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Indice

Il libro
L’autrice
Frontespizio
Prologo
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Ringraziamenti
Copyright
Il libro
Quando Ruby si sveglia il giorno del suo decimo compleanno, qualcosa in lei è cambiato. Qualcosa
di abbastanza preoccupante da costringere i genitori a mandarla a Thurmond, un brutale campo di
riabilitazione gestito dal governo dove sono rinchiusi i giovani come lei. Ovvero, i giovani che sono
riusciti a sopravvivere alla misteriosa malattia che ha decimato la popolazione e che da allora
sembrano aver acquisito poteri speciali. Ci sono i Verdi, dotati di un’intelligenza eccezionale; i Blu,
di telecinesi; i Gialli, che controllano l’elettricità; i Rossi il fuoco e gli Arancioni, come Ruby, la
mente umana.
Ora Ruby ha sedici anni ed è riuscita a scappare da quell’inferno, ma per lei l’incubo non è ancora
finito. Durante la sua fuga, però, incontra un gruppo di ragazzini evasi come lei: Zu, Ciccio e Liam,
carisma da leader e decisamente carino. Ma Ruby non può rischiare di avvicinarsi a lui. Sarebbe
troppo pericoloso. E, in viaggio verso l’unico rifugio sicuro, ci sono già fin troppi pericoli da
affrontare...
Finalmente arriva in Italia la serie d’esordio di Alexandra Bracken che, con questa storia
adrenalinica, ha conquistato il primo posto della classifica del New York Times e da allora ha firmato
un successo dietro l’altro. Negli Stati Uniti e nel resto del mondo, dove i suoi romanzi sono
pubblicati in 19 Paesi.
L’autrice
è autrice bestseller n.1 del New York Times delle serie Darkest Minds e Passenger.
ALEXANDRA BRACKEN

Nata e cresciuta in Arizona, si è trasferita in Virginia, dove si è laureata in Letteratura Inglese e in


Storia. Dopo aver lavorato a New York in un’importante casa editrice, ora scrive a tempo pieno in un
piccolo e grazioso appartamento perennemente traboccante di libri.
www.alexandrabracken.com
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Instagram: @alexbracken
Alexandra Bracken

DARKEST MINDS
Traduzione di Michela Albertazzi
Per Stephanie e Daniel,
che sono stati con me su ogni minivan
Prologo

ERAVAMO nel giardino a estirpare le erbacce quando il Rumore Bianco partì.


Mi provocava sempre una brutta reazione. Non aveva importanza che mi
trovassi all’esterno, a mangiare in sala mensa, o chiusa nella mia baracca.
Quando partiva, il suo urlo stridente mi esplodeva nelle orecchie come una
bomba rudimentale.
Le altre ragazze di Thurmond riuscivano a ricomporsi dopo qualche minuto,
scrollandosi di dosso la nausea e il disorientamento come fili d’erba rimasti
appiccicati all’uniforme del campo. A me invece occorrevano ore prima che
riuscissi a rimettermi in sesto.
Quella volta non avrebbe dovuto essere diversa.
Ma lo fu.
Non vidi cosa avesse provocato la punizione. Lavoravamo così vicino al
recinto elettrificato del campo da sentire l’odore di bruciato nell’aria e percepire
il voltaggio emanato come una vibrazione tra i denti. Forse qualcuno si era
sentito coraggioso e aveva deciso di attraversare i confini del giardino. O magari,
puntando in alto, qualcuno aveva dato vita alle nostre fantasie e aveva lanciato
una pietra in testa al soldato delle FSP, le Forze Speciali Psi, più vicino. Ne
sarebbe valsa la pena.
L’unica cosa di cui ero certa era che dagli altoparlanti sopra le nostre teste
schizzarono due squilli di avvertimento, uno breve e uno lungo. Sentii i brividi
sul collo e mi piegai in avanti nella terra umida, premendo forte le mani contro le
orecchie, con le spalle tese per parare il colpo.
Il suono proveniente dagli altoparlanti non era davvero rumore bianco. Non
era come quello strano ronzio che a volte riempie l’aria quando stai seduto da
solo in silenzio, né il lieve mormorio dello schermo del computer. Per il governo
degli Stati Uniti e per il Dipartimento della Gioventù Psi, era il figlio segreto di
una sirena antifurto e di un trapano da dentista, sparato a un volume tanto alto da
far sanguinare le orecchie.
Letteralmente.
Il suono esplose dagli altoparlanti e lacerò ogni terminazione nervosa nel mio
corpo. Si fece strada a forza oltre le mie mani, rombando al di sopra delle urla di
un centinaio di strambi adolescenti, e si installò al centro del mio cervello, dove
non potevo arrivare a strapparlo.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Tentai di schiacciare il viso a terra; non
sentivo altro che il sapore del sangue e del terriccio. Una ragazza cadde in avanti
accanto a me, la bocca spalancata in un grido che non riuscivo a sentire.
Tutto il resto si fece sfocato.
Il mio corpo fu percorso da tremiti all’esplosione di elettricità statica,
piegandosi su se stesso come un vecchio foglio di carta ingiallita. Le mani di
qualcuno mi scossero le spalle; sentii chiamarmi per nome – Ruby – ma ero
troppo andata per rispondere. Via, via, via, affondai finché non rimase niente,
come se la terra mi avesse inghiottita in un solo, profondo respiro. Poi le tenebre.
E il silenzio.
1

G RACE Somerfield fu la prima a morire.


O, comunque, la prima nella mia classe, in quarta elementare. Sono sicura che
a quel punto migliaia, forse anche centinaia di migliaia di ragazzini se ne fossero
già andati allo stesso modo. La gente ci mise tempo a collegare le cose; o, se non
altro, aveva trovato il modo di tenerci all’oscuro per molto tempo dopo che i
bambini avevano iniziato a morire.
Quando finalmente i decessi vennero alla luce, la mia scuola elementare
impose agli insegnanti e agli inservienti il divieto assoluto di parlarci di ciò che
all’epoca veniva detta «la malattia di Everhart», chiamata così per Michael
Everhart, il primo bambino a morirne. Presto, qualcuno da qualche parte decise
di darle un nome vero e proprio: Neurodegenerazione Idiopatica Adolescenziale
Acuta. NIAA, in breve. E così, non fu più la malattia di Michael. Divenne di tutti
noi.
Tutti gli adulti che conoscevo seppellirono la verità dietro sorrisi bugiardi e
abbracci. E io rimasi nel mio mondo pieno di sole, di pony e di macchinine da
corsa da collezione. Ripensandoci, non riesco a credere di essere stata così
ingenua, di essermi lasciata sfuggire così tanti indizi. Persino cose importanti,
come quando mio padre, un poliziotto, iniziò a tornare dal lavoro sempre più
tardi, e a degnarmi a fatica di uno sguardo quando finalmente arrivava a casa. La
mamma mi imbottiva di vitamine e si rifiutava di lasciarmi sola anche un
minuto.
D’altronde, entrambi i miei genitori erano figli unici. Non avevo nessun
cuginetto morto a far squillare un campanello d’allarme, e il fatto che mia madre
avesse sempre impedito a mio padre di installare «quel vortice risucchia-anime,
pieno di spazzatura e di intrattenimento scervellato» – oggetto altrimenti noto
come televisore – significava che il mio mondo non poteva essere turbato da
allarmanti telegiornali. Questo, insieme alle funzioni di controllo degne della
CIA che i miei genitori esercitavano su internet, fece sì che mi preoccupassi più
della disposizione dei miei peluche sul letto che della possibilità di morire prima
di compiere dieci anni. E che fossi del tutto impreparata per quello che successe
il 15 settembre.
Il giorno prima aveva piovuto, così i miei genitori mi mandarono a scuola con
gli stivali di gomma rossi. In classe parlammo di dinosauri e ci esercitammo a
scrivere in corsivo prima che la signora Port ci mandasse a pranzo con il solito
sospiro di sollievo.
Ricordo ogni dettaglio di quel pranzo, non perché fossi seduta di fronte a
Grace, ma perché lei fu la prima, e perché non avrebbe dovuto succedere. Non
era vecchia come lo era stato il nonno. Non aveva il cancro come Sara, l’amica
della mamma. Niente allergie, né tosse, né ferite alla testa: niente.
Quando morì, fu un fulmine a ciel sereno, e nessuno di noi ne capì il
significato finché fu troppo tardi.
Grace era assorta in un dibattito sulla presenza o meno di una mosca nella sua
gelatina di frutta. La massa rossiccia tremolava a ogni colpo, spingendosi oltre il
bordo del contenitore quando Grace lo stringeva un po’ troppo. Naturalmente,
tutti avevano la propria opinione sulla presunta mosca o caramella spinta da
Grace nella coppetta. Me compresa.
«Non sono bugiarda», disse Grace. «Ho solo…»
Si fermò. La coppetta di plastica le scivolò dalle dita e cadde sul tavolo. Grace
aveva la bocca aperta e gli occhi fissi su qualcosa appena al di là della mia testa.
La fronte era corrugata, come se stesse ascoltando qualcuno spiegare qualcosa di
molto difficile.
«Grace?» ricordo di aver detto. «Stai bene?»
Lei roteò gli occhi all’indietro, con un lampo di bianco nell’istante prima che
le palpebre si abbassassero. Fece un piccolo sospiro, nemmeno abbastanza forte
da allontanare il ciuffo di capelli castani appiccicato alle labbra.
Tutti noi che sedevamo accanto a lei rimanemmo impietriti, pensando forse la
stessa cosa: è svenuta. Una o due settimane prima, Josh Preston era svenuto nel
parco giochi perché, come aveva spiegato la signora Port, non aveva abbastanza
zuccheri nel sangue, o qualcosa di altrettanto sciocco.
Un’addetta alla mensa si avvicinò di corsa al tavolo. Era una delle quattro
vecchie signore con visiere bianche e fischietti che facevano a turno tra il pranzo
e il parco giochi durante la settimana. Non so se avesse qualche certificazione
medica o una vaga idea di come praticare la rianimazione, ma in ogni caso posò
il corpo esanime di Grace a terra.
Tutti la guardammo rapiti mentre appoggiava l’orecchio alla T-shirt rosa
acceso di Grace, alla ricerca di un battito cardiaco inesistente. Non so cosa le
passò per la testa, ma si mise a urlare, e improvvisamente fummo circondati da
visiere bianche e facce curiose. Solo quando Ben Cho diede un colpetto alla
mano di Grace con il piede ci rendemmo conto che era morta.
Anche gli altri bambini si misero a urlare. Una ragazzina, Tess, piangeva così
forte da non riuscire a respirare. I nostri piedini si lanciarono verso le porte della
mensa.
Io rimasi seduta, circondata dalle pietanze abbandonate, a fissare la coppetta
di gelatina e a lasciare che il terrore mi strisciasse addosso fino a farmi credere
che le mie gambe e braccia sarebbero rimaste bloccate al tavolo per sempre. Se
l’addetto alla sicurezza non fosse arrivato e non mi avesse portata fuori, non so
quanto a lungo sarei rimasta lì.
Grace è morta, stavo pensando. Grace è morta? Grace è morta.
E fu anche peggio.
Un mese più tardi, dopo la prima grande ondata di decessi, i Centri per la
Prevenzione e il Controllo delle Malattie pubblicarono una lista di sintomi in
cinque punti per aiutare i genitori a capire se i loro figli fossero a rischio di
NIAA.
A quel punto, metà della mia classe era morta.
Mia mamma aveva nascosto la lista così bene che la trovai solo per caso,
quando mi arrampicai in cima al bancone della cucina alla ricerca del cioccolato
che teneva nascosto tra i prodotti per fare i dolci.
, diceva il volantino. Riconobbi il colore arancione
COME CAPIRE SE VOSTRO FIGLIO È A RISCHIO

acceso della carta: era il foglio che la signora Port aveva consegnato ai pochi
studenti rimasti qualche giorno prima. Lo aveva piegato in quattro e pinzato tre
volte, per impedire che lo leggessimo. , c’era scritto all’esterno,
RISERVATO AI GENITORI DI RUBY

sottolineato tre volte. Tre volte voleva dire che era una cosa seria. I miei mi
avrebbero messo in castigo se lo avessi aperto.
Per mia fortuna, era già aperto.

1. Vostro/a figlio/a diventa improvvisamente scontroso e riservato e/o perde


interesse nelle attività che prima amava.
2. Manifesta una anormale difficoltà di concentrazione o una improvvisa
iperattenzione, tanto da non rendersi conto del tempo che passa fino a
trascurare se stesso/a o gli altri.
3. Ha allucinazioni, vomito, emicrania cronica, perdita di memoria, oppure
svenimenti.
4. Manifesta scatti d’ira, comportamenti insolitamente sconsiderati o
autolesionisti (bruciature, lividi e tagli che non hanno altra spiegazione).
5. Sviluppa comportamenti o abilità inspiegabili, pericolosi o che possano
causare danni fisici a voi o ad altri.

Se vostro/a figlio/a manifesta uno qualsiasi dei sintomi sopra indicati,


registratelo/a online su niaa.gov e vi verrà comunicato in quale ospedale
portarlo/a.

Quando ebbi finito di leggere il volantino, lo piegai con cura, lo rimisi


esattamente dove lo avevo trovato e vomitai nel lavandino.
Più tardi, quella settimana, telefonò la nonna e, con il suo solito atteggiamento
senza fronzoli, mi spiegò ogni cosa. Morivano bambini in continuazione, tutti
più o meno della mia età. Ma i dottori ci stavano lavorando, e io non dovevo
avere paura, perché ero sua nipote, e tutto sarebbe andato bene. Dovevo fare la
brava e avvisare i miei genitori se mi sentivo strana, d’accordo?
La situazione si trasformò da grave a terrificante molto in fretta. Una
settimana dopo la sepoltura di tre dei quattro bambini rimasti nel mio quartiere,
il presidente fece un appello formale alla nazione. Mamma e papà lo guardarono
in diretta sul computer, mentre io origliavo dietro la porta dello studio.
«Miei cari concittadini americani», esordì il presidente Gray, «oggi ci
troviamo di fronte a una crisi devastante, che minaccia non solo le vite dei nostri
figli ma il futuro della nostra grande nazione. Spero vi sia di conforto sapere che
in questo momento di grande necessità, Washington sta sviluppando programmi
di sostegno sia per le famiglie colpite da questa orrenda afflizione sia per i
bambini tanto fortunati da sopravvivere.»
Avrei voluto vederlo in faccia mentre parlava, perché credo che sapesse –
doveva saperlo – che quella minaccia, il bastone tra le ruote del nostro presunto
futuro di gloria, non aveva nulla a che vedere con i bambini morti. Sepolti sotto
terra o inceneriti, non potevano fare altro che ossessionare i ricordi di chi li
aveva amati. Se n’erano andati. Per sempre.
E quella lista di sintomi, spedita a casa dopo essere stata debitamente piegata e
pinzata dagli insegnanti, che veniva trasmessa in continuazione al telegiornale
mentre i ritratti delle vittime scorrevano in basso sullo schermo?
Il Governo non aveva mai avuto paura dei bambini che rischiavano di morire,
né del vuoto che avrebbero lasciato dietro di sé.
Aveva paura di noi, i sopravvissuti.
2

P il giorno in cui ci portarono a Thurmond. Continuò a piovere tutta la


IOVEVA

settimana, e anche quella dopo. Pioggia gelata, che sarebbe diventata neve se ci
fosse stato qualche grado in meno. Ricordo di aver guardato le gocce tracciare
sentieri frenetici lungo i finestrini dell’autobus. Se fossi stata a casa, nell’auto di
uno dei miei genitori, ne avrei seguito con le dita i passaggi arzigogolati
attraverso il vetro freddo. Ma avevo le mani legate dietro la schiena, e gli uomini
in uniforme nera ci avevano stipati in quattro per sedile. C’era spazio a malapena
per respirare.
Il calore di un centinaio di corpi appannava i finestrini e creava una sorta di
schermo verso il mondo esterno. Più tardi, i finestrini degli autobus giallo acceso
che portavano i bambini nell’accampamento sarebbero stati tinti di vernice nera.
Ma non ci avevano ancora pensato.
Ero stata la più vicina al finestrino per tutte e cinque le ore di viaggio, perciò
riuscivo a cogliere qualche spiraglio del paesaggio che ci scorreva accanto,
quando la pioggia si calmava un poco. Mi sembrava tutto uguale: fattorie
immerse nel verde, fitte macchie boscose. Per quanto ne potevo sapere, ci
trovavamo ancora in Virginia. Sembrava che la ragazza seduta accanto a me, che
più tardi sarebbe stata classificata come Blu, avesse riconosciuto qualche cartello
a un certo punto, perché si sporse nella mia direzione per vedere meglio. Mi
pareva vagamente familiare, come se avessi già visto il suo viso in giro per la
mia città, o in quella vicina. Penso che tutti quei bambini venissero dalla
Virginia, ma non c’era modo di saperlo con certezza, perché c’era una sola
grande regola, ed era: Silenzio.
Dopo avermi prelevata da casa il giorno precedente, mi avevano trattenuta per
la notte in una sorta di magazzino, insieme agli altri bambini. La stanza era
immersa in una luce innaturale; ci avevano fatto sedere vicini sul lurido
pavimento in cemento e puntato contro tre fari. Non avevamo il permesso di
dormire. Per la polvere, gli occhi mi lacrimavano così tanto che non vedevo le
pallide facce sudate intorno a me, per non parlare dei volti dei soldati che
stavano di guardia appena al di fuori del cerchio di luce. Per qualche strano
motivo, avevano smesso di essere semplicemente uomini e donne interi. Nella
foschia grigia del dormiveglia, li percepivo solo a piccoli pezzi terrificanti: la
puzza di gasolio del loro lucido da scarpe, il fruscio del cuoio rigido, la smorfia
di disgusto che storceva loro le labbra. La punta di uno stivale che mi scavava
nel fianco, obbligandomi a svegliarmi.
Il mattino dopo, viaggiammo in totale silenzio, a eccezione delle radio dei
soldati e dei bambini che piangevano in fondo all’autobus. Il bambino seduto
all’altra estremità del nostro sedile se la fece addosso, ma non aveva intenzione
di dirlo alla soldatessa dai capelli rossi in piedi accanto a lui. La donna lo aveva
preso a schiaffi quando si era lamentato di non aver mangiato nulla per tutto il
giorno.
Flettei i piedi nudi sul pavimento, sforzandomi di tenere ferme le gambe. La
fame dava alla testa anche a me, e risaliva in superficie di tanto in tanto,
superando persino le fitte di terrore che mi trafiggevano. Era difficile
concentrarsi, e ancora più difficile rimanere fermi; mi sembrava di rimpicciolire,
mentre tentavo di fondermi con lo schienale del sedile e scomparire. Stavo
iniziando a perdere la sensibilità alle mani dopo averle avute legate nella stessa
posizione così a lungo. Cercare di allentare il laccio di plastica che le stringeva
non faceva altro che forzarlo più in profondità, dove la pelle era più morbida.
FSP, Forze Speciali Psi; era così che l’autista dell’autobus aveva presentato se
stesso e i compagni quando erano venuti a prenderci al magazzino. Dovete
venire con noi per ordine del comandante delle Forze Speciali Psi, Joseph
Traylor. Aveva fatto vedere un foglio per dimostrarlo, quindi credo che fosse
vero. In ogni caso, mi avevano insegnato a non discutere con gli adulti.
L’autobus si allontanò dalla stretta strada e ne imboccò una ancora più piccola,
sterrata. Le nuove vibrazioni svegliarono chiunque fosse stato così fortunato, o
esausto, da addormentarsi. E diedero il segnale alle uniformi nere: uomini e
donne si raddrizzarono, rivolgendo l’attenzione al parabrezza.
Per prima cosa vidi l’alta recinzione. Il cielo, di un grigio sempre più scuro,
copriva di un blu profondo e rabbioso ogni cosa, tranne la recinzione, che
brillava d’argento mentre il vento fischiava tra gli spiragli. Appena al di sotto del
mio finestrino c’erano decine di uomini e donne in uniforme, che facevano da
scorta all’autobus correndo veloci. I soldati FSP nel gabbiotto al cancello si
alzarono e rivolsero un saluto militare al passaggio dell’autista.
L’autobus si fermò con uno scossone, e fummo costretti a rimanere immobili
come cadaveri mentre i cancelli dell’accampamento si serravano alle nostre
spalle. I lucchetti, richiudendosi, schioccarono come tuoni nel silenzio. Non
eravamo il primo autobus ad attraversarli; quello era arrivato un anno addietro.
Non eravamo nemmeno l’ultimo. Quello sarebbe arrivato tre anni dopo, quando
l’accampamento avrebbe raggiunto la popolazione massima.
Ci fu un unico respiro immobile prima che un soldato con un impermeabile
nero battesse alla porta dell’autobus. L’autista si sporse e tirò una leva, mettendo
fine alla speranza di tutti noi che quella fosse una fermata temporanea.
Era un uomo enorme, del tipo che ci si aspetterebbe di vedere nei panni del
gigante malvagio in un film, o del cattivo in un cartone animato. Il FSP tenne su
il cappuccio, nascondendo il viso e i capelli e ogni dettaglio che permettesse di
riconoscerlo in un secondo tempo. Credo che non avesse importanza. Non
parlava a proprio nome, parlava a nome dell’accampamento.
«Alzatevi e uscite dall’autobus in una fila ordinata», urlò. L’autista tentò di
mettergli in mano un microfono, ma il soldato lo allontanò con un gesto.
«Verrete divisi in gruppi di dieci, e sottoposti a un test. Non provate a fuggire.
Non parlate. Non fate altro che ciò che vi viene richiesto. Se non seguirete
queste istruzioni sarete puniti.»
Con i miei dieci anni, ero tra i più giovani su quell’autobus, anche se di sicuro
c’era qualcuno di ancora più giovane. La maggior parte sembrava avere dodici,
tredici anni. L’odio e il sospetto che bruciavano negli occhi dei soldati mi
facevano accartocciare su me stessa, ma nei ragazzi più grandi scatenavano la
ribellione.
«Vai a quel paese!» urlò qualcuno dal fondo dell’autobus.
Ci girammo tutti nello stesso momento, appena in tempo per vedere la donna
dai capelli rosso fuoco colpire la bocca del ragazzino con il calcio del fucile. Lui
lanciò un grido di dolore e di sorpresa quando la soldatessa lo colpì nuovamente
e, al suo secondo, rabbioso respiro, vidi uno spruzzo di sangue esplodergli dalla
bocca. Con le mani dietro la schiena, non aveva modo di bloccare l’attacco. Non
poteva far altro che subire.
Cominciarono a farci scendere, quattro alla volta. Ma io continuavo a
guardare quel bambino, e il modo in cui sembrava oscurare l’aria intorno a sé
con una furia tossica e silenziosa. Non so se si fosse accorto che lo fissavo, ma si
girò a guardarmi. Mi fece un cenno con la testa, come un incoraggiamento. E,
quando mi sorrise, mise in mostra la bocca piena di denti sanguinolenti. Mi
sentii sollevare dal sedile e, quasi prima di rendermi conto di cosa stesse
succedendo, stavo scivolando lungo la scaletta umida dell’autobus e
inciampando verso la pioggia battente. Un altro soldato FSP mi sollevò da terra e
mi indirizzò verso altre due ragazzine più o meno della mia età. I vestiti
pendevano loro addosso come pelle vecchia, cascante e semitrasparente.
C’erano quasi venti FSP intorno alla piccola fila ordinata di bambini. I miei
piedi erano completamente affondati nel fango. Iniziai a tremare nel mio pigiama
leggero, ma nessuno se ne accorse e nessuno venne a tagliare il laccio di plastica
che ci stringeva le mani. Restammo in attesa, in silenzio, con le lingue strette tra
i denti. Alzai lo sguardo verso le nubi, con il viso esposto alla pioggia battente.
Sembrava che il cielo stesse cadendo, un pezzo dopo l’altro.
I soldati stavano portando fuori a forza l’ultimo gruppo di quattro, lasciandoli
cadere a terra, compreso il ragazzino ferito al volto. Era l’ultimo, un passo dietro
a una ragazza alta e bionda dallo sguardo vacuo. A malapena li distinguevo tra i
rovesci di pioggia e i finestrini appannati, ma ero sicura di aver visto il ragazzino
chinarsi e sussurrarle qualcosa all’orecchio mentre lei posava il piede sul primo
gradino della discesa. La ragazza fece un secco cenno di assenso. Appena sfiorò
il fango con la punta degli stivali, si lanciò sulla destra, evitando per un soffio le
mani del soldato FSP più vicino. Uno dei soldati FSP abbaiò un terrificante:
«Altolà!» ma lei continuò a correre, dritta verso i cancelli. Poiché tutti erano
concentrati su di lei, nessuno degnò di uno sguardo il ragazzino rimasto
sull’autobus; nessuno tranne me.
Scese i gradini con circospezione. La sua felpa bianca con il cappuccio era
coperta di macchie di sangue. La FSP che poco prima lo aveva colpito lo stava
aiutando a scendere, come aveva fatto con tutti noi. La osservai stringere le dita
sul gomito del ragazzino e sentii l’eco della sua stretta sulla mia pelle livida;
osservai il ragazzino voltarsi verso di lei e dirle qualcosa con espressione
perfettamente calma.
Osservai la FSP lasciare la presa, estrarre la pistola dal fodero e, senza dire
una parola – senza battere ciglio – infilarsi la canna della pistola in bocca e
premere il grilletto.
Non so se fui io a urlare, o se quel suono strozzato provenisse dalla donna che
si era accorta di cosa stesse facendo quando ormai era troppo tardi per fermarsi.
L’immagine del suo viso – la mascella spalancata, gli occhi fuori dalle orbite, il
tremito della pelle ormai flaccida – rimase impressa a fuoco nell’aria, come un
negativo fotografico, ben più a lungo dello spruzzo di nebbia rosata di sangue e
ciocche di capelli che si stampò sulla fiancata dell’autobus.
Il bambino accanto a me svenne, e tutti ci mettemmo a urlare.
La FSP cadde a terra nello stesso momento in cui la ragazza in fuga venne
spinta nel fango. La pioggia lavò via il sangue della donna dai finestrini e dalla
fiancata, creando strisce scure e gonfie, e allungandole fino a farle scomparire.
Accadde molto in fretta.
Il ragazzino guardava solo noi. «Correte!» urlò, tra i denti rotti. «Cosa fate lì
impalati? Scappate, scappate!»
Il primo pensiero a passarmi per la testa non fu: Ma tu cosa sei? E nemmeno:
Perché?
Fu: Ma non ho un altro posto dove andare.
Il ragazzino aveva causato un panico tale che sembrava avesse fatto esplodere
l’autobus. Alcuni gli diedero retta e tentarono di correre verso la recinzione, ma
trovarono la strada sbarrata da una fila di soldati in nero che sembravano essere
sbucati dal nulla. La maggior parte, però, rimase immobile e continuò a urlare e
urlare e urlare, mentre la pioggia non smetteva di cadere e il fango risucchiava i
loro piedi. Una ragazza mi spinse a terra con una spallata mentre gli altri FSP si
lanciarono sul ragazzino, ancora in piedi all’ingresso dell’autobus. Gli altri
soldati ci urlavano di sederci a terra, di rimanere fermi dov’eravamo. Feci
esattamente ciò che dicevano.
«Arancione!» sentii uno di loro strillare nel walkie-talkie. «Abbiamo
un’emergenza al cancello principale. Bisogna immobilizzare un Arancione…»
Fu solo dopo che ci ebbero radunati tutti ed ebbero spinto a terra il ragazzino
con la faccia tumefatta che osai alzare lo sguardo. E che cominciai a
domandarmi, tra i brividi di terrore che mi percorrevano la schiena, se fosse
l’unico in grado di fare qualcosa del genere. O se tutti gli altri, intorno a me, si
trovassero lì perché erano in grado di costringere la gente a farsi del male in quel
modo.
Io no – le parole mi esplodevano in testa – io no, hanno fatto un errore, un
errore.
Con un senso di vuoto al centro del petto, continuai a guardare, mentre uno
dei soldati prese una bomboletta di vernice e dipinse una enorme arancione
X

sulla schiena del ragazzino, il quale aveva smesso di urlare solo perché due FSP
gli avevano messo una strana maschera nera sulla parte bassa del viso, come una
museruola.
La tensione mi colava sulla pelle sotto forma di gocce di sudore. Ci fecero
marciare in fila attraverso il campo, per essere smistati in infermeria.
Camminando, vedemmo altri bambini, provenienti da una fila di patetiche
baracche di legno, procedere in direzioni opposte. Tutti indossavano uniformi
bianche con una grossa colorata sulla schiena e un numero scritto in nero al di
X

sopra. Vidi cinque colori in totale: verde, blu, giallo, arancione e rosso.
I bambini con le verdi e blu potevano camminare in libertà, con le mani
X

slegate. Quelli con una gialla, arancione o rossa erano costretti a farsi strada a
X

forza nel fango con le mani e i piedi chiusi in manette di metallo, legati in fila da
una lunga catena. Quelli con le arancioni avevano maschere simili a museruole.
X

Ci spinsero frettolosamente sotto le luci abbaglianti e l’aria asciutta di quella


che un cartello strappato indicava come . Dottori e infermieri riempivano il
INFERMERIA

corridoio su due lati, e scuotevano la testa. Il pavimento a scacchi diventò


scivoloso per la pioggia e il fango, e dovetti concentrarmi per non cadere. Avevo
le narici piene dell’odore di disinfettante e limone industriale.
In fila indiana arrivammo a una scala di cemento scuro sul retro del primo
piano, che era pieno di letti vuoti e tende bianche flosce. Non un’Arancione. Non
una Rossa.
Mi si annodò lo stomaco. Non riuscivo a togliermi dalla mente il viso di
quella donna, nell’istante in cui aveva premuto il grilletto, né la massa dei suoi
capelli insanguinati caduti vicino ai miei piedi. Non riuscivo a togliermi dalla
mente l’espressione di mia madre, quando mi aveva chiusa a chiave in garage.
Non riuscivo a togliermi dalla mente il viso di mia nonna.
Arriverà, pensavo. Arriverà. Sistemerà mamma e papà e verrà a prendermi.
Arriverà, arriverà, arriverà…
Al piano di sopra, finalmente ci liberarono le mani e ci divisero di nuovo, poi
spedirono metà di noi a un capo del corridoio gelato e metà all’altro. I lati
sembravano identici: nient’altro che un paio di porte chiuse e una finestrella in
fondo. Per un attimo, non feci che fissare la pioggia bombardare la minuscola
lastra di vetro appannato. Poi, la porta a sinistra si aprì con un cupo cigolio,
facendo comparire il viso di un uomo paffuto, di mezza età. Ci rivolse un rapido
sguardo e poi sussurrò qualcosa al FSP che conduceva il gruppo. Una per una, si
aprirono anche le altre porte, e comparvero altri adulti. L’unica cosa che avevano
in comune, oltre ai camici bianchi, era lo sguardo sospettoso.
Senza una parola di spiegazione, il FSP iniziò a strattonare i bambini verso i
camici bianchi e i rispettivi uffici. Lo scoppio di lamentele confuse che proruppe
dal gruppo venne zittito da un penetrante squillo di sirena. Mi sedetti sui talloni,
guardando le porte richiudersi una a una e domandandomi se avrei mai rivisto
qualcuno di quei bambini.
Cosa abbiamo di sbagliato? Mi sembrava di avere la testa piena di sabbia, e
mi guardai alle spalle. Non vedevo da nessuna parte il ragazzo con il viso
contuso, ma il ricordo mi aveva inseguita attraverso tutto il campo. Ci avevano
forse portati lì perché pensavano che avessimo la malattia di Everhart?
Pensavano che stessimo per morire?
Come aveva fatto quel ragazzino a costringere la FSP a fare ciò che aveva
fatto? Cosa le aveva detto?
Mentre me ne stavo lì ferma, tremando così tanto che mi facevano male le
ossa, sentii una mano infilarsi tra le mie. La ragazza – la stessa che mi aveva
spinta nel fango, fuori – mi rivolse un’occhiata tagliente. I capelli biondo scuro
le stavano appiccicati al viso, incorniciando una cicatrice rosa acceso che si
curvava tra il naso e la bocca. Aveva occhi scuri fiammeggianti, e quando parlò
vidi che le avevano tagliato il filo d’acciaio dell’apparecchio, lasciando però le
placche incollate ai denti davanti.
«Non aver paura», mi sussurrò. «Non farlo vedere.»
L’etichetta scritta a mano sul risvolto della sua giacca diceva . Le
SAMANTHA DAHL

stava attaccata alla nuca come un ripensamento.


Rimanemmo spalla contro spalla, abbastanza vicine da nascondere le nostre
dita intrecciate sotto la stoffa dei miei pantaloni del pigiama e del suo piumino
viola. L’avevano prelevata mentre andava a scuola, la stessa mattina in cui erano
venuti a prendere me. Era passato un giorno intero, ma mi ricordavo di aver visto
i suoi occhi scuri brillare d’odio, nel retro dell’autobus, quando ci avevano chiusi
dentro. Non aveva urlato, a differenza degli altri.
I bambini che erano scomparsi dietro le porte poco prima cominciarono a
riemergerne, stringendo tra le mani felpe e pantaloncini grigi. Invece di
rimettersi in fila con noi, venivano accompagnati di sotto prima che a qualcuno
venisse in mente di aprire bocca o dare una sbirciatina.
Non sembrano feriti. Sentivo odore di pennarelli indelebili e qualcos’altro che
poteva essere alcol etilico, ma nessuno sanguinava né piangeva.
Quando finalmente arrivò il turno della ragazza, il soldato FSP all’inizio della
fila ci separò con un violento strattone. Volevo andare con lei, affrontare insieme
qualsiasi cosa si celasse dietro la porta chiusa. Qualsiasi cosa sarebbe stata
meglio di ritrovarmi da sola senza niente e nessuno a cui ancorarmi.
Le mani mi tremavano così tanto che dovetti incrociare le braccia e afferrarmi
i gomiti per farle smettere. Rimasi in piedi all’inizio della fila, a fissare le
piastrelle bianche e nere tirate a lucido tra gli stivali neri del FSP e i miei piedi
coperti di fango. Ero stanca morta perché non avevo dormito la notte precedente,
e l’odore del lucido da scarpe del soldato mi annebbiava il cervello.
Poi mi chiamarono.
Mi trovai in un ufficio poco illuminato, grande la metà della mia camera da
letto di casa, senza alcun ricordo di come ci ero entrata.
«Nome?»
Rimasi a fissare la brandina e lo strano macchinario grigio e allungato che vi
era appeso sopra.
Da dietro al computer portatile sul tavolo comparve il viso dell’uomo in
camice bianco. Aveva un aspetto fragile, e gli occhiali dalla sottile montatura
argentata sembravano sul punto di scivolargli giù dal naso a ogni suo rapido
movimento. Aveva una voce troppo acuta, quasi innaturale, tanto che sembrava
squittire anziché parlare. Mi appoggiai con la schiena contro la porta chiusa,
tentando di allontanarmi da quell’estraneo e dal macchinario.
L’uomo in camice bianco seguì il mio sguardo fino alla brandina. «Quello è
uno scanner. Non c’è niente da temere.»
Evidentemente non sembravo convinta, perché aggiunse: «Non hai mai subito
fratture o battuto la testa? Sai cos’è una TAC?»
Fu il tono paziente della sua voce a farmi avanzare di un passo.
Feci cenno di no.
«Tra un minuto ti farò sdraiare, e userò questa macchina per controllare che
sia tutto a posto nella tua testa. Ma per prima cosa devi dirmi il tuo nome.»
Controllare che sia tutto a posto nella tua testa. Come faceva a sapere…?
«Il tuo nome», ripeté, il tono improvvisamente tagliente.
«Ruby», risposi, e dovetti sillabare il mio cognome.
Si mise a scrivere al computer, distraendosi per un attimo.
Riportai lo sguardo sulla macchina, chiedendomi quanto potesse far male
un’ispezione all’interno della mia testa. Chiedendomi se quell’uomo potesse in
qualche modo vedere ciò che avevo fatto.
«Maledizione, si stanno impigrendo», borbottò l’uomo in camice bianco, più a
se stesso che a me. «Non ti hanno preclassificata?»
Non avevo idea di cosa stesse dicendo.
«Quando sono venuti a prenderti ti hanno fatto delle domande?» chiese,
alzandosi in piedi. La stanza non era certo spaziosa. Con due soli passi fu al mio
fianco, e con due soli battiti del cuore fui presa dal panico.
«I tuoi genitori hanno elencato i tuoi sintomi ai soldati?»
«Sintomi?» riuscii a tirare fuori. «Io non ho nessun sintomo… non ho la…»
Scosse la testa, piuttosto seccato. «Calmati; sei al sicuro, qui. Non ti farò del
male.»
Continuò a parlare con voce piatta e un luccichio negli occhi. Sembravano
frasi ripetute mille volte.
«Ci sono molti tipi diversi di sintomi», spiegò, chinandosi per guardarmi negli
occhi. Non vedevo altro che i suoi denti storti e le occhiaie scure. Il suo alito
sapeva di caffè e menta. «Molti tipi diversi di… bambini. Farò delle fotografie al
tuo cervello, e questo ci aiuterà a metterti insieme a quelli che sono simili a te.»
«Non ho sintomi!» esclamai. «La nonna sta arrivando, davvero, lo giuro,
glielo dirà anche lei, la prego!»
«Dimmi, tesoro, sei particolarmente brava in matematica e con i puzzle? I
Verdi sono incredibilmente intelligenti e hanno una memoria spettacolare.»
La mia mente tornò in un balzo ai bambini là fuori, con le grosse colorate sul
X

retro delle magliette. Verde, pensai. Quali erano gli altri colori? Rosso, Blu,
Giallo, e…
E Arancione. Come il ragazzino dalla bocca insanguinata.
«D’accordo», disse l’uomo, facendo un gran sospiro. «Sdraiati sulla brandina,
e cominciamo. Subito, per favore.»
Non mi mossi. I pensieri mi si affollavano in testa troppo velocemente.
Faticavo persino a guardarlo in faccia.
«Subito», ripeté, avvicinandosi alla macchina. «Non costringermi a chiamare
uno dei soldati. Non saranno certo gentili come me, credimi.»
Sul pannello laterale, uno schermo si accese al primo tocco, e presto l’intera
macchina si illuminò. Al centro del cerchio grigio c’era una luce bianca e
brillante, che lampeggiava caricandosi per il test successivo. Emetteva aria calda
a scatti, con rumore lamentoso, e sembrava pizzicarmi ogni poro della pelle.
Non riuscivo a pensare ad altro che: Lo scoprirà… scoprirà cos’ho fatto.
Avevo la schiena di nuovo appoggiata contro la porta, e con la mano cercavo
la maniglia, alla cieca. Ogni singola predica di mio padre sul non dare retta agli
estranei sembrava diventare realtà. Quello non era un posto sicuro, e quell’uomo
non era un tipo per bene.
Tremavo così tanto che doveva aver pensato che stessi per svenire. Oppure
che gli sarebbe toccato stendermi a forza e tenermi ferma fino a che la macchina
si fosse abbassata e richiusa su di me. Non ero pronta a scappare prima, ma lo
ero in quel momento. Strinsi le dita sulla maniglia, e nello stesso istante sentii la
sua mano spingersi nella mia massa di capelli disordinati e afferrarmi la nuca. Lo
shock delle sue mani gelide sulla mia pelle accaldata mi fece sobbalzare, ma fu
l’esplosione di dolore alla base del cranio che mi fece urlare.
Mi fissò, senza battere le palpebre, con occhi improvvisamente vacui.
Ma io vedevo ogni cosa, cose impossibili. Mani che tamburellavano sul
volante di un’auto, una donna in abito nero che si chinava a baciarmi, una palla
da baseball che volava verso il mio viso nel mezzo di un campo, un prato verde
che sembrava estendersi all’infinito, una mano che scivolava tra i capelli di una
bambina… Le immagini scorrevano dietro ai miei occhi chiusi come un vecchio
filmino amatoriale. Le forme di persone e oggetti si imprimevano a fuoco nelle
mie retine e vi rimanevano, galleggiando sulle palpebre come fantasmi affamati.
Non sono mie, strillava la mia mente. Queste immagini non appartengono a
me!
Ma come potevano appartenere a lui? Ogni immagine… erano forse ricordi?
Pensieri?
Poi vidi altro. Un ragazzo, sotto la stessa macchina scanner che lampeggiava e
fumava. Giallo. Sentii le mie labbra formare le parole, come se fossi stata io a
pronunciarle. Vidi una bambina piccola, dai capelli rossi, all’altro lato di una
stanza molto simile a questa; la vidi alzare un dito, e la tavola e il computer
davanti a lei si alzarono da terra di diversi centimetri. Blu… di nuovo, la voce
dell’uomo nella mia testa. Un bambino che teneva una matita tra le mani e la
osservava con intensità terrificante; la matita scoppiò in fiamme. Rosso. Un viso
di bambino, a cui venivano mostrate carte con disegni e numeri. Verde.
Chiusi gli occhi e li strinsi, ma non riuscii a sottrarmi alle immagini che
seguirono: le fila di mostri in marcia, i visi coperti da una museruola.
Mi trovavo in alto, a osservare da dietro un vetro coperto di pioggia, ma vidi
le manette e le catene. Vidi ogni cosa.
Non sono una di loro. Per favore, per favore, per favore…
Scivolai a terra, cadendo in ginocchio, appoggiando le mani sulle piastrelle e
tentando di non vomitare su me stessa e sul pavimento.
L’uomo in camice bianco mi stringeva ancora le mani sul collo. «Sono
Verde», singhiozzai, e le parole quasi si persero nel ronzio della macchina.
La luce mi era sembrata abbagliante già prima, ma in quel momento
amplificava il dolore pulsante dietro ai miei occhi. Fissai lo sguardo vacuo
dell’uomo, desiderando che mi credesse. «Sono Verde… ti prego, ti prego…»
Ma vidi il viso di mia madre, il sorriso che il ragazzino con la bocca spaccata
mi aveva rivolto, come se avesse riconosciuto qualcosa di se stesso in me.
Sapeva cos’ero.
«Verde…»
Alzai gli occhi al suono della voce che discese galleggiando su di me. Lo
fissai, e lui mi restituì lo sguardo con occhi ancora vacui. Stava mormorando
qualcosa, con la bocca piena di poltiglia, come se stesse masticando le parole.
«Sono…»
«Verde», disse, scuotendo la testa. La sua voce sembrava più solida. Andò a
spegnere la macchina e si sedette, mentre io rimasi sul pavimento, ancora
talmente scioccata che mi dimenticai persino di piangere. Ma fu solo quando
prese la bomboletta verde e mi fece una enorme sulla schiena dell’uniforme che
X

mi ricordai di ricominciare a respirare.


