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VERSO L’EMPIREO

CAP. II

A legare i tre canti purgatoriali sulla superbia, oltre alle corrispondenze formali, vi sono anche alcune linee
tematiche, fra cui importantissima è l’indagine sugli artisti, sulla tentazione autotelica che insidia il loro
operare. Il fermentare dell’orgoglio entro l’esperienza artistica non viene trattato da Dante come un
semplice assillo privato, ma è un problema che viene indagato più volte durante l’opera.
In questi canti si dispiega un’epifania della superiore potenza di Dio, e viene delegittimata ogni pretesa
umana, sconfitta in partenza: Dio è un artista impareggiabile, fabbro che nessun altro può eguagliare. Gli
exempla intagliati nella roccia vengono infatti enfatizzati come arte non umana, frutto della perizia di Dio.
In quanto arte essi aderiscono ai principi estetici del tempo: mimesi e obiettivo didascalico; ma in quanto
arte divina essa supera la costrizione del mezzo, forzando la pietra a farsi movimento, parola, melodia, a
prescindere dalla connaturata determinazione materiale. La formidabile presa mimetica, in grado di
restituire il vero nella totalità delle sue componenti e non secondo una sola dimensione. È talmente
combaciante l’esito da azzerare quasi la dialettica tra copia e originale: il pellegrino-viaggiatore contempla
l’evento in questione esattamente come i suoi originali testimoni. All’opera artistica intenta a imitare la
natura, subentra la straordinaria opera divina, che non si limita a riprodurre, ma che produce la natura una
seconda volta.
Si crede che la scelta di una delle arti figurative sia legata all’importanza che la gnoseologia scolastica
assegnava alla vista; e all’accento che i teologi assegnavano alle immagini, raccomandandole come
strumento edificante. E se Dante sceglie la scultura probabilmente è per la volontà di sottolineare la
capacità di Dio, vittorioso su una materia particolarmente sorda.
La resa sinestetica è un traguardo irraggiungibile dall’arte umana, costretta a ridurre la ricchezza del mondo
sensibile, ad appiattirla.
Inoltre, si sarebbe attribuita a Dante un’analogia tra la sua arte e quella divina; egli infatti si impegna a
translitterare il plasticismo della scultura nella linearità del verbo, rispondendo con un parlare visivo a un
“visibile parlare”. Ma tale volontà non sembrerebbe da attribuire a Dante, in quanto il deficit dell’arte
umana risulta sconfortante all’aspirazione ad una simile meta. È probabile che la dialettica tra la scultura e
la parola sia vola a sottolineare la differenza verticale tra la natura prodotta nuovamente da Dio e la sua
resa attraverso un’imitazione vicaria: un’imitazione della natura implica un’imitazione del Dio che origina e
plasma la natura; un’imitazione approssimativa e manchevole.

Per quanto riguarda gli exempla contenuti nelle lastre, tredici, sono divisibili in tre quaterne in base alle
parole ricorrenti: “vedea”, “O”, “mostrava”; con l’ultima terzina che fa da riepilogo, con le tre parole
anaforiche che occorrono all’inizio di ogni verso. La prima quaterna è relativa a ribelli in guerra contro la
divinità, la seconda include i vanagloriosi con un sentimento smisurato delle proprie prerogative, tanto da
ritenersi uguali agli dei, e l’ultima contempla la smania di primeggiare e di prevaricare in contesti familiari e
sociali. Aracne si trova al centro di queste rappresentazioni, fa da termine medio fra l’eccesso di superbia di
angeli ribelli e giganti e l’arroganza tutta terrena dell’ultima quaterna; inoltre i primi personaggi sono al di
sopra dell’umano, Aracne invece esprime il culmine del male proprio degli uomini. La sua posizione però,
inoltre, da maggiore attenzione al problema dell’arte, e al plesso arte-superbia-umiltà.
La trasposizione di Dante cambia dall’originale mito ovidiano: in quest’ultimo viene attribuito ad entrambe
le tele l’immagine parlante; Aracne raggiunge tale esito in maniera autonoma, sottraendosi al rapporto
maestro-allievo. Per Dante invece il visibil parlare è prerogativa della sola arte divina e oggetto di
imitazione, secondo il rapporto maestro-discepolo, e con un primato inattaccabile del primo rispetto al
secondo. Dante taglia lo svolgimento della gara, eliminando il vantaggio raggiunto da Aracne: elimina gli
elementi incompatibili con la sua prospettiva.
Dante usa il termine “stracci” per indicare l’opera lacerata: secondo la concezione che l’opera artistica è
una compiuta unità, esito di un accurato lavoro di connessione e di sintesi. La divisione in brandelli segna
allora il suo fallimento, esito di una scelta erronea: competere col fare divino.

