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Filologia romanza -a

Le Origini delle Lingue Neolatine

Capitolo 2 – Il sostrato preromano


Latino e Romanzo – Le lingue romanze formano un gruppo di idiomi affini; esse sono, infatti, la
continuazione diretta del Latino e non vi è interruzione tra Latino e Romanzo. Le lingue romanze
sono l'unico esempio di un gruppo di lingue geneticamente affini di cui si sia conservata la fonte
comune, ovvero il Latino.

Il Latino e i dialetti italici – Il Latino era, in origine, solo il dialetto di Roma e non si estendeva oltre
il Tevere. L'aggettivo latinus è un etnico tratto dal toponimo Latium, che potrebbe significare
“paese piano”; già presso gli scrittori romani ha un senso diverso a secondo che si riferisca alla lingua
o al popolo.
Infatti, lingua latina, la lingua parlata dai Romani, è molto più frequente della denominazione romana
lingua, mentre in senso etnico e politi Latini indicava i popoli del Lazio “socii” dei Romani.
Il Latino fa parte della famiglia linguistica indoeuropea. Strettamente affini al Latino, erano quelle
varietà finitime territorialmente e poco conosciute, ad eccezione del Falisco. Considerati affini anche
i dialetti italici di tipo Osco-Umbro: la maggior parte degli indoeuropeisti aveva costituito, infatti, un
gruppo italico che comprendeva da una parte il Latino-Falisco e dall'altra l'Osco-Umbro.
Il gruppo Osco-Umbro (altrimenti detto Umbro-Sabellico) comprendeva i seguenti dialetti:
• L'Osco, lingua parlata dai Sanniti nel Sannio e nella Campania, in parte
della Lucania e del Bruzio; parlata anche dai Mamertini nella colonia siciliana di Messana. È
conosciuto grazie a oltre 200 iscrizioni.
• I dialetti Sabellici, varietà dialettali poco conosciute dei popoli che
abitavano fra il Sannio e l'Umbria. Tra queste varietà troviamo: il Peligno, il Marrucino, il Vestino, il
Marsico e il Sabino e mostrano più affinità con l'Osco; più vicino all'Umbro era il Volsco, noto grazie
alla Tabula Veliternia, e parlato molto più a sud della zona abitata dagli Umbri.
• L'Umbro, parlato fra il Tevere e il Nera, era il più settentrionale dei
dialetti italici ed è conosciuto grazie alle Tavole Iguvine.
Le maggiori differenze tra il Latino-Falisco e l'Osco-Umbro sono:
1) il trattamento delle labiovelari indoeuropee qṷ, gṷ, gṷh che nell'Osco-
Umbro sono rese con delle labiali, nel Latino con delle velari seguite da u (qu, gu): ie. * qṷetṷor- >
u. petur vs lat. quattuor.
2) la conservazione delle aspirate interne come spiranti in Osco-Umbro,
mentre il Latino presenta delle sonore: ie. *albho- > u. alfu vs lat. albus.
3) l'assimilazione di nd in nn e di mb in mm (m) in Osco-Umbro: o.
Úpsannam = lat. operandam.
4) considerevoli differenze morfologiche nella formazione del futuro, del
perfetto, ecc e notevoli divergenze anche nel lessico.

L'espansione del Latino – Il modo con cui il Latino si è diffuso fa parte della storia del Latino e
della romanizzazione e, quindi, della preistoria delle lingue romanze ed è anche una conseguenza
diretta dell'espansione politica di Roma. All'inizio, l'annessione dei territori dei popoli vinti era
largamente praticata, mentre in seguito vi si ricorreva soltanto in caso di paesi particolarmente infidi.
Lo scopo di unire a Roma sia le città vinte, sia quelle che volontariamente si mettevano sotto la
protezione romana, fu ottenuto col sistema dell'alleanza, ovvero il foedus, che poteva essere aequum
o iniquum. Nel 240 a. C. Roma godeva di un territorio compatto di un migliaio di chilometri quadrati
intorno alla città e nelle zone di confine troppo pericolose, si creavano delle colonie agricole e militari.
Le provinciae, invece, vennero considerate come territori soggetti.
Non in tutte le città annesse le condizioni furono le stesse e il diritto romano escogitò formule, sempre
vantaggiose a Roma, che lusingavano comunque i popoli vinti, tenendo, così, in pugno una
popolazione molto superiore a quella propriamente romana, su un territorio sempre più esteso.
Importante ricordare due concetti base: il primo, che il concetto di romanità fu soprattutto politico; il
secondo, che i Romani non ricorsero mai a un'assimilazione violenta e non tentarono di imporre la
loro lingua. Perciò i Romani non ostacolarono mai gli idiomi dei federati italici, né l'Etrusco (sebbene
anche gli Etruschi furono assoggettati), né il Greco nell'Italia meridionale e in Grecia.
Alcune province romane furono: la Sicilia (241 a .C.); la Sardegna e la Corsica (238 a. C.); la Spagna
(197 a. C.); l'Africa (146 a. C.); l'Illirico (167 a. C.); la Gallia meridionale (120 a. C.); la Gallia
settentrionale (50 a. C.); la Rezia (15 a. C.) e la Dacia (107 d. C.). La Gallia Cisalpina era già stata
conquistata e i Veneti si erano sottomessi volontariamente.

Gli elementi dialettali del Latino – Dalla diffusione del Latino su un territorio sempre più vasto
derivarono due conseguenze: la prima, che il Latino venendo a contatto con idiomi diversi esercitava
e subiva un influsso notevole; la seconda, che il Latino si differenziava man mano nelle singole
regioni. Finché il legame politico col centro rimane saldo, quelle differenze erano minime; ma quando
questo legame si indebolì e, poi, si ruppe, le differenze si approfondirono.
Roma non ha mai imposto la sua lingua, bensì erano le popolazioni soggette che volevano elevarsi
culturalmente utilizzando il Latino: così Roma riuscì a far prevalere il latino sull'Osco, sull'Umbro e
sul Gallico e sull'Etrusco, ma non sul Greco che aveva maggior prestigio.
Anche il Latino, però, subì un certo influsso dai popoli assoggettati: perciò sia gli abitanti della Roma
iniziale, sia le popolazioni sottomesse erano da considerarsi bilingui.
Grazie a Graziadio Isaia Ascoli, sono state messe in evidenza le cosiddette “reazioni etniche”,
l'influsso cioè del sostrato.
A parte alcune parole che possono considerarsi latine (fatta eccezione per la toponomastica che
conserva elementi delle lingue preesistenti), traspaiono nelle lingue romanze alcune tendenze
fonetiche e elementi lessicali attribuibili al sostrato preromano.

Il sostrato italico – Le vocali latine (non composte) che presentano -f- intervocalica sono di origine
dialettale italica, anche se alcune risultano già attestate in Latino, sia come unica forma esistente (es.
tōfus, “tufo), sia accanto a una forma cittadina con fonetica romana normale (es. būfalus accanto a
būbalus): spesso le due forme giungono fino al Romanzo.
Vi sono casi, invece, dove solo le lingue romanze attestano una forma con fonetismo italiano. La
mancanza di attestazione in Latino non è prova dell'inesistenza di tale voce nell'antica Roma, ma
indica che, se la parola esisteva, aveva una limitata validità, oppure che si era in presenza di una voce
regionale. Va ad Ascoli il merito di aver attirato l'attenzione degli studiosi su questo problema in una
delle sue lettere glottologiche.
Una delle caratteristiche dei dialetti italici rispetto al Latino era l'assimilazione nd > nn, mb > mm.
Questa assimilazione si trova in tutti i dialetti italiani centro-meridionali (es. monno = mondo).
Importante ricordare l'opinione di Gerhard Rohlfs a proposito: egli ritiene che non vi sia continuità
tra i due fenomeni fonetici; se l'assimilazione fosse antica, essa avrebbe dovuto – col Latino volgare
– diffondersi anche nelle altre parti della Romània, ed effettivamente se ne trovano alcune tracce
anche in altri punti del territorio romanzo. Clemente Merlo precisa, però, che trattandosi di un
fenomeno assimilatorio, è normale che ritorni sporadicamente. Il confine nord-orientale del fenomeno
corrisponde al limite meridionale del territorio occupato un tempo dai Galli (vedi cartina pag. 102).
Vi sono altri casi in cui la coincidenza di un fenomeno moderno con uno antico italico è molto più
dubbia o, addirittura, da escludersi: ad esempio, è risaputo che l'Umbro antico aveva come
corrispondente di -d- intervocalica il fonema particolare ř, rappresentato dal segno etrusco Ϥ e reso
nell'alfabeto latino con rs. Il passaggio d > r si trova, però, solo nell'antico Umbro (es. peři, “pede”)
e nell'Osco non vi sono esempi sicuri di r < d, poiché i pochi esemplari hanno più probabilmente r <
l.
Nei dialetti italiani centro-meridionali non è raro il passaggio d > r e qualche linguista ha messo in
relazione questo fenomeno con quello umbro, ma studi più approfonditi hanno dimostrato l'invalidità
di tale ipotesi. L'attuale area di questo fenomeno comprende la Campania meridionale, ricorre in
Lucania ad Acquafredda e a San Chìrico Riparo (PZ). In Sicilia ricorre nella zona costiera
settentrionale e a Giarratana (SR).

Il sostrato etrusco – È probabile che gli stessi nomi di Roma e di Tevere siano di origine etrusca.
Roma, infatti, fu un tempo governata dagli Etruschi, e precisamente dalla dinastia dei Tarquinii. Dagli
Etruschi appresero molto, soprattutto sulla religione, la divinazione, ecc. secondo Livio, all'epoca dei
re l'Etrusco era insegnato regolarmente e pubblicamente a Roma. L'Etrusco era una lingua
completamente diversa dal Latino e, probabilmente, non era nemmeno una lingua indoeuropea; infatti
molto glottologi moderni sostengono che l'Etrusco sia imparentato con le lingue dell'Asia minore. La
tesi oggi prevalente è quelle di una concordanza più sensibile fra Etrusco e lingue asianiche e, più
remota, con l'Indoeuropeo. La maggior parte delle iscrizioni etrusche che possediamo sono brevi e di
carattere funerario o votivo, mentre quelle più ampie sono scarse e di difficile interpretazione.
I frequenti contatti tra Latini ed Etruschi hanno fatto sì che il Latino assimilasse parole etrusche che
si possono isolare sia perché mancano le corrispondenze indoeuropee, sia per la presenza di alcuni
tipici elementi morfologici, come ad esempio i suffissi -na, -ena, -enna, -ĭna.
Grande influsso esercitò l'Etrusco sull'onomastica romana, a cominciare dal sistema nominale
composto da tre membri (praenomen, nomen, cognomen) comune ad altri popoli italici ma diverso
da quello di tutti gli altri popoli indoeuropei.
Importante è vedere se i dialetti romanzi, formatisi dall'evoluzione del Latino su territorio etrusco,
conservino, appunto, tracce etrusche. Il territorio etrusco subì grandi variazioni e questo popolo so
spostò anche a nord nella pianura padana e verso le Alpi. Per quanto riguarda l'Etruria è da ricordare
un particolare fenomeno fonetico, quello della gorgia toscana, cioè l'aspirazione o spirantizzazione
delle sorde intervocaliche -c-, -t-, -p-: l'area che aspira la -c- è la più estesa; meno estesa è l'area che
aspira la -t-, mentre ridotta è quella che aspira la -p-. Lo storico Heinrich Nissen mise in relazione il
fenomeno fonetico etrusco con quello toscano odierno e la sua ipotesi fu accettata, tranne che da
Rohlfs, e poi sviluppata da Clemente Merlo. Recentemente l'americano Robert A. Hall ha cercato di
dimostrare che l'aspirazione di -t- e -p- è più recente di quella di -c- e che fu solo Firenze il centro di
diffusione della tendenza aspiratoria. Ma Clemente Merlo rispose a tale ipotesi, insistendo
sull'importanza di ritrovare nel Toscano una tendenza fonetica sicuramente etrusca e non italica o
celtica: egli sostenne che anche la disposizione geografica delle aspirate toscane conferma l'ipotesi
del sostrato etrusco.
Meno ipotetici sono i nomi riguardanti la toponomastica: Chianti deriverebbe da Clante, mente
Volterra deriverebbe da Velathri.
Il sostrato greco – Nell'Italia meridionale i Romani incontrarono svariate popolazioni non italiche,
tra cui i Greci. Tracce delle lingue meridionali affiorano soprattutto nella toponomastica. Per quanto
riguarda il Greco, la questione è più problematica, poiché la lingua e cultura greca godevano di tale
prestigio che rallentarono il processo di romanizzazione.
La colonizzazione greca iniziò intorno alla metà del VIII secolo a. C. e le colonie greche raggiunsero
il massimo splendore fra il VII e il VI secolo a. C., per poi declinare a causi di lotte intestine, per le
pressioni e invasioni italiche e di altri popoli non ellenici. La più pericolosa fu, ovviamente,
l'inimicizia di Roma. I dialetti ellenici della Magna Grecia erano soprattutto di tipo dorico e
cominciarono presto ad assimilare elementi latini, anche se la romanizzazione fu molto più difficile
poiché, grazie alla superiorità del Greco, esso resistette fino ad epoca abbastanza tarda. A questo
punto, la questione della persistenza della grecità in Italia diventa importante. Il Greco, infatti, si parla
tuttora in due oasi nell'Italia meridionale: nella Calabria meridionale (a est di Reggio) e in Terra
d'Otranto a sud di Lecce. I dialetti di queste due piccole oasi corrispondono, sia foneticamente,
morfologicamente e sintatticamente, sia sotto l'aspetto lessicale, ai dialetti neoellenici della Grecia,
ma presentano anche alcuni tratti arcaici.
Lo studioso Giuseppe Morosi sostenne che il grecismo di queste due colonie non è la continuazione
diretta di quello dell'epoca antica, bensì è dovuto alla dominazione bizantina. Questa teoria fu
accettata dai glottologi, tranne che da Rohlfs, il quale affermò che tale grecità doveva connettersi
direttamente a quella della Magna Grecia.
Il Latino, fin da epoca antica, aveva già assimilato elementi greci, ma quando mancano sicuri criteri
fonetici non è facile stabilire l'origine e l'epoca dei prestiti linguistici. Negli odierni dialetti della
Calabria e delle Puglie si trovano elementi che rimandano alla grecità antica e per molti di essi si può
affermare il loro passaggio attraverso il Latino volgare.
Il numero degli elementi greci nei dialetti dell'Italia meridionale è altissimo, ma molti di essi si devono
alla posteriore grecità bizantina. Gli influssi del sostrato greco si rivelano anche nel campo della
sintassi: ad esempio, il Neogreco – come il Calabrese – ha perduto l'infinito nelle proposizioni
oggettive e lo sostituisce col congiuntivo.
Meno notevoli ma comunque numerosi sono gli elementi greci sulla costa provenzale, dovuti alle
colonie marittime greche dell'epoca preromana.

Il sostrato in Sicilia – Tracce dei Sicani a ponente e dei Siculi a levante si possono riscontrare nella
toponomastica della Sicilia. La lingua dei Siculi ha carattere indoeuropeo, probabilmente italico; i
Sicani avrebbero la stessa origine, nonostante la tradizione li faccia provenire dall'Iberia e la loro
lingua non abbia carattere indoeuropeo. Le tracce di sostrato, dovute a queste antiche popolazioni,
sono assai scarse.
Le colonie greche cominciarono a sorgere in Sicilia intorno all'VIII secolo a. C. ed alcune fiorirono
anche notevolmente, soprattutto quelle situate lungo le coste orientali e meridionali.
Buona parte della Sicilia fu a lungo sotto il dominio cartaginese: la prima guerra punica, terminata
con la battaglia delle Egadi (241 a. C.) fece cadere il dominio cartaginese e la Sicilia divenne
provincia romana. Anche se la completa romanizzazione della Sicilia è un fatto assodato, non è da
escludere la presenza di numerose tracce di sostrato greco.

Il sostrato in Sardegna e in Corsica – Fin dal tardo periodo neolitico, la Sardegna fu abitata da
popolazioni di stirpe mediterranea, che lasciarono numerose tracce nei nuraghi e in altri ritrovamenti.
Dal VI secolo a. C. fu contesa tra i Cartaginesi e i Greci: dopo la battaglia di Alalia (537 a. C.), la
Sardegna andrò ai Cartaginesi, mentre la Corsica passò sotto il dominio etrusco. In seguito, i Romani
conquistarono sia Sardegna che Corsica, ma dovettero sostenere dure battaglie con gli aborigeni
dell'interno e con le popolazioni puniche delle coste. La romanizzazione avvenne, quindi, lentamente
ma profondamente. L'invasione dei Vandali porto via la Sardegna ai Romani, che però la
riconquistarono sotto il dominio di Giustiniano. Essendo la Sardegna isolata dal resto della penisola,
l'idioma neolatino ivi sviluppatosi rappresenta il tipo romanzo più vicino alla base originaria.
Riguardo al sostrato, si trova ben poco di Greco preromano: gli elementi greci del Sardo o provengono
attraverso il Latino o sono tarde importazioni del periodo bizantino. Gli elementi derivanti dal Punico
sono stati ritrovati prevalentemente nella toponomastica e nel lessico sardo.
Ma gli studi rivelano elementi anche più antichi dei punici: sia nella toponomastica che nel lessico si
riscontrano elementi di carattere preindoeuropeo-mediterraneo; si trovano anche notevoli
concordanze tra questi elementi “paleosardi” e alcuni relitti “iberici” conservati dal Basco. Leopold
Wagner segnala parecchi nomi sardi di animali che possiedono un prefisso a-, ta-, tsa- o i-, ti-, tsi-,
che potrebbe essere messo in relazione con l'articolo femminile ta- dei dialetti berberi.
Per quanto riguarda la Corsica, gli studi più esaurienti si hanno solo nel campo della toponomastica,
dove appaiono, tuttavia, anche qui elementi di carattere prelatino e non sempre è facile distinguere
quelli attribuibili agli Iberi, agli Etruschi e ai Liguri.

Il sostrato ligure e retico – I Liguri occupavano un territorio molto ampio che si estendeva dal
Rodano all'Arno e comprendeva una parte del Piemonte, della Provenza, della Lombardia e
dell'Emilia e soprattutto la regione ancora oggi nota col nome di Liguria, e la Corsica.
Per quanto riguarda la lingua, il materiale è scarso poiché si possiedono poche glosse, solo una
settantina di iscrizioni, dei toponimi e dei nomi di persona. Da questi studi si conclude che nel Ligure
sono presenti due strati principali: uno non indoeuropeo o “mediterraneo” più antico e uno
indoeuropeo più recente dovuto, forse, alla fusione coi Celti (in seguito all'invasione avvenuta nel VI
secolo a. C.). Tracce del sostrato ligure appaiono soprattutto nella toponomastica dell'alta Italia e
regioni finitime: notevole è il suffisso -asco, -asca.
Secondo Clemente Merlo le più importanti tracce del sostrato ligure non sarebbero nella
toponomastica, bensì in una tendenza fonetica di alcuni dialetti della Liguria e della Provenza che
egli attribuisce a una reazione etnica dovuta al sostrato ligure, soprannominata “acutissima tra le spie
liguri”.
Importante da ricordare è il Leponzio, che rivela una struttura di compromesso tra il declinare di una
fare arcaica reto-ligure e l'affermarsi di una fase con decisiva provenienza gallica: i Leponzi segnano
il passaggio tra Liguri e Reti.
Per quanto riguarda i Reti, la questione è complicata e una delimitazione geografica è quasi
impossibile. È probabile che i Reti fossero un conglomerato di tribù molto diverse e il loro nome
aveva una valenza più politica che etnica o linguistica. I confini della Raetia sono molto incerti: buona
parte dell'Alto Adige – dove si parlano dialetti impropriamente chiamati retoromanzi – apparteneva
al Norico e non alla Rezia. Anche riguardo alla lingua gli elementi sono piuttosto scarsi: si riscontrano
alcune affinità con l'Etrusco, ma non si possono identificare i Reti con gli Etruschi. Secondo Livio, i
Reti sarebbero i “resti” degli Etruschi che, prima dell'invasione dei Galli, avevano occupato l'Italia
settentrionale tranne il Veneto; Trogo Pompeo e Plinio il Vecchio sostenevano che fossero gli Etruschi
fuggiti dalla pianura padana. Come per il Ligure, si trovano tracce del sostrato retico solo nella
toponomastica, ma anch'esse sono difficilmente interpretabili. Il Retico, comunque, appare come una
lingua sicuramente anaria (non indoeuropea), affine alle lingue preindoeuropee del bacino del
Mediterraneo.