Andrà tutto bene, mi dissi, percorrendo il freddo corridoio e scendendo le
scale che mi avrebbero riportato dagli uomini e donne in uniforme che mi
attendevano di sotto. Fu solo quella notte che, non riuscendo a prendere sonno
nella mia brandina, mi resi conto che avevo avuto una sola possibilità di fuggire,
e non l’avevo colta.
3

SAMANTHA – Sam – e io fummo assegnate alla baracca 27, insieme alle altre ragazze
del nostro autobus classificate come Verdi. Quattordici in tutto, anche se il
giorno dopo ne arrivarono altre venti. Il record di trenta fu raggiunto una
settimana più tardi, e si iniziò a riempire la successiva casetta di legno lungo il
sentiero principale del campo, perennemente infangato e calpestato.
I posti nei letti a castello venivano assegnati in ordine alfabetico, perciò Sam
si trovò direttamente sopra di me: un piccolo gesto di pietà, dato che il resto
delle ragazze non erano affatto simili a lei. Avevano trascorso la prima notte in
silenzio stupefatto, o a singhiozzare. Io non avevo più tempo per le lacrime.
Avevo domande.
«Cosa ne faranno di noi?» le chiesi in un sussurro.
Il nostro letto a castello si trovava all’estremità sinistra della baracca,
incastrato nell’angolo. I muri erano stati assemblati con tale fretta che non erano
del tutto isolati. Di tanto in tanto filtrava uno spiffero di aria gelida o un fiocco di
neve dal silenzio all’esterno.
«Non so», rispose piano. Un paio di letti più in là, una delle ragazze aveva
finalmente ceduto all’oblio del sonno, e il suo russare aiutava a coprire la nostra
conversazione. Quando il soldato FSP ci aveva scortate alla nostra nuova
residenza, lo aveva fatto con diversi avvertimenti: non si deve parlare dopo che
si sono spente le luci, non ci si deve allontanare, non si devono usare strane
abilità. Fu la prima volta che sentii qualcuno parlare di ciò che potevamo fare
come di «strane abilità», invece dell’alternativa più educata «sintomi».
«Penso che ci terranno qui finché avranno trovato una cura», continuò Sam.
«Mio padre, almeno, ha detto così quando i soldati sono venuti a prendermi.
Cos’hanno detto i tuoi genitori?»
Le mie mani non avevano ancora smesso di tremare, e ogni volta che tentavo
di chiudere gli occhi non vedevo altro che lo sguardo vuoto dello scienziato fisso
nel mio. Nominare i miei genitori non fece altro che aumentare il dolore pulsante
nella mia testa.
Non so perché mentii. Era più facile, credo, della verità; o forse era solo
perché una parte della mia bugia era in effetti una verità. «I miei genitori sono
morti.»
Sam sospirò a fondo a denti stretti. «Vorrei che anche i miei lo fossero.»
«Non dici sul serio!»
«Sono loro che mi hanno mandata qui, non è così?» Il volume della sua voce
stava salendo in modo pericoloso. «È ovvio che volessero sbarazzarsi di me.»
«Non credo…» iniziai, ma mi fermai. Forse anche i miei avevano provato a
sbarazzarsi di me, dopotutto.
«Lascia stare, va bene così», disse, anche se era chiaro che non andasse bene,
e non sarebbe mai andato bene. «Rimarremo qui e ce ne staremo insieme; e,
quando usciremo, potremo andare dove vogliamo e nessuno ci potrà fermare.»
La mamma diceva sempre che a volte bastava dire una cosa ad alta voce per
farla diventare realtà. Io non ne ero così sicura, ma il modo in cui Sam lo disse, il
fuoco dietro le sue parole, mi fecero ricredere. Improvvisamente mi sembrò
possibile che andasse a finire proprio così, che se non fossi riuscita a tornare a
casa sarebbe comunque andato tutto bene se fossi rimasta insieme a lei. Era
come se, ovunque Sam andasse, aprisse un sentiero alle proprie spalle; non
dovevo far altro che starle dietro, fuori dal campo visivo delle FSP, e non fare
niente che potesse attirare la loro attenzione su di me.
Funzionò per cinque anni.
Cinque anni sembrano un’eternità quando ogni giorno è uguale al successivo,
e il tuo mondo non si estende oltre la grigia recinzione elettrificata che circonda
tre chilometri di edifici fatiscenti e fango. Non sono mai stata felice a Thurmond,
ma era sopportabile perché c’era Sam. Era accanto a me ad alzare gli occhi al
cielo quando Vanessa, una delle nostre compagne di stanza, aveva tentato di
tagliarsi i capelli con le cesoie per sembrare più «alla moda» («Per chi?» aveva
borbottato Sam. «Per il suo riflesso nello specchio del bagno?»); a fare una
smorfia sciocca, con gli occhi strabici, dietro le spalle del soldato FSP che le
faceva la predica per aver di nuovo aperto bocca senza essere stata interpellata; e
a riportare severamente – ma sempre con gentilezza – le ragazze con i piedi per
terra quando si facevano trascinare dall’immaginazione o quando si spargeva la
voce che le FSP ci avrebbero lasciate andare.
Sam e io eravamo realiste: sapevamo che non saremmo mai uscite. Sognare a
occhi aperti non avrebbe portato altro che delusione, e la delusione portava a
quella sorta di depressione che non era facile da scrollare via. Meglio rimanere
nel grigiore che farsi divorare dalle tenebre.

Dopo due anni di vita a Thurmond, la dirigenza del campo si mise al lavoro
sulla fabbrica. Non erano riusciti a riabilitare i più pericolosi, così li avevano
portati via nel cuore della notte, ma i cosiddetti «miglioramenti» non finirono lì.
Venne loro in mente che il campo doveva essere interamente «autosufficiente».
Da quel momento in avanti, avremmo coltivato e cucinato il nostro cibo, pulito i
bagni, cucito le nostre uniformi e persino le loro.
La struttura di mattoni si trovava all’estremità occidentale del campo, chiusa
in un angolo del perimetro rettangolare di Thurmond. Ci fecero scavare le
fondamenta della fabbrica, ma i dirigenti non si fidavano abbastanza da farcela
anche costruire. La osservammo crescere di un piano alla volta, domandandoci a
cosa servisse, e cosa ci avrebbero fatto fare al suo interno. In quel periodo, i
pettegolezzi svolazzavano nel campo come semi di dente di leone nel vento;
alcuni pensavano che gli scienziati stessero per tornare con altri esperimenti;
alcuni pensavano che il nuovo edificio avrebbe ospitato i Rossi, gli Arancioni e i
Gialli se e quando fossero ritornati; altri invece pensavano che lì ci avrebbero
fatto fuori, una volta per tutte.
«Andrà tutto bene», mi aveva detto Sam una notte, poco prima che si
spegnessero le luci. «Qualsiasi cosa accada… mi hai sentita?»
Ma non andava bene. Non andò bene allora, e non andava bene in quel
momento.
Non si poteva parlare nella fabbrica, ma c’erano modi di aggirare il divieto. In
realtà, l’unico momento in cui effettivamente avevamo il permesso di parlare era
nella nostra baracca, prima che si spegnessero le luci. In ogni altro posto, c’era
solo lavoro, obbedienza, silenzio. Ma non si può andare avanti per anni senza
sviluppare un altro tipo di linguaggio, fatto di sorrisetti astuti e rapidi sguardi.
Quel giorno, dovevamo lucidare e riallacciare gli stivali delle FSP, e stringere
i bottoni delle uniformi, ma un solo dondolio di un laccio nero slegato e
un’alzata delle sopracciglia erano più eloquenti di mille parole.
La fabbrica non era una vera fabbrica. Probabilmente, «magazzino» sarebbe
stato un nome più indicato, se non altro perché l’edificio era costituito da una
enorme sala con una passerella sospesa sul piano di lavoro. I costruttori avevano
avuto la buona idea di creare quattro grandi finestre sui muri a est e a ovest, ma
siccome non c’era riscaldamento in inverno né aria condizionata in estate,
lasciavano entrare più maltempo che luce solare.
I dirigenti del campo avevano privilegiato la semplicità; avevano installato file
e file di tavoli, nel senso della lunghezza, sul polveroso pavimento di pietra.
Eravamo in centinaia a lavorare nella fabbrica quella mattina, tutti in uniforme
Verde. Dieci FSP pattugliavano la passerella sopra di noi, ciascuno con un fucile
nero. Altri dieci erano con noi al piano terra.
Non era più inquietante del solito sentire il peso dei loro sguardi, provenienti
da ogni direzione. Ma non avevo dormito bene la notte prima, persino dopo una
giornata intera di lavoro nel giardino. Ero andata a letto con il mal di testa e mi
ero svegliata con una patina di nebbia febbricitante nel cervello, accompagnata
dal mal di gola. Persino le mie mani sembravano in letargo, e avevo le dita rigide
come matite.
Sapevo di non riuscire a tenere il passo, ma era quasi come affogare. Più mi
davo da fare per tirare la testa fuori dall’acqua, più mi sentivo stanca e lenta.
Dopo un po’, persino rimanere in piedi era uno sforzo troppo grande, e dovetti
appoggiarmi al tavolo per evitare di cascarci dentro a capofitto. La maggior parte
dei giorni, me la cavavo tenendo un ritmo da lumaca. Non che ci facessero fare
dei lavori di grande importanza, o che avessimo delle scadenze di consegna. I
compiti che ci venivano assegnati erano faccende inutili, per tenere le mani in
movimento, il corpo impegnato e la mente soffocata dalla noia. Sam lo chiamava
«ricreazione forzata»: ci facevano uscire dalle baracche, e il lavoro non era
difficile o stancante come nel giardino, ma nessuno lo voleva fare.
Specialmente quando nel parco giochi arrivavano i bulli.
Mi accorsi che era alle mie spalle molto prima di sentirlo iniziare a contare le
scarpe che avevo finito di lucidare, in fila davanti a me. Odorava di carne
speziata e olio per auto, che era già una combinazione preoccupante prima
ancora che si aggiungesse una zaffata di fumo di sigaretta. Tentai di raddrizzare
la schiena sotto il peso del suo sguardo, ma sembrava che avesse stretto i pugni e
affondato le nocche tra le mie scapole.
«Quindici, sedici, diciassette…» Come faceva a far sembrare anche i numeri
così taglienti? A Thurmond non potevamo nemmeno sfiorarci, ed era
severamente vietato toccare uno delle FSP, ma ciò non significava che loro non
potessero toccare noi. L’uomo fece due passi avanti; i suoi stivali – identici a
quelli sul tavolo – sfiorarono il retro dei miei mocassini bianchi d’ordinanza.
Dato che non rispondevo, infilò un braccio oltre la mia spalla con la scusa di
voler controllare il lavoro che avevo svolto, e mi strinse a sé. Rimpicciolisciti,
dissi a me stessa, accartocciando la spina dorsale e abbassando il viso verso il
lavoro, rimpicciolisciti e sparisci.
«Imbranata», sentii bofonchiare il soldato FSP dietro di me. Il suo corpo
emanava abbastanza calore da riscaldare l’intero edificio. «Stai facendo un gran
pasticcio. Guarda, fai attenzione, ragazzina!»
Azzardai il primo sguardo nella sua direzione proprio quando mi strappò di
mano lo straccio macchiato di lucido da scarpe e si spostò al mio fianco. Era
basso, solo qualche centimetro più alto di me, e aveva un naso a patata e guance
che sembravano afflosciarsi a ogni respiro.
«Così», diceva, sfregando lo stivale che aveva in mano. «Guardami!»
Un trucco. Non avevamo nemmeno il permesso di guardarli negli occhi.
Udii delle risatine intorno a me: non dalle altre ragazze, ma dai soldati FSP
che gli si erano radunati intorno.
Mi sentii ribollire, dentro e fuori. Era dicembre, e nella fabbrica non potevano
esserci più di dieci gradi, ma gocce di sudore mi rigavano le guance e una tosse
dura, graffiante, mi si formò nella gola.
Sentii un tocco leggero sul fianco. Sam non poteva alzare lo sguardo dal suo
lavoro, ma vidi i suoi occhi scivolare verso di me, per valutare la situazione.
Un’onda di rosso furibondo si stava facendo strada dalla sua gola al viso, e
potevo solo immaginare le parole che tentava di trattenere. Il suo gomito ossuto
sfiorò ancora una volta il mio, come a ricordarmi che si trovava lì. Poi, con una
lentezza esasperante, il soldato FSP tornò dietro di me, sfiorandomi la spalla e il
braccio e depositando delicatamente lo stivale sul tavolo di fronte a me.
«Questi stivali», disse con voce bassa e avvolgente, toccando il cesto di
plastica che conteneva tutti gli stivali che avevo già pulito, «li hai allacciati tu?»
Se non avessi saputo che tipo di punizione seguiva al pianto, sarei scoppiata in
lacrime. Più rimanevo lì ferma, più mi sentivo stupida e umiliata, ma non
riuscivo a dire niente. Non riuscivo a muovermi. La mia lingua era raddoppiata
di volume dietro ai denti stretti. I pensieri che mi ronzavano in testa erano
sbiaditi, coperti da una strana coltre lattiginosa. Mettevo a malapena a fuoco ciò
che vedevo, ormai.
Altre risate, dietro di noi.
«I lacci sono tutti storti.» Con l’altro braccio mi strinse il fianco sinistro, fino
a che ogni centimetro del suo corpo aderì al mio. Qualcosa di nuovo mi salì in
gola, e aveva un forte sapore acido.
I tavoli intorno a noi divennero immobili, sprofondati nel silenzio.
Il mio silenzio non fece che istigarlo. Senza preavviso, afferrò il cesto di
stivali e lo rovesciò, sparpagliando decine di scarpe lungo tutto il tavolo e
facendo un gran baccano. L’intera fabbrica ci stava guardando. Tutti mi videro,
come sotto ai riflettori.
«Sbagliati, sbagliati, sbagliati, sbagliati, sbagliati!» cantilenò, scalciando gli
stivali. Ma non lo erano. Erano perfetti. Erano solo stivali, ma sapevo a quali
piedi erano destinati. Sapevo bene di non poter sbagliare. «Sei sorda oltre che
muta, Verde?»
E poi, chiaro come il sole e con un rombo di tuono, sentii Sam dire: «Quello
era il mio cesto».
E il mio unico pensiero fu: No. Oh no.
Sentii il soldato FSP spostarsi alle mie spalle, arretrare sorpreso. Facevano
sempre così: si stupivano che ci ricordassimo come usare le parole, e che le
usassimo contro di loro.
«Cos’hai detto?» ringhiò.
Vidi l’insulto salirle alle labbra. Lo stava rigirando sulla lingua come una
caramella al limone. «Mi hai sentito. Oppure sniffare tutto quel lucido da scarpe
ha fatto fuori quei pochi inutili neuroni che ti erano rimasti?»
Quando Sam mi guardò, sapevo già cosa volesse. Sapevo cosa stesse
aspettando. Era la stessa cosa che aveva dato a me: sostegno.
Feci un passo indietro, mettendomi a braccia conserte. Non farlo, mi dissi, non
farlo. Può cavarsela da sola. Sam non aveva niente da nascondere, ed era
coraggiosa, ma ogni volta che faceva così, ogni volta che mi difendeva mentre io
mi nascondevo per la paura, mi sembrava di tradirla. Se avessero controllato la
mia cartella, se avessero individuato e riempito gli spazi vuoti, nemmeno la
peggior punizione di Sam sarebbe stata paragonabile a quella in serbo per me.
Quello era ciò che mi ripetevo, in ogni caso.
L’uomo fece un ghigno derisorio. «Ne abbiamo trovata una vivace.»
Su, dai, Ruby. Si vedeva nella posizione della sua testa e nella tensione delle
spalle. Non capiva cosa mi sarebbe successo. Non ero coraggiosa quanto lei.
Ma avrei voluto esserlo, lo avrei voluto tanto.
Non posso. Non dovetti nemmeno dirlo ad alta voce. Lo lesse facilmente sul
mio viso. Vidi la comprensione passare nei suoi occhi prima ancora che il
soldato facesse un passo avanti, afferrandola per il braccio e strattonandola
lontano dal tavolo e da me.
Voltati, implorai. La sua coda bionda ondeggiava a ogni passo, sbucando oltre
le spalle del soldato FSP che la scortava all’esterno. Voltati. Volevo che vedesse
quanto fossi dispiaciuta, che capisse che la stretta al mio petto e la nausea non
avevano niente a che vedere con la febbre. Ogni singolo pensiero disperato che
mi passava per la testa mi riempiva di disgusto. Gli occhi che si erano fissati su
di me si alzarono due a due, e il soldato non si degnò di tornare a concludere il
suo speciale tormento. Non era rimasto nessuno a guardarmi piangere; avevo
imparato a farlo silenziosamente, senza scenate, anni addietro. Non avevano
ragione di degnarmi nemmeno di uno sguardo. Ero tornata a nascondermi
nell’ombra lasciata da Sam.
La punizione per quando si parlava senza essere stati interpellati era una
giornata in isolamento, ammanettati a uno dei pali nel giardino con qualsiasi
temperatura o condizione meteorologica. Avevo visto bambini seduti su mucchi
di neve, blu in viso, senza nemmeno una coperta per ripararsi. Ne avevo visti
ancora di più bruciati dal sole, coperti di fango, o impegnati a grattare le punture
degli insetti con l’unica mano libera.
Non mi stupiva che la punizione per aver risposto a un soldato FSP o a un
dirigente fosse la stessa, ma in quell’ultimo caso senza cibo e a volte persino
senz’acqua.
La punizione per la recidiva era qualcosa di così terribile che Sam non volle o
non poté parlarne quando, due giorni dopo, finalmente tornò alla nostra baracca.
Entrò zuppa di pioggia e con i brividi per il freddo, e sembrava non aver dormito
più di quanto avessi fatto io. Prima che fosse arrivata a metà strada, scivolai giù
dalla branda e corsi al suo fianco.
Infilai la mano sotto il suo braccio ma lei si ritrasse, stringendo i denti in un
modo che la fece sembrare inferocita. Il naso e le guance erano paonazzi per il
freddo, ma non aveva lividi né ferite. Non aveva gli occhi gonfi di pianto, a
differenza di me. Zoppicava leggermente a ogni passo, forse, ma se non avessi
saputo cos’era successo avrei pensato solo che stesse rientrando da un
pomeriggio particolarmente faticoso nel giardino.
«Sam», dissi detestando il tremito nella mia voce. Non si fermò né si degnò di
rivolgermi uno sguardo finché fummo vicino ai nostri letti a castello e lei ebbe
stretto un pugno sulle coperte, pronta a issarsi sul letto di sopra.
«Di’ qualcosa, ti prego.»
«Sei rimasta lì.» La sua voce era bassa e roca, come se non l’avesse usata da
giorni.
«Non avresti dovuto…»
Abbassò il mento sul petto. La massa arruffata dei suoi lunghi capelli le scese
sulle spalle e sulle guance, nascondendo la sua espressione. Sentii in quel
momento che la presa che avevo avuto su di lei era improvvisamente saltata.
Ebbi la stranissima sensazione di galleggiare, di allontanarmi sempre di più
senza potermi aggrappare a niente e a nessuno. Ero a fianco a lei, ma la distanza
tra noi si era trasformata in un canyon che non potevo più attraversare con un
balzo.
«Hai ragione», disse Sam alla fine, «non avrei dovuto.» Fece un respiro
spezzato dai brividi. «Ma allora, cosa sarebbe successo a te? Te ne saresti
rimasta lì e glielo avresti lasciato fare e non avresti mosso un dito per
difenderti.»
Poi alzò lo sguardo su di me, e io desiderai solo che lo allontanasse di nuovo. I
suoi occhi erano furenti e più scuri di quanto li avessi mai visti.
«Ti possono dire cose orribili, farti del male, ma tu non rispondi mai; e lo so,
Ruby, lo so, sei fatta così, ma a volte mi chiedo se ti importa qualcosa. Perché
non puoi mai farti valere, nemmeno una volta?»
La sua voce era praticamente un sussurro, ma il tono così roco mi fece pensare
che fosse sul punto di strillare o scoppiare in lacrime isteriche. Abbassai lo
sguardo sulle sue mani, che tiravano il bordo dei pantaloncini e si muovevano
frenetiche e veloci al punto che quasi non avevo visto i segni rossi e infiammati
che le circondavano i polsi.
«Sam, Samantha…»
«Voglio…» deglutì a fatica. Le lacrime le rimasero impigliate nelle ciglia,
senza cadere. «Voglio rimanere sola ora. Almeno per un po’.»
Non avrei dovuto tendere la mano verso di lei in quel momento, non sotto il
peso della febbre e dello sfinimento. Non mentre tremavo per l’odio profondo
verso me stessa. Ma in quel momento pensai che se solo avessi potuto dirle la
verità, spiegarle, non mi avrebbe più guardata in quel modo. Avrebbe saputo che
l’ultima cosa – l’ultima cosa in assoluto – che volevo era vederla soffrire per
colpa mia. Era tutto ciò che avevo, lì dentro.
Ma nell’istante in cui le mie dita sfiorarono la sua spalla, il mondo scomparve
sotto di me. Sentii un fuoco partire dalla punta dei capelli e bruciarmi fino al
cranio. La febbre che pensavo di aver sconfitto improvvisamente dipinse il
mondo di un grigio sfocato. Vidi il viso inespressivo di Sam, ma poi sparì,
rimpiazzato da ricordi incandescenti che non mi appartenevano: una lavagna
bianca, a scuola, riempita di problemi di matematica; un golden retriever che
scavava nell’erba; il mondo che saliva e scendeva visto da un’altalena; le radici
delle verdure estirpate dal giardino; il muro di mattoni in fondo alla sala mensa
contro il mio viso mentre un altro pugno si abbatteva su di me, un assalto veloce
da ogni direzione, come una serie di flash di una fotocamera.
E quando finalmente tornai in me, ci stavamo ancora fissando. Per un
secondo, pensai di vedere il mio viso inorridito riflesso nei suoi occhi scuri e
lucidi. Sam non stava guardando me; non sembrava guardare nient’altro che la
polvere che galleggiava pigra e libera nell’aria alla mia destra. Conoscevo quello
sguardo vacuo.
L’avevo visto su mia madre anni prima.
«Sei nuova qui?» domandò, improvvisamente spaventata e sulla difensiva.
Fece scorrere gli occhi dal mio viso alle ginocchia ossute, e ritorno. Respirò
profondamente, come se fosse appena tornata in superficie dopo molto tempo
sotto acque oscure. «Almeno ce l’hai un nome?»
«Ruby», sussurrai. Fu l’ultima parola che pronunciai per quasi un anno.
4

M svegliai sentendo acqua gelida e la voce dolce di una donna.


I

«Va tutto bene», stava dicendo. «Vedrai che starai bene.» Non so chi credesse
di prendere in giro con la sua recita sdolcinata, ma di certo non me.
Lasciai che mi portasse di nuovo la salvietta bagnata al viso, assaporando il
suo calore quando si avvicinò a me. Profumava di rosmarino e di cose passate.
Per un secondo, uno solo, posò la mano sulla mia e fu quasi più di quanto potessi
sopportare.
Non ero a casa, e quella donna non era mia madre. Iniziai a boccheggiare, per
la disperazione di dovermi tenere tutto dentro. Non potevo piangere, non davanti
a lei né a nessun altro adulto. Non volevo dar loro la soddisfazione.
«Provi ancora dolore?»
L’unico motivo per cui aprii gli occhi fu che me li aprì lei, a forza. Uno alla
volta, puntando una luce intensa in ciascuno. Tentai di alzare le mani per
proteggerli, ma mi avevano legata con manette di velcro. Lottare era inutile.
La donna schioccò la lingua e fece un passo indietro, portando con sé il
profumo di fiori. L’odore di disinfettante e acqua ossigenata riempì l’aria, e capii
esattamente dove mi trovavo.
I suoni dell’infermeria di Thurmond crescevano e svanivano in ondate
diseguali. Un ragazzino piangeva dal dolore, stivali che sbattevano sulle
piastrelle bianche, il cigolio di una sedia a rotelle… mi sembrava di stare sopra a
un tunnel con l’orecchio premuto a terra, ad ascoltare il ronzio delle auto che
passavano sotto di me.
«Ruby?»
La donna indossava una tuta blu e un camice bianco. Con la pelle così pallida
e i capelli tanto biondi da sembrare bianchi, quasi scompariva contro la tenda
sottile che era stata tirata intorno al mio letto. Mi sorprese a fissarla e sorrise, un
sorriso ampio e attraente.
La donna era il dottore più giovane che avessi mai visto a Thurmond, anche se
devo ammettere di poter contare le mie visite all’infermeria sulle dita di una
mano. Ci finii una volta per un’influenza intestinale, disidratata dopo quello che
Sam aveva battezzato il mio Spettacolare Episodio di Vomito, e una volta per un
polso slogato. Entrambe le volte mi sentii molto peggio dopo essere stata
palpeggiata da mani rugose di quanto mi sentissi prima di andarci. Niente può
curare un raffreddore più velocemente del pensiero di un vecchio pervertito e
della sua acqua di colonia che puzza di alcol e di sapone per le mani al limone.
Questa donna era irreale. Ogni cosa di lei lo era.
«Sono la dottoressa Begbie. Sono una volontaria della Leda Corporation.»
Annuii, guardando lo stemma dorato a forma di cigno sul taschino del suo
camice.
Si avvicinò, chinandosi. «Siamo una grossa casa farmaceutica che fa ricerca e
manda i dottori a prendersi cura di voi nei campi. Se ti fa sentire più a tuo agio,
puoi benissimo chiamarmi Cate e lasciar perdere il ‘dottoressa’».
Come no. Rimasi a fissare la mano che aveva teso verso di me. Il silenzio
pesava tra noi, punteggiato dal dolore pulsante nella mia testa. Dopo un
momento di imbarazzo, la dottoressa Begbie rimise la mano nella tasca del
camice, ma non prima di averla lasciata indugiare sul laccio che fissava il mio
polso alle maniglie intorno al letto.
«Sai perché ti trovi qui, Ruby? Ricordi cos’è successo?»
Prima o dopo che la Torre ha tentato di friggermi il cervello? Ma non potevo
dirlo ad alta voce. Con gli adulti era meglio non parlare. Avevano l’abitudine di
sentire una cosa e capirne un’altra. Non c’era motivo di dar loro un ulteriore
pretesto per farti del male.
Erano passati otto mesi dall’ultima volta che avevo usato la voce. Non ero
nemmeno sicura di ricordarmi come fare.
La dottoressa in qualche modo intuì la domanda che stavo trattenendo a fatica.
«Hanno acceso il Controllo della Calma dopo che è scoppiata una lite in sala
mensa. Sembra che le cose siano… sfuggite di mano.»
Che eufemismo. Il Rumore Bianco – il Controllo della Calma, come lo
chiamavano i poteri forti – veniva usato per rimetterci in riga, per così dire,
mentre su di loro non aveva alcun effetto. Era come un fischietto per cani,
accordato perfettamente in modo che solo i nostri cervelli deformi potessero
percepirlo e analizzarlo.
Lo accendevano per un sacco di motivi, a volte cose minuscole come un
bambino che usava le proprie abilità per sbaglio, o per soffocare disordini in una
baracca. Ma, in entrambe le circostanze, avrebbero indirizzato il rumore solo
nell’edificio in cui si trovavano i ragazzini. Se lo usavano nell’intero campo,
sparandolo dagli altoparlanti per farlo sentire a tutti, le cose dovevano essere
davvero sfuggite di mano. Dovevano aver temuto che si trattasse di una scintilla
in grado di incendiare tutti noi.
Non c’era traccia di esitazione sul viso della dottoressa Begbie quando mi
slegò i polsi e le caviglie. La salvietta che aveva usato per pulirmi la faccia era
appesa al bordo del letto, e gocciolava a terra. La tela bianca era coperta di
macchie rosso acceso.
Alzai la mano a toccarmi la bocca, le guance, il naso.
Quando allontanai le dita, fui sorpresa solo in parte di vederle coperte di
sangue scuro. Era incrostato tra le mie narici e le labbra, come se qualcuno mi
avesse rifilato un gancio sul muso.
Tentare di mettermi a sedere fu l’idea peggiore che mi potesse saltare in
mente.
Il torace sembrò urlare dal dolore, e tornai sdraiata sulla schiena prima ancora
di rendermi conto di essere caduta. La dottoressa fu al mio fianco un istante
dopo, manovrando lo schienale del letto per mettermi in posizione seduta.
«Hai alcune costole incrinate.»
Provai a fare un respiro profondo, ma avevo il torace troppo contratto per
riuscire a inspirare qualcosa di più di un soffio strozzato. Lei non doveva
essersene accorta perché mi fissava di nuovo con quello sguardo gentile e
diceva: «Posso farti qualche domanda?»
Il fatto che mi chiedesse il permesso era stupefacente in sé e per sé. La
osservai, cercando l’odio sepolto sotto agli strati di gentilezza sul suo viso, la
paura nascosta negli occhi dolci, il disgusto impigliato nell’angolo del sorriso.
Niente. Nemmeno fastidio.
Un povero bambino iniziò a vomitare nel letto alla mia destra. Ne vedevo la
sagoma scura come un’ombra sulla tenda.
Non c’era nessuno a fargli compagnia o tenergli la mano. Solo lui e il suo
secchiello di vomito. E io me ne stavo lì, con il cuore che saltava i battiti per il
terrore che la principessa delle fiabe seduta accanto a me fosse sul punto di
sopprimermi come un cane rabbioso. Non sapeva cosa fossi veramente; non
poteva saperlo.
Ti stai facendo venire le paranoie, mi dissi. Datti una regolata.
La dottoressa Begbie estrasse una penna dallo chignon disordinato. «Ruby,
quando hanno acceso il Controllo della Calma, ti ricordi di essere caduta in
avanti e aver battuto la faccia?»
«No», risposi. «Ero… ero già a terra.» Non sapevo quanto rivelarle. Il sorriso
sul suo viso si allargò, e aveva qualcosa di… compiaciuto.
«Ti capita spesso di provare così tanto dolore e di sanguinare a causa del
Controllo della Calma?»
Improvvisamente, il dolore nel petto non ebbe più nulla a che fare con le
costole incrinate.
«Lo prendo come un no…»
Non vedevo cosa stesse scrivendo, solo che la mano e la penna volavano sulla
carta, scarabocchiando come se ne andasse della sua vita.
Pativo sempre il Rumore Bianco più delle mie compagne di stanza. Ma il
sangue? Mai.
La dottoressa canticchiava piano tra sé mentre scriveva, una canzone che
poteva essere dei Rolling Stones.
Sta con i dirigenti del campo, mi ricordai. È una di loro.
Ma… in un altro mondo, avrebbe potuto non esserlo. Anche se indossava la
tuta e il camice, non sembrava molto più grande di me. Aveva un viso giovane,
che probabilmente era un problema per lei nel mondo esterno.
Avevo sempre pensato che le persone nate prima della Generazione Mostro
fossero fortunate. Avevano vissuto senza la paura di cosa sarebbe accaduto loro
quando avessero attraversato il confine tra l’infanzia e l’adolescenza. Per quanto
ne sapevo, se avevi più di tredici anni quando avevano iniziato ad arrestare i
bambini, te ne stavi a casa libero, potevi evitarti la casella Campo dei Mostri nel
gioco dell’oca della vita e andartene dritto a Normalopoli. Ma guardando la
dottoressa Begbie, le profonde rughe di preoccupazione sul suo viso che nessuno
avrebbe dovuto avere al di sotto dei trent’anni, non ero più così sicura che
avessero scampato il pericolo. Avevano comunque ricevuto una mano migliore
della nostra.
Abilità. Poteri che sfuggivano a ogni spiegazione, talenti mentali così bizzarri
che i dottori e gli scienziati riclassificarono tutta la nostra generazione come Psi.
Non eravamo più umani. I nostri cervelli avevano superato quella categoria.
«Vedo dalla tua cartella clinica che sei stata classificata come ‘intelligenza
anormale’ allo smistamento», disse dopo un po’. «Lo scienziato che ti ha
smistata… ti ha fatto fare tutti i test?»
Sentii un nodo gelido nello stomaco. Forse non capivo granché del mondo,
forse avevo solo la quarta elementare, ma mi rendevo conto quando qualcuno
andava a caccia di informazioni. I soldati FSP prediligevano indurre il terrore già
da anni, ma c’era stato un tempo in cui anche le loro domande venivano
pronunciate con voce dolce.
La falsa compassione puzzava come l’alito cattivo.
Lo sa? Forse mi ha fatto degli esami mentre ero incosciente, e ha fatto uno
scan al mio cervello, o un’analisi del sangue, o che ne so. Strinsi le dita una a
una fino a formare i pugni. Mi sforzai di seguire il filo dei pensieri fino alla fine,
ma continuavo a impigliarmi nella possibilità. La paura rendeva le cose vaghe e
leggere.
La sua domanda rimase nell’aria, sospesa a metà tra la verità e una bugia.
Il rumore degli stivali sul pavimento immacolato mi costrinse a scostare gli
occhi lontano dal viso della dottoressa. Ogni passo era un avvertimento, e sapevo
che stavano arrivando prima ancora che la Begbie si voltasse. Fece per alzarsi
dalla barella, ma non glielo permisi. Non so cosa mi prese, ma la afferrai per il
polso, ripensando alla lista di punizioni per aver toccato una figura di autorità,
come un CD che salta, ogni graffio più netto del successivo. Non potevamo
toccare nessuno, nemmeno i nostri compagni.
«Stavolta è stato diverso», sussurrai, e le parole mi fecero male alla gola. La
mia voce sembrava diversa. Debole.
La dottoressa ebbe solo il tempo di annuire. Un movimento minuscolo, quasi
impercettibile, prima che una mano spalancasse la tenda.
Avevo già visto quel soldato delle Forze Speciali Psi; Sam lo chiamava il
Grinch, perché sembrava proprio uscito dal film, a parte la pelle verde. Il Grinch
mi lanciò uno sguardo, con una smorfia di fastidio, prima di chiamare la
dottoressa con un gesto. Lei sospirò e mi posò la cartellina in grembo.
«Grazie, Ruby. Se il dolore peggiora, chiama aiuto, d’accordo?»
Si era forse drogata? Chi sarebbe venuto ad aiutarmi, il bambino che vomitava
l’anima nel letto a fianco? Annuii in ogni caso, guardandola voltarsi e andarsene.
L’ultima immagine che ebbi di lei fu la mano che richiudeva la tenda. Era gentile
da parte sua lasciarmi un po’ di privacy, ma anche ingenuo, considerate le
telecamere di sicurezza tra i letti.
Erano installate in ogni angolo di Thurmond, occhi senza palpebre che ci
osservavano sempre e non dormivano mai. Ce n’erano due solo nella nostra
baracca, alle estremità della stanza, e una fuori dalla porta. Sembrava
un’esagerazione, ma quando arrivai al campo per la prima volta eravamo
talmente pochi che davvero potevano osservarci tutto il giorno, ogni giorno, fino
a farsi esplodere il cervello dalla noia.
Bisognava stringere gli occhi per vederlo, ma una minuscola lucina rossa era
l’unico segnale che la telecamera si era concentrata su di te. Con gli anni, man
mano che altri bambini venivano portati a Thurmond sui vecchi autobus, Sam e
io cominciammo a notare che le telecamere nella nostra baracca non avevano più
le luci rosse lampeggianti; non tutti i giorni. Lo stesso per quelle nella
lavanderia, nei bagni e nella sala mensa. Immagino che con tremila bambini in
uno spazio di un chilometro quadrato e mezzo, fosse impossibile osservare tutti
per tutto il tempo.
Comunque, ci osservavano quanto bastava per tenerci nel terrore. La
probabilità di essere scoperti a usare le proprie abilità, anche al riparo
dell’oscurità, era più alta della media.
Quelle luci lampeggianti erano della stessa sfumatura di rosso sangue delle
fasce che i soldati FSP portavano intorno al braccio destro. Il simbolo Ψ era
cucito sulla stoffa color cremisi, a indicare il loro sfortunato ruolo di guardiani
dei mostruosi figli della nazione.
La telecamera sopra il mio letto non aveva la luce rossa. Quando me ne
accorsi mi invase un tale sollievo che persino l’aria mi sembrò più dolce. Per un
momento soltanto, ero sola e inosservata. A Thurmond, era un lusso quasi
inaudito.
La dottoressa Begbie – Cate – non aveva chiuso del tutto la tenda. Quando un
altro dottore passò di fretta, la stoffa sottile si aprì ancora, permettendomi di
intravedere un lampo di blu familiare. Il ritratto di un ragazzino, di non più di
dodici anni, mi restituì lo sguardo. I suoi capelli avevano lo stesso colore dei
miei – marrone scuro, quasi nero – ma se i miei occhi erano verde chiaro, i suoi
erano così scuri da bruciare anche a distanza. Sorrideva, come sempre, con le
mani strette in grembo, la scura uniforme scolastica senza una piega. Clancy
Gray, il primo prigioniero di Thurmond.
C’erano almeno due sue foto incorniciate in sala mensa, una in cucina e
diverse altre appese fuori dalle case dei Verdi. Il suo viso era più facile da
ricordare di quello di mia madre.
Mi costrinsi a distogliere lo sguardo dal suo sorriso fiero e immutabile. Lui
forse ce l’aveva fatta a uscire, ma tutti noi eravamo ancora lì.
Tentando di cambiare posizione, colpii la cartellina della dottoressa Begbie
facendola cadere nella piega del mio braccio sinistro. Sapevo che c’era una
possibilità che mi stessero guardando, ma non mi importava. Non in quel
momento, quando avevo delle risposte a pochi centimetri dalle dita. Perché
l’aveva lasciata lì, proprio sotto il mio naso, se non voleva che la vedessi?
Perché non l’aveva portata con sé, come avrebbe fatto qualunque altro dottore?
Cosa c’era di diverso nel Rumore Bianco?
Cosa avevano scoperto?
Le luci al neon sopra di me erano scoperte, e brillavano nella forma di lunghe
ossa rabbiose. Emettevano un ronzio che somigliava sempre di più a un nugolo
di mosche che volavano intorno alle mie orecchie. Non fece che peggiorare
quando voltai la cartellina.
Non era la mia cartella clinica.
Non erano le mie ferite attuali, o la loro assenza.
Non erano le mie risposte alle domande della dottoressa Begbie.
Era un appunto, e diceva:

Il nuovo CdC era un test per smascherare eventuali G, A, R. La tua


reazione avversa significa che sanno che non sei V.
Se non fai esattamente quello che ti dico, ti uccideranno domani.

