella nostra cultura qualcosa che in
molte altre cosiddette primitive è invece “normalizza-
to”? Crediamo che bisognerebbe studiare i racconti e le
pratiche degli utilizzatori di droga nella nostra cultura
con gli stessi criteri teorici e metodologici che vengono
applicati ad altri discorsi. La nostra ipotesi è che, mal-
grado gli effetti “disgregativi” prodotti dalle droghe, il
consumatore di questo genere di sostanze è un soggetto
a tutti gli effetti, semiotico, modalizzato; e potremmo
anche affermare che, semmai, il suo reale problema è
l’opposto: quello di essere un soggetto modale eccessivo1.
Non si tratta affatto di un soggetto atarassico, ma di
qualcuno che mette sempre all’opera programmi narra-
tivi di grande complessità. È un soggetto estremamente
“occupato” dal punto di vista pragmatico, cognitivo e
sensibile: “affinché piaccia una droga bisogna desiderare
d’essere soggetti. A me sembrava un lavoro ingrato”
(Michaux 1972, p. 15)2. Lungi dall’essere un soggetto
passivo e assente, il consumatore di droghe è molto
spesso un soggetto sempre “a caccia”, nonché partico-
larmente attento ai propri processi sensoriali e cognitivi.
Si osserva e si ascolta come un vero e proprio epistemo-
 JUAN ALONSO

logo che mette in moto un programma d’analisi ap-


profondita del proprio essere e delle proprie sensazioni.
Questo “epistemologo” è un fine osservatore e conosci-
tore della percezione, che realizza una perfetta sintesi di
sensibile e intelligibile.
Ma la dimensione “interiore”, percettiva e sensoriale,
non è l’unica caratteristica dell’esperienza della droga,
altrimenti non potremmo parlare di forma di vita. Esiste
anche una forte componente sociale, intersoggettiva, ov-
vero un modo di agire nel mondo e di interagire con gli
altri soggetti che costituisce questa esperienza, e che ci
permette di dire che siamo di fronte a un vero e proprio
stile di vita; stile sociale che dipende ovviamente dal ti-
po di droghe consumate. Sappiamo che ogni droga
comporta stili di vita e attitudini sia individuali sia inter-
soggettivi molto diversi, dei quali il consumatore è ben
cosciente e che prende in considerazione quando sceglie
questa o quella droga. Da cui l’assurdità di parlare di
droghe al plurale, e la necessità di parlare anzi ogni volta
di una droga in particolare, con tipi particolari di sensa-
zioni, percezioni, passioni, modi di essere nel mondo.
Ciascuno di questi stili di vita prende la forma di una
certa estetizzazione, spesso manifestata mediante una
grande ritualizzazione. D’altronde, ci sono stili di consu-
mo di droga che corrispondono a comportamenti forte-
mente stereotipati (a una certa droga corrisponde un
comportamento, e colui che la prende è in qualche mo-
do obbligato a ricercarlo e a rispettarlo), e modi di inter-
soggettività e socialità differenti per ogni droga.
Un certo gusto per il segreto – non solo per ragioni
legali – e per la disgiunzione, per la distinzione, caratte-
rizza comunque il consumatore abituale di droghe, sino
al punto di assumere alcune forme di innegabile dandi-
smo3. Una costante attività di auto-osservazione e di os-
servazioni di coloro che condividono le stesse esperien-
ze di consumo. L’oscillazione fra il sé, l’individuale, e il
DROGHE COME FORME DI VITA 

sociale definisce l’universo delle droghe, cosa che fa del


loro consumatore un caso curioso di “traghettatore” fra
le due dimensioni. Le droghe avrebbero in tal modo a
che fare sia con tutta una dimensione sociosemiotica de-
gli stili di vita e delle passioni, sia con una semiotica del-
la conoscenza e della sensazione. In qualche modo, le
droghe costituiscono un “fatto semiotico totale”.

2. Metamorfosi narrative e cognitive

La droga è un grande organizzatore e programmato-


re narrativo. Una delle caratteristiche dei consumatori di
qualsiasi droga o sostanza di questo tipo è che ogni azio-
ne necessaria per soddisfare il bisogno del prodotto in
questione è l’occasione per collegarvi un programma
narrativo (“Donde la necessità in cui mi trovai di procu-
rarmene da me delle altre [sigarette]. Così avvenne che
rubai” – Svevo 1988, p. 6), un vero e proprio racconto
pieno d’ostacoli, di avventure e di passioni, che diventa
un programma narrativo di base, dato che spesso è più
importante la forma di vita che non il consumo specifico
della sostanza. Così, le droghe organizzano la tempora-
lità, concedendogli un senso (significato e direzione).
Chiunque fumi, abbia smesso di fumare o cerchi di
smettere di fumare sa quanto il tabacco attribuisca un
senso al tempo, e quanto sia difficile eludere l’organizza-
zione e la scansione del tempo procurata dal tabacco
stesso. Il tabacco, come tutte le droghe, aspettualizzano
il tempo, lo spazio e le azioni: è possibile trascorrere
un’intera vita fumando l’ultima sigaretta, migliaia di ulti-
me sigarette, come Zeno; si comincia a lavorare appena
dopo una sigaretta, o si prende l’ultimo tiro prima di
tornare a casa.
Ma torniamo al nostro consumatore epistemologo.
Perché parlare di epistemologo e non semplicemente di
 JUAN ALONSO

osservatore? Perché il consumatore di droghe si dedica


a un lavoro quasi scientifico, comparativo, di valutata-
zione: “è sempre il cervello che fa da supporto, osser-
vando i suoi retroscena, i suoi trucchi, giocando giochi
grandi e piccoli, per poi ritirarsi in buon ordine” (Mi-
chaux 1967, p. 10). Tutte le esperienze di droga non
passano soltanto da un logico apprendimento pratico
iniziale, ma soprattutto da una sorta di formazione e
sensibilizzazione agli effetti delle sostanze. Bisogna ap-
prendere ad annusare, ad analizzare ciò che emana un
qualche odore, e – perché no? – come gli indiani che
consumano l’ayahuasca, a dirigere e a controllare le pro-
prie impressioni e sensazioni. Certamente, tutto passa
per un saper-fare, ma anche per un saper-essere. Il sog-
getto mira a ottenere certi effetti previsti in anticipo i
quali, sulla base del sapere acquisito sulla base della
propria esperienza passata e dei racconti degli altri uti-
lizzatori, devono essere quelli e non altri. Ne derivano
forme passionali diverse, a seconda che i risultati siano
raggiunti o meno. Howard Becker, nel suo libro ormai
classico sulla sociologia della devianza, afferma che

estendendo progressivamente la propria esperienza, il fu-


matore sviluppa tutta una capacità particolare nell’apprez-
zare gli effetti della droga, e continua a ‘fare progetti’.
Analizza minuziosamente le sue esperienze successive, sor-
vegliando con attenzione i nuovi effetti e assicurandosi che
i vecchi si producano ancora. Questo processo genera un
sistema stabile di categorie che strutturano la percezione
degli effetti della droga e permettono al fumatore di acce-
dere facilmente a uno stato di euforia. L’acquisizione di
questo sistema di categorie trasforma l’utilizzatore occa-
sionale in vero e proprio esperto (Becker 1985, p. 74).

Un tratto comune alla malattia e alle droghe non è


tanto il fatto che queste ultime sarebbero sotto-categorie
della prima, quanto semmai il fatto che il soggetto dell’u-
DROGHE COME FORME DI VITA 

na e delle altre diventa un profondo, e talvolta eccessivo,


osservatore di se stesso, del proprio corpo: cosa che in
un caso porta all’ipocondria e nell’altro alla classica para-
noia che prende spesso gli utilizzatori di droga. Per que-
ste ragioni, è assurdo parlare delle droghe come di forme
di sparizione della soggettività. È semmai il contrario: è
un “eccesso di soggettività” ciò che caratterizzerebbe le
esperienze dei tossicodipendenti. Tutti quelli che assu-
mono droghe passano il loro tempo a cercare di svelarne
i minimi sintomi ed effetti: “Si abbandonava così poco
l’umanità! Anzi, ci si sentiva come presi in una specie di
laboratorio cerebrale” (Michaux 1972, p. 16).

3. Uno stile percettivo

Come si diceva prima, non è possibile circoscrivere


l’analisi delle droghe come stile di vita ad alcune consi-
derazioni sulle sostanze stupefacenti in generale. Nono-
stante le numerose costanti semantiche e sintattiche che
le caratterizzano, ogni droga crea infatti un universo se-
miotico differente e per molti versi autonomo. Ciò ci
permette di parlare di uno stile di vita per ogni droga,
con particolari strutture narrative, modali, percettive,
passionali e comunicative.
Tra le possibili alternative, abbiamo scelto di studia-
re un caso preciso, quello della mescalina, descritto da
Henri Michaux in Connaissance par les gouffres e in
Misérable miracle, per provare a studiare la dimensione
percettiva e sensibile di questa droga. Cercheremo di
dimostrare l’esistenza, dietro un apparente disordine,
di uno stile percettivo prodotto da questa sostanza.
Questa unità di stile si manifesta attraverso strutture fi-
gurative, figurali, modali e aspettuali ricorrenti, dun-
que isotopiche, che articolano l’esperienza della droga
dandole una omogeneità. Per Michaux, si tratta di una
 JUAN ALONSO

ricerca del sapere circa il sensibile messo in moto da


questa droga, realizzando un vero e proprio lavoro d’a-
nalisi sulla sensibilità e la percezione. Nell’universo
della mescalina, che ha molte caratteristiche comuni ad
altre droghe, come per esempio l’hashish, la percezio-
ne viene moltiplicata e al tempo stesso resa instabile a
diversi livelli.
Per spiegare l’universo modale di questa droga, Mi-
chaux usa il termine “tendenza” – definito dal dizionario
francese come “ciò che porta a essere, ad agire, a compor-
tarsi in tale o talaltra maniera”. La tendenza è, per Mi-
chaux, la sola forma d’esistenza di ciò che è percepito tra-
mite la mescalina (e l’hashish). La tendenza è qualcosa
che non si realizza mai, che resta sempre come tendenza.
Il modo di esistenza del percepito è sempre virtuale; tutto
rientra in un “sul punto di...”, in un puro poter-essere:

può accadere qualcosa, possono accadere moltissime cose,


esserci una folla di cose, un brulichio nel possibile, tutte le
possibilità che formicolano insieme (p. 20).

Ma se per caso qualcosa sta per realizzarsi, ecco che


viene immediatamente potenzializzata:

Le immagini mentali sono tendenze. Un quadrato è la ten-


denza a essere e a restare quadrato conformemente al suo
modellino. Ma nella mescalina l’immagine è un compro-
messo fra la sua tendenza e la tendenza oscillante o isti-
tuente di un’onda che passa. Alcune immagini (...) non si
possono evocare, ancor meno farle rimanere vive per di-
versi secondi, essendo sempre ostacolate da tendenze op-
poste (Michaux 1967, p. 22).

Il percepito resta sempre virtuale, senza mai realiz-


zarsi, oppure, qualora riesca a prendere forma, grazie
a una incessante metamorfosi di fondo, viene poten-
zializzato:
DROGHE COME FORME DI VITA 

Appena un pensiero è compiuto, venuto a maturazione, ecco


che sparisce: non appena nasce, quando è ancora non del
tutto formato, ecco che dà vita a un altro pensiero (p. 92).

Questa continua morfogenesi non permette nessun


investimento di valore sugli oggetti, provocando una
sorta di indecidibilità e di incapacità di giudizio, dunque
l’impossibilità di qualsiasi programmazione narrativa.
Questa derealizzazione prende forme figurative fuggiti-
ve, evanescenti:

Rovine: Visioni di rovine, di monumenti pronti a cascar


giù, anche se nessuno li ha mai visti cadere in rovina (p.
20).

Il regime aspettuale del mondo che si presenta al


soggetto è quello di un’eterna incoatività. Niente può
essere compiuto, conchiuso, terminato:

Cessazione del finito, del miraggio del finito, della convin-


zione illusoria che esista il finito, il concluso, il terminato,
il compiuto (...) un infinito trasversale, debordante, magni-
fico annullatore e dissipatore di ogni ‘circoscritto’, che
non potrà più esistere (p. 25).

La dispersione e la proliferazione delle immagini e del-


le sensazioni, così come dello spazio, del tempo e degli at-
tanti-oggetto, non permettono che possa prodursi una
benché minima unitarietà. Ogni tentativo in questo senso
è difeso dalla discontinuità, dall’oscillazione e dall’alter-
nanza, sia figurativa sia figurale. Di modo che la capacità
analitica della droga annulla ogni possibilità di sintesi:

Ed ecco che incontrate una moltitudine. Appare una folla,


punti, immagini, piccole forme (...) un tempo che ha un’e-
norme folla di momenti (...). Moltitudine continua. Vibra-
toria, zigzagante, in persistente trasformazione (...). Ogni
istante, ogni piccolo plotone di microistanti eccezional-
 JUAN ALONSO

mente indipendenti, infatti, appare nettamente, senza at-


tacchi, senza legami col precedente o col successivo (pp.
11, 13, 17, 119).

In assenza di destinante (“la rotta del comandante”),


la profusione figurale e figurativa, nonché la loro costan-
te oscillazione, rende la polarizzazione del giudizio e il
presentimento del valore impossibili:

Questa alternanza non è intellettuale. Non ha a che fare


col giudizio. Non sarete avanzati di nulla dopo una cin-
quantina d’andate e ritorno (...). Nulla è maturato. Non
sarete mai vicini a una decisione (p. 27).

E, se pure il soggetto arriva a stabilire una qualche


realtà dell’oggetto, si rende conto dello scarso valore di
questo mondo fatto di oggetti dispersi:

serie interminabile di superlativi che non vogliono dir nul-


la (..). Ma lo spettacolo è ben stupido (pp. 13-15).

Ecco allora, dice Michaux, “la tragedia dell’inten-


sità”, figurativizzata con una luce che “sconvolge”, “at-
traversa”, “penetra”, con forme spesso acute (punte affi-
late, coltelli slanciati), con movimenti zigzaganti e con
forme dentate. L’eccesso di agogia (“circulation trop vi-
ve”) e la mancanza di controllo del ritmo (“Malheur à
qui perd son tempo”) impediscono il sorgere di una for-
ma stabile e continua. Emerge l’importanza dell’agogia
sugli effetti delle droghe:

tutte le droghe sono modificatori – di solito acceleratori –


della velocità mentale (Michaux 1972, p. 164).

E il solo antidoto alla proliferazione di queste forme


sarebbe proprio la padronanza di questo ritmo, la co-
struzione di un ritmo in-corporato:
DROGHE COME FORME DI VITA 

La cosa che mi aveva fatto più piacere (...) era stata quella di
battere con la mano il ritmo sull’impiallacciatura del mio let-
to (...). Quando l’uomo è in pezzi, malamente sparpagliato
dappertutto, ecco che la musica lo raggiunge, e la quiete lo
domina con una serie ben ordinata di suoni (pp. 161-162).

Vediamo dunque come, anche in una situazione ap-


parentemente variegata e dispersa come quella della me-
scalina, si profili uno stile percettivo omogeneo a tutti i
livelli del percorso generativo.

Ovviamente, l’analisi dovrebbe proseguire, sia per


quel che riguarda l’universo descritto da Michaux sia per
tutte le altre droghe. Accanto all’analisi della dimensione
sociale e intersoggettiva, dovrebbero essere approfondite
altre due grandi problematiche. Da una parte, le droghe
pongono in modo perentorio la questione dello statuto
della realtà, dunque della veridizione e delle modalità
epistemiche. Dall’altra, l’analisi semiotica non può non
considerare – e con una certa urgenza – la dimensione fi-
gurativa e plastica, la “materialità” del mondo che viene
percepita sotto l’effetto delle droghe, così come gli effetti
passionali logicamente associati a questa particolare for-
ma del sentire e dell’essere nel mondo.
In ogni caso, va ribadito che lo studio delle droghe
dovrebbe preoccuparsi più che altro delle pratiche e dei
discorsi intorno a tali pratiche, piuttosto che considerar-
li, come spesso accade, semplici epifenomeni del cosid-
detto vero problema: quello delle motivazioni del com-
portamento dei tossici.

1
Ehrenberg (2003, p. 38) a questo proposito parla di una “prigione della
soggettività”.
2
Tutte le traduzioni da testi di Michaux proposte in questo saggio non
sono state tratte dalle edizioni italiane.
 JUAN ALONSO

3
Occorre ricordare a questo proposito l’analisi di Landowski (1997) sul-
le strategie d’integrazione di chi vuole appartenere al “mondo”, all’“ambien-
te” senza tuttavia possedere le competenze necessarie per farlo. Penso per
esempio all’imbarazzo provato da chi, trovandosi in mezzo a un gruppo di
utilizzatori di una droga, avendo paura d’essere considerato out, fuori moda o
scemo, non osa confessare di non averla mai consumata, e si mette a fare
quello che Landowski chiama il “camaleonte”, come se per lui il consumo di
quella droga fosse un’abitudine.
Vedere suoni: musica e psichedelia
Lucio Spaziante

We are not psychedelic.


Electric Prunes, 1967

Il movimento psichedelico è stato un tentativo col-


lettivo, nato alla fine degli anni Sessanta, di modificare
le relazioni umane sociali ed estetiche attraverso un
uso controllato e consapevole di droghe prevalente-
mente allucinogene. Psichedelia come “rivelazione del-
la mente” è un termine coniato presumibilmente in
una corrispondenza con Aldous Huxley (Camilla, Gos-
so 2004, p. 70) da Humphrey Osmond (1957), uno psi-
chiatra che adoperava LSD e mescalina come terapia
per l’alcolismo. Già dal 1943 il fisico svizzero Albert
Hofmann cominciava a prendere nota delle proprie
esperienze psichedeliche sotto l’assunzione di 0,25 mg
di dietilamide dell’acido lisergico, meglio noto come
LSD, sostanza della quale gli verrà universalmente rico-
nosciuta la paternità. L’LSD è una sostanza allucinogena
che fu per quindici anni adoperata nella ricerca medi-
ca, in biologia e in psichiatria. Veniva somministrata ad
esempio a soggetti affetti da nevrosi, ansia e depressio-
ne (Metzner 1998). Dopo la loro diffusione in ambito
scientifico e in particolare in California, le sostanze al-
lucinogene divennero il terreno per la diffusione di un
vero e proprio discorso psichedelico. Ancora del tutto
legale, esso contemplava temi e motivi legati alla
mente, e alla sua apertura intesa come esplorazione e
all’espansione della percezione e della coscienza trami-
te un trip, metafora del viaggio verso la scoperta della
 LUCIO SPAZIANTE

mente spesso associato a un percorso di viaggio vero e


proprio. Quella che diverrà la cultura acida pervase an-
che letteratura e cinema ma soprattutto la musica. In
una delle fasi primarie in cui tentò di allargare i propri
schemi, il rock ad esempio divenne psichedelico andan-
do alla ricerca di nuovi territori e in diverse direzioni:
uso di droghe, culture orientali, connessione tra musi-
che e immagini, sguardo verso la musica sperimentale.
La psichedelia aveva anche un proprio territorio, una
propria repubblica locale con sede appunto in Califor-
nia, a San Francisco, nel quartiere di Haight-Ashbury,
dove si radicò una comunità hippy contraddistinta da:
apparente rottura delle regole borghesi, vita comunita-
ria, rifiuto della società dei consumi, ma anche giacche
a fiori, collanine, joints, happening psichedelici.
Si dice che l’LSD faccia “vedere i suoni e sentire i co-
lori”. Sembra dunque mettere in pratica la possibilità di
tradurre le esperienze sensoriali donando l’effetto di
renderle intercambiabili tra i differenti sensi.

Uno scoiattolo lasciò cadere una ghianda dall’alto (…) fe-


ce un tonfo tremendo (…) una grossa collisione di azzurro
(Wolfe 1968, p. 42).

L’aggettivo “psichedelico” entra nel lessico e sul


piano espressivo si traduce in prima istanza come alte-
razione, in particolar modo della percezione, tramite
induzione dovuta a droghe o comunque tramite la ri-
cerca volontaria di una modifica dello stato di coscien-
za. La figura dell’alterazione si concretizzerà in diver-
se modalità: trasformazione visiva, colori vividi, perdi-
ta di controllo, distorsione in generale di forme, men-
tre la grafica psichedelica lavora sull’inversione cro-
matica da “positivo” a “negativo”, sulla saturazione
cromatica, sulla distorsione delle linee e dei caratteri
tipografici.
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

Fig. 1. Kaleidoscope eyes, De Roga- Fig. 2. The Love Tribe,


tis, 1996, copertina. Mathewson, 1968, copertina.

L’aggettivo psichedelico viene associato anche a film


per bambini, come Dougal and the Blue Cat o Willy
Wonka and the Chocolate Factory per il loro portato visio-
nario e fantastico, ma anche a Yellow Submarine dei Bea-
tles, Modesty Blaise di Joseph Losey.

1. Semiotiche dell’effetto

Gli interessi dei musicisti rock, che lavoravano in di-


rezione di un ampliamento dei confini espressivi, con-
vergono con la musica d’avanguardia. La produzione
della popular music nella seconda metà degli anni Ses-
santa ha a propria disposizione nuove applicazioni tec-
nologiche, soprattutto all’interno degli studi di registra-
zione. Ricerca sulla sostanza del suono e immaginario
psichedelico viaggiano dunque all’unisono: dischi defi-
niti psichedelici come Revolver dei Beatles (1966)1 e Pet
 LUCIO SPAZIANTE

Sounds dei Beach Boys (1966) sono i primi esempi del


formato album, inteso come collezione di brani non più
scorporati che appartengono a un’opera d’arte. Psiche-
delia, dunque, anche come forma estetica di (auto-)con-
dizionamento e visionaria sospensione di realtà, dove è
possibile vedere l’impossibile.
Come si traduce questo immaginario in forme
espressive? L’idea di musica psichedelica cresce paralle-
lamente all’affermarsi dell’effetto sonoro, inteso come ar-
tificio meccanico o elettronico per ottenere un’alterazio-
ne della sonorità, agendo su timbri, frequenze, armonici.
Le spezie della musica psichedelica hanno i nomi di pha-
sing, delay, riverbero: dislocano e disincarnano ogni suo-
no rispetto alla fonte. Costruiscono uno spazio alterato,
un suono disembodied, scorporato, in movimento, di-
staccato dalla presenza. Suono tradotto in immagine: ef-
fetto figurativo, atmosfera, significato indotto.
Non possiamo dunque non interrogarci sulla valoriz-
zazione dell’“effetto”. Cos’è un effetto di senso? Il Dizio-
nario di Semiotica alla voce medesima recita: “impres-
sione di ‘realtà’ prodotta dai nostri sensi al contatto con
il senso” (Greimas, Courtés 1979, p. 117). Dunque l’ef-
fetto è in primo luogo impressione e sensazione. Ma la ri-
cerca dell’effetto è anche alla base dell’esperienza alluci-
nogena, che è poi il motore primario della cultura psi-
chedelica: alterazione visiva, e in generale percettiva, ba-
sata sull’assunzione di sostanze in grado di alterare la
normale percezione sensoriale2.
Questo processo di ricerca e sperimentazione provie-
ne dal mondo della Scienza, all’interno del quale si era
sviluppata una competenza su sostanze psicoattive in ori-
gine di tipo vegetale (Camilla, Gosso 2004). Lo studio
della botanica (funghi, oppio, stramonio, mescalina3 e
tanti altri) consentì la possibilità di creare sostanze chi-
miche di sintesi che condussero alle droghe contempora-
nee. Non va trascurato però il fatto che molte di queste
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

sostanze venivano considerate in molte culture come uno


strumento di trasporto verso altre dimensioni, utile a en-
trare in contatto con entità divine. Ecco che si compone
un panorama simbolico formato da differenti forme di
alterità: altra dimensione, altro essere. Emerge un Sog-
getto che si configura modalizzato verso la ricerca dun-
que verso un voler-sapere: un ricercatore, uno scienziato
che studia per individuare sostanze in grado di modifica-
re la relazione tra il soggetto stesso e la realtà.
In un luminoso mattino di maggio, ingoiai i quattro decimi
di un grammo di mescalina sciolta in mezzo bicchiere
d’acqua e sedetti ad attendere le conseguenze (Huxley
1954, p. 11).

La competenza dell’esperto sarà poi trasferita ad altri


diffondendosi a livello di massa. Così è avvenuto per
l’LSD, così avverrà molti anni dopo per l’ecstasy. Le so-
stanze psico-attive vengono investite di un ruolo determi-
nante: eliminare i filtri della percezione per accedere a ciò
che precedentemente non si percepiva; enfatizzare le ca-
pacità sensoriali per cogliere ciò che precedentemente
non veniva letto; percepire ciò che esisteva ma di cui non
ci si accorgeva. Il soggetto si vuole maggiormente sen-
ziente e la percezione (con le sue porte) diventa il sito del-
la sua massima realizzazione. Il libro Le porte della perce-
zione di Aldous Huxley (1954) rappresenta una testimo-
nianza essenziale da questo punto di vista, che ora andia-
mo a considerare.

2. Le porte della percezione e l’acid test

In compagnia di uno psichiatra, un letterato decide


di sperimentare su di sé la mescalina, sostanza cui all’e-
poca si attribuiva tra l’altro la capacità di simulare una
condizione di schizofrenia. La descrizione di Huxley, at-
traverso la mediazione verbale o letteraria delle parole,
 LUCIO SPAZIANTE

propone un’iniziale esaltazione della droga come veicolo


di accesso alla percezione diretta, senza mediazione.
Tutto parte dalla considerazione secondo cui il sentire
rimane un patrimonio solitario. E per quanto l’arte o l’a-
more possano dare l’illusione della fusione o dell’unione
tra due soggetti, in condizioni normali si trova in fondo
a essere irresolubilmente monadi. Il problema, per Hux-
ley, sembra essere la “condanna al senso” mediata dal-
l’interpretazione, non potendo mai cogliersi il significato
in sé. La droga potrebbe allora essere il modo per entra-
re nel “mondo interiore” delle grandi menti, dei grandi
artisti come William Blake o J. S. Bach. Paradossalmen-
te scopre invece di non essere dotato della sufficiente
immaginazione per poter entrare nel “mondo delle vi-
sioni” e di non riuscire a esprimere i mondi come prece-
dentemente gli artisti avevano fatto. Apprende con di-
spiacere di essere ancora chiuso nel proprio mondo in-
teriore, semplicemente in uno stato di protensione verso
la realtà contingente che genera valutazioni differenti.
Ogni dettaglio che lo circonda, oggetti, vasi, libri, abiti,
“appare come nel momento della propria creazione”,
per come esso è e non per come appare4.
Per rendere in modo vivido la propria esperienza,
Huxley convoca termini dell’estetica (grazia, trasfigura-
zione), attinge ai propri ricordi e alla propria memoria,
opera continui paragoni con esempi artistici (“una com-
posizione che somigliava a qualcosa di Braque”). Sem-
bra così che per esprimere la massima alterazione della
realtà, rispetto a come di norma essa ci appare, l’esem-
pio più efficace cui attingere risulti un quadro preesi-
stente. Spazio e tempo sembrano, infine, perdere quasi
del tutto la loro rilevanza come parametri di riferimento.

La mente percepisce in termini di intensità di esistenza,


profondità di significato, relazioni entro uno schema
(Huxley 1954, p. 20).
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

I sensi modificati dalla droga restituiscono l’evidenza


di una semiotica del sensibile vissuta attraverso i sensi
stessi. Mentre la percezione vive uno stato di massima
esaltazione, la volontà si trasforma in elemento negativo:
sotto l’effetto della mescalina si perde ogni interesse per
qualsiasi cosa che non sia il mondo proprio. Per contro,
l’esperienza psichedelica viene vissuta come un tentativo
di generare una forma di condivisione collettiva. “O sei
sul bus o resti a terra”, recitava una scritta negli anni
Sessanta. Era impressa sull’autobus dei Merry Prank-
sters (Allegri Burloni), un gruppo di persone guidato da
Ken Kesey (l’autore, scomparso di recente, del romanzo
Qualcuno volò sul nido del cuculo), in un viaggio mentale
e fisico, effettuato nel 1964, da Haight-Ashbury fino alla
costa Est degli Stati Uniti sotto l’influsso di droghe allu-
cinogene, e documentato da Tom Wolfe (1968) nel rac-
conto-documento The Electric Kool Acid Test.
L’Acid Test si pensava come una forma espressiva in
grado di far condividere un’esperienza comune tra chi
lo proponeva e il suo pubblico: “Parole, musica, suoni,
luci, suoni, tatto, lampi” (Wolfe 1968, p. 14). Wolfe cer-
ca nel suo scritto di inventarsi una lingua letteraria psi-

Fig. 3. Poster di un evento Acid


Test.
 LUCIO SPAZIANTE

chedelica (con difficoltà resa in italiano) in grado di ren-


dere quel tipo di esperienze. Eccone un saggio:
Super Stuccatore con la bolla dell’infallibile livella che
scivolava nel cupo sciroppo Karo al miele del tubo non
certo infallibile come credevi tu, picchio, piccoli grumi e
spigoli lassù, picchio, e strisce, strisce come impronte su
creste d’onde di bianca sabbia desertica e cinematografica
(Wolfe 1968, p. 43).
Mi disse che il Rinfresko era “condito” e che stavo appun-
to cominciando la mia prima esperienza a LSD (…) e di
non aver paura e tuttavia di non accettare né respingere
(…) di tenermi sempre aperta, di non dibattermi né cerca-
re di farlo smettere. (…) Le nostre ossa si fusero, la nostra
pelle divenne una sola, non c’era un solo punto in cui fos-
simo separati, dove finiva lui cominciavo io (p. 256).