Il sostrato celtico – Prima della romanizzazione, i Galli occupavano la maggior parte dell'Italia
settentrionale, dopo essere scesi dalla Gallia e dopo aver scacciato i Liguri, gli Etruschi e altre
popolazioni. I Galli appartenevano al gruppo celtico, ramo della famiglia linguistica indoeuropea.
Benché arrivarono a Roma e alcuni si spinsero anche in Campania, i Galli riuscirono a insediarsi solo
nell'Italia settentrionale, fondando la Gallia Cisalpina.
A partire dal III secolo a. C. i Romani cominciarono a conquistare il territorio cisalpino, portando il
confine dell'Italia al Rubicone; successivamente, i Romani si impadronirono di tutta la parte
settentrionale della penisola, spingendosi, poi, anche nella parte meridionale della Gallia
Transalpina, rendendo la Gallia Narbonese – o Transalpina – provincia romana; in seguito, grazie a
Cesare, tutta la Gallia divenne provincia romana.
Il Gallico fa parte della famiglia delle lingue celtiche, che si dividono in due gruppi: il Celtico
continentale, rappresentato dal Gallico e che si è estinto intorno al V secolo d. C., e il Celtico insulare,
che si divide a sua volta in Gaelico – formato dall'Irlandese, Scozzese e dal dialetto dell'isola di Man
– e Britannico – formato dal Cimrico, dall'estinto Cornico e dal Bretone.
Il Gallico è documentato da un modesto numero di iscrizioni soprattutto votive, in caratteri greci o
latini, poi da parecchie parole degli autori classici, da alcune glosse e da un buon numero di nomi
propri. È ovvio che i lunghi contatti fra Romani e Celti abbiano influenzato anche la lingua, infatti un
certo numero di elementi celtici penetrò nel Latino; ma oltre a queste parole già attestate nel Latino,
vi sono molte parole di origine sicuramente gallica attestate solo attraverso le lingue romanze – o nel
Latino tardo – che vivono nel territorio una volta celtico. Spesso la forma di tali parole non è
documentata nemmeno in glosse e solo le continuazioni romanze permettono l'attribuzione al Celtico.
Il celtista tedesco Rudolf Thurneysen mise su basi scientifiche lo studio delle parole di origine celtica.
I relitti celtici sono considerevoli anche nella toponomastica della Francia, dell'Italia settentrionale e
dell'Olanda. L'influsso del sostrato celtico, tuttavia, non si limita solo a relitti lessicali, ma si estende
anche a tendenze fonetiche, a elementi di formazione e alla composizione delle parole. Fra le tendenze
fonetiche, un problema su cui si è discusso a lungo è stato quello del passaggio ū > ü: molti linguisti,
siccome questo fenomeno è presente solo in Francia, in parte della Ladinia e nei dialetti gallo-italici,
ritengono che le ragioni di questo mutamento si trovino in una reazione del sostrato gallico. Non si
sa con certezza se il Gallico abbia mai avuto il fonema ū, ma la tendenza del Celtico a trasformare ū
in i fa supporre un intermediario ü.
Il problema fu posto da Ascoli in una delle sue “lettere glottologiche” e venne risolto in favore della
“reazione etnica” in base a tre prove: corografica, per la corrispondenza del territorio che presenta ü
con quello che fu di lingua celtica, congruenza intrinseca, per la presenza di i < ū in alcuni idiomi
celtici moderni, e congruenza estrinseca, per la presenza di ü < ū in Neederlandese. Il germanista
Erich Clemens Gierach si dimostrò favorevole alla teoria dell'origine celtica dello spostamento
fonetico, mentre Meyer-Lübke presentò parecchie obiezioni, riassumibili in quattro punti: 1) la
mancanza della palatalizzazione della cdavanti alla ü; 2) le parole che l'antico e il medio alto tedesco
hanno mutuato dal Galloromanzo non presentano ü, nonostante questo fonema fosse presente nelle
loro lingue; 3) le parole che l'Inglese ha mutuato dal Francese trasformano ŭ in au e ū in iu; 4) l'assenza
di ü in Catalano. Ma non tutte queste obiezioni reggono veramente alla critica.
Alla fine, si può ammettere che la presenza di ü nei territori romanzi di sostrato celtico si debba ad
una tendenza di origine gallica, anche se non è da escludere la possibilità di sviluppi indipendenti.
Un altro spostamento fonetico attribuibile al sostrato celtico è quello del nesso consonantico -ct- che
in Francese, Provenzale, Portoghese e in buona parte dei dialetti gallo-italici dà -it-; anche lo
Spagnolo, che oggi presenta la fase č risale a it. Il passaggio ct > it si trova esattamente nel territorio
che fu celtico: Italia settentrionale (a eccezione del Veneto), Francia e Penisola Iberica. A sud della
linea La Spezia-Rimini – che segnava il confine meridionale del mondo celtico – ct si assimila in -tt-
e in Rumania ct passa a -pt-.
Il Bolelli considera fra i fenomeni più sicuramente attribuibili al sostrato celtico nelle lingue romanze
la palatalizzazione di á e, cioè, il passaggio di a > e (o ä) in sillaba libera, che si osserva nel Francese,
in molti dialetti gallo-italici e in parte del Ladino. Questa evoluzione è ignota nel Provenzale e nel
Francese settentrionale è avvenuta tardi. In Italia, tale fenomeno si presenta in modo assai diverso e
si estende oltre Rimini, in parte delle Marche e penetra nell'Umbria.
Un altro fenomeno fonetico è quello della sonorizzazione o lenizione delle consonanti sorde
intervocaliche che interessa tutta la Romània occidentale.
Potrebbe, poi, essere collegata al sostrato gallico la tendenda all'indebolimento e alla caduta delle
vocali di sillaba debolmente accentata (atona) che si riscontrano nel Galloromanzo, nei dialetti gallo-
italici e, parzialmente, nel Portoghese.

Il sostrato nella Penisola Iberica – La Penisola Iberica presenta condizioni etniche molto complesse,
infatti è l'unica regione europea in cui si conservi e si parli tuttora un idioma preromano certamente
preindoeuropeo. Questa lingua è il Basco, oggi limitata a poche province della Spagna nord-orientale
e nella Francia sud-occidentale.
Il Basco ha una struttura sintattica completamente diversa da quella delle lingue indoeuropee: è stato
spesso avvicinato alle lingue camitiche, ma oggi la tesi prevalente è che si debba connettere alle
lingue caucasiche.
Nessuna fonte antica attesta che i loro progenitori siano giunti nella Penisola Iberica in epoca storica,
perciò pare ovvio che i Baschi non siano altro che la continuazione di uno dei popoli antichissimi
della Penisola Iberica. Wilhelm von Humbolt cercò di spiegare alcuni nomi di luoghi e di persona
dell'antica Iberia servendosi del Basco e, più recentemente, anche Hugo Schuchardt, grazie a delle
iscrizioni iberiche, tentò di ricostruire la declinazione iberica e notò importanti concordanze con
quella del Basco.
In base a ricerche più recenti, siamo portati a ritenere che gli Iberi siano un popolo venuto nella
penisola dall'Africa settentrionale e a identificare i progenitori dei Baschi negli antichi Vascones affini
agli Aquitani: molti antichi nomi di luogo ritenuti iberici si riscontrano in toponimi della zona che fu
aquitana e proprio nelle iscrizioni latine del territorio aquitano si trova il maggior numero di nomi di
persona spiegabili attraverso il Basco.
I progenitori dei Baschi giunsero nella Penisola Iberica in un'epoca molto antica, anche se non si è a
conoscenza della via seguita nelle migrazioni dal Caucaso. La migrazione più plausibile è quella via
terra, attraverso la costa settentrionale dell'Africa; in questo modo si potrebbero spiegare anche i
contatti con le lingue camitiche, in quanto è possibile che durante la migrazione elementi caucasici si
siano fusi con popolazioni camitiche. Gli Iberi, invece, costituiscono una ondata successiva
proveniente dall'Africa settentrionale e di origine libica.
Nelle lingue romanze della Penisola Iberica e nella parte ovest del dominio provenzale – Guascone e
Bearnese – gli elementi attribuibili al sostrato sono numerosi. Fra le voci documentate in Latino come
caratteristiche della Penisola e attribuibili al sostrato troviamo, ad esempio, arrugia > sp. arroyo, pg.
arroio.
Per quanto riguarda le tendenze fonetiche dovute al sostrato, la più evidente è il passaggio f > h: f
non è presente nel sistema fonologico del Basco, che rende f- iniziale delle parole latine con p-, b- o
con h- o facendo addirittura cadere il fonema (es. biku, piko, iko < fīcus). Lo Spagnolo muta f- in h-
(es. faba > haba). La tesi della reazione etnica è rafforzata dal fatto che il passaggio f- > h- si trova
anche in alcuni dialetti guasconi confinanti direttamente col territorio basco.

Il sostrato paleoveneto – La parte dell'Italia settentrionale che corrisponde all'odierno Veneto subì
poche infiltrazione da parte del popolo gallico. In quest'area erano stanziati, fin da tempi antichi,
popoli di origine non celtica: essi furono principalmente i Veneti e gli Euganei, anche se l'essenza
etnica di questi ultimi rimane sconosciuta. È dubbia l'appartenenza degli Euganei alla stirpe ligure,
come è dubbia la loro italicità; è, invece, probabile che gli Euganei si siano fusi con i Reti nella
regione di Verona e nelle montagne a Nord di Verona e di Brescia, e che si siano fusi coi Paleoveneti
nella pianura padana, nella regione di Padova e di Este.
Il Paleoveneto ci è parzialmente noto attraverso delle iscrizioni in alfabeto facilmente decifrabile. È
indubbia l'origine indoeuropea del Paleoveneto, ma il carattere illirico appare più incerto, anzi esso
ormai è negato da parecchi studiosi che ritengono il Paleoveneto una lingua indoeuropea occidentale
– una delle lingue kentum. Nella toponomastica troviamo dei relitti che risalgono senza dubbi al
Paleoveneto: nomi proparossitoni , come lo stesso nome di Padova. Per quanto riguarda la fonetica
potrebbe essere di origine paleoveneta la tendenza a fonemi interdentali nei dialetti veneti odierni.
Tuttavia, la constatazione più interessante è negativa: i dialetti veneti di oggi si accostano di più al
Toscano e all'Italiano letterario e ciò dà l'impressione ingannevole di maggior somiglianza del Veneto
con l'Italiano letterario. L'assenza di sostrato gallico nel Veneto rende, quindi, più simile il Veneto al
Toscano, privo anch'esso di sostrato celtico. Si tratta di concordanza nella agallicità.

Il sostrato illirico e trace – Nella zona dell'Illyricum si è formata una sola lingua romanza oggi
estinta: il Dalmatico, che presenta notevoli affinità col Rumeno e con gli elementi latini dell'Albanese.
Questa affinità è dovuta sia a ragioni di continuità geografica e all'isolamento delle due lingue, sia ad
affinità di sostrato preromano.
La romanità del Rumeno ha sicuramente sostrato trace. Il Trace, che conosciamo attraverso una sola
iscrizione, poche glosse e materiale onomastico, era una lingua indoeuropea.
Per quanto riguarda la fonetica del Dalmatico, notiamo tendenze comuni al Rumeno, all'Albanese e
al Bulgaro; nella sintassi vi sono concordanze fra le lingue balcaniche che possono essere dovute a
tendenze ereditarie dal comune sostrato.

Capitolo 3 – La Romània, territori perduti e territori nuovamente acquistati dal dominio


linguistico neolatino
Il termine “Romanus” - Il populus romanus è costituito dalle gentes aggregate alle trenta curiae
delle tre tribus, perciò l'appartenenza a una gens è condizione necessaria per poter far parte del
populus romanus. Col tempo, cominciano a diventare membri del populus anche dei clienti e dei
plebei e la condizione di “cittadino” cessa di corrispondere a quella di gentilis e gentili e plebei
vengono designati col nome nuovo di cives.
Il diritto di cittadinanza venne man mano esteso a varie città dell'Italia fino al Po e, in seguito, anche
alle città transpadane finché, con l'editto di Caracalla, la cittadinanza fu estesa a tutti i sudditi liberi
dell'Impero.
L'aggettivo romanus – in espressioni come populus romanus – aveva in origine un valore etnico ed
uno politico, ma quando il diritto di cittadinanza cominciò ad essere esteso, esso perse la sua valenza
etnica e conservò solo il significato politico e giuridico. In principio i Romani si opponevano ai Latini,
ma quando la sudditanza si estese, allora i Romani si opposero solo ai Barbari, cioè alle popolazioni
esterne all'Impero.
Il valore politico del termine romanus appare soprattutto nella parte orientale dell'Impero, ovvero
dove il Latino non riuscì mai a sopraffare il prestigio del Greco.
Nella parte occidentale, tuttavia, al tempo delle invasioni barbariche, Romanus ha sia valenza politica
che linguistica; è normale, però, che, quando crollò l'unità politica dell'Impero d'Occidente e
subentrarono i barbari, al termine rimanesse solo il significato linguistico. Romani, inoltre, è il nome
che danno a sé stessi i parlanti Latino.
I Germani chiamano i Romani assoggettati con un termine della loro lingua: Walha. Col tempo, il
nome di Romani si conserverà in Occidente solo presso una piccola popolazione alpina, quella del
cantone svizzero dei Grigioni; i dialetti latini parlati in questa zona vengono chiamati rumantsch ed
è tale anche il nome della popolazione, pievel rumantsch.

I termini “romanicus, romanice” - Il termine Romània, nel mondo occidentale, cominciò a indicare
l'insieme dei parlanti il Latino e, quindi, anche romanus assunse un significato sempre più vasto.
Accanto a questo aggettivo viveva un aggettivo di carattere più popolare: romanicus, ovvero “fatto
alla maniera di Roma”. Accadde, perciò, che romanicus stesse a Romània, come romanus a Roma.
Allo stesso modo, come a romanus corrispondeva l'avverbio romane, a romanicus corrispondeva
l'avverbio romanice. E se romane loqui equivaleva, nei tempi classici, a latine loqui, ora che romane
e romanice non si identificavano più, romanice parabolare significava “parlare come gli abitanti della
Romània”. E questo avverbio romanice si prestava meglio di romane ad indicare quello che di nuovo
– la lingua – stava nascendo. Ben presto romanice si trasformò in romance, e questa trasformazione
ci è comprovata dalle sue continuazioni delle lingue neolatine: si ha fr. ant. romanz, prov. romans, sp.
romance. Dalla Francia la parola passa nell'it. romanzo, dapprima usato solo per designare opere
letterarie in volgare.

Romània perduta e Romània nuova – Nella parte occidentale dell'impero, i sensi politico e
linguistico del termine Romània non corrispondevano alla realtà geografica, poiché non in tutto
l'impero il Latino era ugualmente diffuso.
La scienza moderna ha scelto il nome di Romània per designare il complesso del mondo neolatino,
in cui si parlano le lingue romanze continuazione del Latino. Ma questa Romània corrisponde solo in
parte alla Romània del IV-V secolo d. C.: molto territori, infatti, non furono mai romanizzati
linguisticamente; altri, romanizzati superficialmente, persero col tempo l'uso del Latino o del
Romanzo. Tuttavia, le lingue neolatine, sviluppatesi su una parte del territorio dell'antica Romània
storica, furono portate in altri territori in cui i Romani non erano mai arrivati, estendendo, quindi, il
mondo linguistico romanzo.
Così da una parte troviamo la “Romània perduta”, in cui si possono studiare gli stadi della spenta
latinità attraverso la toponomastica e i relitti latini rimasti, e dall'altra la “Romània nuova”, frutto
della colonizzazione.
La geografia linguistica e la linguistica spaziale ci hanno mostrato che ogni fenomeno fonetico ha la
sua particolare estensione geografica e la sua storia, e che questa storia – questa espansione – si
riscontra in quasi tutte le parole che fanno parte di una lingua.

Latino e Greco nell'Impero Romano – Se si osservano le carte dell'estensione dell'impero romano


dal tempo di Augusto a quello di Romolo Augustolo, si può seguire l'allargamento prima e il
restringimento dopo dei territori su cui venne esercitato il potere di Roma; più ristretta fu la Romània
linguistica e ancora più ristretto il territorio che conservò l'uso della lingua romana.
La parte orientale non fu mai romanizzata nella lingua, poiché il Latino fece sempre molta fatica ad
imporsi sul Greco, lingua che aveva maggiore prestigio storico e culturale. Tuttavia, non è facile
tracciare un netto confine tra il dominio del Latino e quello del Greco. Il criterio del maggior numero
di iscrizioni greche o latine non basta per determinare l'uso linguistico del popolo.
In Africa era per la maggior parte grecofona la regione che andava dalla Cirenaica all'Egitto e
grecofone erano tutte le province romane dell'Asia.
La presenza di un idioma neolatino nel territorio che fu un tempo romano non è sufficiente per
garantire dappertutto la continuità della vita romana, ma basta a far presumere una tale continuità.
Da Occidente e Oriente rimangono alla Romània linguistica e al mondo neolatino: la Hispania (tranne
la zona popolata dai Baschi), la Gallia (salvo la parte orientale della Belgica e salvo immigrazioni
alloglotte), tutta l'Italia, piccola parte della Rezia e del Norico e la Dacia. Dapprima era compresa
anche la fascia costiera della Dalmazia che fu, poi, sommersa.

Gli elementi latini nei dialetti berberi – Anche per quanto riguarda la Romània perduta si procede
da Occidente a Oriente, partendo dall'Africa romana, che comprende l'Africa Settentrionale odierna,
dal Marocco alla Tripolitania. Dall'Atlantico fino a Leptis Magna, la fascia costiera, che si estendeva
verso l'interno, fu quasi completamente romanizzata. Le città di fondazione fenicia o cartaginese
fiorirono sotto l'Impero Romano e il Cristianesimo vi si diffuse rapidamente.
Anche qui, la romanizzazione non fu dappertutto uguale: fu più intensa nelle regioni più vicine
all'Italia, e cioè nella zona di Cartagine e nella provincia proconsolare. Verso Oriente, nella Cirenaica,
cominciava il territorio in cui era più diffusa la lingua greca. Nel periodo imperiale la cultura latina
fioriva in Africa e Cartagine era il maggiore centro di studi.
L'influenza che ebbe la romanizzazione appare anche dall'elevato numero di iscrizioni latine. Ad
esempio il Punico – dialetto fenicio – era parlato a Cartagine e nei suoi antichi domini, ma col tempo
di estinse in favore del Latino. Ma nella costa settentrionale dell'Africa c'era una popolazione indigena
che resistette alla romanizzazione: si tratta della popolazione “libica”, che parlava un idioma
appartenente alla famiglia camitica. Questa popolazione si identifica negli odierni Berberi, i cui
dialetti si estendono dalla costa Atlantica fino all'oasi di Siwāh in Egitto. Esaminando proprio le voci
latine penetrate nel dialetti berberi possiamo farci un'idea del potere della latinità dell'Africa.
Fu Hugo Schuchardt ad iniziare lo studio dei elementi latini del Berbero. Gli elementi latini in questo
dialetto presentano caratteri di grande arcaicità fonetica. Per prima cosa, notiamo la conservazione di
ĭ ed ŭ del Latino, che nella maggior parte del territorio romanzo si sono fusi con ē ed ō. Notevole è
anche la conservazione di c e g davanti a vocali palatali.
Il Berbero continua termini latini che mancano alle altre lingue romanze: ad esempio il lat. porrigo
(tigna, forfora) è sconosciuto a tutto il dominio neolatino tranne che in Mozambico, accordo non
casuale, poiché dall'Africa alla Spagna si è notato un continuo movimento migratorio che ha favorito
l'estensione di isoglosse di origine africana nella Penisola Iberica.

Gli elementi latini nel Basco – Nella Hispania la romanizzazione fu quasi completa, tranne che nelle
regioni montuose del Nord-Est, dove il popolo basco si mantenne. Ma l'attuale territorio basco oggi
non è che un piccolo resto di quello che era il dominio della lingua basca.
La presenza di elementi latini nel Basco è notevole sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
Si rimane sorpresi nel trovare nel Basco una enorme quantità di parole latine senza che si sia
indebolita la forza vitale della lingua indigena. L'influsso latino nel Basco è interessante e importante
per il suo carattere arcaico che ci permette di conoscere preziosi relitti sconosciuti al resto del mondo
neolatino.
Per quanto riguarda la fonetica, il carattere conservativo e arcaico è dato dalla conservazione di c e g
velari davanti a e ed i. Troviamo nel basco la conservazione di esiti distinti per le vocali latine ē ed ĭ,
ō ed ŭ che invece, già in epoca volgare, si erano fuse rispettivamente in e ed o.
Dal punto di vista della cultura è interessante notare che l'influsso latino si riferisce in primo luogo
all'organizzazione giuridica ed amministrativa del paese. Notevole fu anche l'influsso romano sulla
terminologia del vestiario, su quella commerciale e militare.

Relitti nella Britannia. Gli elementi latini nelle lingue celtiche e nell'Inglese antico – La Britannia
è un dominio completamente perduto per la Romània linguistica.
Le città della Britannia dovevano essere assai romanizzate quando, nel V secolo, le forze militari
romane si ritirarono sul continenti lasciando l'isola in mano ai Barbari; tuttavia, gli idiomi celtici
insulari, sia per la maggiore distanza da Roma, sia per la più breve dominazione romana, resistettero
meglio di quelli continentali, mantenendosi in Irlanda, nel Galles e in Cornovaglia.
Tenendo conto anche del fatto che le documentazioni di queste lingue cominciano solo nel periodo
medievale, incontriamo delle difficoltà a distinguere i pochi relitti latini dovuti alla conquista romana.
Inoltre, l'Irlanda non venne mai assoggettata e quindi gli elementi latini dell'Irlandese provengono,
più che dalla colonizzazione, dai rapporti di commercio e sono in buona parte importati dalla
Britannia e, quindi, passati attraverso lingue celtiche di tipo gaelico.
Per quanto riguarda l'Anglosassone, è da tenere presente che alcuni elementi latini penetrarono negli
idiomi germanici degli Angli e dei Sassoni anche prima delle loro migrazioni verso le isole
Britanniche, quando ancora occupavano sedi vicine al Reno.
Dal punto di vista della fonetica, i più antichi elementi latini delle lingue celtiche dimostrano caratteri
arcaici. Nella toponomastica della Gran Bretagna non sono rare le tracce che riconducono alla
Britannia romana.

Gli elementi latini nelle lingue germaniche – La provincia romana della Germania abbracciava un
territorio relativamente piccolo, ad occidente del Reno, il “limes” naturale fra mondo romano e
mondo germanico. In questa regione, oltre che in Baviera, Tirolo e Svizzera, troviamo i più numerosi
relitti latini, sia nella toponomastica che nel lessico.
La conoscenza del Latino doveva essere abbastanza diffusa fra i Germani e non solo fra quelli che
entravano a far parte dell'esercito romano. Già Cesare parla della presenza di commercianti romani
presso gli Ubi e i Suebi. I primi commerci furono forse di vini e non è un caso, infatti, che la parola
latina caupo (oste, commerciante di vino) si conservi solo nelle lingue germaniche.
Ma fra i relitti della Romània perduta si trovano anche voci ormai estinte nel Romanzo. Anche le
condizioni fonetiche dei più antichi relitti latini ci mostrano fasi arcaiche, come la pronuncia velare
di c e g.

