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Il libro
L’autrice
Frontespizio
Prologo
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Ringraziamenti
Copyright
Il libro
Quando Ruby si sveglia il giorno del suo decimo compleanno, qualcosa in lei è cambiato. Qualcosa
di abbastanza preoccupante da costringere i genitori a mandarla a Thurmond, un brutale campo di
riabilitazione gestito dal governo dove sono rinchiusi i giovani come lei. Ovvero, i giovani che sono
riusciti a sopravvivere alla misteriosa malattia che ha decimato la popolazione e che da allora
sembrano aver acquisito poteri speciali. Ci sono i Verdi, dotati di un’intelligenza eccezionale; i Blu,
di telecinesi; i Gialli, che controllano l’elettricità; i Rossi il fuoco e gli Arancioni, come Ruby, la
mente umana.
Ora Ruby ha sedici anni ed è riuscita a scappare da quell’inferno, ma per lei l’incubo non è ancora
finito. Durante la sua fuga, però, incontra un gruppo di ragazzini evasi come lei: Zu, Ciccio e Liam,
carisma da leader e decisamente carino. Ma Ruby non può rischiare di avvicinarsi a lui. Sarebbe
troppo pericoloso. E, in viaggio verso l’unico rifugio sicuro, ci sono già fin troppi pericoli da
affrontare...
Finalmente arriva in Italia la serie d’esordio di Alexandra Bracken che, con questa storia
adrenalinica, ha conquistato il primo posto della classifica del New York Times e da allora ha firmato
un successo dietro l’altro. Negli Stati Uniti e nel resto del mondo, dove i suoi romanzi sono
pubblicati in 19 Paesi.
L’autrice
è autrice bestseller n.1 del New York Times delle serie Darkest Minds e Passenger.
ALEXANDRA BRACKEN
DARKEST MINDS
Traduzione di Michela Albertazzi
Per Stephanie e Daniel,
che sono stati con me su ogni minivan
Prologo
acceso della carta: era il foglio che la signora Port aveva consegnato ai pochi
studenti rimasti qualche giorno prima. Lo aveva piegato in quattro e pinzato tre
volte, per impedire che lo leggessimo. , c’era scritto all’esterno,
RISERVATO AI GENITORI DI RUBY
sottolineato tre volte. Tre volte voleva dire che era una cosa seria. I miei mi
avrebbero messo in castigo se lo avessi aperto.
Per mia fortuna, era già aperto.
settimana, e anche quella dopo. Pioggia gelata, che sarebbe diventata neve se ci
fosse stato qualche grado in meno. Ricordo di aver guardato le gocce tracciare
sentieri frenetici lungo i finestrini dell’autobus. Se fossi stata a casa, nell’auto di
uno dei miei genitori, ne avrei seguito con le dita i passaggi arzigogolati
attraverso il vetro freddo. Ma avevo le mani legate dietro la schiena, e gli uomini
in uniforme nera ci avevano stipati in quattro per sedile. C’era spazio a malapena
per respirare.
Il calore di un centinaio di corpi appannava i finestrini e creava una sorta di
schermo verso il mondo esterno. Più tardi, i finestrini degli autobus giallo acceso
che portavano i bambini nell’accampamento sarebbero stati tinti di vernice nera.
Ma non ci avevano ancora pensato.
Ero stata la più vicina al finestrino per tutte e cinque le ore di viaggio, perciò
riuscivo a cogliere qualche spiraglio del paesaggio che ci scorreva accanto,
quando la pioggia si calmava un poco. Mi sembrava tutto uguale: fattorie
immerse nel verde, fitte macchie boscose. Per quanto ne potevo sapere, ci
trovavamo ancora in Virginia. Sembrava che la ragazza seduta accanto a me, che
più tardi sarebbe stata classificata come Blu, avesse riconosciuto qualche cartello
a un certo punto, perché si sporse nella mia direzione per vedere meglio. Mi
pareva vagamente familiare, come se avessi già visto il suo viso in giro per la
mia città, o in quella vicina. Penso che tutti quei bambini venissero dalla
Virginia, ma non c’era modo di saperlo con certezza, perché c’era una sola
grande regola, ed era: Silenzio.
Dopo avermi prelevata da casa il giorno precedente, mi avevano trattenuta per
la notte in una sorta di magazzino, insieme agli altri bambini. La stanza era
immersa in una luce innaturale; ci avevano fatto sedere vicini sul lurido
pavimento in cemento e puntato contro tre fari. Non avevamo il permesso di
dormire. Per la polvere, gli occhi mi lacrimavano così tanto che non vedevo le
pallide facce sudate intorno a me, per non parlare dei volti dei soldati che
stavano di guardia appena al di fuori del cerchio di luce. Per qualche strano
motivo, avevano smesso di essere semplicemente uomini e donne interi. Nella
foschia grigia del dormiveglia, li percepivo solo a piccoli pezzi terrificanti: la
puzza di gasolio del loro lucido da scarpe, il fruscio del cuoio rigido, la smorfia
di disgusto che storceva loro le labbra. La punta di uno stivale che mi scavava
nel fianco, obbligandomi a svegliarmi.
Il mattino dopo, viaggiammo in totale silenzio, a eccezione delle radio dei
soldati e dei bambini che piangevano in fondo all’autobus. Il bambino seduto
all’altra estremità del nostro sedile se la fece addosso, ma non aveva intenzione
di dirlo alla soldatessa dai capelli rossi in piedi accanto a lui. La donna lo aveva
preso a schiaffi quando si era lamentato di non aver mangiato nulla per tutto il
giorno.
Flettei i piedi nudi sul pavimento, sforzandomi di tenere ferme le gambe. La
fame dava alla testa anche a me, e risaliva in superficie di tanto in tanto,
superando persino le fitte di terrore che mi trafiggevano. Era difficile
concentrarsi, e ancora più difficile rimanere fermi; mi sembrava di rimpicciolire,
mentre tentavo di fondermi con lo schienale del sedile e scomparire. Stavo
iniziando a perdere la sensibilità alle mani dopo averle avute legate nella stessa
posizione così a lungo. Cercare di allentare il laccio di plastica che le stringeva
non faceva altro che forzarlo più in profondità, dove la pelle era più morbida.
FSP, Forze Speciali Psi; era così che l’autista dell’autobus aveva presentato se
stesso e i compagni quando erano venuti a prenderci al magazzino. Dovete
venire con noi per ordine del comandante delle Forze Speciali Psi, Joseph
Traylor. Aveva fatto vedere un foglio per dimostrarlo, quindi credo che fosse
vero. In ogni caso, mi avevano insegnato a non discutere con gli adulti.
L’autobus si allontanò dalla stretta strada e ne imboccò una ancora più piccola,
sterrata. Le nuove vibrazioni svegliarono chiunque fosse stato così fortunato, o
esausto, da addormentarsi. E diedero il segnale alle uniformi nere: uomini e
donne si raddrizzarono, rivolgendo l’attenzione al parabrezza.
Per prima cosa vidi l’alta recinzione. Il cielo, di un grigio sempre più scuro,
copriva di un blu profondo e rabbioso ogni cosa, tranne la recinzione, che
brillava d’argento mentre il vento fischiava tra gli spiragli. Appena al di sotto del
mio finestrino c’erano decine di uomini e donne in uniforme, che facevano da
scorta all’autobus correndo veloci. I soldati FSP nel gabbiotto al cancello si
alzarono e rivolsero un saluto militare al passaggio dell’autista.
L’autobus si fermò con uno scossone, e fummo costretti a rimanere immobili
come cadaveri mentre i cancelli dell’accampamento si serravano alle nostre
spalle. I lucchetti, richiudendosi, schioccarono come tuoni nel silenzio. Non
eravamo il primo autobus ad attraversarli; quello era arrivato un anno addietro.
Non eravamo nemmeno l’ultimo. Quello sarebbe arrivato tre anni dopo, quando
l’accampamento avrebbe raggiunto la popolazione massima.
Ci fu un unico respiro immobile prima che un soldato con un impermeabile
nero battesse alla porta dell’autobus. L’autista si sporse e tirò una leva, mettendo
fine alla speranza di tutti noi che quella fosse una fermata temporanea.
Era un uomo enorme, del tipo che ci si aspetterebbe di vedere nei panni del
gigante malvagio in un film, o del cattivo in un cartone animato. Il FSP tenne su
il cappuccio, nascondendo il viso e i capelli e ogni dettaglio che permettesse di
riconoscerlo in un secondo tempo. Credo che non avesse importanza. Non
parlava a proprio nome, parlava a nome dell’accampamento.
«Alzatevi e uscite dall’autobus in una fila ordinata», urlò. L’autista tentò di
mettergli in mano un microfono, ma il soldato lo allontanò con un gesto.
«Verrete divisi in gruppi di dieci, e sottoposti a un test. Non provate a fuggire.
Non parlate. Non fate altro che ciò che vi viene richiesto. Se non seguirete
queste istruzioni sarete puniti.»
Con i miei dieci anni, ero tra i più giovani su quell’autobus, anche se di sicuro
c’era qualcuno di ancora più giovane. La maggior parte sembrava avere dodici,
tredici anni. L’odio e il sospetto che bruciavano negli occhi dei soldati mi
facevano accartocciare su me stessa, ma nei ragazzi più grandi scatenavano la
ribellione.
«Vai a quel paese!» urlò qualcuno dal fondo dell’autobus.
Ci girammo tutti nello stesso momento, appena in tempo per vedere la donna
dai capelli rosso fuoco colpire la bocca del ragazzino con il calcio del fucile. Lui
lanciò un grido di dolore e di sorpresa quando la soldatessa lo colpì nuovamente
e, al suo secondo, rabbioso respiro, vidi uno spruzzo di sangue esplodergli dalla
bocca. Con le mani dietro la schiena, non aveva modo di bloccare l’attacco. Non
poteva far altro che subire.
Cominciarono a farci scendere, quattro alla volta. Ma io continuavo a
guardare quel bambino, e il modo in cui sembrava oscurare l’aria intorno a sé
con una furia tossica e silenziosa. Non so se si fosse accorto che lo fissavo, ma si
girò a guardarmi. Mi fece un cenno con la testa, come un incoraggiamento. E,
quando mi sorrise, mise in mostra la bocca piena di denti sanguinolenti. Mi
sentii sollevare dal sedile e, quasi prima di rendermi conto di cosa stesse
succedendo, stavo scivolando lungo la scaletta umida dell’autobus e
inciampando verso la pioggia battente. Un altro soldato FSP mi sollevò da terra e
mi indirizzò verso altre due ragazzine più o meno della mia età. I vestiti
pendevano loro addosso come pelle vecchia, cascante e semitrasparente.
C’erano quasi venti FSP intorno alla piccola fila ordinata di bambini. I miei
piedi erano completamente affondati nel fango. Iniziai a tremare nel mio pigiama
leggero, ma nessuno se ne accorse e nessuno venne a tagliare il laccio di plastica
che ci stringeva le mani. Restammo in attesa, in silenzio, con le lingue strette tra
i denti. Alzai lo sguardo verso le nubi, con il viso esposto alla pioggia battente.
Sembrava che il cielo stesse cadendo, un pezzo dopo l’altro.
I soldati stavano portando fuori a forza l’ultimo gruppo di quattro, lasciandoli
cadere a terra, compreso il ragazzino ferito al volto. Era l’ultimo, un passo dietro
a una ragazza alta e bionda dallo sguardo vacuo. A malapena li distinguevo tra i
rovesci di pioggia e i finestrini appannati, ma ero sicura di aver visto il ragazzino
chinarsi e sussurrarle qualcosa all’orecchio mentre lei posava il piede sul primo
gradino della discesa. La ragazza fece un secco cenno di assenso. Appena sfiorò
il fango con la punta degli stivali, si lanciò sulla destra, evitando per un soffio le
mani del soldato FSP più vicino. Uno dei soldati FSP abbaiò un terrificante:
«Altolà!» ma lei continuò a correre, dritta verso i cancelli. Poiché tutti erano
concentrati su di lei, nessuno degnò di uno sguardo il ragazzino rimasto
sull’autobus; nessuno tranne me.
Scese i gradini con circospezione. La sua felpa bianca con il cappuccio era
coperta di macchie di sangue. La FSP che poco prima lo aveva colpito lo stava
aiutando a scendere, come aveva fatto con tutti noi. La osservai stringere le dita
sul gomito del ragazzino e sentii l’eco della sua stretta sulla mia pelle livida;
osservai il ragazzino voltarsi verso di lei e dirle qualcosa con espressione
perfettamente calma.
Osservai la FSP lasciare la presa, estrarre la pistola dal fodero e, senza dire
una parola – senza battere ciglio – infilarsi la canna della pistola in bocca e
premere il grilletto.
Non so se fui io a urlare, o se quel suono strozzato provenisse dalla donna che
si era accorta di cosa stesse facendo quando ormai era troppo tardi per fermarsi.
L’immagine del suo viso – la mascella spalancata, gli occhi fuori dalle orbite, il
tremito della pelle ormai flaccida – rimase impressa a fuoco nell’aria, come un
negativo fotografico, ben più a lungo dello spruzzo di nebbia rosata di sangue e
ciocche di capelli che si stampò sulla fiancata dell’autobus.
Il bambino accanto a me svenne, e tutti ci mettemmo a urlare.
La FSP cadde a terra nello stesso momento in cui la ragazza in fuga venne
spinta nel fango. La pioggia lavò via il sangue della donna dai finestrini e dalla
fiancata, creando strisce scure e gonfie, e allungandole fino a farle scomparire.
Accadde molto in fretta.
Il ragazzino guardava solo noi. «Correte!» urlò, tra i denti rotti. «Cosa fate lì
impalati? Scappate, scappate!»
Il primo pensiero a passarmi per la testa non fu: Ma tu cosa sei? E nemmeno:
Perché?
Fu: Ma non ho un altro posto dove andare.
Il ragazzino aveva causato un panico tale che sembrava avesse fatto esplodere
l’autobus. Alcuni gli diedero retta e tentarono di correre verso la recinzione, ma
trovarono la strada sbarrata da una fila di soldati in nero che sembravano essere
sbucati dal nulla. La maggior parte, però, rimase immobile e continuò a urlare e
urlare e urlare, mentre la pioggia non smetteva di cadere e il fango risucchiava i
loro piedi. Una ragazza mi spinse a terra con una spallata mentre gli altri FSP si
lanciarono sul ragazzino, ancora in piedi all’ingresso dell’autobus. Gli altri
soldati ci urlavano di sederci a terra, di rimanere fermi dov’eravamo. Feci
esattamente ciò che dicevano.
«Arancione!» sentii uno di loro strillare nel walkie-talkie. «Abbiamo
un’emergenza al cancello principale. Bisogna immobilizzare un Arancione…»
Fu solo dopo che ci ebbero radunati tutti ed ebbero spinto a terra il ragazzino
con la faccia tumefatta che osai alzare lo sguardo. E che cominciai a
domandarmi, tra i brividi di terrore che mi percorrevano la schiena, se fosse
l’unico in grado di fare qualcosa del genere. O se tutti gli altri, intorno a me, si
trovassero lì perché erano in grado di costringere la gente a farsi del male in quel
modo.
Io no – le parole mi esplodevano in testa – io no, hanno fatto un errore, un
errore.
Con un senso di vuoto al centro del petto, continuai a guardare, mentre uno
dei soldati prese una bomboletta di vernice e dipinse una enorme arancione
X
sulla schiena del ragazzino, il quale aveva smesso di urlare solo perché due FSP
gli avevano messo una strana maschera nera sulla parte bassa del viso, come una
museruola.
La tensione mi colava sulla pelle sotto forma di gocce di sudore. Ci fecero
marciare in fila attraverso il campo, per essere smistati in infermeria.
Camminando, vedemmo altri bambini, provenienti da una fila di patetiche
baracche di legno, procedere in direzioni opposte. Tutti indossavano uniformi
bianche con una grossa colorata sulla schiena e un numero scritto in nero al di
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sopra. Vidi cinque colori in totale: verde, blu, giallo, arancione e rosso.
I bambini con le verdi e blu potevano camminare in libertà, con le mani
X
slegate. Quelli con una gialla, arancione o rossa erano costretti a farsi strada a
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forza nel fango con le mani e i piedi chiusi in manette di metallo, legati in fila da
una lunga catena. Quelli con le arancioni avevano maschere simili a museruole.
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retro delle magliette. Verde, pensai. Quali erano gli altri colori? Rosso, Blu,
Giallo, e…
E Arancione. Come il ragazzino dalla bocca insanguinata.
«D’accordo», disse l’uomo, facendo un gran sospiro. «Sdraiati sulla brandina,
e cominciamo. Subito, per favore.»
Non mi mossi. I pensieri mi si affollavano in testa troppo velocemente.
Faticavo persino a guardarlo in faccia.
«Subito», ripeté, avvicinandosi alla macchina. «Non costringermi a chiamare
uno dei soldati. Non saranno certo gentili come me, credimi.»
Sul pannello laterale, uno schermo si accese al primo tocco, e presto l’intera
macchina si illuminò. Al centro del cerchio grigio c’era una luce bianca e
brillante, che lampeggiava caricandosi per il test successivo. Emetteva aria calda
a scatti, con rumore lamentoso, e sembrava pizzicarmi ogni poro della pelle.
Non riuscivo a pensare ad altro che: Lo scoprirà… scoprirà cos’ho fatto.
Avevo la schiena di nuovo appoggiata contro la porta, e con la mano cercavo
la maniglia, alla cieca. Ogni singola predica di mio padre sul non dare retta agli
estranei sembrava diventare realtà. Quello non era un posto sicuro, e quell’uomo
non era un tipo per bene.
Tremavo così tanto che doveva aver pensato che stessi per svenire. Oppure
che gli sarebbe toccato stendermi a forza e tenermi ferma fino a che la macchina
si fosse abbassata e richiusa su di me. Non ero pronta a scappare prima, ma lo
ero in quel momento. Strinsi le dita sulla maniglia, e nello stesso istante sentii la
sua mano spingersi nella mia massa di capelli disordinati e afferrarmi la nuca. Lo
shock delle sue mani gelide sulla mia pelle accaldata mi fece sobbalzare, ma fu
l’esplosione di dolore alla base del cranio che mi fece urlare.
Mi fissò, senza battere le palpebre, con occhi improvvisamente vacui.
Ma io vedevo ogni cosa, cose impossibili. Mani che tamburellavano sul
volante di un’auto, una donna in abito nero che si chinava a baciarmi, una palla
da baseball che volava verso il mio viso nel mezzo di un campo, un prato verde
che sembrava estendersi all’infinito, una mano che scivolava tra i capelli di una
bambina… Le immagini scorrevano dietro ai miei occhi chiusi come un vecchio
filmino amatoriale. Le forme di persone e oggetti si imprimevano a fuoco nelle
mie retine e vi rimanevano, galleggiando sulle palpebre come fantasmi affamati.
Non sono mie, strillava la mia mente. Queste immagini non appartengono a
me!
Ma come potevano appartenere a lui? Ogni immagine… erano forse ricordi?
Pensieri?
Poi vidi altro. Un ragazzo, sotto la stessa macchina scanner che lampeggiava e
fumava. Giallo. Sentii le mie labbra formare le parole, come se fossi stata io a
pronunciarle. Vidi una bambina piccola, dai capelli rossi, all’altro lato di una
stanza molto simile a questa; la vidi alzare un dito, e la tavola e il computer
davanti a lei si alzarono da terra di diversi centimetri. Blu… di nuovo, la voce
dell’uomo nella mia testa. Un bambino che teneva una matita tra le mani e la
osservava con intensità terrificante; la matita scoppiò in fiamme. Rosso. Un viso
di bambino, a cui venivano mostrate carte con disegni e numeri. Verde.
Chiusi gli occhi e li strinsi, ma non riuscii a sottrarmi alle immagini che
seguirono: le fila di mostri in marcia, i visi coperti da una museruola.
Mi trovavo in alto, a osservare da dietro un vetro coperto di pioggia, ma vidi
le manette e le catene. Vidi ogni cosa.
Non sono una di loro. Per favore, per favore, per favore…
Scivolai a terra, cadendo in ginocchio, appoggiando le mani sulle piastrelle e
tentando di non vomitare su me stessa e sul pavimento.
L’uomo in camice bianco mi stringeva ancora le mani sul collo. «Sono
Verde», singhiozzai, e le parole quasi si persero nel ronzio della macchina.
La luce mi era sembrata abbagliante già prima, ma in quel momento
amplificava il dolore pulsante dietro ai miei occhi. Fissai lo sguardo vacuo
dell’uomo, desiderando che mi credesse. «Sono Verde… ti prego, ti prego…»
Ma vidi il viso di mia madre, il sorriso che il ragazzino con la bocca spaccata
mi aveva rivolto, come se avesse riconosciuto qualcosa di se stesso in me.
Sapeva cos’ero.
«Verde…»
Alzai gli occhi al suono della voce che discese galleggiando su di me. Lo
fissai, e lui mi restituì lo sguardo con occhi ancora vacui. Stava mormorando
qualcosa, con la bocca piena di poltiglia, come se stesse masticando le parole.
«Sono…»
«Verde», disse, scuotendo la testa. La sua voce sembrava più solida. Andò a
spegnere la macchina e si sedette, mentre io rimasi sul pavimento, ancora
talmente scioccata che mi dimenticai persino di piangere. Ma fu solo quando
prese la bomboletta verde e mi fece una enorme sulla schiena dell’uniforme che
X
SAMANTHA – Sam – e io fummo assegnate alla baracca 27, insieme alle altre ragazze
del nostro autobus classificate come Verdi. Quattordici in tutto, anche se il
giorno dopo ne arrivarono altre venti. Il record di trenta fu raggiunto una
settimana più tardi, e si iniziò a riempire la successiva casetta di legno lungo il
sentiero principale del campo, perennemente infangato e calpestato.
I posti nei letti a castello venivano assegnati in ordine alfabetico, perciò Sam
si trovò direttamente sopra di me: un piccolo gesto di pietà, dato che il resto
delle ragazze non erano affatto simili a lei. Avevano trascorso la prima notte in
silenzio stupefatto, o a singhiozzare. Io non avevo più tempo per le lacrime.
Avevo domande.
«Cosa ne faranno di noi?» le chiesi in un sussurro.
Il nostro letto a castello si trovava all’estremità sinistra della baracca,
incastrato nell’angolo. I muri erano stati assemblati con tale fretta che non erano
del tutto isolati. Di tanto in tanto filtrava uno spiffero di aria gelida o un fiocco di
neve dal silenzio all’esterno.
«Non so», rispose piano. Un paio di letti più in là, una delle ragazze aveva
finalmente ceduto all’oblio del sonno, e il suo russare aiutava a coprire la nostra
conversazione. Quando il soldato FSP ci aveva scortate alla nostra nuova
residenza, lo aveva fatto con diversi avvertimenti: non si deve parlare dopo che
si sono spente le luci, non ci si deve allontanare, non si devono usare strane
abilità. Fu la prima volta che sentii qualcuno parlare di ciò che potevamo fare
come di «strane abilità», invece dell’alternativa più educata «sintomi».
«Penso che ci terranno qui finché avranno trovato una cura», continuò Sam.
«Mio padre, almeno, ha detto così quando i soldati sono venuti a prendermi.
Cos’hanno detto i tuoi genitori?»
Le mie mani non avevano ancora smesso di tremare, e ogni volta che tentavo
di chiudere gli occhi non vedevo altro che lo sguardo vuoto dello scienziato fisso
nel mio. Nominare i miei genitori non fece altro che aumentare il dolore pulsante
nella mia testa.
Non so perché mentii. Era più facile, credo, della verità; o forse era solo
perché una parte della mia bugia era in effetti una verità. «I miei genitori sono
morti.»
Sam sospirò a fondo a denti stretti. «Vorrei che anche i miei lo fossero.»
«Non dici sul serio!»
«Sono loro che mi hanno mandata qui, non è così?» Il volume della sua voce
stava salendo in modo pericoloso. «È ovvio che volessero sbarazzarsi di me.»
«Non credo…» iniziai, ma mi fermai. Forse anche i miei avevano provato a
sbarazzarsi di me, dopotutto.
«Lascia stare, va bene così», disse, anche se era chiaro che non andasse bene,
e non sarebbe mai andato bene. «Rimarremo qui e ce ne staremo insieme; e,
quando usciremo, potremo andare dove vogliamo e nessuno ci potrà fermare.»
La mamma diceva sempre che a volte bastava dire una cosa ad alta voce per
farla diventare realtà. Io non ne ero così sicura, ma il modo in cui Sam lo disse, il
fuoco dietro le sue parole, mi fecero ricredere. Improvvisamente mi sembrò
possibile che andasse a finire proprio così, che se non fossi riuscita a tornare a
casa sarebbe comunque andato tutto bene se fossi rimasta insieme a lei. Era
come se, ovunque Sam andasse, aprisse un sentiero alle proprie spalle; non
dovevo far altro che starle dietro, fuori dal campo visivo delle FSP, e non fare
niente che potesse attirare la loro attenzione su di me.
Funzionò per cinque anni.
Cinque anni sembrano un’eternità quando ogni giorno è uguale al successivo,
e il tuo mondo non si estende oltre la grigia recinzione elettrificata che circonda
tre chilometri di edifici fatiscenti e fango. Non sono mai stata felice a Thurmond,
ma era sopportabile perché c’era Sam. Era accanto a me ad alzare gli occhi al
cielo quando Vanessa, una delle nostre compagne di stanza, aveva tentato di
tagliarsi i capelli con le cesoie per sembrare più «alla moda» («Per chi?» aveva
borbottato Sam. «Per il suo riflesso nello specchio del bagno?»); a fare una
smorfia sciocca, con gli occhi strabici, dietro le spalle del soldato FSP che le
faceva la predica per aver di nuovo aperto bocca senza essere stata interpellata; e
a riportare severamente – ma sempre con gentilezza – le ragazze con i piedi per
terra quando si facevano trascinare dall’immaginazione o quando si spargeva la
voce che le FSP ci avrebbero lasciate andare.
Sam e io eravamo realiste: sapevamo che non saremmo mai uscite. Sognare a
occhi aperti non avrebbe portato altro che delusione, e la delusione portava a
quella sorta di depressione che non era facile da scrollare via. Meglio rimanere
nel grigiore che farsi divorare dalle tenebre.
Dopo due anni di vita a Thurmond, la dirigenza del campo si mise al lavoro
sulla fabbrica. Non erano riusciti a riabilitare i più pericolosi, così li avevano
portati via nel cuore della notte, ma i cosiddetti «miglioramenti» non finirono lì.
Venne loro in mente che il campo doveva essere interamente «autosufficiente».
Da quel momento in avanti, avremmo coltivato e cucinato il nostro cibo, pulito i
bagni, cucito le nostre uniformi e persino le loro.
La struttura di mattoni si trovava all’estremità occidentale del campo, chiusa
in un angolo del perimetro rettangolare di Thurmond. Ci fecero scavare le
fondamenta della fabbrica, ma i dirigenti non si fidavano abbastanza da farcela
anche costruire. La osservammo crescere di un piano alla volta, domandandoci a
cosa servisse, e cosa ci avrebbero fatto fare al suo interno. In quel periodo, i
pettegolezzi svolazzavano nel campo come semi di dente di leone nel vento;
alcuni pensavano che gli scienziati stessero per tornare con altri esperimenti;
alcuni pensavano che il nuovo edificio avrebbe ospitato i Rossi, gli Arancioni e i
Gialli se e quando fossero ritornati; altri invece pensavano che lì ci avrebbero
fatto fuori, una volta per tutte.
«Andrà tutto bene», mi aveva detto Sam una notte, poco prima che si
spegnessero le luci. «Qualsiasi cosa accada… mi hai sentita?»
Ma non andava bene. Non andò bene allora, e non andava bene in quel
momento.
Non si poteva parlare nella fabbrica, ma c’erano modi di aggirare il divieto. In
realtà, l’unico momento in cui effettivamente avevamo il permesso di parlare era
nella nostra baracca, prima che si spegnessero le luci. In ogni altro posto, c’era
solo lavoro, obbedienza, silenzio. Ma non si può andare avanti per anni senza
sviluppare un altro tipo di linguaggio, fatto di sorrisetti astuti e rapidi sguardi.
Quel giorno, dovevamo lucidare e riallacciare gli stivali delle FSP, e stringere
i bottoni delle uniformi, ma un solo dondolio di un laccio nero slegato e
un’alzata delle sopracciglia erano più eloquenti di mille parole.
La fabbrica non era una vera fabbrica. Probabilmente, «magazzino» sarebbe
stato un nome più indicato, se non altro perché l’edificio era costituito da una
enorme sala con una passerella sospesa sul piano di lavoro. I costruttori avevano
avuto la buona idea di creare quattro grandi finestre sui muri a est e a ovest, ma
siccome non c’era riscaldamento in inverno né aria condizionata in estate,
lasciavano entrare più maltempo che luce solare.
I dirigenti del campo avevano privilegiato la semplicità; avevano installato file
e file di tavoli, nel senso della lunghezza, sul polveroso pavimento di pietra.
Eravamo in centinaia a lavorare nella fabbrica quella mattina, tutti in uniforme
Verde. Dieci FSP pattugliavano la passerella sopra di noi, ciascuno con un fucile
nero. Altri dieci erano con noi al piano terra.
Non era più inquietante del solito sentire il peso dei loro sguardi, provenienti
da ogni direzione. Ma non avevo dormito bene la notte prima, persino dopo una
giornata intera di lavoro nel giardino. Ero andata a letto con il mal di testa e mi
ero svegliata con una patina di nebbia febbricitante nel cervello, accompagnata
dal mal di gola. Persino le mie mani sembravano in letargo, e avevo le dita rigide
come matite.
Sapevo di non riuscire a tenere il passo, ma era quasi come affogare. Più mi
davo da fare per tirare la testa fuori dall’acqua, più mi sentivo stanca e lenta.
Dopo un po’, persino rimanere in piedi era uno sforzo troppo grande, e dovetti
appoggiarmi al tavolo per evitare di cascarci dentro a capofitto. La maggior parte
dei giorni, me la cavavo tenendo un ritmo da lumaca. Non che ci facessero fare
dei lavori di grande importanza, o che avessimo delle scadenze di consegna. I
compiti che ci venivano assegnati erano faccende inutili, per tenere le mani in
movimento, il corpo impegnato e la mente soffocata dalla noia. Sam lo chiamava
«ricreazione forzata»: ci facevano uscire dalle baracche, e il lavoro non era
difficile o stancante come nel giardino, ma nessuno lo voleva fare.
Specialmente quando nel parco giochi arrivavano i bulli.
Mi accorsi che era alle mie spalle molto prima di sentirlo iniziare a contare le
scarpe che avevo finito di lucidare, in fila davanti a me. Odorava di carne
speziata e olio per auto, che era già una combinazione preoccupante prima
ancora che si aggiungesse una zaffata di fumo di sigaretta. Tentai di raddrizzare
la schiena sotto il peso del suo sguardo, ma sembrava che avesse stretto i pugni e
affondato le nocche tra le mie scapole.
«Quindici, sedici, diciassette…» Come faceva a far sembrare anche i numeri
così taglienti? A Thurmond non potevamo nemmeno sfiorarci, ed era
severamente vietato toccare uno delle FSP, ma ciò non significava che loro non
potessero toccare noi. L’uomo fece due passi avanti; i suoi stivali – identici a
quelli sul tavolo – sfiorarono il retro dei miei mocassini bianchi d’ordinanza.
Dato che non rispondevo, infilò un braccio oltre la mia spalla con la scusa di
voler controllare il lavoro che avevo svolto, e mi strinse a sé. Rimpicciolisciti,
dissi a me stessa, accartocciando la spina dorsale e abbassando il viso verso il
lavoro, rimpicciolisciti e sparisci.
«Imbranata», sentii bofonchiare il soldato FSP dietro di me. Il suo corpo
emanava abbastanza calore da riscaldare l’intero edificio. «Stai facendo un gran
pasticcio. Guarda, fai attenzione, ragazzina!»
Azzardai il primo sguardo nella sua direzione proprio quando mi strappò di
mano lo straccio macchiato di lucido da scarpe e si spostò al mio fianco. Era
basso, solo qualche centimetro più alto di me, e aveva un naso a patata e guance
che sembravano afflosciarsi a ogni respiro.
«Così», diceva, sfregando lo stivale che aveva in mano. «Guardami!»
Un trucco. Non avevamo nemmeno il permesso di guardarli negli occhi.
Udii delle risatine intorno a me: non dalle altre ragazze, ma dai soldati FSP
che gli si erano radunati intorno.
Mi sentii ribollire, dentro e fuori. Era dicembre, e nella fabbrica non potevano
esserci più di dieci gradi, ma gocce di sudore mi rigavano le guance e una tosse
dura, graffiante, mi si formò nella gola.
Sentii un tocco leggero sul fianco. Sam non poteva alzare lo sguardo dal suo
lavoro, ma vidi i suoi occhi scivolare verso di me, per valutare la situazione.
Un’onda di rosso furibondo si stava facendo strada dalla sua gola al viso, e
potevo solo immaginare le parole che tentava di trattenere. Il suo gomito ossuto
sfiorò ancora una volta il mio, come a ricordarmi che si trovava lì. Poi, con una
lentezza esasperante, il soldato FSP tornò dietro di me, sfiorandomi la spalla e il
braccio e depositando delicatamente lo stivale sul tavolo di fronte a me.
«Questi stivali», disse con voce bassa e avvolgente, toccando il cesto di
plastica che conteneva tutti gli stivali che avevo già pulito, «li hai allacciati tu?»
Se non avessi saputo che tipo di punizione seguiva al pianto, sarei scoppiata in
lacrime. Più rimanevo lì ferma, più mi sentivo stupida e umiliata, ma non
riuscivo a dire niente. Non riuscivo a muovermi. La mia lingua era raddoppiata
di volume dietro ai denti stretti. I pensieri che mi ronzavano in testa erano
sbiaditi, coperti da una strana coltre lattiginosa. Mettevo a malapena a fuoco ciò
che vedevo, ormai.
Altre risate, dietro di noi.
«I lacci sono tutti storti.» Con l’altro braccio mi strinse il fianco sinistro, fino
a che ogni centimetro del suo corpo aderì al mio. Qualcosa di nuovo mi salì in
gola, e aveva un forte sapore acido.
I tavoli intorno a noi divennero immobili, sprofondati nel silenzio.
Il mio silenzio non fece che istigarlo. Senza preavviso, afferrò il cesto di
stivali e lo rovesciò, sparpagliando decine di scarpe lungo tutto il tavolo e
facendo un gran baccano. L’intera fabbrica ci stava guardando. Tutti mi videro,
come sotto ai riflettori.
«Sbagliati, sbagliati, sbagliati, sbagliati, sbagliati!» cantilenò, scalciando gli
stivali. Ma non lo erano. Erano perfetti. Erano solo stivali, ma sapevo a quali
piedi erano destinati. Sapevo bene di non poter sbagliare. «Sei sorda oltre che
muta, Verde?»
E poi, chiaro come il sole e con un rombo di tuono, sentii Sam dire: «Quello
era il mio cesto».
E il mio unico pensiero fu: No. Oh no.
Sentii il soldato FSP spostarsi alle mie spalle, arretrare sorpreso. Facevano
sempre così: si stupivano che ci ricordassimo come usare le parole, e che le
usassimo contro di loro.
«Cos’hai detto?» ringhiò.
Vidi l’insulto salirle alle labbra. Lo stava rigirando sulla lingua come una
caramella al limone. «Mi hai sentito. Oppure sniffare tutto quel lucido da scarpe
ha fatto fuori quei pochi inutili neuroni che ti erano rimasti?»
Quando Sam mi guardò, sapevo già cosa volesse. Sapevo cosa stesse
aspettando. Era la stessa cosa che aveva dato a me: sostegno.
Feci un passo indietro, mettendomi a braccia conserte. Non farlo, mi dissi, non
farlo. Può cavarsela da sola. Sam non aveva niente da nascondere, ed era
coraggiosa, ma ogni volta che faceva così, ogni volta che mi difendeva mentre io
mi nascondevo per la paura, mi sembrava di tradirla. Se avessero controllato la
mia cartella, se avessero individuato e riempito gli spazi vuoti, nemmeno la
peggior punizione di Sam sarebbe stata paragonabile a quella in serbo per me.
Quello era ciò che mi ripetevo, in ogni caso.
L’uomo fece un ghigno derisorio. «Ne abbiamo trovata una vivace.»
Su, dai, Ruby. Si vedeva nella posizione della sua testa e nella tensione delle
spalle. Non capiva cosa mi sarebbe successo. Non ero coraggiosa quanto lei.
Ma avrei voluto esserlo, lo avrei voluto tanto.
Non posso. Non dovetti nemmeno dirlo ad alta voce. Lo lesse facilmente sul
mio viso. Vidi la comprensione passare nei suoi occhi prima ancora che il
soldato facesse un passo avanti, afferrandola per il braccio e strattonandola
lontano dal tavolo e da me.
Voltati, implorai. La sua coda bionda ondeggiava a ogni passo, sbucando oltre
le spalle del soldato FSP che la scortava all’esterno. Voltati. Volevo che vedesse
quanto fossi dispiaciuta, che capisse che la stretta al mio petto e la nausea non
avevano niente a che vedere con la febbre. Ogni singolo pensiero disperato che
mi passava per la testa mi riempiva di disgusto. Gli occhi che si erano fissati su
di me si alzarono due a due, e il soldato non si degnò di tornare a concludere il
suo speciale tormento. Non era rimasto nessuno a guardarmi piangere; avevo
imparato a farlo silenziosamente, senza scenate, anni addietro. Non avevano
ragione di degnarmi nemmeno di uno sguardo. Ero tornata a nascondermi
nell’ombra lasciata da Sam.
La punizione per quando si parlava senza essere stati interpellati era una
giornata in isolamento, ammanettati a uno dei pali nel giardino con qualsiasi
temperatura o condizione meteorologica. Avevo visto bambini seduti su mucchi
di neve, blu in viso, senza nemmeno una coperta per ripararsi. Ne avevo visti
ancora di più bruciati dal sole, coperti di fango, o impegnati a grattare le punture
degli insetti con l’unica mano libera.
Non mi stupiva che la punizione per aver risposto a un soldato FSP o a un
dirigente fosse la stessa, ma in quell’ultimo caso senza cibo e a volte persino
senz’acqua.
La punizione per la recidiva era qualcosa di così terribile che Sam non volle o
non poté parlarne quando, due giorni dopo, finalmente tornò alla nostra baracca.
Entrò zuppa di pioggia e con i brividi per il freddo, e sembrava non aver dormito
più di quanto avessi fatto io. Prima che fosse arrivata a metà strada, scivolai giù
dalla branda e corsi al suo fianco.
Infilai la mano sotto il suo braccio ma lei si ritrasse, stringendo i denti in un
modo che la fece sembrare inferocita. Il naso e le guance erano paonazzi per il
freddo, ma non aveva lividi né ferite. Non aveva gli occhi gonfi di pianto, a
differenza di me. Zoppicava leggermente a ogni passo, forse, ma se non avessi
saputo cos’era successo avrei pensato solo che stesse rientrando da un
pomeriggio particolarmente faticoso nel giardino.
«Sam», dissi detestando il tremito nella mia voce. Non si fermò né si degnò di
rivolgermi uno sguardo finché fummo vicino ai nostri letti a castello e lei ebbe
stretto un pugno sulle coperte, pronta a issarsi sul letto di sopra.
«Di’ qualcosa, ti prego.»
«Sei rimasta lì.» La sua voce era bassa e roca, come se non l’avesse usata da
giorni.
«Non avresti dovuto…»
Abbassò il mento sul petto. La massa arruffata dei suoi lunghi capelli le scese
sulle spalle e sulle guance, nascondendo la sua espressione. Sentii in quel
momento che la presa che avevo avuto su di lei era improvvisamente saltata.
Ebbi la stranissima sensazione di galleggiare, di allontanarmi sempre di più
senza potermi aggrappare a niente e a nessuno. Ero a fianco a lei, ma la distanza
tra noi si era trasformata in un canyon che non potevo più attraversare con un
balzo.
«Hai ragione», disse Sam alla fine, «non avrei dovuto.» Fece un respiro
spezzato dai brividi. «Ma allora, cosa sarebbe successo a te? Te ne saresti
rimasta lì e glielo avresti lasciato fare e non avresti mosso un dito per
difenderti.»
Poi alzò lo sguardo su di me, e io desiderai solo che lo allontanasse di nuovo. I
suoi occhi erano furenti e più scuri di quanto li avessi mai visti.
«Ti possono dire cose orribili, farti del male, ma tu non rispondi mai; e lo so,
Ruby, lo so, sei fatta così, ma a volte mi chiedo se ti importa qualcosa. Perché
non puoi mai farti valere, nemmeno una volta?»
La sua voce era praticamente un sussurro, ma il tono così roco mi fece pensare
che fosse sul punto di strillare o scoppiare in lacrime isteriche. Abbassai lo
sguardo sulle sue mani, che tiravano il bordo dei pantaloncini e si muovevano
frenetiche e veloci al punto che quasi non avevo visto i segni rossi e infiammati
che le circondavano i polsi.
«Sam, Samantha…»
«Voglio…» deglutì a fatica. Le lacrime le rimasero impigliate nelle ciglia,
senza cadere. «Voglio rimanere sola ora. Almeno per un po’.»
Non avrei dovuto tendere la mano verso di lei in quel momento, non sotto il
peso della febbre e dello sfinimento. Non mentre tremavo per l’odio profondo
verso me stessa. Ma in quel momento pensai che se solo avessi potuto dirle la
verità, spiegarle, non mi avrebbe più guardata in quel modo. Avrebbe saputo che
l’ultima cosa – l’ultima cosa in assoluto – che volevo era vederla soffrire per
colpa mia. Era tutto ciò che avevo, lì dentro.
Ma nell’istante in cui le mie dita sfiorarono la sua spalla, il mondo scomparve
sotto di me. Sentii un fuoco partire dalla punta dei capelli e bruciarmi fino al
cranio. La febbre che pensavo di aver sconfitto improvvisamente dipinse il
mondo di un grigio sfocato. Vidi il viso inespressivo di Sam, ma poi sparì,
rimpiazzato da ricordi incandescenti che non mi appartenevano: una lavagna
bianca, a scuola, riempita di problemi di matematica; un golden retriever che
scavava nell’erba; il mondo che saliva e scendeva visto da un’altalena; le radici
delle verdure estirpate dal giardino; il muro di mattoni in fondo alla sala mensa
contro il mio viso mentre un altro pugno si abbatteva su di me, un assalto veloce
da ogni direzione, come una serie di flash di una fotocamera.
E quando finalmente tornai in me, ci stavamo ancora fissando. Per un
secondo, pensai di vedere il mio viso inorridito riflesso nei suoi occhi scuri e
lucidi. Sam non stava guardando me; non sembrava guardare nient’altro che la
polvere che galleggiava pigra e libera nell’aria alla mia destra. Conoscevo quello
sguardo vacuo.
L’avevo visto su mia madre anni prima.
«Sei nuova qui?» domandò, improvvisamente spaventata e sulla difensiva.
Fece scorrere gli occhi dal mio viso alle ginocchia ossute, e ritorno. Respirò
profondamente, come se fosse appena tornata in superficie dopo molto tempo
sotto acque oscure. «Almeno ce l’hai un nome?»
«Ruby», sussurrai. Fu l’ultima parola che pronunciai per quasi un anno.
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«Va tutto bene», stava dicendo. «Vedrai che starai bene.» Non so chi credesse
di prendere in giro con la sua recita sdolcinata, ma di certo non me.
Lasciai che mi portasse di nuovo la salvietta bagnata al viso, assaporando il
suo calore quando si avvicinò a me. Profumava di rosmarino e di cose passate.
Per un secondo, uno solo, posò la mano sulla mia e fu quasi più di quanto potessi
sopportare.
Non ero a casa, e quella donna non era mia madre. Iniziai a boccheggiare, per
la disperazione di dovermi tenere tutto dentro. Non potevo piangere, non davanti
a lei né a nessun altro adulto. Non volevo dar loro la soddisfazione.
«Provi ancora dolore?»
L’unico motivo per cui aprii gli occhi fu che me li aprì lei, a forza. Uno alla
volta, puntando una luce intensa in ciascuno. Tentai di alzare le mani per
proteggerli, ma mi avevano legata con manette di velcro. Lottare era inutile.
La donna schioccò la lingua e fece un passo indietro, portando con sé il
profumo di fiori. L’odore di disinfettante e acqua ossigenata riempì l’aria, e capii
esattamente dove mi trovavo.
I suoni dell’infermeria di Thurmond crescevano e svanivano in ondate
diseguali. Un ragazzino piangeva dal dolore, stivali che sbattevano sulle
piastrelle bianche, il cigolio di una sedia a rotelle… mi sembrava di stare sopra a
un tunnel con l’orecchio premuto a terra, ad ascoltare il ronzio delle auto che
passavano sotto di me.
«Ruby?»
La donna indossava una tuta blu e un camice bianco. Con la pelle così pallida
e i capelli tanto biondi da sembrare bianchi, quasi scompariva contro la tenda
sottile che era stata tirata intorno al mio letto. Mi sorprese a fissarla e sorrise, un
sorriso ampio e attraente.
La donna era il dottore più giovane che avessi mai visto a Thurmond, anche se
devo ammettere di poter contare le mie visite all’infermeria sulle dita di una
mano. Ci finii una volta per un’influenza intestinale, disidratata dopo quello che
Sam aveva battezzato il mio Spettacolare Episodio di Vomito, e una volta per un
polso slogato. Entrambe le volte mi sentii molto peggio dopo essere stata
palpeggiata da mani rugose di quanto mi sentissi prima di andarci. Niente può
curare un raffreddore più velocemente del pensiero di un vecchio pervertito e
della sua acqua di colonia che puzza di alcol e di sapone per le mani al limone.
Questa donna era irreale. Ogni cosa di lei lo era.
«Sono la dottoressa Begbie. Sono una volontaria della Leda Corporation.»
Annuii, guardando lo stemma dorato a forma di cigno sul taschino del suo
camice.
Si avvicinò, chinandosi. «Siamo una grossa casa farmaceutica che fa ricerca e
manda i dottori a prendersi cura di voi nei campi. Se ti fa sentire più a tuo agio,
puoi benissimo chiamarmi Cate e lasciar perdere il ‘dottoressa’».
Come no. Rimasi a fissare la mano che aveva teso verso di me. Il silenzio
pesava tra noi, punteggiato dal dolore pulsante nella mia testa. Dopo un
momento di imbarazzo, la dottoressa Begbie rimise la mano nella tasca del
camice, ma non prima di averla lasciata indugiare sul laccio che fissava il mio
polso alle maniglie intorno al letto.
«Sai perché ti trovi qui, Ruby? Ricordi cos’è successo?»
Prima o dopo che la Torre ha tentato di friggermi il cervello? Ma non potevo
dirlo ad alta voce. Con gli adulti era meglio non parlare. Avevano l’abitudine di
sentire una cosa e capirne un’altra. Non c’era motivo di dar loro un ulteriore
pretesto per farti del male.
Erano passati otto mesi dall’ultima volta che avevo usato la voce. Non ero
nemmeno sicura di ricordarmi come fare.
La dottoressa in qualche modo intuì la domanda che stavo trattenendo a fatica.
«Hanno acceso il Controllo della Calma dopo che è scoppiata una lite in sala
mensa. Sembra che le cose siano… sfuggite di mano.»
Che eufemismo. Il Rumore Bianco – il Controllo della Calma, come lo
chiamavano i poteri forti – veniva usato per rimetterci in riga, per così dire,
mentre su di loro non aveva alcun effetto. Era come un fischietto per cani,
accordato perfettamente in modo che solo i nostri cervelli deformi potessero
percepirlo e analizzarlo.
Lo accendevano per un sacco di motivi, a volte cose minuscole come un
bambino che usava le proprie abilità per sbaglio, o per soffocare disordini in una
baracca. Ma, in entrambe le circostanze, avrebbero indirizzato il rumore solo
nell’edificio in cui si trovavano i ragazzini. Se lo usavano nell’intero campo,
sparandolo dagli altoparlanti per farlo sentire a tutti, le cose dovevano essere
davvero sfuggite di mano. Dovevano aver temuto che si trattasse di una scintilla
in grado di incendiare tutti noi.
Non c’era traccia di esitazione sul viso della dottoressa Begbie quando mi
slegò i polsi e le caviglie. La salvietta che aveva usato per pulirmi la faccia era
appesa al bordo del letto, e gocciolava a terra. La tela bianca era coperta di
macchie rosso acceso.
Alzai la mano a toccarmi la bocca, le guance, il naso.
Quando allontanai le dita, fui sorpresa solo in parte di vederle coperte di
sangue scuro. Era incrostato tra le mie narici e le labbra, come se qualcuno mi
avesse rifilato un gancio sul muso.
Tentare di mettermi a sedere fu l’idea peggiore che mi potesse saltare in
mente.
Il torace sembrò urlare dal dolore, e tornai sdraiata sulla schiena prima ancora
di rendermi conto di essere caduta. La dottoressa fu al mio fianco un istante
dopo, manovrando lo schienale del letto per mettermi in posizione seduta.
«Hai alcune costole incrinate.»
Provai a fare un respiro profondo, ma avevo il torace troppo contratto per
riuscire a inspirare qualcosa di più di un soffio strozzato. Lei non doveva
essersene accorta perché mi fissava di nuovo con quello sguardo gentile e
diceva: «Posso farti qualche domanda?»
Il fatto che mi chiedesse il permesso era stupefacente in sé e per sé. La
osservai, cercando l’odio sepolto sotto agli strati di gentilezza sul suo viso, la
paura nascosta negli occhi dolci, il disgusto impigliato nell’angolo del sorriso.
Niente. Nemmeno fastidio.
Un povero bambino iniziò a vomitare nel letto alla mia destra. Ne vedevo la
sagoma scura come un’ombra sulla tenda.
Non c’era nessuno a fargli compagnia o tenergli la mano. Solo lui e il suo
secchiello di vomito. E io me ne stavo lì, con il cuore che saltava i battiti per il
terrore che la principessa delle fiabe seduta accanto a me fosse sul punto di
sopprimermi come un cane rabbioso. Non sapeva cosa fossi veramente; non
poteva saperlo.
Ti stai facendo venire le paranoie, mi dissi. Datti una regolata.
La dottoressa Begbie estrasse una penna dallo chignon disordinato. «Ruby,
quando hanno acceso il Controllo della Calma, ti ricordi di essere caduta in
avanti e aver battuto la faccia?»
«No», risposi. «Ero… ero già a terra.» Non sapevo quanto rivelarle. Il sorriso
sul suo viso si allargò, e aveva qualcosa di… compiaciuto.
«Ti capita spesso di provare così tanto dolore e di sanguinare a causa del
Controllo della Calma?»
Improvvisamente, il dolore nel petto non ebbe più nulla a che fare con le
costole incrinate.
«Lo prendo come un no…»
Non vedevo cosa stesse scrivendo, solo che la mano e la penna volavano sulla
carta, scarabocchiando come se ne andasse della sua vita.
Pativo sempre il Rumore Bianco più delle mie compagne di stanza. Ma il
sangue? Mai.
La dottoressa canticchiava piano tra sé mentre scriveva, una canzone che
poteva essere dei Rolling Stones.
Sta con i dirigenti del campo, mi ricordai. È una di loro.
Ma… in un altro mondo, avrebbe potuto non esserlo. Anche se indossava la
tuta e il camice, non sembrava molto più grande di me. Aveva un viso giovane,
che probabilmente era un problema per lei nel mondo esterno.
Avevo sempre pensato che le persone nate prima della Generazione Mostro
fossero fortunate. Avevano vissuto senza la paura di cosa sarebbe accaduto loro
quando avessero attraversato il confine tra l’infanzia e l’adolescenza. Per quanto
ne sapevo, se avevi più di tredici anni quando avevano iniziato ad arrestare i
bambini, te ne stavi a casa libero, potevi evitarti la casella Campo dei Mostri nel
gioco dell’oca della vita e andartene dritto a Normalopoli. Ma guardando la
dottoressa Begbie, le profonde rughe di preoccupazione sul suo viso che nessuno
avrebbe dovuto avere al di sotto dei trent’anni, non ero più così sicura che
avessero scampato il pericolo. Avevano comunque ricevuto una mano migliore
della nostra.