L’uso delle droghe per alterare la percezione è stato


storicamente collegato alle pratiche artistiche, oltre che ai
rituali religiosi. È il caso del Club des Hasciscins compo-
sto tra l’altro da Baudelaire e Balzac, nonché di Coleridge,
Artaud, fino ad arrivare a Burroughs. Anche l’affermazio-
ne delle culture giovanili, e dei movimenti artistici e politi-
ci a esse collegati, vede il parallelo diffondersi del consu-
mo di droghe. Già musicisti jazz e rock usano le droghe in
modo più o meno dichiarato, tanto che in un clima di va-
lorizzazione positiva ancora non invaso dal moral panic
per la tossicodipendenza, spesso le droghe diventano una
fertile ispirazione tematica per le canzoni: pensiamo tra le
altre a Brown Sugar e Mother’s Little Helper per i Rolling
Stones (1983) e a Heroine per i Velvet Underground
(1967), ma la lista potrebbe essere molto più lunga.

3. Caleidoscopi

Il famoso brano dei Beatles Lucy in the Sky with Dia-


monds (1967) fu spacciato come un acronimo che allu-
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

deva all’LSD; dato immediatamente smentito dal suo au-


tore John Lennon. Se il titolo può non essere esplicito,
difficilmente si può dire lo stesso delle liriche:

Picture yourself in a boat on a Immaginati di essere in una


river, barca, su un fiume
With tangerine trees and con alberi di mandarino e cieli di
marmalade skies marmellata.
Somebody calls you, you answer Qualcuno ti chiama tu rispondi
quite slowly, lentamente,
A girl with kaleidoscope eyes. Una ragazza con occhi-
Cellophane flowers of yellow caleidoscopio.
and green, Fiori di cellofan di giallo e verde
Towering over your head. svettano sopra di te.
Look for the girl with the sun in Cerca la ragazza con il sole negli
her eyes, occhi
And she's gone. ma lei se n’è andata
Lucy in the sky with diamonds. Lucy nel cielo con i diamanti

Tab. 1. Lucy in the Sky with Diamonds, liriche.

Fig. 4. Alan Aldridge, 1969,


Lucy in the Sky with Diamonds.

In particolare un’assonanza espressivo-formale, a un


primo sguardo ignota, porta il caleidoscopio a essere
una delle figure che più frequentemente occorre “in ca-
so di” psichedelia. Il che può fornire alcuni dati di ri-
 LUCIO SPAZIANTE

flessione. Lévi-Strauss al riguardo definiva il caleido-


scopio come “uno strumento che contiene briciole e
frammenti mediante i quali si realizzano combinazioni
strutturali”. I frammenti danno luogo a combinazioni
che “generano sempre diversi modelli d’intelligibilità”
(Lévi-Strauss 1962, p. 49). Una combinazione basata su
alcuni elementi iconici di base che possono dar vita a
un numero (apparentemente) infinito di variazioni figu-
rative. Il meccanismo che sta alla base del caleidoscopio
è dunque un generatore di infinito: una figura dinanzi a
uno specchio ne genera la duplicazione e poi il raddop-
pio del raddoppio e così via. La replica del frammento
in realtà non supera fisicamente le 10 possibilità di
combinazione ma l’effetto di infinita trasformazione
che si provoca genera tra l’altro un meccanismo di atte-
sa narrativa. Dunque il caleidoscopio sembra essere l’e-
lemento visivo figurativo più affine all’idea musicale di
una sequenza ripetuta, coerente e continua, che non dia
l’impressione di una mutua ripetizione bensì quella di
un’eterna variazione identica, essendo esso pensato per
generare arte in modo automatico.
I pezzetti di vetro che rimbalzano nel cilindro pro-
ducono una novità, dovuta alla ricombinazione, all’in-
terno di una simmetria. In più tutto il meccanismo è
basato su una distorsione ottica, dunque sulla percezio-

Fig. 5. Esempio
di immagine
caleidoscopica.
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

Fig. 6. Particolare di mosaici di


Alhambra (Grenada).

ne visiva alterata. Distorsione, illusione, percezione, al-


terazione: ecco le parole chiave. Adoperando l’apparec-
chio caleidoscopico il dinamismo narrativo viene inne-
scato dalla nostra stessa azione manuale nel far ruotare
le lenti. Se invece osserviamo un’immagine fissa, un di-
segno o una foto, l’effetto di variazione è dato dalla
scansione ritmica generata dalla ripetizione di un pat-
tern visivo. Anche i mosaici dell’Alhambra di Granada
sono basati sulla ripetizione periodica di un pattern
geometrico ripetuto.
Con l’avvento dell’immagine in movimento e del-
l’audiovisivo le potenzialità aumentano: il cinema e suc-
cessivamente il videoclip si presentano come la possibi-
lità di un “sogno in technicolor”, per citare il titolo di
un happening psichedelico del 1967. Il motivo del ca-
leidoscopio non cessa tuttora di esercitare il suo fascino
e di funzionare come la realizzazione figurativa più
compiuta dell’esperienza percettiva alterata da sostanze
stupefacenti. Pensiamo per un momento al videoclip
dei Chemical Brothers Let Forever Be5, nel quale il ca-
leidoscopio diventa un operatore enunciazionale di
moltiplicazione percettiva, figurativa, identitaria. Il sog-
getto protagonista del video “si vede” moltiplicato in
un’iperbolica mise en abŷme figurativizzata, ma sin dal-
 LUCIO SPAZIANTE

l’inizio del clip è l’istanza di enunciazione a presentarci


l’intera messa in discorso filtrata attraverso una scom-
posizione caleidoscopica del frame. La psichedelia non
risulta in questo caso altro che una traduzione, una resa
estetica in forma figurativa della ricerca di espansione
percettiva. Una figuratività che si esprime sul livello vi-
sivo come su quello musicale. È anche il caso dei light
show in cui la musica veniva accompagnata da diaposi-
tive, proiezioni, ad esempio all’UFO Club di Londra ne-
gli anni Sessanta, con Pink Floyd e Soft Machine
(1969). Anche Andy Warhol a New York associava le
immagini di The Exploding Plastic Inevitable con la mu-
sica dei Velvet Underground.

4. Allucinazioni e illuminazioni

Più in generale, il discorso prodotto a partire, e attor-


no alla musica, ci indica alcuni esempi acclarati di musi-
ca psichedelica: la produzione iniziale dei già citati Pink
Floyd, i Byrds (1966) di Eight miles high, i Rolling Sto-
nes (1967) di Their satanic majesties request, le suite
strumentali dei Grateful Dead (1969) e poi i Quicksilver
Messenger Service (1967), Jefferson Airplane (1968),

Fig. 7. The Psychedelic Sounds


Of 13th Floor Elevators, 1966,
copertina.
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

13th Floor Elevators (1966), Doors (1967), per finire


con i 17 minuti di In a Gadda Da Vida degli Iron Butter-
fly (1968).
Andando a esaminare più da vicino alcune occorren-
ze testuali per definire i contorni della musica psichede-
lica, troviamo ad esempio che proprio nelle lyrics di To-
morrow never knows dei Beatles (1966), ultimo brano di
Revolver, attribuito a John Lennon, è contenuto un rin-
vio intertestuale a The Pychedelic Experience (Leary et
al. 1967)6. Si tratta di una sorta di nuova edizione riela-
borata in chiave acida del Libro Tibetano dei Morti, un
testo buddista sulla reincarnazione, che diventa tra le al-
tre cose un manuale di istruzioni per acquisire compe-
tenza e controllo sull’uso di droghe, allo scopo di espan-
dere la coscienza e raggiungere l’illuminazione. Il primo
verso è una citazione dall’introduzione del libro: “Whe-
never in doubt, turn off your mind, relax, float down-
stream”. In caso di dubbio, spegni la tua mente, rilassati
e lasciati portare dalla corrente.

Turn off your mind, relax and float down stream,


It is not dying, it is not dying
Lay down all thoughts, surrender to the void,
It is shining, it is shining.
Yet you may see the meaning of within
It is being, it is being
Love is all and love is everyone
It is knowing, it is knowing
And ignorance and hate mourn the dead
It is believing, it is believing
But listen to the colour of your dreams
It is not leaving, it is not leaving
So play the game existence to the end
Of the beginning, of the beginning.

Il “modello tibetano” di ricerca dell’illuminazione


prevedeva tre fasi: una fase di sospensione e di assenza
 LUCIO SPAZIANTE

Fig. 8. Alan Aldridge, 1969,


Relax your mind.

totale di sensazioni e stimoli; una fase allucinogena;


una terza fase di ritorno verso la realtà. Timothy Leary
eseguiva in gruppi ristretti letture pubbliche del libro,
che prevedevano assunzione di LSD e presenza di musi-
che che servissero ad accompagnare il distacco dalla
realtà. Si era unito a Leary in questi happening acido-
spirituali, occupandosi di “suonare” nastri registrati,
David Mancuso, il futuro ideatore a New York di The
Loft, club-appartamento di culto che segnerà al termi-
ne degli anni Settanta la transizione dalla musica disco
alla musica house (forma avanzata di musica psichede-
lica che avrà l’ecstasy come supporto allucinogeno al
posto dell’LSD).
Un “Budda sempre posizionato in mezzo ai due alto-
parlanti” può servire come particolare per descrivere
l’atmosfera delle loro performance (Lawrence 2004).
Successivamente lo stesso David Mancuso avrebbe inau-
gurato una serata chiamata Love Saves The Day, un
party psichedelico il cui invito recava stampato La persi-
stenza della memoria di Salvador Dalí. Di nuovo, il moti-
vo della distorsione e dell’alterazione applicato a figure
per alludere a un’esperienza psichedelica.
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

Fig. 9. Esemplari di pillole di ecstasy.

L’uso di allucinogeni (LSD, mescalina, peyotl, fun-


ghi) è una pratica attorno alla quale si formò una vera
e propria cultura dove la droga doveva servire come
veicolo di ampliamento, liberazione, rivelazione, con
l’ingenua idea che il suo uso non avesse eccessivi effetti
indesiderati, che non fosse particolarmente nociva,
tantomeno mortale, che fosse anzi fonte di benessere.
L’allucinogeno era pensato come un additivo per la
mente; non un palliativo contro il male di vivere bensì
una scala per accedere al sapere, alla conoscenza, alla
sensazione. La coincidenza della sua diffusione con un
dato periodo storico è comprovata anche dal fatto che
l’LSD scompare quasi del tutto con il tramonto della
stagione hippy. La pulsione comunitaria di apertura
della mente verrà sostituita da altre spinte, forse mag-
giormente autodistruttive. Riemergerà in modo defla-
grante con la seconda Summer of Love del 1988 a Lon-
dra, quando ecstasy, rave e house music saranno gli in-
gredienti di un party psichedelico ininterrotto dai ca-
ratteri molto differenti.
 LUCIO SPAZIANTE

5. Musiche psichedeliche

Delineati i contorni del contesto, resta da osservare


di cosa siano composte le “musiche psichedeliche”, al-
meno nell’enciclopedia o nell’immaginario del 1966, a
partire dal citato Tomorrow Never Knows. Il brano sosti-
tuisce alla tradizionale struttura strofa-inciso-ritornello
una sorta di preghiera. Alla conclusione di ogni singolo
verso, il contenuto semantico è contraddistinto da mo-
dalità (essere, sapere, credere) al gerundio (aspettualiz-
zazione durativa), contraddistinte dal suffisso –ing pro-
nunziato con timbrica nasale e cantilenante, simile alla
preghiera cattolica dell’Alleluja. L’attacco sonoro vede
un’assolvenza di sitar, strumento indiano, immediata-
mente seguita da una figura ritmica dispari della batteria
che conferisce un andamento ad arresto continuo: un
passo in avanti e una sosta; un passo in avanti e una so-
sta. A ciò si aggiunge un basso continuo in funzione di
bordone (un suono fisso e invariabile caratteristico di
molte musiche popolari nonché della musica vocale in-
diana) e un insieme caotico di rumori non identificabili.
Questa configurazione rimane fissa per tutta la durata
del brano ed è questa fissità a conferire un carattere
ipnotico. Lo stesso modello strutturale è riscontrabile in
molti altri brani definiti psichedelici.
La psichedelia intesa come musica pensata per, o rea-
lizzata da, “menti aperte” sembra essere il risultato di un
composto di strutture sintattiche mutuate da preghiere e
rituali, enfatizzate dall’aggiunta di ritmi ipnotici soste-
nuti da note continue.

5.1. Specularità
Nel caso di Tomorrow Never Knows l’impressione
inconsueta fornita da una certa modulazione delle me-
lodie di accompagnamento strumentale, unita a singola-
ri timbriche strumentali, si spiegherebbe con l’abbon-
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

dante uso di sequenze sonore riprodotte in reverse, cioè


con il verso di riproduzione all’incontrario, come una
sorta di esecuzione in rewind. In realtà, riproducendo
“al contrario” la cosiddetta sequenza “al contrario” con
un software di editing musicale si dovrebbe ottenere,
per doppia negazione, il verso corretto. In realtà queste
sequenze e queste timbriche rimangono sostanzialmen-
te inalterate. Dal che consegue che la configurazione
espressiva è dotata di una sorta di enantiomorfismo
(Lotman 1997), come se una lettura inversa, che vada
invece che dall’inizio alla fine dalla fine all’inizio, fosse
cioè equivalente. Riemerge il motivo della specularità
già qui evocato precedentemente per il caleidoscopio.
Cosa implica questa ridondanza? Forse lo specchio se-
gna il confine tra due organizzazioni semiotiche, l’appa-
rire di una riorganizzazione strutturale. Ad esempio an-
che la citata inversione di direzione può rappresentare
una variante dell’effetto di specularità (ib.). La psiche-
delia, dunque, sembra trovare nelle strutture speculari
un’ottima protesi di accesso alla ricerca dell’alterità,
spirituale, esperienziale, percettiva.
Un altro elemento rilevante in Tomorrow Never
Knows è la presenza di una struttura ad anello composta
da altri micro-anelli al proprio interno: strutture circolari
concentriche, micro-sequenze in loop. La circolarità, la
ripetitività sono processi ampiamente adoperati anche
nella musica minimalista che si affermava nello stesso pe-
riodo (pensiamo ad esempio a Lamonte Young e a Terry
Riley), e anche in questo caso la ripetizione veniva asso-
ciata a forme di meditazione e di ricerca trascendentale.

5.2. Ascoltare immagini


Un caso interessante è dato da Alan’s Psychedelic
Breakfast dei Pink Floyd (1970), dall’album Atom Heart
Mother, che appunto sin dal titolo si definisce come una
narrazione psichedelica. In cosa consiste? È un racconto
 LUCIO SPAZIANTE

Fig. 10. Alan Aldridge, 1969,


Lucy in the Sky repeat.

quasi-radiofonico di rumori, sensazioni, suoni e, prima-


riamente, “immagini” in cui al centro c’è l’ideale cola-
zione di Alan Parson, tecnico (guarda caso) del suono
dei Pink Floyd. Il sonoro ha qui un carattere eminente-
mente figurativo in quanto riusciamo, con buona ap-
prossimazione, a descrivere e nominare gli oggetti e le
azioni che ascoltiamo. Siamo così proiettati all’interno
delle sensazioni del soggetto, alternate tra rumori am-
bientali e narrazioni musicali. L’effetto cinematico o
propriamente cinematografico che ci restituisce il testo è
dovuto anzitutto alla contrapposizione di due universi
di discorso: quello sonoro-ambientale (per intenderci, i
“rumori”) e quello propriamente musicale. La contrap-
posizione si scioglie ben presto in un’interrelazione
enunciativa tra un piano diegetico (per convenzione de-
cidiamo che sia il primo, cioè i rumori, cioè la “realtà”)
e uno extra-diegetico (il musicale-finzionale).
Il testo manifesta salienze sotto forma di operatori di
traduzione tra i due universi. Ascoltiamo il gocciolare di
un lavello con cui inizia il brano e che ci mette al centro
(stereofonico) di una “soggettiva sonora”. Questo goccio-
lio continuo dapprima si confonde sullo sfondo nel mo-
mento in cui altri suoni emergono come figure; poi la sua
persistenza diventa un operatore di continuità cadenzata,
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

dunque ritmico. Sarà su questa primordiale configurazio-


ne ritmica che si inserirà un altro suono, sempre altamen-
te figurativo e processuale (ascoltiamo “azioni” non stru-
menti), quale quello prodotto dall’accensione di un fiam-
mifero contro la carta vetrata. Sulla reiterazione del suono
di sfregamento si inserisce “in levare” un accordo orche-
strale che costruisce man mano una sequenza che pren-
derà poi il sopravvento, mentre il rumore sparirà. Lo stes-
so accadrà poco più avanti quando dal suono prodotto
dallo sfrigolare di uova e bacon nella padella, per assol-
venza si sostituirà un arpeggio di chitarra acustica. Una
serie di andirivieni (débrayage) tra un qui e un altrove, tra
l’ora e il prima, tramite assolvenze e dissolvenze, un pro-
ferire di frasi (“filtrate” con effetti di ritardo) che si so-
vrappongono tra loro, assumendo così l’aspetto di mono-
loghi interiori e bisbigli. Ci si presenta così un soggetto
posto di fronte a un’alterità: talvolta è un’alterità spaziale,
altre volte temporale, altre volte è quella dello stesso sog-
getto che riappare in forma scissa. Ecco un’esperienza al-
lucinogena tradotta in forma sonora che rinvia7 a un’altra
esperienza: quella dell’alcolismo descritta da Deleuze: “i
momenti simultanei si compongono stranamente”. Non
c’è imperfetto, non c’è futuro: solo passato prossimo ri-
spetto al quale non c’è distanza né compimento. Il pre-
sente non è quello dell’effetto allucinogeno ma quello
dell’“effetto dell’effetto” (Deleuze 1969, p. 142).
Differenti piani sonori che vanno e vengono si tradu-
cono in differenti piani spazio-temporali; soggettività
scisse e allucinate che viaggiano all’interno del proprio
sé. Anche la fuga musicale è un tentativo di rendere in
modo figurativo l’affastellarsi continuo di sensazioni ac-
cavallate le quali tutte assieme assumono un peso rile-
vante. Con la sovrapposizione di masse sonore che se-
guono una logica rigorosa, operando però continui con-
trasti, diviene significativa la continua fatica a definire la
differenza tra una figura e uno sfondo.
 LUCIO SPAZIANTE

Fig. 11. Pink Floyd, The Piper at


the Gates of Dawn, 1967.

6. Sensi d’effetto

La coerenza e la continuità narrativa sono tra i primi


elementi di cui appare la mancanza nel discorso psiche-
delico: il racconto di azioni (per quanto si possa in musi-
ca parlare di azioni) si sostituisce a un racconto di sensa-
zioni in cui non è più rilevante mostrare trasformazioni
di eventi. Ciò si ricollega a quanto sosteneva Aldous
Huxley a proposito della perdita di rilevanza dei riferi-
menti cognitivi, e anche a uno dei principi dichiarati in
Psychedelic Experience (Leary et al. 1964) in cui si parla-
va di un distacco dalla realtà.
La grammatica psichedelica è a carattere aspettuale e
tensivo e questo carattere è sufficientemente generaliz-
zabile: forme di dilatazione, amplificazione, ripetizione,
accelerazione si possono rilevare anche in esempi che
meno stravolgevano la tradizionale struttura della canzo-
ne rock-pop. Anche See Emily Play, uno dei primi singo-
li dei Pink Floyd (1971), propone in pochi minuti un
condensato della psichedelia in musica. La costruzione
di un’espressione musicale che renda l’idea di alterazio-
ne percettiva viene ottenuta ad esempio tramite abbon-
dante uso di glissati, (ascendenti e discendenti) e legati
(unioni tra note senza percezione di distacco). Una tavo-
lozza di suoni atti a produrre un effetto di movimento e
VEDERE SUONI: MUSICA E PSICHEDELIA 

assieme di fusione. La mente sotto l’effetto di allucino-


geni “viaggia”, si muove, ecco perché si parla di trip.
Appaiono e scompaiono piani sonori diversi, ma anche
tempi musicali accelerati e rallentati. A ridosso del ritor-
nello diparte un’accelerazione metronomica di una mar-
cetta per piano, che ricorda quell’ouverture accelerata,
dal Guglielmo Tell di Rossini, che in Arancia meccanica
di Kubrick ritroviamo come commento musicale dell’or-
gia di Alex.
La psichedelia costituisce in definitiva una fertile al-
leanza tra più elementi, costruita attorno all’idea di effet-
to: percezione e immaginazione correlate a produrre sen-
so, con la saltuaria collaborazione dell’immissione nel
corpo di sostanze. Sul piano visivo in primis abbiamo co-
lori e pattern grafici; sul piano sonoro abbiamo timbri e
configurazioni sonore. Il tutto contribuisce a costituire
un immaginario, a partire da un’immaginazione che si
fissa nei corpi e si fa evento. Però qui non si tratta di so-
stenere la relazione tra l’assunzione di sostanze stupefa-
centi ed eventuali effetti utili alla creazione artistica, cosa
del resto già smentita dalla testimonianza di Aldous
Huxley. Non sono le droghe in sé a regalarci tutto questo
ma l’associazione sincretica tra differenti modalità d’e-
spressione: l’immaginario è semplicemente un ottimo ca-
talizzatore per far sì che configurazioni di contenuto di-
sperse si associno e si strutturino tra loro in modo rico-
noscibile ed efficace. La psichedelia rappresenta un caso
esemplare di come sia necessario, per sottolineare il valo-
re di taluni meccanismi semiotici, svuotare la componen-
te causalista dalla nozione di effetto. Nella dizione “effet-
ti di senso” c’è ben più di un residuo proveniente da una
relazione consequenziale tra una causa e il suo effetto.
Sarebbe il caso di rovesciare i termini e parlare di sensi
d’effetto, cioè della “possibilità di organizzare e di sfrut-
tare speculativamente il mondo sensibile in termini di
sensibile” (Lévi-Strauss 1962, p. 29).
 LUCIO SPAZIANTE

1
Relativamente ai dischi, il riferimento è all’anno della discografia finale
e non all’anno di pubblicazione
2
A tale proposito Deleuze (1969, pp. 141-144) parla dell’alcolismo come
ricerca non di un piacere ma di un effetto: “si vive in due tempi contempora-
neamente”. L’“effetto-alcool” sarebbe ad esempio dato da eventi che sono in
grado di dare esiti similari: perdita di denaro, perdita d’amore. Gli effetti, ad
esempio quelli della droga, possono, per Deleuze “essere rivissuti e recuperati
per se stessi alla superficie del mondo”. L’effetto, anche in musica, è la capa-
cità di dare occasione a un evento. La psichedelia (“oh psichedelia”) in musi-
ca diventa semplicemente una possibilità di produrre significati “attraverso
altre vie”. Ringrazio per la fonte Federico Montanari.
3
Uno dei 27 alcaloidi che compongono il peyotl, cactus messicano.
4
Huxley per esprimere l’idea di essenza adopera il termine istigkeit mu-
tuandolo dal mistico cristiano Meister Eckhart (1260-1328).
5
Cfr. in questo volume il saggio di Paolo Peverini, fig. 6.
6
http://www.erowid.org/archive/hyperreal/drugs/psychedelics/leary/
psychedelic.html.
7
Cfr. nota 1.

Discografia

13th Floor Elevators, 1966, The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor
Elevators, International Artists.
Beach Boys, 1966, Pet Sounds, Capitol.
Beach Boys, 1967, Smiley Smile, Capitol.
Beatles, 1966, Revolver, EMI.
Beatles, 1967, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, EMI.
Byrds, 1966, Fifth Dimension, Columbia.
Doors, 1967, Strange Days, Elektra.
Electric Prunes, 1967, I Had Too Much To Dream Last Night, Reprise.
Grateful Dead, 1969, Live/Dead, Warner Bros.
Iron Butterfly, 1968, In a Gadda Da Vida, ATCO.
Jefferson Airplane, 1968, After Bathing at Baxter’s, RCA.
Pink Floyd, 1970, Atom Heart Mother, Harvest.
Pink Floyd, 1971, Relics, Starline.
Quicksilver Messenger Service, 1967, Quicksilver Messenger Service,
RCA.
Rolling Stones, 1967, Their Satanic Majesties Request, Decca.
Rolling Stones, 1971, Hot Rocks, 1964-1971, Decca.
Soft Machine, 1969, Volume Two, Probe.
Velvet Underground, 1967, The Velvet Underground & Nico, Verve.
No sex, No drugs, No rock’n’roll.
Il paradossale caso dell’ascetismo vitalista punk
Federico Montanari

In realtà non ci interessa la musica… ci interessa


il caos.
(attribuita a Steve Jones, dei Sex Pistols)

…e adesso come adesso mi voglio ricordare sol-


tanto i tempi belli, il discorso sociale, le parole
che si fondevano sullo sfondo, i ragazzini sbronzi
di sidro, lager, snakebite, sidro e lager, sballati di
solfato che costava poco e andava bene, bocca
sempre larga, pieni di grandi idee, via in mezzo
alla vita a cento all’ora, sempre in pista a sentire il
meglio delle band del momento, saltando e bal-
lando con Clash, Pistols, Damned, Vibrators, Uk
Subs, Dr Feelgod – e poi Jam, Buzzcocks, Ramo-
nes… per non parlare di Slits, Members, Lurkers,
Stiff Little Fingers – e poi i Boys, gli Adverts – e
Rejects, Upstarts, Antinowhere League – e avanti
così, un lungo, vecchio appello, gruppi a fottere,
milioni di accordi… Oi, band di mohicani anar-
chici e poeti punk… cuore che tonfa e sangue che
pompa, vivi e incazzati e felici.
John King, Human Punk, p. 142.

1. Il movimento punk e la nascita di una nuova intel-


lettualità delle pratiche

Il movimento punk ha sin da subito suscitato l’inte-


resse degli studiosi di teoria della cultura: la cultura
punk, dal suo nascere e suo prendere forma, attorno agli
anni 1976-80, così come per i suoi prodromi e i suo svi-
luppi negli anni successivi, è stata considerata immedia-
tamente come un laboratorio: oggetto di studio speri-
mentale per i teorici dei cultural studies e delle subcul-
 FEDERICO MONTANARI

ture. Pensiamo, ad esempio, alla lunga serie di studi, da


quelli seminali di Hebdige (1979) e poi di Laing, Frith,
Chambers e di tanti altri sino a Savage1, che hanno ac-
compagnato la nascita e lo sviluppo del punk. Ma tale
affermazione è in parte fuorviante per un motivo intrin-
seco all’assoluta novità di questo movimento. Se non si è
trattato solo di mera curiosità per un fenomeno di folk-
lore giovanile-urbano è soprattutto perché la “rivolta
punk” si è costituita auto-teorizzandosi, mettendo in
scena e in pratica una propria teoria sociale, antropologi-
ca, semiotica. Certo, ogni movimento, si dirà, possiede
una “propria teoria implicita”, una propria visione del
mondo. Ma non si tratta di questo. Come non si è tratta-
to solo di uno sguardo – perlomeno da parte di molti di
questi studiosi e scrittori – verso “topi di laboratorio”
(anche se la metafora ben si addice al punk, con la sua
iconizzazione di temi come “vita nei bassifondi tra i ri-
fiuti della società metropolitana”). Molto più di altri
movimenti subculturali – meglio potremmo definirli og-
gi “alterculturali” – e per la prima volta in modo così to-
tale, il punk esprime esplicitamente, a partire da se stes-
so, un carattere di intellettuale radicalità, anche se si
tratta di una intellettualità sui generis; che potrebbe,
con le dovute proporzioni e adattamenti, richiamare, al-
la lontana, un’idea gramsciana di intellettuale.
Anzi, si potrebbe dire che è la prima volta di un mo-
vimento che non solo esibisce la propria “autoconsape-
volezza” (movimento “giovanile”, termine certo insop-
portabile, ma valido nel senso di quel nuovo fenomeno
che si produce nel secondo dopoguerra, e inteso come
nascita di forme estetico-culturali e musicali, indirizzate
prima a un pubblico di giovani e poi praticate dagli stes-
si, e che si incrociano con l’avvento della cultura di mas-
sa); ma che teorizza le forme della propria produzione,
delle proprie azioni e del proprio senso. E soprattutto,
oltre a teorizzare, progetta e soprattutto mette in atto
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

pratiche coerenti con questa teoria. Pratiche totalizzanti


(comportarsi, vestirsi, inventare un certo tipo di musica,
ma poi anche produrla, costituire circuiti indipendenti).
Tuttavia, non si tratta qui di un vezzo, di una pretesa di
“giocare a fare” gli intellettuali, o gli artisti, seppur ci-
tando esplicitamente dada e futurismo e poi Burroughs,
così come lettrismo e situazionismo (e in realtà non si
tratta di citazioni: casomai di rivendicazioni di apparte-
nenza, di appropriazioni). Anzi, al contrario: il punk po-
ne il gesto del disprezzo contro ogni sorta di intellettua-
lismo, o meglio dello sberleffo umoristico; della provo-
cazione e della perversione, contro il “pensatore” isolato
e contro il sapere istituzionale; così come verso il critico,
artistico o musicale, che pretende di giudicare seduto
nella poltrona del suo studio.
Ciò trova, certo, una corrispondenza anche nel gioco
al complotto, alla manipolazione dei media, alla beffa,
alla “grande truffa”, o al détournement – inventato dai
situazionisti e ripreso dai punk – che appunto del situa-
zionismo sono talvolta concreti continuatori. Pensiamo
in questo senso al fin troppo noto caso, esagerato dai
media, ma paradigmatico, del manager dei Sex Pistols,
Malcom McClaren, a partire dal quale, nell’estate del
1977, si scatenò, con grande scandalo, il lancio del grup-
po dei Pistols in pieno Giubileo della regina, e l’interes-
se della stampa per la nascente scena punk. Tuttavia, an-
che in questo caso non si tratta, come invece è stato
spesso sostenuto, di freddo “gioco a tavolino”, di cini-
smo, di furbo lancio di un prodotto da parte di chi ave-
va studiato i media e lavorava sulla guerriglia semiologi-
ca (cfr. Fabbri P. 2002, p. 40), di una tattica che sarebbe
poi stata facilmente sfruttata e fatta propria da quel mo-
mento in avanti dall’industria culturale mainstream. No:
la dichiarazione di ricerca di una genuinità è parte in-
trinseca della cultura punk; ed è casomai la denuncia,
tuttavia condotta sotto forma di ostentazione – quest’ul-
 FEDERICO MONTANARI

tima però portata avanti lavorando il profilo estetico e


delle forme espressive e non solo di contenuto – a essere
al centro del punk. Scrive a questo proposito King nel
suo romanzo Human punk, sorta di libro-epopea di que-
sta cultura:

Io non ho mai creduto a tutte quelle coglionate che il


punk sarebbe cominciato a New York, parte di un piano
furbissimo di quel genio di Malcom McLaren: il punto di
vista del ragazzo medio è diverso da quello dell’establish-
ment, le vittime della moda e gli interessi economici che
vedono nel punk nient’altro che spille da balia e i bidoni
dei rifiuti, roba da scuola d’arte. Il mio punk era musica
anti-moda, musica da boot-boy, con dei testi sulla vita di
ogni giorno. Dr Feelgood e gli Slade sono più importanti
della mia idea di punk che tutti gli Iggy Pop e New York
Dolls di questo mondo… il punk aveva sgamato la faccen-
da ma teneva il suo senso dell’umorismo, che si prendeva
per il culo da solo. Il punk è la mia vita, e ci sono milioni
di storie, dipende se sei uno che viene da Finsbury Park,
Ladbroke Grove, Hersham, Swindom, Slough, o Leeds, o
un villaggio delle Midlands o una valle gallese, da Belfast o
da una città di mare in Scozia… Ed è quella cosa da ricor-
dare, che punk è solamente un’etichetta. Vuol dire tutto e
niente (p. 281).