Relitti romani nella Pannonia e nell'Illirico. Gli elementi latini in Albanese – Nella Rezia e nel
Norico troviamo residui neolatini limitati alla fascia alpina: qui si svilupperanno, poi, i dialetti ladini.
Le parti settentrionali della Rezia e del Norico sono state perdute alla romanità e oggi sono
completamente germanizzate. Tuttavia, il sostrato romano appare nella toponomastica e nel lessico.
Per quanto riguarda la Pannonia, le invasioni slava e ungherese hanno fatto scomparire la romanità
linguistica, anche se molti elementi nella toponomastica inducono a ritenere che all'arrivo degli
Ungheresi l'idioma neolatino non fosse ancora estinto. L'esame delle iscrizioni dimostra che la latinità
della Pannonia doveva concordare con quella occidentale e non con quella orientale.
Nell'Illirico si formò, nella regione costiera, una lingua romanza: il Dalmatico. Nella parte più
meridionale dell'Illirico un popolo indoeuropeo, forse formato da Illirici e Traci, fu quasi sul punto
do romanizzarsi linguisticamente: questo popolo era quello albanese.
Il luogo di formazione dell'albanese rimane incerto, ma tutto gli studiosi ormai lo collocano in una
zona più a nord di quella dell'attuale Albania e abbastanza distante dal mare. Oggigiorno non si
considera più l'Albanese come una lingua “semiromanza”, ma l'apporto dato dal Latino alla
formazione di questa lingua è considerevolissimo. Dal punto di vista culturale, gli elementi latini del
lessico albanese hanno grande importanza: fra i nomi di parentela, le voci per la parentela cognatizia
sono di origine latina.
Quasi completamente latina è la terminologia cristiana; parole importanti di origine latina si
riferiscono alla vita sociale e a quella intellettuale; animali comuni sono denominati con termini latini;
importante è anche la presenza di un elevato numero di aggettivi di origine latina.
Dal punto di vista della forma, si può trovare un'affinità con Rumeno e con l'antico Dalmatico, nonché
con gli elementi latini e neolatini del Neogreco e delle lingue slave meridionali. Questa affinità si
riscontra sia in fenomeni di conservazione comuni, come nel mantenimento di ŭ latino, sia in
fenomeni di innovazione comuni o paralleli, come il nesso -ct- che in Albanese diventa -ft- e in
Rumeno -pt-.
Importante è anche la concordanza di elementi latini dell'Albanese col Rumeno, sia per la
conservazione di voci latine che non hanno o hanno scarsa vita in altra parte della Romània, sia per
innovazioni semantiche.
Gli elementi latini in Greco e nelle lingue slave – Anche se a sud della linea tracciata da Jireček,
che va da Alessio al Mar Nero passando per la Penisola Balcanica, la lingua prevalente sia stata il
Greco, non mancano, tuttavia, elementi del mondo romano. È risaputo che il Greco esercitò molta
influenza sul Latino, ma è bene ricordare che, nonostante ciò, il Latino diventò la lingua ufficiale
dell'esercito anche in Oriente, nonché la lingua della giustizia e dell'amministrazione tanto da lasciare
profondi segni anche sul Greco. Questo influsso latino cominciò a farsi sentire dal II secolo a. C. e si
intensificò dopo la vittoria di Leucopetra che segnò il declino politico della Grecia. La divisione
cronologica dei prestiti latini fatta da Federico Viscidi nel lavoro I prestiti latini nel Greco antico e
bizantino segna l'apice nel VI secolo d. C., ovvero l'epoca di Giustiniano che è sempre stata ritenuta
il principio del declino della lingua latina.
Dal punto di vista culturale, bisogna ricordare l'importanza di elementi dotti e semidotti assimilati dal
Greco che furono, insieme a parole di origine popolare, portati dove si parlava la lingua greca: in
questo modo, parole latine si trovano fino in Asia Minore e in Egitto.
Allo stesso modo, è probabile che parole della latinità balcanica siano state introdotte nelle lingue
slave, poiché al tempo della venuta degli Slavi, la romanità balcanica occupava un'area abbastanza
estesa. Anche la toponomastica dei paesi oggi slavofoni della Penisola Balcanica contiene numerosi
elementi che risalgono al Latino, anche se non è facile distinguere le voci che provengono
direttamente dal Latino da quelle che provengono, invece, da prestiti da idiomi romanzi già formati,
come il Dalmatico e il Rumeno.
La Romània nuova – Anche se il dominio linguistico romanzo perdette alcuni territori di quella che
fu la Romània imperiale, le lingue neolatine si espansero comunque in regione che mai erano state
sotto il dominio di Roma. Erano soprattutto territori d'oltremare, in cui le lingue romanze si espansero
in seguito all'allargamento dei domini coloniali.
Generalmente le differenze tra le lingue romanze di origine coloniale e quelle europee sono esigue e
consistono in conservazioni di fasi arcaiche e dialettali e in alcune innovazioni. Le lingue letterarie,
sempre svolte su modelli classici, mantengono maggiore uniformità. Casi sporadici sono
rappresentati dalle “lingue creole” (vedi pag. 11-12 appunti).

L'espansione dell'Italiano – L'Italiano non ha dato vita a varietà stabili di tipo coloniale, poiché
l'Italia non ha partecipato alla colonizzazione dell'America e dell'Asia e, per quanto riguarda l'Africa,
la sua espansione coloniale è recente. È vero che le repubbliche marinare di Genova e Venezia ebbero
colonie nel Levante, ma non hanno mai generato un idioma che sia stato capace di conservarsi a
lungo.
Testimonianze dell'espansione veneta e italiana sono le numerose parole di origine italiana –
specialmente veneta – nel Neoellenico, Croato, Albanese, Arumeno e Turco. Il commercio nel
Mediterraneo portò elementi italiani anche all'Arabo. L'unico esempio di un idioma “creolizzante” a
base fortemente italiana è dato dalla cosiddetta lingua franca.

L'espansione del Francese – L'espansione del Francese come lingua nazionale è di gran lunga
minore di quella che ha avuto come lingua di cultura e di comunicazione. La colonizzazione francese
in America, infatti, è stata relativamente modesta. La maggiore colonizzazione è stata sicuramente
quella del Canada, iniziata nel XVI secolo e intensificata nel XVII. Dopo la pace di Utrecht, tuttavia,
la Francia cominciò a perdere terreno – e territori – in favore dell'Inghilterra. Nel XVIII secolo la
Francia veniva sconfitta e la pace di Parigi cedeva il Canada all'Inghilterra. Nonostante questa perdita,
il Francese è ancora parlato in Canada, soprattutto nella provincia di Québec.
Il Francese del Canada si distingue per alcune particolarità e specialmente per il suo carattere arcaico
(ad es. la pronuncia ué e dittongo oi): non è esattamente il Francese del XVII, ma ne conserva molti
tratti sia nella fonetica che nel lessico.
Il Francese si conserva, con tipo creolizzante, anche nella Louisiana e, sotto forma di dialetti creoli,
anche nelle Antille. Altri dialetti creoli francesi si trovano, poi, in Africa, nelle isole Mascarene
(Riunione e Maurizio), nelle isole Seycelles e in alcuni punto dell'Africa Occidentale ed Equatoriale.

L'espansione dello Spagnolo – La bolla del Papa Alessandro VI (1493) divideva i territori scoperti,
e quelli ancora da scoprire, tra Spagnoli e Portoghesi: la parte maggiore toccò alla Spagna, che ben
presto divenne uno degli imperi coloniali più grandi del mondo.
Anche se le lingue indigene americane non sono del tutto scomparse, lo Spagnolo si è imposto nelle
colonie già appartenenti alla corona di Spagna, dal Messico al Nord fino alla Patagonia al Sud, eccetto
che in Brasile.
Quando le colonie si emanciparono anche attraverso le lotte, i singoli stati indipendenti mantennero
come lingua nazionale lo Spagnolo ed è proprio questa conservazione che permette all'America
Latina di godere ancora di una certa unità culturale. L'unione politica con la Spagna è ormai cessata,
ma l'unione culturale esiste ancora e, nella lingua scritta, le differenze fra lo Spagnolo europeo e
quello dell'America Latina sono soprattutto lessicali. I prestiti dalle lingue indigene non sono molto
numerosi e si riferiscono perlopiù alla flora e alla fauna locale, oppure appaiono nella toponomastica.
Più importanti sono le differenze nella lingua parlata, dove si è in presenza di fenomeni di
conservazione e di innovazione, ma soprattutto si osserva l'affermarsi di tendenze che, nella lingua
della madre patria, sono solo dialettali.
Lo Spagnolo d'America è importante perché il suo sviluppo offre notevoli parallelismi con la diaspora
del Latino volgare nella Romània e il suo successivo funzionamento, offre nuovi tipi di letterature e
permette di seguire aree dialettali e di trovare in varietà ispano-americane odierne alcuni fenomeni
dello Spagnolo già tramontati o dialettali nella madre patria, ma che in America ebbero un grande
sviluppo.
Dal punto di vista linguistico, è interessante il Giudeo-spagnolo degli Ebrei sefarditi. Nelle città
dell'Oriente europeo – Bosnia, Macedonia, Grecia, Bulgaria, Romania e Turchia – vivevano migliaia
di Ebrei sefarditi, discendenti dagli Ebrei spagnoli che furono cacciati dalla Spagna nel 1492 e che si
rifugiarono presso l'impero ottomano. Questi Ebrei hanno conservato la loro lingua che corrisponde
allo Spagnolo del periodo classico.
Un'evoluzione completamente diversa ha avuto lo Spagnolo nelle isole Filippine, dove ha dato luogo
anche a una varietà creola. A Curaçao si parla, infatti, una lingua creola influenzata lessicalmente
dallo Spagnolo e che ha per base un dialetto creolo-portoghese.

L'espansione del Portoghese – Il principale centro di espansione coloniale del Portogallo è stato il
Brasile. In principio colonia, poi viceregno, poi regno, poi impero e quindi repubblica indipendente,
il Brasile ha mantenuto la lingua dei colonizzatori e mantiene tutt'oggi unità culturale e spirituale col
Portogallo, affermata con l'unificazione ortografica fra i due Stati. Il Portoghese brasiliano conserva
alcuni aspetti del Portoghese arcaico e presenta anche alcune innovazioni. Le principali differenze si
trovano nel lessico e nella fraseologia; in Brasile troviamo voci che in Portogallo sono ormai antiquate
o solo dialettali e vi sono voci diverse per alcuni oggetti o concetti. Nella morfologia si nota – solo
nella parlata di classi meno colte – la tendenza al livellamento fra singolare e plurale. La maggiore
differenza sta però nella collocazione dei pronomi atoni che in Brasile vengono preposti in casi in cui
in Portogallo si postpongono.
Gli elementi mutuati dalle lingue indigene si riferiscono perlopiù alla flora e alla fauna o a costumanze
locali. Sul Portoghese brasiliano ha influito, poi, la parlata creolizzante degli antichi schiavi negri.
Nel territorio brasiliano si sono, col tempo, formati parecchi idiomi creoli. Il Portoghese è sicuramente
la lingua romanza che ha dato vita al maggior numero di varietà creole: i dialetti indo-portoghesi delle
poche oasi dell'India, il Sino-portoghese di Macao, il Maleo-portoghese, ecc.

Capitolo 4 – Il nucleo centrale: il Latino


Latino scritto e Latino parlato; “urbanitas” e “rusticitas” – Il nucleo delle lingue neolatine è
formato dal Latino.
Il Latino è un idioma appartenente alla grande famiglia indoeuropea; esso ci è conosciuto, grazie a
una documentazione ininterrotta e organica, solo dal III secolo a. C. Se è vero che la posizione dei
dialetti indoeuropei non si è notevolmente alterata, il Latino, come i dialetti italici e le lingue celtiche,
rappresenta un idioma marginale dell'estremità occidentale: la linguistica spaziale ci ha insegnato che
le aree laterali conservano elementi arcaici. Il Latino presenta, quindi, importanti fenomeni di
conservazione del sistema indoeuropeo, ma presenta anche notevoli innovazioni.
La lingua latina offre fenomeni di semplificazione che si vanno sempre più accentuando. I dittonghi
indoeuropei, ancora ben conservati nel Latino arcaico, si vanno man mano monottonghizzando: ei
passa in ī (es. deico > dīco); oi passa in ū (es. oinos > ūnus); ou passa in ū (es. Loucilius > Lūcilius);
la declinazione si semplifica con la perdita del locativo e dello strumentale, la coniugazione subisce
anch'essa delle semplificazioni; l'accento non è più fisso sulla prima sillaba, ma è condizionato dalla
quantità della penultima e non risale mai oltre la terzultima.
Dopo averla fissata come lingua letteraria, il Latino scritto con intenti artistici mantiene una relativa
fissità; ma all'interno dell'urbs e non solo nelle provinciae, la lingua parlata differiva più o meno
considerevolmente, secondo le epoche e le categorie sociali, dalla lingua scritta e, soprattutto, dalla
lingua letteraria. Ad esempio, lo stesso Cicerone usa, nelle epistole non destinate alla pubblicazione,
uno stile molto diverso da quello impiegato nelle orazioni o nelle opere filosofiche e retoriche.
Il Latino scritto e letterario aveva una certa uniformità e regole che andavano obbligatoriamente
rispettate e anche i filologi più esperti distinguono a fatica certe peculiarità regionali. Più facilmente
perseguibili sono, invece, le differenze regionali nei testi non a carattere letterario, come ad esempio
le iscrizioni di carattere non ufficiale. Il Latino parlato, unitario fino solo ad un certo punto, a causa
del livellamento provocato dall'unità politica e culturale, aveva un numero maggiore di differenze
regionali e sociali. Cicerone e Quintiliano oppongono, infatti, l'urbanitas romana alla rusticitas. Ma
questi fenomeni ritenuti rustici non erano dappertutto gli stessi e il sermo vulgaris doveva avere già
in sé stesso quei germi di differenziazioni dialettali che si svilupperanno poi nelle singole lingue
romanze: il Latino classico subì, infatti, una lenta e profonda trasformazione, allontanandosi sempre
più dalla lingua parlata e rimanendo sempre più legato a determinati schemi e modelli.
Fonti per la conoscenza del cosiddetto “Latino volgare” – Il nome di “Latino volgare” si può
prestare a qualche equivoco: sarebbe forse meglio parlare, infatti, di Latino parlato e di Latino
comune, siccome l'aggettivo volgare può essere male interpretato. Non si tratta solo del Latino parlato
dalle classi più basse del popolo, ma della lingua parlata da tutte le classi sociali con infinite
sfumature: non è mai esistito, infatti, un Latino volgare unitario.
Grazie ad alcune principali fonti possiamo acquistare una relativa conoscenza di questa lingua:
1) Gli autori latini. In primo luogo alcuni autori arcaici, come Plauto, sia
per il genere comico, che meglio si prestava ad essere reso con espressioni più colloquiali, ma anche
perché, all'epoca, non si erano ancora fissati tutti i modelli retorici. Importanti sono, poi, alcuni trattati
di veterinaria e alcune opere di culinaria e di medicina popolare. Petronio, nel suo Satyricon, mette
in bocca ai suoi personaggi – soprattutto a Trimalchione – espressioni e parole di carattere popolare
o plebeo. Altra preziosa fonte sono gli autori cristiani: nei primi secoli dell'era volgare si era formato
un Latino cristiano, che non solo risentiva degli influssi greci e orientali, ma, avendo il compito di
diffondere il messaggio del Signore, ed essendo nato in ambienti popolari, era una lingua molto vicina
a quella parlata. Sant'Agostino e altri Padri della Chiesa, sebbene fossero uomini di immensa cultura,
utilizzano volutamente una lingua molto più vicina a quella parlata dal popolo a cui si rivolgono.
Carattere popolare aveva anche la più antica traduzione della Bibbia e anche la Vulgata, la traduzione
compiuta da San Gerolamo, si basa sulla Vetus Latina di cui conserva alcuni volgarismi. Non si
possiede nessun testo esclusivamente volgare, ma in tutti i testi sopra menzionati troviamo, o volute
dagli autori, o usate per mancanza di termini tecnici nel Latino classico, tracce più o meno numerose
del Latino volgare.
2) I grammatici latini, dove parlano di forme da evitare o segnalano gli
errori più comuni dell'uso quotidiano, sia nella pronuncia, sia nella morfologia.
3) I lessicografi. Nelle opere lessicografiche si trovano non solo delle
parole arcaiche o rare e poi spiegate, ma anche numerosi volgarismi. Importanti sono, poi, i glossari,
fra cui ha particolare interesse la cosiddetta Appendix Probi, scritta probabilmente a Roma intorno al
III secolo a. C. che contiene, nella terza parte, un elenco di 227 parole volgari da evitare, con le
corrispondenti in Latino corretto. L'autore doveva essere un grammatico e il piccolo elenco era
destinato ai suoi alunni (viene chiamato Apprendix Probi perché è stato trovato in calce a un
manoscritto di Valerio Probo). Speciale importanza hanno, poi, le Glosse di Kassel e quelle di
Reichenau.
4) Le iscrizioni, più importanti quelle a carattere privato che non quelle
ufficiali; nelle iscrizioni funerarie dei piccoli cimiteri di campagna, nei graffiti murali, ecc. si trovano
tracce di volgarismi che mancano quasi del tutto nelle epigrafi ufficiali. Siccome le iscrizioni
rimangono nel luogo dove furono scritte, lo studio delle loro particolarità linguistiche permette di
rendersi conto del Latino regionale della Gallia, della Dacia, dell'Iberia, ecc. Particolarmente
interessanti sono le iscrizioni e i graffiti di Pompei. Grazie alle iscrizioni, la vita quotidiana di un
popolo di una città di provincia ci si presenta nei suoi vari aspetti ed esse testimoniano molti
volgarismi che si affermeranno, poi, nelle varie lingue romanze. Per il loro carattere popolare hanno
una notevole importanza anche le defixiones, formule di incantesimo con cui si vogliono neutralizzare
i malefici e le maledizioni.
5) Le grafie dei manoscritti, soprattutto attraverso gli sbagli dei copisti o
le false ricostruzioni, ci manifestano tendenze del Latino volgare.
6) Le note tironiane: in origine rappresentano il primo sistema
stenografico romano, ideato da M. Tullio Tirone e usato per stenografare le orazioni tenute ex abrupto.
Le glosse e i manoscritti in note tironiane hanno spesso un carattere popolare e si ricavano importanti
dati per la ricostruzione del Latino volgare.
7) I diplomi, che dimostrano l'affermarsi di certe innovazioni nei vari
paesi romanzi.
8) Le parole latine passate in lingue non romanze.
9) La grammatica comparata e il lessico delle lingue romanze, ovvero i
coefficienti maggiori che ci permettono la ricostruzione di molte voci del Latino volgare o comune
non attestate.

Il lessico del Latino volgare – Il nucleo principale delle parole de Latino volgare doveva essere
fondamentalmente comune al Latino classico, sia per la forma, sia per il significato.
Voci come acētum o māter erano usate, senza considerevoli divergenze semantiche, sia nel Latino
scritto, sia in quello parlato. Altre voci avevano subito leggere trasformazioni fonetiche (es. oclus per
ocŭlus) o un passaggio di declinazione o di coniugazione (es. acru(s) per acer e *sapēre per sapĕre).
Alcune voci, invece, pur mantenendo intatta o quasi la loro forma, hanno avuto nel Latino volgare
spostamenti di significato.
Per designare il “fuoco”, il Latino utilizzava la parola indoeuropea ignis; con fŏcus designava, invece,
il “focolare domestico”, opposto ad āra, quello della divinità. Nel Latino popolare focus cominciò a
prendere il senso di ignis e dal IV secolo in poi si troverà sempre più spesso la parola focus. Le lingue
romanze non conservano nessuna traccia di ignis, ma concordano tutte nel presentare continuazioni
di fŏcus (> it. fuoco, fr. feu, sp. fuego, pg. fogo, rum. foc).
Per designare il “cavallo”, la denominazione più diffusa era l'antico nome indoeuropeo equus; già nel
II secolo a. C. compare, però, caballus, usato soprattutto per il cavallo da tiro e da lavoro e con una
sfumatura peggiorativa; i grammatici dicono che era la voce della lingua popolare. Ora le lingue
romanze non presentano continuazioni di equus, ma solo di caballus (> it. cavallo, fr. cheval, sp.
caballo, pg. cavalo, rum. cal).
I mutamenti semantici avvenuti nelle parole latine rimaste nelle lingue romanze mostrano o una
specificazione e un restringimento del senso, o un allargamento. Nel Latino classico, cognatus
indicava il “parente per mezzo del sangue” in opposizione a adfinis, che indicava il “parente
acquisito”. Nell'antico diritto romano si faceva una notevole differenza fra agnati (parenti di linea
diretta) e cognati, ma in seguito si designarono come cognati anche gli agnati. Nel Latino volgare
cognatus restringe il suo senso e si riferisce al marito della sorella.
Il verbo latino necare, enecare significava “uccidere”; nel Latino tardivo, però, si specializzò nel
senso di “uccidere nell'acqua, affogare” e così si ha l'it. annegare, fr. noyer, prov. negar, sp./cat./pg.
anegar, rum. îneca.
Spesso le evoluzioni semantiche, pur partendo da determinate accezioni o da usi fraseologici attestati,
vanno man mano divergendo. Il verbo latino lĕvare, derivato da lĕvis, significava “alleggerire” e
nell'epoca imperiale anche “sollevare”. Questo verbo ha poi sostituito nelle lingue romanze,
parzialmente o totalmente, i verbi ferre, tollĕre, surgĕre e oriri. In rum. lua e in sardo logud. leare
significano “prendere”; in it. Levare significa “alzare”; in sp. llever significa “portare”. Il fr. lever
significa “sollevare” nonché “portar via, togliere”, senso comune anche al dominio linguistico
italiano.
Vi sono parole latine scomparse nel Romanzo; vi sono voci del Latino classico che sono state
sopraffatte da concorrenti indigene che avevano un carattere più popolare e affettivo. Le applicazioni
della geografia linguistica ci permettono di stabilire non solo il punto di partenza delle innovazioni,
ma anche di spiegare le ragioni di tali innovazioni. Il lat. anser è quasi completamente scomparso in
favore di un derivato di avis, e cioè avĭca, da cui auca, forma alla quale risalgono tutte le forme
romanze (> it. oca, fr. oie, prov. auca).
Molto spesso, però, le innovazioni lessicali non giungono a diffondersi per tutto il territorio poiché o
non hanno avuto sufficiente forza, o sono partite troppo tardi per raggiungere le zone più lontane. È
il caso di manducare, in origine usato solo da comici e satiri e poi entrato anche nel lessico della
buona società, in contrapposizione a edĕre; nelle lingue romanze odierne si ha sp./pg. comer
“mangiare”, rum. mînca, fr. manger.
Una delle principali fonti per la ricostruzione del lessico del Latino volgare è data dalle lingue
romanze, ma noi non conosciamo perfettamente il lessico delle singole lingue e dei singoli dialetti
neolatini.
Ogni nuovo studio mostra che parole che si credevano estinte hanno, in realtà, la loro continuazione
in un dialetto periferico e isolato e sono attestate in documenti che prima venivano ignorati. Per
rendersi conto del progresso della geografia linguistica è sufficiente comparare tra loro due edizioni
contigue del REW (Romanisches Etymologisches Wörterbuch) di W. Meyer-Lübke: si può constatate
che sono stati aggiunti circa 900 lemmi dall'edizione del 1911-1920 e quella del 1930-1935.
Uno dei principali mezzi di rinnovamento del lessico Latino volgare è dato dalle derivazioni per
mezzo di suffissi e dalle composizioni con prefissi. Importante ricordare che questo Latino volgare
era specialmente una lingua parlata e familiare e nella lingua familiare sono frequenti le derivazioni
diminutivali di carattere affettivo: ad esempio lat. genuculum o genoculum (invece di genu) > it.
ginocchio, fr. genou, prov. genolh, pg. joelho, rum. genunchiu.