Abilità. Poteri che sfuggivano a ogni spiegazione, talenti mentali così bizzarri
che i dottori e gli scienziati riclassificarono tutta la nostra generazione come Psi.
Non eravamo più umani. I nostri cervelli avevano superato quella categoria.
«Vedo dalla tua cartella clinica che sei stata classificata come ‘intelligenza
anormale’ allo smistamento», disse dopo un po’. «Lo scienziato che ti ha
smistata… ti ha fatto fare tutti i test?»
Sentii un nodo gelido nello stomaco. Forse non capivo granché del mondo,
forse avevo solo la quarta elementare, ma mi rendevo conto quando qualcuno
andava a caccia di informazioni. I soldati FSP prediligevano indurre il terrore già
da anni, ma c’era stato un tempo in cui anche le loro domande venivano
pronunciate con voce dolce.
La falsa compassione puzzava come l’alito cattivo.
Lo sa? Forse mi ha fatto degli esami mentre ero incosciente, e ha fatto uno
scan al mio cervello, o un’analisi del sangue, o che ne so. Strinsi le dita una a
una fino a formare i pugni. Mi sforzai di seguire il filo dei pensieri fino alla fine,
ma continuavo a impigliarmi nella possibilità. La paura rendeva le cose vaghe e
leggere.
La sua domanda rimase nell’aria, sospesa a metà tra la verità e una bugia.
Il rumore degli stivali sul pavimento immacolato mi costrinse a scostare gli
occhi lontano dal viso della dottoressa. Ogni passo era un avvertimento, e sapevo
che stavano arrivando prima ancora che la Begbie si voltasse. Fece per alzarsi
dalla barella, ma non glielo permisi. Non so cosa mi prese, ma la afferrai per il
polso, ripensando alla lista di punizioni per aver toccato una figura di autorità,
come un CD che salta, ogni graffio più netto del successivo. Non potevamo
toccare nessuno, nemmeno i nostri compagni.
«Stavolta è stato diverso», sussurrai, e le parole mi fecero male alla gola. La
mia voce sembrava diversa. Debole.
La dottoressa ebbe solo il tempo di annuire. Un movimento minuscolo, quasi
impercettibile, prima che una mano spalancasse la tenda.
Avevo già visto quel soldato delle Forze Speciali Psi; Sam lo chiamava il
Grinch, perché sembrava proprio uscito dal film, a parte la pelle verde. Il Grinch
mi lanciò uno sguardo, con una smorfia di fastidio, prima di chiamare la
dottoressa con un gesto. Lei sospirò e mi posò la cartellina in grembo.
«Grazie, Ruby. Se il dolore peggiora, chiama aiuto, d’accordo?»
Si era forse drogata? Chi sarebbe venuto ad aiutarmi, il bambino che vomitava
l’anima nel letto a fianco? Annuii in ogni caso, guardandola voltarsi e andarsene.
L’ultima immagine che ebbi di lei fu la mano che richiudeva la tenda. Era gentile
da parte sua lasciarmi un po’ di privacy, ma anche ingenuo, considerate le
telecamere di sicurezza tra i letti.
Erano installate in ogni angolo di Thurmond, occhi senza palpebre che ci
osservavano sempre e non dormivano mai. Ce n’erano due solo nella nostra
baracca, alle estremità della stanza, e una fuori dalla porta. Sembrava
un’esagerazione, ma quando arrivai al campo per la prima volta eravamo
talmente pochi che davvero potevano osservarci tutto il giorno, ogni giorno, fino
a farsi esplodere il cervello dalla noia.
Bisognava stringere gli occhi per vederlo, ma una minuscola lucina rossa era
l’unico segnale che la telecamera si era concentrata su di te. Con gli anni, man
mano che altri bambini venivano portati a Thurmond sui vecchi autobus, Sam e
io cominciammo a notare che le telecamere nella nostra baracca non avevano più
le luci rosse lampeggianti; non tutti i giorni. Lo stesso per quelle nella
lavanderia, nei bagni e nella sala mensa. Immagino che con tremila bambini in
uno spazio di un chilometro quadrato e mezzo, fosse impossibile osservare tutti
per tutto il tempo.
Comunque, ci osservavano quanto bastava per tenerci nel terrore. La
probabilità di essere scoperti a usare le proprie abilità, anche al riparo
dell’oscurità, era più alta della media.
Quelle luci lampeggianti erano della stessa sfumatura di rosso sangue delle
fasce che i soldati FSP portavano intorno al braccio destro. Il simbolo Ψ era
cucito sulla stoffa color cremisi, a indicare il loro sfortunato ruolo di guardiani
dei mostruosi figli della nazione.
La telecamera sopra il mio letto non aveva la luce rossa. Quando me ne
accorsi mi invase un tale sollievo che persino l’aria mi sembrò più dolce. Per un
momento soltanto, ero sola e inosservata. A Thurmond, era un lusso quasi
inaudito.
La dottoressa Begbie – Cate – non aveva chiuso del tutto la tenda. Quando un
altro dottore passò di fretta, la stoffa sottile si aprì ancora, permettendomi di
intravedere un lampo di blu familiare. Il ritratto di un ragazzino, di non più di
dodici anni, mi restituì lo sguardo. I suoi capelli avevano lo stesso colore dei
miei – marrone scuro, quasi nero – ma se i miei occhi erano verde chiaro, i suoi
erano così scuri da bruciare anche a distanza. Sorrideva, come sempre, con le
mani strette in grembo, la scura uniforme scolastica senza una piega. Clancy
Gray, il primo prigioniero di Thurmond.
C’erano almeno due sue foto incorniciate in sala mensa, una in cucina e
diverse altre appese fuori dalle case dei Verdi. Il suo viso era più facile da
ricordare di quello di mia madre.
Mi costrinsi a distogliere lo sguardo dal suo sorriso fiero e immutabile. Lui
forse ce l’aveva fatta a uscire, ma tutti noi eravamo ancora lì.
Tentando di cambiare posizione, colpii la cartellina della dottoressa Begbie
facendola cadere nella piega del mio braccio sinistro. Sapevo che c’era una
possibilità che mi stessero guardando, ma non mi importava. Non in quel
momento, quando avevo delle risposte a pochi centimetri dalle dita. Perché
l’aveva lasciata lì, proprio sotto il mio naso, se non voleva che la vedessi?
Perché non l’aveva portata con sé, come avrebbe fatto qualunque altro dottore?
Cosa c’era di diverso nel Rumore Bianco?
Cosa avevano scoperto?
Le luci al neon sopra di me erano scoperte, e brillavano nella forma di lunghe
ossa rabbiose. Emettevano un ronzio che somigliava sempre di più a un nugolo
di mosche che volavano intorno alle mie orecchie. Non fece che peggiorare
quando voltai la cartellina.
Non era la mia cartella clinica.
Non erano le mie ferite attuali, o la loro assenza.
Non erano le mie risposte alle domande della dottoressa Begbie.
Era un appunto, e diceva:
Rilessi l’appunto ancora una volta prima di strapparlo dalla pinza metallica e
infilarmelo in bocca. Aveva lo stesso sapore del pane che ci davano per pranzo.
Le pillole erano in una bustina trasparente pinzata sopra la mia vera cartella
clinica. Scarabocchiato nella pessima calligrafia della dottoressa Begbie, il
documento diceva:
Ingoiai le due pillole una alla volta, e sulla lingua avevo ancora il sapore del
brodo di pollo.
Le luci della baracca erano spente da tre ore, e Sam russava da due. Aprii la
bustina sigillata e feci cadere le pastigliette sul palmo della mano. Rimisi la
busta trasparente nel reggiseno, e la prima pillola in bocca. Era calda dopo essere
stata così a lungo a contatto con la pelle, cosa che non rese facile ingoiarla.
Presi anche la seconda prima di perdere il coraggio, e feci una smorfia quando
mi graffiò la gola.
E poi attesi.
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era scosso da tremiti così forti da farmi rotolare giù dal letto, sbattendo la faccia
su quello di fianco.
Vanessa doveva essersi spaventata a morte per il botto e l’improvviso
movimento del letto, perché la sentii dire: «Che cavolo… Ruby? Sei tu?»
Non riuscivo ad alzarmi. Sentivo mani sul viso, e mi resi conto che stava
strillando il mio nome, non più sussurrandolo.
«Oh mio Dio!» esclamò qualcuno. Sembrava Sam, ma non ero in grado di
aprire gli occhi.
«…il bottone di emergenza!» Il peso di Ashley si assestò sulle mie gambe;
sapevo che era lei, anche se il mio cervello perdeva conoscenza e la riprendeva,
e una luce incandescente mi bruciava dietro le palpebre.
Qualcuno mi infilò qualcosa in bocca; gomma dura. Sentivo sapore di sangue
ma non capivo se veniva dalla mia lingua, dalle labbra o…
Due paia di mani mi sollevarono da terra, deponendomi su un’altra superficie.
Ancora non riuscivo ad aprire gli occhi; il petto mi bruciava. Non smettevo di
tremare, e mi sembrava che braccia e gambe stessero collassando su se stesse.
Poi sentii profumo di rosmarino. Sentii mani fresche e morbide sul petto, poi
più niente.
Ci sono mille modi di capire se qualcuno ti sta mentendo. Non c’è bisogno di
vedere nella loro mente per cogliere i piccoli segnali di insicurezza e disagio. La
maggior parte delle volte, basta osservarli. Se guardano a sinistra mentre
parlano, se aggiungono qualche dettaglio di troppo a una storia, se rispondono a
una domanda con un’altra domanda. Mio padre, un poliziotto, lo aveva insegnato
a me e ad altri ventiquattro bambini quando aveva fatto una lezione, a scuola, sul
pericolo di parlare con gli sconosciuti.
Ma Cate era impossibile da leggere. Mi aveva raccontato cose sul mondo là
fuori che non mi sembravano possibili, almeno finché intercettammo una
stazione radio e una voce solenne filtrò dalle casse, confermando ogni cosa.
«Sì!» esclamò, battendo la mano sul volante. «Finalmente!»
«Il presidente ha rifiutato un invito da parte del Primo ministro britannico a
discutere delle possibili misure volte ad affievolire gli effetti della crisi
economica globale e a riportare in vita i mercati finanziari globali ormai
moribondi. Alla richiesta di spiegare la propria decisione, il presidente ha
incolpato il ruolo giocato dal Regno Unito nell’imposizione di sanzioni
economiche ONU contro gli Stati Uniti.»
Cate tentò di aggiustare il segnale. La voce dell’annunciatore sparì e tornò.
Alla prima scarica di statica, sobbalzai.
«…quarantacinque donne sono state arrestate ieri a Austin, Texas, per aver
tentato di evadere il registro delle nascite. Le donne saranno rinchiuse in un
istituto penitenziario fino alla nascita dei loro figli, quando i neonati verranno
portati via a garanzia della sicurezza delle madri e dello Stato del Texas. Il
procuratore generale ha dichiarato…» Un’altra voce si sovrappose, profonda e
rauca. «In osservanza del Nuovo Ordine 15, il presidente Gray ha emesso un
mandato d’arresto per chiunque sia coinvolto in questa attività pericolosa…»
«Gray?» dissi guardando Cate. «È ancora lui il presidente?»
Era stato appena eletto quando comparvero i primi casi di NIAA, e non
ricordavo molto di lui, tranne che aveva capelli e occhi scuri. E lo sapevo solo
perché l’amministrazione del campo aveva appeso dappertutto foto di suo figlio,
Clancy, come prova che anche noi potevamo essere riformati. Ebbi un
improvviso, limpido ricordo dell’ultima volta che ero stata in infermeria, e di
come mi era sembrato che la sua foto mi osservasse.
Cate scosse la testa, disgustata. «Si è concesso una deroga al mandato fino a
che la crisi Psi, cito testualmente, ‘sarà risolta in modo tale da garantire la
sicurezza degli Stati Uniti da attacchi terroristici telecinetici e dalla violenza’. Ha
persino sospeso il Congresso.»
«Come ha fatto?»
«Instaurando una cosiddetta legge marziale», rispose Cate. «Forse un anno o
due dopo che sei stata catturata, alcuni ragazzi Psi sono quasi riusciti a far saltare
il Campidoglio.»
«Quasi? Cosa significa?»
Cate mi studiò a lungo. «Significa che sono riusciti solo a far saltare il Senato.
Il controllo di Gray sul parlamento avrebbe dovuto durare solo fino alle
successive elezioni del Congresso, ma poi sono scoppiati dei disordini quando le
FSP hanno iniziato a catturare i bambini a scuola senza il permesso dei genitori.
E in seguito, ovviamente, l’economia è colata a picco e il Paese è andato in
default. È sorprendente quanto poco si senta la tua voce, quando hai perso ogni
cosa.»
«E gli hanno permesso di fare tutto ciò?» Il pensiero mi dava allo stomaco.
«No, nessuno glielo ha permesso. C’è il caos là fuori, Ruby. Gray continua a
provare a stringere la presa, e ogni giorno sempre più persone protestano o
infrangono le poche leggi rimaste pur di mettere un pasto in tavola.»
«Mio padre è stato ucciso in una protesta.»
Cate si voltò verso il sedile posteriore così in fretta che l’auto fu sul punto di
invadere la corsia opposta. Sapevo già da dieci minuti che Martin si era
svegliato; aveva il respiro molto più leggero, e aveva smesso di fare quegli strani
grugniti e di leccarsi le labbra. Solo che non avevo voglia di parlargli, o di
interrompere Cate.
«La gente del nostro quartiere ha derubato il suo negozio di alimentari, e lui
non ha potuto nemmeno difendersi.»
«Come ti senti?» Le parole di Cate erano dolci quasi quanto il deodorante alla
vaniglia che dondolava davanti a noi.
«Bene, direi.» Si tirò su a sedere, schiacciando i capelli castani scompigliati
per rendersi presentabile. Martin era tutto rotondo; le guance erano cadenti e la
camicia dell’uniforme sembrava di una taglia troppo piccola, ma lui non era
cresciuto quanto i suoi compagni di baracca. Ero alta qualche centimetro più di
lui, eppure ero bassina, di corporatura normale. Doveva avere al massimo un
anno meno di me.
«Sono contenta», replicò Cate. «C’è una bottiglia d’acqua lì dietro, se ti serve.
Ci fermiamo tra un’oretta per cambiare di nuovo auto.»
«Dove andiamo?»
«A incontrare un amico a Marlinton, West Virginia. Ci darà un cambio d’abito
e carte d’identità per voi due. Siamo quasi arrivati.»
Ero sicura che Martin si fosse rimesso a dormire, quando chiese: «E dopo,
dove andremo?»
La radio riprese vita, catturando frammenti dei Led Zeppelin, per poi perdersi
ancora in scariche elettriche e silenzio.
Sentivo gli occhi di Martin bucarmi la nuca. Tentai di non girarmi e restituirgli
lo sguardo, ma non ero mai più stata così vicina a un maschio dallo smistamento.
Dopo anni passati a vivere ai lati opposti del sentiero principale di Thurmond, mi
innervosiva avere davanti agli occhi tutti quei dettagli. Le lentiggini che non
avevo notato sul suo viso, per esempio, o il modo in cui le sopracciglia
diventavano una sola. Cosa potevo dirgli? Sono contenta di averti trovato?
Siamo rimasti solo noi? Una era la verità, l’altra era quanto di più lontano
potesse esserci.
«Ci riuniremo alla Lega nel quartier generale sud. Da lì, potrete decidere se
volete restare», disse Cate. «So che ne avete passate tante, perciò non siete tenuti
a prendere decisioni ora. Sappiate che se resterete con me sarete al sicuro.»
Una sensazione di libertà mi montò dentro con tale velocità che dovetti
rincorrerla per riuscire a dominarla, allo stesso modo del mio cuore impazzito.
Era ancora troppo pericoloso. C’era ancora una possibilità che le FSP ci
trovassero. Che tornassi al campo, o che mi ammazzassero prima di arrivare in
Virginia.
Martin mi osservava con gli occhi scuri stretti a fessura. Notai che le sue
pupille sembravano rimpicciolirsi, e sentii un prurito nella mente, lo stesso che
sentivo quando le mie abilità premevano per essere liberate e utilizzate.
Che diavolo? Affondai le dita nei braccioli, ma non mi voltai a vedere se
continuava. Lanciai una sola occhiata allo specchietto retrovisore, e vidi Martin
appoggiarsi allo schienale e mettersi a braccia conserte sbuffando. Aveva un
herpes all’angolo della bocca, rosso e infiammato come se si fosse grattato la
crosta.
«Voglio andare dove posso fare quello che non mi era permesso a Thurmond»,
disse infine.
Non volevo sapere cosa intendesse.
«Sono molto più potente di quanto pensiate», continuò. «Non avrete bisogno
di nessun altro dopo che avrete visto ciò che so fare.»
Cate sorrise. «Conto proprio su questo. Sapevo che avresti capito.»
«E tu che ne dici, Ruby?» domandò, voltandosi verso di me. «Anche tu vuoi
fare la differenza?»
Se avessi detto di no, mi avrebbero lasciata andare? Se avessi chiesto di
tornare a Salem a casa dei miei genitori, mi avrebbero riportata lì, senza fare
domande? O a Virginia Beach, se volevo vedere mia nonna? O fuori dal Paese,
se lo avessi davvero voluto?
Mi stavano osservando entrambi, con sguardi simmetrici e carichi di
aspettativa ed eccitazione. Avrei voluto provarle anch’io; avrei voluto
condividere la sicurezza che entrambi provavano per le proprie scelte, ma non
ero sicura di cosa volessi. Sapevo solo ciò che non volevo.
«Portatemi ovunque. Ovunque, tranne che a casa.»
Martin si grattò la crosta con le unghie sporche fino a far uscire il sangue, poi
lo leccò via dalle labbra e dalla punta delle dita. Osservandomi, come se si
aspettasse che gli chiedessi un assaggio.
Mi voltai di nuovo verso Cate con una domanda che mi morì sulle labbra.
Perché per un secondo, uno solo, non fui in grado di pensare ad altro che
all’immagine del fuoco e del fumo che si alzavano oltre la linea netta delle sue
spalle, e della porta che non riusciva ad aprire.
7
decideva di riapparire da dietro la fitta coltre di nubi. Colorava di lilla gli alberi e
sbucava oltre il muro di foschia che si era raccolto sull’asfalto. A quel punto,
avevamo ormai oltrepassato numerose uscite autostradali barricate da
immondizia, transenne o auto abbandonate: opera della Guardia Nazionale per
contenere città ostili o degli stessi abitanti per tenere lontano saccheggiatori e
visitatori non graditi da zone messe ancora peggio. La strada in sé, comunque,
era silenziosa da ore, e ciò significava che avremmo dovuto aspettarci un
contatto umano, prima o poi.
Arrivò prima del previsto: un camioncino rosso. Scivolai giù sul sedile mentre
ci sorpassava, portandosi dietro il rumore di motore e ruote. Andava nella
direzione opposta, ma vidi perfettamente il cigno d’oro dipinto sul fianco.
«Sono ovunque», disse Cate, seguendo il mio sguardo. «Quella probabilmente
era una consegna per Thurmond.»
Era il primo vero segno di vita che avevamo visto in tutto il tragitto – molto
probabilmente perché stavamo percorrendo l’Autostrada della Morte nel bel
mezzo del Nulla – ma anche quell’unico camioncino bastò a spaventare Cate.
«Vai sul sedile di dietro», mi disse. «E stai giù.»
Obbedii. Slacciandomi la cintura, mi strizzai tra i sedili e ci infilai le gambe.
Martin mi osservava con occhi inespressivi. A un certo punto, sentii la sua mano
lungo il braccio, come se stesse tentando di aiutarmi. Mi ritrassi, scivolando
nello spazio tra i sedili anteriori e posteriori. Avevo la schiena contro la portiera
e le ginocchia strette al petto, ma eravamo ancora troppo vicini. Bastava un suo
sorriso a farmi rabbrividire.
C’erano maschi a Thurmond. Un sacco, a dire la verità. Ma qualsiasi attività
che prevedesse una commistione tra i sessi – che si trattasse di mangiare
insieme, condividere una baracca, persino incrociarsi andando in bagno – era
severamente proibita. Le FSP e gli amministratori del campo sorvegliavano sul
rispetto di quella regola con la stessa severità riservata a chi usava le proprie
abilità, intenzionalmente o meno. Il che ovviamente serviva solo a far impazzire
i nostri cervelli già ubriachi di ormoni, trasformando alcune delle mie compagne
in una squadra d’élite di stalker.
Forse non ricordavo il modo «corretto» di interagire con qualcuno dell’altro
sesso, ma sono quasi certa che non lo ricordasse nemmeno Martin.
«Divertente, eh?» disse. Pensavo che stesse scherzando, finché vidi
l’espressione famelica nei suoi occhi. Mi tornò il prurito, la sensazione che
stesse di nuovo provando a scrutarmi nella mente, e sentii il terrore scivolarmi
lungo la schiena come la punta di un dito di ghiaccio. Mi schiacciai contro la
portiera e tenni gli occhi fissi su Cate, ma non bastò nemmeno quello.
Non ci assomigliamo per niente, mi resi conto. Siamo stati portati nello stesso
posto, abbiamo vissuto nello stesso terrore, ma lui… lui è così…
Dovevo cambiare argomento e distrarlo da ciò che stava tentando di fare.
L’aria condizionata era accesa ma era impossibile da percepire, con tutto il
calore emesso da Martin.
«Pensi che a Thurmond si siano accorti che siamo scappati?» chiesi,
rompendo il silenzio.
Cate spense i fari. «Direi di sì. Le FSP non hanno abbastanza uomini da darci
la caccia, ma sono sicura che abbiano fatto due più due e capito chi siete.»
«Cosa intendi? Che siamo Arancioni? Pensavo che avessi detto che lo
sapevano già. Che era per quello che dovevamo scappare così in fretta.»
«Erano sul punto di scoprirlo», spiegò Cate. «Stavano testando le frequenze
per Arancioni e Rossi con quel Controllo della Calma. Non penso che si
aspettassero di vederlo funzionare così rapidamente; è per questo che dovevamo
tirarvi fuori, e in fretta.»
«Frequenze», disse Martin. «Vuol dire che hanno aggiunto qualcosa?»
«Esatto.» Cate gli sorrise dallo specchietto retrovisore. «La Lega aveva sentito
voci di un nuovo metodo per individuare i ragazzi che erano stati smistati
erroneamente all’arrivo nel campo. Di certo sapete che gli adulti non sentono il
Controllo della Calma.»
Annuimmo entrambi.
«Gli scienziati sono al lavoro su alcune frequenze che solo certi tipi di ragazzi
Psi riescono a cogliere e analizzare. Ci sono lunghezze d’onda che potete sentire
tutti, e altre che solo i Verdi o i Blu o, in questo caso, gli Arancioni
percepiscono».
Aveva senso, ma ciò non lo rendeva meno terrificante.
«Sapete», disse Cate, «mi domando come abbiate fatto voi due. Specialmente
tu, Ruby. Sei entrata in quel campo giovanissima. Come sei riuscita a ingannare
lo smistamento?»
«Io… l’ho fatto e basta», risposi. «Ho detto all’uomo incaricato dei miei test
di essere Verde. E lui mi ha dato retta.»
«Debole», disse Martin, guardandomi negli occhi. «Probabilmente non hai
nemmeno dovuto usare i poteri.»
Non mi piaceva chiamarli «poteri»: sembrava sottintendere che ci fosse
qualcosa da celebrare, invece non c’era un bel niente da festeggiare.
«Io ho chiesto a qualcuno di prendere il mio posto quando hanno iniziato a
separare gli Arancioni e i Rossi; non volevo andare con loro, capite?» Martin si
chinò in avanti. «Allora ho preso da parte uno dei nuovi Verdi, che aveva più o
meno la mia età, e ho convinto sia lui sia il guardiano che lui fosse me. Lo stesso
con chiunque facesse domande. Uno per uno. Figo, no?»
Il disgusto mi strinse la pancia. Non era minimamente dispiaciuto per ciò che
aveva fatto, era evidente. Forse io avevo mentito su chi ero davvero, ma non
avevo condannato un altro bambino per farlo. Era quello il risultato, quando si
prendeva il controllo sulle proprie abilità arancioni? Una specie di mostro,
capace di fare ciò che voleva perché nessuno era in grado di fermarlo? Era così
che ci si sentiva a essere potenti?
«Quindi puoi far credere alle persone di essere qualcosa che non sono?»
chiese Cate. «Pensavo che gli Arancioni potessero solo impartire degli ordini.
Una specie di ipnosi…»
«Nah», fece Martin. «Posso fare molto più di questo. Posso convincere la
gente a fare ciò che voglio facendole provare le sensazioni che voglio. Come il
ragazzino con cui ho scambiato il posto: l’ho fatto sentire troppo spaventato per
rimanere dentro alla sua baracca e gli ho fatto credere che fosse una buona idea
spacciarsi per me. A chiunque mi facesse domande, facevo credere che fosse una
pazzia. Perciò posso ordinare alla gente di fare delle cose ma, più che altro, se
voglio che qualcuno faccia del male a un altro, devo farlo sentire davvero,
davvero arrabbiato con la persona che voglio che attacchi.»
«Uh», fece Cate. «Ed è lo stesso per te, Ruby?»
No. Per niente, a dire la verità. Abbassai lo sguardo sulle mani, sul fango
scuro ancora sotto le unghie. Il pensiero di rivelare esattamente ciò che ero in
grado di fare mi fece tremare in modo inaspettato. «Non provoco sensazioni
nella gente, soltanto vedo delle cose.»
Almeno, per quanto ne sapevo.
«Wow… io proprio… wow. So che continuo a ripeterlo ma voi due siete
incredibili. Penso alle cose che potreste fare, a quanto potreste aiutarci…»
Girandomi, alzai la testa quel poco che bastava per vedere la strada. Martin
aveva afferrato una ciocca dei miei capelli e se la stava avvolgendo sulle dita.
Scorgevo il riflesso del mio viso rotondo nello specchietto – i grandi occhi che
parevano assonnati, le ciglia folte e scure, le labbra piene – e notai comparire il
disgusto.
Non avrei dovuto, ma abboccai. Martin ebbe appena il tempo di prepararsi
prima che mi girassi di scatto e allontanassi la sua mano appiccicosa con una
sberla. Il respiro successivo mi si bloccò in gola. Non toccarmi, avrei voluto
dire; non credere che non ti romperò ogni singolo dito di quella mano. Ma lui mi
rivolse un ghigno, con la lingua appoggiata alla crosticina dell’herpes, alzando di
nuovo la mano e agitando le dita verso di me, in segno di sfida. Mi sporsi in
avanti per afferrargli il polso e zittirlo una volta per tutte, quel porco che
dimostrava di essere.
Ma era esattamente ciò che voleva. Quando me ne accorsi fu come essere
travolta da un’onda densa e lenta che mi scese fino alla pancia. Voleva
mostrarmi ciò che era in grado di fare, affinché io esibissi le mie abilità con la
stessa cattiveria che scorreva nelle sue vene.
Gli voltai la schiena, stringendo i pugni alle sue risatine trionfanti.
Era stata mia la rabbia, o anche quella veniva da lui?
«Tutto bene lì dietro?» chiese Cate. «Tenete duro, siamo quasi arrivati.»
Qualunque aspetto avesse Marlinton di solito, sotto la coltre di nubi plumbee e
lo strato di pioggia sottile era sicuramente peggiorato. Era strana e terribile al
punto da distrarre Martin dal giocare con la mia mente.
I centri commerciali deserti, con le vetrine spaccate, erano già abbastanza
inquietanti, ma poi svoltammo in un quartiere di casette bianche, grigie e
marroni. Oltrepassammo parecchie auto ferme lungo le strade e nei vialetti,
alcune con cartelli arancione brillante ancora appesi al parabrezza, ma tutte
VENDESI
L – no, lei – aprì la bocca, in un muto sussulto. Al primo sguardo non ero
UI
I proiettile scavò un passaggio dritto al centro del minivan e uscì dal parabrezza.
L
Per un attimo, non facemmo altro che fissare il buco e la ragnatela di crepe che
vi si espandeva intorno.
«Porca p…!» Liam fece scattare l’auto in avanti, affondando il piede
sull’acceleratore. Sembrava essersi dimenticato che eravamo su una Dodge
Caravan e non su una BMW, perché per andare da zero a cento chilometri all’ora
ci mise un’eternità. Il corpo di Black Betty iniziò a tremare e il rumore di
ferraglia non era più dovuto solo alle crepe e alle buche sulla strada.
Mi voltai di scatto, cercando il SUV di Rob, ma dietro di noi c’era un pickup
rosso acceso, e l’uomo che si sporgeva dal finestrino del passeggero
imbracciando il fucile non era Rob.
«Te l’avevo detto!» strillò Ciccio. «Te l’avevo detto che erano tracciatori!»
«Sì, avevi ragione», replicò Liam con lo stesso tono. «Ma potresti anche
provare a renderti utile?» Sterzò bruscamente a sinistra proprio mentre l’uomo
esplodeva un altro colpo.
Doveva averci mancati, perché non lo sentii colpire l’auto. Sparò di nuovo, ed
ebbe più fortuna: il proiettile si piantò nel paraurti di Black Betty. Sentimmo
l’urto come una sassata nella schiena; ciascuno di noi emise un gemito strozzato.
Ciccio, oltre a gemere, si fece il segno della croce. Zu si era abbassata nel sedile
con le ginocchia al petto. Il cappuccio le nascondeva il viso, ma non copriva i
tremiti che le percorrevano il corpo intero. Le misi una mano sulla schiena, per
tenerla giù. Udimmo un’altra esplosione dietro di noi, ma non era uno sparo.
«Ma che…» Liam si arrischiò a guardarsi alle spalle. «Mi prendi in giro?»
Sentii il cuore pesante come un macigno. Il pickup rosso fece un balzo in
avanti e vidi il conducente – una donna con gli occhiali e i capelli scuri –
strattonare il volante di lato, tentando di liberare il mezzo dal SUV marrone che
gli era andato addosso. Non avevo bisogno di vedere chi stesse guidando per
sapere a chi appartenesse: Cate e Rob. Ma allora, chi erano quelli nel pickup?
«È lei!» gridò Ciccio. «Te l’avevo detto! Ci ha trovati!»
«E allora chi è il tizio con la pistola?» gridò Liam. «Il suo fidanzato?»
L’uomo che ci aveva sparato si concentrò sul tentativo di seminare il SUV alle
sue spalle, storcendosi fuori dal finestrino. Durò meno di un respiro. Uno sparo
dal SUV lo colpì in pieno petto lanciando nell’aria uno spruzzo esplosivo di
sangue. Il proiettile successivo fece scivolare il suo cadavere fuori dal finestrino
del pickup. La conducente non lo degnò nemmeno di uno sguardo. Vidi il pickup
rosso staccarsi finalmente dal paraurti anteriore del SUV. Con entrambe le ruote
posteriori a terra, sconfinò nella corsia opposta, fece un testacoda e si fermò con
un sobbalzo sul ciglio dell’autostrada.
«Fuori uno», disse Liam. Mi voltai, convinta di trovare la pistola di Rob
puntata contro di me attraverso il lunotto posteriore sfasciato. Solo che Rob era
al volante. Era Cate ad avere il fucile in mano, sul lato del passeggero.
«Vi prego, lasciatemi andare», dissi, afferrando la spalla di Liam. «Tornerò
con loro. Nessuno deve farsi male.»
«Esatto!» esclamò Ciccio. «Accosta e falla scendere!»
«Chiudete il becco tutti e due!» disse Liam, spingendo Black Betty nella
corsia di destra e poi di nuovo a sinistra. Il SUV ci seguì, senza perdere un colpo.
Non capivo se eravamo noi ad avere rallentato, o erano loro ad aver accelerato in
qualche modo, perché in un attimo il SUV ci sbatté contro, e nemmeno le cinture
di sicurezza ci trattennero dal volare in avanti.
Liam borbottò qualcosa che si perse nel rumore della pioggia improvvisa.
Abbassò il finestrino e mise fuori una mano, come a far segno al SUV di
sorpassarci.
«Fai qualcosa!» urlò Ciccio, tenendosi forte al volante.
«Ci sto provando! Non riesco a concentrarmi!»
Sta tentando di usare le sue abilità. Me ne accorsi malgrado il terrore.
Le grasse gocce di pioggia che cadevano sul vetro mascheravano gli alberi
intorno a noi, ma Liam non si preoccupò di accendere i tergicristalli. Se lo
avesse fatto, avrebbe visto l’altra auto che ci veniva incontro. Il conducente
suonò il clacson con forza, risvegliandolo dalla trance.
Il minivan rientrò nella corsia di destra, evitando per un pelo lo scontro
frontale con la berlina. Se questa non avesse frenato improvvisamente, il SUV
l’avrebbe travolta. Sia Zu sia io ci voltammo appena in tempo per vedere il SUV
rientrare nella corsia di destra. Cate si riprese in fretta e tornò a inseguirci a tutta
velocità prima che potessimo riprendere fiato.
«Liam», lo implorai. «Ti prego, accosta. Non lascerò che vi facciano del
male!»
Non voglio tornare indietro.
Non voglio tornare indietro.
Non voglio…
Chiusi forte gli occhi.
«Verde!» La voce di Liam mi squarciò i pensieri. «Sai guidare?»
«No…»
«Ci vedi meglio di Ciccio?»
«Forse, ma…»
«Fantastico!» esclamò, afferrandomi il braccio. «Vieni al posto di comando.»
Sbuffò quando un altro proiettile rimbalzò sulla pelle metallica di Black Betty.
«Dai, è come andare in bicicletta. Il pedale a destra è l’acceleratore, per
andare avanti; quello sinistro è il freno; con il volante giri. Non ti serve sapere
altro.»
«Aspetta!» A quanto pareva, però, non avevo voce in capitolo. Tornò nella
corsia di sinistra proprio quando il SUV si avvicinava per un’altra spintarella.
Anziché accelerare, premette il piede sul freno. Black Betty scivolò e si fermò,
mentre il SUV ci superò in un soffio.
Avvenne tutto troppo velocemente perché potessi ribellarmi. Si slacciò la
cintura di sicurezza e mi tirò sul sedile del conducente, alzandosi. L’auto avanzò
di propria volontà e io andai nel panico, schiacciando il piede su quello che
credevo fosse il pedale del freno. Black Betty balzò in avanti, e io urlai.
«Il freno è a sinistra!» Liam fu scagliato contro il cruscotto mentre il SUV
tornava alla carica. Sentii le sue ruote strillare e vidi che Rob aveva fatto
inversione ed era tornato ad accelerare.
«Vai, a tavoletta!»
«Perché non può guidare lui?» chiesi con voce strozzata.
Ciccio spinse il sedile del passeggero abbastanza indietro da potersi
arrampicare su quello posteriore e Liam prese il suo posto.
«Perché», disse, abbassando il finestrino, «lui vede a malapena un metro
avanti a sé. Fidati, meglio non avere lui al volante, tesoro. Ora… a tavoletta!»
Obbedii. L’auto saltò di nuovo in avanti, mandandomi il cuore in gola. Le
ruote girarono a vuoto sull’asfalto bagnato. Liam era seduto per metà fuori dal
finestrino. «Più veloce!» gridò.
La pioggia cadeva fitta e pesante, ma i fari del SUV fendevano la foschia e mi
diressi verso di loro. Andavamo così veloce che il volante mi tremava tra le
mani, e si agitava come se avesse vita propria. Trattenni un urlo esasperato, ma
Liam non ne voleva sapere.
«No, vai avanti!»
«Lee», Ciccio era chino sul proprio sedile. «Sei impazzito, cosa stai facendo?»
Era rimasto talmente in silenzio che mi ero quasi dimenticata che ci fosse
anche lui. Con il tachimetro che superava i centotrenta, centoquarantacinque,
centocinquanta chilometri orari, non mi ricordavo granché.
E fu in quel momento che tutto andò all’inferno.
Ci fu un’esplosione orribile – mille volte peggio del rumore di un palloncino
che scoppia – e il minivan iniziò a roteare, con il volante che mi sfuggiva
danzando dalle mani.
«Dritto!» urlava Liam. «Raddrizzati!»
«Mer…» La cintura di sicurezza mi mozzò il respiro, ma contrastai la
direzione che il volante sembrava voler prendere e raddrizzai la corsa. L’auto si
inclinò, lasciando una scia di scintille sull’asfalto dietro di noi. Eravamo di
nuovo di fronte al SUV e tentavamo di oltrepassarlo frontalmente.
«Continua ad andare verso di loro, non fermarti!» urlò Liam. Ma la gomma,
pensai mentre con le mani torturavo il volante, la gomma…
Ciccio aveva afferrato le gambe di Liam per impedirgli di volare via dal
finestrino. «Lasciami!» sbottò lui. «Sto bene, ora ce l’ho!»
Non avevo idea di cosa intendesse Liam, almeno fino a quando guardai nello
specchietto retrovisore e vidi un tronco d’albero rotolare via dal bosco e
muoversi verso il SUV, guidato da nient’altro che un gesto della mano di Liam.
Troppo preso dal minivan che gli andava incontro, Rob non ebbe tempo di
spostare l’auto dalla traiettoria dell’albero.
Girai le mani sul volante alla cieca finché voltammo le spalle alle macerie.
Sentii rumore di vetri infranti e metallo accartocciato quando Rob tentò di
sterzare, poi corresse la manovra. Quando tornai a guardare nello specchietto, il
SUV era adagiato su un fianco, fumante. Vicino, il tronco scheggiato dell’albero
rotolava ancora dopo la collisione.
«Cos’hai fatto?» Dovetti urlare per sovrastare il brusio del vento e della
strada. «Pensavo…»
Fu Ciccio a rispondere, con volto cinereo. «Adesso lo capisci? Non si
sarebbero fermati.»
Liam scivolò all’interno del minivan lasciandosi cadere sul sedile con un
lungo sospiro. Aveva tutti i capelli dritti, pieni di foglie e rametti.
«Okay, Verde», disse, senza nemmeno un tremito nella voce. «Ci hanno fatto
scoppiare la gomma posteriore, perciò sei appoggiata sul cerchio. Continua ad
andare dritta e inizia a rallentare. Prendi la prossima uscita.»
Strinsi la mascella così forte da farmi male.
«Tutto bene, Zu?» chiese rivolto alla bambina, e lei alzò i pollici; i suoi guanti
gialli erano l’unica macchia di colore nel minivan.
«Beh, io sto bene, grazie per avermelo chiesto», disse Ciccio. I suoi occhialetti
erano tutti storti, e tentava di lisciarsi la camicia. Per non lasciare dubbi, si
sporse in avanti e diede una sberla in testa a Liam. «E, tra l’altro, sei
completamente fuori? Sai cosa succede quando un corpo viene scagliato da
un’auto a quella velocità?»
«No», lo interruppe Liam. «Ma immagino che non sia niente di bello né di
adatto alle orecchie di una undicenne.»
Guardai Zu. Undici anni? Non poteva essere…
«Ah, quindi la puoi lanciare in una pioggia di proiettili ma non puoi farle
sentire niente di spaventoso?» Ciccio incrociò le mani sul petto. Liam si chinò a
raddrizzare il sedile. Quando si appoggiò allo schienale, aveva una smorfia in
faccia e i pugni stretti. Aveva un nuovo taglio sopra l’occhio, e il mento
insanguinato.
Nonostante la pioggia, scorsi il cartello verde dell’autostrada. Non aveva
importanza quale città fosse, o quale uscita. Volevo solo togliermi dalla strada e
dal posto di guida.
Tutto il mio corpo sembrava intorpidito, esausto, quando sollevai il piede
dall’acceleratore. Il minivan seguì la curva con il minimo sforzo e, quando
svoltammo sulla strada, si fermò da solo. Mi premetti una mano sul cuore per
accertarmi che non mi avesse abbandonata. Liam si chinò e tirò il freno a mano.
«Hai fatto un buon lavoro», dichiarò. Parlava a voce più bassa di quanto mi
aspettassi. Purtroppo, non riuscì affatto a calmare il serpente avviluppato intorno
al mio stomaco. Mi sporsi verso di lui e gli mollai un pugno su un braccio.
«Ahia!» fece, ritraendosi con gli occhi spalancati. «E questo per cos’era?»
«Non era affatto come andare in bicicletta, idiota!»
Mi fissò per un momento con un tremito sulle labbra. Fu Suzume a esplodere
in una risata silenziosa, un torrente infinito di sospiri e brividi che la fece
diventare rossa e la lasciò senza fiato. Passarono diversi secondi durante i quali
fu quello l’unico suono a galleggiare sopra il rumore della pioggia, almeno fin
quando Ciccio sprofondò la testa tra le mani con un lungo gemito.
«Eh già», disse Liam, aprendo la portiera, «ti abituerai benissimo.»
F Ciccio a svegliarmi. Lo fece con una rapida sberla sulla spalla, come se non
U
Più che altro era – o era stato – un parcheggio per vecchi camper e roulotte. Più
ci allontanavamo dal minivan più ero nervosa. Non pioveva, ma avevo la pelle
fredda e umida. Tutto intorno a noi, a perdita d’occhio, si estendevano i gusci
vuoti, bianchi e argento, di vecchie casette e veicoli. Alcune delle case mobili
più grandi e stabili avevano intere pareti divelte o carbonizzate, a rivelare cucine
o salotti dagli interni intatti, se non allagati e infestati da animali e foglie
marcescenti cadute dagli alberi vicini. Era come una fossa comune di vite
passate.
Anche se le porte erano state sradicate e distrutte, anche se alcune roulotte si
poggiavano su ruote di fortuna e gomme bucate, c’erano segni di vita, qua e là.
Pareti decorate con foto di famiglie felici e sorridenti, un orologio a pendolo che
segnava ancora l’ora, pentole sui fornelli, un’altalena indisturbata e solitaria ai
margini dell’area.
Zu e io ci dirigemmo verso una roulotte che giaceva su un fianco, seguendo
una scia di impronte profonde nel fango. Lanciai uno sguardo allo scheletro
arrugginito e immediatamente mi voltai, stringendo la mano intorno al guanto di
Zu. Lei mi guardò con aria interrogativa ma mi limitai a scuotere la testa e dire:
«Inquietante».
Arrivò la pioggia e iniziò a martellare i corpi metallici intorno a noi,
scuotendo alcune delle tettoie e delle verande più deboli. Feci un salto indietro
quando la porta di un camper cadde davanti ai nostri piedi. Zu la scavalcò e
indicò oltre, dove Ciccio e Liam erano immersi in una conversazione. Ci avevo
messo un momento a riconoscere Liam. Sotto la giacca, indossava una felpa blu
con il cappuccio sollevato sopra quello che sembrava un cappello dei Redskins.
Non avevo idea di dove li avesse trovati, ma aveva un paio di occhiali da sole da
aviatore che nascondevano una buona parte del viso.
«…non è qui», disse Ciccio. «Te l’avevo detto.»
«Avevano detto che era al confine orientale dello Stato», insisté Liam. «E
poteva voler dire West Virginia…»
«Oppure ci stavano prendendo in giro», concluse Ciccio al posto suo. Doveva
averci sentite arrivare, perché si voltò con un balzo. Nell’istante in cui incrociò il
mio sguardo, si incupì.
«Buongiorno, bellezza!» esclamò Liam. «Dormito bene?»
Zu schizzò davanti a me, ma io sentii i piedi trascinarsi sotto un peso
invisibile man mano che mi avvicinavo a loro. Mi misi a braccia conserte,
facendomi forza per chiedere: «Cos’è questo posto?»
«Beh», fece Liam con un sospiro, «speravamo che fosse East River.
Quell’East River, intendo.»
«Quello è in Virginia», dissi, guardandomi le scarpe. «La penisola. Sfocia
nella baia di Chesapeake.»
«Grazie, Capitan Ovvio.» Ciccio scosse la testa. «Stiamo parlando dell’East
River di Slip Kid.»
«Ehi», fece Liam con voce tagliente. «Calmati, amico. Non ne sapevamo nulla
nemmeno noi prima di uscire dal campo.»
Ciccio si mise a braccia conserte e distolse lo sguardo. «Come vuoi.»
«Cos’è?»
Sentii che Liam riportava l’attenzione su di me, cosa che mi spinse a voltarmi
verso Zu, che pareva confusa. Controllati, ordinai a me stessa, smettila.
Non avevo paura di loro, nemmeno di Ciccio. Forse un poco quando pensavo
a quanto sarebbe stato facile rovinare le loro vite, o quando immaginavo le loro
reazioni inorridite se mai avessero scoperto chi ero esattamente. Solo che non
sapevo cosa dire o come comportarmi con loro. Ogni mio gesto e ogni mia
parola mi sembravano scomodi, eccessivi o bruschi, e iniziavo a temere che
l’esitazione e l’imbarazzo non mi sarebbero mai passati. Mi sentivo già un
fenomeno da baraccone anche senza dover pensare di non essere in grado di
comunicare normalmente con gli altri esseri umani.
Liam sospirò, grattandosi la testa. «Abbiamo sentito parlare di East River per
la prima volta da un compagno di campo. Pare – e sottolineo pare – che sia un
posto dove i ragazzi all’esterno possono andare e vivere insieme. Slip Kid, che
comanda l’operazione, può metterti in contatto con i tuoi genitori senza che le
FSP lo scoprano. C’è del cibo, un posto per dormire… insomma, hai capito
l’antifona. Il problema è trovarlo. Pensiamo che sia da qualche parte in questa
zona grazie ad alcuni Blu davvero scortesi che abbiamo incontrato in Ohio. È di
quelle cose…»
«Se la sai, non ne devi parlare», conclusi. «Ma chi è Slip Kid?»
Liam alzò le spalle. «Nessuno lo sa. O meglio… forse lo sanno, ma non lo
dicono. Le voci su di lui sono pazzesche, però. Le FSP gli hanno dato quel
soprannome – sai, come la canzone degli Who – perché sembra che sia riuscito a
sfuggire loro per ben quattro volte.»
Ero troppo scioccata per replicare.
«Certo che mette in prospettiva le nostre imprese, eh? Non avevo un’ottima
opinione di me finché qualcuno mi ha raccontato di lui.» Liam rabbrividì. «A
quanto pare è uno di quelli: un Arancione.»
Quella singola parola echeggiò come un tuono intorno a me, facendomi
raggelare. Liam continuò a parlare d’altro, con molto meno disgusto, ma non
riuscivo a sentirlo sopra il ronzio nelle orecchie. Non udii una parola di quanto
diceva.
Slip Kid. Qualcuno che poteva aiutare i ragazzi a tornare a casa, se avevano
una casa a cui tornare e genitori che si ricordavano di loro e li rivolevano. Una
vita da riprendersi.
E potenzialmente uno degli ultimi Arancioni là fuori.
Chiusi forte gli occhi, premendoli con il palmo della mano, per giunta. Non
avevo il diritto di chiedergli aiuto, non nel senso tradizionale. Anche se fossi
riuscita a contattare i miei genitori, era improbabile che accogliessero a braccia
aperte una ragazza che consideravano un’estranea. C’era la nonna, ma non avevo
modo di sapere dove si trovasse. E poi, dopo aver scoperto ciò che avevo fatto,
mi avrebbe ancora voluta?
«Perché avete bisogno dell’aiuto di questo tizio?» li interruppi, mentre la testa
mi girava ancora. «Non potete andare a casa e basta?»
«Ragiona, Verde», disse Ciccio. «Non possiamo andare a casa perché le FSP
probabilmente stanno sorvegliando i nostri genitori.»
Liam scosse la testa, togliendosi finalmente gli occhiali da sole. Sembrava
esausto, aveva le occhiaie. «Dovrai fare davvero attenzione, d’accordo? Sei
sicura che vuoi che ti lasci alla stazione degli autobus? Perché saremmo ben
felici…»
«No!» sbottò Ciccio. «Non lo saremmo affatto. Abbiamo già sprecato
abbastanza tempo con lei, ed è colpa sua se abbiamo la Lega alle calcagna.»
Sentii una stilettata sul lato sinistro del torace, proprio sopra il cuore. Aveva
ragione, ovviamente. La scelta migliore per tutti sarebbe stata di mollarmi alla
prima stazione degli autobus e farla finita.
Ma non significava che io non avessi voglia, o meglio bisogno, di trovare
quello Slip Kid tanto quanto loro.
Ma non potevo chiedere di restare. Non potevo imporre loro la mia presenza
più di quanto avessi già fatto, o rischiare di rovinarli con le dita invisibili che
sembravano intente a distruggere ogni singolo legame che tentavo di creare. Se
la Lega ci avesse raggiunti e li avesse catturati, non me lo sarei mai perdonato.
Mai.
Se dovevo trovare Slip Kid, dovevo farlo da sola. Pensavo di essere abituata
all’idea di affrontare ogni giorno senza nessuno al mio fianco, di provare
sollievo all’idea di non correre il rischio continuo di scivolare inavvertitamente
nella testa di qualcuno. Ma non ne avevo voglia. Non volevo uscire da sola sotto
il cielo plumbeo e sentire il freddo infilarsi sotto la pelle.
«Insomma», dissi, «questo non è East River.»
«Potrebbe esserlo stato, a un certo punto», disse Liam. «Potrebbero spostarsi,
di tanto in tanto. Non lo avevo mai preso in considerazione.»
«Oppure», si lamentò Ciccio, «potrebbero essere stati riacciuffati dalle FSP.
Magari questo era East River, e ora non c’è più nessun East River e dovremo
trovare il modo di consegnare la lettera di Jack e tornare a casa per conto nostro,
solo che non ci riusciremo mai a causa dei tracciatori, e finiremo di nuovo tutti
in un campo, solo che questa volta ci…»
«Grazie, simpaticone», lo interruppe Liam, «per questo corroborante sprazzo
di ottimismo.»
«Potrei aver ragione», ribatté lui. «Devi ammetterlo.»
«Ma potresti anche avere torto», disse Liam, posando una mano sulla testa di
Zu per rassicurarla. «In ogni caso, ecco cosa faremo ora: lo considereremo un
falso allarme. Vediamo se troviamo qualcosa di utile, e ci mettiamo per strada.»
«Alla buon’ora. Sono stufo di perdere tempo con cose che non hanno
importanza.» Ciccio ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni e si diresse verso di
me a grandi passi. Se non mi fossi tolta di mezzo, mi avrebbe dato una spallata e
fatta cadere a terra.
Mi girai, seguendo con gli occhi il suo percorso e i calci che assestava a
spazzatura e sassi sul sentiero. Liam fu improvvisamente al mio fianco, e fu il
suo turno di mettersi a braccia conserte.
«Non prenderla sul personale», mi disse. Dovevo aver fatto un verso di
incredulità, perché continuò: «Voglio dire… d’accordo, Ciccio è praticamente un
settantenne brontolone intrappolato nel corpo di un diciassettenne, ma fa
l’insopportabile solo per provocarti».
Sì, pensai, e sta funzionando.
«E so che non è una scusa, ma è stressato e spaventato quanto noi e…
insomma, credo che quello che sto tentando di dire è questo: tutto l’acido che ti
rovescia addosso? Lo fa con delle buone intenzioni. Se resisti, ti garantisco che
non troverai mai amico più fedele. Ma è spaventato a morte da quello che
potrebbe succedere, specialmente a Zu, se dovessero catturarci di nuovo.»
A quel punto alzai lo sguardo, ma Liam si stava già allontanando verso una
fila di camper scalcagnati. Per un folle secondo pensai di seguirlo, ma avevo
visto Zu con la coda dell’occhio, e i suoi guanti giallo brillante lungo i fianchi.
Saltava dentro e fuori dai camper, si alzava in punta di piedi per sbirciare nelle
case mobili e, a un certo punto, iniziò persino a strisciare nella carcassa di una
roulotte che doveva essere stata spaccata in due da un tornado. Il tetto di metallo,
che era rimasto attaccato solo a due viti nemmeno troppo solide, ondeggiava
sotto l’attacco congiunto di pioggia e vento.