Ma dove inizia questo “tutto” e dove questo “nien-


te”? Proviamo a valutare la forma di questa tensione
che, come vedremo, si instaura fra valori che sono al
tempo stesso estetici, morali e pragmatici; tensione che
c’entra con il problema delle droghe.

La cultura hippy si era considerevolmente normalizzata:


per la prima volta l’anticonformismo aveva accettato il
fast-food. Significava dire di sì al mondo moderno. Il
punk, come Warhol, s’impadroniva di tutto ciò che la
gente acculturata e gli hippies detestavano: plastica, cibo
dozzinale, film scadenti, pubblicità arricchimento – an-
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

che se mai nessuno si arricchì. C’era insofferenza per la


gente per bene che esortava a comportarsi in modo sano
e corretto. Il punk fu nuovo e liberatorio: pensare di fu-
mare sessanta sigarette al giorno e stare svegli tutta la
notte in anfetamina2.

Prima di arrivare alla questione centrale delle dro-


ghe, vogliamo insistere ancora su questo punto e valu-
tarne le implicazioni. Dicevamo che si pone qui la figura
di una intellettualità nuova: intellettuale “anti intellet-
tualistico”, che produce mentre osserva e si autosserva;
che lavora in autonomia mentre teorizza; che magari
suona il basso in un gruppo, o che scrive su una fanzine
mentre insegna all’università (è il caso di alcuni musicisti
della scena punk californiana, così come magari tipico
di tanti ricercatori nel campo della popular music). Ma
non si tratta di riesumare, come è stato spesso fatto, il
consunto termine di “coscienza” – di sé o di autoconsa-
pevolezza (cfr. Fabbri P. 2002; Pedrini 1998). Il proble-
ma è un altro, ed è interessante per una semiotica delle
culture: quello dell’autorappresentazione.
Cosa intendiamo per autorappresentazione? Pren-
diamo gli studi di Lotman sulla cultura dell’XIX secolo
in Russia e in particolare sui decabristi. (E verrebbe
da dire che, forse, i punk, romantici e rigorosi, ribelli
ma attenti al gesto, al vestire e all’atteggiarsi, attraver-
so una pratica di vita che deve essere letteratura e poe-
sia, non sono poi lontanissimi, fatte le debite propor-
zioni – piccolo borghesi e non certo di provenienza
dagli alti strati della società – da quegli strani rivolu-
zionari di inizio Ottocento). Lotman ci propone que-
sta definizione di autorappresentazione, in termini di
semiotica delle culture: innanzi tutto non si tratta di
una generica idea di “consapevolezza”; tutt’altro: egli
sottolinea l’importanza che la vita quotidiana “diventi
teatrale”. “Il considerare la vita reale come uno spetta-
colo oltreché mettere l’uomo in grado di scegliere il
 FEDERICO MONTANARI

proprio tipo di comportamento individuale, lo riempi-


va di aspettativa di avvenimenti. L’intreccio, cioè la
possibilità di eventi inattesi, di rivolgimenti improvvi-
si, divenne la norma” (Lotman 1962-75, p. 162). Dun-
que questi giovani rivoluzionari, dice Lotman, attinge-
vano da un’idea di vita quotidiana come teatro, e que-
sto li liberava dall’idea di conformarsi a regole e com-
portamenti precostituiti, fuori dall’automatico potere
della consuetudine. Certo che in seguito questa teatra-
lità e letterarietà capaci di liberare, si riveleranno poi,
come afferma lo stesso Lotman, “norma di gruppo che
sarà d’ostacolo alla manifestazione individuale della
personalità”. Ma ciò non è affatto in contraddizione
con i caratteri del punk, potrà casomai essere detona-
tore, causa scatenante di nuove affermazioni, nuove
identità, nuove diaspore. E infatti altro tratto tipico
della cultura punk sarà anche questa capacità di “ridi-
colizzarsi da solo”. Non tanto di autolegittimarsi ma
casomai di autodelegittimarsi, di dichiarare non più
vere le regole che esso stesso si era posto. Non pren-
dersi sul serio, troppo. E inoltre: “vita reale”. E la
stessa vita come “teatro quotidiano”. Insiste il prota-
gonista del romanzo Human Punk:

Mi aveva detto di osservare bene il prossimo gatto che


avrei visto. Quelli dormono quasi tutto il giorno, ma sen-
tono un sospiro e sono svegli in un attimo, pronti e aller-
ta. Mi ha detto che il segreto è uscire fuori dal modo di
pensare Bene-Male, Destra-Sinistra: che se davvero vuoi
pensare per te non ti puoi nascondere dietro nessun
gruppo, ti devi staccare dalle regole stabilite. Aveva ra-
gione a dire che la gente si prende troppo sul serio. Tutti
concetti che c’entrano con il punk, che aveva un sacco di
cose da dire ma continuava a prendersi per il culo da so-
lo, cambiando pagina e rompendo le sue regole stesse,
sempre un passo avanti, cambiando e continuando senza
guardare in faccia (p. 260).
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

Tuttavia fare spettacolo di se stessi è anche presenta-


re un’attitudine diversa nei riguardi del futuro. Nel
punk, questo teatro e questo spettacolo si connette di-
rettamente con le forme della sua stessa letteratura e
pratica artistica, con quelle che la stessa cultura punk
inventa “here and now”, in quel momento. I suoi testi, i
suoi poeti e le sue canzoni. E questo si connette proprio
con la capacità autorappresentativa, ma appunto in
quanto autoproduttiva, di quella cultura. Prosegue
King:

La nostra educazione è stato il punk, dove le parole ri-


flettevano le nostre vite, c’entravano con le cose che ve-
devamo e sentivamo, i testi li avevano scritti della gente
che rispettavamo, cose scritte dal didentro guardando al-
l’esterno, invece che dai soliti estranei che guardano di-
dentro. Tutto quello che abbiamo avuto a scuola è stato
uno spillo mezzo storto piantato su date di battaglia e
politica degli Stati, le teste ben disegnate dei nostri si-
gnori e padroni, i loro vestiti tutti colorati, torri di castel-
li che facevano sembrare gli spurghi di fuori dei nani,
contadini grigi chiusi in tuguri fuori dalle mura, servi
senza volto che biascicavano rape. Noi sapevamo dove
vivevamo, ma avevamo più colore e cultura dei tiraseghe
con la puzza sotto il naso che facevano i fighi dentro il
castello. La solfa che ci rifilavano non voleva dir niente,
tanto noiosa e fuori dal mondo che gli credevamo vera-
mente ai prof che ci davano dei deficienti, perché non
riuscivamo a rimanere interessati per abbastanza tempo
da capire dove paravano. Là dentro non c’era niente per
noi, quindi ci siam tuffati nella musica, e smetterla con la
scuola era un ghigno unico (pp. 154-155).

Teppismo e ribellismo da ragazzini che si trasforma-


no: diventano geopolitica, storia e poesia. Non solo: for-
ma di educazione e di autoeducazione. E inoltre rivendi-
cazione praticata e concreta, immediata, di una identità
collettiva, di uno stare assieme.
 FEDERICO MONTANARI

2. An other kind of blues?: “an other kind of tension”!

Ed è qui che interviene la questione delle droghe;


tuttavia ancora una volta in una maniera specifica, ano-
mala rispetto alle pratiche estetico-culturali precedenti,
di sottoculture o controculture. La droga non è mai sta-
ta al centro degli interessi della cultura punk. Tuttavia,
proprio per questo, per contrasto, e per motivi parados-
sali – in apparenza l’uso è di tipo prettamente pratico-
funzionale – vi è un motivo di interesse al problema del-
le sostanze. Intanto droga per il punk può essere birra,
pacchetti di sigarette, e soprattutto sostanze a buon
prezzo “da ragazzini dei sobborghi”: come lo sniffare
colla – «Sniffin’ glue» sarà il nome autoironico di una
delle prime e storiche riviste, fanzines della scena punk –
e solventi, o prendere il solfato, lo speed – uno stimolan-
te a base di anfetamine – o medicine sempre a contenu-
to di anfetamine tipo il plegine. Roba che fa star svegli a
saltare e ballare per ore; che provoca scariche di adrena-
lina e gran voglia di contatti con gli altri; contro la coca
(la droga dei giovani ricchi, o dei manager rampanti, de-
gli yuppies degli anni a venire), contro l’eroina (roba da
hippies, figli di papà, “mai fidarti di un hippy” recita
uno slogan ricorrente); forse qualche acido ogni tanto;
l’erba e l’hashish adatte più per chi sente “musica lenta”
(come il reggae), anche se presto, in questo senso, le
commistioni e le mescolanze si faranno interessanti, pro-
ducendo ibridi musicali e culturali innovativi.
A questo proposito Pedrini (1998, pp. 25-26) ricor-
da come un noto mensile di cultura hippy e under-
ground come «Re Nudo» qualche anno prima bollasse
come “fascista” l’anfetamina. “Droga fascista e popola-
re”, peggiore quasi dell’allora droga dei ricchi, la co-
caina. Aggiunge l’autore, che è esattamente per questo
che il punk attacca la controcultura hippy che l’ha im-
mediatamente preceduto: oltre per il tradimento di va-
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

lori e lotte, per questa sua “puzza sotto il naso”, da al-


ternativi figli di papà, e tipica di certa sinistra intellet-
tuale, spesso radical chic e tutto sommato aristocratica.
Al contrario “se c’era bisogno di una cosa, a quell’epo-
ca era la velocità”.
Quello che è anche rilevante è la modalità d’uso di
queste sostanze “povere” e da quartiere di periferia. Uti-
lizzo – e solo in apparenza banale – in una sorta di con-
catenamenti sintagmatici, con altre sostanze, ma che in-
vece rendono l’idea di una sorta di serialità contingente
e di una causalità immanente: ancora una volta “here
and now”, senza nessuna pretesa di attribuire alle so-
stanze valori di trascendenza, come poteva essere invece
in certi casi per l’LSD (“il Viaggio, la Ricerca”) o l’eroina
(“la Verità sulla vita”): lo speed e le anfetamine fanno
più che altro venire molta agitazione e sete e dunque vo-
glia di birra…; e questo in correlazione soprattutto con
la musica. Ed è qui allora necessario ricordare, seppur
per sommi capi, i tratti musicali tipici del punk – certo
tenendo sempre conto delle sue tante varianti originarie
e negli sviluppi successivi. Attacchi fulminei, ritmo velo-
ce o velocissimo, batteria suonata in modo scarno ed es-
senziale; basso pulsante e incalzante che fornisce una
scarna corrispondenza al giro, alla serie di accordi ese-
guiti da chitarre distorte, in maniera compatta e in suc-
cessione rapida, senza assolo, senza fronzoli, senza varia-
zioni. La voce è spesso un talk over – quando non si fa
cantilena da ballata popolare, o spesso canto che imita,
in cadenza cockney, i cori da stadio – anticipando così il
rap e l’hip-hop, che verrà infatti considerato vicino al
punk (“punk nero” dirà Savage); un recitativo che grida
slogan politici o denunce e “discorsi” sociali. Il talking
blues sembra essere una delle fonti, tanto che un ottimo
gruppo punk, gli UK Subs, farà uscire un disco dal titolo
An other kind of blues. Dunque questo altro, strano tipo
di blues, dotato di caratteri ibridi, sottrattivo (“toglie”
 FEDERICO MONTANARI

elementi, in una poetica del “togliere” anziché del “por-


re”, come dice Fabbri F. 2002, pp. 171-172, per il reg-
gae); capace di farsi essenziale, spesso scheletrica nella
struttura – ma fulminea nell’energia e nell’intensità del-
l’esecuzione – di rifiutare le fioriture, gli orpelli, i virtuo-
sismi solistici tipici del rock (classico e “progressive”)
degli anni immediatamente precedenti.
Le velocità, gli improvvisi cambi di velocità, gli stac-
chi e gli attacchi sembrano essere i caratteri tipici, più
che i crescendo o le accelerazioni. Non ci sono tappeti
sonori fatti di strumentazioni elettroniche. Se nella musi-
ca “da ballare” successiva (soprattutto con l’house e la
techno dei decenni successivi), come afferma Fabbri (F.,
citando Tagg) “lo sfondo diventa la figura”, nel punk, al
contrario, figura e sfondo sembrano coincidere in serie
pulsanti; nell’impasto dei suoni anche la voce del cantan-
te “viene dallo sfondo”: la figura è la superficie unica.
Dunque questo tipo di droghe povere sembra funzio-
nale a tale musica, o meglio: coerente nella forma e negli
effetti; un po’, ma con segno opposto, come lo saranno
nei decenni a venire sostanze che erediteranno tali fun-
zioni, come l’ecstasy per la musica techno e rave. La so-
stanza è qui un Aiutante – alla socialità, alla strada, al
concerto, alla vita –, non è certo dotata dei valori mitici
o rituali, come era avvenuto per le epoche immediata-
mente precedenti. Ma l’elemento centrale sembra essere
l’altro: quello della coerenza e dell’aderenza; di forma e
sostanza, potremmo dire. Dell’immanenza degli effetti e
delle pratiche. Del rifiuto di ogni trascendenza (mistica,
politica, artistica, estetica).
Come accennavamo sopra, vi è un altro tratto, com-
ponente della musica, della poetica e dunque delle “so-
stanze” punk. Si tratta di una serialità speciale che pren-
de varie sembianze. Nella musica; nella pratica di uso
delle sostanze stesse; nei testi e nella grafica – fatta di col-
lages dadaisti, di cut-up e fold-in alla Burroughs. Si tratta,
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

in generale, ci ricorda ancora Deleuze (1986) a proposito


di questo tipo di esperienze di sperimentazione artistica,
di lavoro ai bordi del linguaggio: sia esso scritto, visivo,
musicale, vestimentario, questi bordi vengono ripiegati,
sovrapposti e accartocciati. E la serie, questa volta, come
forma del movimento, delle pratiche di azione quotidia-
na, la ritroviamo nel costituirsi come di una scia, una
muta che attraversa le periferie metropolitane. E questo,
dello spostarsi, del movimento che attraversa la città,
sembra essere uno dei tratti del punk; tratto che lo lega,
in parte, ad altri movimenti che lo precedono, come il si-
tuazionismo e la sua idea di psicogeografia e di rivisita-
zione dei percorsi e delle mappe della città.
Traveling infinito durante le sere d’estate, dopo la
scuola, nelle strade delle città: il pub, ubriacarsi di bir-
ra lager, prendere le “anfe”; i concerti nei club, le ra-
gazze.

Iniziavo a dipendere psicologicamente dalle strade, dai


muri, dall’asfalto. Ideologicamente la città era l’unico luo-
go possibile. Occorreva girarla in lungo e in largo, girare il
più possibile, in autobus, a piedi, in motorino. Vedere dif-
ferenti scenari urbani era appropriarsi delle vie di chi ci
abitava. Io rappresentavo la città, e la città rappresentava
me (Pedrini 1998, p. 23).

Aggiunge Pedrini: “Il rapporto del punk con la città


è talmente profondo da chiedersi se e in qualche misura
sia davvero necessario sottolinearlo ulteriormente”. Cre-
diamo che ciò sia vero, ma non per trovare sovrainter-
pretazioni (profonde o inconsce); solo per ritrovarne le
sue componenti immanenti: lo spostamento, le sue acce-
lerazioni, le sue velocità, i suoi scontri e incontri con al-
tri esseri (veicoli, umani, cose) le sue forme e i suoi stili
corporei e prossemici. Movimento più che “baudrillar-
diano” (nel senso di un atteggiamento rivolto al gioco
della simulazione), diremmo “foucaultiano”?
 FEDERICO MONTANARI

Senza nessuna intenzione di appiccicare etichette,


sorta di “patenti” di abilitazione a posteriori – che pe-
raltro sarebbe in totale contraddizione con quanto affer-
mato sopra su questo movimento – è importante co-
munque rilevare la significativa somiglianza con quanto
sottolineato da Foucault quasi proprio in quegli stessi
anni. Non solo sulla questione delle pratiche, ma preci-
samente sulla politica e sui movimenti: sull’intrinseco le-
game fra formazioni discorsive, pratiche e filosofia poli-
tica. Si tratta del legame fra le formazioni discorsive da
un lato e le immagini dall’altro: delle forme, delle strate-
gie e delle forze in campo; laddove il potere è sempre
questione di relazioni e di rapporti di forza. A esso cor-
rispondono allora sempre nuovi fuochi di resistenza, in
buona parte non prevedibili, che si collocano nelle pros-
simità di curve tendenziali, percorsi che descrivono pra-
tiche, modi di agire, dunque strategie immanenti.
Inoltre, per quanto riguarda il rapporto con le pre-
sunte “rappresentazioni” che accompagnano tali prati-
che, non si tratta di un rapporto né solo di “parole”, né
soltanto di “cose” (come sottolineato da Deleuze, nel
suo lavoro dedicato a Foucault, 1986, pp. 20-23, 29): gli
enunciati formano parole e oggetti, costituendoli come
loro funzioni ed esprimendoli; e le cose – ma con queste
le immagini, le pratiche, le azioni – divengono al tempo
stesso piano del contenuto di questi enunciati, pur man-
tenendone la loro irriducibilità. Il problema è la soglia,
la sottile striscia, come dice Deleuze, fra l’immagine del-
la pipa e l’enunciato “questa non è una pipa”. Striscia
neutra, argentea in cui i colori e la luce si mescolano, ma
già pronta anche a contenere la parola. È su questa sotti-
le linea, sempre pronta a farsi piano di espressione, sem-
pre pronta a diventare contenuto, che lavorano il punk e
tutti i suoi materiali, comprese le droghe. E qui resta a
maggior ragione valida l’indicazione data sempre da De-
leuze, qualche anno prima, sulla psichedelia e sulla con-
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

trocultura americana – non sempre così aprioristicamen-


te contrapposta al punk, ma in qualche caso, come si è
visto sopra, in continuità con esso: pensiamo appunto a
Burroughs, all’underground newyorkese o a Patti Smith,
su quella stessa linea di “sperimentazione sulla superfi-
cie del piano dell’espressione”. Non si può rinunciare
alla possibilità che gli effetti della droga o dell’alcool (le
loro “rivelazioni”) possano essere rivissuti e recuperati
per se stessi alla superficie del mondo, indipendente-
mente dall’uso delle sostanze, se le tecniche di alienazio-
ne sociale che lo determinano sono convertite in mezzi
di esplorazione rivoluzionaria. Burroughs scrive su que-
sto punto strane pagine che testimoniano di questa ri-
cerca della grande Salute, il nostro modo di essere pii:
“Pensate che tutto ciò che possiamo raggiungere per vie
chimiche è accessibile attraverso altre vie, mitragliamen-
to della superficie per trasmutare il pugnalamento dei
corpi, oh psichedelia” (Deleuze 1969, p. 144). Piuttosto,
se le controculture anni Sessanta e primi Settanta punta-
vano su un’idea di “liberazione” dell’espressione (colori-
smo, flower power, scivolamenti in altri mondi), il punk,
nero come l’asfalto delle metropoli, punta sull’iperreali-
smo, meglio, sulla descrizione della “sur-realtà”; una
realtà da cui si tratta comunque di estrarre i punti note-
voli, i nodi e di qui i fuochi di resistenza, per poi “rin-
tracciare la storia che libera i suoni e rende indipendenti
i corpi” (p. 165).
Ecco in quale senso, concreto, la prassi si fa immedia-
tamente teoria; autoproduzione musicale – di qui l’inven-
zione del circuito delle etichette indipendenti; delle rivi-
ste, delle fanzines, poi dei libri. E fin qui, potrebbe sem-
brare, niente poi di tanto diverso dalla controcultura
hippy, e in parziale continuità con la produzione di cul-
tura e di eventi underground dei primi anni Settanta, fra
Londra, Parigi, New York (fra moda pop, riviste di agita-
tori artistici e culturali, ecc.)3. Invece, la diversità diventa
 FEDERICO MONTANARI

totale in quanto affermata, autoaffermata, proclamata co-


me differenza ma non alterità, rispetto al resto del mon-
do. Il mondo, la città, il quartiere sono qui e noi siamo
nel mondo. Il problema è la sottrazione, la distinzione e
soprattutto attraverso quale forma e sostanza (estetico-
percettiva e pratica prima che politica) essa si produca.
Rinuncia al mondo rimanendo ben vivi nel mondo.
Se quello che vi è di più, in generale, è la messa in
circolazione di un sapere e di un saper fare autonomi – e
già nella forma delle reti, anticipazione di quello che sa-
ranno Internet e il suo uso da parte dei movimenti glo-
bali del nuovo secolo –, d’altro lato, la cultura punk – e
interessa qui il punk per un problema culturale in senso
ampio più che musicologico, di genere – si costituisce
soprattutto come “metamovimento”.

3. I molti colori del nero: estetica e assiologia

Di qui la capacità del punk di contrapporsi ad “al-


tro” (altre scene musicali, altre culture, altri generi), ma
al contempo di ricodificare tutte le altre scene musicali e
culturali circostanti: ridefinendo così i suoi antesignani, i
suoi nemici e i suoi confini; le sue ispirazioni, i suoi aiu-
tanti e i suoi avversari; così come il predisporsi a diaspo-
re, e rivendicazioni, da parte dei suoi esponenti, di una
maggiore e più vera autenticità e radicalità rispetto ad
altri artisti o gruppi. Di qui anche il carattere della cul-
tura punk di lavorare per sintesi, collages e “campiona-
menti” di tutti gli stili precedenti (non solo in rapporto
alla musica e prima che la tecnologia musicale rendesse
disponibili le macchine) – paradossalmente, vista la sua
vocazione alla rottura – e di tutta la storia del pop (cfr.
Savage 1991).
Infine essa, e proprio per questa capacità “metaos-
servativa”, è in grado di costituirsi come una sorta di
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

“intercodice”: canale di intercomunicazione e di tradu-


zione di tutti i generi e gli stili (dal reggae, che trionfa in
quegli anni, alle altre musiche nere, le diverse forme di
“rock da pub”, alle controculture degli anni Sessanta, ai
teddy boys, ai rockers). Non si tratta certo di mediazio-
ne, o di mero bricolage: il “supermarket degli stili” (per
come lo definirà Polhemus) è ancora di là da venire e
rappresenterà piuttosto la normalizzazione, la risposta
dell’industria culturale degli anni successivi. Traduzione
e intercomunicazione sono processi caratterizzanti il
punk, ma si costituiscono al loro interno attraverso com-
ponenti specifiche che sembrano tipiche di questa cultu-
ra. Piuttosto, ancora una volta sembrano essere tipiche
le tecniche del collage e del cut-up.
L’elemento principale sul piano delle strutture di si-
gnificato è dato dalla tensione semantica fra queste cate-
gorie di diaspora e auto- o meta rappresentazione4. Dia-
spora verso tutti i generi e gli stili musicali e culturali al-
l’esterno; così come verso il proprio interno, in un conti-
nuo inseguimento fra originalità, tradimenti, autenticità.
(Ad esempio, fra “punk della prima ora”, “vero punk”,
o “essenziale”, punk commerciale o “modaiolo” da “fa-
shion victim”, e nella precessione dei diversi generi e
sottogeneri, connotati come “autonomi”, più o meno ra-
dicali o di sinistra o anarchici, o al contrario con conno-
tazioni meno marcate politicamente e con riferimenti al-
la cultura popolare o alla vita quotidiana, ecc.). Questo
anche attraverso l’espressione di diversi stili estetico-
musicali – brani più o meno veloci e compatti, uso di un
certo tipo di testi, con parole più o meno esplicite, con
riferimenti, si diceva sopra, a cori tipici magari dei tifosi
del calcio ecc. – e nei codici vestimentari. Di qui al tem-
po stesso l’opposizione, cui si faceva riferimento, alla
cultura hippy.
In questa direzione può essere solo in parte accettata
l’affermazione del musicologo Franco Fabbri, secondo il
 FEDERICO MONTANARI

quale con il punk ci troviamo di fronte per la prima vol-


ta a un “genere musicale che si autodefinisce consape-
volmente nell’ambito della cultura rock” (Fabbri P.
2002, p. 40). Sicuramente. Tuttavia, in questo senso tale
caratteristica va estesa a tutto il movimento, non isolan-
done gli elementi strettamente musicali. Prosegue a tale
proposito Fabbri affermando che i punk traggono il
massimo vantaggio dalle caratteristiche della comunica-
zione di massa. Ma ecco emergere ancora il problema
accennato sopra, punto controverso fondamentale per la
nostra questione. Continua infatti lo studioso, sottoli-
neando un punto che avevamo anticipato sopra:

I musicisti punk inglesi non sono, come riescono abilmen-


te a rappresentarsi, sottoproletari urbani colpiti dalla crisi
economica che ha investito l’Europa dopo la crisi petroli-
fera del ’73: sono in buona parte studenti delle art schools,
così come lo sono stati tutti i principali esponenti del rock
a cominciare dai Beatles, fino agli odiati virtuosi del pro-
gressive. Ma proprio per questo sono giovani intellettuali
che conoscono i media: i Sex Pistols – che riescono a im-
porsi fulmineamente strappando alle case discografiche
contratti tanto vantaggiosi quanto volgari e aggressivi sono
i loro insulti ai discografici medesimi, alle istituzioni, al
pubblico – sono prodotti da Malcom McLaren un seguace
dell’Internazionale Situazionista. In qualche modo il punk
porta all’industria musicale una consapevolezza della pro-
pria capacità di manipolare ciò che fino ad allora era sem-
brato fuori portata, e cioè la consistenza stessa delle sotto-
culture (…) (ib.).

Il problema, in realtà, per il punk sembra essere pro-


prio l’opposto (e al di là dell’esagerazione del già citato
“caso dei Sex Pistols” e del loro “complotto”). Quello di
smascherare i meccanismi della produzione e del sistema
del mercato e dei media, non attraverso la “denuncia”
ma spingendone sino in fondo le leve stesse. Non si tratta
tanto del fatto che i punk “siano” o non “siano” o “rie-
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

scano abilmente a rappresentarsi”: non è un mero gioco


di finzione né tantomeno di furbesca o semplice manipo-
lazione dei media o del pubblico. Si tratta di attaccare si-
no alla radice la realtà stessa, non solo smascherare, ma
mostrare, svergognare, offendere, sbeffeggiare, attaccare,
e fuggire dalla propria provenienza piccolo borghese,
con le proprie ipocrisie, e soprattutto “fare altro” e com-
portarsi e mostrarsi diversamente; costi quel che costi.
Non si tratta di cinici e disincantanti figli della borghesia
che frequentano istituti d’arte ma, al limite, del miscuglio
fra questi e i rude boys dei quartieri periferici europei o
delle “new towns” inglesi, figli di un welfare oramai in
piena crisi, che vivono negli squat e del sussidio di disoc-
cupazione; e in attesa del repulisti della Thatcher (in feli-
ce compagnia col suo caro amico Ronald Reagan: dere-
gulation & guerre stellari).
Si tratta in ogni caso di un’opposizione estetica. Ed
ecco allora che torna sotto altre forme la questione delle
sostanze e delle droghe. Come dice Siouxsie, una delle
cantanti della prima scena punk:

Detestavo la strada in cui abitavamo, ai margini della pic-


cola borghesia. In un certo senso più puritana della stessa
piccola borghesia, quasi maligna. Mia sorella ballava nei
locali notturni: quella fu una delle mie vie d’uscita. Anda-
vo con lei… luci abbaglianti, completamente irreale. Alcu-
ni pub erano per metà gay e per metà regolari. C’erano di-
sco Tex… Bowie e i Roxy; Barry White era grandissimo
(in Savage 1991, p. 167).