La sintassi del Latino volgare – Spesso un mutamento fonetico provoca delle alterazioni
morfologiche, le quali a loro volta danno innovazione sintattiche; da ciò si deduce che le tre parti in
cui tradizionalmente si divide la grammatica sono imprescindibili.
Il carattere delle fonti del Latino volgare che ci sono pervenute è un ostacolo non lieve per la
conoscenza della sintassi del Latino parlato, in quanto non esiste un solo testo volutamente volgare.
La maggior diversità fra la sintassi del Latino classico e quella delle lingue romanze sta nella diversa
collocazione delle parole nel periodo; alla relativa libertà del periodare subentra un ordine più fisso.
Nel Latino classico era abituale l'ordine: soggetto – complementi indiretti – oggetto – predicato; il
verbo preferiva stare alla fine della proposizione, mentre i complementi indiretti e diretti lo
precedevano. La collocazione delle parole nelle lingue neolatine è invece determinata dall'ordine:
soggetto – predicato – oggetto – complementi indiretti. Il Latino classico preferisce la costruzione per
ipotassi, ovvero attraverso una serie di proposizioni dipendenti subordinate, mentre le lingue romanze
preferiscono la costruzione per paratassi. Questo non significa che la costruzione ipotattica sia
scomparsa dalle lingue romanze, soprattutto dalle lingue letterarie. Ma il Latino rimase per secoli la
lingua della scuola e della cultura; la sintassi latina continuò, quindi, ad esercitare un notevole influsso
sulla sintassi delle lingue romanze occidentali.
Ragioni soprattutto fonetiche provocarono, col tempo, l'impoverimento e quindi la perdita quasi
completa delle declinazioni, tanto che nelle lingue romanze odierne esse non sono più presenti.
Anche alcuni grecismi entrano, specialmente attraverso il linguaggio ecclesiastico, nel tardo Latino.

Il vocalismo del Latino volgare – Nella fonetica del Latino volgare vi sono stati notevoli
cambiamenti. La quantità aveva grande importanza per i Romani: era la quantità della penultima che,
in epoca classica, determinava la posizione dell'accento, che nel Latino preistorico cadeva, invece,
sempre sulla prima sillaba. In origine, la differenza tra una sillaba lunga e una breve era data
probabilmente solo dalla maggiore durata della vocale.
In seguito, nel Latino parlato, le vocali lunghe cominciarono ad essere pronunciate chiuse e le vocali
brevi aperte. Quando il Latino si espanse in Europa e in Africa si sovrappose a lingue che non
conoscevano l'opposizione fonematica fra vocali lunghe e vocali brevi e il senso della quantità andò
man mano perdendosi. Rimase come distinzione la differenza di apertura e, cioè, la differenza di
timbro; i aperto e u aperto si fusero rispettivamente con e chiuso e o chiuso in gran parte della
Romània. Si venne ad avere così una riduzione (vedi pag. 237). Lo schema di pagina 237 vale per le
vocali toniche e solo per una parte della Romània. Man manco che la qualità cominciò a guadagnare
sulla quantità, la durata smise di essere una caratteristica per ogni vocale; le sillabe accentate
divennero tutte più lunghe di quelle atone. Le sillabe con vocale breve accentata divennero più lunghe
e le sillabe con vocale lunga atona divennero più brevi. Continuare sul libro da pag. 238.
Vedi libro per i capitoli Il consonantismo del Latino volgare (pag. 243) e La morfologia del Latino
volgare (pag. 249)

Capitolo 5 – Gli adstrati e i superstrati


Il prestito linguistico – La causa del passaggio dalla relativa unità del Latino comune alla pluralità
delle varietà romanze non è stata solo una, bensì tre: la differenza cronologica della colonizzazione
delle varie provinciae, la differenza delle lingue del sostrato e i diversi influssi esercitati dai popoli
che si sono sovrapposti alle genti parlanti romanice.
Se con la parola “sostrato” si intendono quelle lingue alle quali il Latino si sovrappose durante la sua
espansione, con il termine “adstrato” si intendono le lingue vicine territorialmente, alle quali il Latino
non si sovrappose, e con la parola “superstrato” si intendono le lingue dei popoli che vennero ad
abitare, sia come dominatori che come padroni, nei territori linguisticamente romanizzati.
Una divisione di adstrati e sostrati non è sempre possibile. Il Greco, ad esempio, fu un “sostrato” e in
queste regioni si può parlare di sostrato greco. Nelle regioni grecofone della Grecia, dove il Latino
non si impose, il Greco fu piuttosto un “adstrato” e nelle colonie bizantine dell'Italia meridionale su
territorio romanizzato rappresenta prevalentemente un “superstrato”.
Importare da notare è il fatto che quasi ogni lingua di “sostrato” è prima stata una lingua di “adstrato”;
il Gallico era una lingua di “adstrato” e rimase tale anche dopo la colonizzazione romana; divenne
lingua di “sostrato” solo dopo la sua sparizione come lingua d'uso e la sua sostituzione con il Latino.
In seguito, il Celtico divenne lingua di “superstrato” nella Penisola Armorica dopo l'immigrazione
delle popolazioni bretoni dalle Isole Britanniche e quando la loro lingua si sovrappose al Romanzo,
e divenne di nuovo “sostrato” per le popolazioni che ritornarono di lingua francese.
L'influsso del sostrato si rivela sia grazie a relitti lessicali, sia per mezzo di tendenze fonetiche, mentre
l'influsso delle lingue di adstrato e superstrato si limita solo al lessico e raramente intacca la fonetica
e la morfologia.
Gli influssi sul lessico sono la prova di una penetrazione minore di quella che intacca la grammatica.
Quando si parla di “influssi lessicali” si usa generalmente la voce prestiti. Il vocabolo è ormai entrato
nella terminologia linguistica ufficiale, ma non è forse uno dei migliori adattamenti. Infatti il
“prestito” dovrebbe portare con sé l'idea di “restituzione”, e chi “presta” dovrebbe rimanerne, almeno
temporaneamente, privo, cose che, invece, avvengono molto raramente.
I glottologi tedeschi fatto una distinzione tra due tipi di prestiti: “Lehnwörter” e “Fremdwörter”. I
primi sono completamente assimilati al sistema linguistico del sistema che li adotta; i secondi, invece,
mantengono ancora l'aspetto formale della lingua originaria.
Vi sono varie cause che determinano i prestiti. La prima e più potente è data dal bilinguismo; nelle
regioni bilingui si osserva sempre uno scambio di voci e di costrutti fra le due lingue. Sia per le voci
appartenenti alle lingue di sostrato, sia per le lingue che formano adstrati e superstrati, è sicuro che le
popolazioni bilingui siano state il tramite più efficace per la diffusione di voci romanze nel
Germanico, o nel Greco, e viceversa.
Di solito, è il popolo di maggiore “prestigio” che maggiormente irradia la sua cultura attraverso il
lessico. Nei rapporti tra Greco e Latino è stato, infatti, il Greco a dare un maggior numero di prestiti
di quello che non ne abbia ricevuto. Numerosi sono gli elementi slavi in Albanese e Rumeno, ma
scarsi sono gli elementi albanesi e rumeni nelle lingue slave.
Spesso il “prestito” si riferisce a un oggetto o a un concetto inesistente nella lingua che lo riceve. Ad
esempio, i Romani hanno aggiunto al loro vocabolario la parola gallica braca, che corrispondeva ad
un capo di vestiario sconosciuto a Roma; stessa cosa successe per il carrus gallico a quattro ruote ben
diverso dal currus romano, carro da guerra con due sole ruote. In questo caso ci troviamo di fronte a
prestiti che potremmo chiamare, come ha suggerito il romanista Ernst Tappolet, “prestiti di necessità”.
Quando, invece, la parola mutuata corrisponde perfettamente ad una voce già esistente, siamo in
presenza di un “prestito di lusso” o “di moda” (“Luxuslehnwörter”).
Per misurare l'influsso di una lingua su un'altra giovano di più i prestiti di moda, poiché è difficile
che entrino in una lingua parola non strettamente necessarie, solo per imitare una moda o un'usanza
straniera. Non sempre è facile trovare la ragione di un prestito: spesso la moda della parola può
concorrere a indebolire la parola indigena che può man mano sparire; ma, altre volte, la parola
primitiva può aver già perso il suo carattere espressivo oppure può essere venuta a collimare per
omofonia con altre parole. Questo potrebbe essere il caso dell'adozione della parola germanica per
designare la “guerra” e la perdita assoluta della voce bellum, omofona all'aggettivo bellus, che
sostituiva la parola pulcher.
I prestiti servono per ricostruire la storia culturale di una nazione e i rapporti di quest'ultima con gli
altri popoli, ma non bisogna ritenere che tutte le volte siamo in presenza di un prestito, questo si debba
a ignoranza dell'oggetto o del concetto.
Da ricordare, poi, che una volta mutuata, una parola può sviluppare significati secondari o
sopravvivere più a lungo che nella lingua d'origine.

L'influsso greco – Il Greco rappresenta una lingua di sostrato solamente per quei territori che, un
tempo grecofoni, furono poi romanizzati. Ma nei luoghi in cui la romanizzazione linguistica non si
impose e entrambe le lingue erano utilizzate, il Greco fu per il Latino una lingua di adstrato. È, infatti,
risaputo che il Latino, per i rapporti commerciali, per la simbiosi greco-romana, per l'influsso
culturale, assimilò un elevato numero di elementi greci. Inoltre, è noto anche che questi elementi non
fossero un privilegio solo delle classi colte, bensì penetrarono fino alla lingua del popolo, come
attestano numerosi scritti di carattere popolare. Il Cristianesimo fu uno dei più forti coefficienti che
introdussero nella lingua latina parlata dei primi secoli dell'era volgare un nuovo filone di elementi
greci.
Una posizione a sé stante, per quanto riguarda gli elementi greci, ha il Rumeno. Gli elementi greci
forzatamente ritrovati in rumeno sono quasi tutti malsicuri; essi sono passati soprattutto attraverso il
Latino o lo Slavo, oppure, nel caso di prestiti diretti, risalgono al periodo bizantino. Nella storia della
lingua rumena si fa, di solito, una divisione cronologica: elementi greci anteriori alla dominazione
fanariota ed elementi del periodo della dominazione fanariota. Durante la dominazione (1711-1821)
i prìncipi greci alle dipendenze di Costantinopoli e i Greci immigrati nei Principati Danubiani
apportano un grande numero di elementi neoellenici, la maggior parte dei quali durò solo brevemente.
A parte elementi di origine dotta e semidotta che penetrarono nella lingua letteraria latina e che,
raramente, ebbero la fortuna di introdursi anche nelle lingue Romanze, il Greco fu sempre una lingua
che rappresentava un superstrato culturale immanente che divenne, dopo un breve periodo di declino,
la fonte di innumerevoli parole dotte in tutti i campi tecnici. La terminologia scientifica moderna,
soprattutto, è piena di neoformazioni dal Greco.

Gli elementi germanici. Criteri generali per stabilire la loro stratificazione nel dominio romanzo
– Altro grande superstrato è quello formato dalle lingue germaniche. Le classi più elevate dei Germani
conoscevano il Latino, mentre raramente i Romani si preoccupavano di imparare le lingue dei popoli
sottomessi. Il centro principale di contatti fra Romani e popolazioni germaniche era la valle del Reno,
dove sopravvivevano anche resti delle popolazioni celtiche: la lingua utilizzata da questi tre popoli
era il Latino e tracce della dominazione romana appaiono nella toponomastica, nella monetazione,
nell'ordinamento giuridico e nella rete stradale.
La penetrazione di parole germaniche in Latino è stata, al contrario, più debole, tanto che nella
Germania di Tacito si riscontra solo una parola germanica adattata al Latino (framea, “lancia”).
Parole germaniche presso autori della latinità sono piuttosto rare: alces, “alce” e urus, “bue selvatico”
(Cesare); ganta. “oca” e sapo, “sapone” (Plinio), ecc. e quasi tutte queste parole non hanno alcuna
continuazione nel Romanzo.
Il numero crescente di Germani che facevano parte dell'esercito romano o che abitavano in parti
dell'Impero come liberi o servi, dovette accrescere l'introduzione di elementi germanici nel Latino
volgare, prima ancora delle invasione barbariche: si può ritenere che, già prima della fine del V
secolo, alcuni elementi germanici si introducessero nella lingua latina e ciò si può dedurre dall'esame
degli elementi germanici comuni a tutte le lingue romanze occidentali. Anche in questo caso, un
trattamento a parte va riservato al Rumeno, mancando assolutamente di sicuri elementi germanici. La
mancanza di voci germaniche in Rumeno, Dalmatico e Sardo testimonia che le voci penetrate nel
Latino, quando era ancora relativamente unitario, furono poche e abbastanza tardive e non riuscirono
a diffondersi in tutta la Romània.
Già all'epoca di Cesare e Tacito, le popolazioni germaniche erano divisi in numerosi stirpi che
parlavano dialetti diversi. Le parole mutuate dalle lingue balto-finniche e dal Lappone ci portano
verso una fase molto arcaica del Germanico. Quando si trova una parola diffusa in tutte le lingue
romanze occidentali e l'aspetto fonetico o morfologico non si permette di determinare con sicurezza
la lingua di provenienza, si possono fare due ipotesi: o che la parola sia stata mutuata in epoca volgare
e poi tramandata nelle singole lingue romanze, o che siamo in presenza di prestiti indipendenti. Molto
spesso, però, è successo che una parola germanica sia entrata in una o due lingue romanze e che da
questa si sia poi irradiata nelle altre.
Se prendiamo, ad esempio, la serie romanza rappresentata dalle corrispondenze: it. uosa, ant. fr.
huese, ant. sp. huesa, pg./prov./cat. oza, tutte voci che traducono “scarpa alta di cuoio, stivale”, si
nota che il punto di partenza deve essere stato germ. *hŏsa, corrispondente al ted. Hose “pantaloni”.
L'anglista Alois Pogatscher ha stabilito alcuni principi per determinare il carattere degli elementi
germanici nelle lingue romanze. Essi sono:
1) Quando una parola germanica è presente in tutte le lingue romanze
occidentali, ma la provenienza dal Gotico è contraddetta dallo Spagnolo e dal Portoghese, si può
presumere che tale parola fosse già entrata in epoca latina volgare. Josef Brüch osserva però che per
gli elementi attestati nello Spagnolo e nel Portoghese si può anche pensare a un'origine sveva, in
quanto gli Svevi si erano stabiliti in Galizia verso il V secolo e, nella seconda metà del secolo, furono
assoggettati dai Visigoti.
2) Se una parola di origine germanica si trova in tutte le lingue romanze
occidentali e ragioni fonetiche o culturali impediscono di trarla da una comune fonte latina volgare o
preromanza, si può supporre che si tratti di prestiti indipendenti; ad esempio l'it. sperone, fr. éperon,
prov./cat. esperó, sp. espuera, pg. espora sono forme corradicali che risalgono a una voce germanica
corrispondente a quella rappresentata dal ted. Sporn. Non si possono, tuttavia, ricondurre a una sola
base. Le forme ibero-romanze risalgono a un got. *spaúra, mentre quelle gallo-romanze e italiane
risalgono a un francone *sporo.
3) La fonetica dimostra la provenienza delle voci romanze di origine
germanica, attribuendole all'una o all'altra lingua dei popoli germanici che hanno formato un
superstrato politico e sociale. Per quanto riguarda la Penisola Iberica bisogna tener conto del Visigoto
e del Vandalo, lingue che appartengono al ramo germanico orientale che ha caratteristiche fonetiche
e morfologiche abbastanza chiare. Importante, poi, lo Svevo, che appartiene al Germanico
occidentale. In Italia, bisogna considerare soprattutto il Gotico (Ostrogoto) e il Longobardo e, poi, il
Francone, sapendo che la maggior parte degli elementi franconi giunse in Italia per mezzo del
Galloromanzo. In Francia si deve tener conto del Francone e, solo in determinate regione, del
Burgundo.
Accanto a queste lingue ve ne sono state altre che possono essere considerate o come lingue di
superstrati minori o come lingue di adstrati. Ad esempio, l'antico Nordico: i Normanni si spinsero
sulle coste settentrionali della Francia intorno al IX secolo e si stabilirono nella regione da loro
conquistata. Presto, però, perdettero l'uso della loro lingua e adottarono il Francese. Nel Francese, e
soprattutto nei dialetti della Normandia, non sono rari gli elementi nordici; non sempre, però, l'origine
nordica di una parola risale direttamente ai Normanni: alcune voci nordiche, infatti, possono essere
penetrate anche attraverso l'antico e medio Inglese, siccome i Normanni occuparono anche
l'Inghilterra.
I rapporti storici continuarono anche in seguito alla formazione delle singole lingue romanze, perciò
è naturale che il flusso dei prestiti non sia mai cessato; in Italia numerose voci risalgono all'antico e
medio alto Tedesco e, nella parte settentrionale, anche al Tedesco moderno. In Francia, oltre a
elementi risalenti all'alto Tedesco, abbiamo un importante filone basso tedesco e specialmente
neederlandese.