Nonostante avesse il cappuccio della felpa troppo grande tirato fin sulla testa,
la vidi alzare una mano guantata e sfiorarsi il lato del viso, come per scostare una
ciocca di capelli dagli occhi. Non mi parve strano finché glielo vidi rifare, e
impallidire quando se ne rese conto.
Di colpo, la conversazione che avevo provato a fare con Ciccio nel minivan
mi tornò alla mente.
«Ehi, Zu…» dissi, ma mi fermai subito. Come si fa a chiedere a una bambina
se qualcuno ha giocato al macellaio con il suo cervello senza calpestare un
ricordo già doloroso?
In verità, a Thurmond rapavano la testa ai bambini solo quando volevano
andare a curiosare all’interno; avevano praticamente smesso quando arrivai io,
ma ci volle un po’ perché i capelli dei ragazzi più grandi ricrescessero. Da
qualche parte nella mente mi ero domandata se a lei fosse successo lo stesso,
dopotutto; se il motivo per cui non poteva parlare fosse che le avevano
riallacciato male qualche contatto, o se avessero fatto il passo più lungo della
gamba nel tentativo di trovare una «cura».
«Perché ti hanno tagliato i capelli?» le chiesi infine.
Molte delle ragazze che conoscevo avrebbero preferito tenere i capelli corti –
io per prima – ma non avevamo voce in capitolo: potevamo tagliarli una volta
all’anno. Il modo in cui Zu continuava ad accarezzarsi i capelli fantasma mi fece
pensare che nemmeno lei avesse avuto voce in capitolo.
Se la mia domanda l’aveva infastidita, non lo diede a vedere. Si portò le mani
alla testa e iniziò a sfregarla, con un’espressione di grande disagio. Poiché non
capivo, si sfilò un guanto e grattò con foga.
«Oh», feci. «Intendi che il vostro gruppo aveva i pidocchi?»
Annuì.
Aveva senso, ma ancora non spiegava come mai non potesse aprire la bocca e
rispondermi. «Mi dispiace tanto», dissi.
Zu alzò le spalle come se non le importasse, poi si voltò e salterellò verso la
roulotte vicina. La porta dondolò protestando quando la seguii, e i cardini
scricchiolarono. Zu fece una smorfia, e io risposi con un’altra per mostrare che
ero d’accordo. L’interno aveva un odore dolciastro, ma… sgradevole, come di
frutta andata a male.
Iniziai a curiosare nel salottino centrale, aprendo e chiudendo i pallidi
sportelli. I cuscini del sedile erano decorati di un viola fastidiosamente acceso,
ma anch’essi, come il piccolo televisore appeso alla parete di fronte, erano
coperti di polvere e sporco.
L’unica cosa rimasta sul bancone era una tazza da caffè. L’area notte era
altrettanto spoglia: un paio di cuscini, una lampada, un armadio con un vestito
rosso, una camicia bianca e una flotta intera di attaccapanni vuoti. Stavo per
afferrare la camicia quando, al margine del campo visivo, scorsi qualcosa.
Qualcuno l’aveva attaccata al parabrezza della roulotte al posto dello
specchietto retrovisore. Nulla di strano sarebbe apparso all’esterno, né avrebbe
attirato l’attenzione a meno che lo si stesse fissando di proposito. Ma
dall’interno, a pochi passi di distanza, ero abbastanza vicina da vedere la luce
rossa alla base, abbastanza da vedere la telecamera all’interno che riprendeva
chiunque e qualsiasi cosa passasse lungo la strada di fronte. E, se io potevo
vedere Betty da dove mi trovavo, poteva vederla anche la telecamera.
Aveva una forma diversa da quelle che c’erano a Thurmond, ma abbastanza
simile da farmi pensare che dietro ci fossero le stesse persone. Guardai Zu e lei
ricambiò lo sguardo.
«Non ti muovere», le dissi, avvicinandomi alla caffettiera sul tavolo.
Attraversai la roulotte in tre grandi passi, la caffettiera tesa davanti a me come
una spada. Calciai di lato un paio di scatoloni vuoti e dell’immondizia e,
mischiato al caos di sacchetti di plastica, vidi un guantino rosso.
Troppo piccolo per la mano di un adulto.
Non mi resi conto di avere ancora in mano la caffettiera fino a quando
l’abbattei sulla telecamera, infrangendola. Il corpo di vetro si ruppe e cadde a
terra, lasciandomi in mano solo il manico. Il bulbo nero rimase esattamente
dov’era, solo che l’occhio della telecamera si voltò su di me.
È accesa, pensai con un’ondata di panico, cercando qualcos’altro per
romperla. Sta registrando.
Non ricordavo di averla chiamata, ma Zu comparve al mio fianco in un
secondo, infilandosi qualcosa sotto la felpa troppo grande. Doveva averla
riconosciuta anche lei, perché prima che potessi dire una sola parola, si sfilò un
guanto e tese la mano.
«No!»
Non avevo mai visto un Giallo usare le proprie abilità. Ne avevo patito le
conseguenze, ovviamente: blackout in tutto il campo, Rumore Bianco quando i
dirigenti del campo pensavano che qualcuno lo avesse fatto apposta. Ma era da
così tanto tempo che se n’erano andati da Thurmond, che avevo smesso di
immaginare come dovessero sentirsi a parlare il misterioso linguaggio
dell’elettricità.
Le dita di Zu l’avevano a malapena sfiorata quando la telecamera iniziò a
emettere uno strano fischio. Ci fu un lampo di luce bianca e blu che sembrava
scaturire dal suo dito nudo e colpire l’apparecchio. La stessa striscia di luce
scivolò lungo la plastica facendola fumare e fondere per il calore. Senza
preavviso, tutte le luci nella roulotte si accesero a una potenza tale da far
esplodere le lampadine. L’intero veicolo tossicchiò più volte, tremando sotto i
nostri piedi, e il motore si risvegliò miracolosamente dopo il lungo sonno.
Zu ficcò di nuovo la mano nel guanto e si strinse le braccia al petto. Chiuse
forte gli occhi come a implorare che tutto finisse. Ma non avevamo tempo di
aspettare e vedere se aveva funzionato. Mi diressi verso la porta, afferrando Zu
per la felpa e trascinandola fuori dalla roulotte. La tirai, inciampando, fino
all’uscita sul lato della strada in cui si trovava Black Betty.
«Andiamo», dissi, senza lasciarla rallentare. Ogni traccia di luce era sparita
dal suo viso, che si era spento come una candela. «Va tutto bene», mentii.
«Dobbiamo solo trovare gli altri.»
C’era una telecamera sul parabrezza di ogni veicolo nella prima fila; le vidi a
una a una mentre correvamo verso Betty. Non aveva senso tentare di farle fuori
in quel momento. Chiunque potesse vederci ci aveva probabilmente già viste.
Dovevamo solo andarcene, e in fretta.
Potrebbero essere vecchie, tentai di convincermi spalancando la portiera di
Betty. Potrebbero essere state installate anni addietro, per prevenire i furti.
Chissà dove venivano inviate le registrazioni. Magari, da nessuna parte. E, nello
stesso momento, il mio cuore batteva un ritmo completamente diverso.
Stanno arrivando, stanno arrivando, stanno arrivando.
Pensai di chiamare gli altri con un grido, ma potevano trovarsi in qualunque
punto del parcheggio. Mi arrampicai nel minivan dopo Zu e feci l’unica cosa che
sembrava avere senso: schiacciai il palmo sulla parte molle del volante. Il
lamento acuto del clacson di Betty risvegliò con uno scossone il paesaggio
addormentato. Uno stormo di uccelli volò via dagli alberi vicini, raggiungendo il
cielo nel momento in cui iniziai a suonare più forte e con più insistenza.
Ciccio comparve per primo, scapicollandosi lungo una fila di roulotte, e Liam
apparve un secondo dopo a poche file di distanza. Quando videro che eravamo
solo noi due, rallentarono, e Ciccio fece una faccia scocciata.
Mi sporsi dal finestrino dal lato del conducente e urlai: «Dobbiamo andarcene:
subito!»
Liam disse a Ciccio qualcosa che non sentii, ma entrambi mi obbedirono.
Rimasi accovacciata tra i due sedili davanti finché i ragazzi furono saltati dentro.
«Cosa c’è che non va?» domandò Liam, quasi senza fiato.
Indicai il camper più vicino. «Hanno installato delle telecamere», dissi con
voce roca. «In tutti.»
Ciccio fece un respiro improvviso.
«Sei sicura?» La voce di Liam era calma, troppo calma. Si vedeva che si stava
sforzando, e le dita gli tremavano nel tentativo di girare la chiave. Le ruote
posteriori slittarono a vuoto nel fango quando inserì la retromarcia. Io stessa
caddi all’indietro per la forza dell’accelerazione.
«Oh mio Dio», stava dicendo Ciccio. «Non posso crederci. Ci siamo cascati
come Hansel e Gretel. Oh mio Dio… secondo te era lei?»
«No», rispose Liam. «No. È furba per una tracciatrice, ma questo… è un altro
livello.»
«Magari erano lì da un po’», dissi quando fummo di nuovo sull’autostrada.
Era vuota e aperta di fronte a noi, una bocca spalancata pronta a ingoiarci in un
solo boccone. «Potevano averle usate per spiare la gente che abitava lì. Magari
quello era davvero East River…»
Oppure era solo una trappola per i ragazzini che cercavano il vero East River.
Liam appoggiò il gomito alla portiera e il mento sul palmo. Quando parlò, il
suo riflesso si infranse nelle centinaia di crepe che serpeggiavano sul parabrezza.
Spinse il minivan a una velocità superiore, facendo fischiare il vento nel buco
del proiettile. «Comunque tenete gli occhi aperti e fatemi sapere se vedete
qualcosa di sospetto.»
Ma cos’era sospetto? Le fila di case abbandonate? Un minivan scassato?
«Lo sapevo, avremmo dovuto aspettare che facesse buio», disse Ciccio,
tamburellando le dita sul vetro dal lato del passeggero. «Lo sapevo. Se quelle
telecamere erano accese, probabilmente hanno ripreso la targa e tutto.»
«Alla targa ci penso io», promise Liam. Ciccio schiuse le labbra, ma non disse
nulla e si limitò ad appoggiare la testa al finestrino.
«Devo stare all’erta per le FSP?» chiesi, mentre attraversavamo una ferrovia.
«Peggio.» Ciccio sospirò. «Tracciatori. Cacciatori di taglie.»
«Le FSP hanno poco personale, ormai», spiegò Liam. «Lo stesso vale per la
Guardia Nazionale e quello che rimane della polizia locale. Non penso che
invierebbero un’unità fin qui solo per controllare. E, a meno che ci sia un
cacciatore di taglie proprio in questa zona, guarda caso, andrà tutto bene.»
Le ultime parole famose.
«La taglia per la cattura di un bambino è diecimila dollari.» Ciccio si voltò a
guardarmi. «E l’intero Paese non ha più il becco di un quattrino. Non andrà bene
per niente.»
Sentii un treno in lontananza, e il suo fischio così simile a quelli che
passavano accanto a Thurmond a qualsiasi ora della notte. Fu abbastanza per
farmi affondare le unghie nella coscia e chiudere forte gli occhi in attesa che la
nausea passasse. Non mi resi nemmeno conto che la conversazione era
proseguita senza di me finché sentii Liam chiedere: «Tutto a posto, Verde?»
Alzai una mano e mi pulii il viso, chiedendomi se fosse bagnato di pioggia o
se mi fossi messa a piangere senza accorgermene. Non dissi nulla e strisciai fino
al sedile in fondo. Non mi intromisi nella loro conversazione su dove andare a
cercare East River, anche se avrei voluto. C’erano centinaia, migliaia, milioni di
posti in cui Slip Kid avrebbe potuto accamparsi, e volevo aiutarli a scoprirli.
Volevo far parte della missione.
Ma non potevo chiederlo, ed era tempo che smettessi di mentire a me stessa.
Perché ogni secondo che trascorrevo insieme a loro era soltanto un’altra
possibilità che scoprissero che i tracciatori e le FSP non erano gli unici mostri là
fuori. Oh no. Il mostro era sul sedile posteriore.
Per una volta, la musica era spenta. Era il silenzio delle casse a innervosirmi,
più delle strade deserte o delle conchiglie vuote di case espropriate. Liam era un
moto perpetuo. Si guardava intorno nelle cittadine abbandonate che
attraversavamo, controllava il livello della benzina, facendo danzare le dita sul
volante. A un certo punto, incrociò il mio sguardo nello specchietto retrovisore.
Fu solo un istante, ma sentii una piccola stretta allo stomaco, nitida come se
avesse fatto scorrere una delle sue dita morbide lungo il mio palmo aperto.
Arrossii, ma qualcosa dentro di me rimase gelido. Era durato mezzo secondo
al massimo, eppure era stato sufficiente a vedere che i suoi occhi si erano
adombrati di qualcosa che sembrava frustrazione.
Ciccio, sul sedile davanti, continuava a piegare e spiegare qualcosa in grembo,
ancora e ancora, come se non si accorgesse di ciò che stava facendo.
«La smetti?» sbottò Liam. «Così lo strappi.»
Ciccio smise immediatamente. «Non possiamo… provarci? Abbiamo proprio
bisogno di Slip Kid?»
«Vuoi davvero rischiare?»
«Jack lo avrebbe fatto.»
«Già, ma Jack…» La voce di Liam si spense. «Restiamo sul sicuro. Ci aiuterà,
quando lo raggiungeremo.»
«Se lo raggiungiamo», sbuffò Ciccio.
«Jack?» Non mi accorsi di aver parlato ad alta voce finché incrociai lo
sguardo di Liam nello specchietto.
«Non sono affari tuoi», disse Ciccio, senza aggiungere altro.
Liam non fu molto più aperto. «Era un nostro amico, era nella nostra camera
al campo, intendo. Vogliamo provare a metterci in contatto con suo padre. È uno
dei motivi per cui dobbiamo incontrare Slip Kid.»
Feci un cenno con la testa verso il pezzo di carta. «Ma prima di evadere, ha
scritto una lettera?»
«Ne abbiamo scritta una tutti e tre», rispose Liam. «Nel caso che uno di noi si
tirasse indietro all’ultimo minuto e non volesse venire, oppure che… non ce la
facesse.»
«E Jack non ce l’ha fatta.» La voce di Ciccio avrebbe potuto tagliare l’acciaio.
Alle sue spalle, splendide case coloniali ci sfrecciavano accanto, e i colori
lampeggiavano attraverso i finestrini.
«Comunque.» Liam si schiarì la voce. «Stiamo tentando di portare la lettera di
Jack a suo padre. Abbiamo provato ad andare all’indirizzo che ci aveva dato
Jack, ma la casa è stata espropriata. Il padre ha lasciato un messaggio dicendo di
essere a Washington per lavoro, ma non c’era un numero di telefono né un
indirizzo. È per questo che abbiamo bisogno dell’aiuto di Slip Kid: per scoprire
dove si trova ora.»
«Non potete spedirla e basta?»
«Il governo ha iniziato a controllare la posta proprio per questo motivo, circa
due anni dopo che tu sei entrata a Thurmond», mi spiegò. «Il governo legge
tutto, dice tutto e scrive tutto. Hanno inventato una bella storiella su come i
campi ci stiano salvando e riprogrammando in adorabili mocciosi, e non
vogliono che nessuno abbia idea della verità.»
Non sapevo proprio come replicare. «Scusa», mormorai. «Non volevo farti il
terzo grado.»
«Non ti preoccupare», disse Liam, dopo aver lasciato che il silenzio si
estendesse a oltranza. «Va bene così.»
Non c’era modo di spiegare come lo capii. Forse fu la maniera in cui le mani
di Liam si strinsero sul volante, o le continue occhiate allo specchietto
retrovisore durante la conversazione anche molto dopo che l’auto argentata di
fronte a noi ci aveva superati. Ma lo capii già molto prima di incrociare il suo
sguardo preoccupato nello specchietto. Lentamente, senza disturbare Zu e Ciccio
che fissavano la scia infinita di alberi dal finestrino, tornai ad accovacciarmi tra i
due sedili.
Liam mi rivolse un rapido sguardo, facendo un cenno allo specchietto laterale.
Guarda tu stessa, sembrava dire, e io lo feci.
Dietro di noi, a poca distanza, c’era un vecchio pickup bianco. La pioggia
ispessiva l’aria tra i due veicoli, perciò non capii se all’interno ci fosse un uomo
solo o due. Dalla mia posizione, sembravano poco più grandi di due formiche
nere.
«Interessante», dissi, con voce neutra.
«Già», fece lui, a denti stretti. Aveva i muscoli del collo tesi. «Adorabile West
Virginia. Terra delle Gloriose Montagne. Patria delle Numerose Canzoni di John
Denver.»
«Forse», continuai lentamente, «dovresti accostare e controllare la mappa.»
Era un modo come un altro di sondare il terreno. Liam stava per svoltare sulla
George Washington Highway, appena più larga della stradina tortuosa che
stavamo percorrendo. Se il pickup ci stava seguendo, non sarebbe riuscito a
fermarsi senza svelarsi. In ogni caso, chiunque fosse alla guida non sembrava
aggressivo.
Se era un cacciatore di taglie, come Liam sembrava pensare, forse ci stava
studiando a sua volta.
Proseguimmo su Gorman Road, seguendone la curva naturale.
Black Betty rallentò in previsione della svolta. Liam esitò mezzo secondo
prima di mettere finalmente la freccia. Guardai nello specchietto, e vidi con
sollievo che il pickup metteva la freccia dal lato opposto. Noi andavamo a
sinistra, loro a destra. Liam fece un lungo sospiro, appoggiandosi finalmente allo
schienale. Il minivan raggiunse l’incrocio con la superstrada. C’era un’altra auto
che stava svoltando, una piccola Volkswagen argentata; sia Liam sia io alzammo
le mani per ripararci dal riflesso del sole sui suoi finestrini.
«Okay, vecchietto.» Liam fece un cenno impaziente al pickup dietro di noi.
«Vediamo se riesci a svoltare entro la fine del secolo. Mi raccomando, fai con
calma, fatti la barba, contempla l’universo…»
Quando il pickup ci superò, scricchiolando e gemendo come sembravano fare
tutte le vecchie auto, sentimmo provenire dai finestrini aperti i Lynyrd Skynyrd a
tutto volume. Free Bird. Ma certo. Era destino che fosse la canzone preferita di
mio padre. Due secondi di quella maledetta canzone, e fu come tornare a
sedermi nella sua auto di pattuglia, in giro per la città. Era l’unico momento in
cui potessi ascoltare della buona musica: quando eravamo in giro solo lui e io.
Mamma la detestava.
Sentii una risata gorgogliare dentro di me quando vidi il conducente muovere
la testa a tempo di musica. Cantava a squarciagola, accompagnando ogni parola
con uno sbuffo di fumo di sigaretta. Ma poi tutto fu coperto da un altro suono,
una sorta di grido. Alzai gli occhi appena in tempo per vedere la Volkswagen che
ci precedeva inchiodare, fermandosi con un sobbalzo e mandando un altro lampo
abbagliante di sole contro di noi.
«Dimmi che è uno scherzo!» Liam fece per suonare il clacson, ma non prima
che il conducente della Volkswagen abbassasse il finestrino e ci puntasse contro
qualcosa di nero e luccicante.
No. Il mondo divenne improvvisamente nitido. Ogni suono intorno a me
evaporò. No.
Mi allungai e con un pugno accesi la radio di Black Betty, alzando il volume
al massimo. Liam e Ciccio urlarono, ma allontanai la mano di Liam con un colpo
prima che potesse spegnerla.
Il Rumore Bianco attraversò la musica degli altoparlanti e ci lacerò le
orecchie. Non al volume o alla potenza a cui ero abituata, e neanche
lontanamente dannoso come l’ultima volta, ma ancora presente, ancora una
tortura. Il giochetto con la radio non bastò a coprirlo del tutto.
Gli altri crollarono intorno a me, sconfitti dal primo urlo penetrante.
Liam cadde in avanti sul volante, schiacciandosi le mani sulle orecchie. Ciccio
sbatté la testa sul finestrino come se tentasse di togliersi quel rumore dal cranio.
Black Betty iniziò a ondeggiare e si fermò con uno strattone quando Liam
schiacciò il freno anziché l’acceleratore.
La portiera si aprì accanto a me, e un paio di braccia afferrarono Ciccio per la
vita, tentando di estrarlo da sotto la cintura di sicurezza. Mi alzai da terra e
allungai una mano, colpendo l’uomo sul viso e affondando le unghie più che
potevo. Bastò a far sobbalzare il conducente del pickup, lo stesso che due
secondi prima stava cantando Free Bird, e a fargli mollare la presa su Ciccio, che
rimase abbandonato sul sedile, mezzo dentro e mezzo fuori.
Il conducente del pickup inciampò nella propria auto, e le sue parole si persero
nella tempesta di rumore che si era abbattuta sui tre veicoli. Solo a quel punto
vidi il badge che aveva al collo, appeso a una catenina d’argento, e la Ψ rosso
acceso che vi era ricamata. Non erano tracciatori.
Psi. FSP. Campo. Thurmond. Cattura.
L’uomo sulla Volkswagen aveva aperto la portiera sul lato del conducente e
stava tentando di slacciare la cintura di sicurezza di Liam. Non era certo robusto;
sembrava un contabile, con occhiali spessi e spalle ingobbite per le troppe ore
alla scrivania. Ma non aveva bisogno di forza, dato che aveva tra le mani quel
megafono nero.
Alcune delle FSP, a Thurmond, si portavano le macchine per il Rumore
Bianco in giro per il campo, usandole contro piccoli gruppi che facevano casino,
o anche solo per spaventare i ragazzini. In fondo, loro non lo sentivano.
Ogni terminazione nervosa nel mio corpo urlava, ma affondai il gomito nel
petto del conducente del pickup, che cadde all’indietro, permettendomi di
chiudere la portiera e mettere la sicura. Ebbi solo un secondo per controllare Zu
prima di lanciarmi oltre il corpo di Liam con i pugni pronti.
Colpii Volkswagen sugli occhiali, facendoglieli saltare via.
Da qualche parte dietro di me, Pickup si era avvicinato alla portiera
scorrevole, e non a mani vuote.
Zu non reagì al fucile che si trovò puntato in faccia; a giudicare dai suoi
lamenti, dagli occhi chiusi e dai guanti di gomma accartocciati in agonia sulle
orecchie, credo che non lo vedesse nemmeno.
Non sapevo cosa fare. Afferrai Liam e lo scossi finché riprese i sensi.
Spalancò gli occhi, limpidi e azzurri, ma durò solo un istante. Improvvisamente
mi trovai il megafono a due centimetri dal viso, e il Rumore Bianco mi affondò
nel cervello come un’ascia. Le ossa mi si trasformarono in gelatina. Non mi
accorsi nemmeno di essere caduta addosso a Liam finché mi trovai con la testa
sulla sua schiena. L’unico suono più forte del Rumore Bianco, della radio, delle
urla di Ciccio era quello del cuore di Liam.
Chiusi ancora una volta gli occhi, stringendoli forte, e affondai le dita nel
cuoio soffice della sua giacca. Una parte di me voleva spingersi via, mettere
distanza tra noi per non avere la possibilità di scivolare nella sua mente; ma
l’altra parte di me, quella disperata, stava già tentando di ancorarsi dentro di lui e
indurlo a muoversi. Se potevo fare del male a qualcuno, non voleva forse dire
che potevo anche essere d’aiuto?
Alzati, lo implorai, alzati, alzati, alzati, alzati, alzati…
Ci fu un gemito acuto che non poteva certo provenire da un essere umano. Mi
costrinsi ad aprire gli occhi. Pickup aveva il fucile in una mano, il colletto di Zu
nell’altra, e la stava trascinando verso la sua macchina. Tentai di chiamarla,
anche se Volkswagen mi stava strattonando per i capelli in direzione della
portiera. Mi fece cadere come un peso morto, e mi scorticai i palmi delle mani e
le gambe sulla ghiaia. Mi girai su un fianco, tentando di sfuggire alla presa del
soldato FSP. Da sotto Betty vidi un lampo di giallo cadere a terra come piume di
un uccellino, e sentii una portiera sbattere.
«Stewart; conferma avvistamento del numero Psi 42755.» Volkswagen
spalancò di nuovo la portiera del conducente, estraendo dalla tasca un oggetto
arancione. Mi sfregai gli occhi per ricomporre l’immagine che vedevo doppia.
L’oggetto arancione tra le mani del FSP non era più grande di un cellulare, e
l’uomo lo manovrò facilmente davanti al viso di Liam, anche se era premuto
contro il volante del minivan. Il mio tentativo di afferrare la caviglia del FSP fu
inutile; era talmente assorto dalle proprie azioni che nemmeno se ne accorse.
Liam! La mia bocca rifiutava di muoversi, sembrava non funzionare. Liam!
L’oggetto arancione si illuminò e un secondo dopo, coprendo persino l’urlo
del Rumore Bianco, sentii Volkswagen dire: «Confermata identificazione Liam
Stewart».
Qualcosa di caldo e tagliente fendette l’aria, esplodendo sotto Betty in una
pungente nuvola di sabbia. Strisciò contro la mia pelle e dovetti riparare il viso
dalla luce accecante che seguì, un lampo bruciante che nascose alla vista ogni
cosa lì intorno. Sentii Volkswagen imprecare sopra di me, ma la sua voce fu
coperta dal suono del metallo che strideva contro il metallo, e del vetro che
esplodeva con tale forza e velocità da far cadere schegge come grandine sul
terreno davanti a me. Poi sparì.
Il Rumore Bianco si fermò d’improvviso, e qualcosa cadde rumorosamente a
terra, a poca distanza da noi. Il megafono.
Tesi la mano per afferrarne il manico. Volkswagen urlava qualcosa che non
capivo perché le orecchie mi ronzavano troppo forte, ed ero troppo concentrata a
impossessarmi dell’altoparlante per dargli retta. Una mano si chiuse intorno alla
mia caviglia nuda e mi tirò all’indietro, ma prima riuscii a stringere il manico tra
le dita.
«Alzati, pezzo di…!» Ci fu un suono digitale, come una sveglia, e subito
l’uomo mollò la presa. «Qui è Larson, richiedo rinforzi immediati…»
Con un grugnito mi spinsi in ginocchio, e poi in piedi. L’uomo mi aveva dato
le spalle per un secondo di troppo e, quando finalmente si accorse dell’errore e si
voltò, fu ricompensato con un violento colpo di megafono in faccia. La radio gli
cadde di mano, e io la calciai lontano sull’asfalto. Alzò le mani per ripararsi il
viso da un altro colpo, ma non avevo intenzione di fargliela passare liscia. Non
gli avrei permesso di riportarmi a Thurmond. Strinsi la mano sul suo
avambraccio e lo strattonai, costringendolo a guardarmi. Vidi le sue pupille
stringersi negli occhi nocciola prima di tornare a una dimensione normale. Era
almeno trenta centimetri più alto di me, ma la differenza scomparve quando
cadde in ginocchio.
Non riuscì nemmeno a prendere fiato, figuriamoci a impedirmi di entrare nella
sua mente. Vattene! tentai di dire. Strinsi la mascella fino a farmi male ai
muscoli come se il Rumore Bianco li stesse ancora attraversando come una
corrente elettrica pulsante. Vattene!
Non avevo mai fatto niente di simile, e non c’era modo di sapere se avrebbe
funzionato; ma ormai cosa avevo da perdere? I suoi ricordi mi scorsero addosso,
lambendomi il cervello onda dopo onda, e l’unica cosa che riuscivo a pensare
era: Ce la farò, andrà bene.
Martin aveva detto di essere in grado di infilare i pensieri nella testa della
gente, ma le mie abilità non funzionavano allo stesso modo, non lo avevano mai
fatto. Vedevo solo immagini. Potevo solo confondere, smistare e cancellare
immagini. Ma non avevo mai tentato di fare nient’altro. Non lo avevo mai
nemmeno desiderato, fino a quel momento. Perché se non potevo aiutare quei
ragazzi, se non potevo salvarli, allora cosa c’era di buono in me? A cosa servivo?
Fallo. Fallo e basta.
Immaginai che l’uomo prendesse la radio: ogni dettaglio, dal modo in cui la
doveva cercare a tentoni senza gli occhiali a come i suoi jeans si sarebbero
spiegazzati. Immaginai che annullasse la richiesta di rinforzi. Lo immaginai
camminare giù per la collina rocciosa che costeggiava il bordo della strada,
verso la foresta.
E quando allontanai la mano dal suo braccio, un dito alla volta, fece
esattamente così. Se ne andò, e ogni passo portò un nuovo sussulto di sorpresa.
Ero stata io. Io.
Mi voltai verso il punto da cui il fumo nero si riversava nella strada, coprendo
l’erba della collina e i suoi margini nascosti in una coltre spessa e orrenda. Poi,
mi ricordai.
Zu.
In quel momento, zoppicando, vedevo chiaramente la carcassa.
Il pickup, che a un certo punto era stato parcheggiato accanto a Betty, si
trovava a diversi metri di distanza, a riposo in un prato verde. La piccola
Volkswagen era adagiata su un fianco lì davanti, un cumulo di metallo contorto
che riconobbi a malapena. Fumava copiosamente, un fumo nero e puzzolente,
come se fosse sul punto di esplodere.
L’ha speronata, pensai. Il pickup l’ha speronata e spinta via.
Seguii le tracce di pneumatici e vetri infranti, ma trovai solo il conducente.
Quel che ne restava.
Il suo cadavere era attorcigliato su se stesso nell’erba alta; non si capiva dove
finisse un arto e ne iniziasse un altro. Ogni parte del corpo sembrava fuori posto.
I gomiti sporgevano da terra come ali spezzate. Anche lui era stato speronato.
Qualcosa di freddo e rigido si avvolse intorno al mio petto, costringendomi a
uscire dalla nebbia e dal fumo dopo aver verificato che Zu non fosse in quelle
auto. Solo una volta che mi fui allontanata dal fumo più denso mi lasciai cadere
in ginocchio e vomitai il poco cibo che avevo nello stomaco.
Quando alzai finalmente gli occhi la vidi, seduta in mezzo alla strada poco
lontano da Betty, con la schiena piegata in avanti e il capo chino, ma viva; sana e
salva. La mia mente si aggrappò a quelle due parole e provai di nuovo a
chiamarla. Lei alzò lo sguardo, ansimando. Avvicinandomi, intravidi i dettagli
anche attraverso il fumo: gli occhi arrossati, il taglio sulla fronte, le lacrime che
le rigavano le guance sporche. La testa mi pulsava allo stesso ritmo del cuore; mi
misi in ginocchio di fronte a lei, e per diversi secondi di tortura non sentii
nient’altro.
«A… a posto?» chiesi, sentendo in bocca una sorta di poltiglia.
Zu annuì, battendo i denti.
«Cosa… è successo?» balbettai.
Lei si raggomitolò su se stessa come se volesse sparire. I guanti gialli erano a
terra accanto a lei, e le mani erano ancora alzate e rivolte in avanti come se
avesse toccato l’auto un secondo prima.
Non sapevo cosa dirle per calmarla; non sapevo nemmeno come calmare me
stessa. Quella bambina, quella Gialla, aveva distrutto due auto e una vita nel giro
di pochi secondi. E, a quanto pareva, lo aveva fatto con un solo tocco.
Ma, anche sapendo tutto ciò, era pur sempre Zu; e quelle mani? Erano le mani
che mi avevano tratta in salvo.
La sollevai con braccia tremanti e la riportai a bordo di Betty. Era calda, ben
più che se avesse la febbre. La posai sul sedile e le premetti le mani sulle guance,
ma non riuscì a mettermi a fuoco. Stavo per chiudere la portiera quando mi
afferrò il polso e indicò i guanti a terra.
«Li prendo io», dissi. Glieli lanciai, poi mi voltai per affrontare il compito più
difficile.
Ciccio era ancora privo di sensi sul sedile del passeggero, mezzo fuori dalla
portiera aperta. Il conducente del pickup non era riuscito a manovrare le sue
lunghe gambe più di così, per fortuna, altrimenti anche Ciccio avrebbe fatto la
sua stessa fine, nell’erba. Lo feci sbattere contro la portiera, chiudendola, come
un mucchietto di ossa. Inciampai nella punta delle mie scarpe da ginnastica
girando intorno al minivan, e avevo ancora macchie colorate davanti agli occhi.
Spalancai la portiera del conducente. Liam era ancora svenuto e, per quanto lo
scuotessi, non riuscii a fargli riprendere conoscenza. Zu iniziò a piagnucolare,
ma i gemiti si attutirono quando premette la bocca sulle ginocchia.
«Va tutto bene, Zu», le dissi. «Stiamo tutti bene. Ogni cosa andrà a posto.»
Estrassi le braccia di Liam dal groviglio della cintura e un po’ spinsi e un po’
tirai fino a farlo scivolare fuori dal sedile del conducente. Non avevo abbastanza
forza per depositarlo su uno dei sedili posteriori, così lo lasciai a terra tra i due
sedili davanti, con il viso rivolto in alto verso di me. I muscoli ai lati della sua
bocca ogni tanto si contraevano, facendo alzare gli angoli in un sorriso
innaturale.
Fissai il volante tentando di riportare alla mente i passi necessari a far
funzionare il pickup, di ricordarmi cosa avessero fatto Liam, Cate e mio padre a
suo tempo. Sedici anni e non sapevo nemmeno dove fosse il freno a mano,
figuriamoci capire se fosse inserito o meno.
Ma non aveva importanza. Potevo guidare, che fosse inserito o meno, a
quanto pareva, e l’unica cosa che mi serviva sapere era che con il pedale destro
si andava avanti e con il sinistro ci si fermava; non c’era molto altro da sapere.
Betty oltrepassò il cuore del fumo denso e ne inseguì la scia sulla strada fino a
quando ci lasciammo finalmente alle spalle le carcasse delle due auto, e l’aria
che usciva dalle ventole non portò più tracce di Rumore Bianco nelle nostre teste
né odore di fumo nei nostri polmoni.
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svegliarsi. Zu piangeva ancora sul sedile posteriore, e non avevo idea di dove
stessimo andando: dire che fossi sollevata era poco.
«Porca miseria», gracchiò Liam. Si premette una mano sul lato della testa e
sobbalzò, mettendosi a sedere. «Porca miseria!»
Aveva il viso a pochi centimetri dai piedi di Ciccio, quindi li afferrò e li
strattonò come per assicurarsi che fossero ancora attaccati a qualcosa. Ciccio
gemette: «Mi sa che sto per vomitare».
«Zu?» Liam strisciò verso di lei, suscitando un altro verso di Ciccio quando
inavvertitamente gli diede un calcio. «Zu? Sei stata tu…?»
Per tutta risposta, lei si mise a piangere più forte, nascondendo il viso nei
guanti.
«Oh mio Dio, mi dispiace, mi dispiace tanto, io…» Liam sembrava in agonia,
come se gli stessero strappando le budella. Portò una mano alla bocca, si schiarì
la voce, ma non riuscì a pronunciare un’altra parola.
«Zu», dissi, con voce stranamente calma persino alle mie stesse orecchie.
«Ascoltami. Ci hai salvati. Non ce l’avremmo fatta senza di te.»
Liam si voltò di scatto, come se si fosse appena ricordato della mia presenza.
Trasalii, ma come potevo rimanerci male se dava la precedenza ai suoi veri
amici?
Sentii addosso gli occhi di tutti mentre Liam si faceva strada verso di me.
Raggiunto il sedile del passeggero, vi si lasciò cadere, con il viso tirato e pallido.
«Stai bene?» chiese con voce roca. «Cos’è successo? Come hai fatto a tirarci
fuori?»
«È stata Zu», risposi, ben consapevole della linea sottile tra la verità e quello
che potevo raccontare loro, per tenere al sicuro sia Zu sia me stessa. Non ero
sicura di quanto lei ricordasse dell’accaduto, ma non avevo intenzione di
confermare le sue paure. Alla fine, mi limitai a dire: «Ha fatto sbattere un’auto
contro l’altra. Ha mandato al tappeto uno dei due tizi, e l’altro se l’è data a
gambe».
«Cos’è stato…» Ciccio faticava persino a respirare, «quel rumore orribile?»
Lo fissai, tentando di spingere le parole fuori dalla bocca malgrado lo stupore.
«Non lo hai mai sentito prima?»
I due ragazzi scossero la testa.
«Merda», disse Liam, «era come sentire un gatto nel frullatore durante un
elettroshock.»
«Davvero non avevate il Rumore Bianco? Il Controllo della Calma?» chiesi,
sorpresa dalla rabbia che mi opprimeva il cuore. Che razza di campo era stato il
loro, il Paese dei Balocchi?
«E tu sì?» Liam scosse la testa, probabilmente per allontanare il ronzio dalle
orecchie.
«Lo usavano a Thurmond per… neutralizzarci», spiegai. «Quando c’erano
tensioni o problemi. Ti impedisce di pensare abbastanza a lungo per poter usare
le abilità.»
«E tu perché stai così bene?» sibilò Ciccio, in parte sospettoso e in parte
invidioso.
La domanda da un milione di dollari. La mia lunga e sordida relazione con il
Rumore Bianco includeva diversi episodi di svenimento, vomito e perdita di
memoria, per non parlare dell’esperienza più recente di sanguinamento da occhi
e bocca. Immagino che, dopo aver provato il Peggio, anche il Piuttosto Male non
sembri più così terribile. Se quella era la loro prima volta, spiegava perché erano
appassiti come erba tagliata dopo pochi secondi.
Liam osservava il mio viso, e mi domandai cosa vedesse. Tutto? Pensai alla
sensazione della sua giacca sulla guancia, alla curva della sua schiena, e
qualcosa di tiepido prese posto nel mio petto.
«Ci sono più abituata, credo», risposi infine. «E i Verdi non sono così sensibili
come i Blu e gli altri.» Mi ricordai di aggiungere questo dettaglio. Una verità e
una bugia.
Liam si offrì di prendere il mio posto appena riuscì a scrollarsi di dosso
l’espressione tirata e a riprendere un po’ di colore. Meritava un applauso per la
sua capacità di nascondere agli altri i tremiti a mani e gambe, ma io avevo
l’occhio allenato. Riconobbi come vecchi amici i fastidiosi effetti del Rumore
Bianco. Lui aveva bisogno di qualche minuto in più.
«Andiamo», disse, vedendo sul cruscotto che era passato un altro minuto.
«Hai già fatto…» La sua voce si spense.
Lo guardai e mi resi conto che mi stava fissando; o per la precisione, stava
fissando il mio ginocchio ossuto e sbucciato. Un secondo più tardi, quando
riportai gli occhi sulla strada, sentii un tepore sopra la gamba e mi scostai con un
sobbalzo.
«Ah… scusa», sussurrò Liam, spostando la mano. Le punte delle orecchie gli
erano diventate paonazze. «È solo che sei tutta tagliata. Ti prego, possiamo
fermarci un attimo? Dovremmo riprendere il filo, capire dove siamo.»
Ma non volevo accostare in un punto a caso tra i pascoli e i recinti; aspettai di
trovare una vecchia stazione di servizio, di mattoni rossi in stile coloniale, e
abbandonai la strada portando il minivan nel parcheggio deserto.
Ciccio approfittò per svuotare il contenuto dello stomaco a terra, ma non
riuscì a emettere altro che qualche conato a vuoto. Liam si alzò e gli diede una
pacca sulla schiena. «Puoi aiutare Ruby quando hai finito?»
Ciccio poteva anche odiarmi, o volermi spaventare, ma almeno si era reso
conto che avevo contribuito a salvargli la pelle. Comunque, non disse di sì: si
limitò a mettersi a braccia conserte e fare un lungo sospiro da martire.
«Grazie», disse Liam. «Chissà cosa faremmo senza di te, Madre Teresa.»
Uscì dalla portiera scorrevole dietro al mio sedile e si diresse verso le
fontanelle di acqua potabile davanti ai bagni. Zu lo seguì, saltellando, con una
borsa di tela rosa in mano. Quando tornai a guardarlo, Ciccio si era ripreso
abbastanza da cominciare a esaminarmi di malagrazia.
«Piano!» esclamai quando mi sfiorò il gomito. Spinse un dito su una delle
luci, e quella si illuminò. Vidi finalmente che il mio braccio, dal gomito al polso,
era stato scorticato dall’impatto con la strada.
«Girati verso di me.» Sembrava che Ciccio stesse lottando con tutte le forze
contro la voglia di farmi una smorfia. «Subito, Verde, prima che mi cresca la
barba.»
Mi voltai in modo da avere le gambe rivolte verso di lui sul sedile. Non erano
messe tanto meglio del mio braccio, cosa che non mi sorprese affatto. Le
ginocchia erano sbucciate e in alcuni punti si stava già formando una crosta ma,
a parte un paio di graffi e lividi che non avevano niente a che fare con l’attacco
recente, erano in condizioni decisamente migliori delle mani.
Ciccio estrasse da sotto il sedile una specie di valigetta e fece scattare il
lucchetto. Sbirciai all’interno prima che prendesse quattro pacchetti bianchi e
quadrati e la richiudesse.
«Come hai fatto a ridurti così?» borbottò, aprendo il primo. Sentii l’odore del
disinfettante e tentai di allontanarmi.
Ciccio mi rivolse uno sguardo torvo da sopra gli occhiali. «Se hai deciso di
fare come se fossi a casa tua, almeno potresti prenderti un po’ più cura di te
stessa? È già abbastanza difficile tenere interi gli altri due, senza che ti ci metta
anche tu a correre incontro al pericolo.»
«Non ho corso…» iniziai, ma ci ripensai. «Scusa.»
«Sì, beh», sbuffò. «Altro che scusa, se questi tagli fanno infezione.»
Si portò la mia mano destra vicino al viso per vedere meglio, e tentai di
dominarmi quando iniziò a sfregarla con una salvietta disinfettante con la stessa
delicatezza di un lupo che azzanna la cena. Il bruciore mi risvegliò dal torpore in
cui stavo cadendo.
D’un tratto consapevole del suo tocco, allontanai la mano dalla sua e presi la
salvietta fredda. Non era meno doloroso togliermi da sola i pezzi di asfalto dalla
mano.
«Dovresti andare a controllare Lee e Zu», dissi.
«No: si arrabbierebbero con me perché non mi sono preso cura di te.» Dopo
un momento, ammise con riluttanza: «D’altronde, sembrava che tu… beh, che
fossi messa peggio di noi, almeno. Loro possono aspettare». Doveva aver visto il
tremito all’angolo della mia bocca, perché aggiunse: «Ma non credere di poterti
prendere tutte le bende; le tue sono al massimo ferite superficiali, e nemmeno
troppo gravi!»
«Sissignore», dissi, gettando la salvietta disinfettante fuori dal finestrino. Me
ne porse una seconda per l’altra mano, con gli occhi ancora stretti ma che forse
forse si stavano addolcendo. Mi concessi di rilassarmi un minimo, ma non mi
illudevo certo che avremmo presto iniziato a intrecciare braccialetti
dell’amicizia.
«Perché hai mentito?»
Sollevai la testa di scatto a quella domanda, sentendomi improvvisamente
molto leggera. «Non ho… cosa intendi… non sono…»
«A proposito di Zu.» Lanciò un’occhiata oltre la spalla, prima di proseguire a
voce bassa. «Hai detto che ha solo mandato a tappeto quel tipo, ma… non è stato
così, vero? È morto.»
Annuii. «Non aveva intenzione di…»
«Ovviamente no», concluse lui, secco. «Mi domandavo come mai nessuno ci
stesse inseguendo, e mi sono preoccupato, pensando all’effetto che avrebbe
avuto su di lei… e beh, si vede che alla fine hai un po’ di sale in zucca anche tu.»
Mi venne in mente in quel momento: uno di quei momenti rari e perfetti in cui
la comprensione si cristallizza. Non mi voleva tra i piedi perché mi considerava
una minaccia. Non si sarebbe mai fidato di me finché gli avessi dimostrato il
contrario; e dopo l’errore sul colore del SUV, chissà quando sarebbe successo.
«Il mondo è anche migliore con un tracciatore di meno, giusto?» Si chinò a
raccogliere la valigetta e vi ripose le salviette rimaste.
Giusto, pensai, raddrizzandomi sul sedile, non gliel’ho detto.
«Non erano tracciatori. Erano FSP.»
A quelle parole, Ciccio fece una risata. «E immagino che le uniformi fossero
nascoste sotto le camicie a quadretti e i jeans.»
«Uno di loro portava un badge. E l’oggetto arancione che usavano; ne ho visto
uno a Thurmond, una volta.» Ciccio non sembrava convinto, ma non avevamo
tempo – e io di certo non avevo l’energia – per girare intorno alla verità per tutta
l’ora successiva. «Guarda», continuai, «non sei obbligato a credermi, ma sappi
che uno di loro ha inviato un numero Psi alla radio: 42.755. È Liam, giusto?»
Gli raccontai la mia versione della storia e lasciai che fosse lui a riempire i
buchi. Quando arrivai a descrivere il macchinario arancione, ne ebbe abbastanza.
Fece un gran respiro, unendo le labbra in un puntino, fino a sembrare un furetto
più che un essere umano. Trattenni il respiro a mia volta mentre lui abbassava il
finestrino e ripeteva parola per parola quello che avevo appena finito di
raccontargli, come se non si fidasse a farlo ripetere a me.
«Ve l’avevo detto che le FSP ci avrebbero acciuffati!» continuava a urlare,
come se non avessimo sentito le prime dieci volte che lo aveva strillato.
«Fortuna che almeno non era lei.»
Eccola di nuovo, la misteriosa Lei. Liam lo ignorò e continuò a darci le spalle,
ancora chino sulle fontanelle. Zu era al suo fianco e teneva premuto il pulsante
affinché lui potesse usare entrambe le mani per lavarsi il viso nel getto d’acqua
che ne scaturiva.
Usai l’ultima salvietta per pulirmi la faccia a mia volta.
«Voglio solo sapere come ha fatto l’agente FSP a riconoscerlo, prima ancora
di usare il coso arancione. Ha fatto un flash, ma sapeva il numero a memoria.
Non ha dovuto aspettare che glielo dicesse quell’aggeggio.»
Ciccio mi fissò per un secondo, poi si portò una mano alla radice del naso.
«Hanno fatto una foto a tutti, quando siamo stati smistati. A te no?»
Annuii. «Quindi hanno creato un network per cercare le foto?»
«E io come diavolo faccio a saperlo, Verde? Descrivimelo di nuovo.»
L’aggeggio arancione doveva essere una specie di fotocamera o di scanner: fu
l’unica spiegazione che mi venne in mente che Ciccio non avesse bollato come
idiota.
Mi premetti le mani sugli occhi tentando di trattenermi dal vomitare.
«È una pessima notizia se basta quello per identificarci», dichiarò Ciccio,
passandosi una mano sulla fronte come per lisciare le rughe. «A meno che siamo
già fregati, forse ormai sanno che stiamo cercando East River, e ciò significa che
manderanno altre pattuglie, e ciò significa che sorveglieranno ancora più da
vicino le nostre famiglie, e ciò significa che sarà ancora più difficile per Slip
Kid…» Non arrivò alla fine del ragionamento: non ce n’era bisogno.
Feci una risata amara. «E dai. Mobilitano un’intera flotta per un paio di
mostriciattoli?»
«Tanto per cominciare, le flotte sono fatte di navi», ribatté Ciccio. «Seconda
cosa, no, non ne mobiliterebbero certo una per un paio di mostriciattoli.»
«E allora qual è il…»
«Ma ne manderebbero una per catturare Lee.»
Non mi diede il tempo di unire i puntini.
«Verde, chi credi che fosse la mente criminale dietro la nostra evasione dal
campo?»
verso le camere esterne, evitando di passare davanti agli uffici. Scelse un punto
al margine estremo del parcheggio e sorvegliò la fila di stanze davanti a noi. Due
erano da escludere – si vedeva il riverbero della tv dalle finestre, attraverso le
tende – ma le altre potevano non essere occupate.
«Aspettate qui un secondo», disse, slacciandosi la cintura. «Vado in
ricognizione, per vedere se è sicuro.» E fu proprio come prima: non ci diede il
tempo di protestare. Saltò giù dalla macchina, gettò uno sguardo in ciascuna
stanza e iniziò a scassinare la porta prescelta. Ciccio e io rimanemmo a dividere
il cibo rimasto dal bottino della stazione di servizio di Marlinton. L’inventario
era ridotto a un pacco di patatine, cracker al burro d’arachidi, qualche caramella
e un pacchetto di Oreo, più i dolci che ero riuscita a infilare nello zaino. Un
banchetto da sogno, per un bambino di sei anni.
Lavorammo in silenzio, bravissimi a evitare di incrociare lo sguardo. Le dita
di Ciccio erano veloci e agili nell’aprire i cracker al burro d’arachidi per
divorarli. Aveva in grembo lo stesso libro consumato, le pagine aperte davanti a
lui come un sorriso. Sapevo che non stava leggendo… se non altro, perché ci
vedeva poco. Quando si decise finalmente a rivolgermi la parola, non alzò
nemmeno gli occhi.
«Ti piace la vita da fuorilegge? Secondo il Generale Lee, ce l’hai nel sangue.»
Mi sporsi a svegliare Zu, ignorando i suoi sottintesi. Ero troppo esausta per
dargli retta, e francamente nessuna delle risposte che avevo sulla punta della
lingua lo avrebbe convinto. Prima che potessi scendere dal minivan, con lo zaino
e il cibo tra le mani, Ciccio sbatté la portiera con una manata rabbiosa. Nella
luce fioca del motel sembrava… non arrabbiato, esattamente, ma nemmeno
molto amichevole. «Devo dirti una cosa.»
«Me ne hai già dette abbastanza, grazie tante», replicai.
Attese che lo guardassi da sopra la spalla prima di proseguire. «Non nego che
tu ci abbia aiutato oggi, o che tu abbia passato anni in una fogna, ma te lo dico
adesso: usa le prossime ore per pensare seriamente alla tua decisione di
rimanere, e se dovessi decidere di sgattaiolare via nel cuore della notte, sappi che
probabilmente è la scelta migliore.» Tesi di nuovo la mano verso la portiera, ma
non aveva ancora finito. «So che nascondi qualcosa. So che non sei stata del
tutto onesta. E se per qualche folle motivo credi che ti possiamo proteggere,
ripensaci. Saremo fortunati a uscirne vivi anche senza il dramma che ti porti
dietro tu.»
Sentii una stretta allo stomaco ma rimasi impassibile. Se sperava di
intravedere un indizio sul mio viso, sarebbe rimasto deluso; avevo passato la
maggior parte degli ultimi sei anni a esercitarmi a mantenere un’espressione di
perfetta innocenza davanti alle armi da fuoco.
I suoi sospetti non potevano corrispondere alla realtà, però, altrimenti non mi
avrebbe concesso un’ultima possibilità di scappare. Mi avrebbe gettata fuori dal
minivan con le sue mani, e preferibilmente ad alta velocità, nel mezzo di
un’autostrada deserta.
Ciccio si passò il pollice sul labbro inferiore. «Penso…» esordì. «Spero che tu
arrivi a Virginia Beach, davvero, ma…»
Si tolse gli occhiali e si strinse la radice del naso con due dita. «Tutto questo è
ridicolo. Scusa. Ma pensa seriamente a ciò che ti ho detto. Fa’ la scelta giusta.»
Liam gesticolava dalla porta, che teneva aperta con il piede. Zu posò una
mano sulla spalla di Ciccio. Lui trasalì, battendo le palpebre in segno di sorpresa
al tocco guantato di gomma gialla. Era stata così silenziosa che anch’io mi ero
dimenticata della sua presenza.
«Andiamo, Suzume», disse Ciccio, posandole a propria volta una mano sulla
spalla. «Forse, se siamo fortunati, il Generale si degnerà di concederci una
doccia. E forse, se siamo molto fortunati, ne farà una anche lui.»
Zu lo seguì fuori dall’auto, lanciandomi uno sguardo ansioso. Le feci un gesto
con la mano e un sorriso forzato, allungandomi a prendere il mio zaino nero.