Mi tremavano le mani. Dovetti posare la cartellina sulle ginocchia per leggere


il resto.
Posso farti uscire. Prendi le due pillole sotto questo foglio prima di andare
a letto, ma non farti vedere dalle FSP. Se non lo farai, manterrò il tuo
segreto, ma non posso proteggerti se rimani qui dentro. Distruggi questo
messaggio.
Un’amica, se vuoi.

Rilessi l’appunto ancora una volta prima di strapparlo dalla pinza metallica e
infilarmelo in bocca. Aveva lo stesso sapore del pane che ci davano per pranzo.
Le pillole erano in una bustina trasparente pinzata sopra la mia vera cartella
clinica. Scarabocchiato nella pessima calligrafia della dottoressa Begbie, il
documento diceva:

Il Soggetto 3.285 ha battuto la testa sul pavimento e perso conoscenza. Il


naso era già fratturato quando il Soggetto 3.286 le ha dato una gomitata.
Probabile commozione cerebrale.

Gli occhi mi prudevano dalla voglia di alzare lo sguardo e controllare l’occhio


nero della telecamera, ma non me lo permisi. Presi le pillole e le infilai nel
reggiseno sportivo che i dirigenti del campo ci avevano concesso quando si
erano resi conto che millecinquecento ragazze adolescenti non sarebbero rimaste
piatte per sempre. Non sapevo cosa stessi facendo, davvero non lo sapevo. Il
cuore mi batteva così forte che per un momento non riuscii a respirare.
Perché la dottoressa Begbie mi aveva fatto questo? Sapeva che non ero Verde,
ma mi aveva coperta, aveva mentito nel referto… Era tutto un trucco? Per vedere
se mi incriminavo da sola?
Mi coprii il viso con le mani. Il pacchetto di pillole mi bruciava la pelle.
…ti uccideranno domani.
E perché scomodarsi ad attendere? Perché non portarmi nel parcheggio degli
autobus e spararmi subito? Non era forse ciò che avevano fatto agli altri? Ai
Gialli, agli Arancioni, ai Rossi? Li avevano uccisi perché erano troppo
pericolosi.
Io sono troppo pericolosa.
Non sapevo come usare le mie abilità. Non ero come gli altri Arancioni, che
potevano blaterare ordini o infilare pensieri orribili nelle menti altrui. Io avevo
tutto il potere, e zero controllo… tutto il dolore e nessun beneficio.
Da quanto avevo capito, dovevo toccare qualcuno perché le mie abilità si
attivassero, e anche allora… era più come se riuscissi a vedere i loro pensieri,
che modificarli. Non avevo mai provato a instillare un pensiero nella mente di
qualcuno, e non mi era certo mancata l’opportunità o la voglia.
Ogni scivolone della mente, intenzionale o meno, mi lasciava nella testa un
groviglio di pensieri e immagini, parole e dolore. Ci volevano ore perché
tornassi a sentirmi me stessa.
Immaginate che qualcuno vi infili una mano nel petto, oltre le ossa e il sangue
e le interiora, e afferri saldamente la vostra spina dorsale. Immaginate che quel
qualcuno vi scuota così forte che il mondo inizia a ondeggiare sotto di voi.
Immaginate di non riuscire a distinguere, dopo, se il pensiero che avete in testa
sia davvero vostro o solo un souvenir non intenzionale dalla mente di qualcun
altro. Immaginate il senso di colpa di sapere che avete visto il più profondo e
oscuro segreto o paura di qualcun altro; immaginate di dover rivedere quel
qualcuno il mattino dopo e dover fingere di non aver visto suo padre che lo
picchiava, o il vestito fucsia che indossava alla festa per il quinto compleanno, o
le sue fantasie su quel ragazzo o ragazza, o gli animali del vicinato che uccideva
per divertimento.
E poi, immaginate l’emicrania che segue, così forte da stritolarvi l’anima, e
che può durare qualche ora o addirittura qualche giorno. Ecco come ci si sentiva.
Ecco perché tentavo a tutti i costi di evitare che la mia mente sfiorasse anche
lontanamente quella di qualcuno. Conoscevo le conseguenze. Tutte.
E, in quel momento, sapevo con certezza cosa mi sarebbe successo se mi
avessero scoperta.
Voltai la cartellina sulle ginocchia appena in tempo. Lo stesso soldato FSP era
di nuovo davanti alla tenda e l’aveva spalancata.
«Torna alla tua baracca ora», disse. «Vieni con me.»
Alla mia baracca? Scrutai il suo viso cercando il segnale di una bugia, ma non
vidi altro che il solito fastidio. Feci solo un cenno del capo. Tutto il mio corpo
era scosso da un terremoto di terrore, e nel momento in cui i miei piedi
toccarono terra la mente sembrò traboccare. Ogni cosa ne scivolò fuori, ogni
pensiero, paura e immagine. Mi accasciai sul lato del letto, sforzandomi di
rimanere cosciente.
Vedevo ancora macchie nere davanti agli occhi quando sentii il soldato
ringhiare: «Sbrigati! Non pensare di poter restare qui un’altra notte solo perché
hai fatto una sceneggiata».
Nonostante il tono brusco, vidi una minuscola ombra di paura sul suo viso.
Quell’istante, il passaggio dalla paura alla furia, poteva riassumere benissimo i
sentimenti di ogni soldato di Thurmond. Avevamo sentito dire che il servizio
militare non era più volontario, che chiunque tra i ventidue e i quarant’anni era
obbligato ad arruolarsi, e la maggior parte di loro nelle nuove forze Psi.
Strinsi i denti. Il mondo intero vorticava sotto di me, rischiando di trascinarmi
verso il suo centro oscuro. Le parole del soldato FSP mi tornarono in mente.
Un’altra notte? pensai. Ma quanto tempo sono rimasta qui?
Ancora malferma, lo seguii nel corridoio. L’infermeria aveva solo due piani,
piccoli. Il soffitto scendeva così in basso che persino io temevo di sbattere la
testa sugli stipiti. I letti per i pazienti si trovavano al primo piano, mentre il
secondo era riservato a chi tra noi aveva bisogno di un cosiddetto Time Out. A
volte vi veniva ricoverato chi aveva qualcosa di contagioso, ma nella maggior
parte dei casi era per quelli che erano andati completamente fuori di testa,
cervelli già spezzati che venivano rovinati ancora di più da Thurmond.
Mi sforzai di rimanere concentrata sul movimento delle scapole del soldato
FSP che intravedevo sotto la sua uniforme nera, ma era difficile dato che la
maggior parte delle tende intorno ai letti erano state lasciate aperte e chiunque
poteva vedere all’interno. La maggior parte di loro era facile da ignorare, o da
guardare solo furtivamente, ma il penultimo letto prima dell’uscita…
I miei piedi rallentarono di loro volontà, lasciando ai polmoni il tempo di
inalare profumo di rosmarino. Sentii la voce gentile della dottoressa Begbie che
parlava con un altro ragazzo in Verde. Lo riconobbi… la sua baracca era proprio
davanti alla mia. Matthew? Forse Max? Sapevo solo che aveva sangue sul viso,
anche lui. Incrostato intorno agli occhi e al naso, spalmato sulle guance. Sentii
un macigno nello stomaco.
Anche questo Verde era stato condannato? La dottoressa Begbie gli stava
proponendo lo stesso accordo? Non potevo essere stata l’unica a capire come
schivare il sistema di smistamento, chi influenzare, quando mentire. Forse lui e
io, sotto sotto, eravamo dello stesso colore. E forse entrambi saremmo morti
l’indomani.

«Tieni il passo!» sbottò il soldato. Non tentò nemmeno di nascondere il


fastidio mentre gli caracollavo dietro, ma non aveva di che preoccuparsi; non
sarei rimasta nell’infermeria neanche a pagarmi, di certo non se ero cosciente.
Nemmeno con la nuova minaccia che mi pendeva sulla testa. Sapevo cosa
facevano, lì. Sapevo cosa c’era sotto gli strati di vernice bianca.
I primi ragazzini che avevano portato lì, le prime cavie, erano stati sottoposti a
una serie di elettroshock ed esperimenti da macelleria sul cervello. Le storie
avevano fatto il giro del campo ispirando una reverenza morbosa, quasi
religiosa. Gli scienziati cercavano un modo per eliminare le abilità dei bambini –
«riabilitarli» – ma non avevano fatto altro che privarli della voglia di vivere. I
pochi che ne erano usciti vivi erano stati nominati guardiani quando la prima
piccola ondata di bambini venne portata nel campo. Fu uno strano colpo di
fortuna che io fossi arrivata durante la seconda ondata. Ogni ondata diventava
sempre più grande e il campo si espandeva di conseguenza fino a che, tre anni
prima, ebbero riempito tutto lo spazio disponibile. Non arrivarono più autobus,
dopo quel momento.
Continuavo a non essere abbastanza veloce per il soldato. Mi spinse in avanti
nel corridoio degli specchi. Il segnale di uscita emetteva la sua luce truculenta su
di noi; il soldato mi spinse di nuovo, più forte, e sorrise al vedermi cadere. La
rabbia mi inondò e coprì il dolore residuo nel mio corpo e ogni traccia di paura
che volesse portarmi in qualche angolino per finire il lavoro.
Ben presto ci ritrovammo all’esterno, a respirare l’umida aria primaverile. Mi
riempii i polmoni di pioggia e foschia, ingoiando l’amarezza. Dovevo riflettere.
Valutare. Se mi stava portando all’esterno per giustiziarmi, ed era da solo,
potevo sconfiggerlo facilmente. Non era quello il problema. Più che altro, non
avevo modo di sfuggire alla recinzione elettrificata, e non avevo idea di dove mi
trovassi.
Quando mi avevano portata a Thurmond, la familiarità del paesaggio era stata
un conforto più che un ricordo doloroso. West Virginia e Virginia non sono poi
così diversi, anche se gli abitanti vogliono far credere il contrario. Stessi alberi,
stesso cielo, stesso clima orrendo; ero sempre fradicia di pioggia o
appiccicaticcia di sudore. In ogni caso, potevamo non essere affatto in West
Virginia. Ma una ragazza nella mia baracca aveva giurato e spergiurato di aver
visto un cartello con scritto quando era arrivata, perciò ci
BENVENUTI IN WEST VIRGINIA

basavamo su quella teoria.


Il soldato aveva rallentato considerevolmente l’andatura, adattandola al mio
passo patetico. Annaspò un paio di volte nell’erba fangosa, quasi inciampando
proprio davanti ai soldati lassù nella torre di controllo.
Nell’istante in cui la Torre divenne visibile, i ceppi di terrore che già mi stavo
trascinando dietro assunsero un ulteriore peso. L’edificio, di per sé, non era
imponente; lo chiamavano Torre solo perché spiccava come un dito rotto nel
mare di baracche in legno disposte a cerchi concentrici. Il recinto elettrificato era
l’ultimo cerchio, e proteggeva il mondo esterno da noi mostri. Le baracche dei
Verdi erano i due cerchi successivi. E dopo, due cerchi di baracche dei Blu.
Prima che venissero portati via, i pochi Rossi e Arancioni vivevano nei cerchi
successivi. Erano i più vicini alla Torre: i controllori pensavano di poterli tenere
d’occhio, così. Ma dopo che un Rosso aveva dato fuoco alla propria baracca,
avevano spostato i Rossi più lontano, tenendo i Verdi come cuscinetto nel caso in
cui qualcuno di loro avesse deciso di scappare verso il recinto.
Numero di tentativi di fuga?
Cinque.
Numero di tentativi di fuga riusciti?
Zero.
Non so se un Blu o un Verde avesse mai tentato di scappare. Quando qualche
ragazzino aveva messo in piedi un disperato, patetico tentativo di fuga, era
sempre stato con un gruppetto di Rossi, Arancioni e Gialli. Una volta catturati,
non tornavano più.
Ma quelli erano i primi tempi, quando potevamo interagire di più con gli altri
colori, e prima che ci cambiassero di posto. Le baracche lasciate vuote da Rossi,
Arancioni e Gialli vennero occupate dai Blu, e i nuovi arrivi Verdi, il gruppo più
numeroso di tutti, si presero le vecchie baracche dei Blu. Il campo divenne così
grande che i controllori ci divisero in turni, e mangiavamo divisi per colore e per
genere, e anche così dovevamo stringerci per far sedere tutti a tavola. Erano anni
che non vedevo da vicino un ragazzo maschio della mia età.
Non ricominciai a respirare finché ci fummo lasciati la Torre alle spalle e fu
chiaro, oltre ogni ombra di dubbio, dove fossimo diretti.
Grazie, pensai, rivolta a nessuno in particolare. Il sollievo mi si bloccò in gola
come un sasso.
Raggiungemmo la baracca 27 pochi minuti più tardi. Il soldato mi
accompagnò alla porta e indicò il rubinetto alla sinistra. Annuii, e usai l’acqua
gelida per lavarmi via il sangue dal viso. Mi aspettò in silenzio, ma non
pazientemente. Dopo pochi secondi, sentii la sua mano afferrarmi la camicia e
tirarmi su. Con l’altra mano, passò la chiave magnetica nella serratura della
porta.
Ashley, una delle ragazze più grandi nella mia baracca, aprì la porta del tutto
con la spalla. Mi prese per il braccio e annuì in direzione del soldato. Sembrò
sufficiente. Senza una parola, l’uomo se ne andò lungo il sentiero.
«Gesù!» esclamò Ashley trascinandomi dentro. «Non potevano tenerti
un’altra notte? Oh no, devono mandarti qui al più presto… Ma quello è
sangue?»
Allontanai le sue mani, ma Ashley non si diede per vinta e mi scostò i capelli,
lunghi e scuri, dalla spalla. Non capii subito perché mi stesse guardando in quel
modo, a occhi spalancati e cerchiati di rosa scuro. Si morse il labbro inferiore.
«Ho davvero… pensato che fossi…» Eravamo ancora vicino alla porta ma
sentii il gelo depositarsi all’interno della baracca. Si posò sulla mia pelle come
seta fredda.
Ashley era al campo da troppo tempo per crollare davvero, ma mi sorprese
comunque vederla scossa e senza parole. Lei e un paio di altre ragazze erano una
sorta di leader onorarie del nostro triste gruppetto eterogeneo, nominate
principalmente perché avevano raggiunto certi traguardi fisici prima delle altre e
per questo avevano potuto spiegarci cosa ci stesse succedendo senza riderci in
faccia.
Le rivolsi un debole sorriso e un’alzata di spalle, improvvisamente senza
parole a mia volta. Ma non sembrava convinta, e non mollò la presa sul mio
braccio. La baracca era buia e umida, con il solito odore di muffa su ogni
superficie, ma qualunque cosa sarebbe stata meglio della puzza sterile e ripulita
dell’infermeria.
«Fammi…» Ashley sospirò. «Fammi sapere se non stai bene, d’accordo?»
E tu cosa potresti farci? volevo chiederle.
Invece, mi voltai verso l’angolo posteriore sinistro della baracca affollata.
Sussurri e sguardi mi seguirono lungo il tragitto a zig zag attraverso i letti a
castello. Le pillole, strette contro il mio petto, sembravano infuocate.
«…era sparita», sentii dire a qualcuno.
Vanessa, che dormiva nel letto in basso alla destra del mio, si era infilata nel
letto di Sam. Quando mi videro, smisero di parlare per fissarmi con bocca e
occhi spalancati.
La vista di loro due insieme mi faceva ancora stare male, persino dopo un
anno. Quanti giorni e notti avevo passato appollaiata lassù insieme a Sam,
determinate a ignorare i tentativi di Vanessa di trascinarci in qualche
conversazione stupida e senza senso?
Il ruolo di migliore amica di Sam era vuoto da meno di due ore quando
Vanessa vi si era intrufolata, e non passava un giorno senza che me lo ricordasse.
«Cosa…» Sam si chinò oltre il bordo del suo letto. Non sembrava altezzosa o
ostile, a differenza del solito. Sembrava… preoccupata, forse curiosa. «Cosa ti è
successo?»
Scossi la testa, il petto stretto da tutte le cose che avrei voluto dire.
Vanessa fece una risatina tagliente. «Brava, proprio brava. E ti chiedi anche
perché non voglia più essere tua amica?»
«Io non…» mormorò Sam. «Lascia perdere.»
A volte mi domandavo se non ci fosse una parte di Sam che si ricordasse non
tanto di me, ma della persona che lei era una volta, prima che io la rovinassi. Era
incredibile come fossi riuscita a cancellare ogni lato buono di Sam, o almeno, le
parti che io amavo. Un tocco, ed era sparita.
Un paio di ragazze mi chiesero cosa fosse successo tra noi. La maggior parte
di loro, credo, pensò che Sam si stesse comportando in modo crudele quando
dichiarava che non eravamo mai state amiche e non lo saremmo mai state.
Tentavo di cavarmela con un’alzata di spalle, ma Sam era l’unica cosa che aveva
reso Thurmond sopportabile. Senza di lei, non era certo una vita.
Proprio no.
Sfiorai il pacchetto di pillole.
La nostra baracca era interamente marrone, con sfumature di marrone. L’unico
altro tono era il bianco delle lenzuola, che per la maggior parte ormai era tinta di
un orrido giallognolo. Non c’erano mensole di libri, poster, fotografie. Solo noi.
Strisciai nel mio letto, cadendo a faccia in giù sulle lenzuola fruste. Ne
respirai l’odore familiare – candeggina, sudore e qualcosa che sapeva di terra – e
mi sforzai di non ascoltare le conversazioni sopra di me.
Una parte di me era in attesa, credo; disperata attesa di vedere se potevo
aggiustare ciò che avevo fatto alla mia amica. Ma ormai era fatta. Fatta e finita, e
lei non c’era più, e la colpa era solo mia. La cosa migliore che potessi fare per lei
era scomparire; anche se la dottoressa Begbie mi stava prendendo in giro e mi
avrebbero davvero fatta fuori, non ci avrebbero collegate. Non avrebbero
interrogato o punito Sam perché pensavano che mi avesse aiutata a nascondermi,
come avrebbero fatto se fossimo state ancora amiche. C’erano oltre tremila di
noi a Thurmond, e io ero l’ultima Arancione… forse in tutto il mondo. O una di
due, se il ragazzo in infermeria era come me. Era solo questione di tempo prima
che scoprissero la verità.
Ero pericolosa, e sapevo cosa facevano a quelli pericolosi.
La routine del campo proseguì come sempre, spingendoci nella sala mensa per
cena, poi nei bagni e poi di nuovo nella baracca per la notte. La luce era fioca e
stava svanendo, aggrappandosi alle prime frange della notte.
«D’accordo, cucciole.» La voce di Ashley. «Dieci minuti allo spegnimento
delle luci. A chi tocca?»
«A me… riprendo da dove ci eravamo fermate?» Rachel era dall’altra parte
della stanza, ma la sua voce stridula si sentiva bene.
«Sì, Rachel. Non è così che facciamo sempre?» rispose Ashley con una punta
di esasperazione.
«D’accordo… allora… allora la principessa? Era ancora nella sua torre, ed era
ancora molto triste.»
«Ragazza», la interruppe Ashley, «sarà meglio che ci metti un po’ di pepe,
altrimenti se sei così noiosa ti salto e passiamo alla persona dopo di te.»
«Okay», squittì Rachel. Mi girai su un fianco tentando di intravederla
attraverso le file di letti a castello. «La principessa soffriva moltissimo… un
dolore davvero terribile.»
«Oh Dio», fu l’unico commento di Ashley. «La prossima?»
Macey tentò di riprendere il filo del racconto come meglio poteva. «Mentre la
principessa se ne stava rinchiusa nella torre, non riusciva a pensare ad altro che
al principe.»
Mi persi il finale della storia, perché avevo le palpebre troppo pesanti per
tenerle aperte.
Se c’è una cosa che mi mancherà di Thurmond, pensai scivolando nel sonno, è
questa. I momenti di quiete, quando potevamo parlare di cose proibite.
Dovevamo trovare un modo di intrattenerci perché non avevamo altre storie –
né sogni, né futuro – se non quelle che ci creavamo da sole.

Ingoiai le due pillole una alla volta, e sulla lingua avevo ancora il sapore del
brodo di pollo.
Le luci della baracca erano spente da tre ore, e Sam russava da due. Aprii la
bustina sigillata e feci cadere le pastigliette sul palmo della mano. Rimisi la
busta trasparente nel reggiseno, e la prima pillola in bocca. Era calda dopo essere
stata così a lungo a contatto con la pelle, cosa che non rese facile ingoiarla.
Presi anche la seconda prima di perdere il coraggio, e feci una smorfia quando
mi graffiò la gola.
E poi attesi.
5

N ricordavo di essermi addormentata, solo il risveglio. Per forza: il mio corpo


ON

era scosso da tremiti così forti da farmi rotolare giù dal letto, sbattendo la faccia
su quello di fianco.
Vanessa doveva essersi spaventata a morte per il botto e l’improvviso
movimento del letto, perché la sentii dire: «Che cavolo… Ruby? Sei tu?»
Non riuscivo ad alzarmi. Sentivo mani sul viso, e mi resi conto che stava
strillando il mio nome, non più sussurrandolo.
«Oh mio Dio!» esclamò qualcuno. Sembrava Sam, ma non ero in grado di
aprire gli occhi.
«…il bottone di emergenza!» Il peso di Ashley si assestò sulle mie gambe;
sapevo che era lei, anche se il mio cervello perdeva conoscenza e la riprendeva,
e una luce incandescente mi bruciava dietro le palpebre.
Qualcuno mi infilò qualcosa in bocca; gomma dura. Sentivo sapore di sangue
ma non capivo se veniva dalla mia lingua, dalle labbra o…
Due paia di mani mi sollevarono da terra, deponendomi su un’altra superficie.
Ancora non riuscivo ad aprire gli occhi; il petto mi bruciava. Non smettevo di
tremare, e mi sembrava che braccia e gambe stessero collassando su se stesse.
Poi sentii profumo di rosmarino. Sentii mani fresche e morbide sul petto, poi
più niente.

Tornai alla vita con un sonoro schiaffo in faccia.


«Ruby», disse qualcuno. «Andiamo, so che mi senti. Devi svegliarti.»
Aprii appena gli occhi, tentando di non sobbalzare quando vi filtrò la luce.
Una porta si aprì e si richiuse da qualche parte lì accanto.
«È lei?» chiese un’altra voce. «Hai intenzione di sedarla?»
«No, questa no», rispose la prima voce. Una voce che conoscevo. Era dolce
quanto lo era stata prima, solo che stavolta aveva una nota tagliente. Le mani
della dottoressa Begbie mi afferrarono sotto le braccia e mi tirarono su. «È forte,
può farcela.»
C’era qualcosa che puzzava tremendamente. Acido e marcio allo stesso
tempo. Spalancai gli occhi.
La dottoressa Begbie era in ginocchio accanto a me, e agitava qualcosa sotto il
mio naso.
«Cosa…?»
L’altra voce che avevo sentito apparteneva a una donna giovane. Aveva capelli
scuri e pelle chiara, ma quello era l’unico tratto degno di nota. Senza rendersi
conto che la stavo osservando, si tolse la tuta blu e la gettò alla dottoressa
Begbie.
Non avevo idea di dove ci trovassimo. La stanza era piccola, piena di mensole
cariche di scatole e bottiglie, e non sentivo nessun odore tranne quello che la
Begbie aveva usato per svegliarmi.
«Mettiti questi», disse la dottoressa, tirandomi in piedi senza chiedere se le
mie gambe fossero pronte a sopportarlo. «Andiamo Ruby, dobbiamo fare in
fretta.»
Il mio corpo mi sembrava pesantissimo, e le giunture scrocchiavano.
Comunque obbedii, e infilai la tuta sopra l’uniforme. Mentre mi vestivo, l’altra
donna mise le mani dietro la schiena e attese che la dottoressa Begbie le legasse
insieme con nastro adesivo argentato. Quando ebbe finito, la dottoressa le legò
anche i piedi.
«L’appuntamento è a Harvey. Mi raccomando, prendi la Route 215.»
«Lo so, lo so», disse la dottoressa Begbie, staccando un altro pezzo di nastro
adesivo con i denti e mettendolo sulla bocca della donna. «Buona fortuna.»
«Cosa sta facendo?» Avevo la gola secca, e mi sembrava che a ogni parola la
pelle intorno alla bocca mi si crepasse. La dottoressa mi tirò indietro i capelli e
abbozzò uno chignon, che fissò con un elastico. L’altra donna rimase a guardare
mentre la dottoressa Begbie mi infilava al collo il suo badge identificativo e mi
legava una mascherina chirurgica sul viso.
«Ti spiegherò tutto quando saremo fuori, ma ora non possiamo perdere tempo.
Le pattuglie passeranno tra venti minuti. Non puoi dire una parola, intesi? Stai al
gioco.»
Annuii e mi lasciai spingere fuori dalla stanza buia nella penombra del
corridoio dell’infermeria. Ancora una volta pensai che le gambe mi avrebbero
tradita, ma la dottoressa prese il controllo della situazione. Mise il mio braccio
intorno alle sue spalle, sostenendo quasi tutto il mio peso.
«Ci stiamo muovendo», mormorò. «Riporta le telecamere nelle posizioni
originali.»
Mi girai a guardarla, ma non parlava con me. Sussurrava nella spilla a forma
di cigno dorato.
«Non una parola», mi disse, svoltando in un altro lungo corridoio. Ci
muovevamo così velocemente che facevamo svolazzare le tende delle varie
postazioni mediche. I soldati FSP che incontravamo non erano altro che macchie
indistinte che si spostavano per farci strada.
«Scusate, scusate!» esclamò la Begbie, rivolta alle nostre spalle. «Devo
portare questa qui a casa.»
Tenevo gli occhi fissi sulle fughe delle piastrelle che scorrevano sotto i miei
piedi. La testa mi girava ancora così tanto che non mi resi nemmeno conto che ci
stavamo dirigendo all’esterno, finché sentii il bip del suo badge nella serratura
magnetica e le prime gocce di pioggia colpirmi la testa.
Gli enormi fari da stadio illuminavano il campo a qualsiasi ora del giorno e
della notte; sembravano giganti sparsi per il campo, ma a me ricordavano le
partite notturne di football, l’odore dell’erba appena tagliata e il vecchio
maglione degli Spartan di mio padre quando urlava a squarciagola alla sua
vecchia squadra del liceo: «Giocate d’attacco, diamine!»
C’erano solo pochi passi sconnessi dal retro dell’infermeria al parcheggio
sassoso. Non ero sicura che non fosse un’allucinazione, la mia vista continuava
ad annebbiarsi, ma era impossibile non sentire il rumore di ghiaia calpestata e la
voce che urlò: «Tutto bene laggiù?»
Più che vederla, sentii la dottoressa Begbie irrigidirsi. Tentai di proseguire,
usando la sua spalla per tenermi in piedi, ma le mie gambe non funzionavano
proprio più.
Quando riaprii gli occhi, ero seduta e fissavo gli stivali d’ordinanza di un
soldato FSP. Si accovacciò di fronte a me. La dottoressa gli stava dicendo
qualcosa con la stessa voce calma che aveva usato con me la prima volta che mi
aveva parlato.
«…talmente malata, che mi sono offerta di accompagnarla a casa. Le ho
messo una mascherina per assicurarmi che non contagiasse nessun altro.»
Misi a fuoco la voce del soldato. «Detesto che ci ammaliamo di continuo per
colpa di questi mocciosi.»
«Le dispiacerebbe aiutarmi ad accompagnarla alla mia Jeep?» chiese la
dottoressa Begbie.
«Se è malata…»
«Ci vorrà solo un minuto», lo interruppe la dottoressa. «E le prometto che se
domani avrà anche solo un raffreddore, mi prenderò personalmente cura di lei.»
Quella era la voce che riconoscevo: così dolce che sembrava di sentir suonare
dei campanellini. Il soldato fece una risatina, ma mi sollevò. Tentai di non
appoggiarmi a lui, di stringere i denti per resistere al movimento, ma riuscii a
malapena a non far cadere la testa all’indietro.
«Sul sedile davanti?» chiese.
La dottoressa stava per rispondere quando la radio del soldato si accese con un
crepitio. «Controllo ti ha inquadrato. Hai bisogno di assistenza?»
Il soldato aspettò che la dottoressa Begbie avesse aperto la portiera davanti per
adagiarmi sul sedile, poi rispose. «Tutto a posto, la dottoressa…» Prese il mio
badge tra le mani, sollevandolo dal mio petto. «La dottoressa Rogers si è presa
quel virus che sta girando. La dottoressa…»
«Begbie», disse lei rapidamente. Scivolò sul sedile del guidatore e chiuse la
portiera facendola sbattere. Le rivolsi uno sguardo, e vidi che faceva fatica a
inserire la chiave. Per la prima volta mi accorsi che le tremavano le mani.
«La dottoressa Begbie la accompagna a casa per la notte. L’auto della
dottoressa Rogers rimarrà qui per la notte; per favore, informate le guardie del
turno del mattino quando faranno il giro di controllo.»
«Ricevuto. Dille di dirigersi direttamente al cancello, avverto la pattuglia di
guardia di lasciarle passare.»
La Jeep si rianimò sputacchiando una serie di proteste. Guardai fuori dal
parabrezza verso la recinzione elettrificata e l’oscura ma familiare foresta al di
là. La dottoressa Begbie si avvicinò per allacciarmi la cintura.
«Caspita, è proprio andata.» Il soldato era tornato, appoggiato al finestrino
della Begbie.
«Le ho dato della roba piuttosto forte», rise la dottoressa Begbie, e io mi sentii
stringere il petto.
«Allora, per domani…»
«Venga a salutarmi, d’accordo?» disse la dottoressa Begbie. «Ho una pausa
intorno alle tre.»
Non gli diede nemmeno il tempo di replicare. Le ruote morsero la ghiaia e i
tergicristalli si risvegliarono squittendo. La dottoressa alzò il finestrino con un
saluto amichevole, usando l’altra mano per fare retromarcia e uscire dal
parcheggio. I numerini verdi sul cruscotto segnavano le 2.45 del mattino.
«Tieni la faccia il più possibile coperta», mormorò prima di accendere la
radio. Non conoscevo la canzone, ma riconobbi la voce di David Gilmour e il
moto ondoso dei sintetizzatori dei Pink Floyd.
Lei abbassò il volume e fece un grande sospiro mentre lasciavamo il
parcheggio. Con le dita, batteva un ritmo nervoso sul volante.
«Andiamo, andiamo», sussurrò, guardando ancora una volta l’orologio.
C’erano altre due macchine in coda davanti a noi, e ciascuna ottenne il permesso
di passare con una lentezza esasperante. Poi finalmente l’ultima auto che ci
precedeva si allontanò nella notte.
La dottoressa pestò sull’acceleratore un po’ troppo forte e la Jeep saltò in
avanti. Schiacciò sul freno e la cintura si bloccò in posizione di sicurezza,
mozzandomi il fiato.
Abbassò il finestrino, ma ero troppo stanca per avere paura. Mi premetti la
mano sugli occhi e feci un respiro profondo. La mascherina da chirurgo mi
sfiorò le labbra.
«Sto portando a casa la dottoressa Rogers. Mi faccia solo prendere il suo
pass…»
«Va bene. Vedo nel calendario che lei torna domani alle tre, è corretto?»
«Sì. Grazie. Per favore, segni che la dottoressa Rogers non verrà.»
«D’accordo.»
Ero così esausta che non riuscivo a tenere sotto controllo i tentacoli irrequieti
del cervello. Quando la dottoressa Begbie mi toccò di nuovo, scostandomi i
capelli dal viso, un’immagine prese vita dietro le mie palpebre. Un uomo dai
capelli scuri, con un ampio sorriso, e con le braccia strette intorno alla dottoressa
Begbie, che la faceva girare, girare, girare, fino a che sentii la sua risata divertita
nelle orecchie.
Cate abbassò il finestrino; l’aria che ci scorreva accanto portò il profumo della
pioggia e mi accompagnò velocemente nel sonno.
6

Q UANDO aprii gli occhi, era ancora buio.