CAP. III

Nel purgatorio vengono spesso citati salmi, inni, antifone mariane, ma non si tratta di mere rielaborazioni di
materiali preesistenti, variazioni di superficie. La liturgia è contrassegnata dall’oggettività e dall’universalità,
possiede uno stile nobile e insieme semplificato, volto a filtrare ciò che è singolare, contingente, arbitrario,
confuso, così da renderlo comprensibile a tutti; in questo modo l’individuo impara l’ampiezza delle verità
religiose. In Dante lo stile proprio del soggetto, mentre si lascia contagiare, trasmette a sua volta un
impulso, comunica qualcosa della sua peculiarità al modello oggettivo.
Il padre nostro rappresenta un’eccezione: di solito non vengono trascritte interamente le preghiere citate,
sono citazioni che non occupano più di un verso; il padre nostro invece si espande, grazie ad una serie di
farciture, fino a sette strofe, con l’appendice di una strofa ulteriore fino a d arrivare a 24 versi.
Inoltre, occupa una posizione privilegiata all’interno del canto, il primo delle sette cornici, quindi sulla soglia
della vera e propria via purgativa. Al brano viene quindi attribuita un grande privilegio, da ricollegarsi,
probabilmente, al rango dell’oratio dominica, al primato oggettivo che le spetta in quanto preghiera
formulata e insegnata da Gesù; che riepiloga in sé tutto l’insegnamento divino.