Non lo notai finché fui ormai uscita, e il cielo scuro ebbe prosciugato il poco
tepore rimasto sulla mia pelle. Con una mano tenni aperta la portiera scorrevole
e mi chinai a prendere il libro dalla tasca sullo schienale del sedile del
passeggero. Era la prima e unica volta che vedevo il libro fuori dalle mani di
Ciccio.
Il sacchetto di M&M’s, vuoto e appiattito, che usava come segnalibro, era
ancora al suo posto. Aprii il volume a quella pagina e non ebbi nemmeno
bisogno di guardare la costa per capire di cosa si trattasse. La collina dei conigli,
di Richard Adams. Non mi stupiva che si fosse impegnato tanto per nascondere
cosa stesse leggendo. La storia di un branco di conigli che voleva farsi strada nel
mondo? Liam non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Adoravo quel libro, e a quanto pareva anche Ciccio. Era la stessa vecchia
edizione che mio papà mi leggeva prima di dormire, quella che rubavo dal suo
studio e mi mettevo accanto al letto quando non riuscivo a prendere sonno.
Come aveva fatto a trovarmi proprio quando ne avevo più bisogno?
I miei occhi si bevvero ogni parola, adorandone la forma finché con le labbra
iniziai a formarle e a leggere ad alta voce per chiunque e per nessuno.
vecchio motel a lavarmi i capelli con uno shampoo che puzzava di lavanda
sintetica. Nel minuscolo bagno c’erano sei cose in tutto: il lavandino, il
gabinetto, l’asciugamano, la doccia, la tenda e io.
Fui l’ultima a entrare. Quando finalmente ebbi varcato la porta della stanza,
Zu aveva già finito la doccia e Ciccio si era barricato nel bagno, dove passò l’ora
successiva a strofinare se stesso e tutti i suoi abiti fino a farli odorare di sapone
vecchio. A me sembrava inutile tentare di fare il bucato in un lavandino con una
saponetta per le mani, ma non c’era una vasca o un detersivo che Ciccio potesse
usare. Noi rimanemmo seduti e fingemmo di non sentire la sua predica
appassionata sull’importanza dell’igiene.
«Dopo tocca a te», mi aveva detto Liam. «Ricordati solo di ripulire tutto
quando hai finito.»
Afferrai al volo l’asciugamano che mi aveva lanciato. «E tu?»
«La faccio domani mattina.»
Con la porta del bagno chiusa a chiave, posai lo zaino sul coperchio del water
e mi misi all’opera per separarne il contenuto. Estrassi i vestiti che mi avevano
dato e li gettai a terra. Qualcosa di rosso e setoso sbucava dalla pila, e feci un
salto per lo spavento.
Solo dopo diversi minuti di ispezione sospettosa capii di cosa si trattava: il
vestito rosso che avevamo trovato nell’armadio della roulotte.
Zu, pensai, passandomi stancamente una mano sul viso. Doveva averlo
afferrato mentre non guardavo. Lo sfiorai con la punta di un piede, facendo una
smorfia al vago odore di fumo di sigaretta. Sembrava troppo grande per me, per
non parlare del fatto che la sua origine mi faceva un po’ impressione. Ma era
chiaro che Zu ci tenesse a farmelo avere; e indossarlo, per quanto fossi riluttante
ad ammetterlo, era più intelligente che continuare ad andare in giro con
l’uniforme del campo. Potevo farlo per Zu: sarebbe valsa la pena stare scomoda
se potevo farla felice.
Non c’era shampoo, ma la Lega dei Bambini mi aveva fornito del deodorante,
uno spazzolino da denti verde brillante, un pacco di fazzoletti, degli assorbenti e
un gel disinfettante per le mani: tutto in formato da viaggio e chiuso in una
borsetta di plastica. Sotto, trovai una piccola spazzola e una bottiglia d’acqua. E,
proprio in fondo a tutto, un altro pulsante di emergenza.
Doveva essere rimasto lì per tutto il tempo, senza che me ne accorgessi.
Avevo buttato via il primo che Cate mi aveva dato, abbandonandolo nel fango
del sottobosco. Il pensiero che quello fosse rimasto nel mio zaino per tutto il
tempo – per tutto il tempo – mi fece accapponare la pelle. Perché non avevo
ispezionato con cura lo zaino prima?
Sollevai il pulsante con due dita e lo feci cadere nel lavandino come se fosse
stato un carbone ardente. Misi la mano sul rubinetto, pronta ad annegarlo in un
getto d’acqua e metterlo fuori uso, ma qualcosa me lo impedì.
Non so per quanto tempo rimasi a fissarlo prima di prenderlo di nuovo e
alzarlo verso la luce, per vedere attraverso lo scuro strato esterno. Cercai una
lucina intermittente rossa che mi dicesse se stava registrando. Lo avvicinai
all’orecchio per sentire un ronzio o un bip che rivelasse se era stato attivato. Se
era acceso, e se era davvero una trasmittente, non ci avrebbero forse già
raggiunti?
Era un’idea pessima tenerlo… per sicurezza? Nel caso fosse capitato di nuovo
qualcosa, e io non avessi potuto aiutare gli altri? Stare con la Lega non sarebbe
forse stato meglio che essere riportata a Thurmond? Persino essere uccisa…
qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di quello.
Quando rimisi il pulsante di emergenza nella tasca dello zaino, non lo feci per
me. Se Cate mi avesse vista avrebbe sorriso, e il pensiero mi fece arrabbiare
ancora di più. Non avevo fiducia nemmeno nella mia capacità di difendere i miei
compagni.
Fu stranissimo infilarmi sotto il getto caldo della doccia senza il ticchettio del
timer automatico di Thurmond a ricordarmi che avevo meno di tre minuti di
tempo. Era un bene, dato che lo sporco sembrava scivolarmi via di dosso a strati.
Dopo essermi strofinata per un buon quarto d’ora, mi sentii come se avessi
rivoltato ogni centimetro di pelle. Provai persino a usare il rasoio rosa intenso
che era incluso nel pacchetto di sapone e shampoo dell’albergo, riaprendo vecchi
tagli e procurandomene di nuovi.
Sedici anni, pensai, e questa è la prima volta che posso depilarmi le gambe.
Era sciocco, davvero sciocco. Non sapevo cosa stessi facendo, ma non mi
importava. Ero abbastanza grande. Nessuno me l’avrebbe impedito.
La mamma mi tornava sempre in mente a sprazzi. A volte sentivo la sua voce,
una parola o due. Altre volte mi assaliva un ricordo così realistico che era come
rivivere un momento preciso. E ora, mentre continuavo a depilarmi, non riuscivo
a pensare ad altro che a quando avevamo parlato proprio di questo, e al suo
sorriso mentre mi ripeteva ancora e ancora: «Magari quando compirai tredici
anni».
Alla fine, lavai il rasoio e lo gettai verso lo zaino. Non pensavo che qualcun
altro avrebbe voluto usarlo, ormai. Con le gambe insanguinate, rivolsi
l’attenzione al nido che avevo in testa. I capelli erano ancora troppo arruffati per
riuscire a passarci le mani. Dovetti scioglierli nodo per nodo, usando più
shampoo di quanto avrei voluto; quando arrivai alla fine, piangevo.
Ho sedici anni.
Non so cosa avesse scatenato le lacrime. Un attimo stavo bene, un attimo
dopo mi sembrava che il mio petto fosse collassato su se stesso. Tentai di fare un
respiro profondo, ma l’aria era troppo calda. Trovai la parete di piastrelle
bianche con le mani un secondo prima di caderci addosso con il resto del corpo.
Mi sedetti sul pavimento in falsa pietra della doccia e mi premetti le mani al
petto, grata che il rumore dell’acqua e della ventola coprisse quello della mia
crisi di nervi. Non volevo che gli altri mi sentissero, specialmente Zu.
Era molto sciocco da parte mia. Avevo sedici anni… e allora? Non vedevo i
miei genitori da sei anni, e allora? Forse non li avrei rivisti mai più, e allora?
Non che si ricordassero di me.
Avrei dovuto essere contenta di aver finito, di essermene andata da quel posto.
Ma, dentro o fuori, ero sola, e stavo iniziando a chiedermi se lo fossi sempre
stata, e se lo sarei rimasta per sempre. La pressione dell’acqua cambiò e la
temperatura diventò bollente quando qualcuno nella stanza di fianco tirò lo
sciacquone. Non aveva importanza: la sentivo a malapena precipitarmi sulla
schiena. Con le dita schiacciai le ginocchia sanguinanti, ma non sentii nemmeno
quello. Cate mi aveva detto che dovevo chiudermi il passato alle spalle, ma
come potevo farlo? Come si poteva dimenticare e basta?
Bussarono alla porta, prima in modo leggero, incerto, poi più insistente dato
che non rispondevo.
«Ruby?» chiamò la voce di Liam. «Tutto a posto?»
Feci un respiro profondo e cercai a tentoni il rubinetto. L’acqua si ridusse a
poche gocce, poi sempre meno, poi più niente.
«Puoi… ehm… aprire la porta? Solo per un attimo.» Sembrava così nervoso
che fece innervosire anche me. In un momento di panico pensai che fosse
capitato qualcosa. Afferrai l’asciugamano e me lo avvolsi intorno. Feci scattare
la serratura e abbassai la maniglia prima ancora che il cervello registrasse le mie
azioni.
La prima cosa che mi investì fu un getto d’aria gelida. La seconda furono gli
occhi di Liam. La terza, i calzettoni bianchi che aveva tra le mani.
Lanciò un’occhiata dentro il bagno, stringendo la bocca in una linea sottile. La
stanza del motel era più scura di quando eravamo entrati; doveva essere notte
piena. Non ne ero sicura, non del tutto, ma mi sembrò che una punta di colore gli
infiammasse le orecchie.
«Va tutto bene?» sussurrai. Lui si limitò a fissarmi, lasciandosi avvolgere dalla
nebbia tiepida del bagno. «Liam?»
Mi porse le calze. Le guardai, poi rialzai lo sguardo su di lui, sperando che la
mia espressione non tradisse lo stupore.
«Volevo solo… darti queste», disse, agitandole per aria e tendendomele di
nuovo. «Sono per te…»
«A te non servono?»
«Ne ho qualche paio di riserva, e tu non ne hai, giusto?» Sembrava stesse
provando una forma di dolore fisico. «Sul serio. Per favore. Prendile. Ciccio dice
che le estremità sono la prima cosa che si raffredda, perciò ne hai bisogno, e…»
«Oh mio Dio, Verde», sentii dire a Ciccio da qualche parte nella stanza.
«Prendi quelle dannate calze e metti fine alla sua sofferenza!»
Liam non attese che tendessi la mano. Si sporse oltre me e le posò sul mobile
accanto al lavandino.
«Ehm… grazie», dissi.
«Grande… volevo dire, figurati.» Si voltò per andarsene, ma cambiò idea,
come se gli fosse venuto in mente qualcosa. «Okay. Grande. A posto…
insomma, tu…»
«Con parole tue, Lee», disse Ciccio. «Qui c’è qualcuno che vuole dormire.»
«Ah, giusto. Dormire.» Liam fece un gesto vago in direzione del letto. «Tu e
Zu dormite insieme. Spero che non ti dispiaccia.»
«Certo che no.»
«Okay, grande!» Fece un sorriso stranamente luminoso.
Mi domandai cosa si aspettasse che dicessi o facessi, se si trattasse di uno di
quei momenti per i quali non ero preparata, avendo trascorso gli ultimi sei anni
della mia vita in una baracca con altre decine di ragazze. Sembrava che
parlassimo lingue diverse.
«Sì, beh, grande», ripetei, più confusa che mai.
Sembrò funzionare, comunque. Liam si voltò e si allontanò senza aggiungere
altro.
Presi le mie nuove calze dal mobile e le esaminai. Appena prima di chiudere
la porta, sentii la voce di Ciccio con il solito tono da saputello.
«…spero tu sia contento», diceva. «Avresti dovuto lasciarla in pace. Stava
bene.»
Ma non era vero, e in qualche modo Liam lo aveva capito.
Qualche ora più tardi, con la luna ancora visibile nel cielo grigiazzurro del
mattino, sciolsi delicatamente le dita di Zu dal mio vestito e scivolai fuori dal
letto. La luce rossastra della sveglia sul comodino mi impresse a fuoco l’ora
nella mente. Le 5.03. Ora di andarsene.
Nessuno di noi aveva disfatto le valigie, visto che Liam aveva insistito, ma
dovevo recuperare lo spazzolino e il dentifricio da dove li avevo lasciati, accanto
a quelli di Ciccio, in bagno. C’era un altro set da bagno vicino al lavandino,
insieme alla macchinetta per il caffè istantaneo più brutta del mondo. Lo infilai
nello zaino, insieme al più piccolo degli asciugamani.
Fuori, c’era solo qualche grado in più che all’interno della stanza. Il tipico
meteo schizofrenico della Virginia in primavera. Doveva aver piovuto la sera
precedente, per giunta. La nebbiolina bianca che il temporale si era lasciato
dietro serpeggiava tra le auto e gli alberi. Il minivan, che durante la notte
avevamo lasciato in fondo al parcheggio, era davanti alla porta del motel. Se non
avessi costeggiato la fiancata di Black Betty, passando una mano sulle sue
ammaccature, non credo che mi sarei accorta di Liam.
Era in ginocchio a lato della portiera scorrevole, intento a grattare via con le
chiavi ciò che restava della scritta . Per terra c’era la targa dell’Ohio
BETTY JEAN PULIZIE
che avevamo usato fino ad allora. Trascinai i piedi e mi fermai a poca distanza
da lui.
Aveva le occhiaie, il viso teso e assorto nei pensieri, la bocca stretta in una
linea seria che non gli donava per niente. Con i capelli umidi pettinati
all’indietro e il viso appena rasato, poteva dimostrare due o tre anni in meno del
giorno prima, ma i suoi occhi raccontavano una storia diversa.
Sfregai l’asfalto sbriciolato con la punta delle scarpe, attirando la sua
attenzione. Si alzò. «Cosa c’è che non va?»
«Eh?»
«Ti sei svegliata presto. Di solito, devo trascinare Ciccio nella doccia e
sbatterlo sotto il getto gelido per farlo partire.»
Alzai le spalle. «Mi sa che sono ancora abituata ai ritmi di Thurmond.»
Liam si alzò lentamente, pulendosi le mani sui jeans. Il modo in cui i suoi
occhi continuavano a tornare su di me mi faceva pensare che volesse dirmi
qualcosa, ma si limitò a farmi un sorrisetto. Gettò la targa dell’Ohio sul sedile
posteriore, e al suo posto ne mise una del West Virginia. Non feci in tempo a
chiedergli da dove l’avesse tirata fuori.
Misi lo zaino per terra e mi appoggiai alla portiera. Liam scomparve sul retro
del minivan, e riapparve pochi minuti dopo con una tanica rossa e un tubo nero
mangiucchiato. Con gli occhi chiusi e le orecchie appoggiate al vetro freddo,
ascoltai la canzoncina stucchevole di una pubblicità di un supermercato. Quando
tornò la voce dell’annunciatrice fu per una cupa proiezione di ciò che restava di
Wall Street: lesse i valori della Borsa come se fosse stato un elogio funebre.
Mi costrinsi ad aprire gli occhi e posai lo sguardo dove Liam si trovava fino a
un minuto prima.
«Liam?» chiamai, prima di riuscire a trattenermi.
«Sono quaggiù», fu la risposta immediata.
Lanciai un’occhiata alla fila di porte color acquamarina e mi diressi verso il
retro del minivan. Mi fermai un paio di passi dietro di lui e mi alzai sulle punte
dei piedi, chinandomi a destra per vedere meglio cosa stesse facendo al SUV
grigio parcheggiato lì a fianco. Lavorava in silenzio e concentrato. Una estremità
del tubo era infilata a fondo nel serbatoio del SUV. Liam si attorcigliò il resto del
tubo indisciplinato intorno alla spalla e fece cadere l’altra estremità nella tanica
rossa.
«Cosa stai facendo?» Non mi premurai di nascondere lo shock.
Passò la mano libera lungo il tubo, tirandolo leggermente nella nostra
direzione, come se stesse tirando una corda, o facendo cenno a qualcuno di
seguirci. Qualche goccia di liquido dall’odore pungente cominciò a cadere
dall’estremità libera del tubo. Sta rubando la benzina, mi resi conto. Avevo
sentito di gente che lo faceva durante l’ultima crisi del carburante, ma non lo
avevo mai visto fare dal vivo. Il liquido colmò la tanica con flusso costante,
riempiendo lo spazio tra noi di un odore penetrante.
«C’è crisi», disse senza traccia di rimorso. «Sono tempi un po’ disperati, e per
un bel pezzo ieri siamo andati avanti in riserva.»
«Tu sei Blu, giusto?» dissi, indicando la mano che guidava la benzina verso la
tanica. «Non potresti far muovere Betty anche senza la benzina?»
«Sì, ma… non per molto.» Liam sembrava timido. Strinse le labbra, che si
tinsero di un bianco innaturale, facendo risaltare una piccola cicatrice
sull’angolo destro. Quando mi accorsi che lo stavo fissando, mi accucciai
accanto a lui, più per nascondere l’imbarazzo che per aiutare davvero. Rubare
benzina era sorprendentemente facile.
«Sono colpita dal fatto che tu sia in grado di usare i tuoi poteri, credo.»
Una parte di me si chiese se avessi capito male fin dall’inizio. Per come
andavano le cose a Thurmond… i dirigenti del campo ci facevano vivere nel
terrore di farci sorprendere a usare le nostre abilità, e ci facevano capire che ciò
che eravamo e ciò che sapevamo fare era pericoloso e innaturale. Errori e
incidenti non erano scuse valide, e la punizione era inevitabile. Non c’era modo
di testare la nostra curiosità, di sfiorare i limiti per vedere se fosse possibile
infrangerli.
Se Liam era così padrone delle proprie abilità doveva significare che aveva
passato anni a addestrarsi, per la maggior parte fuori dalla recinzione di un
campo. Non mi era mai venuto in mente che gli altri bambini, al sicuro tra le
mura di casa, nascosti – che gli altri, che non avevano mai visto l’interno di una
baracca, mai sperimentato il nulla pesante e immobile della vita in un campo –
potessero essere riusciti a imparare cose meravigliose. Non avevano paura di se
stessi; non erano schiacciati dal peso di ciò che non sapevano.
Provai una sensazione stranissima, come se avessi perso qualcosa pur senza
averlo mai avuto: la sensazione di non essere più ciò che ero stata, e di non
essere ancora ciò che ero destinata a diventare. Mi sentii vuota fin dentro le ossa.
«Per noi Blu la faccenda è abbastanza semplice», spiegò Liam. «Guardi
qualcosa, ti concentri abbastanza da immaginare quell’oggetto muoversi dal
punto A al punto B, e lui… lo fa. Scommetto che un sacco di Blu a Thurmond
avevano capito come usare le proprie abilità. Solo che hanno scelto di non farlo.
Magari a causa di quel rumore.»
«Forse hai ragione.» Non avevo interagito a sufficienza con i Blu per saperlo.
Liam strattonò il tubo e il flusso si ridusse a uno sgocciolio. Alzai lo sguardo,
perlustrando il parcheggio e le porte del motel alla ricerca di segni di vita, e non
mi riabbassai finché fui sicura che eravamo soli.
«Lo hai imparato da solo?» chiesi, per verificare la mia teoria.
Lui mi lanciò uno sguardo. «Sì. Sono entrato in un campo abbastanza tardi e
ho avuto un sacco di tempo, da solo e annoiato a morte, per capire le cose.»
Naturalmente, la domanda successiva era: Ti nascondevi? Ma non avrei potuto
chiederlo senza che lui chiedesse a me della mia storia e di come fossi stata
catturata.
Dovevo smetterla. Mi tremavano le mani come se mi avesse appena detto che
aveva intenzione di strangolarmi. Fino a quel momento non aveva fatto nulla che
non fosse perfettamente gentile. Non mi aveva forse dimostrato, più e più volte,
di essere disposto a essere mio amico se io glielo avessi permesso?
Era passato tanto tempo dall’ultima volta che avevo desiderato un amico che
non ero nemmeno più sicura di come fare amicizia. In prima elementare era stato
ridicolmente facile. La maestra ci aveva detto di scrivere il nome del nostro
animale preferito su un foglio, poi ci aveva fatto girare per la stanza fino a
trovare qualcuno con lo stesso animale. Perché fare amicizia, a quanto pareva,
poteva essere facile come trovare qualcun altro a cui piacessero gli elefanti.
«Mi piace questa canzone», dissi all’improvviso. La voce di Jim Morrison era
morbida e ci raggiungeva a malapena, filtrando dagli altoparlanti di Betty.
«Ah sì? I Doors?» Il viso di Liam si illuminò. «Come on baby, light my fire»,
canticchiò a voce bassa, imitando quella di Jim Morrison. «Try to set the night
on fire…»
Scoppiai a ridere. «Mi piace quando la canta lui.»
Liam si strinse il petto, come se lo avessi ferito, ma si riprese in fretta. Quando
il DJ annunciò la canzone successiva, fu come se avesse vinto la lotteria.
«Adesso sì che ragioniamo!»
«Gli Allman Brothers?» Che buffo, avrei detto che fosse un fan dei Led
Zeppelin.
«Questa è la musica della mia anima», dichiarò, muovendo la testa a ritmo.
«Ma hai mai ascoltato bene le parole?» L’ansia si allontanava dalle mie spalle
e la mia voce diventava più salda a ogni parola. «Tuo padre era un giocatore
d’azzardo giù in Georgia, che si è trovato dal lato sbagliato di una pistola? Sei
nato sul sedile posteriore di un Greyhound?»
«Ehi, su», disse arruffandomi i capelli. «Ho detto che era la musica della mia
anima, non della mia vita. Per tua informazione, il mio patrigno fa il meccanico
giù nel North Carolina e, a quanto ne so, è ancora vivo e vegeto. Ma sì, sono
nato sul sedile posteriore di un autobus.»
«Stai scherzando», mormorai confusa.
«Proprio no. Sono finito sul giornale e compagnia bella. Sono stato il
Miracolo del Bus per i primi tre anni di vita e ora sto…»
«‘Tentando di guadagnarmi da vivere e facendo il meglio che posso’?»
conclusi.
Lui rise, e le punte delle sue orecchie si tinsero di rosa acceso. La canzone
proseguì, riempiendo l’aria tra noi del suo ritmo veloce e delle chitarre
inarrestabili. Ogni pezzetto si incastrava alla perfezione: non proprio country e
non proprio rock and roll. Un suono caldo, veloce, del Sud. Mi piacque ancora di
più quando Liam iniziò a cantare.
Quando il flusso di benzina si arrestò del tutto, estrasse con cura il tubo e
rimise a posto il tappo. Prima di alzarsi, mi toccò la spalla con la sua. «Dove
diavolo hai preso quel vestito?»
Sbuffai, tirando la gonna. «Un regalo di Zu.»
«Sembra che tu non veda l’ora di darlo alle fiamme.»
«Non posso promettere che non ci sarà uno sfortunato incidente a un certo
punto», dissi, molto seriamente.
Liam rise di nuovo, e mi sembrò una piccola vittoria.
«Beh, Verde, è stato carino da parte tua indossarlo», mi disse. «Ma fai
attenzione. A Zu manca così tanto la compagnia di una ragazza che potrebbe
trasformarti in una bambolina da vestire.»
«I giovani d’oggi. Pensano che il mondo appartenga a loro.»
Liam sorrise. «I giovani d’oggi.»
Ci spostammo da una macchina all’altra, percorrendo l’intero parcheggio.
Non mi chiese aiuto, e io non gli feci altre domande. Avremmo potuto rimanere
in quel confortevole silenzio per ore, e ancora non mi sarebbe bastato.
13
C e Zu non furono contenti di essere tirati giù dal letto alle cinque e mezzo del
ICCIO
mattino, e furono ancora meno entusiasti che Liam li obbligasse a rifare il letto
mentre noi sistemavamo il bagno e rimettevamo a posto gli asciugamani usati.
Non proprio igienico, ma meglio che far sapere al direttore che avevamo invaso
il suo motel per una notte.
Ciccio mi lanciò un’occhiata mentre si dirigeva a grandi passi verso il
minivan, e si bloccò. Si vedeva benissimo cosa stesse pensando: Sei ancora qui?
Alzai le spalle. Affari tuoi.
Scosse la testa e fece un altro dei suoi sospiri.
Dopo esserci sistemati, Zu e Ciccio nei sedili centrali, osservammo Liam che
richiudeva la porta del motel con in mano una tazza di caffè schifoso.
È vero, pensai sbirciando Zu con la coda dell’occhio. Si era accoccolata sul
sedile e usava la mano guantata come cuscino. Non è che abbiamo riposato un
granché, ieri notte.
Liam seguì la solita routine di controllare la posizione degli specchietti,
aggiustare l’inclinazione del sedile, allacciare la cintura e girare la chiave nel
cruscotto. Ma il punto successivo all’ordine del giorno non era rispondere al
fuoco di fila di domande di Ciccio su dove fossimo diretti. Attese che il suo
amico fosse nel mondo dei sogni prima di chiedermi: «Sai leggere una mappa?»
L’imbarazzo e la vergogna che mi assalirono mi fecero arrossire. «No. Scusa.»
Non era una di quelle cosa che prima o poi tuo padre ti dovrebbe insegnare?
«Nessun problema.» Liam batté una mano sul sedile vuoto accanto a sé.
«Dopo ti insegno, ma per ora ho solo bisogno di qualcuno che tenga d’occhio i
cartelli per me. Vieni nella postazione del copilota.»
Indicai Ciccio con il pollice.
Liam scosse la testa. «Mi prendi in giro? Ieri pensava che una cassetta delle
lettere fosse un clown.»
Mi slacciai la cintura con un sospiro. Arrampicandomi sopra le gambe tese di
Ciccio per raggiungere il posto davanti, mi guardai alle spalle e notai i suoi
occhiali troppo piccoli. «Ci vede davvero così male?»
«Peggio», rispose Liam. «Allora, appena scappati da Caledonia, ci siamo
intrufolati in una casa per dormire. Mi sono svegliato nel cuore della notte e ho
sentito un rumore terribile, come una mucca in punto di morte o qualcosa del
genere. Ho seguito i lamenti, con in mano una mazza da baseball che avevo
trovato in giro, pensando di dover prendere qualcuno a bastonate in testa per
poter scappare. Poi ho visto cosa c’era sul fondo della piscina vuota.»
«Non ci credo…»
«Credici», confermò. «Occhio di Falco voleva andare a fare la pipì e, chissà
come, non ha visto l’enorme buco per terra. Si è storto la caviglia e non riusciva
più ad arrampicarsi fuori.»
Mi sforzai di non ridere, ma era impossibile. La scena che mi aveva descritto
era troppo buffa. Liam cambiò stazione radio, lasciando scegliere a me. Sembrò
soddisfatto della mia decisione di fermarmi sugli Who.
Con il finestrino completamente abbassato, mi sporsi all’esterno, appoggiando
il mento sulle mani. L’aria mattutina era tiepida, accarezzata dai primi raggi di
sole. Quando alzai lo sguardo oltre le cime degli alberi, non vidi altro che il cielo
azzurro.
Un suono leggero, l’ombra di un sospiro, si librò alle nostre spalle. Sia Liam
sia io ci voltammo a guardare Zu che dormiva.
«Ti abbiamo svegliata ieri notte?» chiese Liam.
«Ho sentito qualcosa», risposi. «Ha spesso incubi?»
«Nelle poche settimane da quando ci siamo conosciuti, è capitato una notte sì
e una no. A volte sogna Caledonia e riesco a calmarla, ma non so mai cosa dire
sulla sua famiglia. Giuro che se incontro i suoi genitori…» La sua voce si
spense, ma la rabbia che ammantava le sue parole diede all’atmosfera una carica
palpabile.
«Cosa le hanno fatto?»
«L’hanno consegnata, perché avevano paura di lei. Prendi Ciccio e me. I nostri
genitori hanno provato a tenerci nascosti, ed è per questo che siamo finiti tardi
nei campi. I genitori di Zu l’hanno mandata via quando ha fatto andare in corto
circuito la macchina di suo padre in mezzo all’autostrada.»
«Oh Dio.»
«L’hanno consegnata durante la prima Raccolta ufficiale.» Liam appoggiò il
gomito alla portiera e il viso sulla mano. Il cappello dei Redskins gli nascondeva
gli occhi. «Mi ero dimenticato, tu te la sei persa.»
Aspettai che mi spiegasse.
«È stato dopo che la maggior parte dei nostri coetanei sono stati catturati o si
sono nascosti. Il governo ha emesso un avviso per i genitori che non si sentivano
al sicuro o in grado di prendersi cura dei figli, dicendo che potevano mandarli a
scuola in un dato giorno e le Forze Speciali Psi li avrebbero portati a un centro di
riabilitazione. Fu fatto tutto di nascosto per non spaventare i bambini o
incoraggiarli a comportarsi male.»
Mi sfregai la fronte per allontanare le immagini che mi svolazzavano nella
mente. «Te l’ha detto lei?»
«A voce, intendi?» Tenne gli occhi fissi davanti a sé, ma le sue mani
strozzavano il volante. «No. Lo ha scritto a spizzichi e bocconi. Non le ho
sentito pronunciare una sola parola da quando…»
«Da quando siete evasi?» conclusi. Mi sentii sollevata malgrado quello che
avevo scoperto. «È una sua scelta allora, non qualcosa che le hanno fatto.»
«No, è esattamente per quello che le hanno fatto, e non è una scelta», disse
Liam. «Penso che la cosa più frustrante al mondo sia la sensazione di avere
qualcosa da dire e non sapere come trasformarlo in parole. Aver vissuto
un’esperienza, e non essere in grado di tirarla fuori prima che ti avveleni. Hai
ragione, Zu è in grado di parlare, e forse un giorno lo farà; ma dopo tutto quello
che le ho fatto passare, dopo quanto è successo… non lo so proprio.»
Era davvero la cosa più frustrante al mondo, al secondo posto dopo il senso di
inutilità che accompagna l’essere intrappolati in un campo, dove ogni decisione
viene presa al posto tuo. Dopo quanto accaduto con Sam, non dissi una parola
per quasi un anno; non c’era modo di dar voce a un dolore di quel tipo.
La radio perse il segnale e si spostò su una stazione in spagnolo, poi su una di
musica classica, infine si fermò su una voce maschile asciutta e nasale che
leggeva il notiziario.
«…per informarvi che i primi resoconti sembrano indicare che quattro
esplosioni separate siano avvenute questa mattina nella metropolitana di
Manhattan…»
Liam fece per cambiare stazione, ma lo fermai.
«Sebbene le conferme tardino ad arrivare dalla città, si ritiene che le
esplosioni non avessero natura nucleare o biologica e che fossero concentrate
nella zona centrale, dove pare che il presidente Gray si fosse nascosto dopo il
più recente tentativo di omicidio.»
«Lega, West Coast o fasulla?» La voce assonnata di Ciccio si levò dietro di
noi.
«Secondo le nostre fonti, il presidente Gray e il suo gabinetto credono sia
opera della Coalizione Federale.»
«Coalizione Federale?»
«West Coast», risposero i ragazzi all’unisono. Ciccio mi spiegò meglio.
«Hanno sede a Los Angeles. Sono composti da quella parte di governo che è
sopravvissuta al bombardamento di Washington e non era entusiasta della
decisione di Gray di ignorare il limite di due mandati che avevano stabilito. Per
la verità, non fanno che parlare, dato che l’esercito si è schierato dalla parte di
Gray, ovviamente.»
«Perché Gray è a New York e non a Washington?»
«Stanno ancora ricostruendo il Campidoglio e la Casa Bianca, solo che non
sta andando troppo bene, dato che lo Stato è in default totale», disse Liam.
«Gray ha sparpagliato i membri del governo tra la Virginia e New York, per
proteggerli. Per assicurarsi che nessuno dei gruppi di Psi fuggitivi né la Lega
potesse farli fuori tutti in un colpo solo.»
«Quindi la Coalizione Federale… è contraria ai campi? Al programma di
riforma?»
Ciccio sospirò. «Mi spiace essere io a darti la notizia, Verde, ma una cosa che
dovrai imparare abbastanza in fretta è che noi non siamo una priorità per
nessuno, in questo momento. Sono tutti concentrati sul fatto che il Paese è
rimasto senza il becco di un quattrino.»
«Per chi tifiamo, allora?» insistei.
«Tifiamo per noi», disse Liam dopo un momento. «E basta così.»
A quanto pareva, erano rimaste solo due catene di ristoranti nell’intero Stato
della Virginia, o almeno nella parte occidentale: Cracker Barrel e Waffle House,
e uno dei due non apriva prima delle nove del mattino.
«Grazie al cielo», disse Liam con voce solenne, parcheggiando a poca
distanza da Waffle House. «Non avrei saputo scegliere tra due ristoranti così
ricercati.»
Si era incaricato di ordinare tutto quello che poteva permettersi con venti
dollari, ma rifiutò quando gli chiesi se voleva che lo accompagnassi.
Zu agitò in aria un quadernino per attirare la sua attenzione prima che se ne
andasse.
«Già finito?»
Annuì.
«Perché non chiedi a Ciccio di controllarti le risposte? No, non fare quella
faccia. È più bravo di me in matematica.»
«Ci puoi scommettere», replicò Ciccio senza alzare gli occhi dal libro.
Zu aprì il quadernino a una pagina bianca e scribacchiò qualcosa. Quando lo
alzò per farglielo leggere, Liam sorrise.
«Wow, wow… le divisioni in colonna? Mi sa che stai facendo il passo più
lungo della gamba, signorina. Ancora non padroneggi le moltiplicazioni a doppia
cifra.»
Lo osservai saltare giù dal minivan, scossa nel profondo da una fiammata di
rabbia. Sarebbe stato tutto più facile se lui non fosse stato l’unico a dimostrare
una ventina d’anni: mi sarei sentita molto meglio sapendo che uno di noi poteva
essere là fuori a guardargli le spalle. Doveva aver sentito addosso il mio sguardo,
perché si fermò e si voltò con un cenno di saluto prima di sparire dietro l’angolo.
«È ora che tu la smetta di incoraggiarlo», stava dicendo Ciccio a Zu. Guardai
verso di loro e vidi che lui usava la cima della matita per seguire le righe di
numeri sul quaderno. «Dovrà accettare la realtà, prima o poi.»
Zu fece una smorfia come se avesse avuto una caramella al limone attaccata
alla lingua, e gli diede un pugno sulla spalla.
«Mi dispiace», disse lui, anche se era evidente che non fosse vero. «È uno
spreco di tempo e di energie insegnarti questa roba se tanto non avrai mai
occasione di usarla.»
«Non è detto», replicai. Rivolsi a Zu un sorriso rassicurante e aggiunsi: «Sarai
più avanti di tutti i tuoi compagni di classe quando le cose torneranno alla
normalità».
E comunque, da quando avevo cominciato a credere nella normalità? Tutto
quello che avevo passato fino a quel momento non faceva altro che sostenere la
tesi di Ciccio. Aveva ragione, anche se non volevo ammetterlo.
«Sai cosa starei facendo io, se le cose fossero normali?» disse Ciccio. «Starei
scegliendo quale college frequentare quest’autunno. Avrei fatto gli esami, sarei
andato alle partite di football e al ballo di fine anno, avrei frequentato le lezioni
di chimica…»
La sua voce si spense, ma seguii ugualmente il filo dei suoi pensieri… come
potevo evitarlo? Erano esattamente le stesse cose che pensavo io quando mi
permettevo di crogiolarmi nell’oscurità dei se e dei magari. La mamma, una
volta, mi aveva detto che l’istruzione era un privilegio di pochi, ma aveva torto.
Non era un privilegio, era un nostro diritto. Avevamo diritto a un futuro.
Zu si accorse che l’umore era cambiato. Spostò lo sguardo da Ciccio a me,
muovendo le labbra silenziosamente. Avevamo bisogno di cambiare argomento.
«Pfff», feci, mettendomi a braccia conserte e appoggiandomi all’indietro sullo
schienale. «Come se fossi il tipo che va alle partite di football.»
«Ehi, come ti permetti!» Ciccio porse a Zu il quadernino. «Ecco, guarda. Devi
esercitarti con i nove.» Quando tornò a voltarsi verso di me, fu con uno sguardo
di disapprovazione. «Non riesco a credere che proprio tu abbia queste illusioni
tutte rose e fiori.»
«E questo cosa vorrebbe dire?»
«Sei stata a Thurmond per quanto… cinque anni?»
«Sei», lo corressi. «E non è questo il punto. Non è tanto che credo in quello
che Lee dice; è che spero che abbia ragione. Spero davvero che abbia ragione,
perché in caso contrario qual è l’alternativa? Siamo obbligati a nasconderci
finché tutti quelli della loro generazione saranno morti? Scappiamo in Canada?»
«Buona fortuna, allora», disse Ciccio. «Sia il Canada sia il Messico hanno
costruito muri per tenerci fuori e rimanere al sicuro.»
«Perché pensavano che la NIAA fosse una malattia contagiosa?»
«No, perché ci hanno sempre detestati e stavano solo aspettando la scusa
buona per tener fuori dal loro Paese i nostri culi grassi e i nostri marsupi fuori
moda.»
Liam scelse di riapparire esattamente in quel momento, con quattro
contenitori di polistirolo in equilibrio tra le mani. Si muoveva in fretta, quasi
correndo. Mi sporsi ad aprirgli la portiera e lui quasi mi rovesciò i contenitori
sulle gambe.
«Oddio, e adesso cosa c’è?» gridò Ciccio.
«Ehi…» feci, tentando di evitare che le pietanze calde si rovesciassero sulle
mie gambe e sul sedile. Il motore di Betty si accese con un ringhio, e
improvvisamente fummo scagliati all’indietro. Con il lenzuolo che copriva il
lunotto posteriore, Liam dovette affidarsi allo specchietto laterale per riportarci
sulla carreggiata e poi su per la stradina che separava Waffle House da un
negozio di gioielli in conto vendita abbandonato. Appoggiai un gomito sulla
portiera mentre Liam manovrava il vecchio minivan oltre i cassonetti e fino al
minuscolo parcheggio per i dipendenti nascosto in un vicolo cieco dietro
l’angolo. Il minivan si fermò con un sussulto, sbilanciandoci tutti e quattro in
avanti.
«Rimarremo… qui per un poco», annunciò, vedendo i nostri volti spaventati.
«Non andate nel panico, ma penso di aver visto… insomma, è più sicuro se
rimaniamo qui per un po’.»
«Hai visto lei.» Non era una domanda; Ciccio conosceva la risposta prima
ancora di chiedere. «Lady Jane.»
Liam si sfregò la nuca e si chinò in avanti. Aveva spinto il muso del minivan
abbastanza in avanti da permetterci di sbirciare oltre il muro del ristorante e
lungo la strada. «Sì. Sono abbastanza sicuro.»
Com’era possibile che ci avesse raggiunti?
«Per la miseria», strillò Ciccio. «Abbastanza sicuro o decisamente sicuro?»
Dopo un momento, Liam rispose: «Decisamente sicuro. Ha un nuovo mezzo
di trasporto, un camioncino bianco, ma quel brutto muso arrogante lo
riconoscerei ovunque».
«Lei ti ha visto?» chiesi.
«Non lo so. Probabilmente no, altrimenti lei e chiunque sia il suo toy-boy di
turno avrebbero tentato di mettermi sotto. Mi sono passati davanti in macchina
mentre uscivo.»
Mi sporsi per vedere oltre il muro del ristorante fino all’imbocco della strada.
Come in risposta a un segnale, un camioncino bianco lucido passò lì accanto,
con due figure scure sedute davanti. Liam e io ci appiattimmo sui sedili nello
stesso momento, scambiandoci uno sguardo allarmato. Nessuno di noi due osò
respirare finché fummo sicuri che nessuno stesse risalendo la stradina per
investigare.
Si schiarì la voce. «Ehm… perché non distribuisci il cibo? Io vado solo a
controllare…»
«Liam Michael Stewart», tuonò la voce di Ciccio dal sedile posteriore. «Se
metti un piede fuori da questo minivan, ordino a Verde di investirti.»
«Non credere che non lo farei», lo avvisai, perché sapevo esattamente cosa
avesse intenzione di fare: uscire e rischiare la pelle scendendo lungo la stradina
per assicurarsi che la via fosse libera. Gli passai uno dei contenitori di
polistirolo, e lui si accasciò sul sedile, accettando la sconfitta.
Liam aveva ordinato per ciascuno di noi un pasto semplice composto da uova
strapazzate, bacon e due pancake senza sciroppo. Gli altri si avventarono con
gusto sul cibo, finendolo in cinque bocconi. Diedi i miei pancake a Zu prima che
Liam avesse il tempo di farlo.
Quando fu tornata una parvenza di calma, Liam tirò fuori la mappa e la aprì
sul volante. L’orologio del cruscotto segnava le 7.25; quando si voltò verso di
noi, Liam aveva un’espressione determinata che non avevo mai visto a nessuno
così presto al mattino.
«Okay, squadra», esordì. «Dobbiamo rimetterci in riga. So che il nostro ultimo
East River è stato un fiasco, ma dobbiamo continuare a cercare. Perciò,
rivediamo i dettagli che quei Blu ci hanno dato: Eddo.»
Solo dopo un intero minuto mi accorsi che tutti i «dettagli» erano già finiti.
«Avremmo dovuto corromperli per farci dare altre informazioni», disse
Ciccio.
«Con cosa?» replicò Liam, posando la mappa. «Non ti avrebbero preso,
Ciccio, e la cosa più preziosa che abbiamo sei tu.»
Ciccio non lo trovò divertente, e la cosa non mi stupì.
«Vi hanno fatto lo spelling di Eddo? Aveva una o due ‘d’?» chiesi. «Perché, se
è un vero indizio, il modo in cui si scrive probabilmente ha la stessa importanza
delle parole.»
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo.
«Cavolo», disse Liam, alla fine.
Sentii uno strattone al braccio e mi voltai verso Zu, che aveva alzato il
quaderno per farcelo vedere. Aveva scritto le lettere . E-D-O
«Ottimo lavoro, Zu», disse Liam. «Meno male che almeno uno di noi stava
ascoltando.»
«E non c’era nient’altro?» domandai.
«L’unica altra cosa che ci hanno rivelato era che se arrivavamo a Raleigh
eravamo andati troppo a sud. E abbiamo dovuto supplicarli anche per quello»,
ammise Liam. «È stato davvero patetico.»
«E magari ci stavano pure prendendo in giro», disse Ciccio. «È questo che mi
dà più fastidio. Se East River è così meraviglioso, perché se ne stavano
andando?»
«Stavano andando a casa, ricordi, Slip Kid…»
Mentre discutevano, tolsi la mappa da sotto le mani di Liam e la osservai
socchiudendo gli occhi, nel tentativo di capirne le linee. Liam mi aveva dato
un’infarinatura generale su come tracciare un percorso dal punto A al punto B,
ma per me era ancora troppo.
«Cosa ne pensate voi?» chiesi. «Avevate una teoria su cui lavorare?»
«Abbiamo incontrato quei ragazzi vicino al confine dell’Ohio», rispose Liam.
«Arrivavano da est ed erano diretti a ovest. Se aggiungi gli altri pezzetti su
Washington e Raleigh, i candidati più probabili sono West Virginia, Virginia e
Maryland. Zu dice che Edo è un altro nome di Tokyo, ma mi sembra esagerato
pensare che sia così lontano.»
«E io penso che sia un codice», disse Ciccio. «Un codice cifrato.» Si raddrizzò
e si voltò verso di me. Il modo in cui il sorriso gli si estese sul viso mi ricordò un
documentario che avevamo visto una volta a scuola, sui coccodrilli e il modo in
cui mostrano le zanne mentre fendono l’acqua per raggiungere la preda.
«A proposito di codici, non avevi detto che la Lega ti ha fatta evadere perché
sei una campionessa mondiale di interpretazione di codici?
Cavolo.
«Non ho mai detto campionessa mondiale…»
«È vero!» Il viso di Liam si illuminò di un’espressione eccitata che mi spezzò
il cuore. «Puoi dare un’occhiata?»
Doppio cavolo.
«Ehm… penso di sì», dissi, attenta a mantenere un’espressione neutra. «Zu,
posso guardare di nuovo il quaderno?»
Mi stavano fissando tutti; l’effetto era così paralizzante che sembrava si
fossero seduti sul mio petto. Nel minivan, senza riscaldamento, l’aria era gelida
ma il mio corpo pareva appesantito da un panico bollente e appiccicoso. Mi
aggrappavo a quel quadernino come a una preghiera dal cielo.
Sapevo che c’erano ragazzini là fuori che potevano infilarsi nel cervello
qualche decina di lettere e sputare fuori una serie di coordinate complesse, o che
erano in grado di individuare immediatamente la soluzione di un indovinello, ma
decisamente io non ero una di loro.
Ciccio sbuffò. «Mi sa che la Lega è andata in bianco.»
«Ehi», disse Liam, con tono tagliente. «Noi ci rimuginiamo da due settimane e
non abbiamo ottenuto un bel niente. Non puoi concederle un’oretta per
pensarci?»
Si potevano forse sostituire le lettere EDO con dei numeri? 5-4-15? Dio, quali
altri tipi di codici esistevano? Un codice ferroviario? No, non poteva essere.
Oppure non era affatto un codice? Avrebbe avuto più senso, in realtà. L’enigma
doveva essere qualcosa che sia i ragazzini prigionieri dei campi sia quelli
all’esterno potessero capire facilmente, e non doveva essere troppo difficile,
altrimenti nessuno lo avrebbe mai risolto.
Menti, pensai, alzando una mano per lisciare una ciocca ribelle di capelli.
Menti. Fallo e basta. Di’ qualcosa! Cosa rappresentano di solito i numeri a tre
cifre? Un prezzo, un orario, un codice postale.
«Oh!» Se avevo ragione, Oddio sarebbe stato più appropriato.
«Oh?» mi fece eco Liam. «Oh cosa?»
«Mi ero dimenticata… beh», mi corressi, «potrei ricordarmi male, quindi non
emozionatevi troppo, ma penso che sia un prefisso della Virginia.»
«Non esistono prefissi a quattro cifre», disse Ciccio. «Cinque-quattro-quindici
non funziona.»
«Ma cinque-quattro-zero sì», replicai. «La gente usa lo zero al posto della ‘O’,
a volte, giusto?»
Liam si grattò la nuca e guardò Ciccio. «Cinque-quaranta? Ti suona
familiare?»
Mi voltai verso Ciccio, vedendolo improvvisamente in una nuova luce. «Tu
vieni dalla Virginia?»
Lui si mise a braccia conserte e guardò fuori dal finestrino. «Veramente, dalla
Virginia settentrionale.»
Beh, si capiva. «Cinque e quaranta è il West Virginia», spiegai a Liam. «Non
sono sicura di quanto si estenda a nord e a sud, ma dovrebbe essere proprio in
quest’area, penso.» Glielo mostrai sulla mappa. Non lo pensavo, lo sapevo. 540
era il mio prefisso quando abitavo con i miei genitori a Salem. «Ci sono un certo
numero di città e paesi, ma c’è anche un sacco di terreno libero; non è un brutto
posto per nascondersi.»
«Ma davvero?» Liam tenne gli occhi fissi sulla strada e la voce piatta, ma la
sua noncuranza pareva esagerata. «Sei cresciuta da quelle parti?»
Abbassai di nuovo lo sguardo sul quaderno, sentendo qualcosa stringermi il
petto. «No, non proprio.»
«Virginia Beach, allora?»
Scossi la testa. «Sicuramente un posto che non hai mai sentito.»
Ciccio schioccò la lingua e aprì la bocca per dire qualcosa, ma ci fu un secco
colpo di tosse dal lato del conducente. Lasciammo cadere l’argomento, senza che
nessuno avesse voglia di riprenderlo, men che meno io.
«Beh, è una pista come un’altra, anche se sarei più contento se si trattasse di
una zona più piccola.» Liam guardò verso di me. «Grazie, Ruby Tuesday.»
Una sensazione di calore, tutt’altro che spiacevole, mi pervase. «Figurati.» E
se mi sbaglio… Lasciai che il pensiero rimanesse sospeso. Era una buona pista.
Dopo aver dato un ultimo sguardo al vicolo per assicurarsi che la via fosse
libera, Liam ripiegò la mappa e la ripose nel portaoggetti. Betty si risvegliò con
un ruggito sordo.
«Dove andiamo?» chiese Ciccio.
«Conosco un posto», rispose Liam alzando le spalle. «Un posto dove sono già
stato. Non dovremmo metterci più di tanto, magari un paio d’ore. Se mi perdo,
però, uno di voi due autoctoni dovrà farsi avanti e aiutarmi.»
Era passato molto tempo da quando qualcuno mi aveva chiamata così, come
se avessi una casa. Era vero, ero nata lì, ma Thurmond era stata casa mia per
quasi metà della mia vita. Le sue mura grigie e i pavimenti di cemento avevano
cancellato quasi ogni ricordo della casa dei miei genitori, portandomi via i
dettagli più piccoli – il profumo dei biscotti al miele di mia madre, la posizione
delle foto sul muro accanto alla scala – prima di divorare anche quelli più grandi.
Mi domandavo, nelle notti in cui la baracca era abbastanza silenziosa da
permettermi di pensare, quando mi sarebbe venuto il desiderio di tornare a casa.
Se la casa, nel mio cuore, dovesse essere il posto in cui ero nata o quello in cui
venivo cresciuta. Se mi sarebbe stato concesso di scegliere, o se qualcuno avesse
già scelto per me.
La verità era che, quando guardavo il mio riflesso nel finestrino, non trovavo
traccia della Ruby che aveva vissuto nella casetta bianca in fondo alla via, con le
dita appiccicose di miele e i capelli che sfuggivano alla treccia. E ciò, in qualche
modo, mi faceva sentire vuota, come se mi fossi scordata le parole della mia
canzone preferita.
Quella ragazza era scomparsa per sempre, e quello che ne rimaneva era il
prodotto del luogo che le aveva insegnato a temere tutto ciò che di luminoso
aveva nel cuore.
.
STAUNTON. USARE STRADE STATALI
Q si avvicinarono, vidi che i loro abiti scuri non erano coordinati e avevano
UANDO
Per i primi dieci minuti che passammo a girovagare per il negozio, Zu tornava
in continuazione con lo sguardo alle nostre dita intrecciate, come se non credesse
ai suoi occhi. Ogni tanto, una cassa di DVD che nessuno voleva o un espositore
di chincaglieria catturavano la sua attenzione, ma i suoi occhi scuri tornavano
sempre alle nostre mani unite che ondeggiavano tra noi. Avevamo appena
svoltato in una delle numerose corsie saccheggiate di prodotti per la pulizia
quando mi tirò il braccio.
«Cosa c’è che non va?» chiesi, calciando via una scopa abbandonata.
Indicò il guanto che facevo roteare con la mano libera.
Alzai le nostre mani. «Perché, questo non va bene?»
Buttò fuori il fiato che stava trattenendo come a sottolineare che non avevo
capito niente. Mi trascinò fino al lato opposto della corsia, dove lasciò la mia
mano per afferrare una scatola bianca dalla mensola. La aprì con fatica,
scartando il polistirolo all’interno e lanciandolo da parte per estrarre il tostapane
argentato, vecchio stile, che c’era dentro.
«Non credo che ne avremo bisogno», dissi, lentamente.
Mi rivolse uno sguardo che diceva chiaramente: Silenzio, per favore. Si sfilò
l’altro guanto e allargò tutte e dieci le dita ai lati del tostapane. Dopo un attimo,
chiuse gli occhi.
I cavi di metallo all’interno del tostapane si accesero di un rosso
incandescente. Il lungo cavo elettrico nero giaceva ai suoi piedi, scollegato. Il
piccolo elettrodomestico durò solo un altro minuto prima che le sue interiora
iniziassero a fondersi. Glielo feci posare al primo sbuffo di fumo.
Visto? sembrava voler dire. Adesso hai capito?