Gli elementi germanici in Italiano (elementi gotici, longobardi, franconi, baiuvari, ecc.) – Il
primo superstrato germanico in Italia è rappresentato dagli Ostrogoti. Nel 493 l'imperatore d'Oriee
Zenone mandò in Italia Teodorico e lo riconobbe suo vicario nell'Impero romano d'Occidente;
Teodorico, venuto per liberare l'Italia da Odoacre e per ripristinare l'Impero d'Occidente, fu
proclamato re dai Goti e governò in Italia affidando tutti gli uffici militari a funzionari gotici e, per
quanto riconoscesse la superiorità romana, cercò sempre di evitare la fusione dei Goti coi Romani. Il
Regno gotico in Italia durò poco più di mezzo secolo e, anche dopo la sconfitta, la maggior parte dei
vinti rimase in Italia e si fuse con la popolazione. Nella toponomastica si trovano tracce gotiche, come
Goito (Mantova), Castello di Gòdego (Treviso), Godo (Milano). Troviamo anche alcuni toponimi
italiani in -engo, da nomi personali gotici, come Buttanengo (Novara), Bussolengo (Verona), ecc.
poche sono, invece, le parole italiane – letterarie e dialettali – che si possono far risalire al Gotico con
una certa sicurezza. Questi elementi permettono, tuttavia, di trarre alcune deduzioni di ordine
culturale sul genere dei rapporti fra i Romani e i Germani nel periodo di dominio ostrogoto e in quello
successivo, in cui i resti dei Goti furono assimilati dal Romani. Secondo Gamillsheg, fra le settanta
parole gotiche conservate nel vocabolario italiano nessuna riflette la vita delle classi superiori. Le
poche parole gotiche adottate dai Romani riflettono tutta la miseria della popolazione straniera
rimasta in Italia senza l'appoggio della classe dirigente. I personaggi del periodo eroico gotico
sparirono dalla tradizione letteraria italiana, e si rifugiarono a nord, dove finalmente entrarono
nell'epopea del Medioevo tedesco. La maggioranza delle parole gotiche sopravvissute in Italiano vive
nei dialetti: dalla disposizione geografica e dai relitti toponomastici, appare che questi sono più
numerosi in Veneto e nelle province di Cremona e Brescia. Assenti elementi gotici in Emilia e nel
Piemonte.
Tredici anni dopo, i Longobardi conquistarono dapprima il Veneto e poi tutta l'Italia settentrionale e
centrale. Il Longobardo è conosciuto solo attraverso poche parole di documenti giuridici redatti in
Latino, attraverso alcuni nomi propri e massimamente attraverso gli elementi longobardi penetrati in
italiano. Sembra che questa lingua germanica del gruppo occidentale sia congiunta col sottogruppo
anglo-frisone che dette origine da una parte al Frisone e dall'altra all'Anglico. La patria primitiva dei
Longobardi fu, probabilmente, nelle regioni dell'Elba inferiore, anche se la tradizione storiografica
indigena li colloca in Scandinavia. Durante le migrazioni verso il sud-est, la loro lingua si modificò
notevolmente: nel Norico e nella Pannonia vissero in simbiosi con popolazioni che parlavano idiomi
germanici di tipo alto-tedesco e parteciparono anche al mutamento fonetico che distingue l'Alto-
tedesco dal Basso-tedesco. La maggior parte dei Longobardi si stabilì nell'Italia settentrionale – che
prese il nome di Longobardia – mentre gli altri si spinsero verso il sud, dove fondarono i ducati di
Spoleto e di Benevento.
Il dominio longobardo durò circa due secoli, ovvero fino a quando l'ultimo re, Desiderio, fu vinto da
Carlo Magno e il suo regno fu annesso alla monarchia franca. In pratica, i Longobardi hanno dominato
su tutta l'Italia, ad eccezione delle zone in cui continuava il dominio bizantino.
I Longobardi giunsero in Italia quasi completamente ignari della lingua del paese e imposero alle loro
residenze italiane denominazioni germaniche: i Longobardi non avevano nessun vincolo con
l'Impero, perciò imposero la loro organizzazione. Lo Stato longobardo era concepito come l'unione
di tutti gli uomini liberi atti alle armi; era uno Stato militare, ma l'organizzazione militare si basava
su una serie di aggruppamenti familiari o fare, riuniti in modo da formare unità sempre maggiori; i
capi delle fare avevano potere sia militare, che giudiziario, che civile. Ogni Duca riuniva sotto la sua
bandiera un certo numero di fare e questa parola germanica ricorre spesso nella toponomastica. I
toponimi italiani formati con fara delimitano chiaramente la zona abitata dai Longobardi: Farra
d'Alpago (Belluno), Fara Gera d'Adda (Bergamo), Fara in Sabina (Rieti), Valle Fara (Teramo).
Questa più larga estensione verso il Sud ci permette di giustificare la presenza di fara non più come
toponimo, ma come appellativo nel senso originario di “stirpe”, che è proprio quello che risulta dai
documenti giuridici longobardi. Oltre agli appellativi risalenti a fara, troviamo: long. auja “pianura
verde” > Olgia (Novara e Como), Olgiate (Como, Milano); long. berg “monte” > Valperga (Torino),
Valdiperga (Pisa); long. braida “pianura” > Braida (Treno, Udine), Breda di Piave (Treviso), Braida
(Modena), Brera (Milano); ecc. Alcune denominazioni riflettono anche l'amministrazione, come
long. gastald “amministratore dei beni pubblici” > Gastaldi (Torino), (strada della) Castaldia
(Padova); ecc.
Ormai, però, le parole longobarde che si riferiscono all'organizzazione e all'amministrazione dello
Stato sono solo note come termini storici: infatti, cessato il regno longobardo, questi termini caddero
in disuso e furono sostituiti da altri di origine francone o galloromanza. Numerosi sono i toponimi
italiani derivati da personali longobardi e abbondanti sono i nomi personali, diventati poi in gran parte
cognomi: Baldo > Baldi, Baldini e Baldi (Trento); Berto > Alberto, Adalberto e Berti, Bertoni, ecc.
Gli elementi longobardi penetrati nel lessico sono molto più numerosi di quelli ostrogoti; si tratta di
circa 300 parole che si sono estese anche ad altre regioni e, in parte, sono penetrate nella lingua
letteraria. Un esempio di parola limitata è il long. *wizza “punizione”, documentato nella
toponomastica del Veneto (La Guizza) e dell'Alto Adige (Valle di Vizze), anche se ora è limitato solo
a qualche dialetto. Come esempio di parola diffusa troviamo il long. stainberga “casa di pietra”, che
vive nell'it. stamberga ed è diffuso in tutta l'Emilia e la Toscana.
Fra i prestiti longobardi non sono molti quelli che si riferiscono alle armi, probabilmente perché
alcuni, passati di moda, furono sostituiti da voci franconi: ad esempio, il long. strâl “freccia” rimane
nell'it. strale, parola di uso letterario che non vive nei dialetti. Per quanto riguarda il lessico della casa
possiamo ricordare il long. balk, palk, da cui it. balcone, palco. Alcuni nomi si riferiscono
all'agricoltura, altri all'allevamento del bestiame, alla caccia, ecc.
Più importante fu la colonizzazione dei Baiuvari che, partiti dalla Boemia, passarono il Brennero e
scesero lungo la Val d'Adige. Nei secoli IX e X le colonizzazioni baiuvare si fecero frequenti e si
accompagnarono a donazioni di latifondi e a compere di terreni da parte di Tedeschi. Questa
colonizzazione portò alla germanizzazione dell'Alto Adige fino alla stretta di Salorno e al
soffocamento del Ladino centrale che resistette solo nelle valli impervie e isolate. Da questo flusso
di Tedeschi si formarono, poi, le oasi tedesche del Trentino e quelle dei Sette Comuni del Vicentino
e dei Tredici Comuni del Veronese, oasi che mostrano chiaramente origini bavaresi.
Quando nel 774 l'ultimo re dei Longobardi, Desiderio, fu vinto da Carlo Magno e, quindi, il regno
longobardo fu annesso a quello franco, l'autonomia politica ed amministrativa dei Longobardi cessò
e l'Italia vide un nuovo padrone germanico che la staccava sempre di più dall'Oriente, dove continuava
la tradizione dell'Impero Romano. Tuttavia, con Carlo Magno sorgeva di nuovo l'Impero Romani
d'Occidente e per la prima volta dopo quattro secoli l'Italia si trovava in contatto diretto con l'Europa
nord-occidentale.
L'Italia settentrionale aveva conosciuto nuclei dei Franchi anche prima dell'arrivo di Carlo Magno.
Ancora durante il III secolo tribù franche avevano passato il Reno e si erano spinte fino in Spagna.
Le lotte con queste tribù, soprattutto lungo il corso del basso Reno e in Batavia (Olanda) durarono
tutto il IV secolo e si possono già distinguere due gruppi di Franchi: quelli che abitavano lungo le
rive del Reno e che per questo furono detti Franchi Ripuari, e quelli che abitavano verso il mare, detti
Franchi Salii.
Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, tre sono le popolazioni germaniche che si
spartiscono il territorio dell'antica Gallia: i Visigoti che occupano la parte sud-occidentale, i Burgundi
quella sud-orientale e i Franchi quella settentrionale.
I re franchi tentarono di trarre profitto dalla rovina del regno ostrogoto in Italia, tanto che più volte
scesero o mandarono i loro eserciti e nel VI secolo ebbero il possesso della valle padana. Quando il
regno longobardo fu annesso a quello dei Franchi, il regno franco si estese notevolmente: oltre alla
Gallia romana, esso dominava quasi interamente la regione germanica, l'italica e parzialmente
l'iberica. Carlo Magno conservava la sua sede germanica ad Aquisgrana e manteneva usi e costumi
germanici. Il diritto franco e il sistema feudale erano di origine germanica, ma la simbiosi con i
Romani era già iniziata e aveva raggiunto, durante il periodo carolingio, il suo apice. La lingua
romanza e germanica vivevano l'una accanto all'altra, ma col tempo la lingua romanza ebbe il
sopravvento sul Francone.
La simbiosi fu così forte che, da una parte la popolazione germanica parlava sempre più la lingua
romana, e dall'altra quella galloromanza accettava il nome germanico: così non si parlò più di Gallia
ma di Francia, non più di Galli ma di *Francēses e la lingua comunemente parlata, nota ancora come
romanice, divenne lingua francisca.
Quando l'Italia fu parzialmente annessa al regno franco, la simbiosi era nel pieno dello sviluppo.
Molti studiosi concordano nel dire che gli elementi franconi giunti in Italia siano sempre passati
attraverso la filiera galloromanza e per la maggior parte dei casi è avvenuto proprio così. La fonetica
ci permette di dimostrarlo: il termine marinaresco it. ghindare non proverrà direttamente dal germ.
windan, ma attraverso il fr. guinder o lo sp. guindar.
Il Francone o Franco era un dialetto germanico occidentale; le testimonianze dirette che abbiamo di
questa lingua nel secoli III-VIII sono piuttosto scarse: bisogna basarsi su nomi propri e su parole
franconi in documenti latini. Ma il Francone, anche se in territorio galloromanzo fu assorbito, nella
parte germanica del regno dei Franchi si continuò a parlare, dando vita a numerosi dialetti tedeschi.
Siccome la maggior parte dei contatti tra Romani e Franchi avvenne nella “Francia occidentale” – a
occidente del Reno – il Francone che sta alla base delle parole passate, poi, in Romanzo è il “Basso
Francone”, un dialetto germanico occidentale.
Non è però sempre facile determinare la via seguita dalle parole germaniche per passare in Italiano:
ad esempio, mentre il fr. bouter risale sicuramente a un francone botan (“spingere”), l'it. buttare risale
piuttosto a un got. *bautan “gettare”.
Gli elementi germanici in Francese, Spagnolo e Portoghese – Problema molto importante è quello
che il Brüch chiama il “secondo strato”, rappresentato in Italia dalle voci ostrogote. A questo secondo
strato corrispondono le parole franconi nella Galla settentrionale, le parole visigotiche nella Gallia
meridionale e nella Penisola Iberica, anche se, per quest'ultima, entra in gioco anche qualche elemento
attribuibile agli Svevi.
L'elemento più importante è quello francone nella Gallia settentrionale. Nella Gallia, oltre a un forte
contributo all'onomastica e a un nucleo di elementi lessicali molto elevato, abbiamo anche un influsso
sulla fonetica, sulla formazione delle parole e sulla sintassi. Per quanto riguarda la fonetica, il
Francese ha assunto dal Germanico l'aspirata h; per la formazione delle parole si ricorda il suffisso -
ard/-art che proviene dal germ. -hart e si ritrova prima nei nomi di persona, poi nei nomi comuni e
si diffonde verso Spagna e Italia in unione con molte parole: ant. fr. bastard > it./sp. bastardo.
Nella Francia meridionale si hanno anche parecchie tracce del Visigoto, mentre nella Francia sud-
orientale si hanno notevoli tracce del Burgundo.
Per quanto riguarda la Penisola Iberica, la stratificazione degli elementi germanici è relativamente
semplice. Il Portoghese e lo Spagnolo sono le lingue romanze occidentali che hanno il minor numero
di elementi germanici. Gli unici popoli che scesero nella Penisola Iberica furono i Visigoti, i Vandali
e, in Galizia, gli Svevi. Numerosi i nomi propri di origine germanica, mentre scarsi sono gli
appellativi.
Ben poco è quello che si può attribuire ai Vandali che, attraverso la Spagna, arrivarono in Africa:
forse ricorda il loro nome la regione che oggi si chiama Andalucia.
Il terzo strato di elementi germanici in Francia è parallelo a quello degli elementi longobardi in Italia;
mentre continua l'influsso del Basso Francone, si trovano in Francia anche elementi germanici che
parteciparono alle seconda mutazione consonantica. Queste voci possono provenire dal Francese o
dal Francone meridionale o da vicini dialetti alemannici.
Al terzo strato ne segue un quarto che, per la Francia, comprende parecchie parole nordiche dovute
ai Normanni: infatti questa popolazione scandinava – i cosiddetti Vichinghi – si insediarono al
principio del X secolo in quella regione che oggi è conosciuta come Normandia.
Le tracce lasciate nella toponomastica si limitano alla zona settentrionale della Francia e poco
numerosi sono anche i nomi personali. Per quanto riguarda gli appellativi, solo alcuni hanno ottenuto
diritto di cittadinanza nella lingua letteraria francese (vague “onda” < isl. vágr), mentre alcuni sono
spariti durante il medioevo (brant “prua” < isl. brandr). Come si può notare, si tratta di termini
prevalentemente marinareschi.
Al quarto strato segue il quinto, che comprende parole mutuate dal medio Neederlandese, dal medio
Inglese e dal medio Tedesco. Le parole medio-inglesi sono rare e si riferiscono generalmente al
traffico marittimo; anche le parole basso-tedesche sono poche e si rifanno al traffico commerciale;
numerose, invece, le parole medio-alto-tedesche nei dialetti orientali della Francia, nelle zone
mistilingui o di confine. Le parole neederlandesi sono abbastanza numerose.
Viene poi il sesto ed ultimo strato, che comprende gli elementi entrati in Francese dal XVI secolo in
poi. Oltre a elementi tedeschi, numerosi solo nelle zone mistilingui (Alsazia e Lorenza) e nella
Svizzera romanda, e neederlandesi, troviamo anche elementi inglesi. Durante il XVIII secolo si
traducono opere inglesi e parole inglesi cominciano a introdursi nel lessico francese: troviamo parole
che riflettono l'influsso politico, come session, voter, budget, ecc. Nel XIX si diffondono termini
sportivi, come golf, tennis, ecc.

Gli elementi germanici in Rumeno – I pretesi elementi germanici del Rumeno (in tutto 26 voci)
posso essere respinti, se esaminati a fondo. In alcuni casi si tratta di antiche parole derivanti dal
sostrato, in altri di parole recenti di origine molto varia. Non è da escludere, comunque, che alcune
voci risalgano al Germanico: esse provengono, però, attraverso il Latino volgare, come ad esempio
tāpa “ciocco”, che però è voce dialettale mancante a tutti i dizionari e di cui non si può documentare
l'antichità.
Numerose sono, poi, soprattutto in Transilvania e nel Benato, le voci rumene di più recente origine
tedesca; in Transilvania esse sono dovute ai contatti della popolazione rumena coi Sassoni. Importante
ricordare, però, che alcune voci di origine tedesca giungono al Rumeno per via mediata, e cioè
attraverso l'Ungherese. Alcune parole provengono al Rumeno anche dal dialetto giudeo-tedesco
parlato dai numerosi ebrei eschenaziti stabiliti nei paesi rumeni.

Gli elementi germanici nel Ladino e nel Sardo – Per quanto la parte occidentale del territorio ladino
appartenesse politicamente al regno dei Franchi, le voci di origine francone sono comuni all'alto
Italiano e mostrano piuttosto origine galloromanza. Influssi indipendenti dall'Italiano cominciarono
a verificarsi solo quando iniziò la simbiosi dell'elemento ladino con popolazioni tedesche. I contatti
linguistici ladino-tedeschi procedono ormai indipendenti nelle tre sezioni in cui viene diviso il
Ladino. Anche se alcuni elementi lessicali penetrarono in più di una sezione, l'eposa e la forma del
prestito sono, generalmente, diverse. La sezione centrale e occidentale furono quelle più toccate
dall'influsso tedesco, che gravitavano e tutt'ora gravitano intorno a centri tedeschi.
Nella sezione occidentale (Grigioni, Engadina), oltre agli elementi germanici, vi si trova un numero
considerevole di voci germaniche che provengono attraverso l'Italia settentrionale, ad esempio engad.
albierg, soprasilv. albiert “riparo, alloggio” risale al got. haribergo, attraverso l'it. albergo; mentre
altre voci provengono attraverso il Galloromanzo.
Nella sezione centrale, i germanismi più antichi mostrano punti in comune a quelli dell'Alta Italia e
di provenire, indirettamente, alla Ladinia. Gli elementi germanici peculiari della Ladina dolomitica
risalgono al Baiuvaro (antico bavarese) o alla fase più tarda dell'antico alto Tedesco. Numerosi anche
i germanismi recenti di origine tirolese.
Per quanto riguarda il Sardo, l'unico popolo che abbia occupato la Sardegna fu quello dei Vandali. I
pochi elementi germanici del Sardo provengono per via mediata: i più antichi risalgono al Latino
volgare, gli altri all'Italiano. Ad esempio frisku proverrà probabilmente dal Latino volgare che non
dall'Italiano fresco. Qualche elemento ritenuto germanico può anche provenire attraverso il Catalano
o lo Spagnolo, come per esempio il campidanese gaya “gherone della camicia” che non può essere il
long. gaida, ma rimanda al catal. gaya.

Gli elementi arabi – Nel 711 gli Arabi attraversarono l'Egitto e le coste settentrionali dell'Africa e
giunsero nella Penisola Iberica, occupandola interamente. Passarono, poi, nella Francia meridionale
da cui vennero respinti definitivamente da Pipino il Breve nel 759. Nella Penisola Iberica gli Arabi
dominarono a lungo: nella parte meridionale della penisola durò poco meno di otto secoli, ovvero
fino alla caduta di Granada nel 1492. gli Arabi giunsero anche in Sicilia, nelle isole Baleari e a Malta.
Gli Arabi portarono una civiltà completamente nuova, tanto che l'influsso del superstrato arabo è
considerevolissimo, specialmente nella Penisola Iberica e in Sicilia.
Nella Penisola Iberica, nonostante la resistenza linguistica romanza, gli Arabi riuscirono ad assimilare
un notevole numero di Romanzi: coloro che assunsero usi e costumi arabi – mantenendo, però, la
religione cristiana – venivano chiamati Mozárabes; essi erano particolarmente numerosi al Sud della
penisola ed è importante ricordare che molti di loro si servivano del Romanzo come lingua familiare,
mentre l'Arabo era considerata lingua di cultura. I Mozárabes furono generalmente bilingui e si deve
in gran parte a loro se numerosi elementi arabi penetrarono nel lessico delle lingue ibero-romanze.
Quando la “Reconquista” cristiana avanzava verso il Sud, venivano inglobati nella vecchia lingua
cristiana sempre nuovi elementi mozarabici. Nei secoli posteriori all'XI secolo, sempre durante la
“Reconquista”, gli elementi mozarabici erano numerosissimi; la penetrazione dello Spagnolo del
Nord e del centro e, soprattutto, del dialetto di Castiglia – che cominciò a dominare sugli altri dialetti
– si fece sempre più viva.
Per quanto riguarda la Sicilia, i due secoli e mezzo di dominio arabo contribuirono al cambiamento
della toponomastica dell'isola e a introdurre un considerevole numero di arabismi: in nessuno dei
territori occupati, però, gli Arabi riuscirono a far sopravvivere la loro lingua; l'influsso arabo si limita,
infatti, a mutazioni lessicali, a toponimi e a qualche nome proprio personale.
L'influsso arabo ha, quindi, carattere quasi esclusivamente lessicale, infatti tutta una serie di termini
della cultura araba medievale (astronomia, matematica, medicina, ecc.) fa parte del patrimonio
culturale europeo. Parecchi termini arabi che si sono diffusi in tutte le lingue europee si riferiscono
all'astronomia; quasi immutati appaiono, infatti, alcuni termini tecnici come azimut “direzione”, nadir
“opposto”, almanacco “calendario”.
Notevoli anche i nomi relativi alla chimica, o meglio alla chimica medievale o alchimia, come ad
esempio proprio lo stesso termine alchimia che aveva il senso di “pietra filosofale”.
Provengono dall'Arabo alcuni nomi di giochi, come ad esempio il gioco degli scacchi, che gli Arabi
appresero dai Persiani e questi dagli Indiani; inoltre, deriva dall'Arabo anche il gioco dei dadi.
Parecchie parole di origine araba si riferiscono alla marina e al commercio marittimo: tra quelle che
vivono anche nell'Italiano troviamo ammiraglio che si diffonde dalla Sicilia, arsenale e darsena con
molte varianti in diverse città italiane.
Accanto a queste voci culturali, l'Arabo ha lasciato tracce indelebili nelle lingue ibero-romanze e un
po' meno numerose nel Siciliano. Troviamo voci arabe nella toponomastica, come sp. Albacete, sp.
Alcalá, sp. Gibraltar. Notevoli i nomi di fiumi composti con guad-, come ad esempio in Guadiana,
Guadalquivir, ecc. Ma nella Penisola Iberica troviamo residui arabi anche nel lessico amministrativo:
ad esempio, sp./pg. alcalde “giudice, sindaco”, alguacil “ufficiale giudiziario”. È notevole anche che
nella toponomastica della Penisola Iberica si conservino voci latine passate attraverso l'Arabo, come
ad esempio C(ae)sara(u)gusta > ar. Saraqustạ > sp. Zaragoza.
Le lingue ibero-romanze mutuano le parole con l'articolo determinativo arabo concresciuto, che suona
al e in cui l viene assimilato davanti ad alcune consonanti. Le altre lingue romanze, invece, hanno
mutuato direttamente alcune parole dall'Arabo e solo raramente le hanno prese con l'articolo: ad
esempio, it. zucchero fr. sucre,sp. azúcar, pg. açúcar.

I vari superstrati del Rumeno – Il lessico rumeno è firmato in primo luogo da elementi latini, che
però sono numericamente inferiori alle voci estranee inglobate nel corso dei secoli. Secondo il
dizionario etimologico realizzato da De Chiac – Dictionnaire d'étymologie daco-romane – su 5765
parole, solo 1165 sono di origine latina contro 4600 voci di origine straniera. Tuttavia, nella realtà
dell'uso linguistico la percentuale delle parole romanze è molto più elevata, anche perché non è
possibile formare una frase con soli elementi non latini. Fra gli elementi latini occorre osservare la
mancanza di voci che, invece, sono comuni a tutte le lingue romanze occidentali, come contentus,
semper, amare, amicus, ecc. D'altra parte, ci sono parole che si conservano solo nel rumeno, come
libertare > ierta “perdonare”, e molte altre hanno subito variazioni semantiche, come anima > inimă
“cuore”.
L'influsso slavo è il più considerevole: esso si manifesta in tutti i rami della cultura e della civiltà;
secondo lo storico Bogdan, non si può realmente parlare di popolo rumeno prima dell'assorbimento
degli elementi slavi da parte della popolazione originaria romana. Gli elementi slavi entrarono, per la
maggior parte, già nell'epoca proto-rumena, quindi nei secoli VII-IX, se non prima. L'influsso slavo
sul Rumeno è molto importante anche perché il Rumeno ha ricevuto elementi formativi vitali e
produttivi; ad esempio, fra i prefissi ricordiamo ne-, răz- e fra i suffissi -ac, -că, -nic, -an. L'influsso
slavo si fa sentire anche sul sistema fonematico, meno sulla morfologia e fino a un certo livello sulla
sintassi. Le voci di origine slava sono numerose: molti aggettivi come drag “caro”, bogat “ricco”,
slab “debole”, ecc., molti sostantivi e verbi come trup “corpo”, boală “malattia”, iubi “amare”, ecc.
All'introduzione di elementi slavi in Rumeno hanno contribuito lunghi periodi di bilinguismo slavo-
rumeno: il Rumeno ha assimilato sia elementi slavi antichi che più recenti dalle lingue con cui ha
avuto contatti, come il Russo, il Polacco, il Serbo, ecc.
L'influsso numericamente più importante è quello turco, infatti possediamo un nucleo rilevante di
voci entrate all'epoca della dominazione ottomana; alcune sono diventate popolari e vengono usate
nella lingua comune, altre sono cadute in disuso e vengono usate solo con un preciso valore storico.
Tra i suffissi, solo due sono di origine turca, -lic e -giu. Gli elementi turchi sono frequenti in Valacchia
e Moldavia, ma scarsi in Transilvania.
Molto importanti, poi, gli elementi ungheresi: sono entrati più recentemente rispetto agli elementi
slavi e si trovano solo nel Dacorumeno. Troviamo, poi, un numero molto maggiore di elementi
ungheresi nelle regioni in cui, come in Transilvania e nel Banato, la simbiosi rimeno-ungherese
continua anche ai giorni nostri.
Considerevoli anche gli elementi che possono derivare dall'Albanese: naturalmente, più numerosi
sono gli elementi albanesi relativamente recenti nell'Arumeno.
Scarsissimi e quasi limitati al gergo sono gli elementi zingari del Rumeno, e ciò è dovuto alla bassa
posizione sociale che gli Zingari hanno e avevano in Romania.