Quando viene citata la Vulgata (traduzione in latino di Girolamo), a volte viene proposta l’originale in latino,
altre una versione in volgare, altre ancora una combinazione delle due; la maggior parte delle volte però
occorrono in latino, producendo un effetto di ibridazione linguistica. Con il padre nostro il bilinguismo viene
meno, il testo viene interamente tradotto: l’inconsueta strategia si deve al caso eccezionale di una
trascrizione per intero.
La bibbia latina è essa stessa una traduzione, ed inizialmente creò molte perplessità, in quanto tali versioni
si allontanavano molto dal gusto classico degli auctores: Girolamo diede la colpa fosse delle traduzioni, non
dell’originale; Agostino, preferì ammettere che la Bibbia adottava un servo humilis così da poter essere
comprensibile a tutti. Lo scarto formale del testo venne presto dimenticato per il graduale estinguersi della
tradizione stilistica classica e per l’imporsi del cristianesimo in ogni strato della società: nell’alto medioevo il
Libro è ormai l’indiscusso paradigma, che precede Virgilio e Cicerone.
Per quanto riguarda la semplicità del testo, essa viene percepita come gravida di misteri riposti, da
conquistare gradualmente. Secondo Gregorio Magno si tratta di un corso d’acqua allo stesso tempo
accessibile e profondo. Il medioevo è quindi consapevole di trovarsi davanti ad un libro stratificato,
elaborando così un’articolata scienza esegetica, volta a enucleare e delucidare i messaggi latenti.
Per la Chiesa d’Occidente e per i fedeli, il testo a cui guardare è quello in latino, nella forma della Vulgata: il
latino viene ritenuto insieme al greco e all’ebraico una delle tre lingue nelle quali Dio aveva scelto di
parlare. La Bibbia risulta quindi trascendente rispetto al piano della testualità mondana e paradigmatica per
tutti i generi letterari; anche la letteratura romanza, sin alla sua nascita, si relazione con quello che era
ormai divenuto il grande codice dell’arte occidentale. Non è più quindi la Bibbia a trovare sulla propria
strada il modello della letteratura, è invece la letteratura a prendere le mosse dall’esemplarità biblica.
Nella Commedia, l’incontro tra latino e italiano, avviene nel segno di un bilinguismo verticale, dove gli
spezzoni della Vulgata afferiscono al polo alto, poiché provenienti dal testo sacro. La rinuncia al latino è
quindi portatrice di eminenza espressiva e di profondità semantica.
L’analisi più recente ha potuto registrare l’impegno espressivo di Dante a partire dalla tessitura calibrata
che intreccia rime e assonanze, l’uso strategico di enjambement ecc. All’accuratezza formale egli salda un
approfondimento dei significati del testo originale, che lo non lo fanno essere una mera traduzione,
dilatandone la misura con aggiunte. Non si tratta di una espansione retorica, giocata sull’amplificatio
esteriore e ridondante. Al suo culmine questa restituzione degli strati semantici raggiunge oltre la lettera e
le sue proprie implicazioni, anche i sensi mistici. Per cui il volgare della Commedia si mostra idoneo alla
polisemia teologica (varietà di significati attribuibili a uno scritto), con piena cognizione di causa, tanto da
squadernare i diversi messaggi coinvolti.
Nella sua trasposizione sicuramente Dante attiva la funzione culturale, cercando al contempo una sintesi
con una funzione estetica: un connubio in cui il volgare mette a frutto congiuntamente le sue risorse
espressive e semantiche.
Deponendo momentaneamente la sua inclinazione narrativa e attivando una non meno strategica
vocazione al lirismo e al commento, si mobilita a scandire il doppio passo del testo e della glossa attirata
entro il testo. Si procede per unità strofico-semantiche aventi ciascuna al proprio interno un netto snodo: il
primo verso traduce il primo comma dell’oratio, mentre i due seguenti contengono la spiegazione. Le prime
tre terzine si limitano a presentare un chiarimento del senso letterale, senza sviluppare ambizioni
esegetiche più ardite, ma solo presentano delle aggiunte. Un’effettiva variazione avviene solo nella quarta
terzina, in cui traduzione e commento si intrecciano tra loro, restando il commento vincolato alla
delucidazione del sensus litteralis. Nella quinta terzina viene ripresa la formula standard ma introduce in
modo innovativo i sensi mistici. La traduzione presenta una dislocazione con sostituzione lessicale,
culminando su “manna”, esprimendo la volontà di intraprendere una direzione ben determinata,
confermata nei due versi successivi gravitanti attorno all’immagine del deserto. Viene così ribadito e fissato
un inequivocabile aggancio all’Antico Testamento. Egli delinea un asse storico, segna nel tempo un prima e
un poi: da una parte l’elargizione della manna al popolo ebraico vagante nel deserto, dall’altra, l’effuzsioe
di un nutrimento dello spirito entro l’economia della Redenzione. In questa visione si possono due cogliere
due fattori interessanti: l’immanenza di Gesù in quel deserto che è il luogo dove si è tentati, e l’inevitabile
confronto che col deserto deve gestire il credente.
Alcuni dantisti ammettono un riferimento anche al Purgatorio: nulla vieta di pensare l’uscita dall’Egitto del
mondo verso la Terra Promessa dell’aldilà come il correlativo di questa fase non più mondana ma non
ancora paradisiaca.
Successivamente si ritorna ad un andamento piano nella sesta terzina. Rinnovata densità si riscontra nella
chiusa: la struttura proposta fino ad ora subisce un incremento di proporzioni: un’intera terzina ripercorre
la formulazione delle Vulgata, mentre l’intera terzina conclusiva funge da farcitura esegetica. L’explicit non
è quindi propriamente un’appendice, ma semmai una glossa, secondo l’alternanza tra traduzione e
commento in atto sin dall’inizio.