«Ma non puoi fare la stessa cosa a me», la rassicurai, prendendole di nuovo la
mano. «Non devi preoccuparti di farmi del male, perché non potresti mai.»
Quello che avrei dovuto dirle in realtà era: So come ci si sente. So cosa vuol
dire avere paura di ciò che sei a malapena in grado di controllare.
Mi ero costretta a smettere di pensare a ciò che avevo fatto al soldato FSP
sotto copertura. Non mi permisi di chiedermi se sarei stata in grado di farlo di
nuovo, per non parlare di provarci. Ma come avremmo mai potuto imparare a
controllarci, mi chiedevo, se non potevamo esercitarci? Se non potevamo testare
e forzare i nostri limiti?
«Vediamo di trovare qualcosa di utile», proposi, intrecciando di nuovo le dita
alle sue. Aspettai di sentire le sue stringersi intorno alle mie prima di condurla
lungo la corsia. «Che ne pensi…»
Non so nemmeno cosa volessi chiederle, ma non mi stava dando retta. Si
fermò così di colpo e strinse la mia mano così forte che mi fece inciampare.
Seguii con gli occhi la linea del suo braccio teso fino al reparto abiti e scarpe.
Più precisamente, al solitario abito rosa acceso che penzolava da un
attaccapanni.
Zu iniziò a correre, scattando lungo le corsie di prolunghe elettriche e secchi
per lavare il pavimento. Provai a starle dietro ma era come se un vento
improvviso l’avesse sollevata e la stesse spingendo in avanti.
Si fermò davanti all’attaccapanni. La osservai, affascinata, mentre tendeva una
mano per accarezzare la stoffa, solo per ritrarla all’ultimo secondo.
«Bellissimo», mormorai. Il vestito era stretto in vita e poi si allargava, con un
grande fiocco nel punto in cui il top smanicato si univa alla gonna a righe
bianche e rosa. Sembrava che Zu non desiderasse altro che tirarlo giù, stringerlo
al petto e affondare il viso nella stoffa lucida.
Mi venivano in mente un migliaio di cose che mi erano mancate mentre ero a
Thurmond, ma tra esse non figuravano i vestiti. L’aneddoto preferito di mio
padre, quello che amava raccontare agli estranei e con cui divertiva i parenti,
riguardava il giorno in cui lui e la mamma tentarono di infilarmene uno blu
quando avevo tre anni, per il suo compleanno. Siccome i bottoni erano troppo
piccoli e io non ci arrivavo, avevo strappato la stoffa leggera a mano, pezzo per
pezzo. Per il resto della festa ero andata in giro mostrando con orgoglio le mie
mutandine di Batman.
«Te lo vuoi provare?» chiesi.
Zu tornò a guardarmi e scosse la testa. Lasciò cadere le mani che teneva
sospese sopra l’attaccapanni di plastica; ci misi un attimo a capire cosa stesse
succedendo. Non pensava di meritarselo, pensava che fosse troppo bello, troppo
nuovo, troppo elegante. Sentii montare dentro di me un odio bruciante, ma non
sapevo a chi rivolgerlo. Ai suoi genitori, che l’avevano mandata via? Al campo
in cui era stata prigioniera? Alle FSP?
Con una mano sfilai il vestito dall’attaccapanni e con l’altra afferrai il braccio
di Zu. Sapevo che mi stava di nuovo fissando, con gli occhi scuri spalancati per
la confusione, ma, invece di spiegarmi – invece di costringerla a capire le parole
che volevo dirle – la condussi ai camerini al centro del reparto abbigliamento, le
ficcai il vestito tra le mani e le dissi di provarselo.
Fu come tentare di trascinare una barca in porto usando una cima sottile.
Glielo dovetti porgere diverse volte, e lei dapprima lo lasciò cadere a terra,
costringendomi a raccoglierlo. Non so se il suo desiderio ebbe finalmente la
meglio, o se fossi riuscita a sfinirla a dispetto della sua cautela, ma quando la
vidi riapparire da dietro la porta del camerino fui così sollevata che quasi mi misi
a piangere.
«Stai benissimo.» Le feci fare una piroetta, affinché potesse vedersi nello
specchio della saletta. Quando la convinsi a guardarsi, sentii le sue spalle
sobbalzare sotto le mie mani, vidi i suoi occhi spalancarsi e illuminarsi, solo per
spegnersi un attimo dopo. Iniziò a tirare la stoffa con le dita. Scuoteva la testa,
come a dire: No, non posso.
«Perché no?» le chiesi, facendola voltare in modo da poterla guardare negli
occhi. «Ti piace, giusto?»
Non alzò lo sguardo, ma annuì.
«E allora qual è il problema?» A quelle parole, lanciò una timida occhiata al
suo riflesso. Con le mani lisciava la stoffa della gonna, apparentemente senza
rendersene conto.
«Esatto», dissi. «Non c’è nessun problema. E adesso vediamo cos’altro
riusciamo a scovare.»
A quel punto, si mise in testa di trovare qualcosa per me. Non mi sorprese
scoprire che il reparto adulti era stato saccheggiato; la scelta sembrava limitata a
equipaggiamento da caccia e tute da lavoro. Dopo una lunga e paziente
spiegazione del perché non avessi bisogno di una camicia da notte in seta color
fiordaliso né di una gonna con una fantasia di margherite, Zu – con
un’espressione di esasperazione totale – accettò il fatto che avrei indossato solo
jeans e magliette.
Infine, indicò il reparto reggiseni, e una parte di me desiderò lasciarsi morire
sotto i mucchi di pigiami da bambino abbandonati. Le lettere e i numeri
sembravano caratteri cinesi: non ci capivo niente, e mi aspettavo quasi che Zu
scoppiasse a ridere quando le prime lacrime di frustrazione mi riempirono gli
occhi.
Non c’erano stati molti momenti in cui avessi pensato: Vorrei che mia madre
fosse qui. Ormai capivo che ciò che le avevo fatto non si sarebbe mai potuto
aggiustare. Non mi avrebbe mai più riconosciuta con un solo sguardo, e non
sarei mai stata in grado di pensare ad altro che all’espressione nei suoi occhi
quando mi vide quella mattina.
Era strano: i miei sentimenti per lei sembravano cambiare di minuto in
minuto. Se d’un tratto ricordavo la sensazione che provavo quando mi pettinava,
un attimo dopo ero furiosa perché mi aveva abbandonata. Perché non mi aveva
insegnato a essere a mio agio nella mia pelle, a comportarmi da ragazza come
avrei dovuto. Ma, d’altronde, di chi era la colpa?
Zu strinse le labbra, pensierosa, e osservò l’Everest di biancheria intima
davanti a noi. Prese un pezzo per ogni taglia, lanciandolo verso di me, finché
tutte e due scoppiammo a ridere senza motivo.
Finalmente, trovai qualcosa che mi andasse. Era difficile da capire; erano tutti
scomodi, con quei ferretti e le spalline. Mentre mi toglievo il vestito, Zu mise
insieme allegramente un completino che sembrava uscito da un catalogo: l’abito
rosa, dei leggings bianchi e un giubbotto di jeans di un paio di taglie troppo
grande per lei. Il resto delle cose che aveva preso fu infilato in uno zainetto a
fiori che presi per lei da una vetrinetta. Dopo che aveva trovato qualcosa per sé,
voleva andare fino in fondo e cercare anche qualcosa per i ragazzi.
Quando le trovai un paio di scarpe da ginnastica con i lacci rosa, mi gettò le
braccia intorno alla vita e mi strinse come se volesse trasmettermi la propria
gratitudine attraverso la pelle. E, anche se non fu particolarmente colpita dagli
stivaletti neri che scelsi per me nel reparto maschile, non mi costrinse a provare
delle ballerine con fiocchetti né décolleté dal tacco a spillo.
Zu stava piegando accuratamente la camicia che aveva scelto per Ciccio
quando mi ricordai di una cosa.
«Torno subito», le dissi. «Aspettami qui, okay?»
Ci misi qualche minuto a ritrovare la corsia giusta. Liam e io ci eravamo
passati così velocemente mentre tentavamo di raggiungere il fondo del negozio,
che non ero nemmeno sicura che non fossero solo frutto della mia
immaginazione. Invece eccoli lì, sopra i prodotti per la pulizia: un paio di guanti
di gomma rosa in mezzo a un mare di quelli gialli, più tradizionali.
«Ehi, Zu», la chiamai, tornando verso di lei. Li feci penzolare davanti a me e
aspettai che si girasse.
Rimase a bocca aperta. Era così affascinata dai nuovi guanti che teneva le
mani tese davanti a sé anche mentre camminava, come una principessa che
esamini la collezione di gioielli sulle dita e sui polsi. La guardai fare piroette e
riverenze nel suo vestito nuovo continuando a gironzolare per il negozio, mentre
con i piedi danzava sulle prove di quanto accaduto alle casse. Osservandola,
sentendo la stessa eccitazione gonfiarmi il petto, non mi rendevo conto
nemmeno io dei frammenti di vetro e dei monitor lampeggianti. Ripiegammo
nella penombra lungo il corridoio dei cosmetici, e riuscivo a malapena a
trattenere il sorriso.
Incontrammo Liam poco dopo, mentre Zu legava la treccia che mi aveva fatto
con un elastico coperto di glitter. Ero seduta sul pavimento, e lei sulla mensola
alle mie spalle come una specie di regina delle fate. «Magnifico!» esclamai,
quando mi mise uno specchio rotto davanti al viso. «Sei incredibile.»
La mia ricompensa fu di sentire le sue braccia, dalle ossa sottili come quelle di
un uccellino, stringersi intorno al mio collo. Mi voltai verso di lei perché volevo
che mi guardasse negli occhi e capisse che ero seria e sincera quando ripetei:
«Sei incredibile».
«Vi siete date da fare, vedo.»
Liam si appoggiò all’ultimo scaffale della corsia. Zu gli salterellò incontro,
raccogliendo le camicie e le calze che aveva scelto per lui.
«Grazie, oddio, Ciccio se la farà nei pantaloni quando vedrà questa roba!»
Posò una mano sulla testa di Zu. «Vi lascio sole per un attimo e voi due ripulite
il negozio. Ben fatto!»
Mi alzai da terra con una spinta, aiutandoli a raccogliere i vestiti e le provviste
che avevamo racimolato. Dopodiché iniziammo, lentamente e con riluttanza, a
tornare verso gli altri. Tutti e tre eravamo consapevoli che, una volta
abbandonato quel momento di pace, lo avremmo perso per sempre.
Zu era scattata in avanti di qualche passo quando Liam si voltò verso di me e
disse: «Grazie per quello che hai fatto. Mi fa piacere che tu abbia capito cosa
intendessi». Tirò scherzosamente la mia treccia. «Volevo solo fare qualche
domanda in più.»
«E non volevi che sentisse?» domandai indicando Zu con un cenno del capo.
Abbassò lo sguardo sui suoi piedi, e quando lo rialzò, aveva le orecchie rosse.
«Sì, ma anche… li stavi un po’ distraendo.»
«Cosa? Mi spiace se li ho minacciati o che ne so, ma…»
«No, li distraevi», ripeté. «Con… il tuo viso.»
«Oh.» Mi ripresi rapidamente. «Hai ottenuto qualcosa di buono?»
«I nomi di qualcuna delle tribù più amichevoli, un paio di città che sono in
isolamento per insurrezione, roba del genere. Volevo solo farmi un’idea di cosa
stesse accadendo in Virginia.»
«Intendevo su Slip Kid», dissi, forse un po’ troppo avidamente.
«Niente che non sapessimo già. A quanto pare, tutti devono fare una specie di
giuramento sacro di non rivelare altre informazioni. È ridicolo.»
«Davvero non hanno voluto dirti niente di più?»
Liam guardò a terra. «Greg ci ha fatto un’offerta… uno scambio… ma lo
abbiamo rifiutato.»
«Cosa voleva?» Cosa poteva avere tanto valore da non poterlo scambiare con
l’unica cosa in grado di riunirli alle loro famiglie? Black Betty?
«Non ha importanza», tagliò corto Liam. «Se ce l’hanno fatta quegli imbecilli,
sono sicuro che anche noi possiamo trovare East River. Prima o poi.»
«Già.» Feci una risatina. «Vero.»
Lo sbirciai mentre sollevava il mucchietto di vestiti e se lo posava sulla spalla,
senza mai distogliere lo sguardo da Zu che saltellava nella distesa di lattine e
vecchie riviste. Lanciai un’occhiata alla foto di una bionda star del cinema,
leggendo le parole stampate sotto il suo viso.
FINALMENTE RIVELA TUTTO
Dal modo in cui si ingobbì, sembrava pensare di non avere altra scelta. Si alzò
in fretta e in silenzio, pulendosi le mani sui pantaloni beige.
«Ho una brutta sensazione», disse quando ci fummo allontanati a sufficienza.
Potevamo tenere d’occhio le tende, ma da lì non potevano vedere noi. «Su di
loro.»
«Pensi che tenteranno di rapinarci?»
«In realtà, penso che tenteranno di prendere Betty.»
Ci fu una lunga pausa; sentii gli occhi di Ciccio posarsi su di me, ma i miei
erano fissi sulle tende, alla ricerca di segnali di pericolo.
«Dovresti tornare a dormire.» Il suo tono era burbero, e teneva le braccia
conserte. Ma c’era anche stato qualcosa nel modo in cui aveva parlato che mi
fece pensare che mi stesse mettendo alla prova per vedere cosa avrei risposto.
«Cosa ci fai in piedi, comunque?»
«Vale lo stesso per te», replicai. «Mi accerto che nessuno venga brutalmente
rapinato, picchiato, o assassinato nel sonno. Controllo se quei ragazzi sono
davvero stronzi come sembrano.»
Sbuffò, passandosi una mano sulla fronte.
Dopo un lungo silenzio, l’atmosfera tra noi si ammorbidì, passando da una
sorta di circospetta ostilità a qualcosa che somigliava alla tolleranza. Ciccio non
aveva più le spalle contratte per la tensione e, quando piegò la testa verso di me,
capii che quel gesto era un sottile invito, e mi avvicinai.
«Era già abbastanza brutto che dovesse tornare qui», borbottò, più a se stesso
che a me. «Dio…»
«Liam?» chiesi. «È qui che lui e i suoi amici sono stati catturati, vero?»
Ciccio annuì. «Non mi ha mai raccontato tutta la storia, ma penso che sia
andata così: lui e Felipe stavano viaggiando e si sono imbattuti in una tribù di
Blu. Invece di reclutarli, come Liam aveva sperato, la tribù li ha riempiti di botte
e ha rubato tutto: cibo, zaini, foto di famiglia, qualsiasi cosa. Sono venuti qui per
qualche giorno per riprendersi, ma erano in condizioni pessime e quando sono
arrivati i tracciatori non sono più riusciti a scappare.»
Mi si serrò la gola.
«Lee pensa che sia stata la tribù a chiamarli», continuò Ciccio. «Che si siano
intascati una parte della ricompensa.»
Non sapevo cosa dire. Il pensiero di un ragazzo, di uno qualunque di noi, che
si rivoltasse contro i propri simili mi faceva venire voglia di fracassare lo
scaffale su cui ci appoggiavamo fino a ridurlo a una pila di lamiere.
«Mi fido di Liam», dissi con calma. «È una brava persona; ma è troppo facile
da leggere, per gli altri, e non tutti hanno buone intenzioni.»
«Esatto», confermò Ciccio. «È troppo impegnato a guardare dentro le persone
per trovarvi qualcosa di buono, che non vede il coltello che tengono in mano.»
«E anche allora probabilmente darebbe la colpa a se stesso per aver permesso
che quella persona avesse un coltello, e si scuserebbe per essere stato un
bersaglio così allettante.»
Era quella la cosa che mi turbava di più a proposito di Liam: se fosse stato
appena più fiducioso, o di buon cuore, sarebbe stato un boy scout. Il fatto che
qualcuno che aveva visto così tanta morte e sofferenza continuasse ad avere una
tale fiducia incondizionata nella bontà della gente doveva essere un incredibile
atto di testardaggine, oppure di ingenuità, pensai. Era qualcosa che provocava in
me sia esasperazione sia un feroce istinto di protezione; e anche in Ciccio, a
quanto pareva.
«Penso che entrambi sappiamo che è tutt’altro che perfetto, per quanto si
impegni», disse Ciccio, sedendosi a terra e appoggiando la schiena allo scaffale
vuoto. «Non è mai stato un gran pensatore, quello lì. Fa sempre tutto di corsa,
seguendo ciò che gli dice l’istinto, e poi affoga nell’autocommiserazione quando
le cose gli esplodono in faccia.»
Annuii, giocherellando sovrappensiero con uno strappo nella manica della mia
camicia a quadri, che non avevo notato prima di prenderla. Dopo averlo sentito
parlare con Zu, sapevo che Liam si sentiva terribilmente in colpa per quanto
accaduto la notte dell’evasione, ma sembrava qualcosa di ancora più profondo.
«Posso aggiustartelo dopo», disse Ciccio indicando lo strappo. Con le lunghe
dita tamburellava sulle ginocchia. «Ricordamelo, però.»
«Chi ti ha insegnato a cucire, comunque?» A quanto pareva, non era la
domanda giusta. La sua schiena divenne rigida e dritta, come se gli avessi fatto
scivolare un cubetto di ghiaccio dentro la camicia.
«Non so cucire», scattò. «So suturare. Cucire serve a decorare; suturare serve
a salvare vite. Non lo faccio perché penso che sia carino o divertente: lo faccio
per esercitarmi.»
Mi fissò da sopra la montatura degli occhiali, in attesa di vedere se avessi
capito ciò che voleva dirmi.
«Mio padre mi ha insegnato a suturare prima che mi nascondessi», disse, alla
fine. «In caso di emergenza.»
«Tuo padre è un dottore?»
«È un chirurgo, un traumatologo.» Ciccio non si preoccupò di nascondere
l’orgoglio nella voce. «Uno dei migliori nella zona di Washington.»
«E tua mamma cosa fa?»
«Lavorava per il ministero della Difesa, ma è stata licenziata per aver rifiutato
di registrarmi nel database NIAA. Non so cosa stia facendo adesso.»
«Sembrano fantastici», commentai.
Lui sbuffò, ma era evidente che fosse compiaciuto.
I minuti si trascinarono e la conversazione scemò. Mi sorpresi a prendere il
quaderno di Zu e ad aprirlo. Le prime pagine erano per lo più disegni e
scarabocchi, ma ben presto lasciarono spazio a pagine su pagine di problemi di
matematica. La calligrafia di Liam era pulita e ordinata e, sorprendentemente,
anche quella di Zu.
Fuori da quanto già detto su questo romanzo, temo di non avere altro
da dire; sicuramente l’autore è un maestro in questo
campo. Dalla lista dei miei autori preferiti di sempre, di certo
non può mancare Jonathan Swift. Per quanto mi sforzi, non
posso non ammirare i suoi brillanti giochi di parole. È difficile
raggiungere tale arguzia intrecciando parodia e originalità, anche se la
casa dei Lillipuziani non è la parte migliore del romanzo. Ho notato,
forse, somiglianze con Robinson Crusoe, nel viaggio verso Lilliput.
Posso capire perché il libro sia stato letto con tale attenzione dagli studiosi.
Incontrarvi Gulliver quando è un giovane avventuroso, che tenta sempre e
comunque di partire, rende entusiasmante la sua evoluzione. Se dovessi
indicare la parte migliore del libro, sarebbe il mondo dei Lapuziani, un
luogo che vorrei visitare, perché anch’io ho spesso la testa tra le nuvole,
e pensare di avere come loro finalmente la possibilità, un
giorno, di studiare filosofia e matematica sarebbe un sogno. Però ci
sono stati momenti nel corso del libro in cui ho pensato che, pur scrivendo
al meglio delle proprie capacità, l’autore non sia riuscito di
sicuro a spiegare la propria visione di una società ideale. Se
vi piace la letteratura che fa riflettere o vi è capitato di pensare:
Voglio viaggiare per il mondo, un giorno, con la persona a cui voglio più
bene, mi sento di dire che questo libro fa davvero per voi.
«Oh.»
«Volevo scriverlo ora», disse Ciccio. «Se per caso riesco a connettermi, ma ho
solo qualche minuto di tempo.»
«Sei decisamente geniale», mormorai. «Tutta la tua famiglia lo è.»
Per tutta risposta, Ciccio sbuffò. Ovvio.
Avevo sulla punta della lingua la domanda che volevo davvero fargli, ma lui
tirò fuori dalla sua valigetta un mazzo di carte.
«Vuoi fare un paio di partite?» propose. «Ci tocca restare qui per un po’.»
«Certo… ma conosco solo briscola e rubamazzetto.»
Si schiarì la voce. «Non abbiamo il mazzo adatto per briscola e, purtroppo per
te, sono un asso a rubamazzetto. Ho vinto il torneo di rubamazzetto in quinta
elementare.»
Sorrisi, in attesa che distribuisse le carte. «Sei una star, Ciccio, una…» Fece
una smorfia al soprannome. «Non posso chiamarti in nessun altro modo se non
so qual è il tuo vero nome.»
«Charles», rispose. «Charles Carrington Meriwether IV, in realtà.»
Tentai di mantenere un’espressione più seria possibile. Era ovvio che avesse
un nome simile. «D’accordo, Charles. Charlie? Chuck? Chip?»
«Chip?»
«Non so, mi sembrava carino.»
«Chiamami Ciccio e basta. Tanto lo fanno tutti.»
Mi sentivo sul punto di esplodere per l’eccitazione, e per svegliare Ciccio non
mi bastò scuoterlo: gli saltai praticamente addosso, spaventandolo a morte e
dandogli una ginocchiata in un rene allo stesso tempo. Non so che verso avesse
fatto quando atterrai sopra di lui, ma ero quasi certa che non fosse del tutto
umano.
«Svegliati, svegliati, svegliati!» esclamai, tirandolo in piedi di mala grazia
nonostante le sue vigorose proteste. «Quando vi hanno detto EDO, hanno detto
anche qualcos’altro?»
«Verde, se domani cammino ancora, giuro su Dio che…»
«Ascoltami!» sibilai. «Penso che quel numero non abbia niente a che vedere
con un numero di telefono. Avevamo ragione prima. L’ultima lettera non è
affatto una lettera: dovrebbe essere uno zero. Cinque-quaranta. È una specie di
stazione radio.»
«Come diavolo sei arrivata a questa conclusione?»
Ah. Ecco la parte più delicata. Come potevo mascherare il fatto di aver
imbrogliato e aver visto la risposta, anziché essere abbastanza intelligente da
arrivarci da sola?
«Tentavo di pensare a qualcos’altro che usi numeri a tre cifre e mi sono
ricordata che li ho sentiti parlare – Greg e gli altri, intendo – del fatto che
avevano bisogno di trovare una radio qui dentro. Avrei dovuto dirvelo prima, ma
non mi è sembrato importante fino a questo momento.»
«Oh mio Dio.» Ciccio scuoteva la testa, un po’ stupito. «Non ci credo.
Abbiamo avuto talmente tanta iella durante tutto il viaggio che pensavo che
almeno due di noi sarebbero finiti morti stecchiti in un fosso prima che
riuscissimo a capirlo.»
«Ci serve una radio», dichiarai. «Penso di avere ragione, ma in caso
contrario… dobbiamo fare una prova prima di dirlo agli altri.»
«Betty?»
«No!» Non avevo intenzione di togliere la guardia alla tenda, nemmeno per un
quarto d’ora. «Credo di aver visto una radio nel retro; aspetta, vado a prenderla.»
Il negozio mi scorreva intorno come strisce scure di colori sbiaditi, ma ormai
non temevo più ciò che vi si poteva nascondere.
Non mi ero immaginata la radio, dopo tutto. La trovai in mezzo
all’accozzaglia di materassini e coperte che Liam e il suo amico avevano
assemblato l’ultima volta che erano stati lì. Quando tornai indietro, Ciccio
camminava su e giù tra gli scaffali. Posai l’aggeggio su una mensola ad altezza
occhi e iniziai a toccare i pulsanti, cercando quello di accensione.
Dovevo essere io ad accenderla, e ovviamente a giocare con la manopola del
volume, quando ci fece quasi esplodere i timpani con un’interferenza. Era una
radio antica, poco più di una scatola argentata e scalcagnata, ma funzionava.
Dalle casse uscirono voci, pubblicità, persino qualche vecchia canzone che
conoscevo.
«Dev’essere AM», disse Ciccio, prendendola in mano. «Le frequenze FM non
vanno oltre il 108 o giù di lì. Ci siamo…»
Il mio primo pensiero fu che Ciccio avesse sbagliato stazione. Non avevo mai
sentito un suono simile a quello che usciva tossicchiando dalle casse: un
profondo ringhio di elettricità statica, interrotto ogni tanto da quello che
sembrava un contenitore pieno di vetri rotti che veniva sbattuto di qua e di là.
Non era fastidioso come il Rumore Bianco, ma non era nemmeno piacevole.
Ma Ciccio continuava a sorridere.
«Sai cos’è questo?» chiese e, quando scossi la testa, fu fin troppo felice di
spiegarmi. «Hai mai sentito dire che ci sono certe frequenze e tonalità che solo i
ragazzi con un cervello Psi riescono a captare?»
Mi appoggiai con la mano allo scaffale per non cadere in avanti. Era vero. Me
lo aveva detto Cate, quando mi aveva spiegato che i controllori del campo
avevano inserito una certa frequenza nel Rumore Bianco per stanare tutti i casi
potenzialmente pericolosi che si nascondevano ancora tra le baracche.
«Non è tanto che gli altri non riescano a sentire il rumore, quanto che i loro
cervelli traducono i suoni in modo diverso dal nostro; una roba davvero
affascinante. Hanno fatto dei test a Caledonia, per vedere se c’erano tonalità che
solo certi colori captavano, e il suono era sempre uguale a questo quando non
riuscivamo…»
Non aveva ancora finito di parlare, che ci fu un altro click secco e il rumore si
interruppe del tutto, sostituito da una morbida voce maschile che sussurrava: «Se
riesci a sentire queste parole, sei uno di noi. Se sei uno di noi, puoi trovarci.
Lake Prince. Virginia».
Lo stesso messaggio, tre volte, poi un altro clic e il ritorno della frequenza che
avevamo sentito prima. Per lungo tempo, Ciccio e io non riuscimmo a far altro
che fissarci, senza parole.
«Oh mio Dio!» esclamò. «Oh mio Dio!» E poi lo ripetemmo insieme,
saltellando, gettandoci le braccia intorno al collo a vicenda come due idioti…
Come se tutte le occasioni in cui avremmo voluto prenderci a sberle più volte al
giorno per più giorni di fila non fossero mai esistite. Lo abbracciai senza alcun
timore o imbarazzo, con una scarica di emozione che quasi mi fece venire le
lacrime agli occhi.
«Potrei baciarti!» gridò Ciccio.
«Non ci provare!» esclamai, sentendo le sue braccia stringermi al punto di
farmi scricchiolare le costole.
Fu Liam a svegliarsi per primo, forse a causa del suo orologio interno o forse
per le urla di Ciccio. Con la coda dell’occhio scorsi la sua testa bionda arruffata
che faceva capolino dalla tenda. Guardò Ciccio e poi me e rientrò nella tenda,
riemergendone un secondo più tardi con uno sguardo a metà tra la confusione e
la preoccupazione.
«Cosa c’è che non va?» chiese. «Cosa succede?»
Ciccio e io ci guardammo con lo stesso identico sorriso stampato in faccia.
«Chiama Zu», dissi. «C’è una cosa che dovete sentire.»
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RISERVATA
A gli occhi chiusi, ma immaginavo ciò che doveva essere successo. Le sue
VEVO
Q stavo per compiere dieci anni, la cosa più significativa di quel numero era
UANDO
che avesse due cifre. Non sembrava un gran compleanno, in ogni caso. A cena,
sedetti a tavola in mezzo ai miei genitori, spostando i piselli da un lato all’altro
del piatto, e tentando di ignorare il fatto che non stessero parlando, né tra loro, né
con me. Gli occhi della mamma erano cerchiati di rosso e lucidi per il litigio che
avevano avuto mezz’ora prima; lei stava ancora tentando coraggiosamente di
radunare dei bambini per farmi una festa a sorpresa, ma papà l’aveva costretta a
chiamare tutti e annullare. Aveva detto che non c’era molto da festeggiare
quell’anno e che, essendo l’ultima bambina viva nel mio quartiere, sarebbe stato
crudele da parte nostra appendere uno striscione di auguri e il solito grappolo di
palloncini davanti a casa. Sentii ogni parola dalla cima delle scale.
In ogni caso, non mi importava molto del mio compleanno. Non che fosse
rimasto qualcuno che volessi davvero invitare. Quello che mi importava di più
era il fatto che, a dieci anni, improvvisamente ero vecchia, o meglio, lo sarei
diventata presto. Avrei cominciato ad assomigliare alle ragazze sulle riviste,
sarei stata costretta a indossare vestiti e tacchi alti e trucco… e andare alle
superiori.
«Tra dieci anni esatti, ne avrò venti.» Non so perché lo avessi detto ad alta
voce. Semplicemente, mi era sembrato di aver capito una cosa importante e
profonda, e volevo condividerla.
Il silenzio che seguì fu quasi fisicamente doloroso. La mamma si raddrizzò e
si premette il tovagliolo sulla bocca. Per un attimo, pensai che si sarebbe alzata e
se ne sarebbe andata, ma la mano di papà si posò sulla sua, calmandola, come
un’ancora.
Papà finì di masticare il pollo alla griglia prima di farmi un sorriso tremolante.
Si chinò fino a quando i nostri occhi verdi, identici, si incrociarono. «Hai
ragione, piccoletta. E quanti ne avrai dieci anni dopo?»
«Trenta!» esclamai. «E tu ne avrai… cinquantadue!»
Ridacchiò. «Esatto! Con un piede nella…»
Tomba, sussurrò la mia mente. Con un piede nella tomba. Papà si rese conto
dell’errore prima di concludere la frase, ma non aveva importanza. Tutti e tre
sapevamo cosa volesse dire.
Tomba.
Sapevo cosa fosse la morte. Sapevo cosa succedeva quando si moriva. A
scuola, avevano invitato ospiti speciali per parlare ai bambini che erano tornati.
Quella affidata alla nostra classe, la signorina Finch, fece una presentazione
prima di Natale, indossando un dolcevita rosa acceso e occhiali che le coprivano
mezza faccia. Scrisse tutto sulla lavagna in lettere maiuscole e spesse:
LA MORTE NON È COME IL SONNO. CAPITA A TUTTI. POTREBBE CAPITARE IN OGNI MOMENTO. NON SI TORNA INDIETRO.
* * *
Quando finalmente ripresi i sensi nella luce grigiastra, capii dalla curva dello
schienale e dall’odore di detergente al limone che ero tornata a bordo di Betty.
Il minivan non era in moto, e la strada non scorreva sotto di me, ma le chiavi
erano rimaste inserite e la radio accesa. Bob Dylan sussurrò la strofa iniziale di
Forever Young, nelle casse.
La canzone fu interrotta all’improvviso, rimpiazzata dalla voce imbarazzata
del DJ.
«Scusate l’interruzione…» Fece una risatina nervosa, affannata. «Non so
come sia possibile che il sistema abbia pescato proprio quella. È sulla lista delle
canzoni vietate. Ehm… torniamo… alla musica. Questa è una richiesta da parte
di Bill dal Suffolk. Ecco a voi We Gotta Get Out of This Place degli Animals.»
Aprii un occhio e tentai, senza successo, di raddrizzarmi. Il mal di testa era
così lancinante che dovetti stringere i denti per non vomitarmi addosso.
Passarono cinque minuti abbondanti prima che riuscissi ad alzare una mano e
sfiorare l’epicentro del dolore, sulla tempia destra. Feci scorrere le dita sulla
superficie gonfia e frastagliata della pelle, sentendo i punti irregolari che la
tenevano insieme.
Ciccio.
Tesi il braccio destro davanti a me. Ricadde, inutilizzabile e addormentato,
finché il sangue tornò a scorrervi. Da quel momento sentii aghi e fiamme. Ma il
dolore era una cosa buona: mi risvegliò completamente dal mio sonno ostinato.
Non mi permise di dimenticare.
Dovrei andarmene, pensai. Ora, prima che ritornino. Il pensiero di rivedere i
loro volti mi fece gonfiare il petto fin quasi a esplodere.
Lo sanno.
Lo sanno.
In quel momento sì che scoppiai a piangere. Non ne ero fiera, ma sapevo di
non poterlo affrontare un’altra volta e uscirne intera.
Sentii dei passi all’esterno.
«…dicendo che è troppo pericoloso.» Ciccio. «Dobbiamo prendere in
considerazione l’idea di liberarcene.»
«Non voglio parlarne adesso.» Liam sembrava agitato.
Usai una delle cinture per aiutarmi a raddrizzarmi. La portiera era spalancata e
mi regalava una vista perfetta di Liam e Ciccio in piedi davanti a un fuocherello
circondato da sassi diseguali.
Il cielo si scuriva per la notte.
«E allora quando ne parleremo?» disse Ciccio. «Mai? Continueremo a far
finta che non sia mai accaduto?»
«Zu torna presto…»
«Bene!» esclamò Ciccio. «Bene! È anche una decisione sua, è una decisione
che spetta a tutti noi, non solo a te!»
Non avevo mai visto Liam così rosso in faccia. «Che diavolo dovremmo fare,
abbandonarla qui?»
Sì, pensai. È esattamente quello che dovresti fare. E avevo iniziato ad
arrampicarmi sul sedile di mezzo per andare a dirglielo quando Ciccio si lanciò
in avanti, facendo cadere Liam sulla schiena senza nemmeno sfiorarlo. Senza
fare una piega, Liam strinse le labbra, alzò la mano e fece letteralmente mancare
la terra sotto i piedi del suo amico. Ciccio cadde con un verso, troppo stupito per
fare altro che rimanere dov’era.
Liam rimase a terra a sua volta, premendosi i pugni sugli occhi.
«Perché ci stai facendo questo?» gridò Ciccio. «Vuoi proprio farti catturare?»
«Lo so, lo so», disse Liam. «Questa è colpa mia. Avrei dovuto fare più
attenzione…»
«Perché non me l’hai detto?» continuò Ciccio. «Lo sapevi fin dall’inizio?
Perché mentire allora? Vuoi davvero andare a casa, oppure…?»
«Charles!»
«Me ne vado, perciò voi due non litigate più, d’accordo?» dissi. «Mi dispiace
avervi mentito. So che avrei dovuto andarmene, ma volevo aiutarvi ad arrivare a
casa perché voi avevate aiutato me, e mi dispiace, mi dispiace tanto…»
«Ruby», disse Ciccio, poi di nuovo, più forte: «Ruby! Per l’amor del…
stavamo parlando di Black Betty, non del tuo culo arancione».
Mi bloccai. «È solo… ho pensato… capisco perché mi vogliate lasciare
qui…»
«Eh?» Liam pareva inorridito. «Abbiamo lasciato la radio accesa così, nel
caso ti fossi svegliata, avresti saputo che non ti avevamo abbandonata.»
Quelle parole mi fecero solo piangere più forte.
Quando una ragazza piange, ci sono poche cose più inutili di un ragazzo.
Averne due accanto significava solo che rimasero a guardarsi l’un l’altro,
inebetiti, invece di guardare me. Ciccio e Liam si alzarono, imbarazzatissimi,
finché Ciccio mi diede una pacca sulla testa come si fa con i cani.
«Pensavi che volessimo liberarci di te perché non sei davvero una Verde?»
chiese Liam, come se facesse fatica a capirlo. «Voglio dire, non mi entusiasma il
fatto che tu non ti sia fidata di noi abbastanza da dirci la verità, ma era il tuo
segreto.»
«Mi fido, davvero», dissi. «Ma non volevo che pensaste che mi fossi infilata
tra voi a forza o che vi avessi manipolati. Non volevo che aveste paura di me.»
«Okay, tanto per cominciare», replicò Liam, «perché mai dovremmo pensare
che ci hai convinti a farti restare con qualche trucchetto Jedi? Abbiamo votato, ti
abbiamo anche chiesto. Seconda cosa, che diavolo c’è di sbagliato nell’essere
Arancione, per l’amor del cielo?»
«Non avete idea…» Di cosa sono capace.
«Esattamente», si intromise Ciccio. «Non ne abbiamo idea, ma non stiamo
certo per vincere il premio per la famiglia normale dell’anno. E allora, puoi
entrare nella testa delle persone? Noi due scaraventiamo la gente per aria come
fossero giocattoli. Una volta Zu ha fatto saltare in aria un condizionatore soltanto
passandoci accanto.»
Non era la stessa cosa, eppure non lo capivano.
«Non riesco sempre a controllarlo come fate voi», dissi. «E a volte faccio cose
brutte. Vedo cose che non dovrei vedere. Trasformo la gente. È orribile. Quando
sono nella testa di qualcuno, è come essere nelle sabbie mobili; più tento di
liberarmi, più danni faccio.»
Ciccio fece per dire qualcosa, ma si trattenne. Liam si chinò in modo che il
suo viso fosse all’altezza del mio, così vicino che quasi mi sfiorò la fronte.
«Noi ti vogliamo», disse, facendo scivolare la mano tra i miei capelli e
fermandola sulla nuca. «Ti volevamo ieri, ti vogliamo oggi e ti vorremo domani.
Niente che tu possa fare ci farà cambiare idea. Se hai paura e non capisci le tue
folli abilità, ti aiuteremo a capirle; ma non pensare, nemmeno per un secondo,
che potremmo mai abbandonarti.»
Attese che lo guardassi negli occhi prima di continuare. «È per questo che hai
reagito in quel modo quando ho detto che forse Slip Kid era un Arancione? È
davvero per questo che vuoi incontrarlo, o vuoi solo tornare da tua nonna?
Perché, in entrambi i casi, tesoro, ti aiuteremo.»
«Entrambe le cose», risposi. Era tanto sbagliato desiderare entrambe le cose?
Avevo smesso di piangere ma mi sentivo i polmoni pesanti e appiccicosi, e
farci entrare anche un solo respiro mi pareva uno sforzo troppo grande. Non so
perché il mio cervello fosse così calmo, ma tentai di non pensarci. Liam e Ciccio
mi presero ciascuno per un braccio, mi sollevarono dal minivan e mi condussero
accanto al fuoco scoppiettante.
«Dove siamo?» chiesi, finalmente.
«Da qualche parte tra il North Carolina e la Grande Palude del Terrore,
spero», rispose Liam, con una mano ancora sulla mia schiena ad accarezzarla
con gesti circolari. «Virginia sudorientale. Ora che sei sveglia, devo controllare
Zu. Voi due restate dove siete, okay?»
Ciccio annuì; lo guardammo allontanarsi in silenzio, poi si voltò verso di me.
«Ruby», mi disse, con voce estremamente seria. «Sai dirmi chi è il presidente?»
Battei le palpebre. «Tu sai dirmi perché me lo chiedi?»
«Ti ricordi cos’è successo?»
Bella domanda. Il ricordo era lattiginoso e distorto, come se stessi
intravedendo il sogno di qualcun altro. «Uomo arrabbiato», dissi. «Fucile. Testa
di Ruby. Ahia.»
«Piantala, sono serio!»
Trasalii, toccandomi ancora una volta i punti sulla fronte. «Puoi abbassare la
voce? Mi pare che la mia testa sia sul punto di crollare.»
«Sì, beh, ti sta bene, visto lo spavento che ci hai fatto prendere. Tieni, bevi»,
disse, porgendomi quel che restava della nostra bottiglia d’acqua. Anche se
l’acqua era tiepida e stantia, non importava: la trangugiai in un sorso solo.
«Voglio dire, mio padre ripeteva spesso che le ferite alla testa sembrano sempre
peggiori di quanto siano in realtà, ma ho pensato davvero che fossi spacciata.»
«Grazie per avermi ricucita», dissi. «Sembro un po’ Frankenstein, ma
immagino che sia appropriato, tutto considerato.»
Ciccio fece un sospiro affaticato. «Frankenstein è il nome del dottore che ha
creato il mostro, non il nome del mostro.»
«Non potevi proprio lasciar perdere, vero?»
«Non te la prendere con me. Sei tu che non conosci i classici della
letteratura.»
«Strano, non penso che ci fosse quel titolo nella biblioteca di Thurmond.»
Non avrei voluto usare un tono così tagliente, ma non era un’esperienza
piacevole farsi ricordare di avere un livello di istruzione pari a quello di un
bambino di dieci anni. Ciccio ebbe la decenza di rivolgermi uno sguardo di
scuse, facendo un gran sospiro. «È solo… rilassati, okay? Il mio cuore può
sopportare solo una certa quantità di stress.»
Per tutto il tempo in cui rimasi ad ascoltare Ciccio e Liam che provavano a
rincuorarmi, una parte di me aveva tentato di capire la discussione che avevo
origliato. Comprendevo, per quanto mi facesse inorridire, la necessità di
abbandonare Betty. Le FSP e i tracciatori ormai avevano capito che bastava
avvistarla. Ma c’era anche qualcos’altro, nascosto tra le loro parole, qualcosa su
cui non erano d’accordo. Avevo la sensazione di sapere esattamente di cosa si
trattasse, ma non potevo chiederlo a Liam. Volevo la verità, non una versione
edulcorata. La versione della Squadra Realtà; e poteva darmela solo Ciccio.
Ma esitai, perché per terra accanto ai suoi piedi c’era la sua copia della
Collina dei conigli. E continuavo a pensare a una riga che mi aveva fatto
arrabbiare da morire quando l’avevo letta la prima volta, da bambina.
Nel libro, i conigli avevano incontrato un covo – una comunità – che aveva
stretto un patto con gli umani: questi donavano cibo ai conigli, ma in cambio di
tanto in tanto ne ammazzavano uno. Quei conigli avevano smesso di lottare
contro il sistema, perché era più facile accettare la perdita della libertà,
dimenticare come si vivesse prima che il recinto li imprigionasse, che andarsene
per il mondo e dover lottare per trovare cibo e riparo. Avevano deciso che la
perdita di alcuni di loro valeva la comodità temporanea della maggioranza.
«Sarà sempre così?» Mi portai le ginocchia al petto e ci appoggiai il mento.
«Anche se troviamo East River e ci facciamo aiutare, ci sarà sempre una Lady
Jane dietro l’angolo, vero? E varrà mai la pena?»
Rassegnazione al proprio destino. Nel nostro caso, quel destino era di non
rivedere mai più le nostre famiglie. Di continuare a essere cacciati e inseguiti in
qualsiasi angolo buio ci desse un nascondiglio su questa terra. Qualcosa doveva
cambiare, non potevamo vivere così.
Sentii che Ciccio mi posava una mano pesante sulla nuca, ma ci volle del
tempo prima che riuscisse a rimettere in ordine i propri pensieri.
«Forse per noi non cambierà mai niente», disse. «Ma non vuoi restare nei
paraggi se mai invece dovesse cambiare?»
M il nostro fantasticare, East River non era altro che un campeggio. Grande,
ALGRADO
certamente, ma niente che non avessi visto almeno una decina di volte con i miei
genitori. A sentire le descrizioni entusiastiche di Mike, sembrava che fossimo
diretti ai cancelli scintillanti del paradiso, anziché a un vecchio campeggio che in
una vita passata si chiamava Chesapeake Trails.
Poiché era stato Mike a convincere gli altri a permetterci di andare con loro,
era compito suo farci da babysitter nella lunga camminata in salita su una strada
fangosa e non asfaltata, carichi delle casse di frutta che erano tanto allettanti
quanto pesanti.
«Facciamo queste cose – li chiamiamo colpi – per raccogliere provviste per il
campo. Cibo, medicine, qualsiasi cosa. A volte colpiamo anche i negozi.»
Liam mi aveva dato il suo giubbotto per ripararmi dalla pioggia. Anche se si
era trasformata in una pioggerellina leggera, il danno agli scatoloni di cartone
che trasportavamo era fatto. Di tanto in tanto il fondo di uno cedeva
completamente, e il poveretto che lo trasportava era costretto a infilarsi la frutta
bagnata nelle tasche o a usare la maglietta come sacco. Altri ragazzi tornavano
indietro a raccogliere i pezzi sparpagliati della scia colorata che lasciavamo
dietro di noi.
Mentre Mike ci dava le spalle, Liam infilò una mano nella cassetta in cima e
mi mise un’arancia davanti al viso, con un sorriso timido sulle labbra. Quando la
posò nella tasca del mio giubbotto, si chinò, facendo scivolare via il cappuccio
dalla testa, e mi diede un bacio leggero sulla guancia livida. Il freddo che sentivo
sulla pelle sembrò evaporare.
«Ahi, ahi, ahi, ahi», cantilenò Ciccio dietro di noi. «Ahi, ahi, ahi, ahi.»
«Sai», disse Mike, «mi rincuora vedere che, dopo tutto quello che abbiamo
passato, Ciccio è sempre lo stesso Ciccio che conosciamo e amiamo.»
«Oh, non è mica vero», disse Liam. «Questo è Ciccio due punto zero. Non ha
pianto neanche una volta per tutta la camminata.»
«Dagli tempo», sbuffò Greg. «Sono certo che non ci deluderà.»
«Ehi», dissi a voce bassa, come avvertimento. «Non fa ridere.»
Ciccio era ancora l’ultimo della fila, e la distanza tra noi aumentava a ogni
chilometro. Mi fermai ad aspettarlo, perché non volevo che si sentisse
abbandonato.
«Serve aiuto?» chiesi quando si avvicinò zoppicando. «La mia scatola non è
tanto pesante.» E la sua lo era, si vedeva. Era carico di pompelmi.
Gli leggevo negli occhi che aveva una voglia disperata di fare cambio, anche
solo per qualche minuto. Tuttavia, alzò il mento e, al di sopra di un’aletta di
cartone, disse: «Sto bene, ma apprezzo la proposta».
Liam e Mike scoppiarono a ridere per qualcosa; persino Zu si voltò a
sorridere, e il cappello di Liam le scivolò sugli occhi. Era incredibile quanto
l’aspetto di Liam fosse migliorato in poche ore; aveva il viso acceso di
un’energia che non vedevo… beh, mai.
«Com’era lui?» domandai piano. «Com’era quando era nel campo?»
Ciccio fece un lungo sospiro. «Tanto per cominciare, era molto più fastidioso
con quel continuo: ‘Ce la faremo, ragazzi, ne usciremo un giorno’, stile
Pollyanna. Quell’atteggiamento sta lentamente morendo, ora che Liam si è reso
conto di quanto tutto faccia effettivamente schifo.»
Si fermò per aggiustare il peso dello scatolone tra le braccia. «Insomma, cosa
vuoi che ti dica? Lee è Lee. Tutti lo adoravano, persino alcune delle FSP. Lo
avevano scelto tra tutti i Blu per fare da fattorino al centro di controllo del nostro
campo.»
«Davvero? E tu, com’eri nel campo?» chiesi con un sorriso.
«Ignorato, per lo più. Tranne quando ero con Lee.»
Come se avesse sentito il suo nome, Liam si voltò. «Sbrigatevi, signorine!
Altrimenti rimaniamo indietro!»
Mike era intento a spiegare come fosse arrivato dall’Ohio in Virginia facendo
l’autostop dopo essere scappato da Caledonia, quando Ciccio finalmente li
raggiunse. Zu mi tirò la manica del giubbotto e indicò gli alberi alla nostra
sinistra. Ero talmente assorta nella conversazione con Ciccio che mi ero persa il
lago blu e setoso che era improvvisamente apparso. Le nuvole si diradarono,
rivelando un sole alto sopra di noi. L’acqua scintillava al suo tocco, proiettando
riflessi di luce sugli alberi che lo circondavano. Attraverso la foresta,
intravedevo un piccolo attracco di legno a forma di T dall’altro lato e, oltre, una
serie di casette in legno.
«Insomma è più che altro un nascondiglio», disse Liam. «Può aiutarci a
contattare i nostri genitori?»
Mike fece una smorfia. «Penso di sì, ma di solito chiede in cambio di rimanere
e dare una mano per qualche settimana. E poi, chi ha voglia di tornare a casa
ormai? Qui è molto più sicuro.»
Mi resi conto che Ciccio voleva insistere, ma Liam proseguì imperterrito con
un’altra domanda. «Questo Slip Kid da quanto tempo è sistemato qui?»
«Due anni o giù di lì, credo», rispose Mike. «Cavolo, non vedo l’ora che lo
incontriate: impazzirete.»
Ciccio alzò gli occhi al cielo, ed ebbi la netta impressione che lui e Mike non
andassero poi molto d’accordo.
«E ci sono centinaia di ragazzi che vanno in giro, senza controlli?» chiesi.
«Come ha fatto a rimanere qui così a lungo senza che le FSP se ne
accorgessero?»
Mike aveva già spiegato il funzionamento del campo. Tutti i ragazzi che vi si
erano radunati – alcuni dei quali erano scappati da un campo o sfuggiti alla
cattura, mentre altri erano rimasti nascosti abbastanza a lungo da evitarli del
tutto – avevano delle responsabilità.
«Oh, vedi, è questo il bello di essere protetti da Slip Kid», disse Mike. «Le
FSP non possono toccarlo a causa della sua identità e di come potrebbe
vendicarsi. Persino il vecchio Gray ne è terrorizzato.»
«Ho capito chi è!» esclamò Liam schioccando le dita. «Babbo Natale!»
Zu ridacchiò.
«Non sei poi così lontano», disse Mike. «Sembrerò supersdolcinato, perciò
prendetemi pure in giro, ma qui ogni giorno sembra Natale.»
Capii immediatamente cosa intendeva. Appena raggiunta la radura dove,
immaginai, un tempo i campeggiatori avevano montato le tende, fummo
circondati da decine di ragazzi. Alla nostra destra, alcuni adolescenti giocavano
a pallavolo, con una rete vera. Sentii qualche risata e strillo divertito, e mi fermai
per lasciar passare un gruppo di bambine che giocava a prendersi. Furono loro a
catturare l’attenzione di Zu.
Avevano un aspetto felice: allegre, luminose e sorridenti. E pulite. Non piene
di tagli e lividi e fango, come noi, ma con vestiti e scarpe decenti. Alcuni ragazzi
che si erano attardati sotto gli alberi mollarono ciò che stavano facendo e ci
aiutarono a portare le casse di frutta verso un edificio bianco con l’insegna
, senza che ci fosse bisogno di chiedere.
UFFICIO/NEGOZIO
L’ufficio/negozio era la struttura più solida che avessimo visto fino ad allora,
costruita per durare più a lungo delle baracche di legno dalle porticine verde
scuro.
«È qui che teniamo il cibo», disse Mike, come se fosse la cosa più
emozionante che potessimo sentire. «Ed è da qui che Slip Kid manda avanti lo
show; entriamo, ve lo presento. Chiedo il permesso di farvi restare per un po’.»
«Abbiamo bisogno del permesso?» domandò Ciccio. «Cosa succede se dice di
no?»
«Non ha mai detto di no», rispose Mike, spostando la cassa sulla spalla per
mettere un braccio intorno alle spalle di Ciccio.
Poiché si accorse che stavo facendo attenzione, mi fece un ampio sorriso. «Tu
di sicuro non eri a Caledonia. Un viso come il tuo me lo ricorderei.» Penso che
fosse convinto di essere affascinante, con quegli occhi scuri e le fossette. Rivolse
uno sguardo a Lee, che osservava la mia reazione trattenendo a stento un sorriso.
«Da dove viene, e dove posso trovarne una?»
«Questa l’ho raccolta a un distributore di benzina in West Virginia, prezzo
scontato», disse Lee. «Era l’ultima sullo scaffale, mi spiace.»
Mike rise di nuovo, stringendo la spalla di Ciccio prima di salire le scale e
infilarsi oltre un lenzuolo bianco appeso alla piccola veranda. Lo guardai
distrattamente, ma dovetti tornare sui miei passi.
Al vedere l’enorme Ψ nera che vi era dipinta, Zu si bloccò, e il suo viso
assunse un pallore mortale. Io non riuscivo a muovermi, non riuscivo a
distogliere lo sguardo. Liam si schiarì la voce e strinse la mascella nel tentativo
di tirare fuori le parole più facilmente.