Le luci, i lustrini i colori delle discoteche, e i trucchi


del glam rock: cosa c’entrano con la rottura, con la radi-
calità punk? Ecco l’elemento ulteriore della novità del
punk e che è in stretta relazione con l’argomento centra-
le di questo saggio: le droghe.
Il problema qui, non colto o svalutato dagli ambienti
“alternativi” di quegli anni (il rock progressivo, le con-
 FEDERICO MONTANARI

troculture hippies, e i critici musicali), è la via nuova


praticata dal punk: via estetica che attraversa e cattura i
“segni dei tempi” – i materiali, i vestiti, le capigliature, i
trucchi, e li rimette a disposizione in una tavolozza di di-
sposizioni infinite e ricombinabili. I trucchi colorano i
capelli, i capelli si impastano e si cristallizzano, le facce
si deformano in smorfie. I corpi, specie quelli dei musi-
cisti durante i gigs, si irrigidiscono o sono in preda a
spasmi da epilettici o da psicopatici. La musica si fa
compatta, velocissima e breve, pochi accordi con attac-
chi fulminei e arresti repentini. Quello che conta è co-
munque ancora una volta la velocità: Speed.
Forse, come è stato più volte detto, in qualche mo-
do i punk portano sino il fondo il situazionismo. Ma
addirittura ne rovesciano lo stesso punto di arrivo
(contro un Guy Debord oramai dogmatico e neo-hege-
liano): non più l’antitesi e lo smascheramento e la sola
denuncia della società dello spettacolo. In fin dei conti
gli artisti del circuito lettrista e poi situazionista (tran-
ne alcune eccezioni), o quelli delle neoavanguardie,
portavano ancora la giacca e la cravatta dei loro avver-
sari… Gli hippies e prima di loro i beatnik già si cam-
biano d’abito e di segno. Ma la denuncia è verso l’ipo-
crisia e il riflusso degli ex hippies che vivono oramai
del mainstream del grande business del rock e della
pop music primi anni Settanta.
Al contrario: si tratta ora di fare di se stessi – nelle
strade della città e dei suoi sobborghi – uno spettacolo.
Fare dei propri corpi uno spettacolo, un palcoscenico o
un tableau vivant; dei propri capelli, della propria pelle
una pellicola. I segni impressi su questa pellicola sono
ben noti. Uso per la prima volta del piercing, capigliatu-
re come da “rasta bianchi” ma con le punte multicolori
(cfr. Hebdige 1979); dunque trionfo per la prima volta
del meticciato culturale e del bricolage fra le diverse
subculture. La musica stessa comincia da subito a rime-
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

scolarsi con le musiche nere, il funk o il reggae, o con la


sperimentazione elettronica. Jeans strappati; trucchi,
materiali e accessori fetish, collari sadomaso (il sesso con
le calze a rete e le minigonne di plastica, diventa solo
parte di questa circolazione dei segni), uniformi militari.
Molti di questi tratti, spesso anticipati nella boutique
Sex dalla futura famosissima stilista Vivienne Westwood,
allora compagna di avventura di McClaren, passeranno
sia nelle mode di strada che in quella ufficiale. Per la
prima volta in una “cultura di strada” troviamo concate-
namenti di enunciati eterogenei (eteromaterici) che si ri-
combinano tra loro producendo un affollamento dei se-
gni sui corpi, nei concerti, nelle strade e fra i gruppi.
Pensiamo, per concludere, al nero. Il nero viene rein-
ventato prima come colore del materiale di recupero
(plastica); come sostanza per forme diverse (il “chiodo”,
giubbotto di pelle da motociclisti, da rockers, trafitto da
infinite spille, badges, ossa, immagini; gli scarponi Doc-
tor martens che facevano “vero stile proletario” degli
skinheads). Come ricorda Savage (1991, p. 29), citando
Malcom McLaren: “Il nero è il colore più eccitante
(Goya): quando viene impiegato in modi diversi, il nero
risulta il più infinito e misterioso, il più libero e spaziale”.
Più in generale esso diventa una sorta di schermo (lo
schermo nero, saturo); di supporto su cui installare il re-
sto della panoplia dei segni punk (badges, spille, colori,
simboli politici). La scandalosa svastica della primissima
ora del punk, intesa ora come “siamo noi i figli dell’Euro-
pa di Auschwitz e Bergen Belsen”, ora più semplicemente
come segno tracciato sul muro o sul diario dal “ragazzino
incazzato”; e, per questi due elementi associati, forse più
vicina all’altro segno della prima ora che a un simbolo po-
litico, la spilla da balia che fora la pelle: nella rottura lette-
rale, del bucare, nello spaccare. Pugno o sputo in un oc-
chio – simboli assai presto sostituiti dalla A cerchiata di
un inaspettato ritorno dei movimenti anarchici5.
 FEDERICO MONTANARI

Ma allora l’interesse per il caos, ricordato nella frase


in esergo a questo articolo, va qui preso alla lettera e an-
cora una volta in relazione con la questione delle dro-
ghe: non solo “interessati a scatenare il caos” ma soprat-
tutto “interessati a vedere, sperimentare cosa accade nel
caos dei mescolamenti e dei contrasti”. Alle velocità che
prendono questi mescolamenti e contrasti. La droga è
per il punk solo una fra le tante sostanze e forme possi-
bili del grande cut-up.

1
Oltre a Hebdige 1979 facciamo riferimento a Laing 1985; e a studiosi
come Chambers (1982) o Tagg (1994) e a Savage (1991), in cui si trovano le
fonti bibliografiche sia primarie (con fanzines) che secondarie, oltre che una
completa discografia.
2
Dall’intervista di Mary Harron, giornalista della rivista newyorkese
«Punk», 1975, citata in Savage 1991, p. 152. La storia è nota e ripresa in molti
dei libri che trattano del punk (Laing, cit. in Savage 1991; Pedrini 1998). Ed è
già interessante il fatto che, come segnalato dagli studiosi, il termine “punk”
circolasse da qualche tempo nel gergo delle culture musicali underground in
particolare negli Usa. E soprattutto che fosse sin dal 1975 il nome di una rivi-
sta. Tuttavia ciò che è anche in questo caso interessante è il riutilizzo, la riedi-
zione e ritraduzione di concetti, elementi, sia musicali che di altri tipi di lin-
guaggi, in nuove forme sia espressive che di contenuto. E, ancora una volta,
l’idea di “autorappresentazione”.
3
Si veda in questo Savage 1991, pp. 34-70, e Marcus 1989, in part., pp.
356-385. Entrambi gli autori sottolineano qui il brodo di coltura del punk,
perlomeno nella sua versione di cultura e pratica underground, con i diversi
gruppi neosituazionisti o di artisti che si muovono nella Londra dei primi an-
ni Settanta, con collegamenti newyorkesi e parigini.
4
Così come è arcinoto il fatto che il punk si codifichi come “momen-
to” circondato da scene musicali e culturali che lo precedono o che esso
riconosce come predecessori o anticipatori; ma che esso stesso contribui-
sce a ricodificare, ridefinire (la “scena del nuovo rock americano” a parti-
re dalla metà degli anni Settanta, prima con Patti Smith, Ramones, Televi-
sion e Talking Heads; la “scena della nuova avanguardia newyorkese”, la
scena di band considerate antesignane, tipo Stooges o MC 5. La scena
“Glam rock” e i suoi sviluppi, con il suo gusto per la teatralità , l’ambi-
guità sessuale, il gioco estetizzante. Fino alla scia del suoi successori, sem-
pre sul limite della moda, della tensione fra “originalità” e revival (post
punk degli anni Ottanta, il punk che in parte si fa “genere” e purismo,
delle diverse diramazioni del più duro e veloce “hardcore”, il punk com-
NO SEX, NO DRUGS, NO ROCK’N’ROLL 

merciale degli anni Novanta, il neo punk più recente, le derivazioni e gli
incroci, dichiarati o impliciti).
5
La canzone dei Sex Pistols Holidays in the Sun recita all’incirca: “Non
voglio andare a fare vacanze al sole, quest’estate voglio andare nella nuova
Bergen Belsen, voglio andare a vedere un po’ di storia, a vedere come Hitler
trattava i suoi nemici”. A proposito invece della ripresa dei movimenti anar-
chici, soprattutto in Inghilterra ma anche in Germania e Italia, è significativo
come proprio grazie al punk, a partire dagli anni Ottanta ripartano movimen-
ti anarco-pacifisti ad esempio all’interno del CND – la campagna per il disar-
mo nucleare – in Inghilterra o i movimenti contro gli euromissili o eco-pacifi-
sti nell’Europa continentale; i quali incrociando varie istanze sia politiche che
culturali ed estetiche (il nomadismo, dunque sino in un certo qual modo alla
cultura dei raves dei primi anni Novanta; gli squatters e occupanti di case, fra
Londra, Amsterdam, l’Italia e Berlino; la creazione dei centri sociali occupati
in Italia) influiranno su e innerveranno anche le nuove forme dei nuovi movi-
menti altermondialisti a cavallo del nuovo secolo.
Ritmi e forme di un’audiovisione alterata
Paolo Peverini

Musica/droga. Non è necessario forzare l’immagina-


zione per ritrovare in questo binomio l’origine di una va-
sta mitologia sulle sottoculture giovanili, le cui forme
non si esauriscono certo nella produzione e proliferazio-
ne di luoghi comuni ma delineano un campo di riflessio-
ne e di analisi trasversale rispetto ai generi del discorso
sociale. Mappare un simile aggregato di testi, pratiche,
discorsi è senz’altro impresa irrealizzabile, che peraltro si
esporrebbe al rischio continuo di allargare le maglie della
riflessione rendendo ulteriormente opaco un oggetto di
indagine multiforme e in continua evoluzione, ampia-
mente metabolizzato dal cinema e dalla letteratura. Del
resto la mole inesauribile di romanzi e adattamenti cine-
matografici testimonia il successo di un tema spesso tal-
mente codificato da essere ricondotto quasi a una formu-
la, una sorta di genere autonomo, rivolto a un pubblico
che si vuole omogeneo e perfettamente aderente a una fi-
gura dell’immaginario altrettanto ambigua e inamovibile:
i giovani, le nuove generazioni. In questo corpus smisura-
to, l’eterno dramma a tre personaggi – droga, musica,
giovani – si rinnova spesso attraverso micro-variazioni,
declinandosi nella prospettiva della denuncia sociale e/o
del compiacimento generazionale. Ovviamente, come
tutte le forme di mitologia contemporanea, gli stereotipi
vengono convocati, riassorbiti, in un continuo bricolage
di formule e stili che innesca sperimentazioni originali in
 PAOLO PEVERINI

cui il ricorso a dispositivi metatestuali prevale ampia-


mente sulla costruzione di effetti di realtà.
A partire da queste considerazioni preliminari ci pro-
poniamo di esplorare il legame tra le pratiche musicali e
l’esperienza delle sostanze stupefacenti, circoscrivendo
l’indagine all’analisi del videoclip, un fenomeno testuale
che studiosi, registi, critici e pubblico hanno spesso chia-
mato in causa nel dibattito dedicato alle forme di tradu-
zione audiovisiva della droga. Forma breve da sempre
“compromessa” con gli stereotipi (si pensi al canonico
sex, drugs and rock’n roll), il videoclip viene considerato
in questa prospettiva come un luogo testuale esemplare
per ricostruire le procedure di figurativizzazione degli
stati alterati della percezione legati all’immaginario musi-
cale. In particolare, l’ipotesi da cui muove questo saggio
è che nei videoclip la sovrapposizione di suoni e immagini
e le strategie di montaggio, modificando radicalmente il
grado di realismo audiovisivo, si carichino di un effetto di
senso che restituisce allo spettatore l’illusione di una perce-
zione alterata dal consumo di sostanze stupefacenti. In al-
tri termini, spesso il videoclip mira a valorizzare il brano
musicale riattualizzando l’isotopia della droga tramite l’e-
splicitazione dei suoi percorsi figurativi.
Quale pista seguire per provare a individuare in una
prospettiva sociosemiotica dei tratti distintivi comuni a
due universi figurativi (musica e droga) apparentemente
tanto distanti? Proponiamo di partire dalle forme di ma-
nipolazione del colore. Uno spunto interessante ci viene
fornito da David Batchelor, docente di Teoria della criti-
ca al Royal College of Art di Londra e autore di un sag-
gio dal titolo provocatorio Cromofobia. Storia della pau-
ra del colore.

Esiste una relazione abbastanza interessante fra le droghe


e il colore, e non è un’invenzione recente. Anch’essa, piut-
tosto, risale all’antichità, ad Aristotele, che chiamava il co-
lore una droga – pharmakón – e, prima ancora, all’icono-
RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

clasta Platone, per il quale un pittore era semplicemente


colui che utilizzava “molti colori mescolati insieme”. A di-
stanza di due millenni e mezzo, non sembra che le cose
siano cambiate molto. Negli anni sessanta, per esempio, le
droghe erano associate comunemente, e a volte comica-
mente, non già alla distorsione delle forme quanto all’in-
tensificazione del colore. Si pensi a quei film – Easy Rider
è l’esempio più ovvio – che cercavano di rappresentare gli
effetti dell’assunzione di LSD. Si pensi agli psichedelici; si
pensi alle copertine di album, poster, testi di canzoni; si
pensi, per esempio, a Her Satanic Majesty’s Request dei
Rolling Stones e alla canzone She Comes in colours (recen-
temente ripresa per pubblicizzare i computer di tipo imac,
colorati con colori vivaci (…) (Batchelor 2001, p. 31).

Nella sua esplorazione dedicata alla cromofobia Bat-


chelor, giustamente, non si fa sfuggire un testo di riferi-
mento come Le porte della percezione di Aldous Huxley.
In questo, infatti, lo scrittore inglese descrive dettaglia-
tamente l’esperienza dell’assunzione di mescalina, e il
primo e più vistoso cambiamento che egli registra è pro-
prio nella sua esperienza del colore:

Mezz’ora dopo aver ingoiato la droga divenni consapevole


di una lenta danza di luci dorate. Un po’ più tardi vi furo-
no sontuose superfici rosse che ondeggiarono e si distese-
ro da nodi brillanti di energia vibranti di vita ricopiata,
continuamente mutevole (Huxley 1954, p. 15).

Nella sua descrizione della progressiva trasformazio-


ne degli oggetti quotidiani, Huxley afferma: “oggi la
percezione aveva inghiottito il concetto”; e ancora: “le
impressioni visive sono grandemente intensificate e l’oc-
chio recupera qualcosa della innocenza percettiva del-
l’infanzia, quando il sensibile non era immediatamente e
automaticamente subordinato al concetto” (p. 19). Ri-
conversione del figurativo nel plastico, rimodulazione
dei contorni, sovrapposizione delle linee, la manipola-
 PAOLO PEVERINI

zione esasperata della dimensione cromatica reintroduce


violentemente nella dialettica tra soggetto e mondo il
predominio del sensibile sull’intelligibile, riaffermando
ancora una volta il primato di una predisposizione pre-
cognitiva nei processi della significazione.
Huxley alla prova del videoclip? Perché no. La sua
descrizione di uno stato di percezione alterata sembra
rendere conto delle strategie testuali praticate in queste
forme brevi per orientare il consumo degli spettatori.
Infatti è proprio la manipolazione del colore a offrire
una delle chiavi di lettura dell’efficacia videomusicale.
In un testo sincretico come il video, che nasce per valo-
rizzare con le immagini una canzone, la manipolazione
del colore costituisce uno strumento estremamente ver-
satile per tradurre sul piano visivo le proprietà sensibili
della musica come il ritmo e la melodia. Nei videoclip le
proprietà del colore (tono, luminosità, grana, saturazio-
ne) divengono oggetto di una pratica della manipolazio-
ne visiva che si estende fino al recupero e alla ri-modula-
zione di tutto un repertorio di figure tradizionalmente
associate agli stati alterati della percezione. È proprio in
questo passaggio che emerge la presenza di un legame
stretto tra i dispositivi audiovisivi che presiedono alla fi-
gurativizzazione dell’esperienza della droga e gli stili di
consumo musicale del pubblico.
Spesso nella produzione videomusicale la messa in
scena di alcune forme appartenenti all’universo figurati-
vo della droga è distratta dal suo scopo primario, non è
finalizzata banalmente a riprodurre in modo credibile,
realistico, l’esperienza del consumo di sostanze stupe-
facenti, ma mira innanzitutto a suscitare nello spettato-
re l’effetto di senso di una fruizione immersiva della
musica. In altri termini, gli effetti che intervengono a
rimodellare il piano dell’espressione audiovisiva, rimet-
tendo in forma un vasto repertorio di figure dell’alluci-
nazione, mirano a indurre nello spettatore una predi-
RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

sposizione a un consumo pre-cognitivo della musica,


un’esperienza sensibile alterata, dunque pienamente
coinvolgente.
Perdere definizione. È in questa formula che la speri-
mentazione sui regimi di visibilità del videoclip si salda
all’esperienza della percezione alterata dall’uso di so-
stanze stupefacenti. L’efficacia della droga si rivela nella
capacità di rimodulare, sino a stravolgere, l’esperienza
del sensibile, forzando le categorie astratte con cui il
soggetto attribuisce senso al mondo. Prospettive, distan-
za, colori: la droga “agisce” il soggetto, veicolando una
nuova forma di intelligibilità che coinvolge la percezione
del proprio corpo, sospende la coerenza dello spazio, lo
svolgersi regolare del tempo.
Questi scenari della percezione alterata divengono
oggetto a livello audiovisivo di una strategia di figurati-
vizzazione che forza la leggibilità, la regolarità del piano
dell’espressione, attraverso sovrapposizioni di effetti
speciali. Sotto l’effetto di una manipolazione radicale
che interviene a modificare drasticamente il grado di
realismo delle immagini, la leggibilità del figurativo la-
scia progressivamente spazio alle qualità sensibili del
plastico. Linee deformi, colori alterati, spazi in movimen-
to si saldano a sonorità distorte, melodie irregolari, scarti
ritmici improvvisi, simulando una piena convergenza tra
la presa sensibile della musica sul corpo e l’esperienza di
una visione tattile indotta dalla droga. L’intervento sui
regimi di visibilità, la capacità di modulare i punti di
contatto tra suoni e immagini alternando la piena coin-
cidenza audiovisiva a una frattura marcata sono sgan-
ciati dalle logiche narrative. Cellule ritmiche e sonorità
dilatate sono prese in carico e ulteriormente rilanciate
dalla grafica e dagli effetti speciali che inscrivono all’in-
terno del video il simulacro di un enunciatario domina-
to da un punto di vista irregolare, continuamente dislo-
cato, e da un’attitudine a tradurre i ritmi audiovisivi in
 PAOLO PEVERINI

movimenti corporei che potremmo definire “incontrol-


lata”, imprevedibile.
Del resto, come afferma Abruzzese (1989, pp. 54-
55), per rendere conto dell’appeal dei video musicali è
utile indagare le procedure di simulazione della dimen-
sione “tattile” del consumo.

Questo risultato, proprio coinvolgendo tutti i sensi in di-


namiche metaconcettuali e inconsce, può essere ottenuto
soltanto attraverso la miscela esatta tra immagini, musica,
rumori. E non soltanto: anche tra forme visive, contenuti
evocativi, suggestioni mitologiche, archetipi collettivi, ste-
reotipi di massa, trasgressioni e choc, corpi e ritmi, che,
con ciascuno dei sensi linguisticamente impegnati, conser-
vano e rilanciano precise ed identificabili marcature narra-
tive, iconologiche, musicali.

Al fine di riattualizzare rapidamente sul piano visivo


“l’onda d’urto estesica” – che in una situazione live è in-
nescata dalla combinazione di musica, apparato sceno-
grafico, movimenti del performer, reazioni senso-moto-
rie del pubblico – nella produzione videomusicale si
sperimentano forme di alterazione della percezione sem-
pre più esasperate. Come afferma Frith (1988, p. 253)

Per le stelle del rock l’interrogativo è come ricostruire sul


piccolo schermo il senso di comunione che nelle esibizioni
in diretta dipende dal rumore (…) il movimento diviene la
metafora del suono – nell’eccesso visivo, nei tagli rapidi,
nei frammentati corpi turbinanti, nella velocità senza sco-
po; siamo sopraffatti dalle immagini per compensare l’es-
senziale fiacchezza del suono televisivo.

L’esplicita assenza di realismo delle figure, la pro-


gressione apparentemente casuale degli effetti speciali, il
ritmo irregolare nei cambi delle inquadrature traducono
dunque sul piano visivo l’irregolarità e l’incontrollabilità
delle reazioni passionali e corporee indotte dall’ascolto
RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

della musica dal vivo. In una prospettiva semiotica la fi-


gurativizzazione dell’isotopia di una visione alterata
rientra in una strategia testuale complessiva che, agendo
sulle figure del ritmo, mira a suscitare l’interesse dello
spettatore scavalcando il suo coinvolgimento cognitivo,
stimolando piuttosto una reazione corporea istantanea,
istintiva.

1. L’alterazione in video. Logiche di conversione

Per ricostruire le logiche che nei videoclip regolano il


funzionamento e l’efficacia delle forme di traduzione
della percezione alterata è necessario interrogarsi sullo
statuto semiotico delle forme di manipolazione delle im-
magini (cfr. Peverini 2004b). Innanzitutto, proponiamo
di ripartire dalla celebre distinzione elaborata da Chri-
stian Metz ne La significazione nel cinema (1972) tra
trucchi impercettibili, visibili, invisibili. Dal lavoro di
Metz emerge con chiarezza che la nozione di trucco
esprime inevitabilmente una certa duplicità:

Vi è in esso qualcosa che è sempre nascosto (poiché è un


trucco solo fin tanto che la percezione dello spettatore è
presa di sorpresa) e contemporaneamente qualcosa che si
palesa sempre, poiché ciò che importa è che questa sor-
presa di senso sia attribuita ai poteri del cinema (Metz
1972, p. 279).

Tra i trucchi visibili ci sono senz’altro gli effetti otti-


ci, che non mirano a restituire allo spettatore in modo
“realistico” tutto ciò che rientra nella categoria del pro-
filmico, a documentare in modo neutrale la presenza di
figure poste davanti alla macchina da presa, ma si di-
staccano in modo più o meno esplicito dalla normale
dimensione diegetica, inscrivendo all’interno del testo
indicazioni di ordine metalinguistico. Tornando al no-
 PAOLO PEVERINI

stro oggetto d’analisi, nell’ambito dei videoclip le tran-


sizioni marcate, le sovrapposizioni, le accelerazioni, i
ralenti, la divisione dello schermo in riquadri, le negati-
vizzazioni, le deformazioni, possono essere considerate
a pieno titolo come interventi visivi appartenenti alla
categoria degli effetti ottici. Per innescare l’effetto di
senso di una visione alterata, distorta, il videoclip non si
limita a recuperare dal cinema questo vasto repertorio
di trucchi visibili ma lo mette in scena facendo ampio
ricorso a processi sinestesici e a meccanismi di tipo se-
misimbolico. L’allucinazione come effetto di senso non
emerge semplicemente a partire da una coincidenza di
battute musicali e tagli di montaggio, ma dall’attitudine a
trasporre sul piano visivo il timbro e l’andamento tensivo
della musica attraverso la manipolazione della grana del-
le immagini. La distorsione delle forme, l’iperrealismo
dei colori, gli angoli di ripresa impossibili e i movimenti
di macchina irreali si accordano con la musica saldan-
dosi senza soluzione di continuità alle figure dai contor-
ni ben distinti, alle sequenze in bianco e nero, a una
composizione dell’inquadratura canonica, “neutrale”.
Più di quanto non accada nel cinema, nel piccolo scher-
mo e nel tempo contratto di una forma breve come il
videoclip, suoni e immagini non corrono paralleli ma si
sovrappongono. Logiche tensive distinte si ricompon-
gono in combinazioni audiovisive in cui la musica si in-
carna in un regime della visione irregolare, e contempo-
raneamente il potere ipnotico delle figure dell’allucina-
zione investe l’ascolto delle sonorità, fino a ri-orientar-
lo, facendo riemergere le qualità sensibili della sostanza
dell’espressione, la grana dei suoni.
Per effetto di questo processo di “contagio recipro-
co”, la sensibilità dello spettatore è investita globalmen-
te: inutile tentare di isolare la direzione e l’intensità del-
lo sguardo dalla seduzione del suono che già investe l’o-
recchio. Forzati da strategie di montaggio che esaltano i
RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

ritmi di superficie a scapito dello sviluppo armonico del-


le architetture narrative, i dispositivi canonici di tradu-
zione tra linguaggi autonomi retrocedono. L’alternanza
dei punti di sincronizzazione si impone allo sguardo-
ascolto rivelando una logica della tensività che mira a
colpire, a confondere, a sospendere il giudizio sugli ef-
fetti di realtà/finzione, sull’accordo tra il mondo possibi-
le del testo e la coerenza rassicurante del mondo ester-
no, contribuendo a far emergere progressivamente un
regime della percezione che potremmo definire audiovi-
sione alterata. Spesso ogni tentativo da parte dello spet-
tatore di ricondurre questa polifonia audiovisiva a mec-
canismi di tipo narrativo crea spaesamento, cade nel
vuoto. Il testo istituisce questo orientamento a un’audio-
visione alterata privando lo spettatore della possibilità di
ricondurre il proprio sguardo al punto di vista di una fi-
gura delegata, di un osservatore interno.

Nei videoclip il montaggio, ritornando sugli stessi motivi,


e giocando ogni volta su quattro o cinque temi visivi di
base, (…) è, più che un modo per far avanzare l’azione,
un modo per far girare le facce del prisma, e per creare
così, tramite la rapida successione dei piani, una sensazio-
ne di polifonia visiva e persino di simultaneità (Chion
1990, p. 140).

L’unica forma di adesione possibile sembra essere di ti-


po estesico, passionale. Non resta che seguire il ritmo reale
di un’allucinazione simulata. Se il videoclip trae spunto
dal linguaggio cinematografico, per tradurre in sequenze il
tema dell’alterazione della percezione, dal punto di vista
dello svolgimento tensivo sviluppa dinamiche proprie.
Per quanto riguarda le strategie di montaggio, sul pia-
no visivo l’isotopia della percezione alterata non manifesta
una logica di sviluppo autonoma rispetto alla musica. Da
un punto di vista ritmico tutti gli interventi che investono
la dimensione visiva traggono la propria efficacia dalle
 PAOLO PEVERINI

procedure di sincretismo che li legano alla componente


musicale. Questo regime della visione si accende e si con-
suma con un punto di sincronizzazione, il suo destino rit-
mico è affidato alle linee evolutive di una battuta musicale.
Paradossalmente è proprio in questa solidarietà mar-
cata in cui lo sguardo e l’ascolto si influenzano reciproca-
mente e contribuiscono a trasformarsi che la traduzione
audiovisiva della percezione alterata rischia di perdere
efficacia. Le risonanze audio-visive che scaturiscono da
questa originale forma di sincretismo possono decretare
una rapida usura della formula, innescare un effetto di
senso inverso in cui l’esperienza unica di un’allucinazio-
ne simulata perde intensità, sfuma progressivamente in
indifferenza seguendo il ritmo disteso di un manierismo
riassumibile in uno slogan di successo mtvlike, stile mtv.

2. Nuove figure della percezione alterata

Accanto a un numero sempre maggiore di produzio-


ni che si limitano a dare forma al connubio musica-dro-
ga, riattualizzando soluzioni narrative e stilistiche conso-
lidate, è possibile individuare alcuni testi esemplari in
cui la messa in scena delle forme di alterazione della
percezione non è banalmente al servizio di un cliché col-
laudato che vede la star nei panni del naughty boy, vitti-
ma ammiccante e consapevole delle sostanze stupefa-
centi, ma di una sperimentazione originale sulle strategie
di montaggio e sugli effetti di senso di cui si caricano le
forme di manipolazione delle immagini.
Un regista che ha trasformato la ricerca sulle poten-
zialità del linguaggio audiovisivo e sul portato estetico
degli effetti speciali in una vera e propria poetica della
percezione alterata è Michel Gondry, il cui lavoro è stato
recentemente celebrato con l’uscita di un DVD che rac-
coglie una produzione videomusicale realizzata nell’arco
RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

di oltre quindici anni. In particolare, nel videoclip di


Like a Rolling Stone il trattamento delle immagini, se-
condo diversi gradi di deformazione, ha contribuito a ri-
definire in modo radicale le forme di traduzione audio-
visiva degli stati allucinatori indotti dal consumo di dro-
ghe. Nel video, un complesso lavoro di post-produzione
ha permesso di modificare, plasmare, rimodulare il ma-
teriale visivo, investendo spazi e corpi di un’opacità dif-
fusa la cui unica presa per lo spettatore è vincolata al
punto di vista continuamente dislocato, sfocato della
protagonista, una giovane donna tossicomane, e allo
sguardo apparentemente onnisciente di un osservatore
implicito che in realtà si situa al margine della diegesi.
La figura del morphing gioca un ruolo strategico nel-
la costruzione di un percorso della visione alterato, in-
troducendo uno scarto violento nella dialettica tra vede-
re e sapere; costringe lo spettatore a sospendere il giudi-
zio sulla soglia che separa realtà e finzione.

Stavo cercando di sperimentare un modo nuovo di usare


l’effetto morphing. Avevo due idee. La prima era di scatta-
re dei fermi immagine che formassero una serie di quattro
frame in un secondo e poi usare il morphing tra di loro in
modo che il personaggio ne uscisse modificato ma non lo
sfondo. Si sarebbe deformato come se stessero tirando la
sua pelle. Il secondo effetto nasceva dall’idea di stoppare il
tempo usando due camere che scattassero dei fermi imma-
gine da posizioni differenti, ma contemporaneamente, e
usare il morphing tra di loro1.

In Like a Rolling Stone la deformazione del visibile è


strumento di una strategia testuale complessa che orche-
stra abilmente gli effetti di senso innescati dalle due for-
me di morphing con un’articolazione narrativa non li-
neare. La progressione del percorso figurativo dell’allu-
cinazione si sovrappone alle isotopie tematiche e alla
scansione dei programmi narrativi, dando forma in mo-
 PAOLO PEVERINI

do frammentato alla parabola discendente di una donna


benestante e anticonformista innescata dal consumo di
sostanze stupefacenti e di alcolici.
Nel video il primo tipo di morphing è impiegato sen-
za distinzione per restituire il punto di vista della donna
nei confronti del mondo esterno, ma anche per simulare
il suo sguardo interiore, un labirintico viaggio nella me-
moria filtrato dalla droga, in cui i ricordi e le allucina-
zioni si confondono fino a rendere indistinguibile la so-
glia tra realtà e finzione.

The Rolling Stones, Like a Rolling Stones. Regia:


Michel Gondry.

Allo scopo di accrescere l’effetto di senso di una sen-


sibilità corporea irregolare, di uno sguardo in balia de-
gli effetti delle sostanze stupefacenti, l’operazione di
contrazione/dilatazione del morphing si combina con lo
sfocato. Per effetto di questa sovrapposizione, la bassa
definizione delle immagini, la dispersione dei contorni,
i movimenti di macchina scomposti, le transizioni mor-
bide, “liquide” tra i fotogrammi si armonizzano, entra-
no in risonanza, fanno sistema, traducendo sul piano vi-
sivo una blurred vision2, una forma di presa sul mondo
definitivamente fuori controllo.
RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

The Rolling Stones, Like a Rolling Stones. Regia:


Michel Gondry.