Questa preghiera nasce dai personaggi: i superbi, esso non vige quindi come traccia per ogni fedele in
qualsiasi circostanza, viene attribuito ai superbi. Si tratta di una preghiera in situazione; inseribile nella
categoria di “adattamento”, una categoria polivalente che in questo caso indica un processo di curvatura
tematica: possiamo quindi apprezzare la colorazione assunta dall’oratio dominica una volta collegata al
primo dei vizi capitali.
Nella sua essenza la superbia implica primariamente il rapporto tra uomo e Dio, in quanto desiderio
disordinato di eccellenza. È su questa base che viene considerato da Tommaso D’Aquino come il vizio
capostipite, da cui scaturiscono tutte le altre distorsioni. Essa rappresenta la più grave forma di aversio a
Deo vale a dire di rottura dell’intimità con l’origine; Dante fissa l’atto superbo nel Paradiso con la
formulazione “trapassar del segno” riferendosi al peccato di Adamo. Invocando il padre i superbi
manifestano la loro riconciliazione con l’origine, il loro sottostare a Dio, assunto come condizione positiva.
Dante descrive la superbia attraverso una metafora itinerale: rappresenta il progressivo perder terreno, che
è l’equivalente sull’asse orizzontale del precipitare verso il basso il cui si converte il volo superbo. A
differenza dei canonici itineraria delineati nei trattati teologici coevi, in Dante esso conosce il passo falso, la
deviazione, l’arretramento; anche quando si è ormai passati dal pellegrinaggio fallito a quello destinato
all’esito, quando ormai un cospicuo tratto è percorso, permane nel viaggiatore il rammarico per lo
sbandamento di un tempo: all’ingresso del purgatorio.
Viene coniugato il tema dell’andare con quello dell’oltranza intellettuale poiché la salvezza è invocata nella
consapevolezza di una sua inaccessibilità alla pura ragione; la loro stessa postura traduce la rinuncia allo
scatto razionalistico.

È possibile notare un filo conduttore che si sviluppa per tutto il canto, legando la preghiera alla successiva
sceneggiatura degli incontri. Innanzi tutto, esiste nella teologia medievale una filiazione che conduce dalla
superbia all’inanis gloria, che incita alla ricerca di un riscontro terreno, indirizza il desiderio di eccellenza
verso l’acquisizione del consenso altrui. Nella sua forma più acuta, la vanagloria, è un’indebita attribuzione
a sé di ciò che spetta esclusivamente a Dio, poiché la propria gloria non viene subordinata a quell’obiettivo
che dovrebbe orientarla: l’honor dei: è lecito aspirare al consenso dei propri simili, l’ammirazione unanime
può tradursi in lode di Dio; è colpa invece assolutizzare questo fama mondarna, farne ragione di vita,
orizzonte esaustivo.
Ciascuno dei tre personaggi incontrati è reduce di una smodata brama di onore, ma non tale da tentare di
usurpare il trono di Dio; meno grave è qui la colpa, e forse proprio per questo che i personaggi hanno
potuto recuperare la retta via.

Non sembra essere cantata.