Fu sufficiente a impedire a me e Zu di fare un altro passo. Sul viso della
piccola comparve un’espressione allarmata. Liam rivolse al suo amico uno
sguardo confuso.
«Che c’è?» domandò Mike, vedendo la nostra reazione.
«C’è un motivo in particolare per cui avete deciso di decorare i muri di questo
bel posto con il simbolo dei nostri mortali nemici?» chiese Liam.
Era la prima volta che vedevo l’espressione di Mike incrinarsi nelle quasi due
ore che avevamo trascorso insieme a lui. Il suo sguardo si indurì, e contrasse i
muscoli della mascella. «È il nostro simbolo, non è così? È Psi. Dovrebbe
rappresentare noi, non loro.»
«Come spieghi il nero, allora?» insistette Liam. «Le fasce sul braccio, le
camicie…?»
Aveva ragione. Tutti, in un modo o nell’altro, indossavano quel colore. La
maggior parte sembrava soddisfatta di legare un laccio nero al braccio, ma altri,
e non solo quelli che avevano partecipato al raid, erano vestiti di nero dalla testa
ai piedi.
«Il nero è l’assenza di ogni colore», disse Mike. «Non siamo segregati per
colore, qui. Ci rispettiamo a vicenda, rispettiamo le nostre abilità e ci aiutiamo
reciprocamente a comprenderle meglio. Pensavo che, tra tutti, tu saresti stato in
grado di capirlo.»
«Oh no, no, certo che capisco. Capisco eccome», ribatté Liam. «Ero solo…
confuso, tutto qui. Il nero è il nostro colore. Capito.»
La porta scorrevole scricchiolò di nuovo. Mike la tenne aperta con il piede.
«Venite?»
All’interno, fui sorpresa di sentire un’ondata di calore colpirmi il viso, e di
trovare le luci accese. Elettricità; ricordavo di aver sentito dire a Greg che i
Gialli avevano fatto funzionare l’impianto in qualche modo, ma avevano anche
l’acqua corrente?
Le stanze sul davanti erano piene di coperte e lenzuola, qualche materasso
impilato e un certo numero di scatole di plastica grigia impossibili da
identificare. La stanza sul retro – il negozio nella combo ufficio/negozio – si
trovava sulla destra di una piccola cucina con le piastrelle bianche.
Mike fece un cenno ai ragazzi all’interno, che stavano mescolando con lunghi
cucchiai di legno una creazione deliziosa dentro le pentole.
Gli scaffali di legno del vecchio negozio erano dipinti di un verde cupo, ma
traboccavano di un assortimento multicolore di cibo in scatola, pacchi di
patatine, pasta e persino marshmallow. Liam fece un lungo fischio alla vista
delle scatole di cereali impilate più in alto delle nostre teste. Pensai che Ciccio si
sarebbe messo a piangere.
Lasciammo la frutta a terra, in un angolo ombreggiato della stanza, accanto a
una ragazza dai capelli corti e biondi che indossava una maglietta nera che le
lasciava scoperta la pancia. Batteva le mani per la gioia, saltellando. Non poteva
avere più di quattordici o quindici anni, e altrettanti piercing sulle orecchie.
«Sapevo che saresti stata contenta, Lizzie», disse Mike, lanciandole un
pompelmo.
«Non mangiamo frutta da una vita», commentò lei, alzando il tono a ogni
parola. «Spero che duri per un paio di settimane.»
Mike ci condusse fuori dalla stanza, lasciando che Lizzie si coccolasse le
arance e gli ananas. «Andiamo di sopra. Ormai la riunione con gli addetti alla
sicurezza dovrebbe essere finita. Hayes si occupa dei colpi, ma Olivia – la
incontrerete presto – coordina i turni di guardia al perimetro del campo. Se
volete, posso parlarle di voi e farvi assegnare a lei.» Abbassò gli occhi su Zu.
«Ma, purtroppo per te, mia cara, tutti quelli che hanno meno di tredici anni
devono andare a lezione.»
Questo attirò l’attenzione di Ciccio. «Che genere di lezione?»
«Roba di scuola, credo. Matematica, un po’ di scienze, qualche lettura;
dipende su quali libri riusciamo a mettere le mani. Il capo ci tiene che tutti
imparino almeno le basi.» Mike si fermò in cima alle scale e si voltò a guardarci
da sopra la spalla. «So che non ti è mai piaciuto usarle, ma ci sono anche lezioni
su come gestire le nostre abilità.»
Ciccio, dietro di me, si schiarì la gola. «Mi basta quello che mi ha insegnato
Jack.»
«Jack…» La voce di Mike si spense. «Cavolo, quel ragazzo mi manca.»
Mentre ci avvicinavamo, ci aveva spiegato che cinque ragazzini da Caledonia
vivevano nel campo di Slip Kid. Mike era l’unico che aveva condiviso la stanza
con Liam, ma c’erano anche due ragazze Blu, un ragazzo Giallo e un Verde che
in qualche modo era riuscito ad arrivare fino all’East Virginia.
Il secondo piano dell’edificio era una sorta di soffitta; era costituito da una
sola stanza, ma piuttosto bella. Mike bussò e, quando dissero: «Entrate», toccò la
maniglia. Ciccio emise un gemito nervoso e mi sorpresi a notare che il mio cuore
aveva saltato un battito.
La porta si aprì rivelandoci il centro della stanza. A destra c’era una tenda
bianca, completamente tirata come a nascondere quello che doveva essere un
appartamento. La finestra dietro la tenda lasciava entrare abbastanza luce
pomeridiana da far intravedere un letto e una cassettiera.
L’altra metà della stanza era arredata come un ufficio. C’erano due scaffali
pieni di raccoglitori e libri di ogni forma e dimensione. Una vecchia scrivania in
metallo, dalla vernice scrostata, era sistemata in mezzo. Di fronte alla scrivania
c’erano due semplici sedie e un lungo tavolo spinto contro la parete sinistra, su
cui era appoggiata ogni sorta di apparecchio elettronico. C’era un televisore
sintonizzato su un canale di news. Il viso del presidente Gray, affiancato da due
bandiere americane, riempiva lo schermo. La sua bocca si muoveva, ma il
volume era azzerato. L’unico suono, a parte il sospiro improvviso di Ciccio, era
provocato dalle dita di Clancy Gray che battevano sui tasti di un sottile computer
portatile argentato.
Lo avrei riconosciuto anche se si fosse rasato i folti capelli neri ondulati,
anche se si fosse tatuato le guance, o se avesse fatto un piercing sul lungo naso
dritto. Avevo trascorso sei anni a fissare ciascuno dei suoi ritratti a Thurmond,
memorizzando ogni neo, la forma delle sue labbra sottili; conoscevo a memoria
persino la curva dell’attaccatura dei suoi capelli. Ma non era paragonabile al
vederlo dal vivo. Quei ritratti non avevano saputo catturare i suoi occhi scuri, e
di certo non avevano saputo predire quanto sarebbe diventato particolare,
crescendo.
«Solo un secondo…» Alzò gli occhi dallo schermo e si voltò verso di noi con
uno scatto, tornando a guardarci con attenzione.
«Capo?» disse Mike. «Tutto bene?»
Il figlio del presidente si alzò lentamente, chiudendo il portatile. Le maniche
arrotolate della camicia bianca gli scivolarono sulle braccia abbronzate.
Sarebbe questo, Slip Kid? pensai. Lui? Dire che fossi sorpresa era un
eufemismo. Uno shock da ammutolire il cervello, del tipo che riduceva i miei
pensieri a un ammasso strisciante, era un eufemismo. Non ebbi nemmeno un
secondo di tempo per riprendermi prima che le tre parole successive gli uscissero
dalla bocca. Non avrei potuto, in ogni caso, perché Clancy Gray mi guardò dritta
negli occhi e disse l’ultima cosa in assoluto che mi sarei aspettata.
«Ruby Elizabeth Daly.»
La mia reazione fu davvero troppo forte per un gesto innocente come
pronunciare il mio nome. Non aveva certo sputato fuori tre imprecazioni volgari,
né urlato: Uccideteli tutti subito! oppure: Sbatteteli in prigione! Non avrei
dovuto inciampare tentando di fare un passo indietro, ma ero quasi già alla porta
prima ancora di accorgermene. Clancy fece un passo avanti ma Lee lo spinse
indietro con forza.
«Lee!» Mike sembrava scandalizzato.
Clancy alzò le mani. «Scusa, mi dispiace! Colpa mia. Avrei dovuto rendermi
conto di come potesse suonare. Ero solo sorpreso di vederti.» Si sporse oltre
Liam con un sorriso di scuse, e mi fermai sulla soglia, stupita per un momento
alla vista dei suoi denti dritti e bianchissimi.
«Ho letto il tuo file così tante volte, e su così tanti network, che mi sembra di
averti già incontrata. Ci sono un sacco di persone che ti cercano, là fuori.»
«E tu a chi di loro stai pensando di consegnarla?» scattò Ciccio.
Mi alzai, lasciando che Zu mi tenesse un braccio stretto intorno alla vita.
Clancy arrossì a quell’accusa, e tornò a posare gli occhi scuri su di me. «A
nessuno di loro. Io raccolgo solo informazioni, controllo i canali per capire di
cosa parla la gente. E a quanto pare la gente parla di te, signorina Daly.» Fece
una pausa, sfregandosi la spalla con aria distratta. «Vediamo se mi ricordo tutti i
dettagli: nata a Charlottesville, Virginia, ma cresciuta a Salem dalla madre
Susan, insegnante, e dal padre Jacob, agente di polizia. Hai frequentato la scuola
elementare di Salem fino al decimo compleanno, quando tuo padre ha chiamato
il commissariato per denunciare la presenza di una bambina sconosciuta in casa
sua…»
«Smettila», mormorai. Liam mi guardò da sopra la spalla, dividendo la propria
attenzione tra me e il ragazzo che recitava ogni sordido dettaglio della mia vita.
«…ma, purtroppo, le FSP sono arrivate a casa tua prima della polizia. Per
fortuna, qualcuno ha fatto un errore o ha avuto fretta di andare a prendere altri
ragazzini, perché non si sono attardati a interrogare i tuoi genitori e di
conseguenza non ti hanno preassegnata. E poi sei arrivata a Thurmond, e sei
riuscita a evitare di far loro scoprire che eri una Arancione…»
«Smettila!» Non volevo sentirlo, e non volevo che lo sentisse nessun altro.
«Che problemi hai?» urlò Liam. «Non vedi che la stai turbando?»
Clancy, forse aspettandosi un altro spintone, si spostò a lato della scrivania.
«Sono emozionato di incontrarla, tutto qui. Non capita spesso di trovare un altro
Arancione.»
Una scintilla si accese al centro del mio petto, espandendosi in fretta fino al
cervello. È un Arancione. Le voci erano vere. Potrebbe davvero aiutarmi.
«Ma… non ti avevano riformato?» chiesi lentamente. «Non è per questo che ti
hanno lasciato andare?»
«Tu più di chiunque altro dovresti sapere che non riformano un bel niente a
Thurmond, Ruby», rispose. «Come vanno le cose nel caro vecchio Thurmond, a
proposito? Ho avuto il dubbio onore di essere il primo prigioniero; ho potuto
vedere la costruzione della sala mensa mattone dopo mattone. Hanno davvero
appeso la mia foto dappertutto?»
Una domanda più adatta: pensava sul serio che avrei preso una sedia e mi
sarei messa a chiacchierare dei bei vecchi tempi? Clancy sospirò. «Comunque…
se tu sei Ruby, allora tu devi essere Liam Stewart. Ho letto anche il tuo file.»
«Qualcosa di interessante?» domandò Mike con una risatina nervosa.
«Le FSP hanno seguito ogni tua mossa», disse Clancy, appoggiandosi alla
sedia. «E ciò significa che hai bisogno di un posto dove nasconderti per un po’,
giusto?»
Liam esitò un secondo prima di annuire.
«Venire qui è stata la scelta giusta. Puoi restare per tutto il tempo che ti
serve.» Clancy appoggiò le mani sul petto. «Ora che sono riuscito a turbare tutti,
Mike, vuoi accompagnarli a una baracca e assegnarli ai turni?»
Mike annuì. «Per la cronaca, io non sono turbato, capo.»
Clancy rise, un suono ricco e profondo. «D’accordo, bene. Grazie per il duro
lavoro di oggi, a proposito. Sembra che sia stato un buon bottino.»
«Da non crederci», confermò Mike, avvicinandosi alla porta. Ci fece cenno di
seguirlo, ma non c’era più lo stesso calore nel suo sguardo. «La baracca 18 è
libera, giusto?»
«Già, Ty e i suoi hanno scelto la vita tribale», disse Clancy. «Non so se
qualcuno sia andato a pulire dopo la loro partenza, quindi mi scuso per il
disordine.»
Poi tornò a fissarmi, piegando verso l’alto un angolo delle labbra, poi l’altro.
Una sensazione calda, frizzante, mi riempì la mente e mi fece accelerare i battiti.
Mi voltai, interrompendo il contatto visivo, ma l’immagine continuava a
invadermi la testa, traboccando fino a farmi quasi soffocare. Nella mente, vidi
me e Clancy da soli in quella stessa stanza; lui era in ginocchio e mi offriva una
rosa.
Mi perdoni? La sua voce risuonava forte nelle mie orecchie, continuando a
echeggiare mentre scendevo le scale.
Come ci era riuscito? Aveva attraversato a passo di danza ogni mia difesa
naturale. E perché il mio cervello si era improvvisamente risvegliato, tendendosi
verso chiunque ci fosse a portata di mano, chiunque fosse così stupido da
lasciarmi entrare?
Sollevai il viso dalla spalla di Liam, dove lo avevo nascosto. Ma quando lo
avevo fatto? E quando eravamo usciti all’esterno, quando eravamo arrivati fino
alla baracca?
Liam tentò di incrociare il mio sguardo, ma mi ritrassi. Desideravo così tanto
di entrare nella sua mente da provare un dolore sordo ma reale nella testa. Era
troppo pericoloso essere così vicini.
«Non adesso», sussurrai.
Liam schiuse le labbra come per dire qualcosa, ma si limitò ad annuire e a
voltarsi verso la baracca, correndo su per i gradini.
Avevo bisogno di allontanarmi da loro il più possibile, almeno finché
l’agitazione nella mia testa fosse scemata. Non avevo nessun piano, né una
mappa; mi incamminai semplicemente lungo il sentiero più vicino. Un paio di
ragazzini, tutti sconosciuti, mi chiamarono preoccupati, ma li ignorai e seguii
l’odore di foglie marce e fango fino a raggiungere il lago che avevamo visto
arrivando.
Gli alberi e i cespugli avevano invaso la via d’accesso al piccolo attracco in
legno; dove la strada non era bloccata dalla vegetazione trovai una corda e un
cartello che diceva .
NON OLTREPASSARE
Quella sera, la cena fu servita alle sette. Nel campo non c’era un sistema di
allarme né di altoparlanti, ma c’erano campanacci. A quanto pareva, erano un
segnale universalmente riconosciuto come richiamo per la cena, perché quando
suonò la prima campana, altre le risposero, spargendo la voce di casetta in
casetta e lungo i sentieri, fino a dove mi trovavo io, seduta a osservare il mio
riflesso nell’acqua scura.
Fu abbastanza facile individuare il centro dell’azione: circa duecento ragazzi
raccolti intorno a un enorme falò, pronti a mangiare, non erano certo facili da
nascondere. Avvicinandomi, rallentai il passo, e rimasi a osservare alcuni dei più
grandi che gettavano altri ceppi tra le dita avide del fuoco. Vecchi tronchi
disposti in cerchio fornivano sedie improvvisate per quelli che avevano già
ricevuto la propria porzione e non volevano mangiare da soli nella baracca.
Decine di ragazzi attendevano il proprio turno davanti ai pentoloni, tenendo
strette al petto le ciotole di plastica.
Trovai subito Liam, in piedi anziché seduto su uno dei tronchi. Aveva una
ciotola di chili in ciascuna mano, e si guardava intorno alla ricerca di qualcosa.
Ciccio gli sarebbe passato davanti senza vederlo se Liam non lo avesse sfiorato.
Gli chiese qualcosa, ma captai solo parte della risposta: «Uh, no, grazie. Ho letto
Il signore delle mosche. So come funziona: a un certo punto tutti si mettono a
danzare intorno al fuoco e si dipingono la faccia e adorano un maiale decapitato
e poi qualcuno viene colpito da un masso e precipita e poi muore; e, sorpresa, è
il ragazzo cicciottello con gli occhiali». Liam si mise a ridere, ma persino io mi
resi conto di quanto Ciccio fosse a disagio. «Penso che, per sicurezza, andrò a
leggere da qualche parte… Ehi! C’è Ruby! Voi due potete godervi la
degenerazione della dignità umana senza di me.»
Liam si voltò così in fretta che scivolò rischiando di far cadere le ciotole sui
capelli delle ragazze sedute accanto a lui.
«Divertiti», disse Ciccio passandomi accanto di corsa.
Lo afferrai per una manica e lo costrinsi a voltarsi. «Cosa c’è che non va?»
Alzò le spalle, con un sorriso triste. «Non me la sento proprio, stasera, mi sa.»
Sapevo cosa doveva provare. Dopo essere rimasti noi quattro da soli così a
lungo, era stressante trovarsi improvvisamente circondati da tutte quelle persone,
anche se erano ragazzi come noi. A Ciccio non era piaciuto quando una sola
persona – io – aveva invaso il suo mondo, e potevo solo immaginare che effetto
potesse avere sui suoi nervi questa situazione. «Beh, se cambi idea, ci trovi qui.»
Ciccio mi diede una pacca affettuosa sulla testa, e proseguì lungo il sentiero
che conduceva alla baracca assegnata a noi.
«Cosa gli è preso?» chiese Liam, porgendomi la ciotola di cibo fumante.
«Penso che sia solo stanco», risposi, senza approfondire. «Dov’è Zu?»
Liam fece un cenno con la testa alla sua sinistra e subito il viso sorridente di
Zu apparve al centro di un gruppetto di ragazzini e ragazzine della sua età.
Quando mi vide, mi salutò con la mano. Mi domandai come fosse possibile che
il suo viso fosse così acceso. La ragazza dai lineamenti asiatici che sedeva
accanto a lei le fece un gesto, come se potesse capire i suoi pensieri senza
bisogno di parlare. Zu si sporse per sfilarle il cappuccio della felpa, su cui era
scritto , e fece apparire una lunga treccia nera e lucida.
VIRGINIA IS FOR LOVERS
* * *
Più che assopirmi, mi rilassai. Sembrava che, più rimanevo lì seduta, più la mia
mente si calmava e i dolori e le contratture del mio corpo si scioglievano,
facendomi sentire soffice come il terriccio sotto di noi.
Dopo un po’, qualcuno tirò fuori un grosso stereo vecchio di decenni, e
persino i ragazzi con le chitarre smisero di suonare in segno di rispetto per i
Beach Boys. Sembrava che fossi l’unica in tutto il campo a non ballare, ma era
divertente guardare gli altri. Zu, in particolare, che agitava i fianchi e alzava le
mani in aria, almeno fino a quando si diresse verso di noi e iniziò a tirarci per le
braccia. Io riuscii a declinare, ma Liam non ebbe altrettanta forza di volontà.
Ridevano entrambi quando la canzone si trasformò in Barbara Ann, e
piroettavano quando iniziò Fun Fun Fun. Avrei dovuto capire che stavano
complottando qualcosa quando entrambi si voltarono verso di me con la stessa
espressione subdola. Liam alzò un dito nella mia direzione, invitandomi a
raggiungerlo. Risi e agitai le mani davanti a me. «No!»
Lui sorrise – il primo vero sorriso da giorni – e sentii qualcosa tirarmi
all’altezza dell’ombelico. Era una sensazione calda, solleticante e familiare.
Liam mimò il gesto di tirarmi a sé con una corda, e Zu smise di dimenarsi per
contribuire alla scenetta. Entrambi avevano il viso arrossato e lucido di sudore.
Senza nient’altro che polvere e fango tra noi, scivolai dritta verso di loro, fra le
braccia aperte di Liam.
«Non vale», mi lamentai.
«Andiamo, Verde», disse. «Ti fa bene un balletto.»
Zu roteò intorno a noi, agitando le braccia al ritmo di Wouldn’t It Be Nice.
Posai la mano su quella di Liam, lasciando che se la portasse alla spalla. Poi mi
prese l’altra mano senza chiedere, e la tenne sollevata nella sua. «Sali sui miei
piedi.»
Gli rivolsi quello che speravo fosse uno sguardo incredulo.
«Fidati», mi disse. «Dai, prima che finisca la nostra canzone.»
Contro ogni buon senso, misi i piedi sopra i suoi, aspettandomi una smorfia
per il peso. Almeno, le sue ossa sembravano salde sotto le mie.
«Un po’ più vicino, Verde, non mordo mica.»
Mi sporsi in avanti, così vicino che la mia guancia poggiava sulla sua spalla.
La mano di Liam si strinse intorno alla mia, e mi sorpresi a stringere l’altra mano
sulla sua maglietta. Ed ero imbarazzata, perché ero certa che sentisse il mio
cuore che batteva forte.
«Niente piroette», dissi. Non ero sicura che il mio cuore o la mia testa
potessero sopportarle. Così da vicino, Liam era caldo e bellissimo. Avevo già le
vertigini.
«Niente piroette», accettò.
Quando iniziammo a muoverci, non ci mettemmo esattamente a ballare; più
che altro, ondeggiavamo. Avanti e indietro, con facilità. Per una volta, il mio
cervello si accontentava di stare per conto suo. I miei muscoli si muovevano a
rilento, come miele. Eravamo completamente fuori tempo, poi smettemmo del
tutto di muoverci.
Avevo la guancia appoggiata alla sua spalla. La mano che Liam mi aveva
poggiato sulla schiena si infilò sotto la mia maglietta, sfiorandomi la pelle.
Quando le campane tornarono a suonare, segnalando che era ora di spegnere le
luci in tutto il campo, ci fu un lamento generale, così distinto che Liam iniziò a
ridacchiare. Non mi resi conto di quanto fossi stanca finché ci separammo.
«Ora di andare a nanna», disse, facendo un cenno a Zu, che si alzò, si ripulì e
salutò con un gesto il gruppo di bambini da cui si stava allontanando.
Il falò scoppiettò e sibilò sotto il getto costante d’acqua di una pompa poco
lontana. Il suono era simile al verso di un animale che veniva ammazzato. E,
quando la luce si fu finalmente spenta, accasciandosi in una pila di braci
sparpagliate tra la cenere, non rimase altro che un velo di fumo a separarmi da
Clancy Gray, seduto dall’altra parte del falò, che mi fissava con gli occhi scuri.
22
A pareva, era una cosa che a Clancy Gray piaceva fare: fissarmi.
QUANTO
Avanzando a zig zag, mi diressi verso l’attracco in legno che avevo scoperto il
pomeriggio precedente, perché avevo bisogno di trovare un modo per dissipare i
brividi che mi percorrevano il cuore. La mia mente era attorcigliata tra mille
possibilità.
Clancy Gray mi aveva appena offerto tutto ciò che desideravo. Un modo per
evitare di ripetere quanto accaduto ai miei genitori e a Sam. Un modo per restare
con Liam, per ritrovare la nonna, per non vivere costantemente nel terrore di
poterli danneggiare. E allora perché non ero riuscita a tirare fuori un sì?
Mi infilai sotto la corda che bloccava l’accesso al lago e scesi fino in fondo al
sentiero prima di accorgermi che qualcosa non andava.
«Cavolo», dissi quando lo vidi.
«Oh no… no, no, no», disse Ciccio. Il sorriso ebete che aveva svanì e lui
smise di lanciare pezzi di pane alle anatre che si erano avvicinate alla riva.
«Questo è il mio nascondiglio segreto. Vietato l’accesso a Ruby!»
«Ma l’ho trovato prima io!» sbuffai, lasciandomi cadere accanto a lui.
«Ma certo che no.»
«E invece sì, una settimana fa, mentre tu svuotavi le valigie.»
A quelle parole si ritrasse. «Beh… d’accordo. Ma oggi sono arrivato prima
io.»
«Non dovresti essere di turno nel giardino?»
«Mi sono stufato delle ragazze che vanno in brodo di giuggiole raccontando di
quanto sia intelligente Slip Kid a farci piantare le carote.» Si chinò indietro. «E
tu non dovresti essere di turno in magazzino?»
Abbassai lo sguardo sulle mie mani strette a pugno. Dato che non risposi,
Ciccio mise giù la borsa del pane e si raddrizzò. «Ehi, stai bene?» Mi appoggiò
una mano fresca sulla fronte. «Sembri sul punto di vomitare. Ti capita di avere
emicranie o vertigini?»
Era a dir poco un eufemismo. Feci una risata roca.
«Oh.» Ritrasse la mano. «Quel genere di problemi di testa.»
Mi appoggiai con la schiena al legno ruvido e mi coprii gli occhi con un
braccio, sperando che l’oscurità aiutasse a smorzare il mal di testa.
«Hai detto che Jack ti aveva insegnato a usare le tue abilità?» domandai.
«Diciamo di sì. Era l’unico modo che avevo per imparare: farmi insegnare da
un altro ragazzo, intendo. Solo che ci ho messo un po’ a decidermi.»
«Perché?»
«Perché pensavo che se non le avessi usate, prima o poi sarebbero sparite»,
rispose sottovoce. «Pensavo che tutto sarebbe tornato alla normalità. Ci sono
prove scientifiche del fatto che, se smettiamo di usare alcune parti del cervello,
quelle sezioni prima o poi smetteranno di funzionare, sai.» Dopo una breve
pausa, chiese: «Clancy si è offerto di aiutarti con le tue abilità?»
«Sì. Gli ho detto che ci avrei pensato.»
«Cosa c’è da pensare?» Ciccio mi colpì sullo stomaco con il suo libro. «Non
hai detto che non sei in grado di controllarle?»
«Beh, sì, ma…» Mi spaventa pensare a quante cose non so.
«Devi saperle controllare, altrimenti saranno sempre loro a controllare te»,
disse. «Ti faranno paura e ti manipoleranno fino a farti impazzire, morire, o
finché troveranno la cura. E prova a indovinare quale delle tre cose succederà
per prima.»
Suonò la campana del pranzo: due rintocchi, per il secondo pasto. Ciccio si
alzò e si stiracchiò, gettando in acqua il pane rimasto.
«Pensi davvero che troveranno una cura?» domandai.
«Mio papà diceva sempre che tutto è possibile se ci metti l’impegno.» Fece un
sorriso amaro. Sentir nominare suo padre mi fece stringere lo stomaco.
«Non hai ancora avuto modo di mandargli un messaggio.»
«Ho chiesto in giro, ma c’è solo un computer in tutto questo campeggio
dimenticato da Dio, e solo una persona lo può usare.»
Giusto. Il portatile argentato sulla scrivania di Clancy.
«Gli hai domandato se lo puoi usare per qualche minuto?»
«Sì», rispose mentre ci dirigevamo al falò. Sembrava che stessero
distribuendo panini e mele. «Ha detto di no. A quanto pare è un ‘rischio per la
sicurezza’ se lo tocca qualcuno che non sia lui.»
Scossi la testa. «Domani glielo chiedo io. Magari riesco a convincerlo.»
«Lo faresti davvero?» Ciccio mi afferrò il braccio, e il suo viso si illuminò.
«Gli puoi dire che abbiamo una lettera molto importante da consegnare, ma
abbiamo bisogno di controllare il nuovo indirizzo del padre di Jack? Digli che
faremo qualsiasi cosa… no, digli che mi occuperò personalmente di leccare ogni
sua scarpa fino a farla brillare!»
«Facciamo che gli dico che è il motivo per cui siamo venuti qui, e lasciamo la
tua lingua fuori da questa faccenda?»
Ciccio attese che prendessi il mio panino dal tavolo prima di tirarmi a sé.
Pensai che volesse andare a mangiare nella nostra baracca o all’attracco, ma
gironzolammo fino a trovare Liam. Lui e un paio di altri ragazzi del servizio di
sicurezza erano in pausa, e si erano sistemati in una radura. Era abbastanza
grande da far fronteggiare due piccole squadre in una partita di hover ball, noto
anche come football senza mani. Ciccio e io ci sedemmo su un vecchio tronco,
ignorando le spettatrici che si erano radunate a fare il tifo.
Un ragazzo alto con i capelli rossi e un’esplosione di lentiggini sul viso fece
levitare la vecchia palla per iniziare un’azione. Vi corse accanto, tentando di
tenere sia la palla sia se stesso fuori dalla portata dei compagni. Liam, a un certo
punto, si trovò con la palla a pochi centimetri dal viso, ma le sue mani erano
troppo lente e i piedi troppo maldestri per afferrarla al volo.
«Tieni gli occhi sulla palla, mani di burro!» gli gridai. Liam si voltò di scatto
verso di noi. Appena i suoi occhi incrociarono i miei, Mike, che in quel
momento era in possesso di palla, lo scavalcò per raggiungere l’improvvisata
linea di fondo.
Ciccio e io rabbrividimmo nel vedere Liam colpire il terreno e sbattere la testa
su una delle radici dei vecchi alberi.
«Wow», esclamai. «Non scherzava quando diceva di non essere bravo nello
sport.»
«Farebbe ridere se non fosse così dannatamente triste.»
Gli altri ragazzi erano troppo presi dalle risate per riuscire a tenere in aria la
palla. Liam rimase a terra, tutto rosso ma a sua volta scosso dalle risa. Si sollevò
la maglietta per asciugarsi il sudore dal viso, concedendo a me, e a ogni altra
ragazza presente, una fugace visione della sua pelle.
Questa volta fui io ad arrossire.
Un ragazzo che non conoscevo si avvicinò a lui e lo aiutò a rialzarsi, dandogli
una pacca sulla spalla. Ridevano insieme come se si conoscessero dall’asilo.
Ma Liam era fatto così, prendeva in giro Zu per la rapidità con cui faceva
amicizia, ma lui era uguale. Ciccio e io, invece, eravamo ben contenti di restare
seduti per conto nostro, a guardare, ad aspettare, ma senza posare i piedi
nell’acqua. Forse eravamo troppo abituati a rimanere da soli per essere come
Liam; e forse era ora di cambiare.
* * *
Dopo essermi intrufolata nelle menti altrui, mi ero sempre sentita nauseata, come
se stessi sprofondando. La maggior parte delle volte, venivo scaraventata in una
palude di ricordi in penombra e di emozioni a briglia sciolta senza una mappa,
una torcia, né altro modo di trovare facilmente l’uscita. Ma non c’era niente di
spaventoso nella mente di Clancy. I suoi ricordi erano nitidi e puliti, pieni di
colore e di immagini che sbocciavano. Sembrava che mi tenesse per mano anche
lì dentro, e che mi stesse guidando attraverso ciascuno di essi.
Intorno a me prese corpo un ufficio semplice, pieno di scaffali d’archivio
color canna di fucile, ma poco altro. Poteva trovarsi ovunque; la vernice bianca
era abbastanza fresca da fare delle bollicine sul muro. Ma riconobbi i margini del
macchinario a forma di mezzaluna nell’angolo in fondo e l’uomo che mi fissava
dall’altro lato del tavolo che fungeva da scrivania. Era paffuto e stava diventando
calvo; era una presenza fissa nell’infermeria. Lo osservai muovere le labbra in
una spiegazione muta, mentre i miei occhi venivano attirati da una ordinata pila
di fogli sulla scrivania davanti a lui.
Continuavo a riportare gli occhi sulla sua mano appoggiata al tavolo, che
tentava di tenere aperto un foglio spiegazzato che si ripiegava continuamente su
se stesso. In cima, l’intestazione della Casa Bianca. Misi immediatamente a
fuoco le parole che vi erano scritte, scorrendovi sopra gli occhi, bevendole quasi,
incredula.
Gentili signori,
avete il mio permesso di condurre esami e trattamenti sperimentali su mio
figlio, Clancy James Beaumont Gray, a patto di non lasciare cicatrici
visibili.
S perché Clancy aveva tutto quel potere, non significava che lo sfruttasse. Mi
OLO
sembrava strano che qualcuno che potesse influenzare i pensieri degli altri
potesse anche avere una personalità innata in grado di attrarre a sé la gente. Lo
sperimentai di persona, quando Clancy si offrì di farmi fare il giro del campo.
Salutò i pochi ragazzi vestiti di nero intorno al falò. La sua presenza sembrava
far vibrare l’aria. Su ogni viso che incontravamo sbocciava un sorriso, e non ci
fu una sola persona che non ci facesse un cenno con la mano o gridasse un
saluto, anche solo un rapido: «Ehilà!»
«Hai mai raccontato a qualcuno quello che hai dovuto passare?» chiesi.
Mi guardò di sottecchi, come se la domanda lo avesse sorpreso. Lo osservai
infilare le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni, le spalle chine sotto il peso
dei pensieri.
«Si sono fidati di me», disse, con un piccolo sorriso triste. «Non voglio farli
preoccupare. Devono credere che io sia in grado di prendermi cura di loro,
altrimenti il sistema non funziona.»
Il «sistema», era incredibile. Una cosa era incidere il simbolo Psi sulle pareti
degli edifici e appendere striscioni sopra alle verande, un’altra era assorbire
davvero il messaggio.
Il primo esempio lo ebbi quando una ragazza incaricata degli orti si avvicinò a
noi a grandi passi pretendendo che Clancy punisse tre ragazzini che secondo lei
le rubavano la frutta da sotto al naso.
Mi bastarono due secondi ad ascoltare Clancy per capire che lo stile di vita a
East River non era basato su regole ferree, ma si appoggiava quasi
completamente sul suo buon senso e su ciò che tutti i suoi sottoposti percepivano
come giusto.
Gli accusati erano tre Verdi, di pochi mesi più grandi dei Cuccioli. La
responsabile li aveva lasciati seduti nella terra scura come tre paperelle in fila.
Indossavano tutti magliette nere, ma avevano jeans rovinati. Mi feci da parte
mentre Clancy si metteva in ginocchio davanti a loro, incurante della terra umida
che gli macchiava i pantaloni stirati.
«Avete rubato quella frutta?» chiese in tono gentile. «Per favore, ditemi la
verità.»
I tre si scambiarono uno sguardo. Toccò al più grande, seduto in mezzo,
rispondere. «Sì. Ci dispiace tanto.»
Alzai le sopracciglia.
«Grazie per la risposta onesta», disse Clancy. «Posso chiedervi come mai?»
I ragazzi rimasero in silenzio per alcuni minuti. Alla fine, con qualche
insistenza, Clancy ottenne la verità. «Pete è molto malato e non è riuscito a
venire ai pasti. Non voleva che lo sapesse nessuno perché aveva paura di finire
nei guai per aver saltato il turno di pulizia questa settimana e… non voleva
deluderti. Ci dispiace, ci dispiace tanto.»
«Capisco», disse Clancy. «Ma se Pete è davvero così malato, avreste dovuto
dirmelo.»
«All’ultima riunione del campo tu hai detto che le medicine scarseggiano.
Non voleva prendere medicine nel caso fossero servite a qualcun altro.»
«Sembra che servano a lui, però, se è troppo debole per venire a mangiare»,
sottolineò Clancy. «Sapete che quando prendete del cibo dall’orto c’è la
possibilità che questo mandi a pallino i pasti che abbiamo pianificato per tutti.»
I ragazzi annuirono con espressione avvilita. Clancy si rivolse ai ragazzi che si
erano radunati intorno a noi e chiese: «Cosa volete che facciano in cambio della
frutta che hanno rubato?»
La responsabile aprì la bocca ma un altro ragazzo, più grande, si fece avanti e,
con il rastrello che teneva in mano, indicò il semplice steccato che recintava il
giardino. «Se sono disposti ad aiutarci a togliere le erbacce per qualche giorno,
faremo a turno a fare compagnia a Pete e ci assicureremo che prenda sia il cibo
sia le medicine.»
Clancy annuì. «Mi sembra equo. Che ne pensano gli altri?»
Credetti che la responsabile avrebbe pestato i piedi per terra con stizza quando
tutti si dissero d’accordo con la «punizione». Era profondamente scontenta del
risultato, a giudicare dalla vampata di rossore sulle sue guance. «Questo non è
un problema occasionale, Clancy», disse, accompagnandoci fuori dal giardino.
«La gente pensa di poter venire qui e prendere quello che vuole, e non possiamo
certo chiuderlo a chiave come il magazzino!»
«Ti prometto che lo metterò nell’agenda della riunione del campo, il mese
prossimo», disse Clancy con uno dei suoi sorrisi. «Sarà il primo punto all’ordine
del giorno.»
Questo sembrò soddisfarla, almeno per il momento. Con uno sguardo curioso
nella mia direzione, l’Imperatrice delle Verdure girò sui tacchi e tornò a passo di
marcia nel suo regno.
«Wow», feci. «Che caratterino.»
Clancy alzò le spalle, giocherellando distrattamente con l’orecchio destro.
«Non ha torto. Se le scorte del magazzino cominciano a scarseggiare, dobbiamo
appoggiarci all’orto, e se lo saccheggiano siamo nei guai. Penso che sia chiaro
che la vita a East River è tutta interconnessa. Ehi, ti dispiace se ci fermiamo a
salutare Pete?»
Sorrisi. «Certo che no.»
Il ragazzino era sepolto sotto una pila di coperte; a giudicare dai materassi
spogli lì intorno, gli altri gli avevano prestato le proprie. Quando finalmente il
suo viso arrossato sbucò dalle coltri, lo salutai e mi presentai.
Clancy rimase a chiacchierare con lui per un buon quarto d’ora, ma io aspettai
fuori all’aria aperta, osservando il viavai del campo. I ragazzini mi salutavano
con la mano e mi sorridevano, come se fossi lì da anni anziché da qualche
giorno. Con una stretta al petto, ricambiavo i saluti. Non so se me ne fossi
accorta di colpo o attraverso un processo lento e strisciante, ma avevo iniziato a
capire che il nero – il colore che avevo imparato a temere e odiare – era lo stesso
che permetteva a quei ragazzi di provare una certa misura di orgoglio e
solidarietà.
«Non ti sentirai mai sola qui», disse Clancy, chiudendosi alle spalle la porta
della baracca. Ci dirigemmo alla lavanderia, poi ci fermammo ai bagni per
controllare i rubinetti e verificare che tutte le luci funzionassero. Di tanto in
tanto, qualcuno fermava Clancy per fargli una domanda o esprimere una
lamentela, ma lui non mostrava altro che pazienza e comprensione. Lo osservai
risolvere un’incomprensione tra coinquilini, accettare suggerimenti per la cena e
condividere la propria opinione sull’aggiunta di personale alle squadre di
sicurezza.
Quando raggiungemmo la baracca che faceva da aula per i Cuccioli, non mi
reggevo più in piedi. Clancy, dal canto suo, era pronto a impartire una lezione di
storia degli Stati Uniti.
La stanza era piccola e affollata, ma ben illuminata e decorata con poster e
disegni colorati. Individuai Zu e i suoi guanti rosa prima ancora di vedere la
ragazza adolescente che di fronte alla classe tracciava con un dito il percorso del
fiume Mississippi su una vecchia mappa degli Stati Uniti. Hina era seduta
accanto a Zu, ovviamente, e prendeva freneticamente appunti. Ripensandoci,
non avrebbe dovuto sorprendermi, ma i bimbi applaudirono quando Clancy
apparve sulla porta, e la ragazza gli lasciò subito il posto di fronte alla classe.
«D’accooordo, d’accooordo», esordì Clancy. «Chi mi sa dire dov’eravamo
rimasti?»
«Pellegrini!» cinguettarono una decina di voci.
«Pellegrini?» ripeté Clancy. «E cosa sono? Me lo dici tu, Jamie? Ti ricordi chi
erano i pellegrini?»
Una bambina più o meno dell’età di Zu scattò in piedi. «La gente in
Inghilterra li trattava male a causa della loro religione, allora sono venuti in
America in barca e sono approdati a Plymouth Rock.»
«Qualcuno mi sa dire cos’hanno fatto dopo essere arrivati?»
Una decina di mani si alzarono. Clancy scelse un bimbetto accanto a lui;
poteva essere un Verde, ma anche un Giallo o un Blu. Il mio solito modo di
distinguere i ragazzini non era più valido da quando erano tutti mischiati. Cosa
che, a ben pensarci, era voluta.
«Hanno fondato una colonia», rispose il bambino.
«Esatto. Era la seconda colonia inglese, dopo quella fondata a Jamestown nel
1607, non troppo lontano da dove ci troviamo adesso, in realtà!» Clancy prese la
mappa che l’insegnante aveva usato e indicò entrambi i posti. «Mentre si
trovavano a bordo della Mayflower, crearono il Patto della Mayflower, un
accordo per garantire che tutti collaborassero e si comportassero in modo da
portare beneficio alla colonia. Quando arrivarono, dovettero affrontare un sacco
di difficoltà. Ma lavorarono tutti insieme e crearono una comunità in cui
potevano essere liberi dal dominio della Corona inglese e potevano praticare
apertamente la propria religione.» Smise per un attimo di passeggiare, posando
gli occhi scuri sugli spettatori. «Vi ricorda qualcosa?»
Accanto a me, Zu era attentissima. Ero abbastanza vicina a lei da vedere le
lentiggini sul suo viso, ma, più importante ancora, sentivo la felicità che
emanava. Il mio cuore si alleggerì. Hina si chinò a sussurrarle nell’orecchio
qualcosa, che ampliò ulteriormente il suo sorriso.
«Ricorda noi!» esclamò qualcuno dal fondo della stanza.
«Puoi scommetterci», disse Clancy, e per l’ora e mezza successiva parlò di
come i padri pellegrini avessero interagito con le tribù indigene, di Jamestown,
di tutte le cose che mia madre insegnava al liceo. E, quando ebbe finito il tempo
a sua disposizione, fece un piccolo inchino e mi fece cenno di seguirlo fuori,
malgrado le lamentele dei Cuccioli. Ridacchiando, ci avvicinammo al falò, dove
avevano iniziato a preparare la cena. Diversi sguardi ci si posarono addosso
immediatamente, ma non mi importava. Anzi, sentii un fremito di orgoglio.
«Allora?» disse Clancy, mentre eravamo accanto alla veranda dell’ufficio, ad
ascoltare le campane che richiamavano gli altri a cena. «Che ne pensi?»
«Penso di essere pronta per la mia prima lezione», dissi.
«Oh, Miss Daly.» Un sorriso spuntò sul suo viso. «Hai già avuto la tua prima
lezione. Solo che non te ne sei accorta.»
Una crepa forse non era sufficiente ad abbattere le difese di una fortezza, ma
era abbastanza per spaccarle in due, poi in tre e poi in quattro. Dopo il primo
sfondamento, trovare altri modi di intrufolarmi nella mente di Clancy divenne
per me una missione.
Non riuscivo mai a rimanere più di tanto prima di farmi buttare fuori senza
tante cerimonie, ovviamente; ma ogni piccola vittoria mi incoraggiava a cercarne
un’altra e un’altra ancora. Potevo sorprenderlo quando era distratto, ingannarlo e
fargli proteggere un ricordo mentre in realtà andavo a caccia di un altro. Clancy
ne era sorpreso, ma secondo me anche, segretamente, eccitato. Almeno quanto
bastava per iniziare a farmi fare pratica sugli altri.
Per certi versi era come correre in discesa: l’inerzia mi trascinò in esperimenti
di ogni tipo, grandi e piccoli. Combinai un casino spettacolare una sera a cena,
quando presi ciascuno dei sei ragazzini di turno e misi loro in mente sei idee
molto diverse di cosa dovessero preparare da mangiare, tutte allo stesso tempo.
Feci pensare a una ragazza di chiamarsi Theodore con tale convinzione che si
metteva a piangere quando qualcuno la contraddiceva. Divenne così facile, in
effetti, convincere qualcuno a fare ciò che volevo, o fargli pensare di aver fatto
qualcosa che non aveva fatto, che Clancy mi disse che era giunto il momento di
provare a metterlo in pratica senza contatto fisico con il soggetto.
Ci stavo arrivando, lentamente e senza troppa sicurezza, ma c’era qualcosa di
delizioso nel sentire di poter controllare la stessa potente ondata delle abilità che
un tempo mi avevano terrorizzata. Ogni loro aspetto divenne più preciso, più
facile.
Ma il martedì seguente fummo di nuovo interrotti.
Una delle ragazze Gialle più grandi, Kylie, bussò forte alla porta di Clancy.
Non attese di essere invitata a entrare; quasi caddi dal letto per la forza con cui
irruppe nella stanza.
«Come sarebbe a dire che rifiuti la nostra richiesta di andarcene?» I riccioli
scuri e arruffati le incorniciavano il viso. «Hai lasciato andare Adam, hai lasciato
andare il gruppo di Sarah, hai persino lasciato partire Greg e i suoi, e sia tu sia io
sappiamo che anche messi insieme avevano meno cervello di un moscerino…»
Le assi del pavimento scricchiolarono quando mi riavvicinai al letto. Clancy
aveva lasciato aperta la tenda quando era andato alla porta, perciò Kylie mi vide
benissimo. Si voltò di scatto verso Clancy, che le aveva messo le mani sulle
spalle per calmarla. «Oh mio Dio! Sei qui a pomiciare? Almeno hai visto la mia
proposta? Ci ho messo giorni a scriverla!»
«L’ho letta tre volte», rispose lui, facendomi cenno di avanzare con la mano.
Guardò Kylie con lo stesso sorriso paziente e calmo che mi aveva rivolto
dall’inizio delle nostre lezioni. «Ma sono ben felice di discutere ora del perché
l’abbia respinta. Ruby… domani?»
E in un batter d’occhio mi ritrovai all’esterno, nel sole mattutino.
La primavera era ancora incerta: il clima freddo e uggioso un giorno, tiepido
quello seguente. Le due settimane trascorse rinchiusa con Clancy avevano reso
ancora più difficile stare dietro alle tendenze bipolari del meteo.
Mi tolsi la felpa e raccolsi i capelli in uno chignon disordinato. Andai a
cercare Ciccio nell’orto, ma la responsabile – nel tono più prepotente che riuscì a
tirare fuori – mi disse che non lo vedeva da una settimana, e che lo avrebbe detto
a Clancy per fargli avere la punizione che si meritava.
«Punizione?» ripetei, impaziente, ma la ragazza non disse altro.
Lo trovai nel posto più logico. «Sai», gli dissi, camminando sull’attracco, «il
pane in realtà fa male alle papere.»
Ciccio non alzò nemmeno lo sguardo. Mi sedetti accanto a lui, ma per tutta
risposta si alzò e si allontanò, lasciandosi alle spalle la borsa e il libro.
«Ehi!» esclamai. «Che problemi hai?»
Nessuna risposta.
«Ciccio… Charles!»
Si voltò di scatto. «Vuoi sapere che problemi ho? Da dove iniziare? Magari
dal fatto che è passato quasi un mese e siamo ancora qui? Oppure dal fatto che tu
e Lee e Suzume ve ne state in giro a fare amicizia mentre dovremmo pensare a
un modo per tornare a casa?»
«E questa rabbia da dove arriva?» Forse non si era inserito con la stessa
naturalezza di me, Zu e Liam, ma lo avevo visto chiacchierare con gli altri
ragazzi mentre lavorava. Sembrava okay; forse non proprio felice, ma quando
mai lo era? «Questo posto non è poi così male…»
«Ruby, è orribile!» sbottò. «Orribile! Ci dicono quando possiamo mangiare,
quando dormire, cosa indossare, e siamo costretti a lavorare. Che differenza c’è
tra qui e i campi?»
Feci un brusco respiro. «Sei tu che volevi venire qui! Mi dispiace se non
risponde alle tue esigenti aspettative, ma per noi va bene così. Se solo ci
provassi, potresti essere felice qui. Siamo al sicuro! Perché hai tutta questa fretta
di andartene?»
«Solo perché i tuoi genitori non ti volevano, non significa che per noi sia lo
stesso. Forse tu non hai nessuna fretta di tornare, ma io sì!»
Se mi avesse sparato in pieno petto, sarebbe stato lo stesso; sentii il sangue
abbandonare il mio cuore, e vidi Ciccio che si afferrava i capelli scuri con una
mano. «Ho lavorato duramente, ci ho provato e, santo cielo, tu non glielo hai
nemmeno chiesto, vero?»
«Chiesto…?» Ma sapevo. Appena le parole mi uscirono di bocca, seppi
esattamente quale promessa non avevo mantenuto. La mia rabbia scomparve.
«Mi dispiace tanto, sono stata così presa dalle lezioni che mi sono scordata.»
«Beh, io no», disse lui, e mi mollò lì al sole.
Un’ora più tardi mi trovavo sotto un getto di acqua calda, con le mani premute
sul viso.
I bagni del campo – uno per i maschi e uno per le femmine – erano eleganti
più o meno come un capanno degli attrezzi. I pavimenti erano di cemento e le
cabine doccia erano in legno con tende di plastica ammuffite. Li usavamo ogni
sera per lavarci i denti e il viso, e una o due volte alla settimana per fare la
doccia.
Ma quel giorno, senza il profumo floreale di shampoo e balsamo nell’aria, mi
accorsi che la stanza cavernosa puzzava di segatura.
Rimasi lì dentro finché suonò la campana che segnalava la fine del pranzo.
Non avevo ancora formulato un piano per il resto della giornata quando uscii e
inciampai nella persona che più al mondo desideravo incontrare, senza
essermene resa conto.
Liam arretrò di qualche passo per l’impatto, con i capelli bagnati, più lunghi
di quanto ricordassi, appiccicati alle guance.
«Oh mio Dio», dissi con una risata, mettendomi una mano sul petto. «Mi hai
spaventata a morte.»
«Mi dispiace.» Sorrise, tendendomi la mano. «Ehi, mi sa che non ci siamo
ancora presentati. Io sono Liam.»
24
N so quanto a lungo rimasi lì impalata, a fissare la sua mano, con la bile che mi
ON
So che avrei dovuto essere felice per lei. Avrei dovuto celebrare il fatto che si
sentisse finalmente abbastanza sicura da poterci dire esattamente cosa
desiderava. Solo che non avevo mai immaginato che desiderasse un futuro senza
di noi.
«Pensavo che Clancy avesse respinto la richiesta di Kylie», dissi a Hina.
«È così, ma lei sostiene che finalmente lo ha convinto.»
«Cosa c’è in California?» domandò Liam, appoggiandosi alla parete.
«I miei genitori hanno una casa lì», spiegò Hina, «e ci stanno aspettando. Il
governo della West Coast non ci consegnerà ai campi.»
«E i genitori di Zu?» chiesi. «Loro…»
Hina capì al volo cosa intendessi, e ciò le fece onore. «Mio padre e suo
fratello non si parlano da tempo.»
«Zu, è un viaggio lungo», iniziò Liam, incerto. «E se succede qualcosa? Chi
altro viene con voi? Quel tizio, Talon?»
Zu annuì, e all’improvviso spostò lo sguardo su di me. Tentai di farle un
sorriso incoraggiante, ma temevo di scoppiare in lacrime. Rimanemmo tutti in
attesa mentre scribacchiava un altro appunto veloce e lo mostrava a Liam:
«A me piace preoccuparmi per te.» Liam le posò una mano sulla testa.
«Quando partireste?»
Hina ebbe almeno la decenza di mostrare un po’ di senso di colpa. «In realtà
dobbiamo partire immediatamente. Kylie teme che Clancy cambi idea. Non
era… entusiasta.»
«Mi sembra un po’ affrettato», commentai, con voce strozzata. «Ci avete
pensato bene?»
Zu mi guardò dritta negli occhi e annuì. L’appunto successivo era diretto a
entrambi.
Voglio stare con la mia famiglia. Però non voglio che siate arrabbiati con
me.
«Arrabbiati?» Liam scosse la testa. «Mai e poi mai. Sei mia amica, Zu.
Vogliamo solo che tu sia al sicuro. Morirei se ti capitasse qualcosa.»