L’aria condizionata soffiava dai bocchettoni e faceva sbattere l’alberello di
cartone che penzolava dallo specchietto retrovisore. Aveva un profumo di
vaniglia talmente dolce e intenso da farmi venire la nausea. Ero a stomaco vuoto.
Mick Jagger mi canticchiava nell’orecchio, parlando di guerra e pace e riparo, e
altre bugie del genere. Tentai di allontanare la faccia dal punto di provenienza
della canzone, ma ottenni solo di sbattere il naso sul finestrino e storcermi il
collo.
Mi raddrizzai sul sedile, rischiando di strangolarmi con la cintura di sicurezza.
Non eravamo più nella Jeep.
La notte mi tornò in mente come un respiro profondo, insieme completa e
travolgente. La luce dal cruscotto illuminava l’uniforme medica che indossavo, e
questo bastò per riempirmi la testa dell’innegabilità di quanto accaduto.
Macchie di alberi e cespugli costeggiavano una strada immersa nel buio, a
eccezione dei fari giallognoli della piccola auto. Per la prima volta da anni, vidi
le stelle che i mostruosi fari di Thurmond avevano fatto sbiadire fino a farle
scomparire. Erano così luminose, così nitide che non potevano essere reali. Non
avrei saputo dire cosa fosse più scioccante: l’infinito tratto di strada o il cielo.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
«Non scordarti di respirare, Ruby», disse una voce accanto a me.
Mi tolsi la mascherina chirurgica dalla bocca e mi girai. La dottoressa Begbie
aveva i capelli biondi sciolti; le incorniciavano il viso e le sfioravano le spalle.
Nel tempo che ci era voluto per andare da Thurmond a… dovunque ci
trovassimo, si era tolta l’uniforme e aveva indossato una T-shirt nera e dei jeans.
La notte aveva reso scura la pelle sotto ai suoi occhi, come due lividi. Non avevo
notato gli angoli netti che disegnavano il naso e il mento.
«È un bel po’ che non sali su un’auto, eh?» Rise, ma aveva ragione. Ero più
consapevole dell’andamento a scatti del motore che di quello del mio cuore.
«Dottoressa Begbie…»
«Chiamami Cate», mi interruppe, un po’ più brusca. Non so se reagii
all’improvviso cambiamento di tono, ma lei proseguì immediatamente dicendo:
«Mi spiace, è stata una notte molto lunga, e mi ci vorrebbe un caffè».
Il cruscotto segnava le 4.30 del mattino. Avevo dormito solo due ore, ma mi
sentivo più sveglia di quanto mi fossi sentita in tutta la giornata precedente. In
tutta la settimana. In tutta la vita.
Cate attese che i Rolling Stones avessero finito la canzone prima di spegnere
la radio. «Ormai non passano altro che vecchie canzoni. Subito ho pensato che
fosse uno scherzo, una decisione di Washington, ma a quanto pare è l’unica cosa
che viene richiesta, di questi tempi.» Mi guardò di sottecchi. «Non oso
immaginare il perché.»
«Dottoressa… Cate.» Persino la mia voce era più forte. «Dove siamo? Cosa
sta succedendo?»
Prima che potesse rispondermi, ci fu un colpo di tosse dal sedile posteriore.
Mi voltai, nonostante il dolore al petto e al collo. Accartocciato su se stesso
come a volersi proteggere, c’era un altro ragazzo più o meno della mia età, forse
un anno in meno. Quell’altro ragazzo – Max, Matthew, che ne so –
dell’infermeria, che continuava a dormire e aveva un aspetto decisamente
migliore del mio.
«Siamo appena usciti da Harvey, West Virginia», mi spiegò Cate. «In città
abbiamo incontrato degli amici che mi hanno aiutato a cambiare auto e a tirare
fuori Martin dal baule medico che ho dovuto usare per farlo passare fuori dal
campo.»
«Aspetta…»
«Oh, non ti preoccupare», aggiunse Cate velocemente. «Mi sono assicurata
che ci fossero buchi per l’aria.»
Come se fosse quella la mia più grande preoccupazione.
«Ti hanno permesso di portarlo alla macchina e basta?» chiesi. «Senza
nemmeno controllarlo?»
Mi lanciò un’altra occhiata, e fui fiera del suo sguardo sorpreso. «I dottori a
Thurmond usano quei bauli per gettare i rifiuti medici. L’amministrazione del
campo ha iniziato a costringerci a buttarli via da soli, a causa dei tagli nel
budget. Era il mio turno, insieme a Sarah, questa settimana.»
«Sarah?» la interruppi. «La dottoressa Rogers?»
Cate esitò un secondo prima di annuire.
«Perché l’hai legata… E perché lei? Perché ci stai aiutando?»
Rispose con un’altra domanda.
«Hai mai sentito parlare della Lega dei Bambini?»
«A spizzichi e bocconi», risposi. E solo sussurri. Se le voci erano vere, si
trattava di un gruppo antigovernativo. Erano quelli che secondo i ragazzini più
giovani – gli ultimi ad arrivare a Thurmond – stavano tentando di rovesciare il
sistema dei campi. Quelli che a quanto pareva nascondevano i bambini perché
non venissero catturati. Avevo sempre pensato che non fossero altro che una
favola per quelli della mia generazione: una cosa così bella poteva essere vera.
«Noi», disse Cate, lasciando che quella parola mi entrasse bene in testa prima
di continuare, «siamo un’organizzazione dedicata ad aiutare i bambini colpiti
dalle nuove leggi del governo. John Alban: ne hai sentito parlare? Era il
consulente per l’intelligence di Gray.»
«È stato lui a fondare la Lega dei Bambini?»
Lei annuì. «Dopo la morte di sua figlia, si rese conto di cosa sarebbe successo
ai bambini sopravvissuti. Così lasciò Washington e si mise all’opera per
smascherare gli esperimenti che venivano condotti nei campi. Il New York Times,
il Post, nessun giornale si prese la briga di pubblicare la storia, perché, a quel
tempo, le cose andavano già così male che Gray li teneva in scacco con la scusa
della sicurezza nazionale, e con il crollo dell’economia i giornali più piccoli
sono falliti.»
«Quindi…» Tentavo di avviluppare la mente intorno a quell’idea,
chiedendomi se avessi sentito male. «Quindi ha creato la Lega dei Bambini…
per aiutarci?»
Il viso di Cate si illuminò di un sorriso. «Sì, è esattamente così!»
E allora perché hai aiutato solo me?
La domanda spuntò come un’erbaccia solitaria; orribile, e con radici profonde.
Mi passai una mano sul viso, tentando di schiarirmi le idee, ma non riuscivo a
strapparla via. Avevo una strana sensazione in mezzo al petto, come se qualcosa
si stesse facendo strada dal centro di me. Forse era un grido.
«E che ne sarà degli altri?» Non riconobbi nemmeno la mia voce.
«Gli altri? Intendi gli altri bambini?» Gli occhi di Cate erano fissi sulla strada.
«Possono attendere. La loro situazione non era urgente quanto la tua. Quando il
momento sarà propizio, sono certa che torneremo a prenderli, ma nel frattempo
non ti preoccupare. Sopravvivranno.»
Mi ritrassi quasi istantaneamente, più per il tono che per le parole.
Il modo in cui lo disse – sopravvivranno – fu così sdegnoso che mi aspettavo
che mi allontanasse con un gesto della mano.
Non ti preoccupare. Non ti preoccupare di come siano stati maltrattati, non
preoccuparti delle loro punizioni, non preoccuparti delle pistole costantemente
puntate alla loro schiena. Mi veniva da vomitare.
Li avevo abbandonati, tutti. Avevo abbandonato Sam, anche se le avevo
promesso che saremmo scappate insieme. Dopo tutto quello che lei aveva fatto
per proteggermi, l’avevo abbandonata lì…
«Oh no, Ruby, mi dispiace, non mi sono resa conto di come potesse suonare»,
disse, guardando un po’ me e un po’ la strada. «Intendevo solo… non so
nemmeno io cosa sto dicendo. Sono stata lì per settimane, e ancora non
immagino neanche lontanamente cosa debba aver significato per voi. Non dovrei
comportarmi come se sapessi cosa avete dovuto patire.»
«Li ho… abbandonati, come se niente fosse», mormorai, e non importava che
mi si incrinasse la voce, o che dovessi trattenermi per non alzare le mani su di
lei. «Perché hai preso solo me? Perché non hai potuto salvare anche gli altri?
Perché?»
«Te l’ho già detto», rispose, dolcemente, «dovevi essere tu. Ti avrebbero
uccisa, altrimenti. Gli altri non sono in pericolo.»
«Sono sempre in pericolo», ribattei, e mi chiesi se avesse mai messo piede
fuori dall’infermeria. Come poteva non aver visto? Come poteva non averlo
udito, percepito, respirato? L’aria di Thurmond era talmente permeata di paura
che si sentiva il sapore come di vomito in fondo alla gola. Mi ci era voluto meno
di un giorno in quel posto per capire che l’odio e il terrore vanno a cicli, che si
nutrono l’uno dell’altro. I soldati FSP ci odiavano, e per quella ragione dovevano
fare in modo che li temessimo. E li temevamo, cosa che faceva sì che ci
odiassero ancora di più. C’era la tacita convinzione che ci trovassimo a
Thurmond l’uno per colpa dell’altro. Senza le FSP non ci sarebbe stato alcun
campo, e senza i mostri Psi non ci sarebbe stato bisogno di FSP.
Perciò, di chi era la colpa? Di tutti? Di nessuno? Nostra?
«Avresti dovuto lasciarmi là… avresti dovuto prendere qualcun altro,
qualcuno migliore di me… Verranno puniti per questo, lo so, faranno loro del
male ed è colpa mia perché me ne sono andata e li ho abbandonati…» Sapevo
che stavo farfugliando, ma non ero in grado di connettere i pensieri alla lingua.
Quella sensazione, quel senso di colpa che mi ingoiava il cuore, la tristezza che
mi ghermiva e non mollava la presa mai e poi mai… come si faceva a raccontarli
a qualcuno? Come si poteva trasformarli in parole?
Cate schiuse le labbra, ma non emise alcun suono per diversi minuti. Afferrò
saldamente il volante e portò la macchina verso il ciglio della strada. Tolse il
piede dall’acceleratore e lasciò che la macchina si fermasse, esitante. Quando
finalmente le ruote smisero di girare, aprii la portiera, trafitta da una lancia di
dolore totale e completo.
«Cosa stai facendo?» chiese Cate.
Non aveva forse accostato perché voleva che scendessi? Avrei fatto la stessa
cosa, se i ruoli fossero stati capovolti. Capivo perfettamente.
Mi feci indietro quando Cate allungò il braccio verso di me, ma lei chiuse con
forza la portiera e mi sfiorò la spalla con le dita. Rabbrividii, spingendomi contro
lo schienale più che potevo, per evitare il suo tocco. Erano anni che non mi
sentivo così male: mi ronzava la testa, segno evidente che stavo per perdere il
controllo. Se le era venuto in mente di abbracciarmi, o di accarezzarmi il
braccio, o qualche altra cosa che mia mamma avrebbe potuto fare, la mia
reazione doveva essere stata sufficiente a dissuaderla.
«Ascoltami molto attentamente», disse, e non sembrava importarle che una
macchina o un soldato FSP potessero sbucare da un momento all’altro. Aspettò
che la guardassi negli occhi. «La cosa più importante che tu abbia mai fatto è
stata imparare a sopravvivere. Non lasciare che nessuno ti convinca che non
avresti dovuto, o che meritavi di stare in quel campo. Sei importante, e hai
valore. Hai valore per me, hai valore per la Lega e hai valore per il futuro…» La
sua voce si incrinò. «Non ti farò mai del male, non ti urlerò contro, non ti lascerò
morire di fame. Ti proteggerò per il resto della mia vita. Non potrò mai capire
del tutto cos’hai passato, ma ti ascolterò sempre quando avrai bisogno di
sfogarti. Chiaro?»
Qualcosa di caldo mi sbocciò nel petto, anche se il respiro mi si bloccava in
gola. Volevo replicare, ringraziarla, chiederle di ripeterlo ancora solo per essere
sicura di non aver sentito male.
«Non posso far finta che non sia mai accaduto», le dissi. Sentivo ancora le
vibrazioni della recinzione sotto la pelle.
«E non devi: non devi mai dimenticare. Ma imparare ad andare avanti fa parte
della sopravvivenza. C’è questa parola», proseguì, voltandosi a osservare le
proprie dita strette al volante. «Non esiste niente di simile nella nostra lingua. È
portoghese. Saudade. La conosci?»
Scossi la testa. Non conoscevo neanche la metà delle parole della mia lingua.
«È più… non c’è una definizione esatta. È più un’espressione di sentimento…
di terribile tristezza. È la sensazione che si prova quando ci si rende conto che
qualcosa che hai perso è perso per sempre, non lo ritroverai mai.» Cate fece un
respiro profondo. «Ho pensato spesso a quella parola, a Thurmond. Perché la
vita che avevate prima, che tutti noi avevamo prima, non potremo mai ritrovarla.
Ma in ogni fine c’è un nuovo inizio, sai? È vero che non puoi riprenderti ciò che
avevi, ma puoi chiudertelo alle spalle. Ricominciare da capo.»
Capivo cosa intendeva, e capivo che le sue parole erano il frutto di un sincero
desiderio di prendersi cura di me, ma dopo aver dovuto spezzettare la mia vita in
turni per così tanto tempo, non potevo nemmeno immaginare di doverla dividere
ancora di più.
«Tieni», mi disse, infilando una mano nel colletto della T-shirt. Si tolse una
lunga catenina d’argento, svelando alla fine un pendente nero e rotondo, appena
più grande del mio pollice. Allungai la mano, e Cate me lo fece cadere sul
palmo. La catenina era calda per il contatto con la sua pelle, ma mi sorpresi di
scoprire che il pendente non era altro che plastica. «Lo chiamiamo pulsante di
emergenza», continuò. «Se lo tieni premuto per venti secondi, si attiva, e
qualunque agente nelle vicinanze potrà rispondere. Non credo che avrai mai
bisogno di usarlo, ma vorrei che lo tenessi. Se mai ti sentissi impaurita, o se ci
separassimo, voglio che lo usi.»
«Mi traccerà?» L’idea mi metteva vagamente a disagio, ma indossai
comunque la catenina.
«No, a meno che lo attivi», promise Cate. «Li abbiamo progettati per fare in
modo che le FSP non potessero intercettare il segnale per caso. Te lo garantisco,
sei tu che hai il controllo, Ruby.»
Sollevai il pendente tenendolo tra pollice e indice. Quando mi accorsi di
quanto erano sporche le mie dita, e di quanta sporcizia avessi ancora sotto le
unghie, lo feci cadere. Io e le cose belle non andavamo d’accordo.
«Posso farti un’altra domanda?» Aspettai che riportasse l’auto in carreggiata,
e anche a quel punto ci misi un po’ a trovare le parole. «Se la Lega dei Bambini è
stata creata per mettere fine ai campi, perché siete venuti a prendere me e
Martin? Perché non avete anche fatto saltare la torre di controllo, già che
c’eravate?»
Cate si passò una mano sulle labbra. «Non mi interessa quel tipo di
operazioni», rispose. «Preferisco di gran lunga concentrarmi sul vero problema,
ossia aiutare voi ragazzi. Si può distruggere una fabbrica, e loro ne costruiranno
un’altra. Ma, una volta che distruggi una vita, è finita. Non si può più
recuperare.»
«La gente ha idea di cosa stia succedendo?» riuscii a tirare fuori. «Sanno che
non ci stanno affatto riformando?»
«Non ne sono sicura. Alcuni continueranno a negarlo, e a credere quello che
vogliono credere sui campi. Penso che la maggior parte delle persone sappia che
c’è qualcosa che non va, ma sono troppo presi dai propri problemi per mettere in
discussione il modo in cui il governo sta gestendo la situazione nei campi. Credo
che vogliano fidarsi del fatto che vi stanno trattando bene. Onestamente, siete…
siete rimasti così pochi, ormai.»
Mi raddrizzai. «Cosa?»
Stavolta, Cate non riuscì a guardarmi. «Non volevo essere io a dirtelo, ma le
cose sono peggiorate molto. Secondo l’ultima stima messa insieme dalla Lega, il
due per cento dell’intera popolazione nazionale di ragazzi tra i dieci e diciassette
anni è in un campo riformatorio.»
«E tutti gli altri?» chiesi, ma sapevo già la risposta. «Il novantotto per cento?»
«La maggior parte di loro sono stati vittime della NIAA.»
«Sono morti», la corressi. «Tutti? Ovunque?»
«No, non ovunque. Sono stati segnalati alcuni casi in altri Paesi, ma qui in
America…» Cate respirò a fondo. «Non so quanto raccontarti ora, perché non
voglio travolgerti, ma sembra che l’inizio della NIAA o dei poteri Psi sia legato
alla pubertà…»
«Quanti?» Davvero non avevano scoperto niente di nuovo in tutti gli anni che
avevo trascorso a Thurmond? «Quanti di noi sono rimasti?»
«Secondo il governo, ci sono circa 250.000 bambini al di sotto dei diciotto
anni, ma la nostra stima è più vicina a un decimo di quella cifra.»
Stavo per vomitare. Mi slacciai la cintura e mi chinai in avanti, mettendo la
testa tra le ginocchia. Con la coda dell’occhio vidi Cate abbassare la mano come
per appoggiarmela sulla schiena, ma sgusciai via ancora una volta. Per lungo
tempo, l’unico rumore tra noi fu quello delle ruote che giravano sulla vecchia
strada. Tenni la testa abbassata e gli occhi chiusi abbastanza a lungo da far
preoccupare Cate.
«Hai ancora la nausea? Abbiamo dovuto darti un alto dosaggio di penicillina
per provocare sintomi simili a una crisi epilettica. Credimi, se avessimo potuto
fare diversamente lo avremmo fatto, ma avevamo bisogno di qualcosa di
abbastanza grave da convincere i soldati a riportarti in infermeria.»
Martin, dietro di noi, russava, ma alla fine anche quel suono si perse nel
rumore delle ruote che scivolavano sull’asfalto. Mi si strinse lo stomaco al
pensiero di chiedere a quanti chilometri di distanza da Thurmond ci trovassimo.
Quanto lontano fosse il passato.
«Lo so», dissi dopo un po’. «Grazie davvero.»
Cate si avvicinò e, prima che potessi fermarla, fece scorrere la mano dalla mia
spalla lungo il braccio. Sentii qualcosa di tiepido solleticarmi la mente, e
riconobbi il segnale d’allarme. Il primo lampo incandescente dalla mente di Cate
comparve e scomparve così rapidamente che vidi la scena come il negativo di
una foto. Una bambina dai capelli biondissimi seduta su un seggiolone, la bocca
congelata in un sorriso sdentato. La successiva durò abbastanza a lungo da
rendermi conto che stavo vedendo del fuoco. Fuoco ovunque, che risaliva le
pareti della stanza e bruciava intenso come il sole. Questo… ricordo? Tremava,
rabbrividiva in modo tale che dovetti stringere i denti per non soccombere alla
nausea. Dentro al ricordo di Cate comparve una porta argentata con la scritta
456B in lettere nere. Apparve una mano, tesa verso la maniglia – le dita pallide e
sottili di Cate, tese – solo per ritrarsi al tocco rovente. Una mano si abbatté sullo
stipite di legno, poi un piede. L’immagine tremolò, accartocciandosi sui bordi e
facendo scomparire la porta dietro a una coltre di fumo nero che filtrava da ogni
fessura. La stessa porta buia si chiuse di scatto, e io saltai indietro, sottraendo il
braccio alla sua presa.
Che diavolo? pensai, con il cuore che mi batteva nelle orecchie. Strinsi forte
gli occhi.
«Ancora?» domandò Cate. «Oh, Ruby, mi dispiace tanto. Appena cambiamo
macchina, chiedo qualcosa per metterti a posto lo stomaco.»
Anche lei, come tutti gli altri, era completamente ignara.
«Sai…» disse dopo un po’. Teneva gli occhi sulla strada buia, nel punto in cui
incontrava il cielo che iniziava a rischiararsi. «Sei stata coraggiosa a prendere le
pillole e venire con me. Sapevo che c’era qualcosa in più, dentro di te, della
ragazza silenziosa che ho incontrato in infermeria.»
Non sono coraggiosa. Se lo fossi stata, avrei ammesso ciò che ero veramente,
per quanto terribile. Avrei lavorato, mangiato e dormito insieme agli altri
Arancioni, o almeno mi sarei sottratta all’ombra dei Gialli e dei Rossi.
Quei ragazzi erano così fieri dei propri poteri. Si erano dati la missione di
infastidire i responsabili del campo a ogni occasione, ferendo i soldati, dando
fuoco alle proprie baracche o ai bagni, tentando di convincere qualcuno a
lasciarli uscire dai cancelli o facendo impazzire gli adulti infilando loro in testa
immagini delle loro famiglie assassinate o di mogli adultere.
Era impossibile non vederli, non farsi da parte e voltare la testa al loro
passaggio. Mi ero concessa di rimanere seduta, da codarda, in un cupo flusso
infinito di grigio e verde, senza mai attirare l’attenzione, senza mai darmi il
permesso di credere di avere la possibilità o il diritto di fuggire.
Penso che tutti loro desiderassero solo trovare una via d’uscita, e trovarla da
soli. Bruciavano intensamente, e avevano lottato tanto per essere liberi.
E nessuno di loro era arrivato a compiere sedici anni.

Ci sono mille modi di capire se qualcuno ti sta mentendo. Non c’è bisogno di
vedere nella loro mente per cogliere i piccoli segnali di insicurezza e disagio. La
maggior parte delle volte, basta osservarli. Se guardano a sinistra mentre
parlano, se aggiungono qualche dettaglio di troppo a una storia, se rispondono a
una domanda con un’altra domanda. Mio padre, un poliziotto, lo aveva insegnato
a me e ad altri ventiquattro bambini quando aveva fatto una lezione, a scuola, sul
pericolo di parlare con gli sconosciuti.
Ma Cate era impossibile da leggere. Mi aveva raccontato cose sul mondo là
fuori che non mi sembravano possibili, almeno finché intercettammo una
stazione radio e una voce solenne filtrò dalle casse, confermando ogni cosa.
«Sì!» esclamò, battendo la mano sul volante. «Finalmente!»
«Il presidente ha rifiutato un invito da parte del Primo ministro britannico a
discutere delle possibili misure volte ad affievolire gli effetti della crisi
economica globale e a riportare in vita i mercati finanziari globali ormai
moribondi. Alla richiesta di spiegare la propria decisione, il presidente ha
incolpato il ruolo giocato dal Regno Unito nell’imposizione di sanzioni
economiche ONU contro gli Stati Uniti.»
Cate tentò di aggiustare il segnale. La voce dell’annunciatore sparì e tornò.
Alla prima scarica di statica, sobbalzai.
«…quarantacinque donne sono state arrestate ieri a Austin, Texas, per aver
tentato di evadere il registro delle nascite. Le donne saranno rinchiuse in un
istituto penitenziario fino alla nascita dei loro figli, quando i neonati verranno
portati via a garanzia della sicurezza delle madri e dello Stato del Texas. Il
procuratore generale ha dichiarato…» Un’altra voce si sovrappose, profonda e
rauca. «In osservanza del Nuovo Ordine 15, il presidente Gray ha emesso un
mandato d’arresto per chiunque sia coinvolto in questa attività pericolosa…»
«Gray?» dissi guardando Cate. «È ancora lui il presidente?»
Era stato appena eletto quando comparvero i primi casi di NIAA, e non
ricordavo molto di lui, tranne che aveva capelli e occhi scuri. E lo sapevo solo
perché l’amministrazione del campo aveva appeso dappertutto foto di suo figlio,
Clancy, come prova che anche noi potevamo essere riformati. Ebbi un
improvviso, limpido ricordo dell’ultima volta che ero stata in infermeria, e di
come mi era sembrato che la sua foto mi osservasse.
Cate scosse la testa, disgustata. «Si è concesso una deroga al mandato fino a
che la crisi Psi, cito testualmente, ‘sarà risolta in modo tale da garantire la
sicurezza degli Stati Uniti da attacchi terroristici telecinetici e dalla violenza’. Ha
persino sospeso il Congresso.»
«Come ha fatto?»
«Instaurando una cosiddetta legge marziale», rispose Cate. «Forse un anno o
due dopo che sei stata catturata, alcuni ragazzi Psi sono quasi riusciti a far saltare
il Campidoglio.»
«Quasi? Cosa significa?»
Cate mi studiò a lungo. «Significa che sono riusciti solo a far saltare il Senato.
Il controllo di Gray sul parlamento avrebbe dovuto durare solo fino alle
successive elezioni del Congresso, ma poi sono scoppiati dei disordini quando le
FSP hanno iniziato a catturare i bambini a scuola senza il permesso dei genitori.
E in seguito, ovviamente, l’economia è colata a picco e il Paese è andato in
default. È sorprendente quanto poco si senta la tua voce, quando hai perso ogni
cosa.»
«E gli hanno permesso di fare tutto ciò?» Il pensiero mi dava allo stomaco.
«No, nessuno glielo ha permesso. C’è il caos là fuori, Ruby. Gray continua a
provare a stringere la presa, e ogni giorno sempre più persone protestano o
infrangono le poche leggi rimaste pur di mettere un pasto in tavola.»
«Mio padre è stato ucciso in una protesta.»
Cate si voltò verso il sedile posteriore così in fretta che l’auto fu sul punto di
invadere la corsia opposta. Sapevo già da dieci minuti che Martin si era
svegliato; aveva il respiro molto più leggero, e aveva smesso di fare quegli strani
grugniti e di leccarsi le labbra. Solo che non avevo voglia di parlargli, o di
interrompere Cate.
«La gente del nostro quartiere ha derubato il suo negozio di alimentari, e lui
non ha potuto nemmeno difendersi.»
«Come ti senti?» Le parole di Cate erano dolci quasi quanto il deodorante alla
vaniglia che dondolava davanti a noi.
«Bene, direi.» Si tirò su a sedere, schiacciando i capelli castani scompigliati
per rendersi presentabile. Martin era tutto rotondo; le guance erano cadenti e la
camicia dell’uniforme sembrava di una taglia troppo piccola, ma lui non era
cresciuto quanto i suoi compagni di baracca. Ero alta qualche centimetro più di
lui, eppure ero bassina, di corporatura normale. Doveva avere al massimo un
anno meno di me.
«Sono contenta», replicò Cate. «C’è una bottiglia d’acqua lì dietro, se ti serve.
Ci fermiamo tra un’oretta per cambiare di nuovo auto.»
«Dove andiamo?»
«A incontrare un amico a Marlinton, West Virginia. Ci darà un cambio d’abito
e carte d’identità per voi due. Siamo quasi arrivati.»
Ero sicura che Martin si fosse rimesso a dormire, quando chiese: «E dopo,
dove andremo?»
La radio riprese vita, catturando frammenti dei Led Zeppelin, per poi perdersi
ancora in scariche elettriche e silenzio.
Sentivo gli occhi di Martin bucarmi la nuca. Tentai di non girarmi e restituirgli
lo sguardo, ma non ero mai più stata così vicina a un maschio dallo smistamento.
Dopo anni passati a vivere ai lati opposti del sentiero principale di Thurmond, mi
innervosiva avere davanti agli occhi tutti quei dettagli. Le lentiggini che non
avevo notato sul suo viso, per esempio, o il modo in cui le sopracciglia
diventavano una sola. Cosa potevo dirgli? Sono contenta di averti trovato?
Siamo rimasti solo noi? Una era la verità, l’altra era quanto di più lontano
potesse esserci.
«Ci riuniremo alla Lega nel quartier generale sud. Da lì, potrete decidere se
volete restare», disse Cate. «So che ne avete passate tante, perciò non siete tenuti
a prendere decisioni ora. Sappiate che se resterete con me sarete al sicuro.»
Una sensazione di libertà mi montò dentro con tale velocità che dovetti
rincorrerla per riuscire a dominarla, allo stesso modo del mio cuore impazzito.
Era ancora troppo pericoloso. C’era ancora una possibilità che le FSP ci
trovassero. Che tornassi al campo, o che mi ammazzassero prima di arrivare in
Virginia.
Martin mi osservava con gli occhi scuri stretti a fessura. Notai che le sue
pupille sembravano rimpicciolirsi, e sentii un prurito nella mente, lo stesso che
sentivo quando le mie abilità premevano per essere liberate e utilizzate.
Che diavolo? Affondai le dita nei braccioli, ma non mi voltai a vedere se
continuava. Lanciai una sola occhiata allo specchietto retrovisore, e vidi Martin
appoggiarsi allo schienale e mettersi a braccia conserte sbuffando. Aveva un
herpes all’angolo della bocca, rosso e infiammato come se si fosse grattato la
crosta.
«Voglio andare dove posso fare quello che non mi era permesso a Thurmond»,
disse infine.
Non volevo sapere cosa intendesse.
«Sono molto più potente di quanto pensiate», continuò. «Non avrete bisogno
di nessun altro dopo che avrete visto ciò che so fare.»
Cate sorrise. «Conto proprio su questo. Sapevo che avresti capito.»
«E tu che ne dici, Ruby?» domandò, voltandosi verso di me. «Anche tu vuoi
fare la differenza?»
Se avessi detto di no, mi avrebbero lasciata andare? Se avessi chiesto di
tornare a Salem a casa dei miei genitori, mi avrebbero riportata lì, senza fare
domande? O a Virginia Beach, se volevo vedere mia nonna? O fuori dal Paese,
se lo avessi davvero voluto?
Mi stavano osservando entrambi, con sguardi simmetrici e carichi di
aspettativa ed eccitazione. Avrei voluto provarle anch’io; avrei voluto
condividere la sicurezza che entrambi provavano per le proprie scelte, ma non
ero sicura di cosa volessi. Sapevo solo ciò che non volevo.
«Portatemi ovunque. Ovunque, tranne che a casa.»
Martin si grattò la crosta con le unghie sporche fino a far uscire il sangue, poi
lo leccò via dalle labbra e dalla punta delle dita. Osservandomi, come se si
aspettasse che gli chiedessi un assaggio.
Mi voltai di nuovo verso Cate con una domanda che mi morì sulle labbra.
Perché per un secondo, uno solo, non fui in grado di pensare ad altro che
all’immagine del fuoco e del fumo che si alzavano oltre la linea netta delle sue
spalle, e della porta che non riusciva ad aprire.
7

A ai margini di Marlinton alle sette del mattino, proprio mentre il sole


RRIVAMMO

decideva di riapparire da dietro la fitta coltre di nubi. Colorava di lilla gli alberi e
sbucava oltre il muro di foschia che si era raccolto sull’asfalto. A quel punto,
avevamo ormai oltrepassato numerose uscite autostradali barricate da
immondizia, transenne o auto abbandonate: opera della Guardia Nazionale per
contenere città ostili o degli stessi abitanti per tenere lontano saccheggiatori e
visitatori non graditi da zone messe ancora peggio. La strada in sé, comunque,
era silenziosa da ore, e ciò significava che avremmo dovuto aspettarci un
contatto umano, prima o poi.
Arrivò prima del previsto: un camioncino rosso. Scivolai giù sul sedile mentre
ci sorpassava, portandosi dietro il rumore di motore e ruote. Andava nella
direzione opposta, ma vidi perfettamente il cigno d’oro dipinto sul fianco.
«Sono ovunque», disse Cate, seguendo il mio sguardo. «Quella probabilmente
era una consegna per Thurmond.»
Era il primo vero segno di vita che avevamo visto in tutto il tragitto – molto
probabilmente perché stavamo percorrendo l’Autostrada della Morte nel bel
mezzo del Nulla – ma anche quell’unico camioncino bastò a spaventare Cate.
«Vai sul sedile di dietro», mi disse. «E stai giù.»
Obbedii. Slacciandomi la cintura, mi strizzai tra i sedili e ci infilai le gambe.
Martin mi osservava con occhi inespressivi. A un certo punto, sentii la sua mano
lungo il braccio, come se stesse tentando di aiutarmi. Mi ritrassi, scivolando
nello spazio tra i sedili anteriori e posteriori. Avevo la schiena contro la portiera
e le ginocchia strette al petto, ma eravamo ancora troppo vicini. Bastava un suo
sorriso a farmi rabbrividire.
C’erano maschi a Thurmond. Un sacco, a dire la verità. Ma qualsiasi attività
che prevedesse una commistione tra i sessi – che si trattasse di mangiare
insieme, condividere una baracca, persino incrociarsi andando in bagno – era
severamente proibita. Le FSP e gli amministratori del campo sorvegliavano sul
rispetto di quella regola con la stessa severità riservata a chi usava le proprie
abilità, intenzionalmente o meno. Il che ovviamente serviva solo a far impazzire
i nostri cervelli già ubriachi di ormoni, trasformando alcune delle mie compagne
in una squadra d’élite di stalker.
Forse non ricordavo il modo «corretto» di interagire con qualcuno dell’altro
sesso, ma sono quasi certa che non lo ricordasse nemmeno Martin.
«Divertente, eh?» disse. Pensavo che stesse scherzando, finché vidi
l’espressione famelica nei suoi occhi. Mi tornò il prurito, la sensazione che
stesse di nuovo provando a scrutarmi nella mente, e sentii il terrore scivolarmi
lungo la schiena come la punta di un dito di ghiaccio. Mi schiacciai contro la
portiera e tenni gli occhi fissi su Cate, ma non bastò nemmeno quello.
Non ci assomigliamo per niente, mi resi conto. Siamo stati portati nello stesso
posto, abbiamo vissuto nello stesso terrore, ma lui… lui è così…
Dovevo cambiare argomento e distrarlo da ciò che stava tentando di fare.
L’aria condizionata era accesa ma era impossibile da percepire, con tutto il
calore emesso da Martin.
«Pensi che a Thurmond si siano accorti che siamo scappati?» chiesi,
rompendo il silenzio.
Cate spense i fari. «Direi di sì. Le FSP non hanno abbastanza uomini da darci
la caccia, ma sono sicura che abbiano fatto due più due e capito chi siete.»
«Cosa intendi? Che siamo Arancioni? Pensavo che avessi detto che lo
sapevano già. Che era per quello che dovevamo scappare così in fretta.»
«Erano sul punto di scoprirlo», spiegò Cate. «Stavano testando le frequenze
per Arancioni e Rossi con quel Controllo della Calma. Non penso che si
aspettassero di vederlo funzionare così rapidamente; è per questo che dovevamo
tirarvi fuori, e in fretta.»
«Frequenze», disse Martin. «Vuol dire che hanno aggiunto qualcosa?»
«Esatto.» Cate gli sorrise dallo specchietto retrovisore. «La Lega aveva sentito
voci di un nuovo metodo per individuare i ragazzi che erano stati smistati
erroneamente all’arrivo nel campo. Di certo sapete che gli adulti non sentono il
Controllo della Calma.»
Annuimmo entrambi.
«Gli scienziati sono al lavoro su alcune frequenze che solo certi tipi di ragazzi
Psi riescono a cogliere e analizzare. Ci sono lunghezze d’onda che potete sentire
tutti, e altre che solo i Verdi o i Blu o, in questo caso, gli Arancioni
percepiscono».
Aveva senso, ma ciò non lo rendeva meno terrificante.
«Sapete», disse Cate, «mi domando come abbiate fatto voi due. Specialmente
tu, Ruby. Sei entrata in quel campo giovanissima. Come sei riuscita a ingannare
lo smistamento?»
«Io… l’ho fatto e basta», risposi. «Ho detto all’uomo incaricato dei miei test
di essere Verde. E lui mi ha dato retta.»
«Debole», disse Martin, guardandomi negli occhi. «Probabilmente non hai
nemmeno dovuto usare i poteri.»
Non mi piaceva chiamarli «poteri»: sembrava sottintendere che ci fosse
qualcosa da celebrare, invece non c’era un bel niente da festeggiare.
«Io ho chiesto a qualcuno di prendere il mio posto quando hanno iniziato a
separare gli Arancioni e i Rossi; non volevo andare con loro, capite?» Martin si
chinò in avanti. «Allora ho preso da parte uno dei nuovi Verdi, che aveva più o
meno la mia età, e ho convinto sia lui sia il guardiano che lui fosse me. Lo stesso
con chiunque facesse domande. Uno per uno. Figo, no?»
Il disgusto mi strinse la pancia. Non era minimamente dispiaciuto per ciò che
aveva fatto, era evidente. Forse io avevo mentito su chi ero davvero, ma non
avevo condannato un altro bambino per farlo. Era quello il risultato, quando si
prendeva il controllo sulle proprie abilità arancioni? Una specie di mostro,
capace di fare ciò che voleva perché nessuno era in grado di fermarlo? Era così
che ci si sentiva a essere potenti?
«Quindi puoi far credere alle persone di essere qualcosa che non sono?»
chiese Cate. «Pensavo che gli Arancioni potessero solo impartire degli ordini.
Una specie di ipnosi…»
«Nah», fece Martin. «Posso fare molto più di questo. Posso convincere la
gente a fare ciò che voglio facendole provare le sensazioni che voglio. Come il
ragazzino con cui ho scambiato il posto: l’ho fatto sentire troppo spaventato per
rimanere dentro alla sua baracca e gli ho fatto credere che fosse una buona idea
spacciarsi per me. A chiunque mi facesse domande, facevo credere che fosse una
pazzia. Perciò posso ordinare alla gente di fare delle cose ma, più che altro, se
voglio che qualcuno faccia del male a un altro, devo farlo sentire davvero,
davvero arrabbiato con la persona che voglio che attacchi.»
«Uh», fece Cate. «Ed è lo stesso per te, Ruby?»
No. Per niente, a dire la verità. Abbassai lo sguardo sulle mani, sul fango
scuro ancora sotto le unghie. Il pensiero di rivelare esattamente ciò che ero in
grado di fare mi fece tremare in modo inaspettato. «Non provoco sensazioni
nella gente, soltanto vedo delle cose.»
Almeno, per quanto ne sapevo.
«Wow… io proprio… wow. So che continuo a ripeterlo ma voi due siete
incredibili. Penso alle cose che potreste fare, a quanto potreste aiutarci…»
Girandomi, alzai la testa quel poco che bastava per vedere la strada. Martin
aveva afferrato una ciocca dei miei capelli e se la stava avvolgendo sulle dita.
Scorgevo il riflesso del mio viso rotondo nello specchietto – i grandi occhi che
parevano assonnati, le ciglia folte e scure, le labbra piene – e notai comparire il
disgusto.
Non avrei dovuto, ma abboccai. Martin ebbe appena il tempo di prepararsi
prima che mi girassi di scatto e allontanassi la sua mano appiccicosa con una
sberla. Il respiro successivo mi si bloccò in gola. Non toccarmi, avrei voluto
dire; non credere che non ti romperò ogni singolo dito di quella mano. Ma lui mi
rivolse un ghigno, con la lingua appoggiata alla crosticina dell’herpes, alzando di
nuovo la mano e agitando le dita verso di me, in segno di sfida. Mi sporsi in
avanti per afferrargli il polso e zittirlo una volta per tutte, quel porco che
dimostrava di essere.
Ma era esattamente ciò che voleva. Quando me ne accorsi fu come essere
travolta da un’onda densa e lenta che mi scese fino alla pancia. Voleva
mostrarmi ciò che era in grado di fare, affinché io esibissi le mie abilità con la
stessa cattiveria che scorreva nelle sue vene.
Gli voltai la schiena, stringendo i pugni alle sue risatine trionfanti.
Era stata mia la rabbia, o anche quella veniva da lui?
«Tutto bene lì dietro?» chiese Cate. «Tenete duro, siamo quasi arrivati.»
Qualunque aspetto avesse Marlinton di solito, sotto la coltre di nubi plumbee e
lo strato di pioggia sottile era sicuramente peggiorato. Era strana e terribile al
punto da distrarre Martin dal giocare con la mia mente.
I centri commerciali deserti, con le vetrine spaccate, erano già abbastanza
inquietanti, ma poi svoltammo in un quartiere di casette bianche, grigie e
marroni. Oltrepassammo parecchie auto ferme lungo le strade e nei vialetti,
alcune con cartelli arancione brillante ancora appesi al parabrezza, ma tutte
VENDESI

coperte da uno spesso strato di foglie marroni marce, e circondate da mucchi di


spazzatura: scatoloni, mobili, tappeti e computer. Stanze intere piene di oggetti
elettronici inutili.
«Cos’è successo qui?» chiesi.
«È un po’ difficile da spiegare… Ti ricordi cosa ti ho detto dell’economia?
Dopo l’attacco a Washington, il governo è caduto in picchiata, e sai: una cosa
tira l’altra. Non potevamo più pagare il debito nazionale, non potevamo più dare
soldi ai singoli Stati, non potevamo garantire alcun benefit, non potevamo
nemmeno pagare gli impiegati governativi. Neanche le cittadine più piccole,
come questa, l’hanno scampata. La gente ha perso il lavoro perché le ditte sono
fallite, poi ha perso la casa perché non poteva pagare il mutuo. È stata una cosa
terribile.»
«Ma dove sono finiti tutti?»
«Nelle tendopoli ai margini delle grandi città come Richmond o Washington,
in cerca di lavoro. So che molte persone si sono trasferite a ovest perché
ritengono che là ci sia più disponibilità di cibo e di lavoro, ma… beh, immagino
che almeno saranno più al sicuro. Qui in giro ci sono un sacco di saccheggiatori
e vigilantes.»
Avevo quasi paura a chiederlo. «E la polizia? Perché non li ha fermati?»
Cate si morse il labbro. «Come ti ho detto, gli Stati non potevano più pagare
loro lo stipendio, perciò sono stati licenziati. La maggior parte del lavoro di
polizia è portato avanti da volontari, ormai, o dalla Guardia Nazionale. È per
questo che devi stare vicino a me, d’accordo?»
La situazione peggiorò ancora quando passammo accanto alla scuola
elementare. La struttura per arrampicarsi in tinte pastello, o ciò che ne rimaneva,
era macchiata di nero e ritorta verso terra. Stormi di uccelli si erano appollaiati
sulla sua schiena spezzata, e ci osservarono mentre superammo lo stop e
girammo l’angolo. Oltrepassammo quella che doveva essere stata la mensa, ma
l’intero lato destro dell’edificio si era sbriciolato su se stesso. Il murale
multicolore di visi soleggiati dipinto sull’altro lato si vedeva appena, al di là
della rete intricata di nastro giallo della polizia che delimitava i detriti.
«Qualcuno ha messo una bomba nella mensa, prima della prima Raccolta»,
disse Cate. «Scoppiò all’ora di pranzo.»
«Il governo?» chiese Martin, ma Cate non aveva una risposta. Mise la freccia
per svoltare a destra, anche se non c’era nessuno a cui segnalare.
Una città senza persone.
Il mio respiro appannava il finestrino quando ci lasciammo alle spalle il
quartiere per dirigerci verso un’altra fila di negozi. Oltrepassammo uno
Starbucks, un salone di bellezza, un McDonald’s, un altro salone di bellezza
prima che finalmente ci fermassimo in una stazione di rifornimento. Scorsi
immediatamente l’altra auto, un SUV marrone, di un modello che non avevo mai
visto. L’uomo che vi era appoggiato contro non stava facendo benzina, sarebbe
stato impossibile. Tutti i distributori erano distrutti, con i tubi e i beccucci
sparpagliati sull’asfalto.
Cate suonò il clacson, ma l’uomo ci aveva già visti e ci salutava con la mano.
Era giovane, almeno quanto Cate, di corporatura piccola e con capelli scuri che
gli coprivano la fronte. Quando ci avvicinammo, il suo sorriso si allargò e si
illuminò ancora di più, e lo riconobbi come l’uomo che avevo visto nei pensieri
di Cate. Quello che lei aveva visualizzato in un vortice di colori e luci mentre ci
allontanavamo da Thurmond.
Cate parcheggiò frettolosamente e spalancò la portiera, dirigendosi verso di
lui. Scoppiò a ridere e gli gettò le braccia al collo, abbandonandosi contro di lui
con tale forza da fargli volare gli occhiali da sole.
Martin posò il suo palmo sudaticcio sul punto in cui il colletto della T-shirt mi
lasciava scoperto il collo, stringendomi appena, e questo mi bastò.
Aprii la portiera con una spinta e scesi, che Cate lo volesse o meno.
L’aria era zuppa di una sottile foschia di pioggia, che illuminava gli alberi e
l’erba di verde elettrico. Mi si attaccava alle guance e ai capelli, un piacevole
sollievo dopo aver passato le ultime ore rinchiusa insieme a Martin-Fiato-da-
Leone, che sembrava perennemente ricoperto di qualcosa di appiccicoso.
«Hanno trovato Norah circa mezz’ora dopo che ve ne siete andati», disse
l’uomo mentre mi avvicinavo. «Vi hanno messo alle calcagna due unità. Avete
avuto problemi?»
«Nessuno.» Cate gli stringeva la vita con le braccia. «Ma non mi sorprende.
Sono ridotti all’osso, ormai. Ma dove sono i tuoi…»
L’uomo fece un secco cenno di diniego, con un’ombra sul viso. «Non sono
riuscito a farli uscire.»
Il corpo di Cate sembrò abbandonarsi. «Oh… mi dispiace.»
«Non ti preoccupare. Sembra che tu abbia avuto più successo di me. Lei sta
bene?» Entrambi si voltarono a guardarmi.
«Ah, Rob… lei è Ruby», disse. «Ruby, lui è il mio… lui è Rob.»
«Che presentazione noiosa!» protestò Rob. «Vedo che quelle carine le
nascondevano a Thurmond.»
Mi tese la mano. Un palmo largo, cinque dita, nocche pelose. Normale. Dal
modo in cui lo fissavo, si sarebbe detto che avesse la pelle coperta di scaglie.
Tenni la mano premuta contro la coscia e feci un passo verso Cate.
Rob non aveva pistole, coltelli né una macchina per il Rumore Bianco, ma
vedevo tagli e lividi, alcuni recenti, incrociarsi sul dorso della sua mano fino al
polso, dove le linee rosse scomparivano sotto la camicia bianca. Solo quando
ritrasse la mano notai lo spruzzo di macchioline rosse sul polsino destro.
L’espressione di Rob si indurì quando notò dove stavo guardando. La stessa
mano scomparve dietro la schiena di Cate, a stringerle la vita.
«Una rubacuori, eh?» Cate gli rivolse uno sguardo. «Sarà perfetta per lavorare
sotto copertura. Chi potrebbe mai dire di no a quel faccino? Un’Arancione.»
Rob fece un fischio di apprezzamento.
Gente che apprezzava gli Arancioni, pensa un po’.
«Sarah sta bene?» insistetti.
Rob assunse un’aria confusa.
«Intende Norah Jenkins», spiegò Cate. «Il nome Sarah era una copertura.»
«Sta bene», disse Rob, posandomi una mano sulla spalla. «Per quanto ne so, la
stanno ancora interrogando. Sono sicuro che le nostre spie a Thurmond ci
informeranno se cambia qualcosa.»
Persi improvvisamente la sensibilità alle mani. «Cate è il tuo vero nome?»
Lei rise. «Sì, ma il mio cognome è Conner, non Begbie.»
Annuii, ma solo perché non sapevo cosa dire.
«Non avevi detto che ce n’erano due?» Rob guardava oltre la mia spalla.
Come rispondendo a un segnale, sentii una portiera aprirsi e sbattere.
«Eccolo», disse Cate, come una fiera mamma chioccia. «Martin, vieni qui.
Voglio farti conoscere un nuovo compagno. Verrà con noi in Georgia.»
Martin si avvicinò e afferrò la mano di Rob prima che lui la offrisse.
«Forza», disse Cate, battendo le mani. «Non abbiamo molto tempo, ma dovete
lavarvi e cambiarvi con abiti meno appariscenti.»
Rob aprì una portiera posteriore del SUV con un lungo bip. Quando si voltò,
qualche raggio di sole sparso si riflesse sul calcio metallico della pistola che
portava infilata nella cintura dei jeans. Feci un passo indietro, e lui si allungò a
prendere all’interno qualcosa che non riuscivo a vedere.
Ero stata stupida a pensare che non avessero armi di alcun tipo, ma mi si
strinse comunque lo stomaco. Mi voltai a guardare le vecchie macchie di olio
tatuate sul marciapiede e attesi che la portiera sbattesse di nuovo.
«Ecco qui», disse Rob, passando a ciascuno di noi uno zaino nero. Il mio
compagno mostro lo afferrò al volo, neanche fosse stato un pacco regalo.
«Sembra che i bagni nella stazione di servizio abbiano ancora acqua corrente.
Non da bere, però», continuò Rob. «Qui dentro avete un cambio e degli
accessori. Non metteteci una vita, ma lavatevi pure via il campo di dosso.»
Lavarmi Thurmond di dosso? Sfregarlo via come uno schizzo di fango?
Magari ero in grado di cancellare i ricordi di chiunque, ma non certo i miei.
Presi il mio zaino senza una parola, sentendo il principio di un mal di testa
borbottare in fondo al cranio. Sapevo cosa significava, e feci un passo indietro,
ma infilai il tallone in una fessura del cemento e inciampai. Gettai in avanti le
braccia per riprendere l’equilibrio, ma l’unica cosa solida che trovai fu il braccio
di Rob. Doveva aver pensato di fare il cavaliere afferrandomi, ma avrebbe
dovuto lasciarmi cadere. Il mio cervello fece un sospiro di sollievo e si lasciò
precipitare tra i pensieri di Rob. A un tratto, la pressione che aveva continuato a
montare nel retro della mia mente fu rilasciata, trasmettendomi un brivido lungo
la schiena. Strinsi i denti e mi sentii affondare, travolgere dalla rabbia per i miei
inutili tentativi di liberarmi.
A differenza dei ricordi di Cate, che andavano e venivano come un battito di
ciglia, i pensieri di Rob sembravano letargici… vellutati e fangosi. Non si
incastravano l’uno nell’altro, ma si fondevano, come una goccia d’inchiostro in
un bicchiere d’acqua, dove la massa scura si allungava e strisciava fino a
inquinare tutto ciò che prima era pulito.
Io ero Rob, e Rob stava fissando due figure scure: le loro teste erano coperte
da un sacco, ma era ovvio che uno fosse un uomo e l’altra una donna. Era
quest’ultima che mi faceva pulsare il cuore nelle orecchie. La forza dei suoi
singhiozzi faceva scuotere tutto il suo corpo, e non smise neanche per un attimo
di lottare contro i lacci di plastica che le bloccavano mani e piedi.
La pioggia ci cadeva intorno come sovrappensiero, scivolando nelle grondaie
degli edifici vicini. Filtrata dalla mente di Rob, sembrava elettricità statica. Con
la coda dell’occhio misi a fuoco due enormi cassonetti, e solo in quel momento
mi accorsi che eravamo in un vicolo, e da soli.
La mano di Rob – la mia mano – si tese e strappò il cappuccio alla donna,
facendole scendere i capelli scuri sul viso.
Ma non era affatto una donna. Era una ragazza, non più grande di me, con
indosso un abito verde scuro. Un’uniforme. L’uniforme di un campo.
Le lacrime si mischiarono alla pioggia e le colarono lungo le guance fino alla
bocca. Le labbra pallide formarono le parole: Ti prego, e i suoi occhi
sembravano urlare: No, ma c’era una pistola nella mia mano, argentata e
luccicante nonostante la luce fioca. La stessa che era infilata nella cintura di Rob.
La stessa che in quel momento era puntata alla fronte della ragazza.
La pistola mi saltò nella mano quando partì il colpo ma, in quell’istante, il
lampo illuminò il viso della ragazza e il suo urlo fu coperto dallo scoppio. Uno
schizzo di sangue mi coprì la mano, e il suo viso sembrò accartocciarsi su se
stesso, macchiando la giacca scura che indossavo… e il bordo della camicia
bianca al di sotto.
Il ragazzo morì allo stesso modo, solo che Rob non si premurò nemmeno di
togliergli il cappuccio prima di togliergli la vita. I due cadaveri furono gettati nei
cassonetti. Mi ritrassi dalla scena, e la vidi rimpicciolire sempre di più finché la
scura nebbia della mente di Rob la inghiottì per intero.
Mi liberai con uno strattone, risalendo da quella pozza di inchiostro con un
gemito strozzato.
Rob mi lasciò immediatamente il braccio, ma Cate si fece avanti e avrebbe
preso il suo posto se non avessi alzato le mani per fermarla.
«Stai bene?» chiese. «Sei pallida.»
«Tutto a posto», dissi, sforzandomi di mantenere una voce calma e ferma. «Mi
sento ancora un po’ scossa per la medicina.»
Martin fece un sospiro scocciato dietro di me. Saltava da un piede all’altro,
borbottando impaziente. Mi rivolse un’occhiata sospettosa, e per mezzo secondo
temetti che avesse capito ciò che era successo. Ma no, connessioni come quella
erano veloci e duravano solo pochi secondi, per quanto a me potessero sembrare
lunghe.
Tenni gli occhi fissi a terra, evitando accuratamente gli adulti. Non riuscivo a
costringermi a guardare Rob, non dopo aver visto ciò che aveva fatto, e sapevo
che se avessi guardato Cate mi sarei tradita in un istante. Mi avrebbe chiesto
cosa non andava, e non sarei riuscita a mentire in modo convincente. Avrei
dovuto dirle che il suo ragazzo o il suo socio o quello che era aveva appena
spappolato il cervello di due ragazzini in un vicolo.
Rob provò a offrirmi una bottiglietta d’acqua presa dal sedile davanti, la bocca
tirata in una linea sottile. Posai di nuovo gli occhi sui minuscoli schizzi rossi che
gli macchiavano il polsino.
Li ha uccisi. Le parole mi echeggiavano in testa. Poteva essere capitato giorni,
anche settimane prima, ma non sembrava probabile. Non si sarebbe forse
cambiato la camicia, o non avrebbe provato a pulirla? E poi era venuto qui… per
uccidere anche noi?
Rob mi sorrise mostrando tutti i denti. Sorrise. Come se non avesse appena
spento due vite sparando a bruciapelo e guardando la pioggia lavare via il sangue
nello scolo. Le mani mi tremavano talmente che dovetti stringere i pugni sullo
zaino perché non si notasse. Pensavo di essere sfuggita ai mostri, di averli
lasciati chiusi dietro a una recinzione elettrica. Ma le ombre erano vive e mi
avevano inseguita fin lì.
La prossima sono io.
Ingoiai il grido che mi risaliva in gola e ricambiai il sorriso, con le budella
attorcigliate. Perché non avevo nemmeno la minima ombra di incertezza che, se
avesse saputo cosa avevo appena visto, Cate avrebbe dovuto passare i giorni
successivi a lavare via anche il mio sangue dalla sua camicia.
Lei lo sa, pensai, seguendo Martin dentro la stazione di servizio. Cate, che
profumava di rosmarino, che mi aveva trasportata lungo il corridoio, che mi
aveva salvato la vita. Deve saperlo.
Ma lo aveva baciato lo stesso.