Questa configurazione di effetti ottici entra in una


precisa rete di corrispondenza con le sequenze in cui
viene utilizzata la seconda serie di effetti speciali speri-
mentati da Gondry. La tecnica nota come bullet time
permette di dinamizzare una singola inquadratura, si-
mulando tramite il morphing tra i diversi fotogrammi,
un movimento circolare completo intorno a una figura.
In Like a Rolling Stone questo spostamento della mac-
china da presa, combinato con un’alta definizione delle
immagini, si alterna alle soggettive reali e mentali della
protagonista innescando una relazione di tipo semisim-
bolico che si carica di una forte valenza veridittiva. Da
cui lo schema:

Figure distorte Forme regolari


Sfocato vs Immagini nitide
Bassa definizione Alta definizione
Movimenti m.d.p. irregolari Movimenti m.d.p. regolari
__________________________________________________
Allucinazione Realtà

Questi interventi che investono il piano dell’espres-


sione del testo innescano un contrasto plastico e figura-
 PAOLO PEVERINI

tivo che si rivela molto efficace nel restituire la difficoltà


di essere presenti a se stessi, padroni del proprio corpo.
La sanzione finale non è esplicitata, il lieto fine è cancel-
lato. L’incapacità di tenere la posizione, la difficoltà a
orientarsi nello spazio interpellano lo spettatore fino al-
l’ultimo fotogramma, lasciando emergere accanto alla
sospensione del percorso narrativo della droga le tracce
di un’altra inevitabile odissea, l’alienazione, il rifiuto so-
ciale del contatto.

The Rolling Stones, Like a Rolling Stones. Regia: Michel


Gondry.
RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

3. Labirinti

Basta uno sguardo, anche distratto, a un frammento


della programmazione attuale delle televisioni musicali
per rilevare i segnali di una prima evidenza: l’esigenza di
raddoppiare sul piano visivo l’appeal di un brano musi-
cale contribuisce a rinnovare costantemente il repertorio
delle forme di alterazione delle immagini. Elaborare una
tipologia in grado di ricondurre gli interventi di defor-
mazione ottica agli stati alterati della percezione deri-
vanti dall’assunzione di droghe differenti è un’operazio-
ne destinata a infrangersi sotto la spinta di continue e
imprevedibili trasformazioni innescate innanzitutto dal-
l’evoluzione dell’industria degli effetti speciali. È inne-
gabile tuttavia che i generi musicali di riferimento, le so-
norità, l’immagine pubblica di un performer o di una
band contribuiscano a condizionare la scelta dello stile
di regia e, di conseguenza, il ricorso a forme di manipo-
lazione delle immagini in grado di evocare le sensazioni
indotte dal consumo di droghe.
Acido. Il termine cela una piccola forma di mitologia
contemporanea in cui le dimensioni distinte della droga,
della musica e del video si sovrappongono, si rafforzano
appropriandosi reciprocamente di percorsi narrativi e
strategie della figurativizzazione la cui efficacia si fonda
sulla capacità di prendere in carico e rimodulare i movi-
menti corporei e le passioni del soggetto. Nell’immagi-
nario collettivo l’acido gioca un ruolo essenziale nell’o-
perazione necessaria a far collimare i due universi figu-
rativi della musica e della droga, innescando una forma
di traduzione talmente efficace da neutralizzare almeno
in apparenza le distinzioni tra sistemi di significazioni
regolati da logiche differenti. Suoni acidi/Colori acidi.
Ovviamente?
Un videoclip in cui il trattamento delle immagini recu-
pera e rimette in forma l’immaginario collettivo legato alla
 PAOLO PEVERINI

percezione alterata dal consumo di sostanze lisergiche per


valorizzare l’album musicale è Mixed Bizness, realizzato
nel 2000 da Stephane Sednaoui per Beck. Allo scopo di
trasporre sul piano visivo l’andamento sincopato del sin-
golo, un brano electro-funky in cui prevalgono ritmi irre-
golari e scarti melodici, nel video vengono convocate di-
verse figure della distorsione. Morphing, ripartizione dello
schermo in riquadri, sovrapposizione delle figure, solariz-
zazioni si susseguono, infrangendo la dimensione del vero-
simile audiovisivo fanno irrompere un regime della visione
irregolare che permette allo spettatore di accedere a una
delle infinite declinazioni dell’irreale. La metafora del trip,
di un viaggio in cui la droga allucinogena stravolge la per-
cezione del soggetto, contribuendo a ridefinirne l’identità,
è esplicita. La saturazione dei colori è oltre il limite, rosso-
verde-giallo si fanno fluorescenti, staccandosi dalle figure,
dai corpi, dagli spazi invadono tutto lo spazio dell’inqua-
dratura, cancellano il nero neutrale del fondo.
Calarsi un acido: la metafora si incarna in una sequen-
za di zoom in e zoom out che hanno origine e conclusione

Beck, Mixed Bizness. Regia: Stephane Sednaoui.


RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

dal corpo della star musicale e che fanno emergere nel


testo l’isotopia spaziale della caduta e della riemersione.
La figurativizzazione di una percezione alterata, ritmi e
forme di una visione mediata dalle droghe sintetiche, so-
no innescati da una figura ambigua, un buco-specchio
che in un processo di replica apparentemente senza fine
ricopre il vestito e il corpo del musicista.
Queste fessure interrogano lo spettatore; oggetti im-
possibili, agiscono alternativamente come filtro inter-di-
mensionale o come superficie riflettente in grado di esa-
sperare il gioco delle deformazioni. Nel primo caso la fi-
gura-buco agisce esplicitamente come un dispositivo
della veridizione, come soglia tra due mondi completa-
mente sganciati e resi attraverso uno stile di regia che
esaspera il gioco dei contrasti plastici. Prima dell’ingres-
so nel foro. Beck è protagonista di una performance psi-
chedelica sofisticata, priva di scenografie, in cui domina-
no sfondi elettronici, e i continui cambi di inquadratura
esaltano i movimenti sensuali delle ballerine e i dettagli
dei loro corpi che si deformano al ritmo della musica.
Dopo l’ingresso nel corpo del performer, la macchina da
presa rivela paradossalmente un mondo rovesciato, in
bianco e nero, in cui le figure sono perfettamente distin-
guibili, e i paesaggi acidi dell’elettronica lasciano spazio
alle dune di sabbia. Nel secondo caso la figura si rivela
uno specchio deformante, dispositivo di enunciazione
enunciata che rilancia e moltiplica all’infinito i diversi
regimi di visibilità e di conseguenza gli effetti di veridi-
zione di cui si caricano all’interno del testo (realtà/illu-
sione; autenticità/finzione). Il performer, preso nel gioco
dei riflessi, perde la faccia davanti allo specchio, innescan-
do una singolare mise en abîme in cui il morphing rende
indistinguibile sfondo e primo piano, discesa e risalita.
L’originalità di questa messa in scena della psichede-
lia, tuttavia, non si riduce al ritmo sfrenato con cui si
susseguono gli effetti speciali né al gioco dei rimandi in-
 PAOLO PEVERINI

tertestuali. L’alternanza di simulazioni e rivelazioni, le fi-


gure di una percezione acida, filtrata dagli allucinogeni,
rientrano in una strategia globale di legittimazione del-
l’identità della star che si riappropria dell’universo figu-
rativo legato alla disco music per valorizzare le sonorità
del brano musicale. Il buco-specchio si rivela un efficace
connettore isotopico, in grado di agire come dispositivo
di occultamento/rivelazione dei dispositivi finzionali,
ma anche di aprire al recupero di figure come la strobo,
che nell’immaginario collettivo condensano l’esperienza
della fruizione della musica in discoteca restituendo sul
piano visivo, attraverso le infinite sequenze di figure
astratte, lo sbilanciarsi sfrenato dei corpi nei club.
Un (semplice) gioco di luci, forme e colori?

Chemical Brothers, Let Forever Be. Regia: Michel Gondry.

Dopo aver raggiunto un livello massimo di sofistica-


zione nelle forme di trattamento degli effetti ottici, la
traduzione visiva del trip celebra le sue stesse origini, ri-
porta alla luce l’antico dispositivo che da sempre per-
RITMI E FORME DI UN’AUDIOVISIONE ALTERATA 

mette all’uomo di perdersi felicemente in un viaggio-la-


birinto, innescando una frattura temporanea nella rego-
larità del mondo e del suo sguardo. Il caleidoscopio.

1
Dichiarazione rilasciata da Michel Gondry e pubblicata in I’ve been
twelve forever, book allegato al Dvd The Work of Director Michel Gondry,
Palm Pictures, 2003.
2
Sullo statuto semiotico delle immagini sfocate cfr. Dusi 1999.
Toxic cinema, toxic dream
Nicola Dusi

Forse le sensazioni sono dolorose a causa


della loro intensità. Una sensazione piace-
vole può diventare insopportabile dopo
che si è raggiunta una certa intensità.
William Burroughs

L’arte disfa la triplice organizzazione delle


percezioni, affezioni e opinioni, per sosti-
tuirvi un monumento composto di percet-
ti, affetti e blocchi di sensazioni che fungo-
no da linguaggio.
Deleuze, Guattari

per e.

1. Farsi e sballare nel cinema contemporaneo

Rompendo gli stereotipi, il recente film di Paolo Sor-


rentino Le conseguenze dell’amore (Italia, 2004) mette in
scena un tossico “periodico”, che dice di sé: “la maggior
parte dei discorsi sulla droga è estremista, e non consi-
dera il mio caso”. È un signore distinto, un ex consulen-
te finanziario, che vive recluso in un albergo del Canton
Ticino (ostaggio della camorra, che lo utilizza per rici-
clare denaro sporco), e si buca “regolarmente” da otto
anni. Però solo il mercoledì mattina alle dieci, nella sua
camera d’hotel, con un rituale ossessivamente mantenu-
to finché non si troverà a fronteggiare l’irruzione dell’i-
natteso, in forma di innamoramento. Il “farsi”, cioè la
pratica dell’assunzione di eroina, è raccontato in modo
inusuale: l’uomo è in silenzio, seduto sul letto, la musica
extradiegetica cresce lentamente mentre lui si buca,
tranquillo e metodico, e poi si lascia andare sdraiandosi
 NICOLA DUSI

sulla schiena. La macchina da presa, prima posta in late-


rale a guardare la scena in piano americano, ora si spo-
sta di fronte al letto e compie un movimento di avvicina-
mento dal basso, come scivolasse sul bordo inferiore
delle lenzuola e poi risalisse i piedi, le gambe, il corpo
sdraiato, fino al viso dell’uomo a occhi chiusi, per pas-
sargli poi oltre la testa. È il fluire, il diffondersi della
droga nel corpo, che viene narrato da un unico movi-
mento di macchina, in continuità dal basso all’alto. Dal-
lo spazio del pavimento si passa a quello della superficie
del corpo e poi ancora a quella del muro della stanza,
come se ci fosse una lenta espansione di coscienza. A dir
meglio, è una “perdita di coscienza”, raccontata sia co-
me un distendersi-rilassarsi posturale sia come l’espan-
dersi della propriocezione1, a partire da un’esperienza
intensa di piacere solitario.
È il tema di questo saggio. Vorremmo indagare alcu-
ne pratiche molto rivalutate nel cinema contemporaneo:
in primis, le strategie discorsive legate all’assunzione di
droghe “pesanti”, e in secondo luogo quelle configura-
zioni che fanno parte dell’area comune di questo volu-
me, dedicato allo sballo nelle diverse arti, ossia alle alte-
razioni percettive date non solo da eroina o cocaina, ma
da tutte quelle sostanza psico-attive raggruppate sotto
l’etichetta di “allucinogeni”.
Pensiamo, ad esempio, a Paura e delirio a Las Vegas
di Terry Gilliam (USA, 1999). In questo film, collocato
temporalmente agli inizi degli anni Settanta, lo sballo
da droghe lisergiche va assieme all’idea di un possibile
perfezionamento del corpo stesso e delle sue perfor-
mance2: nuove visioni, soglie della percezione abituale
infrante, con immagini e suoni che raccontano una dila-
tazione del tempo e presentano, ad esempio, cromati-
smi accesi, rottura dello spazio cartesiano, ritmo del-
l’audiovisione alterato, nella estrema lentezza o al con-
trario nella frenesia.
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

Se si tratta dello sballo da eroina, invece, l’immagina-


rio cinematografico si trasforma nel tempo. Si passa dal
vomito e uno stato di tranquilla semi-incoscienza, rac-
contato in film come Christiane F.3, alla leggerezza dell’i-
niezione fatta in automobile per stare un po’ meglio pri-
ma di una serata impegnativa, come in Pulp Fiction4, fi-
no alle allucinazioni concilianti con un mondo addome-
sticato di Drugstore Cowboy5, per giungere addirittura al
godimento, che supera di molto quello sessuale, descrit-
to all’inizio di Trainspotting6.
“Farsi” al cinema, allora, vuol dire cercare un effetto
psico-fisico che mette in scena, nell’arco di un venten-
nio, diciamo almeno dagli anni Ottanta a tutti gli anni
Novanta, una gamma di trasformazioni che passano dal-
lo stordimento indifferente e solitario al piacere raccon-
tato a voce alta. Formuliamo subito un’ipotesi: il cinema
contemporaneo sembra passato da un tipo di rappresen-
tazione dell’eroina e del tossico legata a un modo “scien-
tista”, oggettivando e osservando il “corpo-macchina”
che si deteriora, a una rappresentazione che invece fa re-
cuperare al tossicodipendente un’umanità e un’indivi-
dualità, ritrovando così un “corpo-proprio fondato sog-
gettivamente”7.
Nei film analizzati, drogarsi è un piacere valorizzato
negativamente quando è solitario; positivamente, inve-
ce, quando è condiviso, in modo collettivo, come per il
gruppo di amici di Trainspotting che si bucano assieme,
oppure in presenza di altri, come accade a casa del pu-
sher di Pulp Fiction8. Ma quale benessere è quello cer-
cato dallo “sballo”? A primo avviso, si presenta come
uno stato transitorio, intenso, trasformativo delle pro-
prie percezioni interne e delle relazioni con l’esterno e
con gli altri.
Se nella “soglia superiore” del nostro discorso si po-
trebbero trovare, come termini opposti, la salute e lo
sballo, entrambi sussunti e legati, per quanto sembri pa-
 NICOLA DUSI

radossale, allo stato o alla ricerca di un benessere psico-


fisico, reale o soltanto apparente-effimero, nella “soglia
inferiore” potremmo leggere il discorso della droga nel
cinema contemporaneo all’interno della categoria duale
della dipendenza (punto di vista interno) contrapposta
alla malattia (punto di vista esterno), almeno se definia-
mo quest’ultima come un deterioramento del corpo, un
suo “cattivo funzionamento”9.
Per iniziare a riflettere sull’assunzione di droga dal
punto di vista interno, parleremo di dipendenza come
di una coazione a ripetere, legata alla ricerca di un ge-
sto-azione da parte dei soggetti tossici che possa alle-
viare il dolore dell’astinenza e che apporti un po’ di
tregua all’esistenza. C’è inoltre un rituale del farsi, e in
molti film il drogarsi inaugura una specifica configura-
zione discorsiva che si ripresenta via via identica nel
corso del racconto, costruendo un ritmo, come fosse
un ritornello. Altre volte, in film a tema come Christia-
ne F., drogarsi varia di intensità nel senso dell’inelutta-
bile squallore e del sempre più evidente disfacimento
dei corpi.
Soffermiamoci sul rituale, sulla replica del “farsi”
sempre uguale a se stesso. In termini semiotici parle-
remmo di un’iteratività aspettuale (Greimas, Courtés
1979) e di un ritmico ritorno di un’equivalenza, un rima
tra figure. Ma Roland Barthes ci ricorda che nel mecca-
nismo della ripetizione non c’è solo identità, si dà an-
che un’altra possibilità, cercata dal soggetto, poiché “la
ripetizione dà accesso a una diversa temporalità”
(Barthes 1980). Ecco un primo aspetto interessante del
rituale dell’assunzione di droga: nel ripetere, ci ricorda
Barthes, “si abolisce il patetico del tempo: perché ciò
che è patetico è sempre legato alla sensazione che qual-
cosa è apparso, che morirà e che si potrà combattere la
sua morte solo trasformandolo in un secondo qualcosa
che non assomiglia al primo” (ib.).
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

2. Figure del corpo tossico

2.1. Astinenza, dipendenza, ricerca


La nostra indagine inizia dalle configurazioni legate
al “corpo tossico”, tra le quali troviamo, al primo posto,
i corpi in astinenza. Come dicevamo, i personaggi si fan-
no carico, in questo stato, di un’ossessiva e spesso frene-
tica volontà attiva nella ricerca della sostanza che pla-
cherà il loro malessere10. D’altronde, ci ricorda Burrou-
ghs (2001, p. 252), “qualsiasi oppiaceo che allevia il do-
lore in modo efficace allevia allo stesso modo i sintomi
da astinenza. La conclusione è ovvia: qualsiasi oppiaceo
che allevia il dolore provoca assuefazione e più allevia il
dolore efficacemente più procura assuefazione”. Una
tensione al riequilibrio del proprio stato psico-fisico, in-
teso come recupero del bene perduto, cioè il raggiungi-
mento dell’effimero benessere dato dalla droga, che
apre una serie di racconti di prove da superare per otte-
nere l’oggetto del desiderio. Il “disequilibrio” diventa
immediatamente dolore fisico, corpo interno (o carne)
che si appropria dell’io-pelle, del corpo inteso come in-
volucro11, e lo trasforma, lo contorce e deteriora. Que-
sto si figurativizza, in film come Christiane F., con tre-
mori, colore terreo del viso, il ripiegarsi su se stessi ac-
cusando dolori al ventre. Una serie variabile di corpi che
barcollano e si sfibrano, che si sfiniscono nella ricerca
della dose, fino ad accasciarsi per strada, ridotti troppo
male persino per muoversi o stare in piedi, a volte infine
aiutati dagli amici, altre volte ritrovati freddi, bluastri,
abbandonati.
È il deterioramento che entra in azione sul corpo
quindicenne di Christiane e dei suoi amici. Sequenza
dopo sequenza, il film costruisce infatti un percorso fi-
gurativo e cromatico che racconta le prime esperienze
con l’eroina dei protagonisti a partire dall’esposizione
dei loro corpi freschi e curiosi, tra luci e ambienti caldi e
 NICOLA DUSI

rassicuranti, via via sempre più degradati. Il racconto si


sofferma volentieri sulle loro espressioni sfatte e sulle
facce bluastre degli adolescenti, sulla passività dei gesti e
delle pose, e descrive la discesa nella dipendenza (che va
assieme alla prostituzione, per trovare il denaro necessa-
rio a bucarsi) attraverso colori desaturati, lividi, con una
panoplia di corpi deperiti, visi pesti e rovinati da oc-
chiaie, abrasioni, eritemi e quant’altro si possa pensare
di disforico, in modo da evidenziare il processo di auto-
distruzione del tossicodipendente.
Il primo sballo di Christiane è una sniffata di eroina,
che la fa immediatamente vomitare fuori dalla macchi-
na, tra l’indifferenza dei suoi amici. I toni cupi della luce
e dei colori accompagnano il primo piano della sua fac-
cia sconvolta e sporca, con la testa lasciata andare sul se-
dile di dietro. Mentre Christiane è partita per il suo pri-
mo trip, l’auto si muove. Gradualmente, cambia il punto
di vista e passiamo dall’interno all’esterno, in una visio-
ne in soggettiva, così da vedere la strada che scorre soli-
taria, per poi scendere in una curva dentro un tunnel
male illuminato e bluastro. Nel frattempo, la musica
rock di sottofondo cresce di intensità e diventa sempre
più invadente, fino a contestualizzarsi come proveniente
dalla discoteca in cui Christiane si ritrova subito dopo,
strafatta e assente, quasi fosse uno zombie. Il racconto
dello sballo, negativizzato già in termini cromatici, si le-
ga in questo modo all’inarrestabile fuoriuscire di un li-
quido interno (il vomito) come reazione alla sostanza
entrata nel corpo12, e al movimento in avanti nello spa-
zio-tempo assieme al crescendo sonoro, figurativizzando
così il “viaggio” e lo stordimento della protagonista13.
Una sequenza brevissima che rende efficace, attraverso
il piano espressivo del film, la connotazione immediata e
banale dell’entrata nel “tunnel” della droga.
Aperte nella loro necessità dalla configurazione pre-
cedente, seguono le prove narrative dei soggetti tossici,
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

ovvero l’insieme delle competenze e delle performance


che esplicitano e mettono in scena le modalità del sapere
e del poter drogarsi. Si tratta, ad esempio, dei gesti, di
solito famelici, di ingestione di pillole, pasticche o altri
medicinali, contrapposti al meticoloso rito dello sniffare
cocaina o altre sostanze, o a quello della preparazione
delle iniezioni di eroina, cioè azioni che prevedono una
competenza precedente, o alla peggio da acquisire al
momento. Christiane, ad esempio, non lo sa fare da sola,
ci vuole l’aiuto di un tossico esperto per la sua prima
iniezione, mentre nello stesso film un altro personaggio,
tossico navigato (e quasi all’ultimo stadio) si buca rapi-
damente da solo sul collo, guardandosi allo specchio dei
bagni pubblici. I tossici del gruppo di amici di Train-
spotting si aiutano vicendevolmente, con solidale com-
piacimento e molta autoironia. È una modalità, almeno
inizialmente, che accentua la fiducia e la condivisione,
legata al possesso comune (quando c’è) della droga, e al-
la ricerca di un unico oggetto di valore, quel benessere
inteso come effetto psico-fisico di piacere e di caduta
delle barriere individuali, un valore che circola tra i sog-
getti in tutti i film esaminati, e accomuna le pratiche del-
lo sniffare, del fumare insieme, del farsi di eroina. Un
antefatto illustre, a controprova del nostro argomentare,
è la sniffata di eroina (scambiata per cocaina) che porta
all’overdose Mia Wallace in Pulp Fiction (interpretata da
Uma Thurman), mentre il suo accompagnatore è in ba-
gno. La donna è un soggetto che in termini modali può
farsi, ma non sa di cosa si sta drogando: si fa per ingor-
digia, in solitudine, e sembra in fondo venir punita pro-
prio per questo.
La volontà di farsi, il sapere e poterlo fare, fanno ca-
po a quella coazione a ripetere che abbiamo posto sotto
il dominio della dipendenza, ossia di un dover fare che il
soggetto tossico accetta o più spesso subisce, un dovere
legato alle istanze profonde del corpo (e della mente),
 NICOLA DUSI

che cerca l’euforia. Quest’ultima viene a volte distinta,


in termini psicologici, in tre tipi, differenziando la tem-
poranea sensazione di “eccitamento” da quella di “ap-
pagamento” e dalle “fantasie”, comuni a ogni dipenden-
za: “una determinata sostanza, o un determinato com-
portamento, sblocca il cammino individuale verso il pia-
cere collegato alla dipendenza. Il cambiamento di umo-
re provato è indimenticabile. E se ne vuole sempre di
più” (Boyd 1998, p. 50). Si parla di “logica emotiva”,
non razionale, poiché “razionalmente, il dipendente sa
che quella sostanza o quel comportamento non può ap-
pagarlo (...) ma che risolverà solo il problema immedia-
to, provocando eccitazione o calmando il dolore/la tri-
stezza/la paura” (p. 51). Nei film esaminati, ritroviamo
l’eccitazione come momento euforico legato soprattutto
all’attimo prima del drogarsi, come accade in Drugstore
Cowboy, quando la banda di amici rapina farmacie e su-
permercati, con abili trucchi e molto autocompiacimen-
to; il drogarsi vero e proprio (impasticcandosi, ad esem-
pio) provoca un temporaneo appagamento, che è perva-
sivo e si espande dalla “carne” (dal corpo interno), al
“corpo proprio”14, e apre non solo a fantasie, ma a stati
mentali di allucinazione. Siamo passati così agli effetti
dell’assunzione di droga. Ne troviamo sia di immediati e
ricercati, come lo sballo, sia di subìti come secondari,
perlopiù indesiderati, spesso negati o rimossi, come l’o-
verdose.

2.2. Effetti immediati: viaggi e allucinazioni


Bob, il protagonista di Drugstore cowboy (interpreta-
to da Matt Dillon), spiega che è stato “per lungo tempo
un tossicomane convinto”, e il racconto del film, am-
bientato negli anni Settanta americani, è un lungo per-
corso attraverso la dipendenza spensierata, con rapine e
scontri con la polizia, la morte da overdose della più
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

giovane del gruppo, fino alla disintossicazione di Bob e


al suo tentato reinserimento sociale. C’è anche un cameo
di William Burroughs nelle vesti di un ex prete tossico-
mane che accetta con gratitudine qualsiasi omaggio di
stupefacenti. Il film presenta dei personaggi curiosi e
“bulimici” rispetto a qualsiasi esperienza tossica: il
gruppetto capeggiato da Bob si fa infatti di qualsiasi co-
sa, anche se l’eroina resta la droga preferita. Lo sballo
viene descritto minuziosamente da Bob, come narratore
in voce off, mentre lo vediamo bucarsi sul sedile di die-
tro di un auto in corsa . Lo schermo si compone riem-
piendosi da un lato del suo viso enorme, in primo piano,
e da una serie di lente sovrimpressioni di oggetti che
volteggiano in un cielo terso. La voce di Bob spiega:

Dopo ogni colpo tutti i membri della banda si concedeva-


no un viaggio, e io ridevo da solo, immaginando droghe di
ogni genere in quantità tali da far letteralmente fluttuare
per aria il cucchiaino (...). Entrandomi nelle vene la droga
mi procurava un tiepido formicolio che mi saliva al cervel-
lo fino a consumarlo in una dolce esplosione che prendeva
il via da dietro la nuca. La diffusione era rapida, e alla fine
provavo un tale piacere che il mondo intero mi diventava
simpatico e acquistava un fascino particolare. In quei mo-
menti tutto era magnifico e anche il mio peggior nemico
non era poi tanto cattivo. La terra e l’erba erano, come di-
re, più terra e più erba, tutto assumeva la rosea sfumatura
di un successo senza limiti: mi sentivo infallibile, e finché
durava, la vita era qualcosa di meraviglioso15.