Il superstrato culturale latino – Anche dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, dopo le
invasione barbariche e dopo l'istituzione di nuovi regni, il Latino non si spense: il Latino era divenuto
in Occidente la lingua ufficiale di quella religione cristiana che andava diffondendosi dappertutto e
che aveva il suo centro a Roma.
È risaputo che anche dopo che le singole lingue romanze, germaniche, ecc. si erano affermate come
lingue letterarie, il Latino rimase la lingua della scienza fino al XVIII secolo.
Quando, quindi, le lingue neolatine occidentali avevano bisogno di denominare un oggetto o di
esprimere un concetto per cui, però, non trovavano un corrispondente nel patrimonio linguistico
“volgare”, lo attingevano direttamente al Latino scritto, la lingua della cultura e della scuola.
Questo influsso del superstrato culturale latino è un influsso tipicamente letterario e colto, ma
attraverso le lingue letterarie – le lingue nazionali – molti elementi colti riuscivano a diventare comuni
e a diffondersi nella lingua del popolo e nei dialetti. Uno dei più importanti fattori che ha portato le
lingue romanze occidentali ad un'evoluzione convergente è stato proprio questo influsso culturale che
si è prolungato senza sosta fino all'età moderna.
L'Italia era il paese che si trovava più esposto a subire l'influsso del superstrato latino; inoltre, la
lingua italiana toscana – prevalentemente fiorentina – si era fissata come lingua letteraria, ed era sia
morfologicamente che sintatticamente molto simile al latino, perciò le parole dotte o semi-dotte vi si
potevano facilmente amalgamare.
Il principale criterio con cui possiamo riconoscere i latinismi è senza dubbio dato dalla fonetica:
quando una forma italiana non presenta le regolari evoluzioni fonetiche e conserva l'aspetto fonetico
della parola originaria latina, si è in presenza di un latinismo: per esempio, se ĭ tonico è rappresentato
da i e non da ẹ, vizio < lat. vĭtium che, con evoluzione spontanea, dà l'it. vẹzzo.
In molti casi l'Italiano possiede, accanto alla voce dotta mutuata posteriormente dal Latino, anche il
prodotto dell'evoluzione spontanea o popolare: si hanno così delle serie di doppioni del tipo di vizio
~ vezzo, capitolo ~ capecchio, ecc.
Talvolta il latinismo può essere solo semantico, cioè rivelato dal senso e non dalla forma: così il lat.
captivus “prigioniero” fu usato fin dal I secolo d. C. dai filosofi stoici con un senso morale; da captivus
diaboli si passa ai sensi di “disgraziato” e di “malvagio” (it. cattivo).
Altre volte il latinismo può rivelarsi anche dall'aspetto morfologico: le derivazioni dal nominativo
nella lingua popolare sono molto rare, perciò se siamo in presenza di termini che riproducono un
nominativo latino come carme, germe, imago, ecc. essi sono da considerarsi latinismi. Talvolta sarà
l'evoluzione irregolare del suffisso che indicherà il latinismo: i suffissi -abile e -ibile sono
generalmente indici di latinismo (potabile, tangibile), in quanto l'esito normale è -évole. Infine, a
volte è il criterio culturale che ci permette di riconoscere i latinismi, ovvero la loro appartenenza a
sfere non popolari, la poca o nessuna vitalità nei dialetti, ecc.
Spesso le parole dotte si riconoscono anche dalla posizione dell'accento: in esse si seguono le regole
dell'accentuazione latina che si basava sulla quantità della penultima; l'it. căttedra segue
l'accentuazione latina cathĕdra, ma come voce popolare, l'alto it. carèga “seggiola” segue
l'accentuazione cathédra.
Talvolta anche le parole dotte o semidotte possono subire trasformazioni semantiche: ad esempio,
lavabo vale “lavamano”, e questo significato ci giunge dalla Francia, ma la parola è latina ed è la
prima persona singolare del futuro indicativo del verbo “lavare”.
In Spagnolo e Portoghese il problema dei latinismi è analogo. Il maggior numero delle parole dotte
di origine latina s'introdusse durante il Rinascimento. Lo sp. heñir “impastare” è una continuazione
regolare del latino fingĕre, che aveva anche il senso di “formare, plasmare”, mentre fingir “fingere,
simulare” è un latinismo colto.
Sia in Italiano che in Spagnolo, accanto a latinismi eruditi e a voci dotte, vi sono latinismi semi-eruditi
e voci semi-dotte: si tratta di parole latine che si sono adattate parzialmente alla fonetica indigena;
per esempio il lat. titulus “cartello, epitaffio” che, come voce dotta, dà l'it. titolo, in Spagnolo,
attraverso tidulo > *tidlo > *tildo, giunge a tilde, mentre l'esito regolare sarebbe stato *tejo, come in
it. sarebbe stato *tecchio.
Meno difficile è lo studio degli elementi latini di origine colta in Francese, in quanto questa lingua è
più differenziata dal Latino rispetto alle altre lingue romanze occidentali, perciò il riconoscimento è
più semplice. Ad esempio, direct < directus, voce dotta, contro droit, voce popolare; fragile < fragĭlis
contro frêle, ecc. In Francese notiamo che spesso un antico vocabolo popolare venne sopraffatto da
una voce erudita, come nel caso di brief sostituito da bref.
Per quanto riguarda la Romania, qualsiasi sia stato il luogo di formazione della lingua rumena, a Nord
o a Sud del Danubio, i Rumeni si trovarono completamente isolati dal mondo e dalla cultura latina
durante tutto il Medioevo e il principio dell'Evo moderno. Solo in Transilvania il Latino riappare,
portato dall'amministrazione ungherese, nel XVIII secolo.
I latinismi del Rumeno sono, quindi, relativamente recenti, ma è proprio per l'assenza – in epoca
antica – di parole colte latine che il Rumeno è particolarmente prezioso per dimostrare il carattere
popolare di alcune voci che altre lingue romanze occidentali non riescono a dimostrare.
La maggior parte delle parole latine dotte comincia a introdursi verso la fine del Settecento, grazie a
scrittori transilvani cattolici che avevano studiato a Roma o a Vienna e che volevano “purificare” la
lingua rumena da elementi stranieri. Anche nei Principati Danubiani si fece questo tentativo, e non
solo si introducevano nuove parole, bensì si cercava di adeguare, nella nuova ortografia latina, le
parole rumene al loro etimo latino.
Alcune parole di origine latina colta giunsero al Rumeno per via indiretta: in Transilvania attraverso
l'Ungherese e in altre regioni attraverso le lingue slave o il Neogreco.

Scambi reciproci fra le lingue romanze – Per tutto il IX secolo e il X secolo, i rapporti fra le due
parti del dominio franco – francese e italiana – sono intensi e il numero di Franchi in Italia aumenta
costantemente. All'inizio del XI secolo avvengono le conquiste dei Normanni e la formazione di un
regno normanno nell'Italia meridionale e in Sicilia e nei secoli XI e XII avvengono, poi, le Crociate.
Queste premesse permettono di comprendere il grande apporto linguistico del Galloromanzo
all'Italiano. Il Francese – lingua d'oil – era molto diffuso in Italia, al pare del Provenzale – lingua d'oc
– e nel Duecento, molti italiani cominciarono a scrivere liriche in queste due lingue, infatti la prima
lirica italiana, che si sviluppò intorno alla Corte siciliana, ebbe per modello le poesie dei trovatori
provenzali, di cui imitò il metro e lo stile: il nome di giullare ha origine provenzale da joglar, come
sono di origine galloromanza anche trovatore (< prov. trobador) e menestrello (< ant. fr. menestrel).
Dalla Francia provengono anche i nomi di alcuni strumenti musicali, come viola, liuto, ecc., i termini
di falconeria, la terminologia amministrativa e feudale, molti nomi di armi, molti termini di cultura,
ecc. Per distinguere l'origine delle voci, il metodo più sicuro è dato dalle caratteristiche fonetiche,
dall'uso dei suffissi, ecc. Talvolta, più che la forma, è la documentazione che indica l'origine
transalpina.
La lingua italiana del periodo delle origini contiene numerosissimi elementi francesi e provenzali, ma
l'influsso francese, anche quando, cessata la sovranità politica, si limitò ad essere influsso di adstrato,
non si spense mai completamente: si fece risentire, poi, nel Settecento con l'Illuminismo e con la
Rivoluzione, e poi nell'Ottocento e nel Novecento, quando la cultura francese influenzò la moda e il
commercio italiani. Spesso i prestiti francesi suscitarono le proteste violente dei puristi della lingua:
molti vocaboli inerenti alla moda, alla cucina, all'esercito, ecc. riuscirono a penetrare in Italiano
(plotone, tappa, cotoletta, rango, ecc.), altri sono comunemente usati ma non appurati dai puristi
(dettaglio, rimpiazzare, ecc.) e altri sono usciti subito dall'uso (regretto, degaggiato, ecc.).
Per quanto riguarda l'influsso spagnolo, la dominazione aragonese in Sicilia e a Napoli nei secoli
XIII-XV e, soprattutto, il predominio spagnolo in Italia nel Cinquecento e nel Seicento, furono le
principali cause storiche dell'influsso spagnolo nella lingua italiana. Molti autori italiani e spagnoli,
il Galateo e parecchie commedie della prima metà del Cinquecento sono pieni di ispanismi e questa
moda durò a lungo: gli italiani scrivevano in Spagnolo e a Napoli e Milano lo Spagnolo era
comunemente parlato. Molte parole furono introdotte in Italia, come lindo (< lindo “bello”),
disinvoltura (< desenvoltura “sfacciataggine”), sussiego (< sosiego “tranquillità”), ecc.
Caratteristiche sono le voci in -iglia, come maniglia, pastiglia, ecc.
Importante poi l'introduzione di molte parole esotiche e dei nomi dei nuovi prodotti importati dalle
Americhe: lo Spagnolo prese il nome di “patata” (batata, patata) da una lingua indigena americana,
che poi si irradiò in it. patata, ingl. potato, ecc. Dall'Azteco kakauatl proviene lo sp. cacao che poi si
diffuse in tutte le lingue europee.
Minore fu l'influsso del Portoghese sull'Italiano: di origine portoghese sono, ad esempio, baiadera <
bailadeira, marmellata < marmelada, ecc. I Portoghesi introdussero parecchi vocaboli di origine
asiatica e africana.
Anche il Francese assorbì parecchi vocaboli, soprattutto dall'Italiano e dallo Spagnolo. Il periodo del
massimo influsso culturale e linguistico italiano in Francia fu il Cinquecento: attraverso la supremazia
della arti e della cultura italiana in questo secolo, l'Italiano diventa di moda in Francia. Oltre ai termini
relativi all'arte e alla scienza (come mosaïque, grotesque, ecc.), ne troviamo altri relativi alla guerra
(bastion, caporal, ecc.), alla marina (come accoster, barbasse, ecc.), al commercio (banque, risque,
ecc.) e alla moda (camisol, pantalon, ecc.), ecc.
Dalla Spagna il Francese attinge termini di guerra (bandoulière < bandolera, ecc.), termini
marinareschi, politici, commerciali, ecc.
Anche lo Spagnolo e il Portoghese hanno incorporato parecchie voci dal Francese e dal Provenzale.
Nei secoli XIII e XIV la letteratura francese era molto conosciuta in Spagna e la lirica provenzale
aveva influenzato la lirica gallego-portoghese. Spesso il Francese è stato il tramite di parole franconi
accanto all'it. giardino, lo sp. jardin, il pg. jardim che rivelano, attraverso la fonetica, un intermediario
galloromanzo.
Anche l'Italiano ha dato un buon contributo di voci al lessico spagnolo: il periodo di maggiore influsso
italiano va dal XV secolo a tutto il XVI. Se per l'Italia lo Spagnolo fu una lingua di “superstrato”,
l'Italiano per la Spagna fu una lingua di “adstrato”, specialmente durante il Rinascimento: molti
elementi italiano si riferiscono, infatti, alle arti, al teatro, ecc., come conce(p)to “dicho engenioso” <
concetto; estanza < stanza (in senso metrico); bufón < buffone, ecc. Numerosi anche i termini militari,
come alerta < all'erta; emboscada < imboscata, ecc. Numerose anche le voci marinaresche.
Nello Spagnolo è da ricordare anche l'elemento gallego-portoghese e, viceversa, importante è
l'elemento spagnolo del Portoghese. Tali contatti si devono sì alla vicinanza territoriale e agli scambi
commerciali, ma soprattutto ai reciproci influssi culturali.
Per quanto riguarda il Rumeno, a partire dal XIX secolo si può constatare un profondo rinnovamento
artificiale – poiché dovuto soprattutto a teorici e scrittori – della lingua. Accanto alle numerose parole
slave si cominciò ad arricchire il lessico rumeno anche con abbondanti parole francesi, che ebbero
più successo di quelle italiane. Le voci francesi si fanno sempre più frequenti attraverso le imitazioni
letterarie, i giornali e le opere degli scrittori che avevano studiato in Francia. La terminologia
scientifica e quella della critica letteraria viene prelevata dal Francese: troviamo, ad esempio, copia
< copier; erudiţie < érudition, ecc. L'influsso francese si manifestò anche sulla sintassi e ha
profondamente cambiato l'aspetto della lingua rumena moderna: attraverso questo filone di voci
francesi e, in minor misura, italiane, il Rumeno moderno è divenuto molto più simile alle altre lingue
romanze di quanto non fosse fino all'inizio del XVIII secolo.

Capitolo 5 – Le lingue e i dialetti neolatini


La classificazione delle lingue neolatine – Federico Diez distingueva solo sei lingue neolatine:
l'Italiano e il Valacco (= Rumeno) che formavano la sezione orientale, il Portoghese e lo Spagnolo
che formavano quella occidentale e il Provenzale e il Francese che formavano la sezione nord-
occidentale. Egli stabilì questa classificazione più su basi filologiche che glottologiche, infatti
considerò solo le lingue che che avevano o avevano avuto una tradizione letteraria e tenne in scarsa
considerazione i dialetti: i criteri prevalentemente filologici consigliavano di dare maggior peso a
quelle lingue che si erano manifestate attraverso la scrittura e che avevano dato vita a una letteratura.
Si è visto, però, che proprio nel dominio romanzo, si è venuta affermando come disciplina scientifica
la dialettologia. Graziadio Isaia Ascoli, nei “Saggi ladini” che aprivano la serie dell'”Archivio
Glottologico Italiano” (AGI) cercò di fissare la posizione di un gruppo di parlate neolatine che
dovevano formare un'unità effettiva della Romània linguistica, e cioè il Ladino. Ascoli riunì sotto
questo nome tre gruppi di dialetti separati tra loro e non formanti né un'unità geografica, né un'unità
storica, né politica e cioè le parlate romance del Cantone dei Grigioni, alcuni dialetti dell'Alto Adige
e il Friulano. L'opera di Ascoli rappresentò, soprattutto dal punto di vista metodologico, un notevole
progresso. Per fissare l'unità linguistica ladina, egli si basò sulla presenza in questi dialetti di un certo
numero di fenomeni fonetici e morfologici che li caratterizzano e li distinguono dalle parlate
circostanti: da questo punto, sono solo argomenti interni, esclusivamente glottologici, che inducono
alla formazione di un'unità linguistica.
In seguito, Ascoli tentò di isolare un altro gruppo di parlate romanze: il Franco-provenzale. Riunì
sotto questo nome i dialetti della Svizzera romanda e alcune varietà dialettali della Francia Sud-
orientale e della Val d'Aosta che presentano caratteristiche comuni.
Meyer-Lübke, nella sua opera Einführung in das Studium der romanischen Sparchwissenschaft,
distingue, nella famiglia neolatina, nove unità, che enumera andando da Oriente a Occidente: 1.
Rumeno, 2. Dalmatico, 3. Retoromanzo (= Ladino), 4. Italiano, 5. Sardo, 6. Provenzale, 7. Francese,
8. Spagnolo, 9. Portoghese. Il Catalano viene unito al Provenzale, mentre sono considerati
indipendenti il Ladino o Retoromanzo, il Dalmatico e il Sardo.
Anche se ci si basa su criteri linguistici, difficilmente si riescono a tracciare limiti netti fra lingue
genealogicamente affini. Inoltre, la geografia linguistica ha dimostrato che, più che di “linee” di
demarcazione, bisogna parlare di “fasce”, in quanto, anche i fenomeni fonetici e morfologici più
importanti non hanno le stesse linee di confine in tutti gli esempi.
Tenendo conto della ripartizione geografica, dei sostrati e di altri criteri, possiamo dividere le varietà
neolatine nel modo seguente:
a) Rumeno = Balcano-romanzo; b) Dalmatico, Italiano, Sardo, Ladino = Italo-romanzo; c) Francese,
Franco-provenzale, Provenzale (e Guascone), Catalano = Gallo-romanzo; d) Spagnolo, Portoghese =
Ibero-romanzo.
Questa divisione presenta, tuttavia, dei difetti. Il Dalmatico viene posto nel gruppo Italo-romanzo e,
quindi, accomunato all'Italiano come il Ladino e il Sardo: il Dalmatico presenza senza dubbio punti
comuni all'Italiano, ma è anche sicuro che il Dalmatico è una continuazione della romanità orientale
e concorda per parecchi tratti col Rumeno e con gli elementi latini dell'Albanese. Il Dalmatico, quindi,
può essere considerato come il ponte di passaggio tra il Balcano-romanzo e l'Italo-romanzo.

Il Rumeno – Del dominio Balcano-romanzo, o Romanzo orientale, ci è giunta solo la varietà


neolatina rappresentata dal Rumeno, ma solo se si ammette la teoria della reimmigrazione. Resti della
latinità balcanica si trovano anche negli elementi latini dell'Albanese, del Neogreco e delle lingue
slave meridionali.
Il Rumeno si divide in quattro principali dialetti:
1. il Dacorumeno, parlato nel territorio dell'odierna Romania, nella
Bessarabia e parte della Bucovina annesse all'URSS, in parte del Banato appartenente alla Jugoslavia
e in qualche villaggio della Bulgaria e dell'Ungheria. Esso si suddivide in molte varietà dialettali sulla
riva sinistra del Danubio e solo in piccola parte sulla destra. La lingua letteraria si basa sulla varietà
della Valàcchia;
2. il Macedorumeno o Arumeno, parlato dagli Arumeni sparsi un po'
ovunque nella Penisola Balcanica;
3. il Meglenorumeno o Meglenitico, parlato da qualche migliaio di
uomini in una zona a nord-est di Salonicco, intorno alla cittadina di Nanta e da gruppi di emigrati in
Dobrugia e nell'Asia Minore;
4. l'Istrorumeno, parlato da circa millecinquecento persone in Istria, in un
piccolo territorio intorno al Monte Maggiore non lontano da Fiume.
Le differenze tra i quattro dialetti sono considerevoli, tuttavia essi presentano notevoli caratteristiche
comuni le quali di devono a innovazioni proto-rumene. Esse risalgono, quindi, a un periodo
precedente la diaspora che avrebbe, poi, portato i progenitori dei Rumeni in terre lontane fra loro.
Uno degli obiettivi principali che si sono proposti i rumenisti è quello di ricostruire il Proto-rumeno.
Prima di considerare i fenomeni che si possono far risalire al Proto-rumeno, è necessario esaminare
le caratteristiche che risalgono a un periodo anteriore e attribuibili al Latino balcanico.
Per la ricostruzione di tali caratteristiche ci servono i confronti col Dalmatico e con gli elementi latini
dell'Albanese. Il Latino balcanico ha partecipato alla riduzione di ē, ĭ in ẹ, ma non ha partecipato alla
riduzione di ō, ŭ in ọ. In tal modo il Rumeno e l'Albanese hanno un diverso trattamento di ō e ŭ,
mentre le altre lingue romanze hanno un unico esito; per esempio: lat. flōre > rum. floare; lat. *sōmnu
> rum. somn, ecc. Le poche eccezioni, come autŭmnu > rum. toamnă, sono state spiegate in vari
modi, ma probabilmente indicano il principio di un'altra innovazione che, però, non è riuscita a
svilupparsi. Un altro tratto che si può riportare al Latino balcanico è la riduzione dei nessi -ct- in -pt-,
e -cs- (x) in -ps-.
Risale a un'epoca anteriore al Proto-rumeno anche la formazione del futuro col verbo volo che è, in
parte, comune al Dalmatico: tale costruzione ha corrispondenza nelle altre lingue balcaniche. Anche
nel lessico troviamo molte parole latine sconosciute alle lingue romanze occidentali.
Un grande problema è quello dell'indipendenza della palatalizzazione delle velari in Rumeno. Nel
Dacorumeno letterario si hanno č e ǧ, rispettivamente dal lat. c, g + i, e, precisamente come in Italiano:
per esempio cer “cielo”, ger “gelo”; nell'Arumeno ts e dz < c, g + i, e, come ad esempio tser “cielo”,
dzer “gelo”; nel Meglenitico ts, ź nelle stesse condizioni, ad esempio tser “cielo”, źiniri “genero”;
nell'Istrorumeno troviamo č, ts < c + i, e, e z, ž < g + e, i. Secondo alcuni studiosi, il Latino balcanico
non avrebbe avuto la palatalizzazione delle velari. È noto che gli elementi latini dell'Albanese
presentano le velari intatte: in tal modo, alcuni autori traggono la conclusione che anche il
Protorumeno avesse mantenuto le velari intatti e che, quindi, la palatalizzazione del Rumeno sia
indipendente da quella delle altre lingue romanze e che – a detta di Petar Skok – probabilmente
avvenne dopo la distruzione dei centri della latinità orientale.
Tra i fenomeni che si possono considerare protorumeni consideriamo:
1. la riduzione a > ă in sillaba atona, passaggio messo in relazione alla
riduzione di a > ë in sillaba atona in Albanese. Ma siccome la cronologia dei fenomeni fonetici
rumeni ci mostra che la riduzione di a in ă deve essere posteriore alla caduta di -v- e -ll- intervocalici,
così questo fenomeno può essere indipendente nel Rumeno e nell'Albanese.
2. il passaggio a + n > în, sia dinanzi a vocale sia dinanzi a consonante e
a + m + consonante > îm; ad esempio manu(m) > mînă, campu(m) > cîmp. Questo passaggio, che ha
corrispondenze anche in Albanese, è molto antico e ciò appare dal fatto che gli elementi slavi non
partecipano.
3. il passaggio di -l- intervocalico a -r-, ad esempio filu(m) > fir. Questo
passaggio si trova solo negli elementi latini ed è quindi preslavo.
4. il passaggio qu > p, gu > b; ad esempio aqua > apă, lingua > limbă.
5. la metafonesi di e e o tonici, condizionata dalla presenza nella sillaba
seguente di -ă (-a), -e in finale assoluta, come seară > sera.
Il rotacismo di -n- è, secondo alcuni, protorumeno comune col rotacismo albanese. Altri autori,
invece, negano ogni rapporto storico tra i due fenomeni.
Fra le caratteristiche morfologiche, si può notare la conservazione del vocativo in -e nei nomi maschili
della seconda declinazione, perduto nelle altre lingue romanze, che potrebbe spiegarsi anche per
influsso slavo; il Rumeno conserva la forma del dativo dei femminili della prima e della terza
declinazione.
Il problema più arduo da trattare è quello che riguarda il luogo nel quale si è venuto a formare il
Rumeno. Argomenti filologici portano a ritenere che il Protorumeno si sia sviluppato si sia sviluppato
sulla riva destra del Danubio; questa ipotesi e data dall'esame di parecchi fatti: le concordanze con
l'Albanese, che devono risalire a un certo periodo di simbiosi; il carattere bulgaro degli antichi
elementi slavi nel Rumeno; la mancanza di elementi germanici antichi, ecc. Quasi tutti gli studiosi
rumeni ammettono l'esistenza di un centro di vita rumena al Nord del Danubio stesso, anche se
qualche filologo ha riconosciuto l'origine sud-danubiana del popolo.