L’interno della stazione di servizio sembrava essere stato distrutto da un


branco di animali selvaggi, ed era abbastanza probabile che fosse così. Impronte
fangose di ogni forma e fattura creavano disegni intricati sul pavimento,
attraversando pozze appiccicose di rosso e marrone e arrivando fino agli scaffali
del cibo. Il negozio puzzava di latte andato a male, anche se i banchi frigo
ricevevano ancora elettricità a intermittenza. La maggior parte era stata svuotata,
ma era rimasta una quantità sorprendente di birra e bibite, e forse non c’era da
stupirsi. Il negozio aveva venduto il latte a dieci dollari al cartone. Lo stesso per
il cibo. Alcuni scaffali avevano file e file di merendine e pacchi di patatine
intatti, che costavano quanto beni di lusso. Altri erano stati ripuliti, o
traboccavano di salatini e popcorn dai pacchetti strappati.
Avevo un piano prima ancora di rendermene conto.
Mentre Martin giocherellava con il distributore di bevande, afferrai qualche
pacco di patatine e qualche barretta di cioccolato. Mi sentii un po’ in colpa a
infilarli nello zaino, ma a chi stavo rubando? Chi avrebbe chiamato la polizia?
«C’è un bagno solo», annunciò Martin. «Vado prima io. Se sei fortunata, ti
lascio un po’ d’acqua.»
Se sono fortunata ti ci affoghi.
Si sbatté la porta alle spalle, e l’ultima traccia di senso di colpa per essere sul
punto di abbandonarlo sparì. Forse ero crudele, forse mi sarei sentita in colpa per
il resto della vita per averlo mollato senza preavviso, ma non c’era modo di
dirgli cosa avevo intenzione di fare senza allertare anche Cate e Rob. Non mi
fidavo abbastanza di lui per pensare che non li chiamasse, o non provasse a
trattenermi.
Non persi tempo a togliermi i vestiti che erano stati di Sarah – o Norah – e li
lasciai ammucchiati a terra. L’uniforme che indossavo sotto mi avrebbe tradita in
un secondo, ma la tuta era troppo larga per permettermi di correre. Dovevo
andarmene, e in fretta.
Martin doveva aver aperto l’acqua al massimo perché sentii il rubinetto
tossicchiare mentre aggiravo i vetri rotti sotto alle vetrine.
Sbucai da dietro uno scaffale appena in tempo per vedere Rob allontanarsi
dopo aver baciato Cate. Si toccò le tasche della giacca e tirò fuori un cellulare.
Chiunque fosse, Rob non era contento della conversazione. Dopo un minuto,
lanciò il telefono a Cate e si spostò dal lato del conducente. Cate mi diede le
spalle, allargando una specie di mappa sul cofano del SUV. Quando Rob
riemerse, aveva un oggetto nero e lungo infilato sotto un braccio e ne teneva un
altro per la canna.
Cate prese il fucile senza nemmeno guardarlo e se lo mise a tracolla. Come se
fosse sempre stato il suo posto.
Li riconobbi, ovviamente. Ogni agente delle FSP che percorreva il perimetro
della recinzione elettrica portava un fucile M16, ed ero certa che ogni
amministratore del campo che ci osservava dall’alto della Torre ne avesse uno a
portata di mano. Sarà questo che useranno con noi? mi domandai. Oppure si
aspettano che ne usi uno anch’io?
La parte razionale del mio cervello prese finalmente il sopravvento,
schiacciando il caos di panico e terrore che mi aveva travolta. Forse Rob aveva
ucciso quei ragazzi per un motivo. Forse avevano tentato di fargli del male
nonostante fossero legati, o forse… forse avevano solo rifiutato di unirsi alla
Lega.
Il pensiero si espanse nel mio petto come una fiammata che bruciava qualsiasi
cosa incontrasse. Solo l’idea di dover toccare una di quelle armi, di dover
sparare… era questo che ci voleva, per far parte della loro famiglia? O avrei
dovuto diventare come Martin, io stessa un’arma?
Mio padre faceva il poliziotto da più di sette anni quando si trovò a dover
sparare a qualcuno. Non mi raccontò mai tutta la storia. Dovetti sentirla di
seconda mano dai miei compagni di classe, che l’avevano letta sul giornale. Una
presa di ostaggi, credo.
Ne fu distrutto. Papà non volle uscire dalla camera da letto fino a che la nonna
arrivò a prendermi da Virginia Beach. Quando tornai a casa, qualche settimana
dopo, si comportò come se non fosse successo niente.
Non so cosa mi avrebbe mai spinta a prendere in mano un’arma come quella,
ma non certo un gruppo di estranei. Dovevo andarmene. Scappare. Non aveva
importanza dove, in quel momento. Ero un sacco di cose, cose terribili, ma non
volevo aggiungere «assassina» alla lista.
Sentii un rumore di vetro infranto, a malapena udibile sopra quello dell’acqua
corrente del bagno e il ronzio del frigo. L’acqua si fermò, e solo allora sentii di
nuovo rovistare. Mi voltai appena in tempo per vedere la porta con il cartello
aprirsi e richiudersi dietro i bassi scaffali di cibo.
RISERVATO AL PERSONALE

Una via d’uscita.


Lanciai un ultimo sguardo fuori dalla finestra per accertarmi che Cate e Rob
mi dessero ancora le spalle, prima di scattare oltre l’espositore di carne secca e
dirigermi dritta verso quella porta.
È solo un procione, pensai, o dei ratti. Non per la prima volta nella mia breve
vita, i ratti erano un’opzione preferibile agli umani.
Ma il crepitio tornò più forte di prima e, quando aprii la porta con una spinta,
non mi trovai davanti a dei ratti che rovistavano fra gli snack.
Trovai un altro ragazzino.
8

L – no, lei – aprì la bocca, in un muto sussulto. Al primo sguardo non ero
UI

riuscita a distinguere, ma era decisamente una femmina, e pure piccolina. Otto,


nove anni al massimo, a giudicare dall’altezza. Poco più di una bambina,
sommersa da un’enorme maglietta della 500 miglia di Indianapolis, con tanto di
bandiere a scacchi e auto da corsa verde brillante. Cosa ancora più strana, aveva
le mani e le braccia coperte fino ai gomiti da guanti gialli di gomma, come quelli
che mia mamma usava per lavare i piatti o pulire il gabinetto.
Aveva tratti asiatici e capelli cortissimi. Indossava jeans larghi da maschio, ma
aveva un viso così grazioso che sembrava una bambolina. Aveva labbra piene, a
cuore, che per la sorpresa formarono una O perfetta, e impallidì in modo così
drastico da far risaltare ancora di più le lentiggini su naso e guance.
«E tu da dove sei sbucata?» riuscii a dire, quasi strozzandomi.
Il suo sguardo sorpreso si tramutò in terrore. Aveva affondato una mano in
una confezione di merendine, ma con l’altra chiuse la porta in un lampo di
giallo.
«Ehi!» La riaprii con una spinta, e vidi la bambina correre verso la porta al
capo opposto del magazzino, verso la pioggia all’esterno. Mettendomi lo zaino
in spalla, oltrepassai gli scaffali e mi lanciai all’inseguimento. La porta era
rimasta bloccata da un sasso e si aprì con un botto sotto i miei calci impazienti.
«Ehi!»
Dalle sue tasche e da sotto alla maglietta cadevano monoporzioni di salatini e
patatine. Aveva tutto il diritto di essere terrorizzata dalla pazza che la inseguiva.
Avrei potuto sprecare tempo a dispiacermene più tardi; per il momento, la mia
mente aveva sentito un refolo di speranza, e non aveva intenzione di farselo
sfuggire in un parcheggio. Doveva pur essere arrivata da qualche parte e, se
aveva modo di andarsene da quella città, o se poteva nascondermi finché Cate e
gli altri avessero rinunciato a cercarmi, volevo scoprirlo.
Il parcheggio sul retro aveva solo quattro posti, uno dei quali occupato da un
cassonetto rovesciato. Sentii degli animali sgattaiolare al suo interno mentre
inseguivo la bambina, tenendo gli occhi fissi sulla sua T-shirt grigia. Andava così
veloce che inciampò dove l’asfalto cedeva il posto a un ciuffo d’erba. Tesi le
braccia per acchiapparla, ma lei si riprese appena in tempo.
Ero a due passi dal riuscire ad afferrarle la maglietta quando improvvisamente
accelerò, schizzando attraverso la piccola macchia di alberi che separava la
stazione di servizio da quella che sembrava essere un’altra strada.
«Voglio… voglio solo parlarti!» la chiamai. «Ti prego!»
Avrei dovuto dire: Non ti farò del male, oppure: Non sono con le FSP, o
qualcosa che potesse darle l’idea che quanto a sicurezza ero messa male quanto
lei. Ma il petto mi bruciava e i polmoni mi stavano esplodendo, esausti e inutili a
causa del dolore tra le costole. Il pulsante di emergenza ballonzolava in aria,
rimbalzandomi tra il mento e le spalle. Lo staccai con forza tale da rompere il
gancio che lo chiudeva.
La bimba saltò oltre un tronco caduto e proseguì sul sentiero fangoso con le
scarpe rumorose. Non che le mie fossero da meno, ma la voce di Martin coprì
entrambe.
«Ruby!»
Mi si gelò il sangue. Non avrei dovuto voltarmi a guardarmi le spalle, ma lo
feci, più per istinto che per paura. Non mi accorsi che i miei piedi si erano
fermati finché apparve la forma tondeggiante di Martin al di là degli alberi. Era
così vicino che vedevo il rossore sul suo viso, ma non mi aveva vista. Non
ancora.
«Ruby!»
Non mi aspettavo di trovare altro che aria e alberi davanti a me quando
ricominciai a correre, ma eccola là, a poca distanza. La bambina si era
accovacciata dietro un albero, non proprio nascosta ma nemmeno pronta a darmi
il benvenuto. Aveva la bocca serrata, e gli occhi saltavano da me al punto da cui
proveniva la voce di Martin. Quando feci un passo verso di lei, scattò via come
un lampo, sollevando entrambi i piedi da terra. Spaventata come un animaletto
selvatico.
«Andiamo», ansimai, agitando le braccia. «Voglio solo…»
Uscimmo dagli alberi e finimmo su un tratto di strada deserto. Dall’altro lato
del vicolo cieco c’era una fila di casette scalcagnate, con le finestre coperte da
assi come occhi lividi. Pensai che la bambina si stesse dirigendo verso quella più
vicina – la casa con la recinzione grigia e la porta verde – ma all’ultimo
momento deviò verso il minivan parcheggiato sul ciglio della strada.
L’auto era talmente ammaccata da non essere riparabile, non solo sui paraurti,
ma persino sulle portiere e sul tetto. Per non parlare dei fari, che avevano
lampadine bruciate, vetri infranti e la vernice nera che si sfaldava. La cosa più
gradevole era il logo arzigogolato, scritto in corsivo, che qualcuno aveva dipinto
sulla portiera scorrevole: Betty Jean Pulizie .

Ma era un’auto. Una via di fuga. Non mi importava la logistica ormai, se


avesse o meno benzina, se il motore sarebbe partito. Solo a vederla, il mio cuore
si era librato su un paio di ali bianche e soffici, e niente avrebbe potuto
abbatterlo.
La bambina correva così veloce che sbatté sul lato del minivan e rimbalzò via.
Cadde violentemente a terra, ma si riprese più in fretta di quanto io avrei mai
potuto fare. Afferrando la maniglia con entrambe le mani dai guanti gialli, aprì la
portiera laterale con un rumore così forte da far scappare gli uccelli dai tetti
vicini.
Arrivai proprio mentre chiudeva la porta e abbassava la sicura. La scorgevo
attraverso il mio riflesso sul finestrino oscurato, e vidi come dovevo apparirle.
Occhi spalancati e selvaggi, capelli scuri arruffati, abiti che avrebbero dovuto
essere troppo piccoli per me se il campo non mi avesse resa magra al punto di
potermi contare costole che nemmeno sapevo esistessero. Corsi all’altro lato del
minivan, mettendolo tra me e chiunque potesse sbucare dagli alberi pronto alla
carica.
«Ti prego!» Avevo la voce roca, ormai. L’urlo di Martin mi echeggiava ancora
in testa, oppure si stava in effetti avvicinando. La tinta dei finestrini era
abbastanza chiara da permettermi di vedere attraverso e controllare che non
apparisse la sua pelle giallastra tra gli alberi. Se lui si stava avvicinando, Cate e
Rob non potevano essere lontani. Dovevano averlo sentito strillare.
Due opzioni, Ruby, pensai. Tornare, o fuggire.
La mia testa e il mio cuore erano d’accordo sul fuggire, ma il resto del mio
corpo – le parti che erano state tormentate dal Rumore Bianco, avvelenate e
maltrattate da persone che dicevano di avere le migliori intenzioni – puntò i
piedi con decisione. Mi abbandonai contro il minivan, sconfitta. Sentivo il petto
chiuso in una morsa, così stretta che anche l’ultimo grammo di aria e coraggio fu
spremuto fuori.
Gli anni a Thurmond mi avevano insegnato a smettere di illudermi di poter
sfuggire alla vita che altre persone non vedevano l’ora di impormi. Non so
perché avessi pensato che, all’esterno, fosse diverso.
Sentii passi abbattersi tra gli alberi e nel sottobosco, sempre più forti. Quando
alzai di nuovo lo sguardo, i capelli biondissimi di Cate apparivano e
scomparivano tra gli alberi, brillanti come lucciole sotto le nuvole cariche di
pioggia.
«Ruby!» chiamò. «Ruby, dove sei?»
Poi alle sue spalle comparve Rob, con la pistola in mano. Guardai a destra
verso le case nel vicolo cieco. In fondo, al lato opposto della strada, vidi cartelli
con simboli che non riconoscevo; ma persino l’ignoto doveva essere meglio che
tornare da Cate.
La bambina dentro l’auto mi guardò, poi si voltò verso gli alberi. Strinse le
labbra e fece una smorfia. Una mano era serrata intorno alla maniglia, l’altra al
bracciolo del sedile. Fece per alzarsi, a un certo punto, ma si risedette e tornò a
guardare nella mia direzione.
Mi passai una mano sul viso e feci un passo indietro. Sperai che la bambina
avesse il buon senso di nascondersi quando Cate e Rob mi avessero inseguita. Li
avrei allontanati il più possibile: era il minimo che potevo fare per lei dopo
averle sottratto qualche anno di vita per lo spavento.
Non avevo fatto in tempo a voltarmi per andarmene che sentii la portiera
aprirsi alle mie spalle. Due mani mi afferrarono la maglia dell’uniforme,
attorcigliando la stoffa per avere una presa migliore. La bambina mi strattonò, io
caddi all’indietro e sbattei contro il sedile più vicino. Con il collo colpii il
bracciolo e scivolai sul tappeto ruvido dietro al sedile del passeggero. La porta si
richiuse dietro di me con un rombo. Battei le palpebre, tentando di allontanare le
macchie nere che mi coprivano il campo visivo, ma la bambina non aveva
intenzione di aspettare che mi ricomponessi. Si arrampicò sulle mie gambe per
arrivare all’ultimo sedile in fondo, e mi afferrò il colletto strattonandolo forte.
«Okay, okay», dissi, strisciando verso di lei. Strofinai le dita sui tappetini
grigi. A eccezione di un paio di giornali buttati a terra e alcuni sacchetti della
spesa in plastica annodati e infilati sotto il sedile in fondo, il minivan era
abbastanza ben tenuto.
Mi indicò di accovacciarmi dietro uno dei sedili centrali. Premendomi le
ginocchia al petto, mi resi conto che, malgrado avessi seguito le sue istruzioni
alla lettera, non mi aveva ancora rivolto una parola.
«Come ti chiami?» le chiesi. Lei si distese sul sedile posteriore, scalciando per
aria alla ricerca di qualcosa nel baule. Se mi aveva sentito, faceva finta di niente.
«Va tutto bene, con me puoi parlare…»
Riemerse con la faccia arrossata e in mano un lenzuolo bianco macchiato di
vernice. Si portò un dito alle labbra, e saggiamente chiusi il becco. La bambina
spiegò la tela e la gettò sopra la mia testa. La puzza di detergente al limone e di
candeggina mi assalì, mentre il lenzuolo si adagiava su di me. Aprii la bocca per
protestare, alzando una mano per scostarmelo dal viso, ma qualcosa me lo
impedì.
Qualcuno si stava avvicinando, no, più di una persona. Intuii frammenti di
dialogo, sentii i loro piedi battere sull’asfalto. Il rumore di una portiera che si
apriva mi fece fermare il cuore.
«…ti giuro che era lei, Liam!» La voce era profonda, ma non sembrava quella
di un adulto. «E poi, guarda, te l’avevo detto che sarebbe tornata prima di noi.
Suzume, hai avuto problemi?»
Si aprì anche l’altra portiera. Qualcun altro – Liam? – emise un sospiro di
sollievo.
«Grazie a Dio», disse, con un lieve accento del Sud. «Andiamo, andiamo, dai,
sali. Non so cosa stia succedendo, ma non ho intenzione di fermarmi per
scoprirlo. I tracciatori erano già sufficienti…»
«Perché non vuoi ammettere che era lei?» scattò l’altra voce.
«Perché l’abbiamo seminata in Ohio, ecco perché…»
Sopra al suono della voce di Liam e quello del sangue che mi pulsava nelle
orecchie, sentii un’altra voce.
«Ruby! Ruby!»
Cate.
Mi premetti le mani sulla bocca e chiusi gli occhi.
«Che diavolo?» disse la prima voce. «È quello che penso che sia?»
Il primo colpo di pistola esplose come un petardo. Forse era la distanza, o
l’esercito di alberi e sottobosco che lo attutivano, ma non sembrò pericoloso. Un
avvertimento. Il successivo aveva denti molto più aguzzi.
«Fermo!» sentii urlare Cate. «Non sparare!»
«Lee!!!»
«Lo so, lo so!» Il motore si risvegliò tossicchiando, e lo scricchiolio delle
ruote lo seguì presto. «Zu, cintura di sicurezza!»
Tentai di tenermi, ma l’auto mi scagliò avanti e indietro tra i sedili. A un certo
punto, sbattei la testa sul pannello laterale di plastica e sul portabibite, ma
nessuno faceva attenzione agli strani rumori che provenivano dal sedile
posteriore quando qualcuno stava sparando.
Mi chiesi se Rob avesse dato l’altro fucile a Martin.

«Zu, è successo qualcosa nella stazione di servizio?» insisté la voce


identificata come Liam. Le sue parole evidenziavano una certa ansia, ma non
panico. Viaggiavamo da dieci minuti, ed eravamo ben lontani dalle armi da
fuoco. L’altro compagno, comunque, era tutta un’altra storia.
«Oh mio Dio, altri tracciatori? Cos’è, una rimpatriata? Ti rendi conto di cosa
sarebbe successo se ci avessero presi?» si scatenò. «E ci stavano sparando!
Sparando! Con delle pistole!»
Da qualche parte alla mia destra, la bambina sghignazzò.
«Beh, sono contento che lo trovi divertente!» disse l’altro. «Sai cosa ti
succede quando ti sparano, Suzume? I proiettili ti lacerano…»
«Ciccio!» La voce dell’altro ragazzo fu così tagliente da zittire la storia
dell’orrore che stavamo per sentire. «Datti una calmata, okay? Stiamo bene. Ci
siamo andati un po’ più vicini di quanto mi sarebbe piaciuto, ma comunque.
Dovremo solo tentare di fare errori migliori domani, giusto, Zu?»
La prima voce emise un gemito strozzato.
«Mi dispiace per prima», disse Liam, con tono gentile. Questo bastò a farmi
capire che stava parlando alla bambina, e non al compagno che continuava a
gemere con disappunto. «La prossima volta vengo con te a cercare il cibo. Non ti
sei fatta male, vero?»
Le vibrazioni della strada attutivano le voci. Una monetina vagabonda
rotolava rumorosamente nel portabibite, tanto che fui tentata di afferrarla da
sotto il telo. Quando il primo ragazzo parlò di nuovo, dovetti tendere le orecchie
per sentirlo. «A te è sembrato che stessero cercando qualcuno?»
«No, mi è sembrato che ci stessero sparando!»
Persi la sensibilità dalla punta delle dita fino a tutte e due le mani. Sei al
sicuro, mi dissi. Sono ragazzi anche loro.
Ragazzi che, senza saperlo, si sono messi tra me e le pistole.
Avrei dovuto sapere che sarebbe successo. Avrebbe dovuto essere quella la
mia prima preoccupazione, invece della mia paura di rimanere sola in una città
deserta. Ma ero andata nel panico, e il mio cervello si era liquefatto in una
pozzanghera gorgogliante di terrore.
«…una quantità di cose», stava dicendo Liam, «ma cerchiamo di concentrarci
e trovare East River…»
Dovevo andarmene subito. Subito. Era stata un’idea terribile, forse la peggiore
che avessi mai avuto. Se li abbandonavo, avrebbero avuto ancora una possibilità
di sfuggire a Cate e Rob. Forse ne avrei avuta una anch’io. Mi infilai lo zaino in
spalla e allontanai il telo con un calcio. Facendo un gran respiro nella fresca aria
condizionata che sapeva di muffa, mi appoggiai al sedile in fondo per tirarmi su.
Sul sedile davanti, rivolti verso la strada, c’erano due adolescenti maschi.
Pioveva più forte: le grosse gocce cadevano troppo in fretta perché i tergicristalli
potessero star loro dietro, e sembrava che ci stessimo muovendo all’interno di
una riproduzione impressionista del West Virginia. Sopra di noi, un cielo
argenteo, e sotto una strada nera e, a un certo punto, a metà, il verde brillante
degli alberi nei loro nuovi abiti primaverili.
Liam, il nostro autista, indossava un giubbotto di pelle rovinato, più scuro
sulle spalle, dove la pioggia lo aveva impregnato. Aveva capelli chiari, biondo
cenere, che rimasero dritti quando ci passò una mano. Ogni tanto lanciava
un’occhiata al ragazzino dalla pelle scura seduto al posto del passeggero, ma fu
solo quando guardò nello specchietto retrovisore che mi accorsi che aveva gli
occhi blu.
«Non vedo dietro se tu…» Le parole gli morirono in gola e tornò a fissare lo
specchietto. Si voltò sul sedile per guardare indietro senza mollare il volante,
facendo ondeggiare il minivan verso destra. L’altro ragazzino fece un verso
strozzato quando la macchina diede un altro strattone e finì quasi sul ciglio della
strada. La bambina mi lanciò uno sguardo da sopra la spalla, con un’espressione
a metà tra la sorpresa e l’esasperazione.
Liam affondò il piede sul freno. Entrambi i passeggeri gridarono nel sentire le
cinture ficcarsi nel petto, ma io non avevo niente a trattenermi dal planare tra i
due sedili di mezzo. Dopo quella che mi sembrò un’eternità, ma con tutta
probabilità non fu altro che un secondo, il minivan tremò e si fermò di botto, con
un lungo gemito di dolore.
Entrambi i ragazzi mi fissavano, con espressioni completamente diverse. Il
viso abbronzato di Liam divenne pallido come porcellana, e la bocca era aperta
in modo ridicolo. L’altro mi guardava male attraverso occhiali dalla fine
montatura argentata, con una smorfia di disapprovazione, come mia mamma
quando mi beccava sveglia oltre l’orario stabilito. Le sue orecchie, appena
troppo grandi rispetto alla testa, erano sporgenti; tutto ciò che si trovava in
mezzo, dall’ampia fronte al naso sottile alle labbra piene, sembrò adombrarsi di
rabbia. Per un secondo temetti che fosse un Rosso perché, a giudicare
dall’espressione dei suoi occhi, non desiderava altro che incenerirmi. Maschi.
Perché dovevano essere proprio maschi?
Mi sollevai dai tappetini e mi lanciai verso la portiera. Strinsi le dita sulla
maniglia ma, per quanto strattonassi, non si muoveva di un millimetro.
«Zu!» urlò Liam, guardando prima lei e poi me. La bambina si limitò a riporre
le mani in grembo facendo stridere i guanti di gomma, e batté le palpebre con
aria innocente, quasi non avesse idea di come la fuggitiva spaparanzata ai suoi
piedi fosse finita lì.
«Eravamo tutti d’accordo: niente randagi.» L’altro ragazzo scosse la testa. «È
per questo che non abbiamo tenuto i gattini!»
«Per l’amor del…» Liam si abbandonò sul sedile, nascondendo il viso tra le
mani. «Cosa avremmo mai potuto fare con una cucciolata di gattini
abbandonati?»
«Forse se quel tuo cuore nero non fosse stato così pronto ad abbandonarli a
morire di fame, avremmo potuto trovare loro una nuova amorevole casa.»
Liam gli rivolse uno sguardo attonito. «Non te li dimenticherai mai quei gatti,
vero?»
«Erano gattini innocenti e indifesi e tu li hai mollati davanti a una buca delle
lettere! Una buca delle lettere!»
«Ciccio», mormorò Liam. «Andiamo.»
Ciccio? Doveva essere uno scherzo. Quel ragazzo era magro come uno stecco.
Tutto, di lui, dal naso alle dita, era lungo e stretto.
Rivolse a Liam uno sguardo di fuoco. Non so cosa mi avesse stupita di più, se
il fatto che stessero discutendo di gattini o che si fossero dimenticati della mia
presenza.
«Scusate!» li interruppi, battendo il palmo contro il finestrino. «Potete per
favore aprire la portiera?»
Le mie parole, se non altro, li zittirono.
Quando Liam si voltò finalmente verso di me, la sua espressione era cambiata.
Sembrava serio, ma non infelice o sospettoso. E ciò era molto di più di quanto
avrei potuto dire di me stessa a parti invertite.
«Sei tu quella che stavano cercando?» chiese. «Ruth?»
«Ruby», lo corresse Ciccio.
Liam alzò la mano. «Giusto. Ruby.»
«Aprite la portiera, vi prego!» Strattonai ancora una volta la maniglia. «Ho
fatto un errore. È stato un errore! Sono stata egoista, lo so, perciò lasciatemi
andare prima che ci raggiungano.»
«Prima che ci raggiungano? Tracciatori?» insistette Liam. Fece scorrere gli
occhi su di me, dal mio viso scavato all’uniforme verde foresta alle scarpe
infangate, fino al numero Psi scritto a pennarello indelebile su di esse.
Un’espressione di orrore comparve sul suo viso. «Sei appena uscita da un
campo?»
Sentii gli occhi scuri di Suzume – Zu – su di me, ma sostenni lo sguardo di
Liam e annuii. «La Lega dei Bambini mi ha fatto evadere.»
«E sei scappata pure da loro?» insistette Liam. Si voltò verso Zu a cercare
conferma, e lei annuì.
«E questo cosa c’entra?» interruppe Ciccio. «L’hai sentita: apri quella stupida
portiera! Abbiamo già sia FSP sia tracciatori alle calcagna; non abbiamo certo
bisogno di aggiungere alla lista la Lega! Penseranno che l’abbiamo presa noi, e
se fanno girare la voce che ci sono dei mostri a zonzo su un minivan scassato…»
Non osò terminare la frase.
«Ehi», fece Liam, alzando un dito. «Non parlare di Black Betty in quel
modo.»
«Oh, scusa tanto se ho offeso un minivan vecchio di vent’anni.»
«Ha ragione lui», dissi. «Mi dispiace, vi prego… non voglio crearvi altri
problemi.»
«Vuoi tornare da loro?» Liam si era voltato di nuovo verso di me, la bocca
stretta. «Senti, non sono affari miei, Verde, ma hai il diritto di sapere che
qualsiasi storia ti abbiano rifilato probabilmente non è vera. Non sono il nostro
esercito di angeli. Hanno i loro scopi, e se ti hanno scelta vuol dire che hanno dei
piani per te.»
«Credi che non lo sappia?» ribattei.
«Okay», continuò, con voce più calma. «Allora perché hai tanta fretta di
tornare da loro?»
Non c’era traccia di accusa o di giudizio nella domanda, e allora perché
continuavo a sentirmi un’idiota? Qualcosa di caldo e pruriginoso mi sobbollì
nella gola, risalendo fino a fermarsi tra gli occhi. Oh Dio, quel ragazzo mi stava
guardando con la compassione e la pietà riservati a un cucciolo che sta per essere
soppresso. Non sapevo se l’emozione che si stava gonfiando dentro di me fosse
rabbia o imbarazzo, ma non avevo tempo per indagare.
«Non volevo trascinarvi in… voglio dire, sì volevo, ma…»
Con la coda dell’occhio vidi Zu avvicinarsi a me. Mi allontanai con un respiro
affannoso. Sul suo viso comparve un’espressione ferita, che durò abbastanza a
lungo da farmi sentire in colpa. Aveva tentato di aiutarmi, di essere gentile. Non
aveva idea di che mostro avesse salvato.
Altrimenti, non avrebbe mai aperto la portiera.
«Vuoi tornare da loro?»
Ciccio stava guardando Liam, e Liam stava guardando me. Mi aveva di nuovo
catturata con gli occhi, e non me n’ero nemmeno accorta.
«No», risposi, ed era la verità. «Non voglio.»
Non disse niente, inserì solo la marcia. Il minivan scivolò in avanti.
Cosa stai facendo, Ruby? Tentai di costringere la mano ad afferrare la
maniglia, ma sembrava troppo lontana e la mia mano troppo pesante. Vattene.
Vattene subito.
«Lee, non osare», disse Ciccio. «Se la Lega ci dà la caccia…»
«Andrà tutto bene», disse Liam. «La accompagniamo solo alla fermata
dell’autobus più vicina.»
Battei le palpebre. Era più di quanto mi aspettassi. «Non siete obbligati.»
Liam mi zittì con un gesto. «Va bene così. Mi spiace non poter fare di più.
Non possiamo rischiare.»
«Sì, hai proprio ragione», disse Ciccio. «Quindi spiegami perché non la
portiamo a una stazione del treno, che è più vicina?»
Quando rialzai lo sguardo, Liam mi stava osservando, pensieroso. Mi imposi
di non agitarmi sotto quello scrutinio.
«Ricordamelo di nuovo… Ruby, vero? Sono sicuro che ormai l’avrai capito,
ma io sono Liam, e l’adorabile signorina dietro di me è Suzume.»
Lei fece un sorriso timido. Mi girai verso l’altro ragazzo. «Immagino che il
tuo nome non sia Ciccio.»
«No», sospirò. «È Liam che mi ha chiamato così, al campo.»
«Era un grassone», spiegò Liam con un sorrisetto. «Ma a quanto pare il lavoro
nei campi e una dieta controllata sono meglio di un centro benessere. Zu può
darmi ragione su questo.»
Ma Zu non badava a nessuno di noi. Si era tirata il cappuccio sulle orecchie e
si era girata sul sedile, guardando fuori dal lunotto posteriore. Aveva le labbra
socchiuse, ma non riusciva a formulare parole. Il viso rotondo era cereo.
«Zu?» chiese Liam. «Cosa c’è che non va?»
Non ebbe bisogno di indicarcelo. Se anche non avessimo visto il SUV
marrone che veniva verso di noi a tutta velocità, sarebbe stato impossibile non
accorgerci del proiettile che attraversò il lunotto posteriore mandandolo in mille
pezzi.
9

I proiettile scavò un passaggio dritto al centro del minivan e uscì dal parabrezza.
L