Le immagini scorrono su una musica lieve, che ac-


compagna il movimento di casette, cavalli, alberi, aerei,
che volteggiano rotolando nel vasto cielo azzurro. Sia-
mo in una soggettiva mentale, o meglio in una focalizza-
zione interna allucinata, ma lo spettatore è anche guar-
dato da Bob, in un’interpellazione che buca lo schermo
e rompe la costruzione finzionale. Non siamo quindi
 NICOLA DUSI

solo nella mente di Bob, e non è solo lo spettatore a ve-


dere Bob in primo piano bensì, come si intuisce dal fi-
nale del suo discorso riguardo alla sensazione di un
“successo senza limiti”, è lui stesso che si vede così. Un
essere enorme, espanso nel mondo, con le percezioni
che apprezzano ogni cosa nella sua microrealtà16, e un
senso generale di pacificazione con l’esistenza. Ma an-
che una sorta di delirio di onnipotenza che gli fa crede-
re di tenere tutto sotto controllo. L’incantesimo si chiu-
de bruscamente: iniziamo ad ascoltare una radio che
blatera, nell’auto la ragazza alla guida impreca, e Bob,
riportato nella realtà da questo salto enunciativo che ha
rotto il mondo di secondo livello dentro cui lui fantasti-
cava, si ritrova seduto a guardare la donna come fosse
un sopravvissuto.
Nel corso del film, un secondo momento di viaggio
mentale del protagonista è molto simile a quello appena
descritto. Dopo che è andata in porto una beffa che Bob
ha organizzato a danno degli agenti di polizia che lo pe-
dinano, ecco lo schermo dividersi nello stesso modo,
con il viso in primo piano di lui su un lato, a guardare in
macchina, e la sovrimpressione di migliaia di bollicine
d’aria che salgono dal basso all’alto a frantumare e
scomporre l’immagine, o a renderla acquatica, mentre
gli oggetti della beffa (una pistola e altro) roteano pacifi-
ci nello spazio dello schermo. La musica jazz molto rit-
mata si accompagna a cori di risate e applausi di sot-
tofondo e Bob sorride, soddisfatto del successo che ha
ottenuto. Ci interessa notare che questo trip è ancora
una volta uno spostamento percettivo totale, un’immer-
sione polisensoriale del protagonista (e dello spettatore)
che è passata dal mondo aereo, della prima sequenza di
sballo, a quello acquatico. Ma in fondo, in entrambi i ca-
si, sembra dominare la percezione visiva in focalizzazio-
ne interna: un viaggio tutto mentale e autoerotico, forte
della soddisfazione infantile di dominare il mondo.
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

Abbiamo finora parlato di sballo come di un effetto


visibile dell’assunzione di una sostanza “tossica” da
parte dei soggetti, una figurativizzazione delle alterazio-
ni e delle passioni interne esperite dai corpi. Si danno
però, al cinema, sia casi di indifferenza e improvvisa
calma, dopo la frenesia precedente, sia quei processi di
stordimento con perdita di energia e vomito incontrati
ad esempio nella “prima volta” di Christiane. Se Drug-
store Cowboy racconta l’effetto di pacificazione con il
mondo naturale e sociale, pur mettendo in scena stati
allucinatori, quasi dieci anni dopo Trainspotting parla
di sballo in modo del tutto diverso, esplicitandolo nei
termini di piacere paragonato a quello sessuale. “Quel-
lo che la gente dimentica è quanto sia piacevole, sennò
noi non lo faremmo, in fondo non siamo mica stupidi”,
recita la voce narrante di Renton, il protagonista:
“prendete l’orgasmo più forte che avete mai avuto,
moltiplicatelo per mille, neanche allora ci siete vicini”.
Bucarsi, spiega Renton nella sua giaculatoria iniziale,
permette di semplificarsi la vita dalle scelte socialmente
obbligatorie, di non pensare al lavoro, all’amore, alla
casa da pagare o alla schedina da giocare, ecc., “tutte
cose che non contano quando hai una sincera e onesta
tossicodipendenza”17.
Ma il film mette in campo fin da subito anche un’al-
tra narrazione, molto più disforica, tesa a contrastare e
sminuire l’entusiasmo del narratore e le immagini di ap-
pagamento condiviso che la accompagnano, con il grup-
po di amici che si aiuta reciprocamente a bucarsi alter-
nando chiacchiere su Sean Connery e smorfie di piacere
intenso. Si tratta ad esempio della dimensione cromati-
ca, desaturata e acida nei colori della moquette, o nei
muri scrostati o sfondati, e in generale della luce livida
che condisce tutta la sequenza. Vi troviamo anche il
punto di vista alternativo, quello del mondo degli affetti
del tossico, raccontato come un inevitabile “inconve-
 NICOLA DUSI

niente” da subire. Si tratta delle situazioni in cui gli ami-


ci o i genitori rimproverano il protagonista di “avvele-
narsi il corpo” o di “riempirsi le vene con quella mer-
da”. Un’idea di tossicità che viene ribaltata, mostrata da
un’alta prospettiva, con una netta inversione valoriale:
l’eroina infatti, da portatrice di benessere, diventa “vele-
no”18, o sostanza che intasa il corpo interno, qualcosa di
organico ma mortifero (la “merda”), che circola come
rifiuto solido lì dove dovrebbe esserci il fluire di liquido
vitale.
I trip di Paura e delirio a Las Vegas mettono in scena
deliri molto più destrutturanti, fino allo stordimento al-
lucinatorio totale dei protagonisti. Il film riesce nel suo
intento descrittivo degli stati di alterazione della mente
dovuti alle droghe grazie al continuo alternare visioni
realistiche (in oggettiva) e soggettive mentali allucinate,
ricontestualizzate da spiegazioni in voce off del narrato-
re protagonista, o dai commenti del suo accompagnato-
re. Come si ricorderà, non siamo nel dominio dell’eroina
(semmai i due amici assumono cocaina) bensì nella cul-
tura dell’acido, con un crescendo di miscugli di alluci-
nogeni di varia natura, come la mescalina presa assieme
all’etere e agli acidi lisergici, fino al “potentissimo adre-
nocromo tratto da ghiandole umane”. Un giornalista
sportivo (interpretato da Johnny Depp) arriva all’Hotel
Hilton di Las Vegas, già in uno stato di delirio che lo
dissocia da se stesso: infatti prima blatera a voce alta,
poi in voce off si dice: “l’ho pensato o l’ho detto?”. È un
soggetto fuori di sé19, preda di alterazioni percettive e
visioni terrifiche: alla reception, la donna del bancone lo
guarda troppo fissamente, poi le si allarga enormemente
la bocca e il viso si deforma per divenire una grande te-
sta di rettile; seduto al bar dell’hotel, le allucinazioni ini-
ziano fissando i salatini nella ciotola, che diventano ver-
mi vivi, quindi il tappeto nei suoi giochi geometrici, che
si anima e disfa, mentre il pavimento inizia a riempirsi di
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

sangue e altri liquidi, e lui chiede a gran voce delle scar-


pe da tennis per andarsene. In una sorta di omaggio a
Naked Lunch di Burroughs20, il giornalista, al colmo del
parossismo, vede tutte le persone osservate poco prima
intente alle loro conversazioni (deformate da forti colo-
riture sessuali) diventare enormi rettili, che bevono e as-
sumono pose minacciose. Il dottor Gonzo, l’amico che
lo accompagna (un esilarante Benicio del Toro), gli dirà
poi, e in tal modo lo sapremo anche noi, che lo ha trova-
to urlante, che brandiva un rompighiaccio e aveva terro-
rizzato tutti. Con la sola aggiunta del finale paranoide, la
scena sembra una perfetta trasposizione degli effetti del-
la mescalina descritti anni prima da Huxley:

L’esperienza tipica della mescalina o dell’acido lisergico


comincia con percezioni di forme colorate, mobili, geo-
metricamente vive. Ben presto la geometria pura diventa
concreta, e il visionario non percepisce modelli, ma cose
modellate, come tappeti, sculture, mosaici (...). Animali
favolosi attraversano la scena. Tutto è nuovo e sorpren-
dente (...). La materia prima per questa creazione è forni-
ta dalle esperienze visive della vita ordinaria; ma la mo-
dellatura di questo materiale in forma è opera di qualcu-
no che certamente non è l’io che ebbe originariamente le
esperienze, o che in seguito le ricordò o le approfondì
(Huxley 1954, pp. 79-80).

Paura e delirio a Las Vegas non è solo un omaggio


gioioso alla “grande ondata di acido a San Francisco del
1965”, e alla cultura dell’acido che credeva nella “dispe-
rata qualità mitica che qualcuno custodisse la forza da
qualche parte”, come dichiara la voce narrante, ma è an-
che un film che tenta una ricostruzione cromatica degli
stati allucinatori, lavorando su luminosità sature per ren-
dere le alterazioni percettive del colore. Anche qui si ri-
trova la lezione di Huxley: se la mescalina permette di
“visitare gli antipodi della mente”, tutte le esperienze vi-
 NICOLA DUSI

sionarie sembrano simili almeno rispetto alla “esperien-


za della luce”. Nelle visioni allucinatorie, infatti,

tutto ciò che è visto è brillantemente illuminato e sembra


splendere dall’interno. Tutti i colori sono intensificati a un
grado molto superiore di qualsiasi cosa vista in condizioni
normali, e nello stesso tempo la capacità dell’intelletto di
riconoscere sottili distinzioni di tono e di colore è assai
rinforzata (pp. 73-74).

2.3. Effetti indesiderati, dalla stipsi all’overdose


Distinguiamo, nelle figure del corpo tossico, effetti
maggiori e minori previsti, temuti, indesiderati. Tra i mi-
nori, Trainspotting racconta la stipsi, cioè l’essere preda
di forze interne di trattenimento, cui segue il cedere: “l’e-
roina rende costipati”, recita infatti la voce off di Train-
spotting, e poi: “l’effetto dell’ultima pera sta finendo”
mentre Renton, il protagonista, visto da lontano in cam-
po lungo, si piega comicamente in due, prima di entrare
nel pub con la “latrina più lurida di tutta la Scozia”. Un
altro effetto minore è il calo di libido. Disintossicarsi si-
gnifica infatti, per Renton, ritrovare l’urgenza di stare
con una ragazza e rendersi conto della sua incompetenza
sociale al corteggiamento. Ci torna in aiuto Burroughs
(2001, p. 261), che spiega, molto scientificamente:

Il sistema nervoso vegetativo si dilata e contrae in reazione


ai ritmi viscerali e agli stimoli esterni: si dilata in presenza
di stimoli percepiti come piacevoli (...) e si contrae in pre-
senza di sofferenza, ansia, paura, disagio, noia. La morfina
altera il ciclo completo di dilatazione e contrazione, rilas-
samento e tensione. La funzione sessuale è disattivata, la
peristalsi inibita, le pupille cessano di reagire a luce e
oscurità. L’organismo (...) si adatta al ciclo della morfina.

Dilatazioni e contrazioni della carne, salti e sobbalzi


dei moti interni, si “adattano” al ciclo della droga, che
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

produce uno stato di benessere temporaneamente autar-


chico, riorientando il corpo del tossico fin dai suoi biso-
gni primari. Per Burroughs, infatti, “il tossicomane esi-
ste in uno stato privo di sofferenza, sesso e tempo”, e “il
ritorno a ritmi di vita animale comporta la sindrome da
astinenza” (ib.).
Tra gli effetti maggiori indesiderati, o rimossi, trovia-
mo invece le configurazioni cinematografiche legate al-
l’overdose. Solo in alcuni film l’overdose porta alla mor-
te. Questo avviene sia agli amici di Christiane F., sia alla
ragazzina del gruppo di ladruncoli di Drugstore Cowboy,
e in entrambi i casi non si rappresenta l’azione nel suo
compiersi ma solo a processo avvenuto, con il corpo irri-
gidito trovato dagli amici21.
Consideriamo invece un’altra celebre sequenza di
Trainspotting. Renton è al pub con i genitori: si ritro-
va, appena disintossicato, in preda a noia, depressione
e a una lucidità insopportabile, che blocca e tiene a di-
stanza le passioni degli altri, cioè del mondo socializ-
zato dedito ai piaceri leciti della tombola e all’alcool.
Grazie a un’accelerazione delle immagini, tutto attor-
no a lui pulsa e agisce freneticamente, mentre Renton
sta immobile al tavolo, con molti boccali di birra da-
vanti, ritagliato dallo sfondo solo dal suo colore ciano-
tico. Poi esce, dal retro, e fugge. Evade con un salto
del muro, per andarsi a bucare di “droga pesante”
dall’amico pusher. La voce off di Renton, nel frattem-
po, spiega:

la pena era sospesa e stavo in questo programma. Dipen-


denza sponsorizzata dallo stato. Tre dosi di metadone
dolciastro al giorno invece della roba. Ma non basta mai,
e in questo momento meno che mai. Le ho prese tutte e
tre stamattina, il sudore sulla schiena è come uno strato
di congelo. Devo andare a trovare madre superiora, per
una pera. Una pera, cazzo. Per superare questa lunga
giornata dura.
 NICOLA DUSI

Al piacere immediato dell’iniezione, segue la “botta”


dell’overdose. L’immagine, un dettaglio macro dell’ulti-
mo risucchio della siringa, tra droga e sangue, rima im-
mediatamente con quella della pupilla di Renton, che si
dilata e rimane fissa. Renton sprofonda letteralmente nel
pavimento, trascinandosi dietro il tappeto. Lo schermo
si restringe, tra due cortine di un mortuario velluto ros-
so, e tutto viene percepito da lì, da sottoterra. L’espe-
rienza dell’overdose diventa così una soggettiva dalla fos-
sa, nella quale carne e corpo si toccano, l’involucro del
Sé resta un filtro che tiene fuori il mondo, lo guarda agi-
re, ma è come rovesciato in una profondità intangibile,
in uno sprofondamento solitario, da cui non sa uscire. È
una messa in cornice cognitiva, che vuole raccontare la
caduta dentro le forze che sconvolgono la carne22, e che
porta alla perdita definitiva, alla morte, anzi a uno
sguardo (infero) del quasi morto. La colonna sonora è
mesta e solenne, Just a perfect day di Lou Reed, e il cor-
po dell’attore sprofonda portando con sé lo sguardo
dello spettatore. Siamo con Renton in una soggettiva lu-
cidissima, muta, che guarda il mondo trattarlo con rude
determinazione (il pusher che lo trascina in strada, il tas-
sista che lo scarica a terra senza complimenti), oppure
con sollecitudine, quando al pronto soccorso le infer-
miere lo interpellano e gli iniettano qualcosa che provo-
ca un repentino risveglio, l’uscita dalla tomba.
La sequenza dell’overdose di Trainspotting ci permet-
te una riflessione sui modi del cinema contemporaneo di
utilizzare gli effetti speciali digitali. Le nuove tecnologie
riescono infatti a far entrare ancora di più nella finzione,
dato che il trucco dell’immagine digitale si mette a servi-
zio della narrazione e del film, ma anche dell’universo
sensoriale dello spettatore. Sprofondati nel pavimento
siamo percettivamente, in modo polisensoriale, dentro
una tomba aperta sul mondo, poiché non solo vediamo
tutto ritagliato dal tappeto rosso, ma sentiamo ogni vo-
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

ce, rumore o suono, attutito e distante, come fossimo al


di qua dello schermo.
Come tutti i trucchi o gli effetti speciali, l’effetto digi-
tale serve però nel cinema ad almeno un’altra funzione.
Si tratta stavolta di far riflettere sull’estraneità dei mate-
riali audiovisivi, sulla loro artificialità: quando si aprono
mondi paralleli allucinati, e la musica gioca contro il ru-
more, o la saturazione/desaturazione cromatica lavora
contro l’immagine, o ancora nei casi in cui l’immagine si
ritaglia, le inquadrature si distorcono, il montaggio acce-
lera, sdoppia o sfasa, siamo di fronte a modi enunciativi
dell’autoriflessività23.
Tutte le allucinazioni di Drugstore Cowboy o di Paura
e delirio a Las Vegas, per quanto possano convincerci,
funzionano soprattutto per aprire i livelli della narrazio-
ne e moltiplicare la finzione contro se stessa, sporcando
così il nostro “piacere finzionale”. Non possiamo più,
ingenuamente, abbandonarci come spettatori rilassati,
sospendere l’incredulità ed entrare nella finzione. Venia-
mo scossi, e richiamati al lavoro cognitivo, che è poi un
altro tipo di piacere spettatoriale. Un nuovo modo nar-
rativo che, grazie al digitale, fa entrare nel film momenti
di alterità che spiazzano lo spettatore, portandolo nella
dimensione del “metacinema”.

3. Figure della cura

3.1. La “cura efficace” e la scelta


Potremmo ribaltare la questione, e definire dipenden-
te qualcuno che cerca, incessantemente, di smettere.
Spesso la stessa persona che assume droga vuole
uscirne24, ma non finisce mai di finire: come ricordava
Deleuze parlando del bevitore, “l’ultimo bicchiere è
sempre il penultimo”25. Eppure anche al cinema (come
nella vita) se ne esce. Quello che ci interessa, però, è ac-
 NICOLA DUSI

cennare alle voci e alle opinioni attorno alla cura che


funziona, alla cura efficace. Nel nostro minicampione
troviamo, in Christiane F., una spiegazione semplificata
fatta da Christiane e il suo ragazzo agli amici che ancora
battono al Bahnhof Zoo di Berlino. Raccontano di come
ne sono venuti fuori, con poche pastiglie e poca fatica,
tra l’ammirazione dei compagni. Per quanto il loro di-
scorso sia immediatamente falsificabile dallo spettatore,
che ha assistito alle fasi successive della degradazione
dei corpi in astinenza e alla “rota”, per gli amici questo
risultato è invece verificabile direttamente guardando in
faccia i due, rifioriti. Ai loro occhi, il racconto diventa
verosimile. Più per invidia che per gioco, offrono ai due
una pera, e Christiane e l’amico ci ricascano subito.
Anche in Drugstore Cowboy il protagonista decide
di sottoporsi alla cura dei “21 giorni di metadone”, riu-
scendo a superarla e a ritrovare un equilibrio, addirit-
tura a inserirsi nel mondo del lavoro. Ma quando lo
racconta alla sua ex moglie, ancora pesantemente tossi-
ca, lei non gli crede. Nello scambio di opinioni, la don-
na si propone come un soggetto che vede la vita “nor-
male” come una chiusura delle possibilità, rimanendo
così in una diversa prospettiva valoriale (quella del
gruppo iniziale del film): la droga per lei rappresenta
pur sempre l’euforia, ed esserne fuori solamente il ma-
lessere, o la noia.
In Trainspotting, la voce off di Renton ci informa:
“qualche volta persino io ho pronunciato le fatidiche
parole (...) Mai più amico, ho chiuso con questa mer-
da”. Lo vediamo alzarsi di scatto dal pavimento dove
stava godendo degli effetti dell’ultima iniezione, e in-
neggiare con il pusher al “metodo Sick Boy”, uno degli
amici, il quale è proprio lì, accasciato sul tappeto, a di-
mostrazione dell’efficacia della cura. Renton però è
convinto, e si chiude in casa sbarrando la porta ed elen-
cando una serie di cose necessarie per disintossicarsi:
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

tre bacinelle (per vomito, feci, urine), gelato, cibo in


scatola e bibite, musica distensiva, tv e vitamine, una
boccetta di valium, pornografia. Solo che l’effetto del-
l’ultima pera sta finendo, e ha bisogno di qualcosa per
bloccare il dolore… Quindi rieccolo fuori, con le assi
sulla porta divelte, per andare a cercare “un’ultima do-
se”. In ogni caso, Renton ce la farà: dopo la ricaduta di
cui abbiamo parlato più sopra, i genitori lo costringe-
ranno, a casa loro, a una disintossicazione forzata. Ed
ecco aprirsi le nostre ultime figure.

3.2. La performance della disintossicazione


Ripartiamo da Burroughs (2001, p. 253):

Durante la crisi di astinenza il tossicomane è acutamente


consapevole di quanto lo circonda. Le impressioni senso-
riali sono acuite al limite dell’allucinazione. Gli oggetti fa-
miliari sembrano animati dai fremiti di una vita furtiva. Il
tossicodipendente è soggetto a un fuoco di fila di sensa-
zioni esterne e viscerali. Può provare fugaci istanti di bel-
lezza e nostalgia, ma l’impressione generale è estrema-
mente dolorosa. (Forse le sensazioni sono dolorose a cau-
sa della loro intensità. Una sensazione piacevole può di-
ventare insopportabile dopo che si è raggiunta una certa
intensità).

Prima di soffermarci sulla disintossicazione di Ren-


ton, verifichiamo le configurazioni presenti in Christiane
F. Vi troviamo una crisi di astinenza progressivamente
peggiorativa, totalmente fisica e materica. Christiane e il
suo ragazzo, chiusi assieme in camera da letto, passano
dai tremori lungo tutto il corpo ai crampi alle gambe (ir-
rigidite, come estranee da sé), al sudore freddo e gli spa-
smi, fino alle contorsioni per il dolore e le urla, e infine
al vomito a pioggia per tutta la stanza, poiché hanno be-
vuto, pur di calmarsi, del vino (cosa che il corpo tossico
non tollera).
 NICOLA DUSI

Il corpo che trema e gli arti che non sono controlla-


bili, tra crampi e spasmi, mettono in scena una ribellio-
ne, un conflitto, tra corpo interno e corpo esterno, uno
scontro tra ciò che la carne vuole incessantemente, con
sempre maggiore frenesia, cioè tornare al suo stato di
benessere artificiale, e le manifestazioni esteriori del
corpo involucro rispetto al disagio, al disequilibrio
creato dall’assenza dell’aiutante magico per superare la
prova. Sotto il percorso figurativo dei nostri racconti,
infatti, c’è sempre una sintassi sensomotoria legata a
una prevalenza delle tensioni e delle forze che sconvol-
gono il corpo interno dei soggetti, rispetto al corpo
proprio inteso come involucro26, come io-pelle sul qua-
le questi conflitti tra forze diventano sfigurazioni, segni
visibili di deperimento (occhiaie, abrasioni), tremiti e
sudori.
In Christiane F., sopraffatti dal dolore (“sto troppo
male!”, urla Christiane al compagno) i due ragazzi non
solo bevono ma trovano una dose nascosta tempo pri-
ma, e cercano disperatamente di sniffarla, senza riuscir-
ci. La competenza dei soggetti entra in dissonanza: liti-
gano per impedirsi di prendere il pacchettino con la
droga, poi si accordano per preparare insieme polvere e
cannuccia, ma Christiane ha uno sbotto di vomito e
inonda tutto, rovinando la dose, tra le urla dell’amico. I
due vorrebbero non farsi ma non riescono a resistere alla
sofferenza fisica. Una volta scelto il “male minore”,
però, è dal corpo interno che emerge un atto (involonta-
rio) di dissipazione, che va incontro al loro progetto ini-
ziale, quello di disintossicarsi.
Ci sono anche, per riprendere Burroughs, sensazioni
piacevoli, momenti di rara quiete: Christiane a un certo
punto inizia a strappare pezzetti di carta da parati e sco-
pre il disegno della carta precedente. È quasi un tornare
all’infanzia, ma il gesto diventa presto ossessivo e sfocia
nella frenesia.
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

La disintossicazione forzata del protagonista di


Trainspotting ha a che fare in modo più serio con la “ro-
ta”. Non c’è solo il corpo che trema e suda, il dolore
blaterato o urlato, ma soprattutto le allucinazioni – pie-
ne di sensi di colpa – nelle quali si alternano perfidi ami-
ci che danno consigli perentori e presenze legate allo
squallore e alla morte. Uno stato durativo di disforia e
disancoramento da Sé, non più solo corporeo ma, so-
prattutto, psicologico. Renton, nella consueta voce off,
lo descrive così:

sono nel limbo dei tossici adesso, troppo a pezzi per dor-
mire, troppo stanco per stare sveglio. Ma i sintomi della ro-
ta sono in viaggio: sudori, nausea, dolori e voglia di droga,
un bisogno diverso da tutti gli altri sta per abbracciarmi.

Renton è ripreso in oggettiva, a figura intera. Lo


vediamo soffrire e contorcersi da sopra il letto, poi in
modo ravvicinato da sotto le lenzuola, e nell’alternarsi
dei modi dello sguardo entriamo in soggettiva nelle
sue percezioni allucinate che guardano in modo di-
storto, via via, la sua ragazza che gli canta una canzo-
ne, gli amici che lo sfottono o lo incitano; un program-
ma tv a quiz sull’HIV, al quale partecipano i suoi geni-
tori, che torna come un ossessivo ritornello sulla paura
più incombente (ma Renton, alla fine, risulterà “puli-
to”). L’amico Spud, ora in prigione, batte le sue catene
seduto sullo stipite della porta, un altro amico, il tossi-
co più recente, che è anche il più rovinato (morirà so-
lo lui, per tutti gli altri), scivola lungo una parete fis-
sandolo triste. La stanza è rivestita di carta da parati
con modellini di treni, come in un incubo infantile, e
si deforma e si allunga, mentre il letto avanza o indie-
treggia, in un montaggio discontinuo. Infine, la visio-
ne più intollerabile: il neonato morto della ragazza del
gruppo gli cade sulla faccia, dopo essersi pericolosa-
mente avvicinato a quattro zampe dal soffitto. Il deli-
 NICOLA DUSI

rio della rota non è solo allucinazione e distruzione


delle geometrie spazio-temporali: anche la musica di
sottofondo cresce nella sua ritmica martellante, tutto
diventa insopportabile. Renton geme, si contorce tra
le lenzuola, suda copiosamente, e infine urla dispera-
to: “io non c’entro!”.

3.3. Sul tremore


Abbiamo visto i (poveri) corpi tossici, le loro figure
dolorose. Prima di chiudere il nostro excursus, una bre-
ve parentesi. Nel racconto di Maupassant Due amici,
due signori francesi, che sono andati a pescare uscendo
spensierati dalla Parigi assediata dai tedeschi, vengano
catturati dai nemici e interrogati dall’ufficiale prussiano,
che vuole la parola d’ordine per entrare nella città, cre-
dendoli delle spie. Loro non la sanno, ma restano co-
munque in silenzio, con una comune decisione eroica, e
vengono fucilati. Greimas (1976), analizzando il raccon-
to, riparte dalla distinzione fenomenologica tra carne e
corpo proprio, spiegando come al momento della con-
danna a morte riaffiori il somatico, sotto forma di “tre-
more”. I due amici vengono infatti colti da un tremito
incontrollabile: i moti intimi si mostrano nel movimento
del corpo involucro, del corpo pelle, e in tal modo il
sensoriale si figurativizza27.
Il tremito, nella proposta di Deleuze e Guattari, fa
parte della più elementare delle varietà, o dei composti
di sensazione, cioè di quella vibrazione che “caratterizza
la sensazione semplice”, poiché “segue una corda invi-
sibile più nervosa che cerebrale”, nella quale è implica-
ta comunque una “costitutiva differenza di livello”
energetico (Deleuze, Guattari 1991, p. 172). Seguendo
Fontanille, potremmo contestualizzarlo come una delle
figure prodotta da più ampie configurazioni in gioco tra
carne e corpo, presa tra gli estremi della contrazione e
dell’instabilità28.
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

Ma in fondo, più semplicemente, ci piace tornare alle


intuizioni di Barthes. Parlando della Pop Art come di
un’arte “dell’essenza delle cose”, Barthes spiegava la ri-
petizione dell’immagine prodotta da Wahrol come una
manipolazione tesa a “dare l’impressione che l’oggetto
tremi davanti all’obbiettivo o allo sguardo”, perché
“cerca la sua essenza, cerca di situare davanti a voi que-
sta essenza” (Barthes 1980, p. 202). Per noi spettatori,
persi nel buio della sala, il corpo del tossico che trema
agisce allo stesso modo: non è solo una figura plastica,
dovuta ai conflitti (tensivi) tra Me e Sé, ma un “far vi-
brare la sensazione” (Deleuze, Guattari 1991, p. 172).
Quel che si ottiene allora è un immediato effetto di sen-
so: un effetto di verità o, meglio, l’affermazione di
“un’essenza di individuo”29.

4. Controtempo

Per concludere, riprendiamo il problema dei saperi


del tossico rispetto alla relazione tra il proprio corpo e
tutte le sostanze assumibili. Il tossico, abbiamo cercato
di dimostrare, è un soggetto ipercompetente, che sa cosa
aspettarsi da ogni pillola, polvere, droga lecita o
illecita30. Spesso nei nostri film entra in scena il conflit-
to con le competenze del medico o dell’istituzione sa-
nitaria, legato alla circolazione dell’oggetto di valore
(immediato) del tossico, la droga. Se il dono viene ne-
gato, si passa all’espropriazione tramite furti o altri
stratagemmi: in Trainspotting, ad esempio, durante le
visite dal medico si rubano i blocchetti delle ricette per
prescriversele da soli.
In tutti i film citati, da Christiane F. in avanti, non c’è
solo la ricerca continua di qualsiasi cosa con cui “farsi”,
ma anche la competenza di cosa cercare. In Paura e deli-
rio a Las Vegas troviamo persino disquisizioni colte sulla
 NICOLA DUSI

differenza degli effetti dell’etere rispetto a quelli dell’aci-


do e della mescalina, per non dire dell’adrenocromo
(tratto, sembra, dalle ghiandole dell’adrenalina umana):
l’ironia e il paradosso risiedono nel continuo sperimen-
tare, da parte dei due dotti protagonisti, quante più so-
vrapposizioni possibili dei diversi effetti in cerca dello
sballo totale31. Il film più interessante, per questo pro-
blema, rimane però Drugstore Cowboy. “Noi andavamo
direttamente alla fonte”, spiega il protagonista, anche lui
in voce off narrante. Il medico diventa infatti solo un in-
termediario con il sistema farmaceutico, mentre l’ospe-
dale (o il drugstore, appunto) viene vissuto come una
banca, il deposito dei valori, degli oggetti desiderati: “il
mondo è pieno di medicine contro il dolore (…) noi le
prendevamo tutte”.
Restano, inevase, alcune domande. Qual è la motiva-
zione della dipendenza, almeno di quella rappresentata
al cinema? È una scelta o una necessità? E perché il tos-
sico non ce la fa a “vivere normalmente”, a contenere il
malessere, magari facendosi di alcool in “modiche quan-
tità”? Sono forse domande mal poste, dato che si tratte-
rebbe innanzitutto di rimettere in questione il concetto
di “normalità”: la madre del protagonista di Trainspot-
ting, ci spiega Renton, è una tossica anche lei, ma nel
“modo socialmente tollerato” che la fa vivere tranquilla
grazie a sonniferi e antidepressivi…
Eppure, non è la “scelta di non scegliere la vita”, che
fortifica la filosofia anarchica di Trainspotting, a fornire
una risposta. Ne troviamo una migliore, pur sempre par-
ziale, nel finale di Drugstore Cowboy. Il protagonista
spiega come il tossico sia un soggetto particolare, dato
che “nessuno può convincere un drogato a non farsi”:

prima o poi qualcosa troverà: fumo, coca, vino, whisky, o


una pallottola dritta nella testa, cioè qualcosa che possa al-
leviare le angosce della vita di tutti i giorni, a cominciare
dal doversi allacciare le scarpe.
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

Poco, ma una pista, per parlarci della fragilità del


tossicomane. Nel suo monologo finale, steso sul lettino
dell’ambulanza che lo porta via (si è appena preso una
pistolettata da un suo ex amico spacciatore), sentiamo
ancora un ultimo commento:

non sai mai che cosa ti succederà tra poco: è per questo che
Nadine ha scelto la via più facile per uscirne [è morta di
overdose], è per questo che Dianne [l’ex moglie] vuole con-
tinuare. La maggior parte della gente non ha idea della sen-
sazione che proverà tra cinque minuti; per un tossicomane
invece è diverso, lui lo sa: gli basta leggere un’etichetta.

La fragilità del tossico non sembra (solo) legata al-


l’angoscia della routine quotidiana e alle costrizioni del-
la vita sociale, a un non senso sempre incombente, che
con la droga viene invece canalizzato. C’è una incertezza
del vivere che appare come un problema di temporalità
e di narrazione. Di fronte all’apertura sempre incomple-
ta dei possibili narrativi, e a una temporalità in avanti
vissuta come angosciante, il tossico cerca la sicurezza di
una storia ripetuta. Vuole ritrovare almeno una certezza,
una sensazione conosciuta, già nota, che scardini il dive-
nire e lo faccia ritornare in un tempo iterativo e rassicu-
rante. O forse vuole solo fermarsi e, almeno per un mo-
mento, uscire dal tempo.