Il padre nostro pur restando legato specialmente alla prima cornice, dovrebbe distendere la sua eco su
tutte le altre; esempio di ciò è ciò che dice Guinizzelli nella cornice dei lussuriosi: recitare per lui un padre
nostro quando sarà al cospetto di Dio. S’impone la conclusione che l’ascesi lungo le sette cornici viene
aperta e chiusa dalla più alta preghiera evangelica.
Ciò non va a sminuire il ruolo di Maria, modello di virtù nella cantica del paradiso, sigillata dalla preghiera
alla vergine che costituisce il pendant al padre nostro. Anche Vergine Madre è una preghiera riportata
integralmente, espressa in lingua volgare e recitata. Le differenze sono: il fatto che l’orazione paradisiaca
non è desunta dalla Bibbia ma creata dal poeta, trattando il caso particolare del protagonista. Inoltre,
l’invocazione a Maria ha una posizione conclusiva, anche se la gettata prospettica del padre nostro approda
fino all’incontro con il creatore. La commedia si affida a Maria per il salto mistico, mentre pone il Padre
nostro come cardine dell’ascesi.
CAP. VI
L’idea di empireo e la sua rappresentazione ha avuto uno sviluppo non lineare; la sua storia segue due
distinti flussi, i quali ad un certo punto s’incontrano, senza mai riuscire ad integrarsi del tutto. Un tentativo
di sintesi è quello operato da Dante nel Convivio.
1. L’antica concezione teofisica dei Caldei prevedeva una scansione l’Universo in tre cerchi
concentrici: l’Empireo era il più esterno, seguivano l’Etereo, zona delle stelle fisse e l’Ilico,
corrisponde all’ambito sublunare; ciascuno soggiacente al governo di divinità, chiamate anche
Padri. Negli Oracoli caldaici si parla di una suprema triade divina: il Padre, il primo nous e il secondo
nous. Il Padre imprime sulla materia il proprio sigillo attraverso il secondo nous, dotato di funzioni
demiurgiche e incaricato di creare un mondo di fuoco, il quale potrebbe corrispondere all’Empireo;
2. Porfirio tratta in modo originale l’Empireo, infatti prima e dopo di lui, esso è sempre stato il livello
più elevato del cosmo, superiore alla zona degli astri, ma non nella sua opera, che conosciamo
grazie ad Agostino, De regressu animae. Nell’opera egli tratta di cerimonie teurgiche che attivano
una certa comunicazione con il divino, ma solo a livello dell’anima pneumatica; per cui non sono in
grado di elevare l’anima alle realtà eterne. Ma è anche vero che le pratiche misteriche giungono ad
influenzare anche gli spiriti celesti di alta levatura, ottenendo in favore l’accesso alle loro sedi.
Occorre quindi distinguere gli “aeria loca” dagli “aetheria vel empyria”. Risulta quindi sorprendente
l’identificazione della regione eterea con l’empireo. Probabilmente, però, queste conclusioni sono
un rimaneggiamento di Agostino, il quale non poteva accettare che gli uomini purificati nell’anima
pneumatica dai riti teurgici prenderanno dimora fra gli esseri celesti, per cui ha aggiunto questa
distinzione;
3. Proclo attinge ad elementi tratti dalla religione, ma che vengono curvati per esigenze interne al
sistema di pensiero; esso parte dall’idea neoplatonica delle ipostasi: l’Uno, il Nous (intelletto, che si
distingue in pensiero e pensato), e l’Anima del mondo, appoggiata per un verso al Nous e quindi
partecipe della realtà intellegibile, e per l’altro generatrice del mondo sensibile a partire dalla
contemplazione dell’intellegibile stesso. Essa è caratterizzata da una vocazione alla mediazione,
costituendo l’anello tra intellegibile e sensibile; si compone di un’essenza indivisa (=intelletto
cosmico) e da un’essenza che si divide nei corpi.
Plotino aveva asserito che dall’Anima si sprigiona il cielo etereo, ma Proclo trova troppo brusco
questo passaggio, per cui aggiunge degli stadi intermedi, in modo che la transizione avvenga con il
massimo di gradualità. Per quanto riguarda il passaggio dall’intellegibile al sensibile: il primo corpo
dell’Anima è ipercosmico e di natura luminosa, è un corpo semplice di una luce che si diffonde per
tutta la sfera celeste. Questa è una luce sopra-celeste, il veicolo dell’Anima del mondo; e il corpo
che essa costituisce è immateriale e come tale riesce a penetrare il corpo materiale: questo porta
alla concezione di due sfere con lo stesso centro e lo stesso volume: una è quella luminosa, l’altra è
l’universo con tutti i suoi corpi. È nella prima sfera che stanno gli spiriti beati.
Bisogna precisare che la “luce semplicissima” non è per Proclo l’Empireo, essa sta al di sopra.
4. Marziano Cappella, ci racconta il chiave letteraria e allegorica l’ascesa dell’anima umana che si
innalza per gradi desiderosa di ricongiungersi all’origine ultima. Il viaggio è quello di Filologia, che
potrebbe rappresentare lo scibile, o la nostra ragione o l’anima umana, che compie un viaggio
lungo i cieli diretta al senato degli dei e all’incontro con Mercurio. Accostata l’estrema sfera celeste,
rivolge il suo pensiero alla causa ultima, il padre della gran mole cosmica, il dio dominatore delle
altre divinità. Presso Marziano, l’Empireo sarebbe appannaggio del Pater, il suo proprio esclusivo
regno, separato dalle fasce sottostanti che vedono come assegnatari gli dei delle gerarchie
platoniche.
Il secondo flusso pone le sue radici sul pensiero di uno dei padri della chiesa Basilio di Cesarea: esso guarda
alla Genesi, e in particolare al secondo versetto, dove si parla di tenebre sulla faccia dell’abisso. Egli ci tiene
a chiarire che non esiste un’autonoma potenza malvagia, nata da sé stessa e neanche come derivazione da
Dio. Il male non è una sostanza ma una disposizione dell’anima, che si allontana dal bene. Le tenebre del
secondo versetto sono il risultato dell’aria priva di luce. Egli postula che in una fase prima della creazione
già esistesse qualcosa. E che si trovasse nella luce: le dignità angeliche, le schiere degli angeli e in generale
le nature intellegibili. Quando in una fase successiva venne creato il cielo materiale esso sbarrò la strada
alla luce. Però lo stato fulgido e gioioso venne esteso anche ai beati, mentre i dannati sortiscono le tenebre
esteriori.