Per un attimo, non facemmo altro che fissare il buco e la ragnatela di crepe che
vi si espandeva intorno.
«Porca p…!» Liam fece scattare l’auto in avanti, affondando il piede
sull’acceleratore. Sembrava essersi dimenticato che eravamo su una Dodge
Caravan e non su una BMW, perché per andare da zero a cento chilometri all’ora
ci mise un’eternità. Il corpo di Black Betty iniziò a tremare e il rumore di
ferraglia non era più dovuto solo alle crepe e alle buche sulla strada.
Mi voltai di scatto, cercando il SUV di Rob, ma dietro di noi c’era un pickup
rosso acceso, e l’uomo che si sporgeva dal finestrino del passeggero
imbracciando il fucile non era Rob.
«Te l’avevo detto!» strillò Ciccio. «Te l’avevo detto che erano tracciatori!»
«Sì, avevi ragione», replicò Liam con lo stesso tono. «Ma potresti anche
provare a renderti utile?» Sterzò bruscamente a sinistra proprio mentre l’uomo
esplodeva un altro colpo.
Doveva averci mancati, perché non lo sentii colpire l’auto. Sparò di nuovo, ed
ebbe più fortuna: il proiettile si piantò nel paraurti di Black Betty. Sentimmo
l’urto come una sassata nella schiena; ciascuno di noi emise un gemito strozzato.
Ciccio, oltre a gemere, si fece il segno della croce. Zu si era abbassata nel sedile
con le ginocchia al petto. Il cappuccio le nascondeva il viso, ma non copriva i
tremiti che le percorrevano il corpo intero. Le misi una mano sulla schiena, per
tenerla giù. Udimmo un’altra esplosione dietro di noi, ma non era uno sparo.
«Ma che…» Liam si arrischiò a guardarsi alle spalle. «Mi prendi in giro?»
Sentii il cuore pesante come un macigno. Il pickup rosso fece un balzo in
avanti e vidi il conducente – una donna con gli occhiali e i capelli scuri –
strattonare il volante di lato, tentando di liberare il mezzo dal SUV marrone che
gli era andato addosso. Non avevo bisogno di vedere chi stesse guidando per
sapere a chi appartenesse: Cate e Rob. Ma allora, chi erano quelli nel pickup?
«È lei!» gridò Ciccio. «Te l’avevo detto! Ci ha trovati!»
«E allora chi è il tizio con la pistola?» gridò Liam. «Il suo fidanzato?»
L’uomo che ci aveva sparato si concentrò sul tentativo di seminare il SUV alle
sue spalle, storcendosi fuori dal finestrino. Durò meno di un respiro. Uno sparo
dal SUV lo colpì in pieno petto lanciando nell’aria uno spruzzo esplosivo di
sangue. Il proiettile successivo fece scivolare il suo cadavere fuori dal finestrino
del pickup. La conducente non lo degnò nemmeno di uno sguardo. Vidi il pickup
rosso staccarsi finalmente dal paraurti anteriore del SUV. Con entrambe le ruote
posteriori a terra, sconfinò nella corsia opposta, fece un testacoda e si fermò con
un sobbalzo sul ciglio dell’autostrada.
«Fuori uno», disse Liam. Mi voltai, convinta di trovare la pistola di Rob
puntata contro di me attraverso il lunotto posteriore sfasciato. Solo che Rob era
al volante. Era Cate ad avere il fucile in mano, sul lato del passeggero.
«Vi prego, lasciatemi andare», dissi, afferrando la spalla di Liam. «Tornerò
con loro. Nessuno deve farsi male.»
«Esatto!» esclamò Ciccio. «Accosta e falla scendere!»
«Chiudete il becco tutti e due!» disse Liam, spingendo Black Betty nella
corsia di destra e poi di nuovo a sinistra. Il SUV ci seguì, senza perdere un colpo.
Non capivo se eravamo noi ad avere rallentato, o erano loro ad aver accelerato in
qualche modo, perché in un attimo il SUV ci sbatté contro, e nemmeno le cinture
di sicurezza ci trattennero dal volare in avanti.
Liam borbottò qualcosa che si perse nel rumore della pioggia improvvisa.
Abbassò il finestrino e mise fuori una mano, come a far segno al SUV di
sorpassarci.
«Fai qualcosa!» urlò Ciccio, tenendosi forte al volante.
«Ci sto provando! Non riesco a concentrarmi!»
Sta tentando di usare le sue abilità. Me ne accorsi malgrado il terrore.
Le grasse gocce di pioggia che cadevano sul vetro mascheravano gli alberi
intorno a noi, ma Liam non si preoccupò di accendere i tergicristalli. Se lo
avesse fatto, avrebbe visto l’altra auto che ci veniva incontro. Il conducente
suonò il clacson con forza, risvegliandolo dalla trance.
Il minivan rientrò nella corsia di destra, evitando per un pelo lo scontro
frontale con la berlina. Se questa non avesse frenato improvvisamente, il SUV
l’avrebbe travolta. Sia Zu sia io ci voltammo appena in tempo per vedere il SUV
rientrare nella corsia di destra. Cate si riprese in fretta e tornò a inseguirci a tutta
velocità prima che potessimo riprendere fiato.
«Liam», lo implorai. «Ti prego, accosta. Non lascerò che vi facciano del
male!»
Non voglio tornare indietro.
Non voglio tornare indietro.
Non voglio…
Chiusi forte gli occhi.
«Verde!» La voce di Liam mi squarciò i pensieri. «Sai guidare?»
«No…»
«Ci vedi meglio di Ciccio?»
«Forse, ma…»
«Fantastico!» esclamò, afferrandomi il braccio. «Vieni al posto di comando.»
Sbuffò quando un altro proiettile rimbalzò sulla pelle metallica di Black Betty.
«Dai, è come andare in bicicletta. Il pedale a destra è l’acceleratore, per
andare avanti; quello sinistro è il freno; con il volante giri. Non ti serve sapere
altro.»
«Aspetta!» A quanto pareva, però, non avevo voce in capitolo. Tornò nella
corsia di sinistra proprio quando il SUV si avvicinava per un’altra spintarella.
Anziché accelerare, premette il piede sul freno. Black Betty scivolò e si fermò,
mentre il SUV ci superò in un soffio.
Avvenne tutto troppo velocemente perché potessi ribellarmi. Si slacciò la
cintura di sicurezza e mi tirò sul sedile del conducente, alzandosi. L’auto avanzò
di propria volontà e io andai nel panico, schiacciando il piede su quello che
credevo fosse il pedale del freno. Black Betty balzò in avanti, e io urlai.
«Il freno è a sinistra!» Liam fu scagliato contro il cruscotto mentre il SUV
tornava alla carica. Sentii le sue ruote strillare e vidi che Rob aveva fatto
inversione ed era tornato ad accelerare.
«Vai, a tavoletta!»
«Perché non può guidare lui?» chiesi con voce strozzata.
Ciccio spinse il sedile del passeggero abbastanza indietro da potersi
arrampicare su quello posteriore e Liam prese il suo posto.
«Perché», disse, abbassando il finestrino, «lui vede a malapena un metro
avanti a sé. Fidati, meglio non avere lui al volante, tesoro. Ora… a tavoletta!»
Obbedii. L’auto saltò di nuovo in avanti, mandandomi il cuore in gola. Le
ruote girarono a vuoto sull’asfalto bagnato. Liam era seduto per metà fuori dal
finestrino. «Più veloce!» gridò.
La pioggia cadeva fitta e pesante, ma i fari del SUV fendevano la foschia e mi
diressi verso di loro. Andavamo così veloce che il volante mi tremava tra le
mani, e si agitava come se avesse vita propria. Trattenni un urlo esasperato, ma
Liam non ne voleva sapere.
«No, vai avanti!»
«Lee», Ciccio era chino sul proprio sedile. «Sei impazzito, cosa stai facendo?»
Era rimasto talmente in silenzio che mi ero quasi dimenticata che ci fosse
anche lui. Con il tachimetro che superava i centotrenta, centoquarantacinque,
centocinquanta chilometri orari, non mi ricordavo granché.
E fu in quel momento che tutto andò all’inferno.
Ci fu un’esplosione orribile – mille volte peggio del rumore di un palloncino
che scoppia – e il minivan iniziò a roteare, con il volante che mi sfuggiva
danzando dalle mani.
«Dritto!» urlava Liam. «Raddrizzati!»
«Mer…» La cintura di sicurezza mi mozzò il respiro, ma contrastai la
direzione che il volante sembrava voler prendere e raddrizzai la corsa. L’auto si
inclinò, lasciando una scia di scintille sull’asfalto dietro di noi. Eravamo di
nuovo di fronte al SUV e tentavamo di oltrepassarlo frontalmente.
«Continua ad andare verso di loro, non fermarti!» urlò Liam. Ma la gomma,
pensai mentre con le mani torturavo il volante, la gomma…
Ciccio aveva afferrato le gambe di Liam per impedirgli di volare via dal
finestrino. «Lasciami!» sbottò lui. «Sto bene, ora ce l’ho!»
Non avevo idea di cosa intendesse Liam, almeno fino a quando guardai nello
specchietto retrovisore e vidi un tronco d’albero rotolare via dal bosco e
muoversi verso il SUV, guidato da nient’altro che un gesto della mano di Liam.
Troppo preso dal minivan che gli andava incontro, Rob non ebbe tempo di
spostare l’auto dalla traiettoria dell’albero.
Girai le mani sul volante alla cieca finché voltammo le spalle alle macerie.
Sentii rumore di vetri infranti e metallo accartocciato quando Rob tentò di
sterzare, poi corresse la manovra. Quando tornai a guardare nello specchietto, il
SUV era adagiato su un fianco, fumante. Vicino, il tronco scheggiato dell’albero
rotolava ancora dopo la collisione.
«Cos’hai fatto?» Dovetti urlare per sovrastare il brusio del vento e della
strada. «Pensavo…»
Fu Ciccio a rispondere, con volto cinereo. «Adesso lo capisci? Non si
sarebbero fermati.»
Liam scivolò all’interno del minivan lasciandosi cadere sul sedile con un
lungo sospiro. Aveva tutti i capelli dritti, pieni di foglie e rametti.
«Okay, Verde», disse, senza nemmeno un tremito nella voce. «Ci hanno fatto
scoppiare la gomma posteriore, perciò sei appoggiata sul cerchio. Continua ad
andare dritta e inizia a rallentare. Prendi la prossima uscita.»
Strinsi la mascella così forte da farmi male.
«Tutto bene, Zu?» chiese rivolto alla bambina, e lei alzò i pollici; i suoi guanti
gialli erano l’unica macchia di colore nel minivan.
«Beh, io sto bene, grazie per avermelo chiesto», disse Ciccio. I suoi occhialetti
erano tutti storti, e tentava di lisciarsi la camicia. Per non lasciare dubbi, si
sporse in avanti e diede una sberla in testa a Liam. «E, tra l’altro, sei
completamente fuori? Sai cosa succede quando un corpo viene scagliato da
un’auto a quella velocità?»
«No», lo interruppe Liam. «Ma immagino che non sia niente di bello né di
adatto alle orecchie di una undicenne.»
Guardai Zu. Undici anni? Non poteva essere…
«Ah, quindi la puoi lanciare in una pioggia di proiettili ma non puoi farle
sentire niente di spaventoso?» Ciccio incrociò le mani sul petto. Liam si chinò a
raddrizzare il sedile. Quando si appoggiò allo schienale, aveva una smorfia in
faccia e i pugni stretti. Aveva un nuovo taglio sopra l’occhio, e il mento
insanguinato.
Nonostante la pioggia, scorsi il cartello verde dell’autostrada. Non aveva
importanza quale città fosse, o quale uscita. Volevo solo togliermi dalla strada e
dal posto di guida.
Tutto il mio corpo sembrava intorpidito, esausto, quando sollevai il piede
dall’acceleratore. Il minivan seguì la curva con il minimo sforzo e, quando
svoltammo sulla strada, si fermò da solo. Mi premetti una mano sul cuore per
accertarmi che non mi avesse abbandonata. Liam si chinò e tirò il freno a mano.
«Hai fatto un buon lavoro», dichiarò. Parlava a voce più bassa di quanto mi
aspettassi. Purtroppo, non riuscì affatto a calmare il serpente avviluppato intorno
al mio stomaco. Mi sporsi verso di lui e gli mollai un pugno su un braccio.
«Ahia!» fece, ritraendosi con gli occhi spalancati. «E questo per cos’era?»
«Non era affatto come andare in bicicletta, idiota!»
Mi fissò per un momento con un tremito sulle labbra. Fu Suzume a esplodere
in una risata silenziosa, un torrente infinito di sospiri e brividi che la fece
diventare rossa e la lasciò senza fiato. Passarono diversi secondi durante i quali
fu quello l’unico suono a galleggiare sopra il rumore della pioggia, almeno fin
quando Ciccio sprofondò la testa tra le mani con un lungo gemito.
«Eh già», disse Liam, aprendo la portiera, «ti abituerai benissimo.»

La pioggia si era ridotta al minimo quando Liam si mise al lavoro per


sostituire la gomma. Ero rimasta immobile al posto di guida, più che altro perché
non sapevo cos’altro fare. Gli altri due erano scesi insieme a lui, Suzume diretta
al lato posteriore insieme a Liam, e Ciccio nella direzione opposta. Attraverso il
parabrezza crepato, lo osservai procedere verso il cartello che indicava la Foresta
nazionale Monongahela. Un attimo dopo estrasse qualcosa dalla tasca posteriore
– un libro in edizione economica – e si sedette sul ciglio della strada. Invidiosa,
strinsi gli occhi tentando di intravedere il titolo, ma la copertina era strappata a
metà, e l’altra metà era coperta dalla sua mano. Non so se stesse effettivamente
leggendo, o solo fissando il testo per tenerci il muso.
Avevo fermato l’auto a Slaty Fork, West Virginia, se c’era da fidarsi dei
cartelli. Pensavo che fossimo su una stradina di campagna, ma era la Highway
219, seppure in mezzo al nulla. Marlinton doveva aver perso i suoi abitanti, ma
sembrava che Slaty Fork non ne avesse proprio mai avuti.
Mi sollevai dal sedile per raggiungere il retro del minivan. Mi tremavano
ancora le mani, come se volessero scrollare via le ultime tracce di adrenalina che
mi cantavano nel sangue.
Lo zaino nero che mi avevano dato Rob e Cate era stato scagliato sul sedile in
fondo, coperto da qualche pagina di giornale e da una bottiglia vuota di
detergente per vetri.
Spolverai lo zaino e lo posai accanto a me sul sedile. Il giornale risaliva a più
di tre anni prima, reso rigido dal tempo. C’era una pubblicità a mezza pagina di
una crema per il viso che qualcuno aveva spiritosamente battezzato Forever
Young. Voltai pagina alla ricerca di notizie vere e proprie. Lessi velocemente un
pezzo d’opinione che celebrava i campi di riabilitazione ed era più divertito che
offeso dal fatto che i bambini Psi venissero ormai apertamente chiamati «bombe
mutanti a orologeria». C’era anche un breve articolo sui disordini che secondo
l’autore erano «il risultato diretto dell’escalation di tensione tra il governo
dell’Est e quello dell’Ovest riguardo alle nuove leggi sulle nascite». In fondo
alla pagina, dopo un pezzo di colore sull’anniversario di qualche sciopero
ferroviario, c’era una foto di Clancy Gray.
«Il figlio del presidente all’udienza della Lega dei Bambini», recitava il titolo.
Non ebbi bisogno di andare oltre le prime due o tre righe per capire il senso
generale: il presidente era troppo codardo per uscire allo scoperto dopo il tentato
omicidio a suo danno, perciò aveva mandato quel mostro di suo figlio a fare il
lavoro sporco al posto suo. Chissà quanti anni aveva Clancy, mi chiesi. Le foto a
Thurmond erano identiche a quella, e non avevo mai pensato a lui diversamente
da un undicenne o dodicenne. Ma ormai doveva averne quasi diciotto.
Praticamente un vecchio bacucco, dati i nostri standard.
Disgustata, gettai via il giornale e presi di nuovo lo zaino. Rob aveva detto che
dentro c’era un cambio di vestiti e, se era davvero così, mi sarei liberata una
volta per tutte dell’uniforme di Thurmond. Una maglietta bianca, un paio di
jeans, una cintura e una felpa con la zip e il cappuccio. Poteva andare.
Il toc-toc al finestrino mi spaventò talmente che quasi mi morsi la lingua.
Comparve il viso di Liam solcato da ombre di preoccupazione.
«Puoi portarmi quei vestiti, un secondo? Devo farti vedere una cosa.»
Nell’istante in cui i suoi occhi si posarono su di me, ogni osso, muscolo e
articolazione nel mio corpo si mise sull’attenti. Con un lieve sapore di sangue in
bocca, saltai fuori dalla portiera scorrevole e diedi un’occhiata al minivan. Se
possibile, sembrava messo peggio di prima, come un camion giocattolo che
fosse finito in un tritarifiuti. Passai le dita su uno dei fori nuovi sulla fiancata,
dove un proiettile era penetrato nel metallo sottile. Liam si inginocchiò accanto a
Zu, che teneva il ruotino di scorta con tutte le forze, e iniziò a sollevare il
minivan con il cric per sfilare il copertone distrutto. Mi fermai dietro di loro e
vidi che Liam passava la mano sopra il cerchio. Le viti e i bulloni scivolarono
via al suo comando, raccogliendosi in un mucchietto ordinato sull’asfalto.
Blu, registrai. Liam era Blu. E, quindi, gli altri?
«Okay», mi disse. Soffiò via una ciocca di capelli chiari dal viso. «Prendi la
maglietta che stavi per metterti.»
«Non… non ho intenzione di cambiarmi qui», mormorai.
«Ma davvero?» domandò alzando gli occhi al cielo. «Ti preoccupi del pudore
quando tra qualche ora avremo gli agenti della Lega alle calcagna? Priorità,
Verde. Tira fuori la maglietta.»
Lo osservai per un attimo, ma non sapevo nemmeno io cosa cercare.
«Tocca il colletto», disse Liam. Posò un’altra vite a terra, accanto ai piedi.
«Sentirai una protuberanza.»
Era vero. Non era più grande di un fagiolo, cucita nella semplice maglietta.
«Ciccio ha un kit da signorina per bene sotto il sedile davanti», mi informò.
«Se hai intenzione di indossarla, prima devi tagliare via la trasmittente.»
Il «kit da signorina per bene» si rivelò essere una scatola di filo, forbici e un
piccolo ricamo. Su uno scampolo, qualcuno – Ciccio? – aveva ricamato un
perfetto quadrato nero. Fissai il marchio, passando il pollice sulla superficie
spessa.
«Comunque, forse è meglio se ti togli quell’uniforme», continuò Liam. «Ma,
mi raccomando, controlla anche i pantaloni e la felpa. Non giurerei che ne
abbiano messo una sola.»
Aveva di nuovo ragione. Ne trovai una cucita nella cintura dei jeans, una
nell’orlo della felpa e persino una incollata dietro la fibbia: quattro trasmittenti
per una sola ragazza, più una cucita nello zaino.
Liam terminò di fissare la ruota di scorta più velocemente di quanto credessi
possibile. Zu lo aiutò a rimettere viti e bulloni nelle guide e ad abbassare
lentamente il cric. Liam le porse gli attrezzi, e lei sapeva esattamente dove riporli
nel baule.
«Dammi», disse Liam, tendendomi la mano. «Ci penso io a queste.»
Mi tremavano le mani quando gli consegnai le trasmittenti. Le gettò a terra e
le schiacciò sotto le scarpe.
«Non capisco…» esordii. Invece capivo. Non si sarebbero dati la pena di
farmi evadere se non avessero avuto modo di tenermi sotto controllo nel caso in
cui fossi stata ricatturata o separata da loro. Liam mi tese la mano, e il panico al
pensiero di toccarlo mi fece saltare all’indietro per mettere più spazio possibile
tra noi. Non era ancora abbastanza; fece cadere la mano tra noi, ma sentii il
calore del suo palmo sfiorarmi la spalla come se l’avesse effettivamente toccata.
Mi misi a braccia conserte, e un caos indistinto di ansia e senso di colpa mi salì
dalle viscere. Mi concentrai sul numero di identificazione Psi che avevo sulle
scarpe per evitare di saltare via di nuovo.
Ti comporti come una bambina nervosa, mi dissi. Smettila; è solo un altro
ragazzo.
«La Lega dei Bambini ti racconta un sacco di bugie, e la più grande è che sei
libera», disse. «Parlano di amore e rispetto e famiglia, ma non conosco nessuna
famiglia che metta una trasmittente per geolocalizzare qualcuno e poi lo mandi a
farsi sparare o farsi esplodere.»
«Ma non c’era bisogno di ucciderli», replicai. Strinsi le dita sulle cinghie dello
zaino. «C’era un altro ragazzo lì dentro. Martin. Lui non… non si meritava di…»
«Intendi…» Liam si sfregò le mani sui jeans per pulirle dal grasso. «Il tipo
che…» Fece un gesto vago con le mani a indicare la stazza rotonda di Martin.
«Quel tipo?»
Annuii.
«L’albero non li ha colpiti in pieno», disse Liam, appoggiandosi alla portiera
scorrevole del minivan. «Potrebbero essere ancora vivi.»
Mi guidò verso il sedile del passeggero e fischiò per richiamare l’attenzione di
Ciccio. Da qualche parte alle mie spalle sentii Zu risalire su Black Betty.
«Guarda», continuò. «Tutti loro indossano delle trasmittenti. Sono sicuro che
un altro agente della Lega li andrà a soccorrere nel giro di poco. Puoi tornare
indietro se vuoi, oppure possiamo portarti alla stazione dell’autobus come
avevamo detto.»
Avevo ancora le mani lungo i fianchi e il viso sgombro come un cielo sereno,
ma non lo prendevo certo in giro. Percepì il mio senso di colpa come se lo avessi
scritto in faccia.
«Non ti rende una persona cattiva, sai… voler vivere la tua vita.»
Spostai lo sguardo dalla strada al suo volto, più confusa che mai. Non aveva
senso che desiderasse aiutarmi, dato che aveva già altre due persone che
contavano su di lui. Che voleva proteggere.
Liam mi aprì la portiera posteriore, e con un cenno della testa indicò il posto
vuoto all’interno. Ma prima che potessi considerare il prezzo di rimanere con
loro, anche se per poco, Ciccio stese il braccio e chiuse la portiera davanti al mio
naso.
«Ciccio», disse Liam in tono di avvertimento.
«Perché stavi con la Lega dei Bambini?» domandò invece Ciccio.
«Ehi, su», disse Liam. «Noi operiamo in regime di confidenzialità. Verde,
tu…»
«No», lo interruppe Ciccio, «questo lo hai deciso tu. Tu e Suzume. Se ci
dobbiamo sorbire questa qui, voglio sapere che razza di persona è e perché ci
siamo fatti inseguire da pazzi scatenati e armati che se la vogliono riprendere.»
Liam alzò le mani in segno di resa.
«Io…» Cosa potevo raccontare loro che non sembrasse una bugia bella e
buona? Mi sentivo la testa leggera; ero troppo esausta per riuscire a pensare.
«Ero…»
Zu mi fece un cenno di incoraggiamento, con gli occhi accesi.
«Facevo il messaggero alla torre di controllo», dissi di getto. «Ho visto i
codici di accesso ai server, e la Lega li vuole. Ho una memoria fotografica, e
sono brava con i numeri e con i codici.» Forse era un po’ esagerato, ma
sembrava che se la fossero bevuta.
«E il tuo amico chi è?»
Più a lungo mi fissavano, più era difficile restare calma. Controllati, Ruby.
«Intendi Martin?» domandai, con voce che sembrava troppo alta anche alle
mie orecchie. «Ieri è stata la prima volta che l’ho visto in vita mia. Non so quale
sia la sua storia. Non ho chiesto.»
Avrei voluto non sapere quale fosse la sua storia.
Ciccio sbatté la mano sulla fiancata del minivan. «Non dirmi che ci credi, Lee.
Noi conoscevamo tutti quando finalmente siamo evasi.»
Evasi. Erano riusciti a fuggire? Lo shock mi lasciò senza parole per diversi
minuti, poi finalmente fui in grado di chiedere: «Davvero? Tutti tremila?»
Entrambi fecero un passo indietro allo stesso tempo.
«C’erano tremila ragazzi nel tuo campo?» chiese Liam.
«Perché?» Guardai l’uno e poi l’altro, innervosita. «Quanti ce n’erano nel
vostro?»
«Trecento al massimo», rispose Liam. «Sei sicura? Tremila?»
«Beh, non è che ci abbiano dato le stime ufficiali. C’erano trenta ragazzi per
baracca, e circa un centinaio di baracche. Ce n’erano di più, ma poi hanno
mandato via i Rossi, gli Arancioni e i Gialli.»
Liam fece un verso strozzato in fondo alla gola; a quanto pareva, lo avevo
davvero colpito. «Porca miseria», riuscì finalmente ad articolare. «Quale campo
era?»
«Non sono affari vostri», dissi. «Io non vi ho chiesto dove stavate voi.»
«Stavamo a Caledonia, Ohio», disse Ciccio, ignorando un’occhiataccia di
Liam. «Ci hanno infilati in una scuola elementare abbandonata. Siamo scappati.
Tocca a te.»
«Perché, così potete fare rapporto alla stazione FSP più vicina?»
«Certo, perché ovviamente potremmo andare a fare denuncia di avvistamento
come se niente fosse.»
Dopo un momento, feci un respiro secco. «Va bene. Ero a Thurmond.»
Il silenzio che seguì sembrò estendersi più della strada sotto di noi.
«Dici sul serio?» chiese Liam. «Quella follia di Thurmond, con i bambini
Frankenstein?»
«Gli esperimenti sono stati sospesi», dissi, stranamente sulla difensiva.
«No, intendevo solo… solo», Liam rincorse le parole. «Pensavo che fosse
stato riempito del tutto, sai? E che per questo ci avessero mandati in Ohio.»
«Quanti anni avevi quando sei entrata al campo?» La voce di Ciccio era
controllata, ma la sua espressione vacillò. «Eri giovane, vero?»
La risposta mi sfuggì prima che potessi trattenermi. «Avevo compiuto dieci
anni il giorno prima.»
Liam fischiò piano, e mi domandai quanta parte della reputazione di
Thurmond fosse giunta all’esterno durante gli anni che vi avevo trascorso. Chi
ne parlava, i soldati che vi erano stati assegnati in servizio? E, se la gente sapeva,
perché nessuno era venuto ad aiutarci?
«Quanto tempo siete rimasti voi a Caledonia?»
«Suzume per un paio d’anni. Io per un anno e mezzo e Liam per un annetto.»
«E poi…» Una piccola vocina orribile nella testa mi sussurrò: E basta? Anche
se sapevo che non aveva importanza se fossero stati dentro un anno o un giorno;
un solo minuto in uno di quei campi era sufficiente a mandarti in pezzi.
«E tu quanti anni hai? Sedici? Diciassette?»
«Non lo so», risposi, e quel pensiero per poco mi fece cadere contro il
minivan. Era vero, non ne ero sicura; Sam aveva detto che erano passati sei anni,
ma poteva essersi sbagliata. A Thurmond non tenevamo conto del tempo nel
solito modo; mi accorgevo che le stagioni cambiavano, ma a un certo punto
smisi di farci caso. Ero cresciuta, a ogni inverno sapevo di avere un anno in più,
ma niente di tutto ciò sembrava avere importanza, fino a quel momento. «In che
anno siamo?»
Ciccio sbuffò e fece per dire qualcosa, ma si fermò quando mi vide in faccia.
Non so che espressione avessi, ma bastò a cancellare la sua esasperazione in due
secondi netti. Strinse gli occhi in un gesto che ricordava molto la compassione.
Mentre Liam… la sua espressione sembrò dissolversi.
Mi sentii fremere; strinsi le dita intorno ai pantaloncini dell’uniforme.
L’ultima cosa che desideravo – l’ultima in assoluto – era di farmi compatire da
degli estranei.
Il rimpianto mi travolse come un’onda, annegando persino la paura e l’ansia.
Non avrei dovuto dire un bel niente; avrei dovuto mentire, o evitare la domanda.
Qualsiasi cosa credessero su Thurmond, qualsiasi cosa pensassero che avevo
passato, bastava a rendermi patetica ai loro occhi. Lo vedevo nei loro visi, e
l’ironia mi ferì più di quanto mi sarei aspettata. Avevano accolto un mostro,
pensando che fosse un topolino.
«Sedici, allora», dissi, quando Liam ebbe confermato l’anno. Sam aveva
ragione, dopotutto.
C’era qualcos’altro che mi infastidiva. «Stanno ancora creando nuovi campi
per mandarci i bambini?»
«Non più tanto, ormai», rispose Liam. «Il gruppo più giovane – quelli dell’età
di Zu – ha avuto la peggio. La gente ha iniziato a spaventarsi, e la natalità è
diminuita anche prima che il governo tentasse di limitare le nascite. La maggior
parte dei ragazzi che viene ancora mandata nei campi è come noi. Sono riusciti a
non farsi scoprire durante le retate, o hanno provato a fuggire.»
Annuii, riflettendo.
«A Thurmond», disse Ciccio, «facevano davvero…»
«Direi che basta così», lo interruppe Liam. Si sporse oltre il braccio teso di
Ciccio e mi aprì la portiera. «Lei ha risposto alle tue domande, noi abbiamo
risposto alle sue; ora dobbiamo metterci in strada, finché possiamo.»
Zu salì per prima e io la seguii senza guardare i due ragazzi, dirigendomi
verso il sedile in fondo dove avrei potuto distendermi e nascondermi ad altre
domande indesiderate.
Ciccio si sedette davanti, lanciandomi un’ultima occhiata. Le sue labbra piene
erano strette al punto da aver perso colore. Alla fine, rivolse l’attenzione al libro
che aveva in grembo, facendo finta che non esistessi.
Black Betty fece le fusa quando Liam schiacciò l’acceleratore, e la vibrazione
mi percorse tutto il corpo. Per un bel po’, fu lei l’unica ad aver voglia di parlare.

La pioggia continuava a scendere e proiettava intorno all’auto una luce grigia.


I finestrini si erano appannati, e per un minuto non feci altro che osservare la
pioggia. Fari di altre auto lampeggiavano al di là del parabrezza, ma non era
ancora buio.
Alla fine, Ciccio accese la radio, riempiendo il silenzio con un reportage sulla
crisi del petrolio in America e sugli scavi condotti in Alaska di conseguenza. Se
non fossi stata già mezza addormentata, il brusio monotono dell’annunciatore
radio sicuramente mi avrebbe aiutata.
«Ehi, Verde», mi chiamò Liam. «Ce l’hai un cognome?»
Pensai di mentire, di trasformarmi in qualcuno che non ero, ma non mi
sembrava giusto. Anche se avessi permesso a queste persone di avvicinarsi a me,
molto presto mi avrebbero dimenticata.
«No», dissi. Avevo un numero Psi e il nome che avevo ereditato da mia
nonna. Il resto non importava.
Liam tornò a guardare la strada, tamburellando le dita sul volante. «Capito.»
Mi riadagiai sul sedile, premendomi le mani sul viso. Il sonno mi prese
proprio quando le nubi temporalesche si aprirono a rivelare un cielo immacolato.
Senza il rumore della pioggia, sentivo la canzone che fluttuava dagli altoparlanti
a basso volume, e la voce profonda di Liam che canticchiava.
10

F Ciccio a svegliarmi. Lo fece con una rapida sberla sulla spalla, come se non
U

sopportasse l’idea di toccarmi così a lungo da darmi uno scossone, ma fu


sufficiente.
Ero piegata come un gamberetto su uno degli stretti sedili, ma al suo tocco
feci un salto e sbattei la testa sul finestrino. Sentii il freddo del vetro sulla nuca
mentre scivolavo nello spazio ridotto tra il sedile davanti e il mio. Per un solo,
nebuloso istante non ricordai dove mi trovassi, per non parlare di come ci fossi
arrivata.
Il viso di Ciccio rientrò nel mio campo visivo; aveva un’espressione confusa
davanti al mio groviglio di gambe e braccia. Di colpo, tutto mi tornò in mente
come un pugno allo stomaco.
Maledizione, maledizione, maledizione, pensai, togliendomi i capelli dal viso.
Volevo solo riposarmi gli occhi per qualche minuto, e chissà per quanto ero stata
nel mondo dei sogni. A giudicare dall’espressione di Ciccio, non era stato un
pisolino breve.
«Non credi di aver dormito abbastanza?» sbuffò, mettendosi a braccia
conserte. Nel minivan sembrava esserci più caldo, e non mi resi conto del perché
fino a quando, alzandomi, vidi il telone blu scuro che aveva coperto il lunotto
posteriore.
La realtà della situazione mi colpì tutta insieme, e sentii una fitta al fianco. Mi
ero lasciata andare completamente in un’auto piena di estranei; al punto che
Ciccio era riuscito a posarmi una mano addosso. Non sapevo chi dei due fosse
stato più fortunato: lui, per non essersi fatto ripulire il cervello, o io, per aver
evitato l’ennesimo potenziale disastro. Come avevo potuto essere così stupida?
Appena avessero capito cos’ero, mi avrebbero buttata fuori, e dove sarei finita?
A proposito…
«Dove siamo?» domandai tirandomi su a sedere. «Dove sono gli altri?»
Ciccio era seduto sul sedile centrale, e divideva l’attenzione tra il libro che
aveva sulle gambe e gli alberi oltre i finestrini oscurati. Mi spostai, seguendo il
suo sguardo, ma non c’era molto da vedere.
«Da qualche parte vicino alla splendida città di Kingwood, West Virginia. Lee
e Suzume sono andati a controllare una cosa», rispose.
Mi ero chinata in avanti senza accorgermene, per vedere cosa stesse leggendo.
Erano anni che non vedevo un libro, figurarsi leggerne uno. Ciccio non me lo
concesse, però. Appena sfiorai la sua spalla con la mia, lo chiuse di scatto e mi
rivolse lo sguardo più truce di cui fu capace. Nonostante gli occhiali troppo
piccoli e il kit da signorina nascosto sotto il sedile, mi ripetei che c’erano buone
probabilità che fosse in grado di uccidermi con il pensiero.
«Quanto ho dormito?»
«Un giorno», rispose. «Il Generale ti vuole in piedi e pronta a rapporto. Ha
uno dei suoi attacchi di frenesia. Sarai anche solo una Verde, ma si aspetta che tu
ci dia una mano.»
Scelsi le parole successive con cura, ignorando il suo sguardo compiaciuto.
Che lo pensi pure, se si sente meglio. Era più intelligente di me, non c’era
dubbio. Probabilmente aveva molti più anni di istruzione alle spalle, aveva letto
centinaia di libri in più e si ricordava abbastanza matematica da farsela tornare
utile. Ma, per quanto riuscisse a farmi sentire piccola e stupida, non potevo
ignorare il fatto che con un solo tocco della mano avrei potuto leggere il
contenuto del suo cervello.
«Liam è un Blu, vero?» esordii. «Anche tu e Zu siete Blu?»
«No.» Impiegò diverso tempo a decidere se rivelare o meno l’informazione
successiva. «Suzume è Gialla.»
Mi raddrizzai. «C’erano Gialli nel vostro campo?»
Ciccio grugnì. «Sì, Verde, ti ho mentito: certo che c’erano Gialli.»
Ma non aveva senso: dopotutto, se avevano portato via i Gialli da Thurmond,
perché non dagli altri campi?
«Hanno…» iniziai, incerta su come formulare la domanda. Quando Zu mi
aveva trascinato nel minivan, avevo pensato che fosse solo timida e nervosa con
gli estranei. Ma non le avevo sentito pronunciare nemmeno una parola in tutto il
tempo che avevo passato con loro. Non a me, non a Ciccio e nemmeno a Liam.
«Hanno fatto qualcosa ai Gialli? A lei?»
L’unico modo per incendiare l’atmosfera del minivan più velocemente di così
sarebbe stato gettare un filo elettrico in una vasca da bagno.
Ciccio si voltò di scatto verso di me e si mise a braccia conserte. Lo sguardo
che mi rivolse da sopra gli occhiali avrebbe potuto trasformarmi in pietra, se
fossi stata un filo più debole.
«Questi», disse lentamente, con precisione, per assicurarsi che mi fosse
chiaro, «non sono assolutamente affari tuoi.»
Alzai le mani in segno di resa.
«Ti sei almeno chiesta cosa sarebbe potuto succederle quando l’hai
inseguita?» insisté. «Ti importa che i tuoi amici nel SUV verde avrebbero potuto
allegramente acciuffarla?»
«Le persone nel SUV verde…» iniziai a dire, e avrei proseguito se la portiera
non si fosse improvvisamente aperta alle nostre spalle. Ciccio emise un verso
che si poteva descrivere solo come gracchiare, e praticamente volò al suo posto
sul sedile davanti. Quando si risistemò, aveva gli occhi sbarrati quasi quanto
quelli di Zu, che lo fissava dalla portiera semiaperta.
«Non fare così!» esclamò, con una mano sul petto. «Dacci almeno un minimo
di preavviso!»
Zu mi lanciò uno sguardo d’intesa, che ricambiai. Un attimo dopo, sembrò
ricordare il motivo per cui era venuta da noi e iniziò a farci segno di uscire,
agitando i guanti giallo sole.
Ciccio si slacciò la cintura di sicurezza con un sospiro scocciato. «Gliel’ho
detto che era una perdita di tempo. Hanno detto Virginia, non West Virginia.» Si
voltò di nuovo verso di me. «A proposito», aggiunse. «Quel SUV era marrone.
Bella memoria fotografica che hai.»
Una scusa mi saltò in gola, ma Ciccio mi bloccò con uno sguardo saccente, e
uscì sbattendosi la portiera alle spalle. Saltai giù anch’io e seguii Zu.
Affondando i piedi nel fango e nell’erba triste e ingiallita, diedi la mia prima
occhiata in giro.
Un grosso cartello di legno, reclinato come se fosse stato investito, diceva
, ma non c’era alcun fiume, e di certo non era un tipico campeggio.
CAMPEGGIO EAST RIVER