1
Nei termini di Merleau-Ponty 1945.
2
Rinviamo all’introduzione di Gianfranco Marrone al XXXII Congresso
della Associazione Italiana di Studi Semiotici (Spoleto, ottobre 2004), dal te-
ma: “Il discorso della salute testi, pratiche, culture” (disponibile nel sito
www.associazionesemiotica.it/attività).
3
Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino (Christiane F. Wir Kinder
vom Bahnhof Zoo), di Ulrich Edel, Germania, 1981, ambientato nel clima post
punk tedesco degli anni Settanta, tratto dal romanzo omonimo di Christiane F.
4
Pulp Fiction, di Quentin Tarantino, USA, 1994.
5
Drugstore Cowboy, di Gus Van Sant, USA, 1989, ambientato nel 1971.
Dal romanzo di James Fogle.
 NICOLA DUSI

6
Trainspotting, di Danny Boyle, Inghilterra 1996, tratto dal romanzo di
Irwine Welsh.
7
Per un’analisi semiotica comparativa (tra libro e film) sulle questioni della
soggettività legata alle istanze percettive e alla sensorialità si veda Marrone 2005.
8
La configurazione del drogarsi per cercare l’incoscienza (e la leggerezza,
prima della discoteca e degli incontri sessuali), si ritrova anche nei film più re-
centi se pensiamo alle scene di assunzione di cocaina o di oppio in La sposa
turca (di F. Akin, 2003), o all’eroina che circola e finirà per uccidere ne La
mala Educación di Almodóvar (Spagna, 2004).
9
Ci rifacciamo ancora alle categorie teoriche proposte da Marrone nel-
l’introduzione al Congresso Aiss di Spoleto 2004 (www.associazionesemioti-
ca.it/attività).
10
Si veda un film capostipite come L’uomo dal braccio d’oro (The Man
with the Golden Arm), di Otto Preminger (USA, 1955), tratto dal romanzo
omonimo di Nelson Algren, con Frank Sinatra nei panni di un tossicomane in
continua lotta con se stesso.
11
Sono termini ripresi dalla semiotica del corpo proposta da Fontanille
2004.
12
Sulla dinamica sinestetica tra corpo interno e corpo proprio, giocata su
conflitti tra forze, sostanze e forme (tra musica, corpo e immagini) si veda
Marrone 2005.
13
Sullo sballo come sincretismo di movimento nello spazio e musica rin-
viamo al saggio di Spaziante infra.
14
Sempre nell’accezione di Merleau-Ponty 1945.
15
Dal film Drugstore Cowboy.
16
A Huxley (1954), dopo aver preso la mescalina, ogni dettaglio che lo cir-
conda “appare come nel momento della propria creazione”, nella sua essenza.
17
Nel romanzo di Welsh e nel film di Boyle si ritrovano gli echi della le-
zione di Burroughs (2001, p. 261): “Il tossicomane è immune dalla noia. Può
guardarsi le scarpe per ore o starsene semplicemente disteso a letto. Non ha
bisogno di valvole di sfogo sessuali, contatti sociali, lavoro, diversivi, ginnasti-
ca: non ha bisogno di nulla, solo della morfina”.
18
Etimologicamente, farmaco deriva dal greco pharmakón, “rimedio”.
Presso gli antichi greci, il pharmacos era la vittima sacrificale, il capro espiato-
rio da allontanare dalla città. La sostanza pharmakón, allora, allontana dal
corpo malato lo spirito maligno che lo affligge. È evidente la natura ambigua
delle droghe, tra l’altro conservata nelle lingue anglosassoni dove il termine
drug può significare sia farmaco che droga. A seconda del dosaggio e, più in
generale, del loro uso, droga e farmaci possono essere, come ben si sa, curati-
vi o tossici. “Omero, del resto, usa lo stesso termine per indicare sia il nepen-
te – bevanda probabilmente a base di oppio che Elena offre allo sconsolato
Telemaco in cerca di notizie di suo padre (Odissea, libro IV, vv. 219-234) – sia
la pozione malefica con cui la maga Circe aveva trasformato i compagni di
Ulisse in maiali (X, 210-243); probabilmente un infuso di solanacee dagli ef-
fetti depersonalizzanti” (Lentini 2002).
19
Lo potremmo definire un soggetto débrayato dal suo corpo proprio
(sul meccanismo enunciativo del débrayage, cfr. Greimas, Courtés 1979).
20
Il romanzo di W. S. Burroughs è del 1959.
TOXIC CINEMA, TOXIC DREAM 

21
Non è invece il caso di film più recenti come il già ricordato La mala
Educación di Almodóvar (Spagna 2004) in cui il protagonista si accascia sulla
macchina da scrivere, mentre sta scrivendo una lettera, coniugando così dro-
ga, morte, amore.
22
Dentro il “Me”, secondo Fontanille 2004.
23
Sugli effetti audiovisivi che rendono percettivamente tangibile lo stato
allucinatorio, si veda il saggio di Peverini infra.
24
Devo questa osservazione al dibattito seguito alla tavola rotonda su
“Droghe e altre dipendenze” del già ricordato Convegno Aiss 2004 su “Il di-
scorso della salute”.
25
Si tratta di una delle voci raccolte come intervista nel suo Abecedaire, a
cura di Pierre André Boutang e Michel Pamart.
26
Ci riferiamo ancora allo studio di Fontanille (2004).
27
Devo questa osservazione a Paolo Fabbri.
28
“Le trasformazioni elementari del corpo si presentano intuitivamente,
dal lato del Me, come dilatazioni e contrazioni della carne; dal lato del Sé¸ co-
me stabilità e instabilità della forma del corpo proprio. La stabilità si manife-
sta, tra i vari modi di occorrenza, in termini di chiusura e di immobilità, e
l’instabilità in termini di apertura e di deformazione” (Fontanille 2004, p. 41).
29
“Il tremito della cosa agisce (è il suo effetto di senso) come una posa:
(...) affermazione di un’essenza d’individuo” (Barthes 1980, p. 202).
30
Nel film Le invasioni barbariche (Les Invasions Barbares, Canada-Fran-
cia, 2002) di Denys Arcand, morfina ed eroina vengono usate a scopi terapeu-
tici, prima per alleviare il dolore di un malato terminale e infine per condurlo
a una morte dignitosa e consapevole. Nel finale, sarà proprio la ragazza
(ex)tossica a ereditare la biblioteca del professore che ha aiutato a morire, di-
mostrando così che la sua expertise sulle droghe non era semplice competen-
za legata agli “effetti" ma anche apertura agli “affetti”, ricerca e sensibilità nel
confronto tra esperienze (e forme) di vita.
31
In Paura e delirio a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas) di Terry
Gilliam (USA, 1998, tratto dal romanzo di Hunter S. Thompson), c’è anche
una presa in giro radicale dell’incompetenza dei poliziotti. Nel loro convegno
annuale sulla repressione delle droghe, il relatore di turno propone (tutto
sommato, molto semioticamente) “quattro stadi nel consumatore di cannabis:
sfrontato, inveterato, al passo, conservatore”.
Sostanze tossiche, forme stupefacenti
Gianfranco Marrone

La realtà è solo un effetto pro-


dotto dalla mancanza d’alcol
Jack Nicholson1

1. Latte corretto per musiche destinanti

La tipica serata di Alex – giovane e cattivissimo eroe


di Stanley Kubrick in Clockwork Orange (1971) – ha
stancamente inizio al Korova milkbar, dove la sua banda
di “drughi” si riunisce regolarmente per decidere come
trascorrere la notte. Il Korova è una specie di pub dal
gusto barocco dove si serve “latte più” (“moloko plus”,
dice la sceneggiatura originale), ovvero – spiega la voce
over del protagonista-narratore – “latte rinforzato con
qualche droguccia mescalina” (“milk plus vellocet or
synthemesc or denacrom”), “roba che ti fa robusto, e ti
rende disposto all’esercizio dell’amata ultraviolenza”
(“this would sharpen you up and make you ready for a
bit of the old ultra-violence”). E la notte brava termina a
casa, un triste appartamento piccolo-borghese dove,
“per un finale perfetto” (“to give it the perfect ending”),
è necessario “un tocco del grande Ludovico Van” (“a bit
of the old Ludwig van”). Il teppista metropolitano rivela
così la sua anima dandy, e il cerchio si chiude con ag-
ghiacciante eleganza: la notte non è passata invano2.
A ben vedere, in questa storia ambigua e autoriflessi-
va la droga e la musica non si collegano soltanto per
un’eco del significante (a bit of the old / a bit of the old)
che incornicia tematicamente una situazione iterativa.
Ben più in profondità, si tratta di due figure che, se pure
apparentemente molto diverse, giocano un ruolo narra-
 GIANFRANCO MARRONE

tivo analogo: danno la carica, corroborano il corpo e lo


spirito, provocano visioni di sangue e di sesso, incitano
alla violenza. Esaurita l’energia del “latte più”, i quattro
drughi tornano infiacchiti al Korova: e se quello stupido
di Dim si riempie un altro bicchiere dal seno di una
bianca scultura femminile, il raffinato Alex si lascia in-
cantare da una “giovane devotchka” che intona l’Inno
alla Gioia e, rientrato a casa, s’affretta a “fare il pieno”
di Beethoven. Droga e musica sono insomma due diver-
si Destinanti narrativi, attanti decisivi nell’economia di
ogni storia perché forniscono al soggetto, prima ancora
del potere, il voler-fare, ovvero il sistema di valori trami-
te cui elaborare programmi d’azione e di passione. Più
che oggetti coi quali congiungersi, sono soggetti che fan-
no e fanno fare. Non è un caso che il “Trattamento per
la redenzione dei criminali” subito da Alex al centro del
film – la violentissima, istituzionale Cura Ludovico –
consisterà nel riempire sistematicamente il suo corpo
con veleni e con suoni. Due elementi che il giovane do-
vrà in seguito espellere, a qualsiasi costo e condizione,
per ritrovare la sua originaria voglia di “violenza espres-
siva”. Accade insomma che la sostanza musicale funzio-
ni per sinestesia secondo i modi dell’ingestione e dell’e-
spulsione e, parallelamente, la medicina segua le vie
maestre di sensorialità variamente sinestetiche3.
Le cose sono al tempo stesso più complesse e più
chiare nell’omonimo romanzo di Anthony Burgess
(1962), da cui è tratto, non senza difficoltà e distinguo,
questo film sempreverde che continua a stupire per la
sua onirica precisione. Nelle pagine dello scrittore ingle-
se vengono radicalmente distinti due tipi di droghe (ec-
citanti e sedative) così come due forme di musica (ecci-
tanti e sedative), che entrano in complesse relazioni poe-
tiche di parallelismo e d’inversione. Anche qui, la storia
ha inizio al Korova milkbar, “un posto di quelli col latte
corretto” dove la maggior parte degli astanti beve “il
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

vecchio mommo (…) con la sintemesc o la denacrom o


il vellocet” (p. 9): “robette che ti davano un quindici mi-
nuti tranquilli tranquilli di cinebrivido stando ad ammi-
rare Zio e tutti gli Angeli e i Santi nella tua scarpa sini-
stra” (ib.), ma che in fondo sono “trucche da vigliacchi”
(p. 11) le quali – come l’oppio per Baudelaire – finisco-
no per trasformare le persone in sub-umane cose (p.
36). Alex e la sua banda preferiscono invece deglutire
“il latte coi coltelli dentro”: “e questo ti rendeva sviccio
e pronto per un po’ di porco diciannove” (p. 9), di mo-
do che, appena “i coltelli del vecchio mommo comincia-
no a bucare” (p. 12), i quattro schizzano fuori dal locale
pronti per una lunga notte di superomistiche violenze.
Agli stupefacenti dai nomi fantasiosi che “mandano in
orbita” e lasciano per ore rincantucciati in un angolo del
bar, i quattro ragazzi preferiscono una droga senza no-
me proprio, ma con una descrizione figurativa ben defi-
nita (“coi coltelli”), la quale procura loro quella necessa-
ria energia che, regolarmente, li trasforma in pericolosi
malviventi notturni.
E, anche qui, le analogie fra droga e musica, raddop-
piate, si rivelano d’una straordinaria precisione. Alex
termina la sua serata a casa ascoltando sonate che lo
portano all’estasi, mentre i suoi tre “soma” al Korova
continuano a ingurgitare sostanze eccitanti. “La musica
– ammette il giovane poco dopo – mi rendeva ancora
più sviccio, fratelli, mi faceva addirittura sentire come il
vecchio Zio in persona, pronto a far tuoni e saettame e
ad avere martini e quaglie scriccianti in mio ha ha pote-
re” (pp. 53-54). Così, in più occasioni la musica sinfoni-
ca funziona da Destinante energetico che fornisce al
soggetto-eroe addirittura il dover-fare: “c’era un’auto in
transito con la radio accesa e io snicchiai un paio di bat-
tute di Ludwig van (…) e locchiai immediatamente quel
che dovevo fare” (p. 66). Finché, nel corso della Cura, le
cose divengono evidenti: è la medicina stessa, iniettata
 GIANFRANCO MARRONE

giornalmente nel corpo di Alex, a chiamarsi – con evi-


dente antonomasia – “Ludovico”, tipico pharmakón am-
bivalente, al tempo stesso veleno e rimedio; ed è la musi-
ca a penetrare nell’involucro corporeo del giovane, a in-
sinuarsi fra le viscere, a rimbombare dentro la testa, per
poi fuoriuscirne sotto forma di altre, variabili spoglie
troppo umane.
A questa musica sinfonica euforica ed eccitante, for-
malmente omologa al “latte coi coltelli”, s’oppone nel
testo del romanzo la disforica musica pop, “miagolata
da orribili eunuchi sbertati” (p. 57) e ascoltata da stupi-
di e vigliacchi di vario tipo, come le due “mammolette”
rimorchiate alla “discobutik” (pp. 55-59) o l’infermiere
che assicura forzatamente Alex alla sedia da tortura nel
corso della Cura (p. 119): tutti sistematicamente assog-
gettati alla violenza di quelle “grandi macchine” sociali
che sono, secondo Alex, le scuole, le carceri e gli ospe-
dali. Si tratta, inutile dirlo, della musica di chi assume
latte corretto con cose come il “sintemesc” o il “vello-
cet”, sostanze che mandano in orbita per un po’ ma in
fin dei conti rincretiniscono, cancellando ogni dovere o
voler-fare4.

2. Tradurre sostanze tramite forme

La configurazione narrativa di Arancia meccanica,


nelle sue manifestazioni letteraria e cinematografica, si
rivela testo esemplare per le questioni trattate e per le
prospettive d’analisi adottate in questo volume. Come
s’è visto, in questa storia truce dal fondo buonista droga
e musica si mettono in relazione e si ribaltano l’una nel-
l’altra a partire dai modi – narrativi, figurativi, aspettuali
ecc. – della loro assunzione e degli effetti pragmatici
provocati da tale assunzione sui soggetti coinvolti. Più
che una questione di somiglianza esteriore, o di possibi-
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

le rappresentazione dell’una attraverso l’altra, si tratta di


un’omologia formale profonda – tanto specifica nella sua
manifestazione quanto tipica nella sua generalizzabilità
– che rende possibile, per così dire, in presa diretta la
reciproca traduzione.
Allarghiamo il campo d’indagine. Tradizionalmente
si suole distinguere l’universo delle droghe (eroina, ha-
shish, LSD ecc.) da quello delle non droghe (per es. alcol,
tabacco, caffè) sulla base di criteri etico-sanitari e, in de-
finitiva, giuridici. È tossicodipendente chi trasgredisce
certi divieti, non lo è chi resta nella norma degli usi con-
sentiti o quanto meno tollerati. In questo quadro, tutte
le droghe sono pressoché uguali di fronte alla legge. Dal
lato opposto, all’interno dell’universo delle droghe ven-
gono distinti vari tipi di tossicodipendenza – più o meno
gravi, più o meno dannosi per la salute individuale e col-
lettiva – a partire dalle differenti sostanze stupefacenti
che vengono assunte. Così, lo stile di vita di chi consu-
ma, poniamo, hashish apparirà per principio diverso da
quello di chi assume, invece, eroina o cocaina o alluci-
nogeni o altri prodotti sintetici. Secondo questa prospet-
tiva, ogni droga è diversa di fronte alla coscienza indivi-
duale e al mondo sociale, e da ognuna di esse deriva uno
specifico sistema di valori e di credenze, di azioni e di
passioni, di rappresentazioni e di fantasie. Infine, una
volta posti questi universi separati, più o meno articolati
al loro interno, della droga e della non droga, ci si inter-
roga sulla possibile rappresentazione testuale di tali
esperienze – somatiche, percettive, cognitive, affettive
ecc. – attraverso linguaggi costitutivamente ritenuti
“adeguati” quali, per esempio, la musica, il cinema, le
arti figurative e simili5.
L’esempio di Arancia meccanica mostra come, semio-
ticamente, le cose possano essere intese e studiate in
modo diverso. Mostra che le droghe, per esempio, si
possono distinguere fra loro non tanto sulla base delle
 GIANFRANCO MARRONE

particolari sostanze – più o meno immaginarie – che


vengono assunte (e, prima ancora, delle loro etichette
onomastiche); quanto piuttosto a partire dai loro ruoli
narrativi e affettivi, delle loro configurazioni tematiche,
dai loro processi sensoriali e somatici. Non importa che
cosa sia effettivamente la denacrom o il vellocet, così co-
me non è rilevante conoscere la sostanza che si cela nei
“coltelli” del latte di Alex: siamo comunque perfetta-
mente in grado di spiegare e di comprendere la radicale
opposizione delle strategie di assunzione di queste due
droghe, e soprattutto dei loro effetti psicologici e com-
portamentali, cognitivi, pragmatici e affettivi. Ne deriva
che, proprio a partire dai loro ruoli e dalle loro configu-
razioni, le droghe possono essere assimilate a – e dun-
que scambiate con – sostanze e situazioni tradizional-
mente considerate molto diverse come, appunto, la mu-
sica (i differenti tipi di musica) e le immagini (i differen-
ti tipi di immagine). Più che distinguere le sostanze stu-
pefacenti secondo criteri positivistici (per materia pre-
sunta naturale), separandole dalle non-droghe (per nor-
ma presunta etica), e paragonandole a situazioni ed
esperienze aprioristicamente differenti (per convenzione
estetica), la prospettiva sociosemiotica preferisce ricor-
rere a criteri e ragioni di tipo eminentemente formale.
Modifica in tal modo le prospettive, proponendo origi-
nali accostamenti e nuove separazioni.

3. Alterazioni e alternative

I saggi raccolti in questo volume rendono conto di


questa diversa prospettiva d’indagine. Interessati alle for-
me invarianti più che alle sostanze variabili, essi partono
dall’idea (teorica e metodologica al contempo) secondo
la quale non ci sono, da un lato, le esperienze concrete di
tossicodipendenza, o le pratiche di consumo della droga
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

realmente vissute e, dall’altro, i testi – visivi, verbali, mu-


sicali – che le rappresentano in modi più o meno imma-
ginari, più o meno veritieri, più o meno efficaci. Molto
diversamente, ogni esperienza vissuta è già di per sé una
totalità significante, un insieme conchiuso di forme
espressive e forme semantiche in continuo divenire, dun-
que un testo; e, parallelamente, ogni testo è una pratica
all’interno di un ambiente socio-culturale, che risponde a
pratiche precedenti e ne provoca di ulteriori. Testi, espe-
rienze e pratiche sono, da prospettive diverse, la stessa
cosa. Come nell’universo immaginario di Alex, le espe-
rienze d’ascolto della musica non sono rappresentazioni
più o meno felici di antecedenti pratiche d’assunzione
della droga. Si tratta, molto diversamente, di traduzioni
reciproche, di intrecci e di sovrapposizioni fra fenomeni
e situazioni pressoché intercambiabili poiché dotati delle
medesime forme, dunque egualmente significanti.
Da qui l’indagine sociosemiotica dell’universo indivi-
duale e culturale delle droghe abbozzata in questo libro,
serie di analisi di configurazioni testuali pertinenti, tutte
a loro modo esemplari.
Il saggio di Juan Alonso introduce la problematica,
centrale in tutto il libro, della tossicodipendenza come
forma autonoma di organizzazione dell’esperienza che
tende a moltiplicare programmi d’azione e processi
d’auto-osservazione di sé, facendo del consumatore abi-
tuale di droghe un epistemologo senza saperlo, ipercom-
petente sia sulle dinamiche del corpo fisico sia su quelle
del corpo sociale. A questo proposito l’autore analizza le
esperienze con la mescalina descritte da Michaux, osser-
vando come in esse emerga uno “stile percettivo” (tipi-
co, secondo lo scrittore francese, anche dell’hashish) di-
pendente da una tendenza all’incoativo e al virtuale che
finisce per produrre una “tragedia dell’intensità”.
Lucio Spaziante prende in esame il discorso psiche-
delico che, a partire da una serie di esperienze allucino-
 GIANFRANCO MARRONE

gene, circola nella cultura hippy degli anni Sessanta e


Settanta. Le alterazioni sinestetiche e ritmiche della per-
cezione provocate dagli acidi vengono tradotte grazie a
una serie di linguaggi – soprattutto di tipo visivo e musi-
cale – che provano a figurativizzarle ricorrendo a imma-
gini caleidoscopiche o sonorità ipnotiche più o meno
esotizzanti. Sia le immagini sia le musiche psichedeliche
sono l’esito di implicite riprese (visive e sonore) in sog-
gettiva: si vede nelle immagini e si ascolta nelle musiche
qualcosa di analogo a quel che vede e sente chi è preso
dall’esperienza psichedelica, di modo che le due sostan-
ze convocate mettono in gioco apparati sensoriali pro-
grammaticamente distorti, alterati, allucinati.
Federico Montanari mostra come la sottocultura
punk, ponendosi all’antitesi di quella hippy, si sia auto-
costituita in nome di alcune forme profonde dell’espe-
rienza come quella della “velocità”, che permea i com-
portamenti individuali e di gruppo, le pose del corpo, i
ritmi musicali, l’abbigliamento e anche la scelta di certe
droghe – fra le quali, non a caso, lo speed. E ricorda an-
che come la pratica del bricolage di materiali poveri o
addirittura di rifiuti fosse presente allo stesso modo nel-
le composizioni dei brani musicali, nella scelta dei vestiti
e nei rituali di alterazione attraverso sostanze apposita-
mente risemantizzate come stupefacenti quali la colla, i
solventi, il solfato o certi medicinali a basso costo.
Paolo Peverini studia la visione costitutivamente alte-
rata prodotta dai – e inscritta nei – video musicali. Da
una parte, infatti, il videoclip fa vedere l’esperienza delle
droghe, la ripropone al suo spettatore sotto forma (an-
che qui) di riprese in soggettiva in cui l’immagine si
deforma e si altera come si presume debba accadere sot-
to l’effetto di droghe; dall’altra, la fruizione stessa dei vi-
deo musicali si pone come analoga, talvolta sostitutiva,
dell’esperienza della droghe. Così, grazie alla traduzione
fra musica, immagini e sostanze stupefacenti, lo spetta-
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

tore viene doppiamente drogato: una volta come enun-


ciatario inscritto, un’altra come soggetto empirico
Attraverso una ricognizione del cinema contempora-
neo, Nicola Dusi ricostruisce alcune “figure della tossi-
cità”, presenti soprattutto nel mondo dei consumatori
abituali di eroina. Analizzando un piccolo corpus di film
viene fuori una ricchissima fenomenologia dell’esperien-
za riguardante le cosiddette droghe pesanti: figure del
corpo tossico (astinenza, dipendenza, ricerca), effetti a
breve e a lungo termine della dipendenza (allucinazioni,
calo della libido, coazioni a ripetere, overdose), figure
della cura (dolori e disintossicazioni, ricadute e nuovi
buoni propositi) vengono variamente narrati e figurati-
vizzati nello schermo cinematografico. Ne viene fuori
una trasformazione dell’immagine del drogato a partire
da un progressivo passaggio dall’idea del corpo macchi-
na (serie di organismi che si alterano e si sfasciano) a
quella del corpo proprio (processi complessi percettivi e
passionali, ma anche cognitivi e pragmatici).
Si tratta insomma di frammenti, abbastanza ampi e
parzialmente rappresentativi, di alcune subculture co-
siddette giovanili che hanno fatto – e continuano a fare
– dell’uso più o meno ostentato, più o meno fondato
scientificamente o mitologizzato immaginariamente, del-
le droghe una delle principali basi per la costruzione
della loro identità sociale, della loro coesione modale e
figurativa interna, della loro riconoscibilità esterna. Da
una parte si dà una serie di pratiche sperimentali di alte-
razione del fisico e della mente, tenuti distinti o riunifi-
cati a seconda dei casi, a partire dall’assunzione rituale
di sostanze molto diverse – naturali o artificiali, legali o
vietate, ricche o povere che siano. D’altra parte, queste
stesse pratiche, nel momento in cui vengono ritualizzate,
assumono valore collettivo e tendono a produrre sotto-
e contro-culture generalmente giovanili, le quali spesso
si auto-rappresentano come alternative rispetto alle nor-
 GIANFRANCO MARRONE

me sociali e culturali dominanti, con ricadute politiche


di segno talora opposto. L’alterazione porta insomma al-
l’alternativa, o viceversa. Per questo parliamo di sensi al-
terati: la trasformazione è al tempo stesso dei sensi e del
senso, percettiva e semantica, corporea e sociale. Al
punto che è molto difficile, forse impossibile, certamen-
te inutile, separare le due sfere. Estesia e socialità, ricor-
da Alonso con Landowski, coincidono.

4. Intermezzo metateorico sul materiale tossico

Ci si potrebbe chiedere per quale ragione, se – come


s’è detto – per la sociosemiotica testi, esperienze e prati-
che sono la stessa cosa, si sia scelto qui di lavorare so-
prattutto su testi, di tenerli in costante e primaria consi-
derazione, lasciando sullo sfondo le esperienze e le pra-
tiche – le quali, tutto sommato, continuano per molti a
conservare un sapore di maggiore “realtà” o “verità”. La
risposta sarebbe lunga e complessa, ed esula dalle perti-
nenze specifiche di questo lavoro.
Potremmo comunque rispondere invocando, più
per esemplarità che per autorità, il Greimas di Dell’im-
perfezione (1987), il quale aveva provato a studiare i
processi sensoriali semioticamente pertinenti andando
a cercare il modo in cui alcuni testi letterari ne parlava-
no al loro interno. Non si trattava, per lui, di evocare
rappresentazioni mimetiche di esperienze presunte rea-
li, ma di ricostruire “modelli discorsivi” proposti da
singoli testi (Tournier, Calvino, Tanizachi ecc.), come
tali facilmente generalizzabili in quanto ipotesi di spie-
gazione di altre possibili esperienze, letterarie e non.
Analogamente, analizzare Arancia meccanica, Lucy in
the Sky with Diamonds o Trainspotting non significa la-
vorare su mimesi testuali di esperienze sociali reali a
essi esterne (poniamo, dei Mods, delle comunità hippy
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

o dei tossici). Vuol dire semmai provare a ricostruire, a


partire dai contenuti enunciati in questi testi, modelli
discorsivi utilizzabili come ipotesi di spiegazione di
quelle e di altre esperienze – tanto reali quanto imma-
ginarie. Ancora una volta, il miglior modo per studiare
le pratiche è andare a vedere come i testi (d’ogni forma
e sostanza espressiva, in ogni caso inscritti in generi
precisi e determinate culture di riferimento) le raccon-
tano nel loro piano del contenuto.
Occorre ricordare, inoltre, che i testi hanno la gran-
de prerogativa d’essere attestati, d’esser stati prodotti
da un qualche soggetto, culturalmente e socialmente si-
tuato, a prescindere dalle analisi che – dopo – possono
esserne fatte; di darsi, cioè, nel mondo senza la media-
zione dell’osservatore-interprete che li intende disse-
zionare. Le esperienze e le pratiche, invece, non godo-
no di questa prerogativa: o sono costruite ad hoc, arti-
ficialmente, per essere soggette a specifiche analisi di
laboratorio; oppure, per essere studiate, hanno costitu-
tivo bisogno delle maglie interpretative – ossia delle ar-
ticolazioni testuali implicite (narrative, discorsive, figu-
rative ecc.) – d’un osservatore che, prima ancora di
esaminarle, deve metterle a fuoco, selezionarle, racco-
glierle, collezionarle6. I testi insomma, fuor di parados-
so, sono ben più “naturali” delle esperienze vissute,
non foss’altro perché non negano mai d’essere tali, né
d’essere al contempo esperienze concrete ed effettive
pratiche d’uso.
Il ricorso ai testi, inoltre, evita i rischi della genera-
lizzazione affrettata e della conseguente – sempre in ag-
guato – universalizzazione stereotipa. Essi instaurano
configurazioni di senso a loro immanenti che, se e
quando li trascendono, è perché migrano in altri testi,
venendo costantemente tradotte e ritradotte in catene
inter- e metatestuali che si agitano nella dinamica della
semiosfera o, se si vuole, delle differenti situazioni cul-
 GIANFRANCO MARRONE

turali. Se pure i testi sono prodotti locali che prendono


corpo a partire da generi discorsivi e pratiche d’uso glo-
bali (Rastier), è altrettanto innegabile che questi generi
e queste pratiche si danno come contenuti di altri testi
o metatesti che, parlandone, li rendono disponibili al
dialogo e al conflitto culturale (Lotman).
A proposito di un universo sociale quale quello del-
le droghe (dove fra l’altro – per definizione – ogni op-
posizione fra reale e immaginario viene costantemente
neutralizzata), focalizzare l’attenzione su testi attestati,
e sulle loro traduzioni intersemiotiche, permette una
precisa osservazione: se in certi casi le associazioni (per
es. fra tipi di droghe) e le distinzioni (per es. fra dro-
ghe e non droghe) tendono ad apparire spontanee e
quasi-naturali, in altri invece danno luogo ad associa-
zioni ben differenti, se non a opposizioni e conflitti.
Nella sottocultura giovanile punk, ricorda ancora
Montanari, sostanze differenti come le sigarette, la bir-
ra, le anfetamine e la colla venivano assunte una dopo
l’altra, formando una specie di serie sintagmatica cano-
nica, dove la differenza fra droghe e non droghe perde-
va, da tutti i punti di vista, qualsiasi pertinenza. Il pun-
to, per noi, è però sottolineare che queste pratiche non
erano vissute in modo spontaneo, ma venivano intellet-
tualizzate, inserite cioè in una sfera di autoconsapevo-
lezza soggettiva e intersoggettiva che le testualizzava in
modi diversi: dai racconti orali alle fanzine, dai testi
delle canzoni ai romanzi più o meno spontanei e glori-
ficanti. Ancora una volta, fra esperienze vissute e for-
me di testualità il confine diviene molto sottile, sino
quasi a sparire.
La ricchezza e la varietà dei processi di alterazione
– semantica e sensibile – legati all’assunzione di dro-
ghe che è presente nei testi letterari, audiovisivi e mu-
sicali è enorme, e per noi estremamente significativa.
E sicuramente molto maggiore di quella che potrebbe
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

essere presente negli effettivi vissuti individuali o col-


lettivi, siano essi direttamente verbalizzati dai soggetti
coinvolti (tramite interviste, questionari, focus, dialo-
ghi psicologici, testimonianze di vario tipo) oppure os-
servati (tramite analisi etnografiche o forme di parteci-
pazione situazionale) da soggetti epistemologici ester-
ni, a loro volta necessariamente situati. La droga, so-
stiene lapidariamente Alonso, è un fatto semiotico to-
tale, una forma di vita – individuale e collettiva – che
riguarda tutti i livelli possibili della generazione del
senso. Essa infatti: coinvolge e trasforma individui e
gruppi, valori e modalità d’azione, passioni e percezio-
ni, corpi e organi di senso; altera spazializzazioni, tem-
poralizzazioni, attorializzazioni, ritmi, agogie, tensioni,
intensità; dà luogo a specifiche forme di figurativizza-
zione e di visualizzazione, di sonorità e di gusti, di
consistenze e di visceralità; convoca apparati giuridici
e sanitari, distribuisce vizi e virtù, abbatte logiche
(“se... allora”) e ne propone di nuove (“lo so... ma co-
munque”); tocca da molto vicino l’assiologia profonda
della vita e della morte.
I testi – referente interno e salvezza epistemologica
del semiologo – dicono e ridicono tutto questo, lo ren-
dono disponibile alla comunicazione sociale e alla signi-
ficazione culturale, alle trasformazioni etiche e alle oscil-
lazioni del gusto, alle mode del momento e alle simboli-
che transculturali. Un programma di ricerca sull’univer-
so vario e complesso, sfuggente e pervasivo al contem-
po, qual è quello dei fenomeni legati all’uso e al consu-
mo delle droghe – già da tempo d’interesse di varie
scienze umane e sociali, e adesso ritraducibile in senso
sociosemiotico – ha dinnanzi a sé questo materiale te-
stuale ampio e diversificato, al cui interno si ritrovano
esperienze e pratiche, del quale occorrerà pazientemen-
te e progressivamente rintracciare le articolazioni forma-
li e le invarianti possibili.
 GIANFRANCO MARRONE