Il Dalmatico – Con il nome di Dalmatico intendiamo l'idioma estinto preveneto. Un tempo, il


Dalmatico si estendeva da Segna – poco a Sud di Fiume – fino circa ad Antìvari.
Il Dalmatico resistette in quei territori in cui la sua vita era meno minacciata dall'influsso dello Slavo,
e cioè nelle città della costa. A Est era minacciata dallo Slavo, a Sud dall'Albanese e, soprattutto,
minacciata dalla crescente penetrazione veneta, il Dalmatico si ridusse ad essere parlato in poche oasi,
nelle quali, comunque, si spense rapidamente. La scomparsa del Dalmatico aumentava man mano che
l'influsso veneto si faceva più forte: a Zara esso tramontò molto presto, a Ragusa – che, anche se alle
dipendenze della repubblica veneta, godeva di una certa indipendenza – si spense intorno al XV
secolo, mentre nell'isola di Veglia (oggi Krk) il Dalmatico si conservò fino allo scorso secolo.
Le fonti per conoscere il Dalmatico sono di due tipi: le fonti dirette, ovvero materiale documentario
fornitoci dagli archivi dalmati (soprattutto quello di Ragusa), e i saggi di dialetto raccolti da vari
studiosi grazie agli ultimi parlanti del Dalmatico; le fonti indirette, costituite dalla toponomastica e
dagli elementi dalmatici incorporati nel Veneto e nel Croato, gli idiomi che si sono sovrapposti.
Possiamo distinguere due rami – o dialetti – del Dalmatico: uno settentrionale, costituito dal Vegliotto,
e uno meridionale, formato dal Raguseo.
Nel vocalismo del Dalmatico, notevole è la ricchezza di dittongazioni; sia le vocali aperte che quelle
chiuse del Latino, e perfino a, si dittongano in sillaba libera e le vocali aperte, compresa a, si
dittongano anche in posizione.
Il consonantismo, al contrario, è molto conservatore: c e g mantengono la pronuncia velare davanti
ad e, ad esempio kenur < cenare, gelut < gelatu(m). Manca assolutamente il fenomeno della lenizione
delle sorde intervocaliche. Nei nessi cl, gl, pl, fl, bl si conserva, in generale, l inalterato.
Nella morfologia si nota la presenza del lat. mene > main in funzione di accusativo del pronome di
prima persona singolare e la persistenza del comparativo maior > maṷro. Nel verbo si sono conservate
le quattro coniugazioni latine (-ur, -ṷọr < -are; -ar < -ēre; '-ro < '-ĕre; -er < -ire). Il tema del presente
è spesso amplificato dai due infissi -ej- ed -esk-, il primo attestato solo nel Vegliotto e il secondo solo
nel Reguseo. Il fenomeno morfologico più importante del Dalmatico è, però, l'assenza del futuro
perifrastico del tipo cantare habeo e l'uso di continuatori del futuro anteriore del tipo cantavero.
Attraverso le fonti dirette e quelle indirette, perciò, possiamo constatare che il Dalmatico si distingue
per una spiccata conservatività dell'elemento latino: notevoli le concordanze con Rumeno e con
l'Albanese, soprattutto nella conservazione di frasi arcaiche e nella struttura della lingua. Anche molte
parole presentano concordanze fra Rumeno, Albanese e Dalmatico. Pur trovando tali coincidenze,
Matteo Bartoli – il più grande studioso di questa lingua – ha cercato di dimostrare la somiglianza con
l'Italiano meridionale e specialmente con i dialetti della zona abruzzese-pugliese, geograficamente di
fronte alla Dalmazia: dopo tutto, in ambedue le regioni si trovava un sostrato illirico. I risultati di
Bartali sono stati accettati da tutti gli studiosi ad eccezione di Clemente Merlo, che ha sempre cercato
di dimostrare che il vocalismo e il consonantismo del Dalmatico concordano piuttosto col Ladino.

Il Ladino – Con il nome di Ladino o Retoromanzo si intende un complesso di varietà neolatine parlate
nella regione alpina centrale e orientale. Il nome di Ladino è una regolare continuazione di latīnus;
questo termine è stato usato soprattutto dai linguisti italiani, ma non è esente da equivoci, siccome
ladino è anche il termine che designa il Giudeo-spagnolo dei Balcani. I linguisti tedeschi preferiscono
la denominazione retoromanzo, ma anche questo termine non è propriamente esatto: infatti, solo la
parte più occidentale ha sostrato retico, mentre la parte più orientale apparteneva al Norico e il Friuli
faceva parte dell'Italia.
Il Ladino si divide in tre sezioni: occidentale, centrale e orientale.
La sezione occidentale comprende le parlate romance del cantone dei Grigioni (Svizzera) e cioè della
Sopraselva, Sottoselva, Engadina; il punto più orientale di questa sezione è formato dalla Val
Monastero. Nei Grigioni, dove il Ladino si è spento a causa della pressione di dialetti alemannici,
alcune varietà sono state utilizzate anche a scopi letterari, in particolare dopo la Riforma Luterana. Il
Romancio è divenuto la quarta “lingua nazionale” della Confederazione Elvetica, ma non essendo
questo idioma mai diventato lingua unitaria e sia perché i Grigioni sono suddivisi, dal punto di vista
religioso, in due gruppi – cattolici e protestanti – vengono usate nell'insegnamento e nella stampa le
due principali varietà (Soprasilvano e Engadinese).
La sezione centrale è formata da alcuni dialetti della regione dolomitica che hanno per centro il
massiccio del Sella. Le valli ancora ladine sono: Fassa, Gardena, Badia e Marebbe, Livinallongo,
Ampezzo e il Comèlico, ma anche i dialetti più a Sud hanno ancora qualche caratteristica ladina.
La sezione orientale è formata dal Friulano e va dai confini del Comèlico fino alle porte di Trieste.
Trieste e Muggia un tempo erano ladine, ma il Veneto si sovrappose alla parlata. Fra la sezione
orientale e quella centrale, il Veneto si è infiltrato lungo la Valle del Piave e fra quella centrale e quella
occidentale vi è una larga zona linguisticamente tedesca. Nelle zone intermedie il sostrato ladino si
riscontra solo nella toponomastica.
Ascoli era costretto a dividere le aree di transizione in due gruppi, uno più ladino e l'altro più veneto
o lombardo anche se, sia Ascolti che il romanista Gartner, consideravano i tre gruppi ladini come tre
oasi affioranti da una più antica unità ormai sparita. Al contrario, Carlo Battisti e Carlo Salvioni
negarono l'indipendenza del Ladino suscitando parecchie critiche. Battisti, non solo nega l'esistenza
di un'unità linguistica ladina, ma non ammette neppure un'unità storica e genetica fra le tre sezioni:
orientale (friulana), centrale (atesina o dolomitica) e occidentale (grigionese). Per lo studioso, i
dialetti dei Grigioni sono direttamente congiunti con i dialetti della Lombardia; i dialetti delle sezioni
centrale e orientale sarebbero, invece, la continuazione di quelli veneti. Invece, E. G. Parodi si limitò
ad affermare l'esistenza di una stretta parentela del Ladino con l'Italiano, conclusione a cui, poi, arrivò
anche Bartoli.
Il linguista svizzero Caspar Pult, in uno dei suoi scritti, sembrava ammettere che le caratteristiche
fonetiche e morfologiche reto-romanze presentassero maggiori concordanze col Gallo-romanzo che
con l'Italo-romanzo. Anche altri linguisti svizzeri come J. Jud e W. von Wartburg ammettono maggiori
contatti tra il Ladino e il Galloromanzo che fra il Ladino e l'Italo-romanzo. Alcune caratteristiche
ladine concordanti con il Gallo-romanzo e discordanti dall'Italiano sembrano dovute ad evoluzioni
indipendenti nei due domini. Ad esempio, il volgere di ca e ga in ča e ğa nel Ladino (čan < cane) è
stato confrontato con l'analogo passaggio nel Francese (chien). Però nelle varietà all'estremità
occidentale del dominio ladino – quelle più vicine alla Francia – la riduzione della velare in palatale
è molto rara.
Nel Ladino centrale osserviamo la palatalizzazione di ca e ga in quasi tutti il dominio; ma che il
fenomeno sia relativamente recente è dimostrato dalla toponomastica delle regioni che furono ladine
e che ora sono germanizzate, come l'Oltradige bolzanino e la valle di Funes. In Francese, invece, la
palatalizzazione è anteriore alla riduzione di au in o, quindi ha forse avuto luogo tra il VI e l'VIII
secolo. In questo modo, la differente cronologia non ci permettere di ritenere la palatalizzazione di
ca e ga come un fenomeno comune al Ladino e al Francese, ma si tratta di un'evoluzione parallela
avvenuta indipendentemente in due periodi diversi.
Un'altra presunta analogia tra Ladino e Gallo-romanzo sarebbe il passaggio di l + dentale ad u, per
esempio alt(e)ru(m) > soprasilv. auter, fr. autre ma it. altro.
La velarizzazione di l, nel Francese, si ritiene sia iniziata verso la fine dell'epoca gallo-romana; nel
Ladino, invece, tale evoluzione deve essere molto più recente. Essa manca nella sezione orientale,
dove l è quasi sempre conservato. Anche nei Grigioni il passaggio l > u non è molto antieriore al XVI
secolo. La stessa cosa vale per il Ladino centrale.
Anche il passaggio di a in e – uno dei tratti principali e più antichi del Francese – non può avere
rapporti cronologici col passaggio di a in e che si riscontra in parte del territorio ladino e soprattutto
nel Ladino centrale. Carlo Battisti ha dimostrato che questa evoluzione nel Ladino centrale è
provocata dall'allungamento della vocale e perciò subentra solo in alcuni casi. Dall'aspetto fonetico
delle parole e dalla toponomastica appare che questa evoluzione deve aver avuto luogo abbastanza
tardi, intorno al XVI secolo.
Minore peso ha la concordanza fra Ladino e Francese nella conservazione dei nessi di consonante +
l, ad esempio lat. clave(m) > soprasilv. clav, fr. clef ma it. chiave. La trasformazione dei nessi cl, bl,
pl nell'Italia settentrionale è avvenuta tardi e i più antichi testi dialettali lombardi danno ancora forme
con l conservato.