Più che altro era – o era stato – un parcheggio per vecchi camper e roulotte. Più
ci allontanavamo dal minivan più ero nervosa. Non pioveva, ma avevo la pelle
fredda e umida. Tutto intorno a noi, a perdita d’occhio, si estendevano i gusci
vuoti, bianchi e argento, di vecchie casette e veicoli. Alcune delle case mobili
più grandi e stabili avevano intere pareti divelte o carbonizzate, a rivelare cucine
o salotti dagli interni intatti, se non allagati e infestati da animali e foglie
marcescenti cadute dagli alberi vicini. Era come una fossa comune di vite
passate.
Anche se le porte erano state sradicate e distrutte, anche se alcune roulotte si
poggiavano su ruote di fortuna e gomme bucate, c’erano segni di vita, qua e là.
Pareti decorate con foto di famiglie felici e sorridenti, un orologio a pendolo che
segnava ancora l’ora, pentole sui fornelli, un’altalena indisturbata e solitaria ai
margini dell’area.
Zu e io ci dirigemmo verso una roulotte che giaceva su un fianco, seguendo
una scia di impronte profonde nel fango. Lanciai uno sguardo allo scheletro
arrugginito e immediatamente mi voltai, stringendo la mano intorno al guanto di
Zu. Lei mi guardò con aria interrogativa ma mi limitai a scuotere la testa e dire:
«Inquietante».
Arrivò la pioggia e iniziò a martellare i corpi metallici intorno a noi,
scuotendo alcune delle tettoie e delle verande più deboli. Feci un salto indietro
quando la porta di un camper cadde davanti ai nostri piedi. Zu la scavalcò e
indicò oltre, dove Ciccio e Liam erano immersi in una conversazione. Ci avevo
messo un momento a riconoscere Liam. Sotto la giacca, indossava una felpa blu
con il cappuccio sollevato sopra quello che sembrava un cappello dei Redskins.
Non avevo idea di dove li avesse trovati, ma aveva un paio di occhiali da sole da
aviatore che nascondevano una buona parte del viso.
«…non è qui», disse Ciccio. «Te l’avevo detto.»
«Avevano detto che era al confine orientale dello Stato», insisté Liam. «E
poteva voler dire West Virginia…»
«Oppure ci stavano prendendo in giro», concluse Ciccio al posto suo. Doveva
averci sentite arrivare, perché si voltò con un balzo. Nell’istante in cui incrociò il
mio sguardo, si incupì.
«Buongiorno, bellezza!» esclamò Liam. «Dormito bene?»
Zu schizzò davanti a me, ma io sentii i piedi trascinarsi sotto un peso
invisibile man mano che mi avvicinavo a loro. Mi misi a braccia conserte,
facendomi forza per chiedere: «Cos’è questo posto?»
«Beh», fece Liam con un sospiro, «speravamo che fosse East River.
Quell’East River, intendo.»
«Quello è in Virginia», dissi, guardandomi le scarpe. «La penisola. Sfocia
nella baia di Chesapeake.»
«Grazie, Capitan Ovvio.» Ciccio scosse la testa. «Stiamo parlando dell’East
River di Slip Kid.»
«Ehi», fece Liam con voce tagliente. «Calmati, amico. Non ne sapevamo nulla
nemmeno noi prima di uscire dal campo.»
Ciccio si mise a braccia conserte e distolse lo sguardo. «Come vuoi.»
«Cos’è?»
Sentii che Liam riportava l’attenzione su di me, cosa che mi spinse a voltarmi
verso Zu, che pareva confusa. Controllati, ordinai a me stessa, smettila.
Non avevo paura di loro, nemmeno di Ciccio. Forse un poco quando pensavo
a quanto sarebbe stato facile rovinare le loro vite, o quando immaginavo le loro
reazioni inorridite se mai avessero scoperto chi ero esattamente. Solo che non
sapevo cosa dire o come comportarmi con loro. Ogni mio gesto e ogni mia
parola mi sembravano scomodi, eccessivi o bruschi, e iniziavo a temere che
l’esitazione e l’imbarazzo non mi sarebbero mai passati. Mi sentivo già un
fenomeno da baraccone anche senza dover pensare di non essere in grado di
comunicare normalmente con gli altri esseri umani.
Liam sospirò, grattandosi la testa. «Abbiamo sentito parlare di East River per
la prima volta da un compagno di campo. Pare – e sottolineo pare – che sia un
posto dove i ragazzi all’esterno possono andare e vivere insieme. Slip Kid, che
comanda l’operazione, può metterti in contatto con i tuoi genitori senza che le
FSP lo scoprano. C’è del cibo, un posto per dormire… insomma, hai capito
l’antifona. Il problema è trovarlo. Pensiamo che sia da qualche parte in questa
zona grazie ad alcuni Blu davvero scortesi che abbiamo incontrato in Ohio. È di
quelle cose…»
«Se la sai, non ne devi parlare», conclusi. «Ma chi è Slip Kid?»
Liam alzò le spalle. «Nessuno lo sa. O meglio… forse lo sanno, ma non lo
dicono. Le voci su di lui sono pazzesche, però. Le FSP gli hanno dato quel
soprannome – sai, come la canzone degli Who – perché sembra che sia riuscito a
sfuggire loro per ben quattro volte.»
Ero troppo scioccata per replicare.
«Certo che mette in prospettiva le nostre imprese, eh? Non avevo un’ottima
opinione di me finché qualcuno mi ha raccontato di lui.» Liam rabbrividì. «A
quanto pare è uno di quelli: un Arancione.»
Quella singola parola echeggiò come un tuono intorno a me, facendomi
raggelare. Liam continuò a parlare d’altro, con molto meno disgusto, ma non
riuscivo a sentirlo sopra il ronzio nelle orecchie. Non udii una parola di quanto
diceva.
Slip Kid. Qualcuno che poteva aiutare i ragazzi a tornare a casa, se avevano
una casa a cui tornare e genitori che si ricordavano di loro e li rivolevano. Una
vita da riprendersi.
E potenzialmente uno degli ultimi Arancioni là fuori.
Chiusi forte gli occhi, premendoli con il palmo della mano, per giunta. Non
avevo il diritto di chiedergli aiuto, non nel senso tradizionale. Anche se fossi
riuscita a contattare i miei genitori, era improbabile che accogliessero a braccia
aperte una ragazza che consideravano un’estranea. C’era la nonna, ma non avevo
modo di sapere dove si trovasse. E poi, dopo aver scoperto ciò che avevo fatto,
mi avrebbe ancora voluta?
«Perché avete bisogno dell’aiuto di questo tizio?» li interruppi, mentre la testa
mi girava ancora. «Non potete andare a casa e basta?»
«Ragiona, Verde», disse Ciccio. «Non possiamo andare a casa perché le FSP
probabilmente stanno sorvegliando i nostri genitori.»
Liam scosse la testa, togliendosi finalmente gli occhiali da sole. Sembrava
esausto, aveva le occhiaie. «Dovrai fare davvero attenzione, d’accordo? Sei
sicura che vuoi che ti lasci alla stazione degli autobus? Perché saremmo ben
felici…»
«No!» sbottò Ciccio. «Non lo saremmo affatto. Abbiamo già sprecato
abbastanza tempo con lei, ed è colpa sua se abbiamo la Lega alle calcagna.»
Sentii una stilettata sul lato sinistro del torace, proprio sopra il cuore. Aveva
ragione, ovviamente. La scelta migliore per tutti sarebbe stata di mollarmi alla
prima stazione degli autobus e farla finita.
Ma non significava che io non avessi voglia, o meglio bisogno, di trovare
quello Slip Kid tanto quanto loro.
Ma non potevo chiedere di restare. Non potevo imporre loro la mia presenza
più di quanto avessi già fatto, o rischiare di rovinarli con le dita invisibili che
sembravano intente a distruggere ogni singolo legame che tentavo di creare. Se
la Lega ci avesse raggiunti e li avesse catturati, non me lo sarei mai perdonato.
Mai.
Se dovevo trovare Slip Kid, dovevo farlo da sola. Pensavo di essere abituata
all’idea di affrontare ogni giorno senza nessuno al mio fianco, di provare
sollievo all’idea di non correre il rischio continuo di scivolare inavvertitamente
nella testa di qualcuno. Ma non ne avevo voglia. Non volevo uscire da sola sotto
il cielo plumbeo e sentire il freddo infilarsi sotto la pelle.
«Insomma», dissi, «questo non è East River.»
«Potrebbe esserlo stato, a un certo punto», disse Liam. «Potrebbero spostarsi,
di tanto in tanto. Non lo avevo mai preso in considerazione.»
«Oppure», si lamentò Ciccio, «potrebbero essere stati riacciuffati dalle FSP.
Magari questo era East River, e ora non c’è più nessun East River e dovremo
trovare il modo di consegnare la lettera di Jack e tornare a casa per conto nostro,
solo che non ci riusciremo mai a causa dei tracciatori, e finiremo di nuovo tutti
in un campo, solo che questa volta ci…»
«Grazie, simpaticone», lo interruppe Liam, «per questo corroborante sprazzo
di ottimismo.»
«Potrei aver ragione», ribatté lui. «Devi ammetterlo.»
«Ma potresti anche avere torto», disse Liam, posando una mano sulla testa di
Zu per rassicurarla. «In ogni caso, ecco cosa faremo ora: lo considereremo un
falso allarme. Vediamo se troviamo qualcosa di utile, e ci mettiamo per strada.»
«Alla buon’ora. Sono stufo di perdere tempo con cose che non hanno
importanza.» Ciccio ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni e si diresse verso di
me a grandi passi. Se non mi fossi tolta di mezzo, mi avrebbe dato una spallata e
fatta cadere a terra.
Mi girai, seguendo con gli occhi il suo percorso e i calci che assestava a
spazzatura e sassi sul sentiero. Liam fu improvvisamente al mio fianco, e fu il
suo turno di mettersi a braccia conserte.
«Non prenderla sul personale», mi disse. Dovevo aver fatto un verso di
incredulità, perché continuò: «Voglio dire… d’accordo, Ciccio è praticamente un
settantenne brontolone intrappolato nel corpo di un diciassettenne, ma fa
l’insopportabile solo per provocarti».
Sì, pensai, e sta funzionando.
«E so che non è una scusa, ma è stressato e spaventato quanto noi e…
insomma, credo che quello che sto tentando di dire è questo: tutto l’acido che ti
rovescia addosso? Lo fa con delle buone intenzioni. Se resisti, ti garantisco che
non troverai mai amico più fedele. Ma è spaventato a morte da quello che
potrebbe succedere, specialmente a Zu, se dovessero catturarci di nuovo.»
A quel punto alzai lo sguardo, ma Liam si stava già allontanando verso una
fila di camper scalcagnati. Per un folle secondo pensai di seguirlo, ma avevo
visto Zu con la coda dell’occhio, e i suoi guanti giallo brillante lungo i fianchi.
Saltava dentro e fuori dai camper, si alzava in punta di piedi per sbirciare nelle
case mobili e, a un certo punto, iniziò persino a strisciare nella carcassa di una
roulotte che doveva essere stata spaccata in due da un tornado. Il tetto di metallo,
che era rimasto attaccato solo a due viti nemmeno troppo solide, ondeggiava
sotto l’attacco congiunto di pioggia e vento.
Nonostante avesse il cappuccio della felpa troppo grande tirato fin sulla testa,
la vidi alzare una mano guantata e sfiorarsi il lato del viso, come per scostare una
ciocca di capelli dagli occhi. Non mi parve strano finché glielo vidi rifare, e
impallidire quando se ne rese conto.
Di colpo, la conversazione che avevo provato a fare con Ciccio nel minivan
mi tornò alla mente.
«Ehi, Zu…» dissi, ma mi fermai subito. Come si fa a chiedere a una bambina
se qualcuno ha giocato al macellaio con il suo cervello senza calpestare un
ricordo già doloroso?
In verità, a Thurmond rapavano la testa ai bambini solo quando volevano
andare a curiosare all’interno; avevano praticamente smesso quando arrivai io,
ma ci volle un po’ perché i capelli dei ragazzi più grandi ricrescessero. Da
qualche parte nella mente mi ero domandata se a lei fosse successo lo stesso,
dopotutto; se il motivo per cui non poteva parlare fosse che le avevano
riallacciato male qualche contatto, o se avessero fatto il passo più lungo della
gamba nel tentativo di trovare una «cura».
«Perché ti hanno tagliato i capelli?» le chiesi infine.
Molte delle ragazze che conoscevo avrebbero preferito tenere i capelli corti –
io per prima – ma non avevamo voce in capitolo: potevamo tagliarli una volta
all’anno. Il modo in cui Zu continuava ad accarezzarsi i capelli fantasma mi fece
pensare che nemmeno lei avesse avuto voce in capitolo.
Se la mia domanda l’aveva infastidita, non lo diede a vedere. Si portò le mani
alla testa e iniziò a sfregarla, con un’espressione di grande disagio. Poiché non
capivo, si sfilò un guanto e grattò con foga.
«Oh», feci. «Intendi che il vostro gruppo aveva i pidocchi?»
Annuì.
Aveva senso, ma ancora non spiegava come mai non potesse aprire la bocca e
rispondermi. «Mi dispiace tanto», dissi.
Zu alzò le spalle come se non le importasse, poi si voltò e salterellò verso la
roulotte vicina. La porta dondolò protestando quando la seguii, e i cardini
scricchiolarono. Zu fece una smorfia, e io risposi con un’altra per mostrare che
ero d’accordo. L’interno aveva un odore dolciastro, ma… sgradevole, come di
frutta andata a male.
Iniziai a curiosare nel salottino centrale, aprendo e chiudendo i pallidi
sportelli. I cuscini del sedile erano decorati di un viola fastidiosamente acceso,
ma anch’essi, come il piccolo televisore appeso alla parete di fronte, erano
coperti di polvere e sporco.
L’unica cosa rimasta sul bancone era una tazza da caffè. L’area notte era
altrettanto spoglia: un paio di cuscini, una lampada, un armadio con un vestito
rosso, una camicia bianca e una flotta intera di attaccapanni vuoti. Stavo per
afferrare la camicia quando, al margine del campo visivo, scorsi qualcosa.
Qualcuno l’aveva attaccata al parabrezza della roulotte al posto dello
specchietto retrovisore. Nulla di strano sarebbe apparso all’esterno, né avrebbe
attirato l’attenzione a meno che lo si stesse fissando di proposito. Ma
dall’interno, a pochi passi di distanza, ero abbastanza vicina da vedere la luce
rossa alla base, abbastanza da vedere la telecamera all’interno che riprendeva
chiunque e qualsiasi cosa passasse lungo la strada di fronte. E, se io potevo
vedere Betty da dove mi trovavo, poteva vederla anche la telecamera.
Aveva una forma diversa da quelle che c’erano a Thurmond, ma abbastanza
simile da farmi pensare che dietro ci fossero le stesse persone. Guardai Zu e lei
ricambiò lo sguardo.
«Non ti muovere», le dissi, avvicinandomi alla caffettiera sul tavolo.
Attraversai la roulotte in tre grandi passi, la caffettiera tesa davanti a me come
una spada. Calciai di lato un paio di scatoloni vuoti e dell’immondizia e,
mischiato al caos di sacchetti di plastica, vidi un guantino rosso.
Troppo piccolo per la mano di un adulto.
Non mi resi conto di avere ancora in mano la caffettiera fino a quando
l’abbattei sulla telecamera, infrangendola. Il corpo di vetro si ruppe e cadde a
terra, lasciandomi in mano solo il manico. Il bulbo nero rimase esattamente
dov’era, solo che l’occhio della telecamera si voltò su di me.
È accesa, pensai con un’ondata di panico, cercando qualcos’altro per
romperla. Sta registrando.
Non ricordavo di averla chiamata, ma Zu comparve al mio fianco in un
secondo, infilandosi qualcosa sotto la felpa troppo grande. Doveva averla
riconosciuta anche lei, perché prima che potessi dire una sola parola, si sfilò un
guanto e tese la mano.
«No!»
Non avevo mai visto un Giallo usare le proprie abilità. Ne avevo patito le
conseguenze, ovviamente: blackout in tutto il campo, Rumore Bianco quando i
dirigenti del campo pensavano che qualcuno lo avesse fatto apposta. Ma era da
così tanto tempo che se n’erano andati da Thurmond, che avevo smesso di
immaginare come dovessero sentirsi a parlare il misterioso linguaggio
dell’elettricità.
Le dita di Zu l’avevano a malapena sfiorata quando la telecamera iniziò a
emettere uno strano fischio. Ci fu un lampo di luce bianca e blu che sembrava
scaturire dal suo dito nudo e colpire l’apparecchio. La stessa striscia di luce
scivolò lungo la plastica facendola fumare e fondere per il calore. Senza
preavviso, tutte le luci nella roulotte si accesero a una potenza tale da far
esplodere le lampadine. L’intero veicolo tossicchiò più volte, tremando sotto i
nostri piedi, e il motore si risvegliò miracolosamente dopo il lungo sonno.
Zu ficcò di nuovo la mano nel guanto e si strinse le braccia al petto. Chiuse
forte gli occhi come a implorare che tutto finisse. Ma non avevamo tempo di
aspettare e vedere se aveva funzionato. Mi diressi verso la porta, afferrando Zu
per la felpa e trascinandola fuori dalla roulotte. La tirai, inciampando, fino
all’uscita sul lato della strada in cui si trovava Black Betty.
«Andiamo», dissi, senza lasciarla rallentare. Ogni traccia di luce era sparita
dal suo viso, che si era spento come una candela. «Va tutto bene», mentii.
«Dobbiamo solo trovare gli altri.»
C’era una telecamera sul parabrezza di ogni veicolo nella prima fila; le vidi a
una a una mentre correvamo verso Betty. Non aveva senso tentare di farle fuori
in quel momento. Chiunque potesse vederci ci aveva probabilmente già viste.
Dovevamo solo andarcene, e in fretta.
Potrebbero essere vecchie, tentai di convincermi spalancando la portiera di
Betty. Potrebbero essere state installate anni addietro, per prevenire i furti.
Chissà dove venivano inviate le registrazioni. Magari, da nessuna parte. E, nello
stesso momento, il mio cuore batteva un ritmo completamente diverso.
Stanno arrivando, stanno arrivando, stanno arrivando.
Pensai di chiamare gli altri con un grido, ma potevano trovarsi in qualunque
punto del parcheggio. Mi arrampicai nel minivan dopo Zu e feci l’unica cosa che
sembrava avere senso: schiacciai il palmo sulla parte molle del volante. Il
lamento acuto del clacson di Betty risvegliò con uno scossone il paesaggio
addormentato. Uno stormo di uccelli volò via dagli alberi vicini, raggiungendo il
cielo nel momento in cui iniziai a suonare più forte e con più insistenza.
Ciccio comparve per primo, scapicollandosi lungo una fila di roulotte, e Liam
apparve un secondo dopo a poche file di distanza. Quando videro che eravamo
solo noi due, rallentarono, e Ciccio fece una faccia scocciata.
Mi sporsi dal finestrino dal lato del conducente e urlai: «Dobbiamo andarcene:
subito!»
Liam disse a Ciccio qualcosa che non sentii, ma entrambi mi obbedirono.
Rimasi accovacciata tra i due sedili davanti finché i ragazzi furono saltati dentro.
«Cosa c’è che non va?» domandò Liam, quasi senza fiato.
Indicai il camper più vicino. «Hanno installato delle telecamere», dissi con
voce roca. «In tutti.»
Ciccio fece un respiro improvviso.
«Sei sicura?» La voce di Liam era calma, troppo calma. Si vedeva che si stava
sforzando, e le dita gli tremavano nel tentativo di girare la chiave. Le ruote
posteriori slittarono a vuoto nel fango quando inserì la retromarcia. Io stessa
caddi all’indietro per la forza dell’accelerazione.
«Oh mio Dio», stava dicendo Ciccio. «Non posso crederci. Ci siamo cascati
come Hansel e Gretel. Oh mio Dio… secondo te era lei?»
«No», rispose Liam. «No. È furba per una tracciatrice, ma questo… è un altro
livello.»
«Magari erano lì da un po’», dissi quando fummo di nuovo sull’autostrada.
Era vuota e aperta di fronte a noi, una bocca spalancata pronta a ingoiarci in un
solo boccone. «Potevano averle usate per spiare la gente che abitava lì. Magari
quello era davvero East River…»
Oppure era solo una trappola per i ragazzini che cercavano il vero East River.
Liam appoggiò il gomito alla portiera e il mento sul palmo. Quando parlò, il
suo riflesso si infranse nelle centinaia di crepe che serpeggiavano sul parabrezza.
Spinse il minivan a una velocità superiore, facendo fischiare il vento nel buco
del proiettile. «Comunque tenete gli occhi aperti e fatemi sapere se vedete
qualcosa di sospetto.»
Ma cos’era sospetto? Le fila di case abbandonate? Un minivan scassato?
«Lo sapevo, avremmo dovuto aspettare che facesse buio», disse Ciccio,
tamburellando le dita sul vetro dal lato del passeggero. «Lo sapevo. Se quelle
telecamere erano accese, probabilmente hanno ripreso la targa e tutto.»
«Alla targa ci penso io», promise Liam. Ciccio schiuse le labbra, ma non disse
nulla e si limitò ad appoggiare la testa al finestrino.
«Devo stare all’erta per le FSP?» chiesi, mentre attraversavamo una ferrovia.
«Peggio.» Ciccio sospirò. «Tracciatori. Cacciatori di taglie.»
«Le FSP hanno poco personale, ormai», spiegò Liam. «Lo stesso vale per la
Guardia Nazionale e quello che rimane della polizia locale. Non penso che
invierebbero un’unità fin qui solo per controllare. E, a meno che ci sia un
cacciatore di taglie proprio in questa zona, guarda caso, andrà tutto bene.»
Le ultime parole famose.
«La taglia per la cattura di un bambino è diecimila dollari.» Ciccio si voltò a
guardarmi. «E l’intero Paese non ha più il becco di un quattrino. Non andrà bene
per niente.»
Sentii un treno in lontananza, e il suo fischio così simile a quelli che
passavano accanto a Thurmond a qualsiasi ora della notte. Fu abbastanza per
farmi affondare le unghie nella coscia e chiudere forte gli occhi in attesa che la
nausea passasse. Non mi resi nemmeno conto che la conversazione era
proseguita senza di me finché sentii Liam chiedere: «Tutto a posto, Verde?»
Alzai una mano e mi pulii il viso, chiedendomi se fosse bagnato di pioggia o
se mi fossi messa a piangere senza accorgermene. Non dissi nulla e strisciai fino
al sedile in fondo. Non mi intromisi nella loro conversazione su dove andare a
cercare East River, anche se avrei voluto. C’erano centinaia, migliaia, milioni di
posti in cui Slip Kid avrebbe potuto accamparsi, e volevo aiutarli a scoprirli.
Volevo far parte della missione.
Ma non potevo chiederlo, ed era tempo che smettessi di mentire a me stessa.
Perché ogni secondo che trascorrevo insieme a loro era soltanto un’altra
possibilità che scoprissero che i tracciatori e le FSP non erano gli unici mostri là
fuori. Oh no. Il mostro era sul sedile posteriore.

Per una volta, la musica era spenta. Era il silenzio delle casse a innervosirmi,
più delle strade deserte o delle conchiglie vuote di case espropriate. Liam era un
moto perpetuo. Si guardava intorno nelle cittadine abbandonate che
attraversavamo, controllava il livello della benzina, facendo danzare le dita sul
volante. A un certo punto, incrociò il mio sguardo nello specchietto retrovisore.
Fu solo un istante, ma sentii una piccola stretta allo stomaco, nitida come se
avesse fatto scorrere una delle sue dita morbide lungo il mio palmo aperto.
Arrossii, ma qualcosa dentro di me rimase gelido. Era durato mezzo secondo
al massimo, eppure era stato sufficiente a vedere che i suoi occhi si erano
adombrati di qualcosa che sembrava frustrazione.
Ciccio, sul sedile davanti, continuava a piegare e spiegare qualcosa in grembo,
ancora e ancora, come se non si accorgesse di ciò che stava facendo.
«La smetti?» sbottò Liam. «Così lo strappi.»
Ciccio smise immediatamente. «Non possiamo… provarci? Abbiamo proprio
bisogno di Slip Kid?»
«Vuoi davvero rischiare?»
«Jack lo avrebbe fatto.»
«Già, ma Jack…» La voce di Liam si spense. «Restiamo sul sicuro. Ci aiuterà,
quando lo raggiungeremo.»
«Se lo raggiungiamo», sbuffò Ciccio.
«Jack?» Non mi accorsi di aver parlato ad alta voce finché incrociai lo
sguardo di Liam nello specchietto.
«Non sono affari tuoi», disse Ciccio, senza aggiungere altro.
Liam non fu molto più aperto. «Era un nostro amico, era nella nostra camera
al campo, intendo. Vogliamo provare a metterci in contatto con suo padre. È uno
dei motivi per cui dobbiamo incontrare Slip Kid.»
Feci un cenno con la testa verso il pezzo di carta. «Ma prima di evadere, ha
scritto una lettera?»
«Ne abbiamo scritta una tutti e tre», rispose Liam. «Nel caso che uno di noi si
tirasse indietro all’ultimo minuto e non volesse venire, oppure che… non ce la
facesse.»
«E Jack non ce l’ha fatta.» La voce di Ciccio avrebbe potuto tagliare l’acciaio.
Alle sue spalle, splendide case coloniali ci sfrecciavano accanto, e i colori
lampeggiavano attraverso i finestrini.
«Comunque.» Liam si schiarì la voce. «Stiamo tentando di portare la lettera di
Jack a suo padre. Abbiamo provato ad andare all’indirizzo che ci aveva dato
Jack, ma la casa è stata espropriata. Il padre ha lasciato un messaggio dicendo di
essere a Washington per lavoro, ma non c’era un numero di telefono né un
indirizzo. È per questo che abbiamo bisogno dell’aiuto di Slip Kid: per scoprire
dove si trova ora.»
«Non potete spedirla e basta?»
«Il governo ha iniziato a controllare la posta proprio per questo motivo, circa
due anni dopo che tu sei entrata a Thurmond», mi spiegò. «Il governo legge
tutto, dice tutto e scrive tutto. Hanno inventato una bella storiella su come i
campi ci stiano salvando e riprogrammando in adorabili mocciosi, e non
vogliono che nessuno abbia idea della verità.»
Non sapevo proprio come replicare. «Scusa», mormorai. «Non volevo farti il
terzo grado.»
«Non ti preoccupare», disse Liam, dopo aver lasciato che il silenzio si
estendesse a oltranza. «Va bene così.»

Non c’era modo di spiegare come lo capii. Forse fu la maniera in cui le mani
di Liam si strinsero sul volante, o le continue occhiate allo specchietto
retrovisore durante la conversazione anche molto dopo che l’auto argentata di
fronte a noi ci aveva superati. Ma lo capii già molto prima di incrociare il suo
sguardo preoccupato nello specchietto. Lentamente, senza disturbare Zu e Ciccio
che fissavano la scia infinita di alberi dal finestrino, tornai ad accovacciarmi tra i
due sedili.
Liam mi rivolse un rapido sguardo, facendo un cenno allo specchietto laterale.
Guarda tu stessa, sembrava dire, e io lo feci.
Dietro di noi, a poca distanza, c’era un vecchio pickup bianco. La pioggia
ispessiva l’aria tra i due veicoli, perciò non capii se all’interno ci fosse un uomo
solo o due. Dalla mia posizione, sembravano poco più grandi di due formiche
nere.
«Interessante», dissi, con voce neutra.
«Già», fece lui, a denti stretti. Aveva i muscoli del collo tesi. «Adorabile West
Virginia. Terra delle Gloriose Montagne. Patria delle Numerose Canzoni di John
Denver.»
«Forse», continuai lentamente, «dovresti accostare e controllare la mappa.»
Era un modo come un altro di sondare il terreno. Liam stava per svoltare sulla
George Washington Highway, appena più larga della stradina tortuosa che
stavamo percorrendo. Se il pickup ci stava seguendo, non sarebbe riuscito a
fermarsi senza svelarsi. In ogni caso, chiunque fosse alla guida non sembrava
aggressivo.
Se era un cacciatore di taglie, come Liam sembrava pensare, forse ci stava
studiando a sua volta.
Proseguimmo su Gorman Road, seguendone la curva naturale.
Black Betty rallentò in previsione della svolta. Liam esitò mezzo secondo
prima di mettere finalmente la freccia. Guardai nello specchietto, e vidi con
sollievo che il pickup metteva la freccia dal lato opposto. Noi andavamo a
sinistra, loro a destra. Liam fece un lungo sospiro, appoggiandosi finalmente allo
schienale. Il minivan raggiunse l’incrocio con la superstrada. C’era un’altra auto
che stava svoltando, una piccola Volkswagen argentata; sia Liam sia io alzammo
le mani per ripararci dal riflesso del sole sui suoi finestrini.
«Okay, vecchietto.» Liam fece un cenno impaziente al pickup dietro di noi.
«Vediamo se riesci a svoltare entro la fine del secolo. Mi raccomando, fai con
calma, fatti la barba, contempla l’universo…»
Quando il pickup ci superò, scricchiolando e gemendo come sembravano fare
tutte le vecchie auto, sentimmo provenire dai finestrini aperti i Lynyrd Skynyrd a
tutto volume. Free Bird. Ma certo. Era destino che fosse la canzone preferita di
mio padre. Due secondi di quella maledetta canzone, e fu come tornare a
sedermi nella sua auto di pattuglia, in giro per la città. Era l’unico momento in
cui potessi ascoltare della buona musica: quando eravamo in giro solo lui e io.
Mamma la detestava.
Sentii una risata gorgogliare dentro di me quando vidi il conducente muovere
la testa a tempo di musica. Cantava a squarciagola, accompagnando ogni parola
con uno sbuffo di fumo di sigaretta. Ma poi tutto fu coperto da un altro suono,
una sorta di grido. Alzai gli occhi appena in tempo per vedere la Volkswagen che
ci precedeva inchiodare, fermandosi con un sobbalzo e mandando un altro lampo
abbagliante di sole contro di noi.
«Dimmi che è uno scherzo!» Liam fece per suonare il clacson, ma non prima
che il conducente della Volkswagen abbassasse il finestrino e ci puntasse contro
qualcosa di nero e luccicante.
No. Il mondo divenne improvvisamente nitido. Ogni suono intorno a me
evaporò. No.
Mi allungai e con un pugno accesi la radio di Black Betty, alzando il volume
al massimo. Liam e Ciccio urlarono, ma allontanai la mano di Liam con un colpo
prima che potesse spegnerla.
Il Rumore Bianco attraversò la musica degli altoparlanti e ci lacerò le
orecchie. Non al volume o alla potenza a cui ero abituata, e neanche
lontanamente dannoso come l’ultima volta, ma ancora presente, ancora una
tortura. Il giochetto con la radio non bastò a coprirlo del tutto.
Gli altri crollarono intorno a me, sconfitti dal primo urlo penetrante.
Liam cadde in avanti sul volante, schiacciandosi le mani sulle orecchie. Ciccio
sbatté la testa sul finestrino come se tentasse di togliersi quel rumore dal cranio.
Black Betty iniziò a ondeggiare e si fermò con uno strattone quando Liam
schiacciò il freno anziché l’acceleratore.
La portiera si aprì accanto a me, e un paio di braccia afferrarono Ciccio per la
vita, tentando di estrarlo da sotto la cintura di sicurezza. Mi alzai da terra e
allungai una mano, colpendo l’uomo sul viso e affondando le unghie più che
potevo. Bastò a far sobbalzare il conducente del pickup, lo stesso che due
secondi prima stava cantando Free Bird, e a fargli mollare la presa su Ciccio, che
rimase abbandonato sul sedile, mezzo dentro e mezzo fuori.
Il conducente del pickup inciampò nella propria auto, e le sue parole si persero
nella tempesta di rumore che si era abbattuta sui tre veicoli. Solo a quel punto
vidi il badge che aveva al collo, appeso a una catenina d’argento, e la Ψ rosso
acceso che vi era ricamata. Non erano tracciatori.
Psi. FSP. Campo. Thurmond. Cattura.
L’uomo sulla Volkswagen aveva aperto la portiera sul lato del conducente e
stava tentando di slacciare la cintura di sicurezza di Liam. Non era certo robusto;
sembrava un contabile, con occhiali spessi e spalle ingobbite per le troppe ore
alla scrivania. Ma non aveva bisogno di forza, dato che aveva tra le mani quel
megafono nero.
Alcune delle FSP, a Thurmond, si portavano le macchine per il Rumore
Bianco in giro per il campo, usandole contro piccoli gruppi che facevano casino,
o anche solo per spaventare i ragazzini. In fondo, loro non lo sentivano.
Ogni terminazione nervosa nel mio corpo urlava, ma affondai il gomito nel
petto del conducente del pickup, che cadde all’indietro, permettendomi di
chiudere la portiera e mettere la sicura. Ebbi solo un secondo per controllare Zu
prima di lanciarmi oltre il corpo di Liam con i pugni pronti.
Colpii Volkswagen sugli occhiali, facendoglieli saltare via.
Da qualche parte dietro di me, Pickup si era avvicinato alla portiera
scorrevole, e non a mani vuote.
Zu non reagì al fucile che si trovò puntato in faccia; a giudicare dai suoi
lamenti, dagli occhi chiusi e dai guanti di gomma accartocciati in agonia sulle
orecchie, credo che non lo vedesse nemmeno.
Non sapevo cosa fare. Afferrai Liam e lo scossi finché riprese i sensi.
Spalancò gli occhi, limpidi e azzurri, ma durò solo un istante. Improvvisamente
mi trovai il megafono a due centimetri dal viso, e il Rumore Bianco mi affondò
nel cervello come un’ascia. Le ossa mi si trasformarono in gelatina. Non mi
accorsi nemmeno di essere caduta addosso a Liam finché mi trovai con la testa
sulla sua schiena. L’unico suono più forte del Rumore Bianco, della radio, delle
urla di Ciccio era quello del cuore di Liam.
Chiusi ancora una volta gli occhi, stringendoli forte, e affondai le dita nel
cuoio soffice della sua giacca. Una parte di me voleva spingersi via, mettere
distanza tra noi per non avere la possibilità di scivolare nella sua mente; ma
l’altra parte di me, quella disperata, stava già tentando di ancorarsi dentro di lui e
indurlo a muoversi. Se potevo fare del male a qualcuno, non voleva forse dire
che potevo anche essere d’aiuto?
Alzati, lo implorai, alzati, alzati, alzati, alzati, alzati…
Ci fu un gemito acuto che non poteva certo provenire da un essere umano. Mi
costrinsi ad aprire gli occhi. Pickup aveva il fucile in una mano, il colletto di Zu
nell’altra, e la stava trascinando verso la sua macchina. Tentai di chiamarla,
anche se Volkswagen mi stava strattonando per i capelli in direzione della
portiera. Mi fece cadere come un peso morto, e mi scorticai i palmi delle mani e
le gambe sulla ghiaia. Mi girai su un fianco, tentando di sfuggire alla presa del
soldato FSP. Da sotto Betty vidi un lampo di giallo cadere a terra come piume di
un uccellino, e sentii una portiera sbattere.
«Stewart; conferma avvistamento del numero Psi 42755.» Volkswagen
spalancò di nuovo la portiera del conducente, estraendo dalla tasca un oggetto
arancione. Mi sfregai gli occhi per ricomporre l’immagine che vedevo doppia.
L’oggetto arancione tra le mani del FSP non era più grande di un cellulare, e
l’uomo lo manovrò facilmente davanti al viso di Liam, anche se era premuto
contro il volante del minivan. Il mio tentativo di afferrare la caviglia del FSP fu
inutile; era talmente assorto dalle proprie azioni che nemmeno se ne accorse.
Liam! La mia bocca rifiutava di muoversi, sembrava non funzionare. Liam!
L’oggetto arancione si illuminò e un secondo dopo, coprendo persino l’urlo
del Rumore Bianco, sentii Volkswagen dire: «Confermata identificazione Liam
Stewart».
Qualcosa di caldo e tagliente fendette l’aria, esplodendo sotto Betty in una
pungente nuvola di sabbia. Strisciò contro la mia pelle e dovetti riparare il viso
dalla luce accecante che seguì, un lampo bruciante che nascose alla vista ogni
cosa lì intorno. Sentii Volkswagen imprecare sopra di me, ma la sua voce fu
coperta dal suono del metallo che strideva contro il metallo, e del vetro che
esplodeva con tale forza e velocità da far cadere schegge come grandine sul
terreno davanti a me. Poi sparì.
Il Rumore Bianco si fermò d’improvviso, e qualcosa cadde rumorosamente a
terra, a poca distanza da noi. Il megafono.
Tesi la mano per afferrarne il manico. Volkswagen urlava qualcosa che non
capivo perché le orecchie mi ronzavano troppo forte, ed ero troppo concentrata a
impossessarmi dell’altoparlante per dargli retta. Una mano si chiuse intorno alla
mia caviglia nuda e mi tirò all’indietro, ma prima riuscii a stringere il manico tra
le dita.
«Alzati, pezzo di…!» Ci fu un suono digitale, come una sveglia, e subito
l’uomo mollò la presa. «Qui è Larson, richiedo rinforzi immediati…»
Con un grugnito mi spinsi in ginocchio, e poi in piedi. L’uomo mi aveva dato
le spalle per un secondo di troppo e, quando finalmente si accorse dell’errore e si
voltò, fu ricompensato con un violento colpo di megafono in faccia. La radio gli
cadde di mano, e io la calciai lontano sull’asfalto. Alzò le mani per ripararsi il
viso da un altro colpo, ma non avevo intenzione di fargliela passare liscia. Non
gli avrei permesso di riportarmi a Thurmond. Strinsi la mano sul suo
avambraccio e lo strattonai, costringendolo a guardarmi. Vidi le sue pupille
stringersi negli occhi nocciola prima di tornare a una dimensione normale. Era
almeno trenta centimetri più alto di me, ma la differenza scomparve quando
cadde in ginocchio.
Non riuscì nemmeno a prendere fiato, figuriamoci a impedirmi di entrare nella
sua mente. Vattene! tentai di dire. Strinsi la mascella fino a farmi male ai
muscoli come se il Rumore Bianco li stesse ancora attraversando come una
corrente elettrica pulsante. Vattene!
Non avevo mai fatto niente di simile, e non c’era modo di sapere se avrebbe
funzionato; ma ormai cosa avevo da perdere? I suoi ricordi mi scorsero addosso,
lambendomi il cervello onda dopo onda, e l’unica cosa che riuscivo a pensare
era: Ce la farò, andrà bene.
Martin aveva detto di essere in grado di infilare i pensieri nella testa della
gente, ma le mie abilità non funzionavano allo stesso modo, non lo avevano mai
fatto. Vedevo solo immagini. Potevo solo confondere, smistare e cancellare
immagini. Ma non avevo mai tentato di fare nient’altro. Non lo avevo mai
nemmeno desiderato, fino a quel momento. Perché se non potevo aiutare quei
ragazzi, se non potevo salvarli, allora cosa c’era di buono in me? A cosa servivo?
Fallo. Fallo e basta.
Immaginai che l’uomo prendesse la radio: ogni dettaglio, dal modo in cui la
doveva cercare a tentoni senza gli occhiali a come i suoi jeans si sarebbero
spiegazzati. Immaginai che annullasse la richiesta di rinforzi. Lo immaginai
camminare giù per la collina rocciosa che costeggiava il bordo della strada,
verso la foresta.
E quando allontanai la mano dal suo braccio, un dito alla volta, fece
esattamente così. Se ne andò, e ogni passo portò un nuovo sussulto di sorpresa.
Ero stata io. Io.
Mi voltai verso il punto da cui il fumo nero si riversava nella strada, coprendo
l’erba della collina e i suoi margini nascosti in una coltre spessa e orrenda. Poi,
mi ricordai.
Zu.
In quel momento, zoppicando, vedevo chiaramente la carcassa.
Il pickup, che a un certo punto era stato parcheggiato accanto a Betty, si
trovava a diversi metri di distanza, a riposo in un prato verde. La piccola
Volkswagen era adagiata su un fianco lì davanti, un cumulo di metallo contorto
che riconobbi a malapena. Fumava copiosamente, un fumo nero e puzzolente,
come se fosse sul punto di esplodere.
L’ha speronata, pensai. Il pickup l’ha speronata e spinta via.
Seguii le tracce di pneumatici e vetri infranti, ma trovai solo il conducente.
Quel che ne restava.
Il suo cadavere era attorcigliato su se stesso nell’erba alta; non si capiva dove
finisse un arto e ne iniziasse un altro. Ogni parte del corpo sembrava fuori posto.
I gomiti sporgevano da terra come ali spezzate. Anche lui era stato speronato.
Qualcosa di freddo e rigido si avvolse intorno al mio petto, costringendomi a
uscire dalla nebbia e dal fumo dopo aver verificato che Zu non fosse in quelle
auto. Solo una volta che mi fui allontanata dal fumo più denso mi lasciai cadere
in ginocchio e vomitai il poco cibo che avevo nello stomaco.
Quando alzai finalmente gli occhi la vidi, seduta in mezzo alla strada poco
lontano da Betty, con la schiena piegata in avanti e il capo chino, ma viva; sana e
salva. La mia mente si aggrappò a quelle due parole e provai di nuovo a
chiamarla. Lei alzò lo sguardo, ansimando. Avvicinandomi, intravidi i dettagli
anche attraverso il fumo: gli occhi arrossati, il taglio sulla fronte, le lacrime che
le rigavano le guance sporche. La testa mi pulsava allo stesso ritmo del cuore; mi
misi in ginocchio di fronte a lei, e per diversi secondi di tortura non sentii
nient’altro.
«A… a posto?» chiesi, sentendo in bocca una sorta di poltiglia.
Zu annuì, battendo i denti.
«Cosa… è successo?» balbettai.
Lei si raggomitolò su se stessa come se volesse sparire. I guanti gialli erano a
terra accanto a lei, e le mani erano ancora alzate e rivolte in avanti come se
avesse toccato l’auto un secondo prima.
Non sapevo cosa dirle per calmarla; non sapevo nemmeno come calmare me
stessa. Quella bambina, quella Gialla, aveva distrutto due auto e una vita nel giro
di pochi secondi. E, a quanto pareva, lo aveva fatto con un solo tocco.
Ma, anche sapendo tutto ciò, era pur sempre Zu; e quelle mani? Erano le mani
che mi avevano tratta in salvo.
La sollevai con braccia tremanti e la riportai a bordo di Betty. Era calda, ben
più che se avesse la febbre. La posai sul sedile e le premetti le mani sulle guance,
ma non riuscì a mettermi a fuoco. Stavo per chiudere la portiera quando mi
afferrò il polso e indicò i guanti a terra.
«Li prendo io», dissi. Glieli lanciai, poi mi voltai per affrontare il compito più
difficile.
Ciccio era ancora privo di sensi sul sedile del passeggero, mezzo fuori dalla
portiera aperta. Il conducente del pickup non era riuscito a manovrare le sue
lunghe gambe più di così, per fortuna, altrimenti anche Ciccio avrebbe fatto la
sua stessa fine, nell’erba. Lo feci sbattere contro la portiera, chiudendola, come
un mucchietto di ossa. Inciampai nella punta delle mie scarpe da ginnastica
girando intorno al minivan, e avevo ancora macchie colorate davanti agli occhi.
Spalancai la portiera del conducente. Liam era ancora svenuto e, per quanto lo
scuotessi, non riuscii a fargli riprendere conoscenza. Zu iniziò a piagnucolare,
ma i gemiti si attutirono quando premette la bocca sulle ginocchia.
«Va tutto bene, Zu», le dissi. «Stiamo tutti bene. Ogni cosa andrà a posto.»
Estrassi le braccia di Liam dal groviglio della cintura e un po’ spinsi e un po’
tirai fino a farlo scivolare fuori dal sedile del conducente. Non avevo abbastanza
forza per depositarlo su uno dei sedili posteriori, così lo lasciai a terra tra i due
sedili davanti, con il viso rivolto in alto verso di me. I muscoli ai lati della sua
bocca ogni tanto si contraevano, facendo alzare gli angoli in un sorriso
innaturale.
Fissai il volante tentando di riportare alla mente i passi necessari a far
funzionare il pickup, di ricordarmi cosa avessero fatto Liam, Cate e mio padre a
suo tempo. Sedici anni e non sapevo nemmeno dove fosse il freno a mano,
figuriamoci capire se fosse inserito o meno.
Ma non aveva importanza. Potevo guidare, che fosse inserito o meno, a
quanto pareva, e l’unica cosa che mi serviva sapere era che con il pedale destro
si andava avanti e con il sinistro ci si fermava; non c’era molto altro da sapere.
Betty oltrepassò il cuore del fumo denso e ne inseguì la scia sulla strada fino a
quando ci lasciammo finalmente alle spalle le carcasse delle due auto, e l’aria
che usciva dalle ventole non portò più tracce di Rumore Bianco nelle nostre teste
né odore di fumo nei nostri polmoni.
11