1. Beda, monaco inglese, guarda anche egli alla Genesi, ed in particolare alla questione delle tenebre,
ma arriva ad una diversa conclusione: se si tratta di assenza di luce allora è lecito pensare che il
Creatore abbia operato in due tempi, dapprima ponendo le cose in uno stato di imperfezione e
successivamente conducendole allo stato perfetto. Da ciò è escluso il cielo rischiarato da Dio di cui
parla anche Basilio; Beda però si sofferma anche sul sesto versetto della Genesi, che colloca al
secondo giorno la creazione del firmamento: ne viene che il cielo assegnato al primo giorno è altra
cosa, un cielo superiore, invisibile agli uomini, incorruttibile e immune alla volubilità degli eventi
mondani. Egli in un’altra opera torna sul rapporto fra cielo superiore e firmamento tenendo conto
di un altro tassello biblico: le acque poste da Dio al di sotto e al di sopra del firmamento stesso. si
erano già occupati in molti di queste acque, ma Beda guarda alla riflessione di Isidoro di Siviglia
secondo il quale esistevano un cielo superiore e un cielo inferiore, quello che la Genesi chiama
firmamento; le acque sopracelesti hanno come giustificazione quella di temperare l’ardore del cielo
sublime. In questo modo il Paradiso viene allocato dentro il cosmo e dotato di un contrassegno
materiale, diventando uno dei cieli dell’astronomia, ma distinto dagli altri;
2. a partire dal IX secolo conosce nuova fortuna Marziano Capella: Giovanni Scoto Eriugena,
promotore di un neoplatonismo accordato con la fede, rilegge l’allegoria i Marziano in senso
cristiano. Egli non ha interesse a rinvenire un qualche corrispettivo cosmico del Paradiso, dato che
distingueva due diversi fuochi: uno con cui indica la concezione stoica presente in tutti i viventi,
invisibile ed innervato nel mondo; con il secondo si riferisce all’Empireo che sta sopra tutto il
mondo e gli intelletti. Egli però rivendica una compatibilità del testo in esame con il dogma della
trinità: i misteriosi poteri che Filologia invoca corrisponderebbero al Padre e al Figlio. Giovanni
scoto perviene quindi ad una decodifica cristiana dell’allegoria di Marziano.

in molti si interrogano su chi sia stato a compiere la mediazione decisiva fra due universi: da un lato ha dato
alla cultura pagana la verità incontrovertibile del cristianesimo, e dall’altro proietta sulla Rivelazione gli
apporti filosofici e cosmologici tardo antichi. Non si riesce ad indicare una singola figura, per cui si tende a
pensare ad un programma perseguito da più generazioni, dal recupero di Marziano alla sua
metabolizzazione, secondo una rilettura simpatetica e mirante ad una risemantizzazione. Fondamentale è
l’emergere e il consolidarsi di un’idea di Empireo come sede di angeli e beati e che il cielo biblico e
paradisiaco corrisponda a quel mondo igneo, bordo dell’universo fisico. l’empireo viene quindi sovrapposto
al caelum cristiano.

3. Nel XII secolo si diffonde l’idea di Empireo tra i teologi, che non badano alla sua genealogia
culturale: se un residuo platonico permane è l’accezione del fuoco supremo come purissima luce.
Gli autori del tempo sono convinti di proseguire la ricerca avviata dai Padri e, in particolare da
Beda, ciò che si ripromettono è una limatura di essa. La novità di cui sono portatori sta
nell’approccio, non più l’esegesi versetto dopo versetto, ma l’elaborazione, per ogni materia di una
dottrina organica, in vista di una complessiva, coerente sintesi.

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