5. Aria irrespirabile e soldatini boliviani

Il mito, diceva Lévi-Strauss, è l’insieme delle sue tra-


sformazioni, la storia mai raccontata e non raccontabile
ricostruita a partire dalle sue innumerevoli, sempre par-
ziali, variazioni nello spazio e nel tempo. Come fare per
cogliere un universo mitologico complessivo? Secondo
l’etnologo occorre scegliere come punto di partenza, in
modo relativamente arbitrario, una singola variante nar-
rativa, porla come mito di riferimento, e compararla a
tutte le altre varianti che s’incontrano, allargando e rive-
dendo il modello di spiegazione via via elaborato. Fin-
ché non si ritroveranno che tautologie insignificanti, e
l’analisi potrà essere interrotta. È allora che il modello,
saturato, diverrà ipotesi interpretativa non solo per i te-
sti già presi in esame, ma anche per tutti quelli che po-
tranno incontrarsi in seguito, e forse addirittura per
quelli che ancora dovranno essere prodotti all’interno di
un preciso genere narrativo e di un determinato univer-
so immaginario.
Questa procedura, nella sua lapidaria semplicità e si-
cura efficacia, potrebbe esser seguita anche nel program-
ma di ricerca che qui s’intende lanciare. Dinnanzi a un
campo d’indagine talmente vasto e vario da apparire in-
controllabile, potremmo per esempio porre – con un’ar-
bitrarietà mitigata dall’analisi preventiva cui è stata sotto-
posta – l’esemplare configurazione testuale di Arancia
meccanica quale “mito di riferimento”, in vista della co-
struzione di un generale modello esplicativo dell’universo
sociosemiotico delle tossicodipendenze. In questa confi-
gurazione abbiamo infatti una serie di elementi che – ri-
presi e modificati per parallelismi e inversioni – possono
essere usati come prime domande da porre ai nuovi testi
da analizzare. Pensiamo soprattutto alla relazione d’ana-
logia formale fra i processi di consumo delle droghe e del-
la musica, e alla differenza di droghe (e musiche) eccitanti
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

con droghe (e musiche) sedative. Ma pensiamo anche alle


forme rituali di micro-socializzazione che la selezione del
tipo di droga, e la sua conseguente assunzione, produce
fra i soggetti: se nel consumo di “latte più” Alex fa corpo
con la sua banda (e si oppone paradigmaticamente a chi
usa correggere il “vecchio mommo” con la denacrom),
nell’ascolto della musica preferisce isolarsi nella sua “mi-
gna cameretta” o esibirsi in performance individuali “ul-
traviolente”, come quando violenta due ragazzine al suo-
no glorioso dell’Inno alla Gioia.
Proviamo allora a vedere se e come in alcuni testi let-
terari, molto diversi fra loro per stile obiettivi e cultura,
questi due elementi tornino e si trasformino. Il campo
d’indagine, anche volendo tenere (provvisoriamente) fra
parentesi l’universo dell’alcol, è anch’esso enorme: dalle
opere ormai classiche di Gautier, Baudelaire, De Quin-
cey, Coleridge, Rimbaud e Poe, a quelle anch’esse entra-
te nel canone di Cocteau, Artaud, Huxley, Benjamin,
Burroughs, Kerouac ecc., sino alle testimonianze più re-
centi di autori come Pincio, Welsh e gli altri del gruppo
di Intoxications (cfr. Davidson, a cura, 1988), ci trovia-
mo di fronte a una grande quantità di situazioni e feno-
menologie, pratiche e linguaggi, storie e personaggi7. Ma
l’esperienza delle droghe, fra l’altro, circola anche e ben
al di là delle opere letterarie dove è tema di base e isoto-
pia centrale. Si insinua – come appunto in Arancia mec-
canica – in narrazioni molto diverse nelle quali, proprio
perché non sta in primo piano, interagisce con altri te-
mi, s’intreccia ad altre isotopie, traduce – o viene tradot-
ta con – altre configurazioni immaginarie che la arricchi-
scono talmente da farla apparentemente dissolvere. Ed è
in questo secondo genere di opere – eccentriche rispetto
alla tradizione ormai ufficiale del cosiddetto “testo dro-
gato” – che, con ogni probabilità, ci vengono offerte le
migliori configurazioni della questione che stiamo af-
frontando.
 GIANFRANCO MARRONE

Per esempio, in uno dei primi romanzi del noto au-


tore italiano Andrea De Carlo, Uccelli da gabbia e da
voliera (1982), le relazioni fra droghe e musica sono
molto diverse da – ma comunque comparabili a – quel-
le proposte da Kubrick e Burgess in Arancia meccanica.
Più che un’omologia formale fra sostanze diverse, è qui
in gioco un’opposizione pertinente. In questa storia
d’amore e terrorismo le droghe si inseriscono in una
complessa isotopia figurativa riguardante l’aria, all’in-
terno della quale vengono collocati in una scala cre-
scente di densità e di respirabilità l’hashish, le sigaret-
te, l’ambiente inquinato della metropoli e l’aria di
montagna. Sia le relazioni sociali sia le esperienze affet-
tive e somatiche del protagonista Fiodor (nomen omen)
si modificano a seconda della densità dell’aria che si
trova a respirare, entro cui il suo stesso corpo si trova
talvolta forzatamente invischiato. A seconda che sia
sulle Alpi o fra le nebbie milanesi, in un salotto pieno
di fumo o a un concerto dove circolano hashish ed er-
ba, cambia il suo umore (più o meno ansioso, più o
meno rilassato) e cambiano i suoi rapporti con gli altri
personaggi (più o meno stretti, più o meno distanti). Il
fumo degli “spinelli” consumati dai vari soggetti della
storia acquista in tal modo un particolare valore pros-
semico: riempie la distanza fra le persone, modificando
le relazioni intersoggettive e le percezioni del mondo.
Ecco come viene descritta l’attesa collettiva dell’inizio
di un concerto rock:

tutti fumano tutto il tempo; aspirano a fondo e soffiano


fuori in un atteggiamento dimostrativo. Ci sono singoli se-
duti uno di fianco all’altro che scrollano la cenere con mo-
vimenti sincronizzati; coppie intrecciate attorno a una sola
sigaretta; gruppi tenuti ancora più vicini del normale da
spinelli di hashish che tracciano venature dolciastre nella
nebbia che sale fino al soffitto e che cala a poco a poco a
offuscare la vista del palco. Il fumo diventa più denso, si
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

assorbe nei vestiti, nei capelli; altera sguardi e toni di voce,


allunga le distanze, colma gli spazi liberi (De Carlo 1982,
pp. 61-62).

L’atmosfera acquisisce valori tattili diversi a seconda


della densità dell’aria, resa progressivamente più impe-
netrabile dal fumo di sigarette e spinelli, al punto da
rendere gradevole persino la nebbia milanese (“sguscia-
mo fuori, respiriamo a fondo l’aria grigia”) e da esigere
da lì a poco un soggiorno alpino disintossicante. Nel
corso della vicenda a questi valori tattili variabili si asso-
ciano per semisimbolismo sia differenti forme di relazio-
ni sociali (isolamento, innamoramento, inserimento in
un gruppo o in una collettività) sia differenti stati affetti-
vi e somatici (impossibilità di respirare, ansia, angoscia,
rilassamento). A rompere le diverse situazioni intersog-
gettive, passionali e somatiche, facendo quasi da punteg-
giatura al ritmo narrativo, è il suono metallico e affilato
della chitarra elettrica suonata nervosamente da Fiodor.
Tale suono, come viene ripetuto più volte, “squarcia l’a-
ria”, risemantizzando relazioni erotiche e sociali, stati
corporei, umori, programmi d’azione. La musica viene
così inserita nella configurazione discorsiva dell’aria co-
me Opponente interno al tabacco e all’hashish, ripulitu-
ra puntuale e momentanea di situazioni divenute inso-
stenibili o atmosfere ormai irrespirabili.
Anche per quanto riguarda la seconda questione, re-
lativa alle potenzialità eccitanti delle droghe, esiste una
gran quantità di esempi letterari. In essi l’energia procu-
rata dalle droghe mette in moto processi figurativi e mo-
dulazioni ritmiche molto diversi, che coinvolgono in ter-
mini volta per volta originali le dimensioni pragmatica,
cognitiva, passionale e somatica del senso. Si pensi, a
questo proposito, alle rutilanti pagine iniziali del primo
romanzo dello scrittore americano Jay McInerney Bright
Lights, Big City (1984), dove il protagonista-narratore si
 GIANFRANCO MARRONE

trova nel bel mezzo di una tipica nottata all’insegna del-


la cocaina (McInerney 1984, pp. 7-13). Il tempo trascor-
re in continui alti e bassi umorali e somatici, affettivi ed
etici, legati all’“epidemica mancanza di chiarezza” dovu-
ta a “un eccesso di biancolina”. Tutto è diventato “effet-
to collaterale gratuito” e “paralisi di terminazioni nervo-
se”. La droga, paragonata a uno stuolo di “piranha che
guizzano nelle vene” e di “marimbas che ronzano nella
testa”, viene figurativizzata ricorrendo all’isotopia di
una serie di soldatini boliviani che si agitano nel cervello
– marciando, danzando, cadendo, rialzandosi, stancan-
dosi e riprendendosi a seconda dei casi. Gli effetti della
cocaina agiscono quasi all’unisono su tutte e quattro le
dimensioni semiotiche. Nei momenti di calo, quando i
soldatini “sono stanchi e infangati per la lunga marcia
attraverso la notte; hanno i buchi nelle scarpe, hanno fa-
me; hanno bisogno di sostentamento, di un po’ di Tira-
misù Nazionale”, l’umore è nero, si vuol essere altrove,
si vuole cambiar vita, metter su famiglia e condurre una
felice esistenza borghese. Sniffata “una riga di Tiramisù
boliviano”, ecco che i soldatini “si sono rimessi in piedi,
stanno marciando in formazione, alcuni stanno anche
ballando” e “tu non puoi fare a meno di seguire il loro
esempio”. L’atmosfera torna a essere affascinante, la vita
sorride e si torna carichi di energia e voglia di fare: pras-
si stereotipe come ballare sfrenatamente o sedurre affa-
scinanti ragazze dall’aria esotica. Ma, poco dopo, ecco
che i soldatini, sebbene ancora in piedi, “hanno smesso
di cantare la loro marcetta”: “la depressione incombe”,
la “testa risuona di una repubblica di voci” al tempo
stesso incoraggianti e moralizzatrici, e “ti senti invadere
dal panico” e dal desiderio di solitudine. Da qui un nuo-
vo rifugiarsi alla toilette per un altro tiro, con “i soldati-
ni che cantano la loro marcetta” e un ulteriore, fortuito
incontro pseudo-galante pronto a spegnersi di lì a poco.
Finché la notte termina nel modo in cui è iniziata, con “i
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

soldatini [che] si stanno ammutinando” e il pensiero che


s’impantana nei recenti disastri coniugali.
In questo testo, la marcia dei soldatini attraverso la
notte funziona da figurazione dinamica per una serie di
complessi processi di alterazione: può trasformarsi eufo-
ricamente in danza, producendo ritmi e musiche da ma-
rimbas dentro la testa; può rallentare progressivamente
sino a esaurirsi, facendo nascere nel cervello miriadi di
voci contrastanti che risuonano confusamente. Così, le
pose somatiche dei soldatini non sono la rappresentazio-
ne visiva e acustica esteriore di quel che accade nella
mente del protagonista preso dalla cocaina. Sono sem-
mai la manifestazione figurativa, per così dire, in presa
diretta di quel che il suo corpo effettivamente sente e fa,
prova e desidera, subisce e provoca. La marcia, in tal
senso, è una sorta di base ritmica minima per una serie
di programmi d’azione che si inscatolano (sintagmatica-
mente) o si sostituiscono (paradigmaticamente), per una
gran quantità di dinamiche passionali che si succedono
e si ripetono, per un sistema di valori oppositivi messi
perennemente in discussione da valenze che non riesco-
no però a sovrastarli del tutto.

6. Assunzione euforica di ciclici mal di testa

Se nel romanzo di McInerney i processi di alterazio-


ne sono descritti in una serie di modulazioni variabili
ma in fin dei conti iterative, con picchi d’intensità e con-
seguenti cicliche diminuzioni, in un’opera dal gusto pa-
tafisico dello scrittore e giornalista basco Juan Bas, il
Trattado sobre la resaca (2003), i processi di tossicodi-
pendenza sono visti a partire da un’aspettualizzazione
apparentemente terminativa. Più che concentrarsi sugli
effetti dell’alcol durante la sbornia, e meno che mai sulle
motivazioni che possono spingere a bere, Bas descrive la
 GIANFRANCO MARRONE

cosiddetta resaca (l’hangover inglese, la guele de bois


francese, il Kater tedesco, senza corrispondente lessicale
in italiano)8, ossia quel che di fisicamente e psicologica-
mente spiacevole accade a un amante dell’alcol – non a
un alcolista o a un astemio, ma a un bevitore assiduo e
competente – il giorno dopo una gigantesca bevuta. Il li-
bro si configura esteriormente come una puntigliosa ri-
cognizione del problema, una sua accurata fenomenolo-
gia svolta a partire da esperienze personali o da testimo-
nianze altrui (spesso riprese da romanzi o film), e pro-
pone in una serie di consigli e prescrizioni utili per non
soccombere alle insopportabili “stilettate” dei prover-
biali mal di testa accusati il giorno dopo.
A ben vedere, però, è l’intero programma narrativo
del metodico consumatore di alcolici che, per presup-
posizioni progressive, viene ricostruito; e con esso
un’intera, specifica forma di vita in cui la sostanza alco-
lica è, molto chiaramente, l’esito di alcune preventive
operazioni di articolazione formale dei processi esisten-
ziali. “Il bevitore – scrive Bas – è un avventuriero men-
tale e fisico, una persona con un senso epico e riflessivo
della vita che alterna l’edonismo e lo stoicismo con la
saggezza” (Bas 2003, p. 25). L’intera sua esistenza è
scandita in alcuni stadi canonici che si succedono se-
condo una serie di implicazioni necessarie e, soprattut-
to, secondo una logica narrativa delle presupposizioni.
C’è un momento chiave durante ogni bevuta, diverso
soggettivamente, nel quale il bevitore competente è ben
cosciente che quel piccolo sorso in più gli procurerà il
giorno dopo “una botta sicura, infallibile e inevitabile
così come le tasse o la morte” (p. 23). È il “punto di ca-
tastrofe” che, all’interno dei processi d’ebbrezza, separa
la fase dell’euforia controllata da quella della vera e
propria sbornia. È il momento al tempo stesso di massi-
ma concentrazione cognitiva e di perdita della coscien-
za etica in cui il bevitore cronico fa quel che sa non an-
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

drebbe fatto ma che vuole irresistibilmente fare ugual-


mente: bere un altro sorso, lasciarsi andare alla sbronza,
nonostante sappia bene quel che gli procurerà il giorno
dopo (“chissenefrega”).
La competenza del bevitore, acquisita nel tempo e
orgogliosamente rivendicata, è dunque secondo Bas ab-
bastanza complessa. Il saper bere non è soltanto l’essere
a conoscenza di quanto il proprio corpo può sopporta-
re senza particolari danni, il controllo delle quantità
d’alcol ingeribili, il sapere quando smettere. Questa
specie di inscrizione somatica del dovere sociale (o –
che è lo stesso – di morale del corpo) entra infatti in
collisione con le altre, più forti mire dell’amante dell’al-
col, che regolarmente e consapevolmente decide di
continuare a bere, anche sapendo che il giorno dopo se
ne pentirà amaramente e inutilmente, e che il giorno
dopo ancora deciderà di non caderci mai più. Il “bevi-
tore serio” è insomma, per Bas, un amante dell’eccesso,
qualcuno che “non si fermerà mai di fronte al magico
sorso X (...), sebbene conosca a perfezione le conse-
guenze della sua gioiosa ingestione”, proprio perché,
molto semplicemente, “quel sorso in quel momento è la
cosa più allettante che ci sia” (ib.).
L’intera esistenza del bevitore acquista così un ritmo
triadico che si ripropone ciclicamente: il momento della
bevuta (che porta inevitabilmente alla sbornia), il mo-
mento della resaca (dove il malessere fisico è accompa-
gnato da un inutile pentimento), il momento della rifles-
sione (dove l’intera esistenza viene presa in esame, ri-
proponendosi in malafede di non ricaderci più). Se agli
occhi esterni di un moralizzatore sociale questi tre mo-
menti si succedono secondo un ordine temporale e cau-
sale che dal primo va verso il terzo, a quelli interni di un
bevitore professionista essi hanno senso solo se pensati –
e vissuti – alla rovescia: non cioè come una successione
di cause (bere fa ubriacare, ubriacarsi fa star male, il ma-
 GIANFRANCO MARRONE

lessere conduce al pentimento, il pentimento alla rifles-


sione...), ma come una serie di conseguenze (la decisione
di cambiar vita viene presa perché c’è stata la resaca, la
resaca perché c’è stata la sbornia, la sbornia perché s’è
superato il sorso X...). Così, quel che per il moralizzato-
re è un’incongruenza insensata (“se sai come fa a finire,
perché lo fai lo stesso?”), per il bevitore è perfettamente
sensato (“mi piace e basta”), di modo che ogni azione
trova la sua ragion d’essere all’interno di una storia cicli-
ca e infinita.
Per questo Bas dichiara di non amare particolarmen-
te le celebri narrazioni epiche delle sbornie (da Daumal
a Hemingway e ai suoi epigoni): esse pongono al centro
della forma di vita del bevitore il momento iniziale,
quello della bevuta e dell’ebbrezza, e non quello centra-
le, realmente importante perché donatore di senso, della
resaca. È la resaca il fenomeno chiave della vita di un be-
vitore, non la bevuta: è questa esperienza, nella sua di-
sforica ambivalenza, a costruire tutto il senso del bere, a
produrre il ritmo tipico e necessario dell’assiduità nel
consumo di alcolici. Il principio profondo, insomma,
non è “bevo perché mi piace”, ma “mi piace bere nono-
stante stia male e sappia che me ne pentirò”9.
Fatte salve le evidenti differenze di superficie, di-
scorsive e testuali, viene in tal modo stabilita quella che
potremo considerare la base fondamentale di ogni tossi-
codipendenza: il suo essere un’alterazione ritmica del-
l’intera forma di vita del soggetto, a tutti i livelli e le di-
mensioni del senso, e il suo far riferimento a una sorta
di principio motore d’ordine narrativo e modale che tale
alterazione provoca originariamente e alimenta giorno
per giorno. Se la resaca è, considerata di per sé, “un’al-
terazione del nostro modo di agire e di pensare” (p. 26)
che dà luogo a fenomeni somatici, comportamentali,
cognitivi, passionali molto precisi (descritte con dovizia
nel corso del libro), più in generale essa mobilita il sen-
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

so stesso del bere, il volersi ciclicamente ubriacare, fa-


cendo del consumo d’alcol un vero e proprio stile di vi-
ta. Ma non sarebbe difficile applicare il principio moto-
re che regola l’esistenza del bevitore – “mi piace nono-
stante stia male e sappia che me ne pentirò”– a molti al-
tri fenomeni di esperienza con le droghe, sia che si trat-
ti del regolare consumo di sostanze culturalmente e so-
cialmente etichettate come tali, sia che coinvolga altri
oggetti del desiderio, dalle patatine fritte al sesso estre-
mo. C’è un desiderio che s’intensifica con i divieti e
che, in più, trae piacere e orgoglio dalla stoica e consa-
pevole assunzione dei disastri che l’oggetto desiderato
prima o poi provocherà sul fisico e sul morale10.
Ovviamente, quel che più importa dal punto di vista
culturale e psicologico, dunque semiotico, sono i modi
in cui questa base narrativa e modale – ipotizzabile co-
me principio motore della tossicodipendenza (forse ba-
nale nella sua patetica semplicità) – viene assunta dai
singoli soggetti, individuali e collettivi, viene cioè riem-
pita di azioni e passioni concrete, dotata di tempi e spa-
zi, alimentata da tematiche e configurazioni, manifestata
a livello espressivo sulla base delle situazioni sociali e
degli assetti culturali, dei discorsi e dei testi.

7. Vino plus

Si potrebbe obiettare che i testi qui convocati descri-


vono situazioni e processi diversi di alterazione (seman-
tica e sensibile) perché fanno riferimento a droghe, cioè
a sostanze, diverse: composti sintetici in Burgess e Ku-
brick, hashish in De Carlo, cocaina in McInerney, alcol
in Bas. Risponderemo dicendo che è proprio questo uno
dei motivi per cui si sono trascelti questi esempi. Quel
che importa in essi, e nel loro accostamento, è infatti
che, sebbene parlino di sostanze stupefacenti diverse,
 GIANFRANCO MARRONE

tutti e quattro questi testi finiscano per proporre, ognu-


no a suo modo, tipi di relazioni paradigmatiche e sintag-
matiche fra sostanze stupefacenti che trascendono di
gran lunga la distinzione sostanzialista, e tradizionale,
fra queste stesse droghe.
Così, per esempio, in De Carlo la relazione fra siga-
rette e hashish sta in una scala di intensità crescente nel-
la densità e nella respirabilità dell’aria; ed esula dal fatto
che le prime siano socialmente tollerate mentre il secon-
do perseguito dalla legge, ossia che le prime stiano di so-
lito fra le non droghe mentre il secondo fra le droghe;
così come esula dall’immagine stereotipa dell’hashish
come forma creativa di socializzazione (“don’t bogart
that joint, my friend, and pass it over to me”)11. Allo
stesso modo, in Bas viene tematizzata la questione dei
possibili accostamenti sintagmatici fra alcol e altre dro-
ghe (leggere e non), esattamente negli stessi termini in
cui il bere – o, meglio, il doposbronza – entra in relazio-
ne con pratiche più o meno quotidiane quali il mangia-
re, il dormire, il prendere l’aereo o il fare sesso.
In Burgess, poi, se da una parte, come s’è visto, dro-
ghe e musica sono accoppiate a due a due a seconda dei
loro effetti eccitanti o sedativi, da un’altra esse entrano
in un’opposizione pertinente con il consumo dell’alcol:
non è un caso se il primo malcapitato che viene “festa-
to” dalla banda dei quattro “drughi” sia proprio un vec-
chio ubriaco, così come non è un caso se il cappellano
del carcere (che riporta le tesi etiche dell’autore all’in-
terno del testo) sia sempre olezzante di whisky. A que-
st’opposizione fra droghe e alcol è stato, del resto, molto
attento Kubrick nella sua trasposizione filmica. Se pure
elimina l’alcolismo del cappellano, introduce ex novo
una scena particolarmente significativa: il tradimento di
Alex da parte dello scrittore avviene attraverso una bot-
tiglia di vino francese (“ottimo, Sir”), dentro cui si cela
un potente sonnifero; è un ribaltamento poetico rispetto
SOSTANZE TOSSICHE, FORME STUPEFACENTI 

al “latte più” del Korova che segnala l’opposizione se-


mantica fra droghe (euforiche) e alcol (disforico).
Così, il noto paradigma mitologico che pone come
contrari, cromaticamente e culturalmente, il vino e il lat-
te (Bachelard, Barthes) viene convocato nel discorso ci-
nematografico, al di là della stessa isotopia alcolica, per
risemantizzare l’opposizione fra droghe eccitanti e seda-
tive a cui Burgess aveva affidato gran parte dei suoi ra-
gionamenti figurativi, e che Kubrick aveva preferito –
almeno apparentemente – eliminare. Laddove il primo
si fa portatore occulto di sonno ingannatore e silenzioso,
il secondo è donatore intenzionale di energia mentale e
corporea, nonché di euforia musicale.

1
Privi di fonte, rubiamo l’epigrafe alla conclusione di Juan Bas (2004,
p. 181).
2
Cfr. Kubrick 1972, che contiene la sceneggiatura originale del film.
3
Del resto, quest’omologia formale di sostanze diverse veniva rivelata
già nei primi fotogrammi del film, dove sulla parete di fondo del Korova –
grazie a un lento carrello all’indietro – era possibile leggere quattro scritte
rivelatrici: “Moloko plus”, “Moloko Syntemesc”, “Moloko Denacrom”,
“Moloko Vellocet”. È il menu del bar, ma sembrano i titoli di testa di un
film e, verosimilmente, il cartellone che annuncia la serie delle arie d’un im-
minente concerto. Sul meccanismo della sinestesia come reinterpretazione
dei modi del sensibile sotto forma di autonome sintassi figurative, cfr. Fon-
tanille 2004.
4
Per un esame più approfondito di queste dinamiche relative a Arancia
meccanica, film e romanzo, rinvio a Marrone 2005.
5
Su questi problemi, cfr. almeno Szasz 1974; Ongaro Basaglia 1979; Der-
rida 1988; Sissa 1997.
6
“I dati esterni – scrive Lévi-Strauss (1971, p. 639) nell’Uomo nudo –
non sono mai colti intuitivamente in se stessi bensì sotto forma di un testo
elaborato attraverso un’azione congiunta degli organi di senso e dell’intellet-
to”. Su tale questione, cfr. fra gli altri Pozzato 1993 e Marsciani 2001, dove
essa è sviluppata nei termini del basilare passaggio teorico ed epistemologico
dalla fenomenologia allo strutturalismo e alla semiotica.
7
Tra gli studi di letteratura comparata in materia, cfr. Castoldi 1994, che
insiste sul nesso tra droghe e creatività; Milner 2002, sull’immaginario doppio
delle droghe; e Ghelli 2003, che lavora invece sulla rappresentazione lettera-
ria degli effetti delle droghe, ritrovando in esse anche un “principio di orga-
nizzazione formale del testo letterario”.
 GIANFRANCO MARRONE

8
La terminologia adoperata, così come la sua assenza, non è ovviamente
innocente. In uno specifico, fondamentale capitolo Bas (2003, pp. 35-40) ri-
costruisce le differenze lessicali presenti nelle varie lingue per indicare quel
che in italiano possiamo indicare solo con l’espressione temporale sostanzial-
mente neutra “doposbornia”. La resaca spagnola, per esempio, si ricollega al-
la “risacca marina”, “una pericolosa corrente che ti vuol risucchiare portan-
doti lontano” che ben metaforizza il “vortice vertiginoso dell’inerzia nera” del
giorno dopo la sbornia. L’hangover inglese, molto diversamente, dà un’idea di
sospensione; il Kater tedesco rinvia al gatto ma per certi versi anche al catarro
(Katarr); la guele de bois francese è una specie di muso di legno, espressione
animalesca bloccata, anch’essa quasi sospesa, in angosciata attesa del peggio;
in olandese si usa la metafora del chiodo (heb) per riferirsi al mal di testa; in
norvegese c’è l’espressione boscaiola jeg har tommermen che letteralmente si-
gnifica “falegnami in testa”; e così via. Un’analisi semantica comparata, meno
ingenua di quella proposta da Bas, sarebbe già un buon modo per approfon-
dire lo studio del fenomeno.
9
Sulla nozione semiotica di forme di vita, cfr. Fontanille, a cura, 1993;
Fontanille, Zilberberg 1998 (dove fra l’altro si porta l’esempio dell’oppio per
Baudelaire). Cfr. inoltre Montes, Taverna 2000, sulla forma di vita legata alle
sigarette.
10
“La tossicomania (...) realizza una teoria del desiderio. Una teoria che
farebbe della mancanza non il genietto delle vite felici bensì un orco intratta-
bile; non la molla inappagabile che dà ritmo alla felicità bensì un buco nero in
cui il godimento diviene inseparabile dalla pena più acuta” (Sissa 1997, p. 8).
11
Il rinvio d’obbligo è ovviamente a Pivano 1977, pp. 11-28.
Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema au-
tore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora ne-
gli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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Stampato per conto della casa editrice Meltemi
nel mese di luglio 2005
presso Arti Grafiche La Moderna, Roma
Impaginazione: Studio Agostini

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