Bussarono alla porta. Talon, un ragazzo Giallo un poco più grande con i
dreadlocks, comparve per primo sulla soglia, seguito da Ciccio, con gli occhi
spalancati.
«Bene», disse Liam alzandosi in piedi. «Speravo di parlare con te.»
Talon annuì. «Lo immaginavo. Ci sono anche Kylie e Lucy.» Quest’ultima
fece sbucare la testa oltre la porta e salutò con la mano. «Vuoi parlarne fuori?»
Liam mi posò la mano sulla schiena. «Puoi aiutare Zu a fare le valigie?»
«Sei impazzita?» esclamò Ciccio. «Li conosci a malapena!»
«Scusa tanto», protestò Hina, con le mani sui fianchi. «Nel caso te lo fossi
dimenticato, è mia cugina.»
Zu smise di ammucchiare le sue cose nella valigia rosa e strappò il foglio dal
quaderno per consegnarlo a Ciccio, che si sedette così di colpo che quasi cadde
dal futon. Per diversi minuti, non riuscì a far altro che fissarla. Conoscevo bene
la sensazione.
«Kylie ti ha detto perché dovete partire proprio stasera?» chiesi, sedendomi
accanto a Ciccio.
Zu si limitò ad alzare le spalle.
«Voglio dire… non andrete mica in California a piedi?» domandò Ciccio, con
voce sempre più alta a ogni parola. «Avete un piano, almeno?»
«Magari troverete un’altra Betty», dissi io, ma nel momento in cui pronunciai
il suo nome, Zu si fermò di nuovo e scosse la testa. Ci mise un po’ a scrivere
l’appunto successivo.
«E, a quanto pare, per te non era abbastanza», commentò Ciccio, con un tono
così ferito che mi sconvolse. «Si vede che tutto si può rimpiazzare. Persino noi.»
Zu fece un respiro profondo, avvicinandosi a lui con la valigia rosa a fianco.
Ciccio distolse lo sguardo, ma lei si fermò di fronte a lui e gli mise le braccia
intorno al collo. Ciccio non poté far altro che restituire l’abbraccio, nascondendo
il viso nella giacca.
Le campane del campo iniziarono a rintoccare, un suono frenetico che non
cessò finché ebbe trascinato tutti all’esterno. Lasciai che Zu e Hina passassero
per prime, facendosi strada tra i ragazzini che si erano radunati. Era la prima
volta in cui gli abiti neri sembravano appropriati.
Kylie porse un foglio a Lee, che annuì in risposta alle sue parole. Lucy era al
loro fianco, minuta e silenziosa come sempre, ma si avvicinò a Liam e gli diede
una pacca sulla spalla nel tentativo, credo, di rassicurarlo. Ogni pretesa di
allegria era sparita. La sua espressione si poteva solo dire affranta.
«Mi presti la penna?» chiese a Talon. Il ragazzo si tastò i pantaloni da lavoro,
cercando in ogni tasca finché trovò una penna dal tappo blu. Liam la prese, si
mise in ginocchio davanti a Zu e strappò metà del foglio che Kylie gli aveva
dato.
Avrei voluto vedere cosa gli aveva scritto, ma non era per me. Quando ebbe
finito, piegò il foglio più volte e glielo premette nel palmo della mano.
La campana tacque. Gli sguardi di tutti si spostarono a sinistra, dove Clancy
era apparso in cima al sentiero, con Hayes che svettava al suo fianco. Il suo viso,
che ero abituata a vedere rilassato e fiero, era contratto per il fastidio o per la
rabbia.
«Kylie ha deciso di fondare una tribù e se ne andrà immediatamente.»
Nella folla si diffuse un mormorio di sorpresa.
«Porterà con sé solo questi quattro», urlò Clancy al di sopra del brusio. «Non
verranno accordate altre richieste di andarsene finché avremo rimpolpato i
numeri. Ci siamo capiti?»
Silenzio.
«Ci siamo capiti?» ripeté in tono perentorio.
Ciccio, accanto a me, sobbalzò nel sentire il rumore e le urla che
confermavano che avevamo capito.
Clancy si girò di scatto senza aggiungere altro, e si diresse di nuovo verso
l’ufficio. Appena raggiunse l’edificio bianco, i ragazzi intorno a noi sembrarono
rilasciare all’unisono il respiro che avevano trattenuto, e si guardarono a vicenda
con sussurri confusi.
«Che strano.»
«Perché non gli ha dato delle borse, come fa di solito?»
«È preoccupato che se rimaniamo troppo pochi non saremo in grado di
proteggere il campo.»
Il mio sguardo salì fino all’ufficio, poi vidi che Zu mi faceva cenno di
avvicinarmi.
Niente guanti, pensai, guardandola riportare il braccio sul fianco. Speriamo
che non se li metta mai più.
«Devi proprio partire subito?» chiesi quando raggiunsi lei e Liam. Gruppi di
ragazzi attorniavano Kylie e gli altri, augurando loro buona fortuna e offrendo
coperte e borse di cibo.
Zu assunse un’espressione coraggiosa e mi abbracciò.
«Ti prego, stai al sicuro», le dissi.
L’appunto successivo era per me, solo per me.
Quando tutto sarà finito, verrai a cercarmi? C’è una cosa che ti vorrei dire
ma non so ancora come fare.
N avrebbe dovuto sorprendermi che Liam si lanciasse anima e corpo nei turni
ON
Mi servì qualche giorno per rendermi conto che la partenza di Zu non era stato
l’unico avvenimento ad aver spostato l’asse terrestre. Da quando Ciccio mi
aveva fatto notare le somiglianze tra la vita a East River e quella nei campi, non
fui più in grado di togliermelo dalla testa.
Se prima vedevo solo ragazzi in jeans e T-shirt nere, dopo vedevo uniformi.
Se prima vedevo ragazzi in fila per il cibo, dopo vedevo la sala mensa. Alle
nove, quando le luci si spegnevano nelle baracche e osservavo passare i
gruppetti di guardia, mi sentivo di nuovo nella baracca 27, a fissare il materasso
di Sam.
Cominciai a domandarmi se le telecamere di sorveglianza, apparentemente
spente, fossero accese.
Provai diverse volte ad andare a scusarmi con Clancy, ma mi mandava sempre
via con un severo: «Non ho tempo per te, oggi». Avevo l’impressione che
volesse punirmi, ma non ero sicura di cosa avessi detto o fatto per meritarmelo.
In ogni caso, diventò ben presto evidente che avevo bisogno di lui molto più di
quanto lui avesse bisogno di me. Insieme al mio orgoglio ferito, la cosa mi
faceva sentire persino peggio.
Un mercoledì, solo un’ora prima che Liam e gli altri si incontrassero per
discutere di una strategia per liberare i campi, Clancy si dichiarò finalmente
disposto a vedermi.
«Torno tra poco», dissi a Liam, stringendogli la mano a colazione. «Tarderò di
qualche minuto.»
Ma, quando entrai nell’ufficio di Clancy e vidi in che stato era, mi domandai
se avessi fatto bene ad andare.
«Ehi, entra pure, attenta solo a dove metti i piedi. Sì, e scusa per il disordine.»
Disordine? Disordine? Sembrava che nel suo ufficio fosse scoppiata una
bomba e che poi fosse passato un branco di lupi a saccheggiare quanto rimasto.
C’erano mucchi di carta ovunque, stampe, mappe strappate, scatoloni… E poi
c’era Clancy, con i capelli che gli coprivano il viso e la stessa camicia
stropicciata del giorno prima.
Da quando ci eravamo conosciuti, lo avevo sempre visto vestito in maniera
impeccabile. Faceva persino un po’ paura, per quanto era preciso. Sono sicura
che fosse dovuto all’educazione ricevuta. Che, se anche non fosse stato suo
padre in persona a insegnarglielo, una vecchia tata irritabile gli avesse inculcato
il valore di una camicia ben stirata, scarpe ben lucidate e capelli ben pettinati.
Sembrava stesse iniziando a sbriciolarsi.
«Tutto bene?» chiesi, chiudendomi la porta alle spalle. «Cosa succede?»
«Stiamo organizzando un colpo per ottenere delle medicine.» Si sistemò sulla
sedia, ma si rialzò un momento più tardi, quando il portatile fece bip. «Aspetta
un secondo.»
Sfiorai con la punta del piede uno dei mucchietti di fogli a terra, tentando di
sbirciare cosa ci fosse scritto.
«Sono verbali delle insolite attività notturne in una stazione di servizio per
camion qui vicino», disse Clancy, come se mi avesse letto nel pensiero. Le sue
dita volavano sulla tastiera. «E informazioni della Lega sulla presenza di FSP in
quell’area. Sembra che la Leda Corporation abbia appaltato la protezione delle
proprie spedizioni a forze governative.»
«Come mai le FSP?» chiesi.
Lui alzò le spalle. «Sono la principale forza armata di cui il governo dispone
in questo momento e, grazie al caro vecchio paparino, anche la meglio
organizzata.»
«Direi che ha senso.» Mi appoggiai all’indietro, ma fissare il simbolo
luminoso sul monitor del portatile mi fece venire in mente Ciccio. «Posso
chiederti un favore?»
«Solo se prima mi permetti di scusarmi.»
Tornai a sedermi e mi fissai le mani. «Non possiamo semplicemente
dimenticare quello che è successo?»
«No, non questa volta. Ehi, guardami.»
L’espressione sul suo viso bastò a farmi gonfiare il cuore fino a raddoppiare di
volume. Era talmente bello da essere pericoloso, ma quel giorno il suo sguardo
addolorato era decisamente letale.
Gli importa, sussurrò una vocina nella mia testa, gli importa di te.
«Mi spiace di aver perso la pazienza», mormorò. «Non dicevo sul serio
quando parlavo della tua amica Suzume, e di sicuro non intendevo dire che non
ti sei impegnata.»
«E allora perché lo hai detto?»
Si sfregò una mano sul viso. «Perché sono un cretino.»
«Non è una risposta valida», ribattei, scuotendo la testa. Mi hai davvero ferita.
«Ruby, non è ovvio?» disse. «Mi piaci. Ti conosco solo da quanto, un mese? E
sei forse l’unica amica che ho avuto da quando ho compiuto dieci anni e ho
scoperto chi ero. Sono stato stupido a prendermela tanto perché davi attenzione a
qualcun altro quando volevo che ti concentrassi solo su di me.»
Ero troppo stupita per riuscire a muovermi.
«Non ho lasciato andare Suzume e gli altri perché pensavo che ti avrebbe
aiutato a concentrarti. L’ho fatto perché pensavo che ti avrebbe reso felice. Non
mi sono nemmeno fermato a pensare che certo, ovviamente ti saresti preoccupata
per lei, soprattutto dopo che ti sei impegnata così tanto per proteggerla.»
Gli importa di te eccome.
Dovetti distogliere lo sguardo. Sminuire la situazione. Il mio cervello era
andato in tilt, e il cuore non se la cavava meglio. «Credo che potrei
perdonarti…»
«Ma solo se ti faccio quel favore?» Avvertivo il sorriso nella sua voce. «Certo.
Quale?»
«Beh… so che non dai il permesso a nessuno, ma speravo che potessi fare
un’eccezione in questo caso», dissi, restituendogli finalmente lo sguardo. «Il mio
amico… ha bisogno di usare il tuo computer per provare a contattare i suoi
genitori.»
Clancy smise di sorridere. «Il tuo amico Liam?»
«No, Charles Meriwether.»
«Quello che ha smesso di presentarsi al turno nell’orto?»
Okay, a quanto pareva la responsabile aveva fatto la spia.
Clancy si alzò e chiuse il portatile, rimanendo in silenzio. «Mi dispiace, Ruby,
ma pensavo di essere stato chiaro: nessun altro può andarsene.»
«Oh, no!» esclamai, con una risata forzata. «Vuole solo farsi sentire dai suoi
per essere sicuro che stiano tutti bene.»
«No», disse, spostandosi in modo da sedersi sul bordo della scrivania di fronte
a me. «Vuole organizzarsi per andare via e vuole portarti con sé. Non tentare di
coprirlo, Ruby. È lo stesso per tutti. Non ho alcun dubbio che sia abbastanza
disperato da rivelare ai suoi la posizione del campo.»
«Non lo farebbe mai», replicai, offesa per conto di Ciccio. «Davvero.»
«C’eri anche tu quando abbiamo avuto un’intrusione qualche settimana fa.
Hai visto quanto potrebbe essere facile per qualcuno oltrepassare le nostre
difese. E se non avessero fatto scattare l’allarme? Ora saremmo in guai seri.» Il
viso di Clancy era cupo. «Se Charles vuole contattare i suoi genitori, digli che
deve presentare una richiesta con le istruzioni precise di come contattarli, come
tutti gli altri. Devo basare le mie decisioni su ciò che potrebbe minacciare la
sicurezza del campo, malgrado voglia aiutarti ad aiutare il tuo amico.»
Ciccio avrebbe preferito rinunciare a contattare i genitori, piuttosto che
permettere a un estraneo di accedere all’unico strumento che aveva per
comunicare con loro in sicurezza.
«Però», aggiunse Clancy dopo qualche istante, sedendosi accanto a me e
poggiando i piedi sulla scrivania. «C’è qualcosa che potrebbe persuadermi.»
Non riuscivo a guardarlo.
«Quindici minuti, Ruby. Insegnami tu.»
Cosa potevo mai sapere io che lui non sapesse già?
«Pensi che potresti spiegarmi passo per passo come cancellare i ricordi di
qualcuno? So che non è una cosa di cui vai fiera, e so che ti ha fatto soffrire
molto in passato, ma mi sembra un trucco utile e sarei interessato a impararlo.»
«Beh… credo di sì», dissi in tono incerto. Come se avessi potuto dirgli di no
dopo tutto quello che aveva fatto per me. Ma non era qualcosa che fossi in grado
di insegnare. Ero a malapena riuscita a comprenderlo io stessa.
«Credo che capire come lo fai mi aiuterebbe anche a capire come impedire
che tu lo faccia di nuovo per errore. Che te ne pare?»
Mi pareva ottimo, a dire la verità.
«Se me lo permetti», continuò, «mi piacerebbe percorrere i tuoi ricordi e
vedere se riesco a trovare degli indizi. Voglio solo confermare un sospetto.»
Non credo che si aspettasse di vedermi indecisa, ma lo ero. Clancy era stato
nella mia testa più volte, aveva visto cose di cui non avevo mai parlato con
nessuno. Ma ero stata in grado di impedirgli di vedere le cose che importavano
davvero, i sogni che volevo proteggere.
Continuavo a pensare a quanto Liam aveva detto una volta, quando mi aveva
parlato di sua sorella. Quei ricordi sono solo miei.
Ma se volevo un futuro con la mia famiglia – e con Liam – dovevo per forza
cedere il controllo. Dovevo lasciar entrare Clancy, se ciò significava che sarei
stata in grado di evitare che la cosa si ripetesse in futuro.
Puoi fidarti di lui, disse la stessa vocina in fondo alla mia mente. È tuo amico.
Non se ne approfitterebbe mai.
«D’accordo», dissi. «Ma solo quei ricordi; e dopo, Charles potrà usare il tuo
computer.»
«Affare fatto.»
Si mise in ginocchio di fronte a me, prendendomi il viso tra le mani e
infilando le dita tra i miei capelli. Tentai di non rabbrividire per la vicinanza e
per il fatto che avesse dato per scontato che mi andasse bene. Eravamo già stati
così vicini, ma per qualche motivo in quel momento era diverso.
«Aspetta», mormorai, arretrando. «Ho detto a Liam e agli altri che li avrei
incontrati per parlare di una cosa. Possiamo farlo più tardi? O magari domani?»
«Ci vorrà solo un secondo», promise Clancy con voce bassa, suadente.
«Chiudi gli occhi e pensa a quando ti sei svegliata il mattino del tuo decimo
compleanno.»
Andiamo, disse la stessa vocina, andiamo, Ruby…
Deglutii a forza e feci come chiedeva, immaginando di essere nella mia
vecchia stanza, con le pareti blu e le finestre enormi. Pezzo per pezzo, la stanza
si ricompose. Sulle pareti vuote sbocciarono quadretti a punto croce ricamati
dalla nonna, foto dei miei genitori e una mappa della metropolitana di
Washington. Vedevo tutti e sei i peluche con cui mi addormentavo, sul
pavimento accanto al mio piumone viola.
Anche le cose che mi ero completamente dimenticata – la lampada sulla mia
piccola scrivania, la mensola imbarcata nella libreria – all’improvviso tornarono
vivide.
«Bene.» La voce di Clancy sembrava lontana ma lo sentivo vicino, sempre di
più. Il suo respiro caldo sulla mia guancia, un tocco inaspettato. «Continua…»
Sembrava senza fiato. «Continua a pensare…»
Vidi il suo viso come attraverso una nebbia lucida, i suoi occhi neri che
bruciavano nell’aria scintillante. Vidi solo lui perché, per quei pochi secondi
fuggevoli, nel mio mondo esisteva solo lui. Ogni parte di me sembrava lenta e
calda, come miele. Clancy batté le palpebre una, due volte, come per schiarirsi la
vista appannata, per ricordarsi cosa dovesse fare. «Continua…»
E poi le sue labbra: le sue labbra erano vicine, sorridenti, sulle mie.
Le sue dita si fecero strada tra i miei lunghi capelli, i pollici scivolarono lungo
le mie guance. «Tu…» esordì, con voce roca. «Tu sei…»
Alla minima pressione, esplose qualcosa di caldo e oscuro, che provocò
un’ondata di desiderio al centro di me. Le sue mani scivolarono lungo il mio
collo, le spalle, le braccia, giù…
E poi non ci fu nulla di gentile.
Le sue labbra premettero forte sulle mie, così forte da aprirle, da rubarmi il
respiro e la lucidità e la sensazione del letto sotto di me. La pelle del suo viso era
liscia e fresca contro la mia, ma io ero calda, troppo calda. La febbre che mi
travolse rese fiacco il mio corpo, fui spinta all’indietro sul letto e affondai tra i
cuscini come se stessi cadendo tra le nuvole.
Il sangue era sceso lontano dalla mia testa, lasciandosi dietro un dolore sordo
e pulsante. Alzai le mani per afferrare la sua camicia; avevo bisogno di
aggrapparmi a qualcosa prima di cadere del tutto.
«Sì», sospirò, poi la sua bocca fu di nuovo sulla mia, le sue mani all’orlo della
mia maglia, sempre più vicine al mio ventre.
È quello che vuoi, sussurrò una voce, è quello che vuoi.
Ma non era la mia voce. Non ero io a dirlo, giusto? In quell’istante, un lampo
dei suoi occhi neri si trasformò in azzurro. Era quello che volevo, che volevo
davvero. La mia mente sembrava troppo lenta, come drogata dal quel flusso di
pensieri. Liam. Ma lì c’era Clancy. Clancy che mi aiutava, il mio amico, così
bello da farmi perdere il filo dei pensieri, Clancy a cui piacevo tantissimo…
Che era a sua volta un Arancione.
Spalancai gli occhi quando le sue mani scivolarono sul mio collo e le sue dita
ne strinsero leggermente la pelle. Tentai di ritrarmi, ma ebbi l’impressione che
avesse riempito le mie vene di cemento. Non potevo muovermi. Non potevo
nemmeno chiudere gli occhi.
Fermati, tentai di dire, ma quando la sua fronte si appoggiò alla mia, il dolore
che mi esplose dietro agli occhi fu tale da cancellare ogni cosa.
26
Mi resi conto che l’area in cui ci trovavamo era illuminata da fari e lanterne.
L’avevo già vista una volta, sullo schermo del computer di Clancy. Era lì che,
giorni prima, i tracciatori avevano tentato di infilarsi oltre la recinzione di filo
spinato del campo, e che Hayes si era «occupato» di loro. Proprio come
sembrava che avrebbe fatto con noi in quel momento.
I ragazzi di fronte a noi si trovavano proprio dove il sentiero si univa al filo
argentato che segnava il confine di East River. Clancy era al centro, e pareva
infinitamente più controllato di quanto fosse apparso poche ore prima.
«Penso che dovremmo fare una chiacchierata», disse, con voce accomodante.
«Sembra che stia per succedere qualcosa di pericoloso.»
«Ce ne stiamo andando», disse Liam, trattenendo a malapena la rabbia nella
voce. «E non vogliamo guai.»
«Non potete andarvene.» Hayes si spinse di fronte al gruppo, svettando a
fianco di Clancy come un cannone pronto a essere puntato. «Ci sono delle
regole, qui, e voi non vi siete ancora guadagnati la vostra parte.»
Le parole gli erano appena uscite di bocca quando sentimmo il suono di passi
e voci che si avvicinavano calpestando il sottobosco rinsecchito sull’altro
sentiero, più ampio, alle loro spalle. Olivia comparve per prima, seguita da Mike
e quattro degli altri ragazzi con cui Liam aveva lavorato nel mese passato. La
loro reazione fu uguale alla nostra: prima si ritrassero dalla luce abbagliante, poi
si bloccarono per lo shock.
«Cosa sta succedendo?» chiese Olivia, aggirando la fila di figure in nero fino
a mettersi di fronte a Clancy. «Perché non mi hai chiamata alla radio?»
«Hayes e io abbiamo tutto sotto controllo.» Clancy si mise a braccia conserte.
«Dovreste tornare ai vostri posti.»
«Prima dimmi cosa sta succedendo…» Si voltò di scatto verso di noi, vedendo
i nostri bagagli. «Ve ne state andando?»
«Lee», disse Mike, facendo due più due nello stesso momento. «Che stai
facendo?»
«Sembra che Liam Stewart stia organizzando un’altra evasione», disse Clancy.
«O almeno ci stava provando. A quanto pare avrà lo stesso successo della volta
precedente.»
«Vai al diavolo», mi intromisi, afferrando il braccio di Liam prima che si
lanciasse su Clancy. Tremava per la rabbia, ma eravamo in minoranza: non lo
vedeva?
«Ruby», disse Clancy a bassa voce, con tutta la familiarità del ragazzo che
avevo considerato un amico. «Andiamo, non possiamo almeno parlarne?»
Sì, mi sussurrò una voce all’orecchio. Non sarebbe la cosa migliore? La rabbia
attorcigliata nel mio petto cominciò a dipanarsi, prima lentamente e poi con una
strana fretta. Staccai le dita da Liam. All’improvviso, sembrava davvero la scelta
migliore… l’unica scelta. Ero stata così arrabbiata e spaventata, prima, ma
questo era Clancy.
Era Clancy.
Feci un passo verso di lui, verso quel sorriso. Potevo… potevo perdonarlo,
no? Sarebbe stato facile. Tutto era più facile, con Clancy. I miei piedi si mossero
di propria volontà, come se sapessero esattamente dove avevo bisogno di andare.
Dove dovevo andare.
Ma Liam non me lo permise, e nemmeno Ciccio.
Sentii le mani di quest’ultimo afferrare il mio zaino. Nell’istante in cui Liam
si mise davanti a me, Clancy scomparve alla mia vista, e non ricordai più perché
mi era sembrato così importante andare da lui e permettere che mi
riaccompagnasse al campo.
«Smettila!» strillò Liam. «Qualsiasi cosa tu le stia facendo, smettila!»
«Non sta…» disse Mike, guardando il suo amico e Olivia. La vidi appena
oltre la spalla di Liam, con un’espressione truce sul viso. Alle loro spalle, gli
altri membri del turno di guardia di Liam erano confusi, incerti su dove posare lo
sguardo.
«Non sto facendo nulla», disse Clancy, con un velo di ghiaccio nella voce.
«Sei tu che sei geloso del rapporto che c’è tra noi.» I ragazzi intorno a lui
iniziarono ad annuire in accordo, con volti stranamente privi di espressione. «Sei
tu che stai tentando di infrangere le regole, qui», continuò. «Perché è una regola,
non è vero, Liv? Se volete andarvene, dovete chiedere a me, giusto?»
Olivia esitò, ma poi annuì.
Liam abbassò il braccio davanti a me, lentamente. Sembrò chinare la testa
verso Clancy, come in ascolto di parole che noi non potevamo sentire. Percepii,
più che vedere, la tensione abbandonargli le spalle. Fece un passo indietro e poi
un altro per allontanarsi da me, portando una mano alla fronte. «Scusa… è
solo… non intendevo…»
«Sei felice qui, non è vero?» chiese Clancy con dolcezza. «Non c’è motivo
per cui tu non possa tornare a sentirti così. Ci sono delle regole, qui. Ora le
conosci, e non le infrangerai più. Non è così?»
«No», disse Liam con voce roca. Mi fissava, ma i suoi occhi avevano uno
sguardo lattiginoso che riconobbi al volo.
E così fece Ciccio, a quanto pare. Strinse gli occhi e li fissò su Clancy come
lame affilate e furibonde.
«Lascia che ti spieghi cosa penso delle tue regole del cazzo», disse, con voce
che grondava veleno. Si fece strada a spintoni e superò Liam. «Te ne stai seduto
nella tua stanza e fingi di volere il bene di tutti, ma non fai un briciolo di lavoro.
Non riesco a capire se sei solo un merdosetto viziato, o se sei troppo preoccupato
di sporcarti quelle manine da principessa, ma fa schifo, tu fai schifo, cazzo, e di
certo non prendi in giro me.»
Clancy gli rivolse uno sguardo carico di tutta la sua forza gelida, ma Ciccio
proseguì, impavido. «Dici sempre che siamo tutti uguali, come se fossimo un
grande arcobaleno felice e pacifico e stronzate varie, ma tu per primo non ci hai
mai creduto, vero? Non permetti a nessuno di contattare i genitori, e non te ne
frega niente dei ragazzi che sono ancora intrappolati nei campi che tuo padre ha
creato. Non hai nemmeno fatto finta di ascoltare quando la Guardia te ne ha
parlato. Quello che voglio sapere ora è: perché non possiamo andarcene?» Fece
un altro passo avanti, interrompendo Clancy prima ancora che potesse iniziare a
ribattere. «Che senso ha questo posto, se non quello di farti compiacere del tuo
potere e permetterti di giocare con i sentimenti della gente? Io so cos’hai fatto a
Ruby.»
Gli altri rimasero in silenzio, ma più Ciccio parlava e più i loro occhi
riprendevano vita; Mike, in particolare, si scrollò di dosso l’influenza di Clancy
con uno sguardo come se stesse per vomitare. Gli occhi degli altri ragazzi si
mossero di qua e di là, nervosi e incerti.
Clancy era rimasto perfettamente immobile per tutta la tirata di Ciccio, ma una
volta che ebbe finito, si avvicinò come se volesse sussurrargli un segreto. Solo
che quando parlò, lo fece con voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti.
«Ho giocato con ben altro che i suoi sentimenti.» Spostò gli occhi sul viso di
Liam. «Non è così, Stewart?»
La violenta ondata di rossore che coprì il viso e il collo di Liam bastò a farmi
capire esattamente quale immagine Clancy gli avesse spinto nella mente.
«No!» urlai, ma era troppo tardi.
Ciò che accadde dopo fu così veloce che la metà dei presenti dovette esserselo
perso. Liam alzò il pugno, pronto a scagliarlo sulla faccia compiaciuta di Clancy,
ma non arrivò oltre la propria spalla. Ogni parte di lui – ogni muscolo, ogni
giuntura, ogni tendine – divenne rigida come se avesse ricevuto una forte scossa
elettrica. Si bloccò, e un attimo dopo cadde a terra, e Hayes lo prese a pugni in
faccia.
«Smettila!» supplicai, liberandomi dalla presa di Ciccio. Sapevo cosa gli
aveva fatto Clancy, e perché non riusciva ad alzare nemmeno una mano a
proteggersi il viso. Vidi uno schizzo di sangue colpire il terreno e fu più di
quanto potessi sopportare.
Fu più di quanto tutti noi potessimo sopportare.
«Clance», sentii dire a Olivia, «basta così. Hai dato la tua lezione. Hayes, così
lo ammazzi!»
Ancora e ancora e ancora, su ogni superficie di pelle che riusciva a trovare,
Hayes continuò ad affondare i pugni su Liam, come se potesse trasmettergli la
propria furia. I colpi non si fermarono finché Clancy gli mise una mano sulla
spalla, e anche a quel punto Hayes si tolse la soddisfazione di assestare un
ultimo pugno sul viso. Sollevò Liam per la maglietta, e quando Clancy gli fece
un cenno con la testa, lo sbatté a terra e si alzò, lasciandolo insanguinato ed
esangue, a faccia in giù nella terra.
Appena i due furono scomparsi alla vista, Ciccio e io scattammo in avanti,
spingendo via il cerchio di ragazzi che si erano radunati intorno a lui.
Riuscimmo a fare forse due passi prima che Mike ci impedisse di avanzare.
«Non fatelo», disse. «Peggiorereste solo le cose.»
«Cosa gli faranno?» chiese Ciccio.
«Tornate alla vostra baracca», ci disse. «Ci occuperemo noi di lui.»
«No», replicai. «Non ce ne andiamo senza di lui.»
Mike si voltò verso di me. «Non so che diavolo gli hai detto o gli hai fatto
pensare, ma Lee era contento qui. Questo era esattamente ciò di cui aveva
bisogno, e tu hai rovinato tutto…»
«Non ti permettere», scattò Ciccio. «Non ti permettere di dare la colpa a lei di
tutto questo. Sei talmente abbagliato da Slip Kid che non vedi nemmeno quello
che ti succede sotto il naso!»
Mike scoprì i denti. «Guarda che a Caledonia ti sopportavamo perché ce lo
aveva chiesto Liam, ma qui non siamo tenuti a farlo.»
«Chi se ne frega», disse Ciccio. «Pensi davvero che mi importi? L’unica cosa
che mi importa è quello che succederà a Lee… sai, il tizio che ha rischiato tutto
per farci evadere?» Le sue parole ebbero l’effetto desiderato. Mike impallidì
nell’oscurità. «Puoi tenerti il tuo stupido Slip Kid, ma non credere che ti
lasceremo tenere Lee.»
Ci lanciammo di nuovo in avanti, facendoci strada a forza per raggiungerlo.
Due braccia si avvolsero intorno al mio petto, altre due intorno alle gambe e, per
quanto gridassimo e ci dimenassimo, i ragazzi ci trascinarono comunque lontano
da Liam.
Ciccio e io sedemmo sul letto di Liam senza parlare e senza muoverci, senza
fare altro che fissare la porta della baracca. Dalla finestra, vedemmo visi curiosi
di osservatori e di guardie, tutti intenti a capire cosa fosse accaduto. Il
coprifuoco era passato da tempo, ma nessuno di noi sarebbe stato in grado di
dormire. A giudicare dalle due figure in nero che stavano in piedi davanti alla
nostra porta, non sembrava nemmeno che potessimo andarcene. Non certo dopo
il nostro tentativo di fuga fallito, e assolutamente non dopo la pioggia di insulti
che Ciccio aveva rovesciato su Clancy.
«Dove hai imparato a parlare così?» chiesi, ma lui si limitò ad alzare le spalle.
«Ho pensato a cosa avrebbe detto Lee e ho preso spunto.» Ciccio si sfregò la
testa. «Davvero gli ho detto che ha le manine da principessa?»
Feci una risata strozzata. «Sì, e non solo.»
I secondi trascorrevano molto più lenti dei miei pensieri.
«Perché non ha avuto effetto su di te?» mi domandai a voce alta. «Ci ha
provato con te, non è vero?»
«Ci ha provato, di certo l’ho sentito. Ma non poteva sapere…» Ciccio si batté
un dito sulla fronte. «Trappola d’acciaio. Non entra né esce niente.»
Ebbi la fuggevole sensazione che le sue parole potessero essere vere, e che
potessero anche spiegare come mai la sua era l’unica testa in cui non ero mai
scivolata, ma sentii un forte rumore di passi sul sentiero e tutto il resto mi passò
di mente.
Olivia e un altro ragazzo entrarono inciampando, sostenendo Liam per le
braccia. Il suo viso era rivolto verso il basso, e aveva del fango incrostato tra i
capelli. Circa un’ora dopo che lo avevamo lasciato, aveva iniziato a piovere.
«Lee», diceva Ciccio, tentando di risvegliarlo. «Lee, mi senti?»
Li aiutammo a stenderlo sul futon. La baracca era così buia che non vidi la
portata delle sue ferite finché Olivia posò la torcia sul pavimento accanto a lui.
«Oh mio Dio», mormorai.
Liam si voltò verso di me e per la prima volta mi resi conto che in effetti era
sveglio, solo che aveva gli occhi talmente gonfi da sembrare chiusi.
Feci cadere la mano sul suo braccio, che sporgeva oltre il futon, e glielo portai
sul petto. Il respiro gli attraversava le labbra a fatica, facendolo ansimare. Aveva
uno spesso strato di sangue rappreso intorno al naso e alla bocca, fino al mento.
Solo la luce del giorno avrebbe rivelato il resto dei lividi.
«Ha bisogno di disinfettante», disse Ciccio. «Bende, qualcosa…»
«Se voi due venite con me», replicò Olivia, «vi porto al magazzino. Non ci
sarà nessuno in giro a disturbarci.»
«Non lo lascio da solo», dissi, ancora accovacciata sulle ginocchia accanto a
Liam.
«Va bene.» Sentii a malapena la mano di Ciccio sulla mia spalla, al suo
passaggio.
La porta scorrevole si aprì e si chiuse scricchiolando alle nostre spalle;
aspettai di sentire i passi dell’altro ragazzo allontanarsi dietro di loro prima di
tornare a guardare il viso di Liam. Con dita leggere come piume gli accarezzai il
viso, più dolcemente che potei. Quando gli sfiorai il naso, fece un respiro
sibilante, ma non si ritrasse finché gli toccai il labbro gonfio.
Non credo di aver mai pianto tanto come in quel mese. Non ero mai stata
come le altre ragazze nella mia baracca a Thurmond, che piangevano ogni notte,
e poi di nuovo ogni mattina quando si rendevano conto che l’incubo era reale.
Non piangevo tanto nemmeno da bambina. Ma non c’era modo di trattenersi,
ora.
«Sono… bello come penso?» Parlava biascicando, come se fosse intontito.
Provai a fargli aprire la bocca per controllare che ci fossero ancora tutti i denti,
ma aveva la mascella ancora troppo indolenzita per lasciarmela toccare. Mi
chinai a posare le labbra dove avevo passato le mani.
«Non farlo», mi disse, aprendo a malapena un occhio. «Non farlo se non lo
vuoi davvero.»
«Non avresti dovuto attaccarlo.»
«Dovevo, invece», borbottò.
«Lo ammazzo», dissi, sentendo la rabbia montarmi dentro. «Lo ammazzo.»
Liam tornò a ridacchiare. «Ah… eccola. Ecco Ruby.»
«Ti tirerò fuori di qui», promisi. «Te e Ciccio. Parlerò con Clancy, io…»
«No», disse. «Smettila. Peggiorerà solo le cose.»
«Come potrebbero mai peggiorare ancora? Ho mandato all’aria tutti i tuoi
piani. Ho rovinato tutto.»
«Dio.» Liam scosse la testa, torcendo la bocca in una specie di sorriso. «Lo
sapevi… che mi rendi così felice che a volte mi dimentico di respirare? Ti
guardo, e il petto mi si stringe così tanto… e l’unico pensiero che ho in testa è
quanto abbia voglia di avvicinarmi e baciarti.» Fece un respiro tremante. «Perciò
non parlare di tirarmi fuori di qui perché non me ne vado a meno che anche tu
sia parte del pacchetto.»
«Non posso venire con te», dissi. «Non voglio esporti a questo pericolo.»
«Sciocchezze», ribatté. «Non ci può essere niente di peggio che essere
separati.»
«Tu non capisci…»
«E allora aiutami a capire», rispose Liam. «Ruby, dammi una buona ragione
per cui non possiamo stare insieme, e io te ne darò cento per cui invece
possiamo. Possiamo andare ovunque tu voglia. Io non sono come i tuoi genitori.
Non ti abbandonerò e non ti manderò via, mai e poi mai.»
«Non mi hanno abbandonato. Quello che gli è successo è stato colpa mia.» Il
segreto mi era scivolato via come un lungo sospiro, e non so chi dei due fosse
più sorpreso da quella ammissione.
Liam rimase in silenzio, aspettando che continuassi. Pensai allora che quello
sarebbe stato il momento in cui davvero lo avrei perso per sempre. E non
riuscivo a pensare ad altro se non a quanto avrei voluto baciarlo un’ultima volta
prima che cominciasse ad aver paura di ciò che ero.
Appoggiai la testa accanto alla sua, sul cuscino. Sussurrando, perché non
avevo il coraggio di parlare a voce più alta, gli raccontai di quando ero andata a
letto la sera prima del mio decimo compleanno, e di quando mi ero svegliata
pregustando i tradizionali pancake. Del fatto che mi avevano chiusa nel garage
come una sorta di animale selvatico. E quando ebbi terminato il racconto, gli
dissi di Sam. Di come ero stata per lei ciò che Ciccio era per lui, finché non fui
più nulla.
Quando ebbi finito, la gola mi bruciava. Liam si voltò verso di me. Non ci
separava nemmeno un respiro.
«Mai», disse, dopo un poco. «Mai, mai, mai. Non ti dimenticherò mai.»
«Non avrai scelta», replicai. «Clancy dice che non sarò mai in grado di
controllarlo.»
«Beh, io penso che non capisca un bel niente», disse Liam. «Ascolta, quello
che ho visto nel bosco, quando tu…»
«Quando ti ho baciato.»
«Giusto. Quello… è successo davvero, non è così? Quello che lui – quello
stronzo – ti ha fatto. Ti è successo veramente. Ti ha tenuta ferma, congelata,
come ha fatto con me.»
Sì, ma in parte anche no. Perché un pezzo di me, per quanto minuscolo, lo
aveva desiderato. Oppure, era stato lui a farmelo credere, a giocare con le mie
emozioni con un solo tocco?
Annuii, alla fine, con le budella che ancora si attorcigliavano per il disgusto al
pensiero della sua pelle sulla mia.
«Vieni qui», disse Liam dolcemente. Sentii il tocco leggero delle sue dita
scorrermi in cima alla testa, soffici come piume, e scendere a coprirmi la
guancia. Quando sollevai il viso, mi incontrò a metà strada e mi baciò. Feci
attenzione a non toccargli la faccia, ma solo la spalla e il braccio. Quando si
ritrasse, quasi lo seguii, cercando le sue labbra.
«Tu vuoi stare con me, giusto?» sussurrò. «E allora resta con me. Troveremo
un modo. Se non altro, mi fido di te. Puoi guardarmi nella testa e non vedrai
altro.»
Il suo respiro tiepido si sparse sulla mia guancia come un altro bacio.
«Mike ha capito. Troverà un modo per farci uscire di nascosto, e poi io, te, e
Ciccio ce la daremo a gambe. Troveremo il padre di Jack, troveremo un modo
per riunire Ciccio ai suoi genitori, e poi parleremo di cosa fare dopo.»
Mi sporsi verso di lui e gli diedi un bacio sulla fronte. «Davvero non mi odi?»
sussurrai. «Non hai paura, nemmeno un po’?»
Il suo volto tumefatto si contorse in quello che interpretai come un sorriso.
«Sono terrorizzato da te, ma per un motivo completamente diverso.»
«Sono un mostro, sai. Uno di quelli pericolosi.»
«No, non lo sei», mi garantì. «Sei una di noi.»
28
C tornò qualche minuto dopo che Liam era caduto in un sonno irrequieto. Si
ICCIO
agitò di nuovo quando iniziammo a pulire i tagli e le ferite sul suo viso, e mi
prese la mano al primo tocco bruciante del disinfettante. Quando sentii che
iniziava ad allentare la presa, e vidi che tornava a chiudere le palpebre,
finalmente buttai fuori il respiro che avevo trattenuto.
«Sopravvivrà», disse Ciccio, vedendo la mia espressione. Stava ritirando il
resto delle provviste nel mio zaino. «Avrà un mal di testa terribile domani
mattina ma sopravvivrà.»
Dormimmo a turno, o almeno fingemmo di farlo. Il mio corpo pulsava per
l’energia accumulata, e sentivo Ciccio borbottare tra sé, come se cercasse un
senso in quanto accaduto.
Poi giunse il rumore di piedi contro i gradini di cemento della baracca, e allora
smettemmo anche di fingere.
«Lizzie…» sentii dire a uno dei ragazzi fuori dalla porta. «Sei…»
Lizzie li fece da parte, spalancando la porta con tale forza da farla rimbalzare
contro la parete. Liam si svegliò di soprassalto, più confuso e disorientato di
prima.
«Ruby!» Lizzie si rivolse direttamente a me, con viso cereo. I suoi capelli si
erano impigliati nei numerosi piercing, ma fu il sangue che aveva sulle mani a
farmi impallidire.
«Si tratta di Clancy», esclamò, afferrandomi le braccia. «È caduto… di punto
in bianco e ha iniziato a tremare come un pazzo e a sanguinare, e non sapevo
cosa fare, ma lui mi ha detto di cercare te perché tu avresti saputo cosa stava
succedendo. Ruby, ti prego, ti prego aiutami!»
Fissai le sue mani, il sangue ancora fresco.
«È un trucco», gracchiò Liam dal suo giaciglio. «Ruby, non osare…»
«Se sta davvero male, dovrei andare io», disse Ciccio a Lizzie.
«Ruby!» strillò lei, come se non potesse credere che fossi ancora lì ferma.
«C’era tanto sangue… Ruby, ti prego, ti prego, devi aiutarlo!»
Credeva davvero che fossi così stupida? O pensava semplicemente che la sua
influenza fosse tanto estesa, che mi sarei scordata di ciò che aveva fatto a Liam e
mi sarei precipitata al suo capezzale? Scossi la testa, mentre la rabbia mi
scorreva sulla pelle. Troppo immatura e debole di cuore per usare le mie abilità,
giusto? Beh, gliel’avrei fatta vedere.
Liam si mise a sedere. «Lo conosci», diceva. «Non farlo, non…»
«Fammi vedere dov’è», dissi, coprendo le proteste di Ciccio. Mi voltai verso
di lui. «Devi restare con Liam, capito?» Devi prenderti cura di lui, perché io non
posso. «Mi occupo io di tutto.»
Avrei trovato io il modo di farci scappare. Non Mike, non un improvviso
colpo di fortuna: lo avrei fatto io, e vedere il viso di Clancy perdere espressione
sotto la mia influenza sarebbe valso lo sforzo di penetrare nella sua mente. Non
mi aveva forse insegnato tutto quello che mi serviva per riuscirci?
«Ruby…» sentii dire a Liam, ma afferrai il braccio di Lizzie e la guidai
all’esterno, oltre i ragazzi confusi, oltre le baracche. La temperatura era scesa di
diversi gradi.
Grosse lacrime solcavano il viso di Lizzie. «È nel magazzino… stavamo
parlando di…»
«Va tutto bene», le dissi, impacciata, posandole una mano sulla schiena.
Attraversammo di corsa il giardino e salimmo i gradini sul retro dell’ufficio.
Faticò a inserire la chiave nella serratura, e la incastrò. Dovetti aprire la porta
con un calcio; Lizzie era troppo andata per fare altro che correre dentro. La sala
e la cucina erano deserte. L’intero edificio odorava di aglio e salsa di pomodoro.
Dovevano essere tutti intenti a preparare la cena.
Tutti tranne Clancy, che se ne stava al centro del magazzino, appoggiato a uno
scaffale pieno di scatole di maccheroni.
Lizzie corse nell’angolo in fondo a destra e cadde in ginocchio. Annaspò con
le mani sul pavimento, ma le sue dita tremanti non stringevano altro che l’aria.
«Clancy», gridò. «Clancy, mi senti? C’è qui Ruby ora. Ruby, vieni qui!»
Sentii un violento nodo allo stomaco, e mi sorpresi di quanto mi rattristasse
vedere confermati i miei peggiori sospetti.
Perché dev’essere così? pensai, guardandolo. Perché?
«Sei venuta, sei venuta davvero», disse Clancy con voce annoiata, piatta.
Sembrava che recitasse un copione. «Grazie, Ruby. Apprezzo il tuo aiuto nel
momento del bisogno.»
«Perché stai lì impalata?» frignò Lizzie. «Aiutalo!»
«Tu sei malato», dissi, scuotendo la testa. Clancy venne verso di me, ma io mi
spostai sul lato opposto della stanza, dove Lizzie aveva abbassato il viso fin
quasi al pavimento. «Smettila, sono qui, non c’è motivo di continuare a
torturarla.»
«Non la sto torturando», disse Clancy. «Sto solo giocando un po’.» E poi,
come per dimostrarlo, ringhiò: «Lizzie, chiudi il becco!»
Lizzie si bloccò a metà respiro. Un rivolo di sangue le scese dal labbro, dove
lo aveva morsicato. Le presi le mani e le voltai verso l’alto. Il sangue era suo,
usciva da due tagli netti sui palmi.
«Che vuoi?» chiesi, voltandomi di scatto. «Ti ho detto tutto, e quello che non
ho detto lo hai visto comunque!»
Fu solo in quel momento che mi resi conto di cosa Clancy avesse addosso.
Pantaloni neri eleganti e ben stirati, una camicia bianca immacolata e una
cravatta rossa, che gli scivolava sullo stomaco proprio come la goccia di sangue
sul mento di Lizzie.
«Ti voglio solo trattenere qui per un po’», disse. «Poi possiamo andarcene.»
«E dove andremmo, di preciso?» Tenevo gli occhi fissi sullo scaffale dietro di
lui, pieno di cucchiai di metallo e ciotole.
«Ovunque tu voglia», disse. «Non è questo che ti ha promesso quel Blu?»
Mi sforzai di rimanere calma, ma il modo in cui sputò fuori quella parola –
Blu – irritò i miei nervi già scossi. Non so se Lizzie si fosse resa conto del mio
cambiamento d’umore, ma Clancy sicuramente sì. Sorrideva, quel perfetto
sorriso Gray, lo stesso che mi aveva seguita ovunque nei confini di Thurmond.
Bene, pensai, che mi consideri pure indifesa. Che pensi pure che non sia una
vera minaccia, fino a quando si troverà steso a terra incapace di ricordarsi
persino il proprio nome.
«Hai un’offerta migliore?» chiesi.
«E se così fosse?»
«Faccio fatica a crederlo», dissi, avvicinandomi, per distrarlo, «considerato
che ti importa così poco di me. Se la situazione fosse capovolta, non saresti
venuto di corsa, non è vero?»
Alzò le spalle. «Sarei venuto. Ma camminando con calma.»
«Per favore, lascia andare Lizzie», dissi. Mi spaventava vederla comportarsi
come una bambina piccola. Cos’era, nell’essere Arancioni, che trasformava le
persone in mostri?
«Perché? Se resta, non ti verrà in mente di provare cose strane, perché
rischieresti di farle del male, o peggio.» Lo disse con tale leggerezza che pensai
stesse scherzando.
«Come puoi esserne certo?» Sperai che la mia voce suonasse più forte di
come la sentivo in gola. «Non la conosco poi così bene.»
«Ho visto i tuoi ricordi. Sei quello che gli psicologi chiamano ‘troppo
empatica’. Non faresti nulla che possa fare del male agli altri; non di proposito,
almeno.»
Lo disse con totale sicurezza, il che rese dolcissimo lo shock sul suo viso
quando mi gettai su di lui. Per una volta, non aveva previsto la mia reazione, non
mi aveva trascinata dove voleva. Lo colpii sul viso e lo sentii grugnire quando le
mie unghie affondarono nella sua guancia.
La connessione fu istantanea e potente. Sembrava che almeno una parte di
quanto Clancy aveva detto fosse vera, dopotutto. Dovevo desiderare di utilizzare
le mie abilità. Dovevo desiderare di controllarle. E Dio mio, in quel momento lo
desideravo. Volevo fargli a pezzi il cervello.
Le immagini che salirono a galla dalle acque scure e vorticose della sua mente
erano completamente diverse da quelle che avevo visto in precedenza. Al posto
della luce brillante e dei contorni precisi, controllati, c’erano schizzi fatti con una
sorta di carboncino acquoso. Sfocati, indistinti. Vidi facce gonfie e distorte salire
dalla superficie fangosa. La sua mente era diventata flaccida; avevo
l’impressione di poter allungare entrambe le mani e plasmarlo come volevo.
«Lasciala andare», dissi, stringendo la presa sulla sua gola. Lanciai nella sua
mente l’immagine di Lizzie che veniva mandata via, e un attimo dopo Clancy
mormorò: «Lizzie, vai… fuori».
Lei scattò verso la porta, e sentii un brivido di emozione lungo la schiena.
Clancy tremava sotto le mie mani, ma lo tenni stretto.
«Ora», dissi, «ora lascia andare anche noi.»
Ma mentre stavo ancora pronunciando quelle parole sentii di aver perso il filo.
Strinsi più forte, affondando le dita nella sua pelle. Non ancora, implorai in
silenzio, non ancora, devo… devo…
Con la stessa velocità con cui ero entrata venni sbattuta fuori, e quella
maledetta tenda bianca cadde tra noi. Tentai di attaccarla di nuovo, ma Clancy
mi afferrò il polso e sentii ogni muscolo nel mio corpo trasformarsi in pietra.
«Bel tentativo.» Clancy mi fece cadere a terra come una tavola e mi scavalcò
per andarsi a controllare il graffio sul viso nel riflesso di una pentola. «Non mi
hai nemmeno fatto sanguinare.»
Non riuscivo neanche a muovere la mascella per rispondergli a tono.
«Sono contento di vedere che hai messo a frutto alcune delle mie lezioni»,
ringhiò Clancy, passandosi una mano tra i capelli spettinati. Si voltò nuovamente
verso gli scaffali, nascondendo il viso, ma vidi le sue mani stringersi ai fianchi,
stropicciando la stoffa dei pantaloni. Non ero riuscita a rovinarlo, ma l’avevo
scosso. «Mi piace vedere che i miei studenti si applicano, ma non pensare che
qualche settimana di pratica possa sortire lo stesso effetto di anni e anni di
allenamento.»
Mi concentrai sul tentativo di spezzare il blocco mentale che aveva lanciato su
di me. Iniziai dalle dita dei piedi, immaginando di muoverle una a una. E…
niente.
Forse io ero in grado di cancellare i ricordi delle persone, ma lui poteva
trasformarle in pietra.
L’urlo giunse un secondo dopo che ebbi sentito il primo motore rombante. Un
vento innaturale agitò gli alberi all’esterno. Vidi Clancy rabbrividire alle grida
stridule delle sirene, ma si raddrizzò come spinto da una forza interiore. Aveva il
viso acceso di impazienza, e fu quello a spaventarmi più di tutto.
«Ci siamo, allora», disse, spolverandosi la giacca. «Finalmente sono arrivati.»
Non riuscivo nemmeno a chiudere gli occhi. L’aria li bruciava, e poi l’aria
stessa sembrò prendere fuoco. L’odore rivelatore del fumo entrò dalle finestre
aperte. Spari, altre urla, altri combattimenti. Immaginai di muovermi, di alzarmi
in piedi e correre verso la porta, verso gli altri, verso la libertà, ma non ottenni
altro che di battere le palpebre. Però era già qualcosa. Potevo sfruttarlo.
«Stai tranquilla», mi disse Clancy tornando a sedersi accanto a me. Con un
piede iniziò a battere un ritmo contro lo sgabello. «Non lascerò che ti accada
nulla di male.»
Il sangue mi rombava nelle orecchie. Le urla che provenivano da fuori non
avevano nulla di umano; sembravano animali a cui veniva strappata la pelle di
dosso. Era il suono del dolore, e del terrore, e della disperazione. Il lamento
metallico che filtrava attraverso le pareti saliva di tonalità e di intensità a ogni
minuto che passava.
I conigli hanno bisogno di dignità e, soprattutto, di rassegnazione al loro
destino.
Percepii, più che sentire, i passi che rimbombavano nel corridoio. Non capivo
quante persone ci fossero. Tutti si muovevano perfettamente a tempo. La porta
del magazzino si aprì in un’esplosione di fumo e di calore.
Non ero mai stata così grata di niente nella mia vita come lo fui di vedere il
viso di Clancy quando le FSP piombarono nella stanza. L’aspettativa cedette il
passo a una vacua incomprensione e poi a una rabbia pura, concentrata.