Il Sardo – Col nome di Sardo si intendono le varietà dialettali della Sardegna, con esclusione di
Alghero – isola linguistica catalana – e di Calasetta e Carloforte – isole linguistiche genovesi.
Il Sardo ha una sua propria fisionomia e individualità, e questa speciale individualità traspare già dai
testi più antichi.
Il Sardo si suddivide in quattro principali varietà dialettali:
1. il Logudorese, parlato nella regione del Logudoro al centro dell'isola;
2. il Campidanese, parlato nel Campidano nella parte meridionale;
3. il Gallurese, parlato a Gallura nella parte nord-orientale dell'isola;
4. il Sassarese, nella città di Sassari e nelle immediate vicinanze.
Il Logudorese si può definire il Sardo per eccellenza e fu usato da scrittori e poeti sardi come una
specie di volgare illustre. Giovanni Campus ne distingue tre variteà:
a) la varietà meridionale che abbraccia la regione sud-ovest del Logudoro
con centro Nuoro;
b) la varietà centrale che ha per centro Bonorva e abbraccia il sud-est del
Logudoro;
c) la varietà settentrionale che ha per centro Ozieri.
Differenza fondamentale si nota tra il Logudorese e il Campidanese da una parte e il Sassarese-
gallurese dall'altra.
Mentre il Campidanese si avvicina più ai dialetti italiani di tipo centro-meridionale, i dialetti di tipo
gallurese-sassarese si avvicinano ai dialetti corsi, che sono di tipo toscano, ma sviluppati su un
sostrato simile a quello del Sardo. I dialetti gallurese e sassarese si differenziano per molte
innovazioni: į (yod) si volge ad occlusiva palatale (ğ), nį dà ñ, come in Italiano, i nessi cl, gl, pl, bl, fl
si semplificano, le desinenze del plurale cadono, ecc.
Fra le caratteristiche del Sardo ricordiamo soprattutto il mantenimento della distinzione fra le
continuazioni di ē e ĭ e di ō e ŭ (pilu < pĭlu), il mantenimento di į (iam > ya). Specialmente il
mantenimento del valore velare di c davanti a vocali palatali nel Logudorese, Nuorese e antico
Campidanese, come centum > kentu. Anche g dinanzi a e, i era conservato come fonema velare
nell'antico Logudorese.
I nessi cl, gl, pl, bl, fl sono conservati nei dialetti del centro dell'isola e nel Campidanese; in buona
parte del territorio però, l passa ad r.
lo sviluppo dell'elemento labiale qu, gu > b può ricordare quello del Rumeno, ma quasi certamente di
tratta di due evoluzioni parallele ma indipendenti. Anche l'evoluzione del nesso gn > nn può ricordare
quella del Rumeno, ma anche qui si tratta di evoluzioni indipendenti.
Un altro tratto arcaico nei dialetti più conservatori del centro dell'isola è il mantenimento delle sorde
intervocaliche.
L'articolo determinativo è su, sa, plur. sos, sas e continua il lat. volg. ipsu, ipsa, ipsos, ipsas,
differenziandosi dagli altri articoli romanzi che derivano da illu.
Il plurale dei sostantivi maschili e femminili esce in -s, ad esempio muru = muros, femina = feminas;
-s finale si conserva anche nei neutri singolari della terza declinazione, ad esempio tempus “tempo”,
onus “peso”.
Nella coniugazione si nota la prevalenza della III sulla II. Il Sardo antico conservava ancora il
piuccheperfetto antico. L'imperfetto congiuntivo aveva le desinenze -aret, -eret, -iret che oggi si
trovano nella Barbagia. Il perfetto indicativo aveva le desinenze -avi, -asti, -avit, -avimus, -astis, -
arun per la prima coniugazione; più tardi -v- scomparve e oggi si hanno le desinenze in -ai, -ait, ecc.
Anche dal punto di vista lessicale, il Sardo è molto conservativo; Wagner osserva che i dialetti del
centro dell'isola rappresentano il vero Sardo con pochissimi elementi spagnoli. È indubbio che il
Sardo conservi nel suo lessico alcune parole latine assenti da tutte le altre lingue romanze: ad esempio,
sa domo “la casa” (< domo); log. kitto “per tempo” (< citius), ecc. Abbiamo, poi, interessanti
concordanze con la Romània orientale: lat. pertundĕre > rum. pătrunde, log. pertungere “forare”.
Anche dal punto di vista degli elementi dovuti a superstrati il Sardo ha una posizione particolare:
mancano quasi completamente gli elementi germanici, anche se la Sardegna fu per un secolo sotto i
Vandali e per un anno sotto gli Ostrogoti, ma pare che i contatti non siano stati sufficienti per
influenzare la lingua, infatti quasi tutti gli elementi germanici presenti provengono dall'Italiano. Le
scarse parole arabe provengono quasi tutte dallo Spagnolo e dal Catalano. Importanti gli elementi
greci, anche se alcune voci greco-bizantine possono derivare dal Latino. Senza dubbio, gli elementi
che hanno maggiormente influenzato il Sardo sono quelli catalani e spagnoli. Il dominio degli
Spagnoli è durato circa quattro secoli (1327-1720); i conquistatori erano Aragonesi e portarono
nell'isola il Catalano, ma accanto ad esso si introdusse anche il Castigliano, soprattutto nel Sassarese
e nel Gallurese. Per molto tempo lo Spagnolo fu lingua ufficiale nei tribunali e nelle scuole e molti
autori sardi scrissero in catalano e spagnolo. In tutta l'isola, ad esempio, per designare “finestra” si
trova l'ispanismo ventana (< sp. ventana) e solo nei dialetti più conservativi si trova fronesta. I
vocaboli iberici abbondano specialmente nella terminologia dell'amministrazione e della chiesa,
come camp. ğuğği, nuor. žužže “giudice” < cat. jutge; sa séu “la cattedrale” < cat. séu, ecc. Catalana
è anche la terminologia della pesca.
L'Italiano – L'Italiano è parlato entro i confini dell'odierna Repubblica Italiana e, fuori dai confini
politici:
a) nella Repubblica di San Marino;
b) nella Svizzera Italiana;
c) in Corsica;
d) nelle regioni della Venezia Giulia e dell'Istria passate dopo la seconda
guerra mondiale sotto il dominio della Jugoslavia;
e) nelle principali città della costa dalmata;
f) da un buon numero di abitanti della regione nizzarda e soprattutto nel
Principato di Monaco;
g) come lingua di cultura nell'isola di Malta;
h) dagli italiani stabiliti nelle ex-colonie e all'estero.
Nel dominio linguistico italiano si possono distinguere tre grandi suddivisione dialettali:
1. dialetti alto-italiani o settentrionali;
2. dialetti centro-meridionali;
3. dialetti toscani (compresi quelli della Corsica).
Con il nome di dialetti settentrionali o alto-italiani si intendono i dialetti gallo-italici, il Veneto e
l'Istriano. Qualche glottologo ha preferito separare i dialetti gallo-italici dal Veneto, ma altri – tra cui
Clemente Merlo – li hanno riuniti in un unico gruppo, in quanto le principali caratteristiche per cui i
dialetti settentrionali si differenziano da quelli centro-meridionali e toscani sono comuni al Gallo-
italico e al Veneto.
In dialetti gallo-italici comprendono quattro sezioni differenziate tra loro:
1. dialetti piemontesi;
2. dialetti lombardi;
3. dialetti liguri;
4. dialetti emiliano-romagnoli.
Fra le caratteristiche generali dei dialetti alto-italiani ricordiamo:
1) la riduzione delle vocali lunghe e geminate, come ll > l: caballu(m) >
piem./lomb./emil. kavál, ven. kavalo; nn > n: annu(m) > piem./lomb./emil. an, ven. ano;
2) la lenizione delle sorde intervocaliche, che può arrivare anche al
dileguo, come amĭta > milan. ámeda, bergam. meda, ma ven. amia (dove -t- > -d- > 0);
3) gli sviluppi di cl, gl > č, ğ, ad esempio clamare > piem. čamé, lig.
čama, ven. čamar; glacia > piem. ğasa, lig. ğasa, ven. ğaso;
4) c e g dinanzi a vocali palatali e, i si assibilano in tutto l'Alto Italiano,
dando ti e di;
5) il trattamento del nesso ct che nel Piemontese si sviluppa in it – come
in Francese – mentre nel Lombardo l'i intacca la dentale portandola a č: ad esempio lač “latte”, fač
“fatto”, ecc.
Nel vocalismo, i dialetti gallo-italici hanno caratteristiche notevoli: il passaggio a > e avviene in
condizioni non dappertutto uguali. Nell'Emilia a libero o seguito da l e da r + consonante dà sempre
ä. Ma il processo di palatalizzazione ha caratteristiche proprie nelle varie regioni: così a Modena a
seguito da nasale resta intatto mentre a Bologna abbiamo a > ä.
Vengono considerate come provocate dal sostrato celtico le evoluzioni di ū > ü e di ŏ > ö. Questo
fenomeno si manifesta nel Piemontese, Ligure, Lombardo mentre manca nell'Emiliano-romagnolo.
In una parte del Piemonte – nel Monferrato – ū passa addirittura ad i.
Caratteristica generale della maggior parte dei dialetti gallo-italici è la caduta delle vocali finali, le
quali dileguano tutte ad eccezione di -a.
Molto diffusa nei dialetto gallo-italici è la metafonesi provocata da -i finale e quindi è più antica della
caduta della stessa -i finale. Nei dialetti veneti la metafonesi è oggi quasi scomparsa: i testi veneti
antichi, però, testimoniano la presenza della metafonesi.
Una caratteristica dei dialetti alto-italiani è la perdita dei pronomi personali soggetti nelle forme
toniche: al loro posto si usano i pronomi obliqui, come ven. mi digo = me dico. Però i pronomi soggetti
si conservano in atonia nella coniugazione verbale, come ven. ti te dizi = te tu dici.
Dialetti gallo-italici di tipo arcaico si trovano anche nella Sicilia nordorientale nelle province di
Messina ed Enna, in Basilicata e presso il golfo di Policastro: l'opinione più attendibile sull'origine di
queste colonie è quella che ritiene che le colonie lombardo-sicule sarebbero provenienti dalla
Lombardia occidentale – dall'alto Novarese.
I dialetti trentini sono prevalentemente di tipo lombardo, con molti influssi veneti.
I dialetti veneti si possono dividere in:
a) Veneziano;
b) Veronese;
c) Vicentino-Padovano-Polesano;
d) Trevigiano;
e) Feltrino-Bellunese;
f) Triestino e Veneto-giuliano.
Fra le caratteristiche dei dialetti veneti si possono ricordare:
1) la mancanza delle vocali turbate ü e ö;
2) la fermezza delle vocali finali. Nel Vicentino-Padovano-Polesano le
vocali finali rimangono salde e solo -e, -o cadono dopo n nelle parole piane. Nel Veneziano -e cade
anche dopo l e r, -o nei suffissi -ol, -iol, -er, -ier. Maggiore ampiezza assume la caduta delle vocali
finali nel Veneto-giuliano, nel Trevigiano e nel Feltrino-Bellunese;
3) il mantenimento dei dittonghi ie, uo in sillaba libera; mentre ie si
conserva ancora oggi, uo è conservato solo nei testi antichi;
4) conservazione delle vocali in sillaba debolmente accentata con
tendenza all'apertura in a davanti a r.
Tutte queste caratteristiche del vocalismo danno ai dialetti veneti una fisionomia che sembra
avvicinarli più al Toscano che ai dialetti gallo-italici.
Nel consonantismo, tuttavia, le tendenze sono simili a quelle dei dialetto gallo-italici, e cioè: lenizione
delle sorde intervocaliche che arriva fino al dileguo, come t > d > 0, b > v > 0; riduzione delle
geminate; assibilazione di ce, ci, ge, gi.
Oggi ridotti sono i dialetti istriani (o istrioti) parlati nel territorio dell'Istria. Essi presentano
caratteristiche prevenete arcaiche che non si possono definire ladine.
I dialetti centro-meridionali formano il maggior nucleo dell'Italia dialettale e si possono dividere in
tre grandi sezioni:
a) sezione marchigiano-umbro-romanesca;
b) sezione abruzzese-pugliese settentrionale-molisano-camapano-
lucana;
c) sezione salentina e calabro-sicula.
Questi dialetti presentano parecchie caratteristiche comuni, alcune delle quali si possono attribuire al
sostrato italico, come le riduzioni nd > nn, mb > mm.
Vi sono alcuni tratti fonetici, morfologici e lessicali di tipo meridionale che occupano una zona che
comincia poco più a Sud di Ancora e scende fino sotto Roma. Vi sono, però, anche altre isoglosse che
congiungono l'Italia settentrionale con Roma, attraverso la parte Nord delle Marche e l'Umbria,
escludendo la Toscana.
Posizione a sé ha il dialetto di Roma: la penetrazione toscana, le vicende storiche che quasi
spopolarono la capitale e le successive immigrazioni, hanno permesso che l'antico Romanesco
autoctono venisse sopraffatto da un'altra nuova varietà, formatasi dal Toscano sovrapposto a un
sostrato romanesco. Grazie al prestigio e all'importanza di Roma, questo nuovo “romanesco” si
diffuse in tutto il Lazio.
Nell'Abruzzo, i dialetti della regione dell'Aquila continuano le condizioni del gruppo marchigiano-
umbro-romanesco. Non si trovano le vocali indistinte che caratterizzano le parlate meridionali.
L'estrema sezioni dei dialetti meridionali è caratterizzata dal gruppo calabro-siculo: da unire anche il
Pugliese meridionale, ovvero il gruppo di parlate che si estendono lungo la Penisola Salentina, a Sud
di una linea che va da Taranto a Brindisi. Colpisce molto la differenza fra le parlate di tipo pugliese
settentrionale – caratteristiche per la ricchezza dei dittonghi – e quelle di tipo meridionale – dove non
si trovano vocali indistinte e a non si riduce più ad e per influsso di i.
Per quanto riguarda i dialetti siciliani, la loro uniformità non è così reale come sembra. Alcuni anni
fa fu proposta una bipartizione tra dialetti occidentali, più conservativi, e dialetti orientali, di tipo più
recente.
Se dal Nord Italia scendiamo verso Sud seguendo la costa tirrenica, si trovano dialetti di transizione
fra il Ligure e il Toscano; i caratteri toscani si fanno sempre più decisi man mano che si discende
verso il Sud.
Un po' più a oriente si trovano anche dialetti di transizione fra l'Emiliano e il Toscano: nel passaggio
da dialetti gallo-italici e meridionali non si hanno, quindi, bruschi salti.
I dialetti toscani possono dividersi in quattro sezioni:
a) sezione centrale o fiorentina;
b) sezione occidentale (Pisa, Lucca, Pistoia);
c) sezione senese;
d) sezione aretino-chianaiola.
I dialetti toscani hanno speciale importanza sia per la loro grande conservatività, sia per il fatto che
uno di essi – il Fiorentino – sta alla base della lingua letteraria italiana. I dialetti aretino-chianaioli
segnano il passaggio fra i dialetti di tipo nettamente toscano da quelli umbri.
Ai dialetti toscani si legano strettamente quelli della Corsica, che si dividono in due sezioni, i territori
delle quali sono separati dalla catena montuosa che attraversa l'isola da Nord-Ovest a Sud-Est. Il
dialetto oltremontano ricorda le condizioni dei dialetti sardi, quindi conserva tratti più arcaici delle
condizioni primarie dell'isola che vennero poi intaccate con la penetrazione toscana. Oggi i dialetti
corsi sono di tipo nettamente toscano e sono particolarmente preziosi per la storia della nostra lingua.
La lingua letteraria italiana – che si forma nei secoli XIII e XIV – ha per base il Toscano, specialmente
il Fiorentino: si può dire che la posizione geografica permise a questo dialetto di primeggiare sugli
altri, ma anche il prestigio dei tre grandi toscani del Trecento – Dante, Petrarca, Boccaccio – fu un
grande aiuto. Dante voleva rendere il Toscano aulico sulla scia del Provenzale, voleva che fungesse
da lingua letteraria importante tanto quanto il Latino. Dante alla fine scrisse un Fiorentino temperato
e contribuì a far assumere grande importanza a questo dialetto.
Per quanto riguarda l'Italiano, in generale, non è facile stabilirne le caratteristiche, data la policromia
dell'Italia dialettale. Limitandosi alla lingua scritta e parlata, si possono indicare alcuni tratti che la
differenziano dalle altre lingue romanze:
1. la mancanza di vocali turbate ed evanescenti;
2. l'assenza della metafonesi;
3. la conservazione delle vocali finali e la scomparsa di tutte le
consonanti finali del Latino, perciò tutte le parole italiane escono in vocale;
4. la presenza di consonanti lunghe o geminate accanto a consonanti
semplici;
5. la libertà di posizione dell'accento;
6. la ricchezza delle derivazioni suffissali;
7. la libertà della sintassi del periodo.
Il Provenzale (e il Guascone) – Nel gruppo chiamato Galloromanzo si distinguono due unità
linguistiche, il Francese (lingua d'oil) e il Provenzale (lingua d'oc). Importanti, poi, il Catalano e il
Guascone che, anche se non vengono riconosciuti come vere unità linguistiche, rappresentano il ponte
di passaggio tra Galloromanzo e Ibero-romanzo.
Procedendo dall'Italia verso Occidente troviamo il dominio del Provenzale: il confine politico tra
Italia e Francia coincide, qui, con quello linguistico. A Ventimiglia di parla un dialetto ligure; a Nizza
già un dialetto provenzale che ha, però, influssi italiani; a Mentone si parla un dialetto di transizione
tra Provenzale e Gallo-italico; mentre Monaco è un'antica isola linguistica ligure.
Se si segue, però, lo spartiacque alpino, la corrispondenza dei confini viene annullata: questo esempio
serve a comprendere come confini geografici ben netti non sempre corrispondano a confini linguistici.
Qui le condizioni linguistiche sono date da profonde ragioni storiche. Territori cisalpini e transalpini
appartennero per secoli ad una sola unità politica; sotto Casa Savoia, la lingua ufficiale era il Francese,
che si estendeva anche al Piemonte, che fu riannesso all'Italia solo nel XIX secolo.
Nella parte italiana troviamo numerosi centri in cui si parlano dialetti provenzali, i cui più importanti
sono quelli dei Valdesi di Val Pellice. Una colonia valdese nel XV secolo migrò in Calabria a Guardia
Piemontese. Posizione speciale ha, poi, il dialetto provenzale di Pragelato, nell'alta Val Chisone.
Il confine linguistico tra il Provenzale e il Francese si è man mano spostato in favore del Francese,
lingua nazionale e letteraria. Jules Ronjat distingue cinque gruppi di dialetti e precisamente:
1. gruppo provenzale da Agen a Nizza;
2. gruppo linguadocico-guiennese;
3. gruppo aquitano;
4. gruppo alverniate-limosino;
5. gruppo alpino-delfinatese.
Ronjat non comprende il Catalano ma include il Guascone.
I dialetti provenzali che hanno ristretto il loro territorio sotto la spinta della lingua nazionale sono in
continuo regresso: il confine settentrionale, che può essere rappresentato da una fascia, si è spostato
verso il Sud. I dialetti provenzali, sviluppatisi dal Latino volgare, cominciarono ad essere attestati ben
presto e dettero luogo a una fiorente letteratura medievale; in seguito, l'uso letterario divenne sempre
più raro fino a scomparire per poi risorgere, soprattutto come lingua della letteratura regionale, nel
secolo scorso.
Il Guascone, che Ronjat comprende sotto il nome di “aquitano”, ha una tale individualità linguistica
che potrebbe essere considerato un'unità a sé, coordinata al Provenzale. Il Guascone si differenzia dal
Provenzale per il suo sostrato iberico e, infatti, concorda in molti punti con l'Ibero-romanzo;
numerose, poi, le concordanze anche fra Guascone e Catalano e Guascone e Aragonese. Il confine
attuale del Guascone coincide con quello del sostrato iberico della Gallia sud-occidentale. Il
Guascone si distingue per alcuni tratti fonetici caratteristici come f > h (dovuto forse al sostrato
iberico), -ll- > -r- (bella > bero), ecc. La morfologia è molto conservativa e il lessico possiede un
serie di parole caratteristiche.

Il Franco-provenzale – Col nome di Franco-provenzale si intende un gruppo di varietà dialettali che


occupa la parte sud-orientale della Francia, la svizzera romanda e una parte delle valli alpine entro i
confini dell'Italia. I limiti del Franco-provenzale sono assai incerti, e ancora più difficile da stabilire
è il confine tra Franco-provenzale e Provenzale.
Nella Svizzera romanda, il territorio più vasto e compatto dove si parlano dialetti franco-provenzali,
tale dialetto sconfina, a Oriente, con i dialetti alemannici. Anche qui, però, la linea di confine è incerta,
anche perché ha subito vari mutamenti negli ultimi decenni: è importante ricordare che, mentre nella
Svizzera tedesca i dialetti alemannici sono tutt'oggi in uso, nella Svizzera romanda l'uso del dialetti è
in continua diminuzione.
Fra le caratteristiche delle parlate franco-provenzali si può notare il vocalismo molto affine a quello
provenzale e il consonantismo più concordante con quello francese. Ad esempio, a tonico si conserva
come nel Provenzale, ma passa in e per influsso di palatale in maniera ancora più avanzata che in
Francese; -u ed -o finali rimangono come -o, ecc.
Il lessico è molto conservativo: trattandosi di territori alpini si trovano parecchi relitti preromani.
Anche dal punto di vista del superstrato germanico vi sono nel Franco-provenzale elementi
caratteristici di origine burgunda. La divisione in sottodialetti è estremamente difficile: il
frazionamento, infatti, è molto forte ed ogni vallata ha una sua individualità linguistica. Ciò dipende,
in buona parte, anche dalla mancanza di unità storica e politica: il dialetto di Ginevra fu per qualche
tempo lingua ufficiale ma poi fu abbandonato volontariamente in favore del Francese.

Il Francese – Il terzo tipo e il più importante del Galloromanzo è il Francese. Le condizioni


linguistiche attuali corrispondono solo in minima parte a quelle più antiche, poiché, a partire dal XV
secolo, l'azione delle città – specialmente Parigi – ha rapidamente alterato i dialetti della lingua d'oil.
In un'area vastissima intorno a Parigi i dialetti sono scomparsi e il Francese comune della capitale ha
preso il loro posto; esso poi ha cominciato a frazionarsi e a modificarsi e ha dato luogo così a quella
varietà che i linguisti francesi chiamano “français régional”. Nel contempo, anche innovazioni partite
dalla campagna si sono introdotte a Parigi e sono entrate a far parte della lingua nazionale. Fra i
dialetti a Sud di Parigi che ancora conservano alcune caratteristiche e si oppongono alla penetrazione
del Francese comune, si possono ricordare il Pittavino e il Santongese: questi dialetti hanno
guadagnato terreno su quelli della lingua d'oc, ma subiscono comunque l'influsso delle parlate
meridionali confinanti. L'angioino ha, invece, guadagnato terreno sul Bretone.
Dialetti più caratteristici e meglio conservati sono quelli della costa settentrionale della Francia e
specialmente il Normanno e il Piccardo e la loro caratteristica più importante è il mantenimento di c
velare dinanzi ad a.
Un dialetto molto conservativo e tipico, che non ha subito l'influsso di Parigi, è il Vallone che
rappresenta la parlata familiare della parte linguisticamente francese del Belgio. Il territorio del
Vallone è delimitato a Nord e a Est dalla frontiera romanzo-germanica; a Occidente confina col
Piccardo; mentre il confine a Sud segue la Valle della Mosa. La vicinanza del Neederlandese e del
Tedesco, inoltre, ha introdotto nel Vallone un numero assai considerevole di elementi germanici.
Verso Sud troviamo, poi, il Lorenese che presenta numerosi tratti conservativi, soprattutto nella parte
più orientale confinante col Tedesco.
I dialetti della Franca-Contea e della Borgogna presentano un minor numero di tratti caratteristici
poiché sono stati fortemente influenzati dal Francese comune: al Sud della Borgogna, addirittura,
troviamo già delle particolarità che ricordano il Franco-provenzale.
I dialetti della Champagne sono, ormai, in via d'estinzione: gli ultimi resti furono raccolti qualche
decina di anni fa lungo il confine lorenese.
Al centro del pentagono troviamo il “Francien”, cioè il dialetto dell'Ile-de-France, di cui è assai
difficile tracciare i limiti precisi. Questo dialetto sta alla base della lingua letteraria francese, poiché
Parigi divenne presto la capitale del regno. Il Francese si diffuse poi, attraverso la colonizzazione,
anche oltre oceano.
La Francia si può dividere in tre grandi gruppi:
a) dialetti settentrionali o d'oil;
b) dialetti meridionali o d'oc;
c) dialetti sud-orientali o franco-provenzali.
La lingua d'oc, che domina a mezzogiorno, rappresenta l'elemento più conservatore dal punto di vista
fonetico e anche quello che ha subito il minore influsso germanico.
Al Nord, la lingua d'oil ci presenta un minor grado di romanizzazione e il massimo di
germanizzazione.
A Sud-Est il Franco-provenzale formatosi in territori assai romanizzati, le cui popolazioni subirono
anche influsso germanico, presenta tratti in parte comuni ai due domini e in parte propri.

Il Catalano – Con il Catalano si entra nella Penisola Iberica. In Francia, il Catalano è oggi parlato
solo nel Rossiglione; è la lingua ufficiale della Repubblica di Andorra e in Spagna non solo è la lingua
della Catalogna storica, ma anche di una striscia del territorio di Aragona ai confini con la Catalogna,
di gran parte delle regioni di Valencia e Alicante e delle isole Baleari. Esso fu importato, inoltre, ad
Alghero in Sardegna.
Si divide in parecchie varietà dialettali e le principali sono due, una orientale e una occidentale, oltre
al Valenziano, a quello delle Baleari e al Rossiglionese. L'espansione del Catalano verso Ovest è
dovuta all'estensione dell'antico contando di Ribaforça, mentre l'estensione verso Sud si deve alla
“Reconquista” sugli Arabi.
Uno dei problemi principali è quello di fissare la posizione linguistica del Catalano. Meyer-Lübke è
propenso a mettere in evidenza le differenze rispetto alle lingue romanze della Penisola Iberica e le
somiglianze col Galloromanzo. Dopo numerosi esami linguistici, si è giunti alla conclusione che il
Catalano è gallo-romanzo per le sue origini ma non può essere classificato come dialetto provenzale;
è ibero-romanzo per la sua posizione geografica, ma per alcune caratteristiche e per ragioni storiche
non può essere considerato fra le lingue ibero-romanze.
L'espansione catalana, durante la Reconquista, portò ad un ulteriore allargamento del dominio
linguistico catalano: la conquista di Maiorca introdusse il Catalano nelle Baleari. Dell'espansione in
Sardegna non rimangono che gli elementi catalani nel Sardo e nella colonia di Alghero.

Lo Spagnolo – Lo Spagnolo è parlato nella Repubblica Spagnola, con eccezione della parte nord-
orientale, delle province basche dove si parla ancora il Basco e di quattro province nord-occidentali
dove si parla il Gallego.
Anziché lengua española si usa dire correntemente lengua castellana; fu infatti il Castigliano –
parlato nella regione centrale della Spagna – che divenne lingua letteraria e si estese con la
Reconquista dei territori dominati dagli Arabi. La scoperta dell'America e la sua colonizzazione
dovuta anche agli Spagnoli estesero questa lingua in gran parte nel Nuovo Mondo.
Fra le varietà dialettali spagnole ricorderemo: il Leonese, i cui limiti attuali non coincidono con quelli
dell'antico regno di León né con l'odierna provincia di León. Una varietà simile al Leonese, orientata
più verso il Gallego-portoghese, è il dialetto di Miranda in Portogallo.
Un altro importante dialetto è l'Aragonese che in parte deve le sue premesse storiche al vecchio regno
di Aragona e Navarra, ma che fu fortemente influenzato dal Castigliano.
I dialetti della Spagna meridionale non sono altro che frazionamenti del Castigliano, importato al Sud
dalla Reconquista. Fra i dialetti medievali, infine, importante è il Mozárabe.
Il Portoghese – La seconda varietà della Penisola Iberica è il Gallego-portoghese.
Il Portoghese è parlato in Portogallo, in qualche punto della Spagna presso la frontiera portoghese,
negli arcipelaghi delle Azzorre e di Madera, nel Brasile e infine in parecchi punti dell'Africa e
dell'Asia.

Nella storia della lingua portoghese si distinguono due punti:


1. il periodo arcaico, dall'XI secolo fino alla metà del XVI secolo;
2. il periodo moderno, dalla metà del XVI secolo a oggi.
Il Portoghese arcaico è strettamente connesso al Gallego, ossia all'idioma della Galizia. Questo
periodo, che comprende le prime fasi delle due varietà neolatine affini tra loro, viene generalmente
chiamato periodo gallego-portoghese.
Il Gallego-portoghese si venne formando nella Lusitania settentrionale, poiché la parte meridionale –
dall'VIII al XIII secolo – era occupata dagli Arabi. Dopo le conquiste di Alfonso Henriques il
Portoghese arcaico del Nord si propagò anche al Sud e si fuse con l'idioma neolatino del Sud.
Fra le caratteristiche morfologiche del Portoghese, le più importanti sono il mantenimento del
piuccheperfetto indicativo latino (comune anche allo Spagnolo e al Provenzale). Il futuro indicativo
e il condizionale che, anche in Portoghese, continuano condizioni latine volgari di composti
dell'infinito del verbo più l'ausiliare habeo, hanno la possibilità di separare l'infinito dall'ausiliare con
un pronome atono (direi “dirò”, ma dir-te-ei “ti dirò”).
Nella sintassi è caratteristica la collocazione dei pronomi atoni che in Portogallo (ma non in Brasile)
non stanno mai all'inizio di una preposizione.
Per quanto riguarda il lessico, i relitti del sostrato iberico sono comuni agli altri idiomi della Penisola,
sono scarsissimi e incerti. L'influsso germanico è rilevante nella toponomastica e nell'onomastica.
Notevolissimo è, poi, l'influsso arabo.
Vi sono, poi, numerosi elementi francesi, spagnoli e anche italiani. Ma un nucleo di elementi molto
importante è quello formato dalle parole esotiche di lingue africane e asiatiche che i Portoghesi hanno
appreso durante le colonizzazioni.
Il Portoghese, parlato su un territorio molto vasto di quattro parti del mondo, ha parecchie varietà
dialettali. De Vasconcelos distingue dapprima due sezioni: 1) Portoghese propriamente detto; 2) co-
dialetti portoghesi.
Il Portoghese propriamente detto è a sua volta diviso in quattro grandi gruppi: 1) dialetti continentali;
2) dialetti insulari; 3) dialetti dell'oltremare; 4) dialetti degli Ebrei. I co-dialetti portoghesi si dividono
anch'essi in quattro gruppi: 1) Gallego; 2) Riodonorese; 3) Guadramilese; 4) Mirandese.
Vedi cap. 6 da pagina 444.

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