Qualsiasi cosa Clancy si aspettasse, non era certo due soldati delle Forze
Speciali Psi. Non ebbe nemmeno bisogno di toccarli. «Zitti!» sibilò, alzando una
mano nella loro direzione. «Fuori di qui! Dite al vostro superiore che qui dentro
non c’era nessuno!»
L’uomo davanti a lui, il corpo nascosto da strati di stoffa e armatura, appoggiò
una mano guantata al ricevitore nell’orecchio e disse, con voce monotona:
«L’edificio è vuoto». Il segnale che rivolse agli altri due fu un semplice gesto
meccanico. Mentre uscivano di corsa dalla stanza, mi accorsi che il fumo
proveniva da loro. Erano loro ad aver appiccato il fuoco.
«Maledizione… maledizione!» Clancy scuoteva la testa. Alzò un pugno in
aria e colpì lo scaffale vicino, ma il rumore dell’impatto fu coperto dalle raffiche
di spari all’esterno. «Dove sono i miei Rossi? Perché non ha mandato loro?»
Si portò le nocche ferite alle labbra e le succhiò, passeggiando su e giù per la
piccola stanza. Aveva il fiato corto, che sembrava riflettere il rapido flusso dei
suoi pensieri.
I miei Rossi. I suoi: il modo in cui ne parlava non mi lasciava alcun dubbio sul
significato delle sue parole. Il progetto Jamboree, il programma di suo padre.
No, pensai, non di suo padre.
Finalmente vedevo davanti a me i frammenti della visione d’insieme. Quando
mi aveva spiegato il programma per la prima volta, non lo conoscevo così bene e
non avevo visto ciò di cui era capace: non abbastanza da mettere insieme gli
indizi che mi aveva accidentalmente consegnato.
Non c’era proprio nessuno al mondo che fosse immune alle sue abilità,
nemmeno il presidente Gray.
Clancy stava ancora camminando su e giù per la stanza come una pantera in
gabbia, con i muscoli della schiena che guizzavano a ogni raffica di colpi. Poi si
fermò, alzando lo sguardo verso le finestre e il fumo che vi si avvolgeva contro.
«Chi te lo ha detto, bastardo?» domandò, con voce così bassa che non ero
nemmeno sicura che lo avesse pronunciato davvero. «Chi di loro si è sottratto
alla mia influenza abbastanza da capirlo? Sono stato cauto. Così maledettamente
cauto…»
Girò sui tacchi e tornò verso di me, e vidi la verità incisa sul suo viso. La
stessa mano che sanguinava per i tagli recenti aveva guidato suo padre, i suoi
consiglieri, e chiunque fosse necessario convincere a prendere in considerazione
il Progetto Jamboree. Non aveva detto che, prima che suo padre si accorgesse
della sua influenza, Clancy aveva avuto abbastanza spazio di manovra da
assicurarsi che il programma procedesse senza intoppi e che i ragazzini
venissero trattati bene?
Chiaramente, avrebbe potuto fare molto di più. Se aveva tenuto in pugno tutto
East River, chi poteva dire che non controllasse anche un piccolo esercito di
Rossi?
Clancy doveva avermi letto negli occhi che avevo capito, perché fece una
risata bassa, priva di allegria. «A volte mi dimentico, sai, che non è uno stupido.
Anche dopo che si è finalmente accorto che lo stavo manipolando, non ha mai
capito che il Progetto Jamboree veniva da me. Me ne sono assicurato dopo
essere scappato; sono persino andato via da East River di tanto in tanto, per
controllare che la mia influenza fosse ancora intatta. Ho fatto trapelare la
posizione di East River esattamente nello stesso momento in cui il loro
programma di addestramento si concludeva.»
Si strinse una mano a pugno tra i capelli, e qualcosa si incrinò nella sua voce
quando parlò di nuovo. «Crescendo, lo idolatravo, ma quando ho visto cos’era
veramente, cosa era disposto a fare, persino a suo figlio…» La sua voce si
strozzò leggermente. «Chi è stato? Chi gliel’ha detto? Come poteva sapere di
dover mandare le FSP? Dovrei avere il controllo dei miei Rossi in questo
momento, e dovremmo essere tutti in marcia su New York per abbatterlo…»
All’improvviso Clancy si chinò, afferrandomi per la maglietta e sollevandomi
di peso. Mi scosse, così violentemente che quasi mi morsicai la lingua, ma non
disse neanche una parola. Gli spari e le urla all’esterno non toccavano i suoi
lineamenti di pietra, né i suoi pensieri. Il fumo iniziò a strisciare sul pavimento,
rotolando, gonfiandosi, afferrando ogni cosa sul suo cammino. Senza preavviso,
le mani di Clancy lasciarono la mia maglietta e mi risalirono sulle spalle in una
carezza da amante; le sue dita si strinsero intorno al mio collo e fui certa, così
maledettamente certa, che nella sua furia mi avrebbe o baciata o uccisa.
Altri passi, più leggeri di prima, ma non meno insistenti.
Clancy alzò lo sguardo, innervosito.
Non vidi ciò che accadde dopo, solo le conseguenze. Clancy volò contro gli
scaffali, così forte che la sua testa fece crack quando venne a contatto con il
muro. Il suo corpo trascinò a terra con sé le mensole cariche di pasta e farina, e
atterrò in un mucchietto disordinato sul pavimento.
Il viso capovolto di Ciccio comparve sopra il mio. Aveva gli occhiali rigati e
piegati e il viso e la maglia macchiati di fuliggine, ma non sembrava ferito.
«Ruby! Ruby, mi senti? Dobbiamo scappare.» Perché sembrava così calmo?
Gli spari mi echeggiavano nelle orecchie, un flusso interminabile di scoppi ed
esplosioni. «Riesci a muoverti?»
Ero ancora troppo rigida per fare altro che scuotere la testa.
Ciccio strinse i denti e mi infilò le mani sotto le ascelle, accertandosi di avere
una buona presa. «Tieni duro, ti tiro fuori di qui. Muoviti appena riesci.»
Fuori dal riparo dell’ufficio, non c’era modo di sfuggire al rumore. Il mio
cuore riprese vita con un sobbalzo, e mi batteva contro le costole. L’aria era
satura di gas lacrimogeno e fumo. C’erano fiamme ovunque: a terra, sugli alberi,
sui tetti delle baracche. Il mio viso e il petto sembravano in fiamme a loro volta.
Il vento portò le fiamme così vicine a noi che Ciccio dovette coprirmi i jeans
perché non prendessero fuoco. Grugnì, e capii che stava faticando ad avanzare
sotto il mio peso. Volevo dirgli di lasciarmi, di prendere le lettere nel giubbotto
di Liam e scappare.
Liam. Dov’è Liam?
Attraverso la cenere vorticante vidi le fila di uniformi nere che scortavano i
ragazzi dal campo giù per il sentiero che portava alle baracche. Vidi una ragazza
buttata fuori dalla propria baracca e gettata a terra, e poi sollevata per i capelli.
Due ragazzi che riconobbi dalla squadra di sicurezza alzarono le pistole contro i
Rossi, che le soffiarono via in una nube di fuoco.
«Fermi dove siete!»
Rimasi senza fiato quando Ciccio mi fece cadere a terra per lanciare contro un
albero il soldato che aveva parlato. Quando mi strinse di nuovo le braccia al
petto, ci muovemmo più velocemente di prima. E poi cademmo, incespicando
giù per la collina. Ciccio emise un verso sorpreso mentre rotolavamo,
raccogliendo foglie secche e braci. Sbattei la mano contro un albero, ma non
riuscii a vedere dove stessimo andando. Il fumo mi accecava.
Mi fermai, lentamente, alla base della collina, con il viso affondato nella riva
melmosa. Le mie mani e le gambe stavano riprendendo vita convulsamente.
Sentii delle mani sul retro del mio giubbotto. Ciccio mi trascinò sulla schiena,
tossendo violentemente.
Stiamo per morire. Stiamo per morire. Stiamo per morire.
I conigli devono accettare il loro destino, i conigli hanno bisogno di dignità e
soprattutto della rassegnazione al loro destino, il loro destino, il loro destino…
L’acqua era gelida e mi inghiottì in un sorso solo. Lo shock mi strinse le
membra, svegliandole come con uno schiaffo. Lottai contro l’acqua, agitando le
braccia per raggiungere la superficie. Il cielo mi aspettava, tinto di arancione, e
finalmente riemersi nella notte, tossendo acqua e aria avvelenata.
Ciccio mi ritrovò; con una mano era aggrappato a un palo di legno mentre
tendeva l’altra verso di me. L’attracco, pensai, il nostro attracco. Scalciai per
avvicinarmi a lui e lasciai che mi trascinasse al riparo sotto le vecchie assi di
legno. Gli elicotteri che volavano sopra di noi agitavano la superficie del lago
creando un vortice di onde. Riuscivo a malapena a tenere la testa fuori
dall’acqua gelida, ma ero abbastanza all’erta da vedere i fari che dall’alto
danzavano sulla superficie dell’acqua.
Tenni un braccio intorno alle spalle di Ciccio e usai la mano libera per
aggrapparmi ai supporti dell’attracco, coperti di alghe viscide. Ciccio fece lo
stesso, e attese che il rumore di stivali e pistole fosse scemato prima di
sussurrare: «Oh mio Dio».
Lo avvicinai a me e lo abbracciai con tutta la forza che i miei muscoli fiacchi
mi permettevano. Non osavamo parlare, ma sentii che scuoteva la testa. Sapeva
cosa intendessi dire, e io sapevo cosa lui volesse chiedere, e nessuno di noi riuscì
a tirare fuori neanche una parola strozzata in mezzo al fumo e alle urla.
29
Il computer portatile era riposto nel primo cassetto della scrivania, con un
biglietto giallo fosforescente appiccicato sopra.
Ruby,
ho mentito, prima. Sarei venuto di corsa.
CG
* * *
Liam non era l’unico a essere fuggito, ma era stato l’unico a tornare.
Ci raccontò la sua notte mentre sedevamo nell’ufficio di Clancy, mangiando il
cibo rimasto nel magazzino. Ciccio teneva il portatile vicino a sé e controllava
costantemente l’arrivo di un messaggio di risposta dai suoi genitori, o
ricontrollava l’indirizzo che aveva trovato per il padre di Jack.
Quando la battaglia era iniziata, era stata una sorpresa tale che la maggior
parte dei ragazzi della Guardia non arrivò dal perimetro alle baracche abbastanza
in fretta da fare la differenza. Quelli che non erano di turno si erano precipitati
alla nostra baracca e lo avevano costretto – «Portandomi di peso, a dire la
verità», disse Liam con amarezza – a scappare, correndo lungo uno dei sentieri
nascosti che erano stati tracciati apposta per quello scopo. Avevano continuato
fino al mattino, senza fermarsi prima di aver raggiunto il tratto di autostrada su
cui eravamo stati raccolti noi.
«Ci sarà stata al massimo una ventina di noi», disse, stringendomi la mano.
«Tutti in pessimo stato. Liv e Mike hanno trovato una macchina e hanno caricato
i più gravi per cercare un ospedale, ma…»
«Cosa ne è stato degli altri?» chiesi.
«Se ne sono andati.» Liam si sfregò gli occhi. La pelle tutt’intorno era ancora
livida.
«E tu perché non sei andato con loro?» domandò Ciccio. «Che diavolo di
problemi hai, a voler tornare qui sapendo che potevano esserci ancora FSP in
giro?»
Per tutta risposta, Liam sbuffò. «Pensi che mi importasse anche solo
vagamente, quando c’era una possibilità che voi foste ancora qui?»
Non avevamo tempo da perdere; tutti e tre conoscevamo le FSP abbastanza
bene da sapere che c’era una possibilità che tornassero indietro a cercare
eventuali sopravvissuti. Liam e Ciccio si misero immediatamente al lavoro nel
magazzino, valutando quanto cibo potessimo portare con noi. Provai a rendermi
utile a mia volta, ma la mia attenzione tornava sempre al piano di sopra, alla
scrivania di Clancy.
Cedetti finalmente alla mia irrequietezza e lasciai entrambi alla loro
discussione sul cibo in scatola. Tornai di sopra, tastando la tasca interna del
giubbotto di Liam per assicurarmi che le lettere di Jack e di Ciccio fossero
ancora lì.
Rimanevano due minuti nella batteria del computer. L’icona di accensione
lampeggiava, segnalando che le riserve scarseggiavano. Lo schermo si scurì e
l’illuminazione della tastiera si spense. Scrissi più veloce che potevo, cercando
online una Ruby Ann Daly, Virginia Beach.
Nessun risultato.
Provai di nuovo, solo con il nome. Comparve un risultato, ma a Salem. Non ci
abitavo da quasi dieci anni, ma riconobbi l’indirizzo dei miei genitori al primo
sguardo.
Un minuto e quindici secondi. Trovai nella cronologia web il sito di cui Ciccio
aveva parlato, che permetteva di fare chiamate, e inserii il numero di telefono.
Perdevo due secondi a ogni squillo.
Credo che in quel momento non volessi tanto parlare con lei quanto piuttosto
sentirla parlare. Andare da lei non era più possibile ormai. C’erano cose più
importanti di cui occuparmi. Ma avevo bisogno di sapere che era ancora là fuori,
che c’era ancora una persona al mondo che si ricordava di me.
Ci fu un clic. Il cuore mi balzò in gola, e le mie dita strinsero il bordo della
scrivania.
La voce di mia madre.
«Salve, questa è la residenza di Jacob, Susan e Ruby Daly…»
Non so perché mi misi a piangere in quel momento. Forse perché ero sfinita.
Forse ero stanca di quanto ogni cosa fosse diventata difficile. Ero felice che loro
tre fossero insieme, che la mamma e il papà avessero aggiustato la loro famiglia
e avessero sostituito una Ruby con un’altra. La cosa di cui mi ero convinta
sempre di più negli ultimi giorni era quanto fosse importante prenderci cura gli
uni degli altri e rimanere uniti. E loro si stavano prendendo cura gli uni degli
altri. Bene.
Bene.
Ma ciò significava che non potevo chiudere gli occhi e fingere, anche solo per
pochi minuti, di essere ancora la Ruby che abitava a Millwood Drive.
30
O più tardi, quando eravamo solo noi tre di nuovo sulla strada, finalmente
RE
Corremmo verso la stanza, gridando il suo nome. Tutti gli abitanti del
complesso ormai erano all’esterno; la maggior parte uomini, alcune donne. I loro
volti erano macchie mostruose.
Il padre di Jack alzò la pistola tremante verso di noi, ma Liam lo spinse
all’indietro dentro la camera e chiuse la porta con un gesto agile della mano.
Scivolai con le ginocchia sull’asfalto sbriciolato, accasciandomi accanto a
Ciccio.
Aveva gli occhi aperti, fissi su di me, e batteva le palpebre. Era vivo.
Tentò di dirmi qualcosa, ma non riuscivo a sentire a causa delle urla
provenienti dalla stanza 103. «Fottuti mostri! Andatevene di qui, maledetti
mostri!»
Sangue rosso acceso gorgogliava appena sotto la spalla destra di Ciccio,
allargandosi sulla maglia come centinaia di viscide dita. Non riuscii a fare nulla,
sul momento. Non mi sembrava vero. Liam che si tuffava per afferrare la pistola
dell’uomo, puntandola verso le stanze 104 e 105, non poteva essere reale.
«Va tutto bene», disse qualcuno alle nostre spalle. Liam si voltò di scatto, con
il dito sul grilletto e il viso impietrito. L’uomo alzò le mani, reggendo un piccolo
telefono. «Sto solo chiamando il 911, va tutto bene; faremo arrivare i soccorsi.»
«Non farli chiamare», esclamò Ciccio. «Non lasciare che mi prendano.» Le
parole gli si strozzarono in gola. «Devo andare a casa.»
Liam si guardò alle spalle. «Afferragli le gambe, Ruby.»
«Non spostatelo», disse l’uomo della 104. «Non bisogna spostarlo!»
Il padre di Jack apparve di nuovo alle nostre spalle, ma l’uomo con il cellulare
lo spinse nella stanza e gli chiuse la porta alle spalle con un calcio.
«Afferralo», disse Liam, infilandosi la pistola nella cintura dei jeans.
Feci scivolare le braccia sotto quelle di Ciccio, sollevandolo nello stesso modo
in cui lui aveva sollevato me. Uno degli uomini presenti fece un passo avanti,
forse per fermarci, forse per aiutarci.
«Non toccatelo!» gridai. Indietreggiarono, poco convinti.
Ciccio si premette le mani sulla ferita, gli occhi spalancati e fissi. Liam gli
sollevò le braccia e insieme lo trasportammo. Gli uomini ci chiamarono, dicendo
che l’ambulanza sarebbe arrivata di lì a poco. L’ambulanza, insieme alle FSP. I
soldati non lo avrebbero salvato, certo che no. Avrebbero di gran lunga preferito
vedere un mostro morire.
«Non lasciate che mi prendano», riuscì a dire Ciccio. «Tienimi le gambe più
basse del torace, Lee, non alzarle così tanto, non per le ferite al petto, non riesco
a respirare…»
Non erano le chiacchiere che mi trafiggevano il cuore con schegge di paura,
ma l’infinita scia di sangue che filtrava tra le sue mani. Tremava, ma non
piangeva. «Non lasciate che mi prendano…»
Mi arrampicai per prima sul sedile posteriore, tirando Ciccio dietro di me. Il
suo sangue mi aveva impregnato il davanti della camicia, e mi bruciava sulla
pelle.
«Continua… a premerci sopra», mi disse Ciccio. «Più forte… Ruby, più forte.
Adesso provo a… trattenerlo con…»
Le sue abilità, forse. Il sangue sembrò rallentare un po’ quando tornò a coprire
la ferita con la sua mano. Ma quanto poteva durare? Le mie mani coprivano la
sua, tremando a tal punto che forse facevano più danno che beneficio.
«Oh mio Dio, non chiudere gli occhi… parlami, continua a parlarmi, dimmi
cosa fare!» esclamai.
L’auto stridette uscendo dal parcheggio. Liam affondò l’acceleratore più che
poté, battendo i palmi delle mani sul volante. «Merda, merda, merda!»
«Portatemi a casa», supplicò Ciccio. «Ruby, digli di portarmi a casa.»
«Andrà… andrà tutto bene», gli dissi, chinandomi affinché potesse guardarmi
negli occhi.
«Mio padre…»
«No… Lee, ospedale!» Non riuscivo nemmeno a formulare frasi compiute, e
Ciccio nemmeno, non più. Fece un verso come se si stesse strozzando con la sua
stessa lingua.
Quando comparvero le prime immagini, erano tinte dello stesso rosso brillante
del suo sangue. Un uomo seduto su una grossa poltrona, immerso nella lettura.
Una donna bellissima dall’altra parte di un tavolo da cucina. Un ricamo a punto
croce. L’insegna di un pronto soccorso. Il nero ai margini del mio campo visivo
stava aumentando. Qualcuno aveva preso un coltello e me lo aveva piantato
dritto nel cervello.
«Alexandria è a mezz’ora da qui», gridò Liam, voltandosi a parlarci da sopra
la spalla. «Non ti porto fin laggiù!»
«Fairfax Hospital», sibilò Ciccio. «Mio papà… dite di chiamare mio papà…»
«Dov’è?» chiese Liam in tono deciso. Guardò verso di me, ma nemmeno io ne
avevo idea. Mi venne in mente in quel momento che rischiavamo di girare in
tondo così a lungo che Ciccio sarebbe morto. Sarebbe morto dissanguato proprio
lì, sulle mie ginocchia. Dopo tutto quello che avevamo passato.
Liam fece inversione così bruscamente che quasi sbalzò via dal sedile sia
Ciccio sia me. Mi morsi la lingua nel tentativo di non urlare ancora.
«Continua a parlargli!» disse Liam. «Ciccio… Charles!»
Non so quando e dove avesse perso gli occhiali. Aveva gli occhi cerchiati di
rosso, fissi sul mio viso. Sostenni il suo sguardo più che potei, ma stava tentando
di darmi qualcosa. Ciccio alzò la mano da dove l’aveva abbandonata sulla
pancia.
La lettera di Jack. I bordi zuppi di sangue rosso e appiccicoso, ma ancora
aperta.
In attesa di essere letta.
La calligrafia era minuta e compatta. Ogni lettera aveva un alone intorno, per
tutto il tempo che aveva trascorso immersa insieme a noi nel lago, e alcune erano
scomparse del tutto.
Caro papà,
quando mi hai mandato a scuola quella mattina, pensavo che mi volessi
bene. Ma ora ti vedo per ciò che sei veramente. Mi hai chiamato mostro,
scherzo della natura. Ma sei tu che mi hai cresciuto.
F l’acqua fredda a svegliarmi, più della voce morbida della donna. «Va tutto
U
bene», mi diceva. «Ruby, vedrai che starai bene.» Non so chi credesse di
imbrogliare con la sua recita sdolcinata, ma di certo non me.
L’odore di rosmarino era tornato, e mi riempiva il naso di un ricordo che
sembrava allo stesso tempo antico e nuovo. Ma quale dei due?
Quando sentii la sua mano premere sulla mia, mi costrinsi ad aprire gli occhi,
battendo più volte le palpebre alla luce del sole. Il viso di Cate appariva e spariva
davanti a me. Si alzò e attraversò la stanza, chiudendo le tende sottili. Questo
migliorò in parte le cose, ma avevo ancora difficoltà a fissare lo sguardo su un
qualunque oggetto. Rimbalzava su superfici accese e luminose. Una cassettiera
bianca, carta da parati lilla, una sveglia lampeggiante, uno specchio sulla parete
opposta e, dentro, il riflesso di noi.
«È tutto reale?» sussurrai.
Cate era seduta sul bordo del mio letto, esattamente come aveva fatto a
Thurmond, solo che non sorrideva. Dietro di lei, Martin, con addosso pantaloni
mimetici e stivali, era appoggiato alla parete. Mi sembrava una persona
completamente diversa. Non lo avevo nemmeno riconosciuto, al primo sguardo.
Il suo viso era smagrito e gli occhi sembravano affondare ancora di più nella
testa. Qualcuno era stato così stupido da mettergli in mano un’arma da fuoco.
«Siamo in una casa-rifugio appena fuori dal Maryland», disse.
«Lee?»
«Anche lui è qui al sicuro.»
Non al sicuro, pensai; mai al sicuro, con te.
Sentii montarmi fin nelle ossa il desiderio di scappare; ormai era un istinto. Lo
sfinimento e il dolore mi avevano portato via ogni altra sensazione. Percorsi la
stanza con gli occhi: due finestre, l’unica via di uscita oltre alla porta. Avrei
potuto rompere il vetro. Far arretrare Cate sfiorandole appena la mente, trovare
Liam e fuggire con lui prima che qualcuno se ne accorgesse. Avrebbe potuto
funzionare.
«Non provarci neanche», disse Cate, seguendo il mio sguardo. Estrasse un
piccolo oggetto argentato dalla tasca posteriore dei jeans e me lo porse,
voltandolo verso l’alto a rivelare la superficie ruvida di un altoparlante. «Anche
se riuscissi a oltrepassare me, ognuno degli agenti di sotto ha uno di questi. A
giudicare dal tuo ultimo incontro con il Controllo della Calma, non sarai molto
utile a Liam quando lo cattureranno e lo giustizieranno per la tua
insubordinazione.»
Mi scostai con uno scatto. «Non lo farebbero…» Ma vidi nei suoi occhi che
diceva la verità. Lo avrebbero fatto eccome. Avevano rischiato il tutto per tutto
tirandomi fuori da Thurmond. Avevano combattuto con i tracciatori per
riprendermi. Avevo già visto nella mente di Rob che, a prescindere dalla
missione che dichiaravano di avere, non si facevano tanti problemi a far fuori dei
ragazzi se serviva ad acciuffare quelli che volevano loro.
«Come puoi anche solo pensarci?» sibilò Martin. «Sai quanto tempo ha
sprecato a cercarti?»
Cate lo zittì con un gesto. Quando si chinò di nuovo su di me, notai degli
schizzi di sangue sulla sua camicia.
Scuro. Secco.
Misi a fuoco i miei ricordi con chiarezza dolorosa. «Ciccio… cos’è successo a
Ciccio?»
Cate abbassò lo sguardo sulle mani, e qualcosa dentro di me si contrasse.
«Onestamente», disse, «non ne sono sicura. Non siamo riusciti a contattare il
gruppo di agenti che lo ha preso in custodia, ma so che sono arrivati
all’ospedale.» Fece per prendermi la mano, ma non glielo permisi. Il solo
pensiero mi dava il voltastomaco. «È al sicuro. Faranno in modo che qualcuno si
prenda cura di lui.»
«Non lo sai con certezza», dissi. «Lo hai detto tu stessa.»
«Però credo che sia così.»
Stavo per dirle che quello che credeva non valeva un fico secco, quando
aggiunse: «Ti sto cercando da un mese. Sono rimasta in quest’area nella
speranza che prima o poi saresti sbucata, ma Ruby, dov’eri? Dove sei stata? Hai
un aspetto…»
«East River», risposi.
Cate fece un respiro strozzato. Allora anche la Lega aveva saputo cos’era
successo.
«Oh, perfetto», disse Martin, staccandosi dalla parete. Fece scivolare la
tracolla del fucile sopra la spalla e si diresse verso di me. «Seduta lì a far niente,
per settimane? Ovvio. Io invece ho fatto la differenza. Sono stato parte di
qualcosa.»
Fece per toccarmi la gamba, ma gli afferrai il polso e lo strinsi forte. Volevo
vedere con i miei occhi quello che aveva passato: l’addestramento, gli istruttori
che urlavano. Mi agganciai al ricordo più forte e lo aprii nella mia mente. Volevo
vedere il nostro futuro.
Il ricordo di Martin gorgogliò cupo come pece incandescente, agitandosi e
prendendo forma fino a farmi trovare dove si era trovato lui. Il pacco che era
stato pesante tra le sue mani in quel momento era tra le mie. Ne sentii il peso, ma
i miei occhi erano fissi sui numeri del display dell’ascensore: 11, 12, 13…
Un campanello suonò a ogni piano, fino al 17.
Sbirciai la ragazza accanto a me, che indossava un tailleur con la gonna e
aveva uno strato di trucco abbastanza spesso da farla apparire di diversi anni più
grande. Stringeva al fianco la borsa di pelle come uno scudo: solo quando mollò
la presa, mi accorsi di quanto le tremassero le mani.
Indossavo un’uniforme della FedEx; mi vedevo attraverso gli occhi di Martin,
riflesso nelle porte argentate dell’ascensore che si aprivano.
Ci trovavamo in un edificio che ospitava degli uffici. Fuori era buio, ma
c’erano ancora uomini e donne al lavoro, con gli occhi incollati agli schermi dei
computer. Non mi fermai, però, e nemmeno la ragazza accanto a me. Aveva
iniziato a sudare, persino sul viso, abbastanza da farle colare il trucco; a quella
vista, provai un lampo di irritazione.
L’ufficio più grande si trovava nell’angolo in fondo a destra, ed era lì che ero
diretto. La ragazza trattenne a malapena un sospiro di sollievo quando la lasciai
accanto al distributore d’acqua. Era solo un rinforzo; la missione era mia.
La porta dell’ufficio era chiusa, ma vedevo la sagoma di una persona
attraverso il vetro opaco. È ancora qui. E anche, per fortuna, la sua assistente.
Mi sembrò confusa alla vista del pacco, ma dovetti solo sfiorarle il dorso della
mano. I suoi occhi divennero vacui, sfocati; capii di averla in pugno.
La donna anziana si alzò dalla sedia e si voltò verso la porta dell’ufficio.
Lasciai il pacco sulla sua scrivania.
Senza quel peso, corsi indietro nel labirinto di postazioni di lavoro,
incrociando lo sguardo della ragazza accanto al distributore d’acqua. Quando
indicai con la testa l’ascensore, mi seguì, spostando lo sguardo da quello al resto
dell’ufficio, mordendosi il labbro.
Non fece nulla di stupido finché fummo fuori, comunque.
Corsi giù per gli scalini, diretto verso il furgone FedEx in attesa e verso
l’uomo dai capelli scuri che era al volante. Avevo quasi raggiunto la portiera
quando mi accorsi che la ragazza non era più dietro di me. Era immobile, come
di ghiaccio, in cima ai gradini di marmo, con gli occhi spalancati e pallida come
la pietra sotto i suoi piedi.
Stava per tornare di corsa dentro all’edificio per dare l’allarme sull’esplosivo,
per avvisarli. Debole.
Le parole mi penetrarono la mente, limpide come se vi fossero state scolpite:
Scappa e muori. Tradisci la Lega e muori.
Presi la pistola da sotto il sedile e mi sporsi fuori dal finestrino. Ma non ebbi
l’occasione di sparare. Di sopra, al diciassettesimo piano, un’esplosione lanciò
una pioggia di frammenti di vetro e cemento, e la ragazza scomparve sotto al
loro peso.
La mano di Martin rimase accanto a me, e lui smise di muoversi. Ecco cosa
significa essere uno di loro, pensai. Ecco in cosa ci trasformeranno. Ero scivolata
nella sua mente per confermare i miei sospetti, ma persino io fui sorpresa di
quanto fosse stato facile.
Settimane addietro, quando eravamo appena evasi, non ero stata in grado di
respingerlo, invece ormai bastava che mi sfiorasse la mano e potevo schiacciarlo
sotto il mio potere. Con un solo tocco.
Clancy mi aveva addestrata bene.
Guardai di nuovo Martin, sentendo una strana pena nei suoi confronti. Non
per quello che stavo per fare, o per il modo in cui stavo per usarlo, ma perché
credeva di sapere cosa significasse essere potenti e avere il controllo. Credeva
davvero di essere ancora più forte di me.
Posai un dito sul dorso della sua mano, solo uno. «Come ti chiami?»
La sua reazione fu impagabile. Sulle sue guance non rimase traccia di colore,
e le sue labbra iniziarono a tremare, nel tentativo di formulare una parola, di
ripescare un ricordo che non esisteva più.
«Da dove vieni?»
Ormai vedevo il panico nei suoi occhi. Ma non avevo ancora finito.
«Sai dove ti trovi ora?»
Mi sentii quasi in colpa – quasi – quando vidi i suoi occhi umidi. Ma mi
ricordai di quanto mi avesse fatta sentire indifesa e spaventata, e rimpiansi di
non aver fatto di più. Un piano si stava già formando in fondo alla mia mente, ed
era così terribile che non lo riconoscevo come mio.
«Io non…» Inciampò nelle parole. «Non…»
«Allora forse dovresti andartene», dissi in tono freddo.
Dovetti spingere appena in avanti l’immagine della sua fuga. Scappò di corsa
dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle. Fuggendo dal mostro spaventoso.
Cate lo guardò andare via, con un’espressione indecifrabile sul viso.
«Impressionante.»
«Ho pensato che gli avrebbe fatto bene cambiare un po’ atteggiamento», dissi.
Mantenni una voce piatta e fredda, proprio come pensavo che lei la volesse.
Avevo visto abbastanza da conoscere ormai il livello di ferocia che quelle
persone richiedevano, e avevo bisogno che mi volessero. «Dato che sembra che
passeremo molto tempo insieme, d’ora in poi.»
Cate chinò la testa e i suoi capelli biondissimi le scivolarono sulle spalle, ma
non lo negò. Eravamo intrappolati lì. Aveva accettato la proposta di Liam.
«Immagino che non sia stata mai davvero una scelta», continuai. «Prima o poi
avresti dovuto portarmi qui.»
«Sei una risorsa di grande valore per la resistenza.» Cate alzò una mano verso
di me, ma la fece cadere prima di toccarmi il viso. Era una donna intelligente.
Sapeva cosa ero in grado di fare. «Speravo che saresti riuscita a vederlo, al
momento giusto.»
«E che ne sarà di Lee?»
«È un rischio per la sicurezza ora che ha visto questa casa-rifugio e gli agenti
che ci sono qui. È più al sicuro con noi, Ruby. Il presidente lo vuole morto. Sono
certa che lo capirà anche lui… prima o poi.»
Le mie mani torsero ancora una volta le lenzuola sbiadite. Un’arma. Liam era
un’arma. Liam, che non riusciva neanche a perdere la pazienza senza sentirsi in
colpa. Si era battuto tanto per sfuggire a quella violenza, e io lo avevo
riconsegnato ai suoi aguzzini. Gli avrebbero messo le mani addosso e lo
avrebbero plasmato come volevano, e ne sarebbe uscito solo diventando la stessa
creatura oscura che si era sforzato di evitare di diventare.
Respiravo a fatica ormai, anche se dentro di me ero calma come le acque del
lago di East River. Finalmente, tutti i pezzi andarono al proprio posto, e capii
cosa dovevo fare.
«D’accordo», dissi. «Resterò e non combatterò contro di voi e non vi
manipolerò. Ma se volete che faccia come dite… se volete usare le mie abilità, o
farmi degli esami, c’è una condizione: dovete lasciar andare Lee.»
«Ruby», replicò Cate, scuotendo la testa. «È troppo pericoloso, per tutte le
persone coinvolte.»
«È un Blu. Non avete bisogno di lui. Non sarà mai un combattente, non come
vorreste voi.»
E se resta qui, lo ucciderete.
Ucciderete tutto ciò di buono che c’è in lui.
«Posso fare tanto, ora», le dissi, «ma non ne vedrete neanche una briciola
finché non lo lascerete andare. Finché non mi avrete giurato di non inseguirlo.»
Cate mi osservò per un momento, premendosi una mano sulla bocca. Vedevo
l’indecisione sul suo viso. Avevo usato Martin per mostrarle esattamente cosa
potessi offrire alla Lega, e lui, a quanto pareva, aveva già dimostrato loro quanto
valore potesse avere un Arancione. Quelli, però, non erano i termini che Cate
avrebbe scelto.
«D’accordo», disse alla fine. «D’accordo. Può andarsene.»
«Come faccio a sapere che manterrai la promessa?»
Lei si alzò e si mise di nuovo la mano in tasca. L’aggeggio argentato per il
Controllo della Calma, l’unica cosa che mi teneva fuori dalla sua mente, era
ancora caldo quando me lo premette nel palmo della mano. Strinsi le dita intorno
alle sue.
«Giuro su Dio», scandii, quando Cate alzò gli occhi nei miei. «Se rinneghi la
tua parola, ti farò a pezzi. E non mi fermerò, non prima di aver distrutto la tua
vita e la vita di ogni singola persona in questa organizzazione. Credimi, tu forse
non manterrai sempre le tue promesse, ma io sì.»
Cate annuì una volta, e nei suoi occhi c’era qualcosa che sembrava orgoglio.
«Capito», disse, ed era vero.
* * *
Liam era stato sistemato in una camera al lato opposto del corridoio, dipinta di
azzurro chiaro, tipo quello che si vede di solito solo prima dell’alba, forse. Un
tempo doveva essere stata la stanza dei bambini. C’erano nuvole dipinte sul
soffitto, e i pochi mobili rimasti erano troppo piccoli per un adulto di media
corporatura.
Liam era seduto sul lettino, dandomi le spalle. Appena entrai e chiusi la porta,
pensai che stesse guardando fuori dalla finestra. Avvicinandomi, però, vidi che
fissava il foglio stropicciato che teneva in mano.
Il letto si inclinò quando ci strisciai sopra, abbracciando il petto di Liam da
dietro. Premetti la guancia sulla sua, lasciando che le mie mani vagassero fino a
trovare il battito costante del suo cuore.
Lui chiuse gli occhi, appoggiandosi a me.
«Cosa stai guardando?» sussurrai.
Mi passò il foglio senza dire una parola, e mi spostai per sedermi accanto a
lui. La lettera di Jack Field.
«Avevi ragione», disse dopo un poco. «Avevi proprio ragione. Avremmo
dovuto leggerla. Avremmo dovuto sapere che non ne valeva la pena.»
Fu il suo tono funereo, piatto, intriso di dolore, che mi fece appallottolare la
lettera e scagliarla dall’altra parte della stanza. Liam si limitò a scuotere la testa,
posandosi una mano sugli occhi. Annaspai nella tasca del suo giubbotto, dove
avevo infilato la lettera di Ciccio giorni addietro. Liam mi guardò tirarla fuori e
si accasciò accanto a me.
«Mi ha detto di non averla scritta per loro», dissi. «L’ha scritta per te. Voleva
che fossi tu a leggerla.»
«Non voglio.»
«Sì che vuoi, invece. Perché quando te ne andrai da qui, vorrai avere qualcosa
da dire quando lo rivedrai.»
«Ruby.» In quel momento sembrava arrabbiato. Scostò il braccio che teneva
intorno alle mie spalle e si alzò. «Pensi davvero che se sopravvive ci
permetteranno di vederlo? Pensi che ci lasceranno rimanere insieme? Questa
gente non lavora così. Controlleranno ogni nostro movimento, persino chi
incontriamo e cosa mangiamo. Credimi, sarà davvero un gran colpo di fortuna se
riusciamo anche solo a scoprire se è ancora vivo, figuriamoci se l’hanno portato
qui per addestrarlo.»
Liam fece il giro della stanza una, due, tre volte, e mi sembrò che fosse
passata un’ora prima di trovare il coraggio di aprire la lettera di Ciccio da sola.
La stanza rimase silenziosa a lungo.
«Cosa dice?» chiese Liam, alla fine.
Era vuota. Sul foglio non c’era nulla scritto, tranne il nome dei genitori di
Ciccio e il loro indirizzo. Non c’era mai stato niente. Neanche una goccia di
inchiostro.
«Non capisco…» dissi, passandogliela. Non poteva essere. Forse aveva perso
la lettera originale, oppure l’aveva tenuta lui… Quando alzai di nuovo lo
sguardo, Liam stava piangendo. Una mano stringeva la lettera nel pugno, e
l’altra copriva gli occhi. Mi resi conto di conoscere già la risposta.
Ciccio non aveva scritto niente perché non pensava di averne bisogno.
Pensava di poter dire di persona ai suoi genitori tutto ciò che voleva. Credeva
che sarebbe riuscito a tornare a casa.
Le ginocchia di Liam cedettero, e si sedette di nuovo sul letto. Si chinò fino ad
appoggiare la fronte alla mia spalla, e io lo abbracciai. Ti ha creduto davvero,
avrei voluto dirgli. Per tutto il tempo, ti ha creduto.
Mi sentii vecchia in quel momento. Come se non avessi avuto sedici anni, né
sessanta e nemmeno cento, ma mille. Più vecchia, ma non fragile. Mi sentii
come una di quelle querce che crescono lungo l’autostrada che fiancheggia la
Shenandoah Valley, con radici profonde e un cuore forte.
Se ne può andare, pensai, può tornarsene a casa.
Lo tenni stretto a me a lungo. Volevo memorizzare il modo in cui i suoi capelli
si arricciavano sulle punte, la cicatrice all’angolo della sua bocca. Non avevo
mai percepito quanto il tempo potesse ferire come in quel momento. Perché
sembrava sempre o congelarsi o correre a velocità vertiginosa?
«La cosa pazzesca è che avevo tutti questi piani in mente», sussurrò Liam.
«Quello che avremmo fatto. Tutti i posti in cui ti avrei portata. Avrei davvero
voluto presentarti a Harry.» La finestra lasciava filtrare la luce pomeridiana.
Sentii la sua mano scorrere lungo il mio braccio. «Andrà tutto bene», continuò.
«Solo non possiamo lasciare che ci separino.»
«Non lo faranno», mormorai. «Stavo pensando… so che sembrerà
terribilmente sdolcinato, ma… se c’è qualcosa di buono in tutto questo, è che ci
siamo incontrati. Rifarei tutto di nuovo…» Le lacrime mi facevano bruciare gli
occhi. «Rifarei tutto, se significasse arrivare a incontrare te.»
«Lo pensi davvero?» Liam si raddrizzò e mi posò le labbra sui capelli.
«Perché, francamente, per come la vedo io, tu e io? Inevitabile. Immaginiamo
pure di non essere finiti in quei maledetti campi… No, ascolta. Adesso ti
racconto la fantastica storia di noi due.»
Si schiarì la voce e si voltò verso di me.
«Dunque, è estate e tu sei a Salem, a patire un altro luglio caldo e noioso, e
lavori part-time in una gelateria. Naturalmente, non ti rendi affatto conto che
tutti i ragazzi del tuo liceo che vengono in negozio ogni giorno sono più
interessati a te che ai trentuno gusti di gelato. Tu sei concentrata sulla scuola e
sulle decine di club a cui appartieni, perché vuoi entrare in una buona università
e salvare il mondo. E, proprio quando penserai che preferiresti morire piuttosto
che fare un altro test standardizzato, tuo padre ti chiederà se vuoi andare a
trovare tua nonna a Virginia Beach.»
«Ah sì?» Poggiai la fronte sul suo petto. «E tu?»
«Io?» Mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Io sono a Wilmington, a patire un’altra estate calda e noiosa, e a lavorare per
l’ultima volta nell’officina di Harry prima di partire per qualche università
prestigiosa dove, vorrei aggiungere, il mio compagno di stanza sarà un saputello
dal cuore d’oro di nome Charles Carrington Meriwether IV… Ma non fa parte di
questa storia, non ancora.» Mi strinse il fianco, e sentivo le sue dita tremare,
anche se aveva la voce ferma. «Per festeggiare, mia mamma decide di portarci
tutti a Virginia Beach per una settimana. Siamo arrivati da un giorno solo quando
comincio a intravedere questa ragazza dai capelli scuri in giro per la città, con il
naso immerso in un libro e la musica a palla nelle cuffie. Ma, per quanto mi
impegni, non riesco mai a parlarle.
«Poi, con l’aiuto del nostro amico Destino, nel nostro ultimo giorno di
spiaggia la vedo. Vedo te. Sono nel mezzo di una partita di pallavolo con Harry,
ma sembra che tutti gli altri siano scomparsi. Stai venendo verso di me, con degli
enormi occhiali da sole e un vestito verde chiaro, e non so come ma so che si
abbina ai tuoi occhi. E, proprio in quel momento, dato che, diciamolo, sono
praticamente un dio dell’Olimpo quando si tratta di sport, riesco a sbatterti la
palla dritta in faccia.»
«Ahi», ridacchiai. «Sembra doloroso.»
«Beh, penso che tu possa immaginare la mia reazione. Mi offro di
accompagnarti alla postazione dei bagnini, ma tu mi incenerisci con lo sguardo
al solo suggerimento. Alla fine, grazie al mio brillante fascino e alla mia
intelligenza – e anche perché sono talmente patetico che ti faccio pena – mi
concedi di comprarti un gelato. E poi inizi a raccontarmi che a Salem lavori in
una gelateria, e che sei frustrata dal fatto di dover aspettare altri due anni prima
di andare al college. E in qualche modo, non so come, riesco a farmi dare la tua
email o l’indirizzo del tuo profilo online o forse, se sono proprio fortunato, il tuo
numero di telefono. E poi parliamo. Io vado al college e tu torni a Salem, ma ci
parliamo in continuazione, di tutto, e a volte facciamo quella cosa stupida di
quando non hai più niente da dire e rimani ad ascoltare il respiro dell’altro finché
uno dei due si addormenta…»
«…e Ciccio ti prende in giro», aggiunsi.
«Oh, senza remore», concordò Liam. «E tuo padre mi odia perché pensa che
stia corrompendo la sua bellissima, dolce figliola, ma comunque mi permette di
venire a trovarti di tanto in tanto. A quel punto, tu mi racconti che stai dando
ripetizioni a una bimba di nome Suzume, che vive in una città vicina…»
«…ed è la bimba più fantastica di tutto il pianeta», riuscii a tirare fuori.
«Esatto. Vuoi provare tu con il finale?»
A quel punto, non potei più trattenermi. Mi portai le mani al viso, premendomi
le dita sugli occhi.
Dovevo farlo in quel momento, altrimenti non sarei più stata in grado. Non
potevamo nasconderci lì per sempre. Avrebbero potuto cambiare idea da un
momento all’altro, con la stessa velocità di prima, e non lasciarlo più andare via.
Mi raddrizzai e mi asciugai le lacrime, stringendo i denti. Liam si tirò su e si
sedette al mio fianco sul bordo del letto, con uno sguardo preoccupato. Per un
attimo, temetti che sapesse ciò che stavo per fare.
Piegò la testa da un lato, e un sorrisetto gli increspò le labbra. Ricambiai il
sorriso, ma dentro di me stavo andando in pezzi. «Cosa?»
Quando ci avevano portati nei campi, ci avevano tolto tutto. I nostri amici e le
nostre famiglie, i nostri vestiti, il nostro futuro. L’unica cosa che avevamo potuto
tenere per noi erano i nostri ricordi, e stavo per sottrargli anche quelli.
«Chiudi gli occhi», sussurrai. «Voglio finire la storia.»
Sentii il formicolio in fondo alla mente e lasciai che si trasformasse in un
ruggito. E, quando lo baciai, quando le mie labbra premettero sulle sue un’ultima
volta, scivolare nella sua mente fu facile come lo era stato prenderlo per mano.
Avvertii il suo tentativo di ritrarsi, lo sentii chiamare il mio nome con voce
allarmata, ma non lo lasciai sfuggire. Mi cancellai dalla sua mente, pezzo dopo
pezzo, ricordo dopo ricordo, finché non rimase niente di Ruby ad appesantirlo o
a tenerlo legato al mio fianco.
Fu una strana sensazione di disfacimento, che non avevo mai provato prima, o
forse solo che non avevo mai riconosciuto fino a quel momento.
Mi venne in mente che Ciccio avrebbe potuto essere un problema, ed ebbi un
secondo netto per prendere una decisione. Se era vivo – e doveva esserlo, per me
non c’era alternativa – la Lega lo avrebbe catturato. Ma se Liam lo avesse
saputo, sarebbe tornato indietro per trovare il modo di liberarlo, e il patto non
sarebbe valso più a niente.
Mi sarei presa cura io di Ciccio. Lo avrei aiutato a sfuggire alla Lega. Non
c’era motivo per cui Liam non dovesse pensare che il suo amico fosse tornato
sano e salvo a casa dai genitori; nessun motivo per cui dovesse distrarsi dal
tornare a casa lui stesso. Era un aggiustamento semplice, una toppa veloce su un
ricordo terribile…
E poi rimasi senz’aria e senza più tempo. La porta alle mie spalle si aprì e mi
allontanai da Liam. Lui rimase rigido come una tavola, con le mani sulle
ginocchia, gli occhi chiusi stretti stretti. Cate spostò lo sguardo da lui a me. Mi
alzai e mi misi al suo fianco.
Un attimo dopo, gli occhi blu di Liam si aprirono e mi videro. Solo che non
videro Ruby.
«Cos’è successo?» chiese, guardando prima Cate e poi me.
Alzò una mano e si toccò il viso, che era ancora livido e gonfio.
«Hai avuto un incidente d’auto», dissi. «La Lega è venuta a prenderti.»
Cate si irrigidì accanto a me; con la coda dell’occhio vidi sul suo viso una
improvvisa espressione di comprensione.
«La Lega…» ripeté Liam, stringendo gli occhi.
«Sì, ma se ti senti bene, te ne puoi andare», disse Cate, quando si fu ripresa.
«Tuo fratello ci ha chiesto di darti dei soldi per il biglietto dell’autobus.»
«Ci scommetto», borbottò lui, cercando le scarpe. «Come mai non mi ricordo
l’incidente?»
Non so se Cate si rendesse conto di quanto fosse visibile lo shock sul suo viso.
Alzò una mano verso la mia spalla – se per sostenere se stessa o me, non sono
sicura – ma mi allontanai di un passo.
«La testa ti fa sempre male?» domandai con voce strozzata. Avevo ancora
addosso il suo giubbotto: non riuscivo a decidermi a toglierlo. «Hai preso una
bella botta.»
«Un po’», ammise. Non mi piaceva il modo in cui mi guardava, con la fronte
aggrottata per la concentrazione. «E la Lega è disposta a lasciarmi andare?»
Cate annuì e gli lanciò una busta. Liam gliela rilanciò indietro. «Non voglio i
vostri soldi.»
«Ci sono anche le istruzioni per contattare i tuoi genitori», disse Cate.
«Non la voglio. Non mi serve.»
«Cosa dovrei dire a Cole?»
Liam si alzò sulle gambe malferme. «Digli di tornare a casa, poi possiamo
parlare.» Si voltò verso di me. «E tu invece? Sei davvero una di loro? Avrei detto
che avessi più sale in zucca.»
Senza replicare, presi la busta da Cate. Quando la misi in mano a Liam, non
me la rilanciò indietro. «Sarà meglio che tu vada.»
«Non ho intenzione di ringraziarvi», ci disse. «Non ho chiesto il vostro aiuto.»
Cate lo condusse in corridoio. «Non ce n’era bisogno, e non ce ne sarà mai.»
Liam si incamminò lungo le scale.
«Ehi…» lo chiamai. Lui si fermò e si voltò a guardarmi. «Fai attenzione.»
I suoi occhi blu si spostarono avanti e indietro tra Cate e me.
«Anche tu, tesoro.»
Dalla finestra che dava sulla strada lo guardai andarsene, seguendo la sua
figura familiare proseguire all’esterno e chiudersi la porta alle spalle. Nessuna
auto, nessuno da tenere d’occhio, nessuno da aiutare. Era completamente libero.
E sembrava felice. Sicuro di sé, almeno. I suoi piedi riconobbero
istintivamente la direzione di casa. Non c’era più nulla a impedirgli di arrivarci.
Liam oltrepassò lo steccato bianco che circondava la casa e salì sul
marciapiede. Si tirò su il cappuccio della felpa e guardò da una parte e dall’altra
prima di attraversare la strada di corsa.
Lo osservai diventare sempre più piccolo a ogni passo.
Tutto il mondo sarà tuo nemico, Principe dai Mille Nemici, pensai, e chi
t’acchiapperà, t’ammazzerà.
Però prima dovranno pigliarti, principe bravo a scavare e veloce nella corsa,
d’udito fine e tutti i sensi all’erta.
Sii astuto e inventa stratagemmi, e il tuo popolo non verrà mai distrutto.
Cate si avvicinò dietro di me e mi accarezzò i capelli.
«Sarai felice con noi», disse. «Mi prenderò io cura di te.»
Chiusi le tende sottili, facendo scivolare le dita sulla superficie setosa. La
osservai per un momento, alla ricerca del segnale che avrebbe rivelato la sua
bugia. Mi chiesi se pensasse ancora a me come alla ragazza che aveva portato
fuori da Thurmond, che aveva pianto quando aveva visto le stelle per la prima
volta.
Perché non sapeva che c’erano due versioni di me; spezzata a metà tra tutto
ciò che avevo sempre desiderato e tutto ciò che in quel momento avrei dovuto
diventare. Una di quelle, la parte più dura e più rabbiosa, sarebbe rimasta con
quei mostri e lentamente si sarebbe piegata a prendere la loro forma. Ma c’era
un’altra Ruby, segreta. Era sottile come un soffio d’aria, e aveva lottato a lungo
per poter esistere. Era quella che Liam portava con sé, senza saperlo. Quella che
sarebbe rimasta nella sua tasca, a sussurrare parole di incoraggiamento, a
ripetergli che era nato per inseguire la luce.
Per la prima volta da mesi, sentii la voce di Sam sussurrarmi nell’orecchio:
Non avere paura. Non darlo a vedere.
Voltai le spalle alla finestra e non mi guardai indietro.
Ringraziamenti
C dice la canzone: «Me la cavo con un aiutino da parte degli amici», e questo
OME
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La citazione da La collina dei conigli è tratta da: Richard Adams, La collina dei conigli, Rizzoli, Milano 1975, traduzione di Pier Francesco Paolini.
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Darkest Minds
di Alexandra Bracken
© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo originale The Darkest Minds
Copyright © 2012 by Alexandra Bracken
Pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788893427067
© COPERTINA || PER GENTILE CONCESSIONE DI 20TH CENTURY FOX. «THE DARKEST MINDS» FILM ARTWORK © 2018. TWENTIETH CENTURY FOX FILM CORPORATION.
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