A percorso una quindicina di chilometri quando i ragazzi cominciarono a


VEVAMO

svegliarsi. Zu piangeva ancora sul sedile posteriore, e non avevo idea di dove
stessimo andando: dire che fossi sollevata era poco.
«Porca miseria», gracchiò Liam. Si premette una mano sul lato della testa e
sobbalzò, mettendosi a sedere. «Porca miseria!»
Aveva il viso a pochi centimetri dai piedi di Ciccio, quindi li afferrò e li
strattonò come per assicurarsi che fossero ancora attaccati a qualcosa. Ciccio
gemette: «Mi sa che sto per vomitare».
«Zu?» Liam strisciò verso di lei, suscitando un altro verso di Ciccio quando
inavvertitamente gli diede un calcio. «Zu? Sei stata tu…?»
Per tutta risposta, lei si mise a piangere più forte, nascondendo il viso nei
guanti.
«Oh mio Dio, mi dispiace, mi dispiace tanto, io…» Liam sembrava in agonia,
come se gli stessero strappando le budella. Portò una mano alla bocca, si schiarì
la voce, ma non riuscì a pronunciare un’altra parola.
«Zu», dissi, con voce stranamente calma persino alle mie stesse orecchie.
«Ascoltami. Ci hai salvati. Non ce l’avremmo fatta senza di te.»
Liam si voltò di scatto, come se si fosse appena ricordato della mia presenza.
Trasalii, ma come potevo rimanerci male se dava la precedenza ai suoi veri
amici?
Sentii addosso gli occhi di tutti mentre Liam si faceva strada verso di me.
Raggiunto il sedile del passeggero, vi si lasciò cadere, con il viso tirato e pallido.
«Stai bene?» chiese con voce roca. «Cos’è successo? Come hai fatto a tirarci
fuori?»
«È stata Zu», risposi, ben consapevole della linea sottile tra la verità e quello
che potevo raccontare loro, per tenere al sicuro sia Zu sia me stessa. Non ero
sicura di quanto lei ricordasse dell’accaduto, ma non avevo intenzione di
confermare le sue paure. Alla fine, mi limitai a dire: «Ha fatto sbattere un’auto
contro l’altra. Ha mandato al tappeto uno dei due tizi, e l’altro se l’è data a
gambe».
«Cos’è stato…» Ciccio faticava persino a respirare, «quel rumore orribile?»
Lo fissai, tentando di spingere le parole fuori dalla bocca malgrado lo stupore.
«Non lo hai mai sentito prima?»
I due ragazzi scossero la testa.
«Merda», disse Liam, «era come sentire un gatto nel frullatore durante un
elettroshock.»
«Davvero non avevate il Rumore Bianco? Il Controllo della Calma?» chiesi,
sorpresa dalla rabbia che mi opprimeva il cuore. Che razza di campo era stato il
loro, il Paese dei Balocchi?
«E tu sì?» Liam scosse la testa, probabilmente per allontanare il ronzio dalle
orecchie.
«Lo usavano a Thurmond per… neutralizzarci», spiegai. «Quando c’erano
tensioni o problemi. Ti impedisce di pensare abbastanza a lungo per poter usare
le abilità.»
«E tu perché stai così bene?» sibilò Ciccio, in parte sospettoso e in parte
invidioso.
La domanda da un milione di dollari. La mia lunga e sordida relazione con il
Rumore Bianco includeva diversi episodi di svenimento, vomito e perdita di
memoria, per non parlare dell’esperienza più recente di sanguinamento da occhi
e bocca. Immagino che, dopo aver provato il Peggio, anche il Piuttosto Male non
sembri più così terribile. Se quella era la loro prima volta, spiegava perché erano
appassiti come erba tagliata dopo pochi secondi.
Liam osservava il mio viso, e mi domandai cosa vedesse. Tutto? Pensai alla
sensazione della sua giacca sulla guancia, alla curva della sua schiena, e
qualcosa di tiepido prese posto nel mio petto.
«Ci sono più abituata, credo», risposi infine. «E i Verdi non sono così sensibili
come i Blu e gli altri.» Mi ricordai di aggiungere questo dettaglio. Una verità e
una bugia.
Liam si offrì di prendere il mio posto appena riuscì a scrollarsi di dosso
l’espressione tirata e a riprendere un po’ di colore. Meritava un applauso per la
sua capacità di nascondere agli altri i tremiti a mani e gambe, ma io avevo
l’occhio allenato. Riconobbi come vecchi amici i fastidiosi effetti del Rumore
Bianco. Lui aveva bisogno di qualche minuto in più.
«Andiamo», disse, vedendo sul cruscotto che era passato un altro minuto.
«Hai già fatto…» La sua voce si spense.
Lo guardai e mi resi conto che mi stava fissando; o per la precisione, stava
fissando il mio ginocchio ossuto e sbucciato. Un secondo più tardi, quando
riportai gli occhi sulla strada, sentii un tepore sopra la gamba e mi scostai con un
sobbalzo.
«Ah… scusa», sussurrò Liam, spostando la mano. Le punte delle orecchie gli
erano diventate paonazze. «È solo che sei tutta tagliata. Ti prego, possiamo
fermarci un attimo? Dovremmo riprendere il filo, capire dove siamo.»
Ma non volevo accostare in un punto a caso tra i pascoli e i recinti; aspettai di
trovare una vecchia stazione di servizio, di mattoni rossi in stile coloniale, e
abbandonai la strada portando il minivan nel parcheggio deserto.
Ciccio approfittò per svuotare il contenuto dello stomaco a terra, ma non
riuscì a emettere altro che qualche conato a vuoto. Liam si alzò e gli diede una
pacca sulla schiena. «Puoi aiutare Ruby quando hai finito?»
Ciccio poteva anche odiarmi, o volermi spaventare, ma almeno si era reso
conto che avevo contribuito a salvargli la pelle. Comunque, non disse di sì: si
limitò a mettersi a braccia conserte e fare un lungo sospiro da martire.
«Grazie», disse Liam. «Chissà cosa faremmo senza di te, Madre Teresa.»
Uscì dalla portiera scorrevole dietro al mio sedile e si diresse verso le
fontanelle di acqua potabile davanti ai bagni. Zu lo seguì, saltellando, con una
borsa di tela rosa in mano. Quando tornai a guardarlo, Ciccio si era ripreso
abbastanza da cominciare a esaminarmi di malagrazia.
«Piano!» esclamai quando mi sfiorò il gomito. Spinse un dito su una delle
luci, e quella si illuminò. Vidi finalmente che il mio braccio, dal gomito al polso,
era stato scorticato dall’impatto con la strada.
«Girati verso di me.» Sembrava che Ciccio stesse lottando con tutte le forze
contro la voglia di farmi una smorfia. «Subito, Verde, prima che mi cresca la
barba.»
Mi voltai in modo da avere le gambe rivolte verso di lui sul sedile. Non erano
messe tanto meglio del mio braccio, cosa che non mi sorprese affatto. Le
ginocchia erano sbucciate e in alcuni punti si stava già formando una crosta ma,
a parte un paio di graffi e lividi che non avevano niente a che fare con l’attacco
recente, erano in condizioni decisamente migliori delle mani.
Ciccio estrasse da sotto il sedile una specie di valigetta e fece scattare il
lucchetto. Sbirciai all’interno prima che prendesse quattro pacchetti bianchi e
quadrati e la richiudesse.
«Come hai fatto a ridurti così?» borbottò, aprendo il primo. Sentii l’odore del
disinfettante e tentai di allontanarmi.
Ciccio mi rivolse uno sguardo torvo da sopra gli occhiali. «Se hai deciso di
fare come se fossi a casa tua, almeno potresti prenderti un po’ più cura di te
stessa? È già abbastanza difficile tenere interi gli altri due, senza che ti ci metta
anche tu a correre incontro al pericolo.»
«Non ho corso…» iniziai, ma ci ripensai. «Scusa.»
«Sì, beh», sbuffò. «Altro che scusa, se questi tagli fanno infezione.»
Si portò la mia mano destra vicino al viso per vedere meglio, e tentai di
dominarmi quando iniziò a sfregarla con una salvietta disinfettante con la stessa
delicatezza di un lupo che azzanna la cena. Il bruciore mi risvegliò dal torpore in
cui stavo cadendo.
D’un tratto consapevole del suo tocco, allontanai la mano dalla sua e presi la
salvietta fredda. Non era meno doloroso togliermi da sola i pezzi di asfalto dalla
mano.
«Dovresti andare a controllare Lee e Zu», dissi.
«No: si arrabbierebbero con me perché non mi sono preso cura di te.» Dopo
un momento, ammise con riluttanza: «D’altronde, sembrava che tu… beh, che
fossi messa peggio di noi, almeno. Loro possono aspettare». Doveva aver visto il
tremito all’angolo della mia bocca, perché aggiunse: «Ma non credere di poterti
prendere tutte le bende; le tue sono al massimo ferite superficiali, e nemmeno
troppo gravi!»
«Sissignore», dissi, gettando la salvietta disinfettante fuori dal finestrino. Me
ne porse una seconda per l’altra mano, con gli occhi ancora stretti ma che forse
forse si stavano addolcendo. Mi concessi di rilassarmi un minimo, ma non mi
illudevo certo che avremmo presto iniziato a intrecciare braccialetti
dell’amicizia.
«Perché hai mentito?»
Sollevai la testa di scatto a quella domanda, sentendomi improvvisamente
molto leggera. «Non ho… cosa intendi… non sono…»
«A proposito di Zu.» Lanciò un’occhiata oltre la spalla, prima di proseguire a
voce bassa. «Hai detto che ha solo mandato a tappeto quel tipo, ma… non è stato
così, vero? È morto.»
Annuii. «Non aveva intenzione di…»
«Ovviamente no», concluse lui, secco. «Mi domandavo come mai nessuno ci
stesse inseguendo, e mi sono preoccupato, pensando all’effetto che avrebbe
avuto su di lei… e beh, si vede che alla fine hai un po’ di sale in zucca anche tu.»
Mi venne in mente in quel momento: uno di quei momenti rari e perfetti in cui
la comprensione si cristallizza. Non mi voleva tra i piedi perché mi considerava
una minaccia. Non si sarebbe mai fidato di me finché gli avessi dimostrato il
contrario; e dopo l’errore sul colore del SUV, chissà quando sarebbe successo.
«Il mondo è anche migliore con un tracciatore di meno, giusto?» Si chinò a
raccogliere la valigetta e vi ripose le salviette rimaste.
Giusto, pensai, raddrizzandomi sul sedile, non gliel’ho detto.
«Non erano tracciatori. Erano FSP.»
A quelle parole, Ciccio fece una risata. «E immagino che le uniformi fossero
nascoste sotto le camicie a quadretti e i jeans.»
«Uno di loro portava un badge. E l’oggetto arancione che usavano; ne ho visto
uno a Thurmond, una volta.» Ciccio non sembrava convinto, ma non avevamo
tempo – e io di certo non avevo l’energia – per girare intorno alla verità per tutta
l’ora successiva. «Guarda», continuai, «non sei obbligato a credermi, ma sappi
che uno di loro ha inviato un numero Psi alla radio: 42.755. È Liam, giusto?»
Gli raccontai la mia versione della storia e lasciai che fosse lui a riempire i
buchi. Quando arrivai a descrivere il macchinario arancione, ne ebbe abbastanza.
Fece un gran respiro, unendo le labbra in un puntino, fino a sembrare un furetto
più che un essere umano. Trattenni il respiro a mia volta mentre lui abbassava il
finestrino e ripeteva parola per parola quello che avevo appena finito di
raccontargli, come se non si fidasse a farlo ripetere a me.
«Ve l’avevo detto che le FSP ci avrebbero acciuffati!» continuava a urlare,
come se non avessimo sentito le prime dieci volte che lo aveva strillato.
«Fortuna che almeno non era lei.»
Eccola di nuovo, la misteriosa Lei. Liam lo ignorò e continuò a darci le spalle,
ancora chino sulle fontanelle. Zu era al suo fianco e teneva premuto il pulsante
affinché lui potesse usare entrambe le mani per lavarsi il viso nel getto d’acqua
che ne scaturiva.
Usai l’ultima salvietta per pulirmi la faccia a mia volta.
«Voglio solo sapere come ha fatto l’agente FSP a riconoscerlo, prima ancora
di usare il coso arancione. Ha fatto un flash, ma sapeva il numero a memoria.
Non ha dovuto aspettare che glielo dicesse quell’aggeggio.»
Ciccio mi fissò per un secondo, poi si portò una mano alla radice del naso.
«Hanno fatto una foto a tutti, quando siamo stati smistati. A te no?»
Annuii. «Quindi hanno creato un network per cercare le foto?»
«E io come diavolo faccio a saperlo, Verde? Descrivimelo di nuovo.»
L’aggeggio arancione doveva essere una specie di fotocamera o di scanner: fu
l’unica spiegazione che mi venne in mente che Ciccio non avesse bollato come
idiota.
Mi premetti le mani sugli occhi tentando di trattenermi dal vomitare.
«È una pessima notizia se basta quello per identificarci», dichiarò Ciccio,
passandosi una mano sulla fronte come per lisciare le rughe. «A meno che siamo
già fregati, forse ormai sanno che stiamo cercando East River, e ciò significa che
manderanno altre pattuglie, e ciò significa che sorveglieranno ancora più da
vicino le nostre famiglie, e ciò significa che sarà ancora più difficile per Slip
Kid…» Non arrivò alla fine del ragionamento: non ce n’era bisogno.
Feci una risata amara. «E dai. Mobilitano un’intera flotta per un paio di
mostriciattoli?»
«Tanto per cominciare, le flotte sono fatte di navi», ribatté Ciccio. «Seconda
cosa, no, non ne mobiliterebbero certo una per un paio di mostriciattoli.»
«E allora qual è il…»
«Ma ne manderebbero una per catturare Lee.»
Non mi diede il tempo di unire i puntini.
«Verde, chi credi che fosse la mente criminale dietro la nostra evasione dal
campo?»

Quando gli altri furono pronti a tornare al minivan, facemmo in silenzio il


gioco delle sedie musicali. Ciccio si prese il sedile di mezzo dal lato del
passeggero, e Zu il solito posto dietro il conducente. A quel punto avevo due
opzioni: strisciare sul sedile in fondo o fare buon viso a cattivo gioco su quello
davanti, comportandomi come se tutto andasse secondo i piani e fingendo che
Ciccio non mi avesse appena rivelato che Liam era responsabile di quella che
poteva essere stata l’unica evasione riuscita nella storia dei campi.
Vinse lo sfinimento: crollai sul sedile del passeggero sentendomi attraente
come lattuga appassita, proprio mentre Liam saliva al posto di guida. Sorrise.
«Chissà che stanchezza, a fare l’eroe.»
Replicai con un gesto della mano, tentando di zittire il piccolo, ridicolo
turbine di felicità che aveva accompagnato le sue parole. Voleva solo essere
gentile.
«Meno male che c’erano le signore qui a salvare la situazione», continuò,
voltandosi verso Ciccio. «Altrimenti tu e io saremmo nel baule di un camioncino
a metà strada verso l’Ohio.»
Ciccio si limitò a grugnire, ancora grigiastro in viso. Liam, invece, sembrava
stare un po’ meglio. Aveva ripreso colore grazie all’acqua gelida della fontana, e
le dita continuavano a tremargli di tanto in tanto, ma gli occhi non avevano più
quell’espressione appannata, vacua. Considerando che era la prima volta che le
sue orecchie venivano assalite dal Rumore Bianco, si era ripreso in fretta.
«D’accordo, squadra», disse lentamente. «È il momento di votare.»
«No!» Ciccio si risvegliò con un sussulto. «So perfettamente dove vuoi andare
a parare, e so che avrete la meglio, e io…»
«Chi è favorevole a lasciare che la nostra super-ragazza rimanga con noi per
ora alzi la mano.»
Sia Liam sia Zu la alzarono immediatamente. Zu si voltò a guardarmi con un
sorriso che sembrava particolarmente luminoso, se paragonato al broncio di
Ciccio.
«Non sappiamo niente di lei: diamine, non sappiamo nemmeno se quello che
ci ha raccontato è vero!» obiettò. «Potrebbe essere una psicopatica che ci uccide
nel sonno, o che va a chiamare i suoi compari della Lega appena abbassiamo la
guardia.»
«Caspita, grazie mille», dissi seccamente, quasi lusingata che mi ritenesse
capace di un doppio gioco così complesso.
«Più resta con noi», aggiunse, «più è probabile che la Lega ci acciuffi; e tu sai
cosa fanno a quelli come noi!»
«Non ci prenderanno», lo contraddì Liam. «Li abbiamo già sistemati. Se
rimaniamo insieme, saremo al sicuro.»
«No. No, no, no, no, no», si incaponì Ciccio. «Voglio che il mio voto negativo
venga registrato, anche se voi due vincete sempre.»
«Forza, sii sportivo», lo spronò Liam. «Questa è democrazia in azione.»
«Sei sicuro?» chiesi.
«Certo che lo sono. Non sarebbe stato giusto abbandonarti in un’autostazione
in mezzo al niente senza soldi, senza documenti e senza modo di sapere con
certezza che saresti arrivata in qualche posto sicuro.»
Eccolo di nuovo, quel sorriso. Mi portai una mano al petto, come per tenerlo
sotto controllo. Chiuso dentro. Per trattenermi da sfiorargli la mano che aveva
posato sul bracciolo del mio sedile. Mi sembrava morboso, sbagliato, eppure non
avrei dovuto far altro che scivolare nella sua mente per vedere cosa stesse
pensando. Perché mi stesse guardando in quel modo.
Sei davvero un mostro, pensai, premendomi i pugni sullo stomaco.
Volevo proteggerlo. In quel momento mi fu chiaro cosa volessi esattamente:
proteggerli, tutti. Mi avevano salvata. Mi avevano salvato la vita senza aspettarsi
nulla in cambio. Se il duello con le FSP sotto copertura mi aveva insegnato
qualcosa, era che avevano bisogno di qualcuno come me. Potevo aiutarli,
proteggerli.
Pensavo che non avrei mai potuto ripagarli per avermi accolta e avermi
permesso di rimanere così tanto, ma se fossi riuscita a controllarmi abbastanza a
lungo, sarebbe stato qualcosa. Era il meglio che potessi fare, date le circostanze.
«Dove avevi intenzione di andare, comunque?» Liam mantenne un tono
leggero, ma i suoi occhi si erano incupiti per l’ovvia preoccupazione. «Potresti
mai arrivarci in autobus, anche volendo?»
Raccontai loro il fragile piano che avevo architettato alla stazione di
rifornimento. Giocherellai con le punte dei miei lunghi capelli arruffati, e mi
sorpresi di sentire che la stretta al petto si era allentata quanto bastava da
permettermi di respirare a fondo.
«Cosa c’è a Virginia Beach?»
«Mia nonna, credo», risposi. «Spero.»
Già, la nonna, pensai. C’era ancora l’opzione nonna. Si ricordava di me, vero?
Se avessi potuto aiutare i ragazzi a trovare Slip Kid – e se lui avesse potuto
aiutare me – non c’era forse una possibilità concreta di rivederla? Di vivere con
lei?
Erano un sacco di «se». Se avessimo trovato Slip Kid. Se fosse stato un
Arancione. Se avesse potuto aiutarmi a capire come controllare le mie abilità. Se
avesse potuto aiutarci a contattare le nostre famiglie.
Una volta aperta la porta del dubbio, fu impossibile richiuderla. E se la nonna
– il pensiero mi schiacciava – fosse morta? Aveva settant’anni quando mi
avevano catturata, perciò ormai doveva essere vicina agli ottanta. Non avevo mai
preso in considerazione la possibilità, perché non ricordavo un momento in cui
non l’avessi vista radiosa e pronta ad affrontare il mondo intero armata solo dei
suoi capelli argentati, del marsupio fluorescente e della visiera coordinata. Ma se
io non ero più la stessa persona di sei anni prima, come potevo aspettarmi che lei
fosse rimasta la stessa? Se era viva, come potevo chiederle di prendersi cura di
quel mostro di sua nipote – di proteggermi e nascondermi – quando c’era una
possibilità che non fosse in grado di prendersi cura nemmeno di se stessa? Era
troppo per pensarci in quel momento, troppo per prenderlo in considerazione in
modo logico e senza torturarsi. Il mio cervello pulsava ancora per gli effetti del
Rumore Bianco, e il mio debole cuore prese la decisione per me.
«D’accordo», dissi. «Resterò.»
E speriamo che nessuno di noi se ne penta.
La ruga profonda che era apparsa tra le sopracciglia di Liam si appianò senza
scomparire del tutto. Sapevo che mi stava osservando, tentando di capire, forse,
perché avessi esitato così a lungo prima di accettare. Giunse a una conclusione
che lo fece appoggiare al sedile con un sospiro, e raddrizzare lo specchietto in
silenzio.
Liam aveva un viso che permetteva di leggere e sapere all’istante cosa stesse
pensando: era un gioco da ragazzi capire se diceva la verità. Ma in quel
momento aveva un’espressione che sembrava studiata, una concentrazione
intensa per mantenere il viso impassibile. Sembrava innaturale su uno come lui,
sempre pronto al sorriso. Mi appoggiai all’indietro, ignorando il dolore pulsante
alla testa e i penosi versi animali che venivano da Ciccio quando si ricordò di
quanto male avesse.
Liam, in silenzio, gli porse una bottiglia d’acqua mezza vuota da sotto il sedile
del guidatore. Lanciai un’occhiata a Zu, ma il crepuscolo l’aveva cullata nel
sonno. Un sottile velo di sudore le imperlava la fronte e il labbro superiore.
L’auto si risvegliò rumorosamente. Liam tagliò il parcheggio in diagonale,
apparentemente indeciso sulla direzione da prendere una volta ritrovata la strada.
«Dove andiamo?» chiesi.
Per un attimo, si grattò il mento in silenzio. «Siamo sempre diretti verso la
Virginia, se la troveremo. Penso di aver attraversato il confine già da un po’, ma
non so dove siamo finiti. Non conosco bene questa zona, a dire la verità.»
«Usa la maledetta mappa», borbottò Ciccio alle sue spalle.
«Posso capirlo anche senza», insisté Liam, girandosi in continuazione da una
parte e dall’altra, come se si aspettasse che qualcuno venisse a indicargli la
strada con segnali luminosi e fanfare.
Cinque minuti più tardi, la mappa era spalmata sul volante e Ciccio gongolava
sul sedile di dietro. Mi sporsi sul bracciolo, tentando di interpretare i colori
pastello e le linee aggrovigliate sulla carta sottile e strappata.
Liam indicò i confini di West Virginia, Virginia, Maryland e North Carolina.
«Credo che siamo più o meno… qui.» Indicò un puntino circondato da un
arcobaleno di linee intrecciate.
«Immagino che Black Betty non abbia il navigatore», dissi.
Liam sospirò, accarezzando il volante. Aveva deciso che saremmo andati a
destra. «Black Betty segue una strada dritta e sincera, ma non ha certo un grande
assetto.»
«Te l’avevo detto che dovevamo prendere quel SUV Ford», borbottò Ciccio.
«Quel pezzo di…» Liam si trattenne. «Quel catorcio era una condanna a
morte. Per non parlare della trasmissione completamente andata.»
«Perciò ovviamente la scelta migliore era un minivan.»
«Esatto, mi ha chiamato dal parcheggio di auto abbandonate. Il sole splendeva
sui suoi finestrini come un raggio di speranza.»
Ciccio gemette. «Perché sei sempre così strano?»
«Perché la mia stranezza neutralizza la tua, Miss Punto Croce.»
«Almeno quello che faccio io è considerato una forma d’arte», ribatté Ciccio.
«Certo, nell’Europa medievale saresti stato proprio un buon partito…»
«In ogni caso», mi intromisi, ormai padrona della mappa, «secondo me siamo
vicini a Winchester.» Indicai un punto accanto al confine occidentale della
Virginia.
«Cosa te lo fa pensare?» chiese Liam. «Sei di queste parti? Perché se…»
«Non sono di qui. Ma mi ricordo che abbiamo attraversato Keyser e Romney
mentre voi due eravate nel mondo dei sogni. E, considerati tutti i cartelli dei
memoriali della Guerra Civile, dobbiamo essere vicini a uno dei campi di
battaglia.»
«Ottime deduzioni, Sherlock, ma purtroppo quei cartelli non significano
niente da queste parti», disse Liam. «Ogni cinquanta passi, si trova un sito
storico: qui è passato l’esercito, laggiù è morto Tizio, qui ha vissuto James
Madison.»
«No, quella è Orange», lo interruppi. «Siamo da tutt’altra parte.»
La morbida luce azzurra della sera si raccolse intorno ai suoi capelli biondi,
togliendo loro ogni colore. Mi osservò per un attimo, grattandosi di nuovo il
mento. «Allora sì che vieni dalla Virginia.»
«Non è vero…»
Alzò una mano. «Ti prego. A nessuno fuori dalla Virginia interessa un fico
secco della casa di James Madison.»
Mi appoggiai allo schienale. Ci sono cascata in pieno.
Era colpa di mia madre. Insegnava storia al liceo, perciò aveva trascinato sia
me sia papà in giro per tutti i siti storici della zona. Così, mentre i miei amici
andavano alle feste in piscina o ai pigiama party, io attraversavo un campo di
battaglia dopo l’altro, mettendomi in posa per foto accanto a cannoni o figuranti
in costumi coloniali. Gite divertenti, rese ancora più divertenti dalle migliaia di
punture d’insetto e dalle scottature solari con cui mi presentavo il primo giorno
di scuola. Avevo ancora una cicatrice dal sito di Antietam.
Liam sorrise rivolto verso la strada buia, e tenne i fari spenti. Pensai che fosse
coraggioso – o stupido – considerando che il governo della Virginia non aveva
mai investito nell’installazione di lampioni autostradali.
«Credo che dovremmo fermarci per la notte», disse Ciccio. «Cerchiamo un
parco?»
«Rilassati, amico, ci penso io», rispose Liam.
«Dici sempre così», mormorò lui, appoggiandosi allo schienale. «E poi va a
finire con ‘Ah, scusate squadra, avviciniamoci per tenerci caldo’, mentre gli orsi
tentano di entrare e rubarci il cibo.»
«Già… scusa ancora per quella volta», ridacchiò Liam. «Ma ehi, cos’è la vita
senza qualche avversità?»
Era il peggior tentativo di ottimismo che avessi visto da quando la mia
maestra di quarta elementare ci disse che era un bene che i nostri compagni di
classe fossero morti perché così avremmo avuto un turno più lungo sulle altalene
in cortile.
Persi il filo della loro conversazione. Non che non mi interessasse scoprire
tutto sulle bizzarre abitudini e tradizioni che erano riusciti a formare nelle due
settimane da quando erano evasi dal campo; ma ero sfinita a forza di tentare di
capire come facessero quei due ad aggrapparsi al filo sottile che teneva insieme
la loro amicizia.
Alla fine, Liam trovò la Highway 81 e Ciccio trovò un sonno leggero e poco
ristoratore. La serie infinita di vecchi alberi, solo alcuni dei quali in veste
primaverile, riempiva il mio finestrino. Andavamo troppo veloci ed era già
troppo buio per intravedere il patchwork di foglie che vi stavano crescendo.
Dovunque fossimo, tracce delle foglie morte l’autunno precedente
macchiavano il cemento. Come se, da allora, fossimo la prima auto a percorrere
quella strada.
Appoggiai la fronte al vetro fresco, sporgendomi per direzionare la ventola
dell’aria condizionata dritta sul mio viso. Avevo ancora mal di testa, un chiodo
in mezzo agli occhi. L’aria gelida mi avrebbe tenuta sveglia e, se non altro,
abbastanza all’erta da trattenere la mia mente dall’inciampare in quella di Liam.
«Tutto bene?»
Tentava di guardare sia la strada sia me. Al buio, non scorgevo molto altro che
la curva del suo naso e delle labbra. Una parte di me era contenta di non vedere i
graffi e i lividi. Erano passati solo pochi giorni, un soffio in paragone ai miei
sedici anni di vita, ma non avevo bisogno di vedere il suo viso per intuirvi la
preoccupazione. Liam era molte cose, ma tra quelle non figuravano «misterioso»
né «imprevedibile».
«E tu, tutto bene?»
L’auto era così silenziosa che sentii le sue dita tamburellare sul volante.
«Penso di aver solo bisogno di una bella dormita.» Dopo un attimo, aggiunse:
«Davvero usavano quella roba su di voi a Thurmond? Spesso?»
Non spesso, ma quanto bastava. Ma non potevo dirglielo senza riaccendere la
sua pietà.
«Pensi che le FSP abbiano capito dove sei diretto?» chiesi invece.
«Forse. O forse eravamo solo nel posto sbagliato al momento sbagliato.»
Dietro di noi, Ciccio si svegliò con un grande sbadiglio.
«Non credo proprio», disse, assonnato. «Anche se non ci stavano pedinando
apposta, sicuramente ora lo faranno. Li avranno obbligati a memorizzare il tuo
brutto muso e il tuo numero Psi. Sappiamo già che sei un bel bocconcino per i
tracciatori.»
«Grazie, Mister Ottimismo», sibilò Liam.
«Per quello che vale, quel tizio sembrava sorpreso che fossi veramente tu»,
commentai. «Ma… chi è questa persona di cui continuate a parlare? La donna?»
«Lady Jane», rispose Liam, come se bastasse a spiegare tutto.
«Come, scusa?»
«È così che chiamiamo una delle tracciatrici più… persistenti.»
«Primo, sei tu che la chiami così», puntualizzò Ciccio. «Secondo, persistente?
Diciamo che ci è stata addosso come un’ombra fin da quando abbiamo lasciato
Caledonia. Sbuca dappertutto, a qualsiasi ora, come se indovinasse cosa stiamo
per fare ancora prima che lo facciamo.»
«La signora è brava nel suo mestiere», confermò Liam. «Possiamo evitare di
fare complimenti alla persona che sta tentando di trascinarci di nuovo in un
campo?»
«Perché la chiamate Lady Jane?»
Liam alzò le spalle. «È una rara bellezza britannica in un branco di Yankee
assetati di sangue.»
«Com’è potuto succedere? Pensavo avessero chiuso tutte le frontiere.»
Liam fece per rispondere, ma Ciccio lo anticipò. «Non lo so, Verde; perché la
prossima volta che tenta di catturarci non la inviti a fare due chiacchiere davanti
a una tazza di tè?»
Alzai gli occhi al cielo. «Magari sì, se mi dici che aspetto ha.»
«Capelli scuri raccolti, occhiali…» iniziò Liam.
«…e naso lungo, un po’ aquilino?» conclusi.
«L’hai vista?»
«A Marlinton. Era alla guida di un pickup rosso, ma…» Cate e Rob avevano
sistemato la sua macchina. L’avevano lasciata indietro. «Beh, stavolta non
c’era», dichiarai. «Magari l’abbiamo seminata per davvero.»
«Non penso proprio», borbottò Ciccio. «Quella donna è peggio di
Terminator.»

Oltrepassammo un motel in rovina dopo l’altro, alcuni occupati e altri no. Mi


raddrizzai sul sedile quando Liam svoltò nel parcheggio di un vecchio Comfort
Inn, solo per allontanarsi immediatamente con un fischio basso. Non c’erano
auto nel parcheggio, ma una decina di uomini e donne si attardava davanti alle
stanze, a fumare, chiacchierare e litigare.
«Ne abbiamo viste un sacco di situazioni così, attraversando l’Ohio», mi
spiegò senza bisogno che chiedessi. «Quando la gente perdeva la casa, andava al
motel più vicino tentando di ottenere una stanza. Combattendo con le gang e
roba del genere.»
Il motel che scelse alla fine era un Howard Johnson Express il cui parcheggio
era pieno per un quarto di automobili di diverse marche e modelli, e c’era
un’insegna blu che diceva . Trattenni il fiato mentre lui si faceva strada
CAMERE LIBERE

verso le camere esterne, evitando di passare davanti agli uffici. Scelse un punto
al margine estremo del parcheggio e sorvegliò la fila di stanze davanti a noi. Due
erano da escludere – si vedeva il riverbero della tv dalle finestre, attraverso le
tende – ma le altre potevano non essere occupate.
«Aspettate qui un secondo», disse, slacciandosi la cintura. «Vado in
ricognizione, per vedere se è sicuro.» E fu proprio come prima: non ci diede il
tempo di protestare. Saltò giù dalla macchina, gettò uno sguardo in ciascuna
stanza e iniziò a scassinare la porta prescelta. Ciccio e io rimanemmo a dividere
il cibo rimasto dal bottino della stazione di servizio di Marlinton. L’inventario
era ridotto a un pacco di patatine, cracker al burro d’arachidi, qualche caramella
e un pacchetto di Oreo, più i dolci che ero riuscita a infilare nello zaino. Un
banchetto da sogno, per un bambino di sei anni.
Lavorammo in silenzio, bravissimi a evitare di incrociare lo sguardo. Le dita
di Ciccio erano veloci e agili nell’aprire i cracker al burro d’arachidi per
divorarli. Aveva in grembo lo stesso libro consumato, le pagine aperte davanti a
lui come un sorriso. Sapevo che non stava leggendo… se non altro, perché ci
vedeva poco. Quando si decise finalmente a rivolgermi la parola, non alzò
nemmeno gli occhi.
«Ti piace la vita da fuorilegge? Secondo il Generale Lee, ce l’hai nel sangue.»
Mi sporsi a svegliare Zu, ignorando i suoi sottintesi. Ero troppo esausta per
dargli retta, e francamente nessuna delle risposte che avevo sulla punta della
lingua lo avrebbe convinto. Prima che potessi scendere dal minivan, con lo zaino
e il cibo tra le mani, Ciccio sbatté la portiera con una manata rabbiosa. Nella
luce fioca del motel sembrava… non arrabbiato, esattamente, ma nemmeno
molto amichevole. «Devo dirti una cosa.»
«Me ne hai già dette abbastanza, grazie tante», replicai.
Attese che lo guardassi da sopra la spalla prima di proseguire. «Non nego che
tu ci abbia aiutato oggi, o che tu abbia passato anni in una fogna, ma te lo dico
adesso: usa le prossime ore per pensare seriamente alla tua decisione di
rimanere, e se dovessi decidere di sgattaiolare via nel cuore della notte, sappi che
probabilmente è la scelta migliore.» Tesi di nuovo la mano verso la portiera, ma
non aveva ancora finito. «So che nascondi qualcosa. So che non sei stata del
tutto onesta. E se per qualche folle motivo credi che ti possiamo proteggere,
ripensaci. Saremo fortunati a uscirne vivi anche senza il dramma che ti porti
dietro tu.»
Sentii una stretta allo stomaco ma rimasi impassibile. Se sperava di
intravedere un indizio sul mio viso, sarebbe rimasto deluso; avevo passato la
maggior parte degli ultimi sei anni a esercitarmi a mantenere un’espressione di
perfetta innocenza davanti alle armi da fuoco.
I suoi sospetti non potevano corrispondere alla realtà, però, altrimenti non mi
avrebbe concesso un’ultima possibilità di scappare. Mi avrebbe gettata fuori dal
minivan con le sue mani, e preferibilmente ad alta velocità, nel mezzo di
un’autostrada deserta.
Ciccio si passò il pollice sul labbro inferiore. «Penso…» esordì. «Spero che tu
arrivi a Virginia Beach, davvero, ma…»
Si tolse gli occhiali e si strinse la radice del naso con due dita. «Tutto questo è
ridicolo. Scusa. Ma pensa seriamente a ciò che ti ho detto. Fa’ la scelta giusta.»
Liam gesticolava dalla porta, che teneva aperta con il piede. Zu posò una
mano sulla spalla di Ciccio. Lui trasalì, battendo le palpebre in segno di sorpresa
al tocco guantato di gomma gialla. Era stata così silenziosa che anch’io mi ero
dimenticata della sua presenza.
«Andiamo, Suzume», disse Ciccio, posandole a propria volta una mano sulla
spalla. «Forse, se siamo fortunati, il Generale si degnerà di concederci una
doccia. E forse, se siamo molto fortunati, ne farà una anche lui.»
Zu lo seguì fuori dall’auto, lanciandomi uno sguardo ansioso. Le feci un gesto
con la mano e un sorriso forzato, allungandomi a prendere il mio zaino nero.
Non lo notai finché fui ormai uscita, e il cielo scuro ebbe prosciugato il poco
tepore rimasto sulla mia pelle. Con una mano tenni aperta la portiera scorrevole
e mi chinai a prendere il libro dalla tasca sullo schienale del sedile del
passeggero. Era la prima e unica volta che vedevo il libro fuori dalle mani di
Ciccio.
Il sacchetto di M&M’s, vuoto e appiattito, che usava come segnalibro, era
ancora al suo posto. Aprii il volume a quella pagina e non ebbi nemmeno
bisogno di guardare la costa per capire di cosa si trattasse. La collina dei conigli,
di Richard Adams. Non mi stupiva che si fosse impegnato tanto per nascondere
cosa stesse leggendo. La storia di un branco di conigli che voleva farsi strada nel
mondo? Liam non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Adoravo quel libro, e a quanto pareva anche Ciccio. Era la stessa vecchia
edizione che mio papà mi leggeva prima di dormire, quella che rubavo dal suo
studio e mi mettevo accanto al letto quando non riuscivo a prendere sonno.
Come aveva fatto a trovarmi proprio quando ne avevo più bisogno?
I miei occhi si bevvero ogni parola, adorandone la forma finché con le labbra
iniziai a formarle e a leggere ad alta voce per chiunque e per nessuno.

Tutto il mondo sarà vostro nemico. E chi t’acchiapperà, t’ammazzerà,


Principe dai Mille Nemici. Però prima dovranno pigliarti. Tu sei bravo a
scavare e veloce nella corsa, principe, d’udito fine e tutti i sensi all’erta. Sii
dunque astuto e inventa stratagemmi, e il tuo popolo mai verrà distrutto.

Mi chiesi se Ciccio sapesse come andava a finire.


12

L’ calda fu sufficiente a farmi dimenticare di essere nella doccia di un


ACQUA

vecchio motel a lavarmi i capelli con uno shampoo che puzzava di lavanda
sintetica. Nel minuscolo bagno c’erano sei cose in tutto: il lavandino, il
gabinetto, l’asciugamano, la doccia, la tenda e io.
Fui l’ultima a entrare. Quando finalmente ebbi varcato la porta della stanza,
Zu aveva già finito la doccia e Ciccio si era barricato nel bagno, dove passò l’ora
successiva a strofinare se stesso e tutti i suoi abiti fino a farli odorare di sapone
vecchio. A me sembrava inutile tentare di fare il bucato in un lavandino con una
saponetta per le mani, ma non c’era una vasca o un detersivo che Ciccio potesse
usare. Noi rimanemmo seduti e fingemmo di non sentire la sua predica
appassionata sull’importanza dell’igiene.
«Dopo tocca a te», mi aveva detto Liam. «Ricordati solo di ripulire tutto
quando hai finito.»
Afferrai al volo l’asciugamano che mi aveva lanciato. «E tu?»
«La faccio domani mattina.»
Con la porta del bagno chiusa a chiave, posai lo zaino sul coperchio del water
e mi misi all’opera per separarne il contenuto. Estrassi i vestiti che mi avevano
dato e li gettai a terra. Qualcosa di rosso e setoso sbucava dalla pila, e feci un
salto per lo spavento.
Solo dopo diversi minuti di ispezione sospettosa capii di cosa si trattava: il
vestito rosso che avevamo trovato nell’armadio della roulotte.
Zu, pensai, passandomi stancamente una mano sul viso. Doveva averlo
afferrato mentre non guardavo. Lo sfiorai con la punta di un piede, facendo una
smorfia al vago odore di fumo di sigaretta. Sembrava troppo grande per me, per
non parlare del fatto che la sua origine mi faceva un po’ impressione. Ma era
chiaro che Zu ci tenesse a farmelo avere; e indossarlo, per quanto fossi riluttante
ad ammetterlo, era più intelligente che continuare ad andare in giro con
l’uniforme del campo. Potevo farlo per Zu: sarebbe valsa la pena stare scomoda
se potevo farla felice.
Non c’era shampoo, ma la Lega dei Bambini mi aveva fornito del deodorante,
uno spazzolino da denti verde brillante, un pacco di fazzoletti, degli assorbenti e
un gel disinfettante per le mani: tutto in formato da viaggio e chiuso in una
borsetta di plastica. Sotto, trovai una piccola spazzola e una bottiglia d’acqua. E,
proprio in fondo a tutto, un altro pulsante di emergenza.
Doveva essere rimasto lì per tutto il tempo, senza che me ne accorgessi.
Avevo buttato via il primo che Cate mi aveva dato, abbandonandolo nel fango
del sottobosco. Il pensiero che quello fosse rimasto nel mio zaino per tutto il
tempo – per tutto il tempo – mi fece accapponare la pelle. Perché non avevo
ispezionato con cura lo zaino prima?
Sollevai il pulsante con due dita e lo feci cadere nel lavandino come se fosse
stato un carbone ardente. Misi la mano sul rubinetto, pronta ad annegarlo in un
getto d’acqua e metterlo fuori uso, ma qualcosa me lo impedì.
Non so per quanto tempo rimasi a fissarlo prima di prenderlo di nuovo e
alzarlo verso la luce, per vedere attraverso lo scuro strato esterno. Cercai una
lucina intermittente rossa che mi dicesse se stava registrando. Lo avvicinai
all’orecchio per sentire un ronzio o un bip che rivelasse se era stato attivato. Se
era acceso, e se era davvero una trasmittente, non ci avrebbero forse già
raggiunti?
Era un’idea pessima tenerlo… per sicurezza? Nel caso fosse capitato di nuovo
qualcosa, e io non avessi potuto aiutare gli altri? Stare con la Lega non sarebbe
forse stato meglio che essere riportata a Thurmond? Persino essere uccisa…
qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di quello.
Quando rimisi il pulsante di emergenza nella tasca dello zaino, non lo feci per
me. Se Cate mi avesse vista avrebbe sorriso, e il pensiero mi fece arrabbiare
ancora di più. Non avevo fiducia nemmeno nella mia capacità di difendere i miei
compagni.
Fu stranissimo infilarmi sotto il getto caldo della doccia senza il ticchettio del
timer automatico di Thurmond a ricordarmi che avevo meno di tre minuti di
tempo. Era un bene, dato che lo sporco sembrava scivolarmi via di dosso a strati.
Dopo essermi strofinata per un buon quarto d’ora, mi sentii come se avessi
rivoltato ogni centimetro di pelle. Provai persino a usare il rasoio rosa intenso
che era incluso nel pacchetto di sapone e shampoo dell’albergo, riaprendo vecchi
tagli e procurandomene di nuovi.
Sedici anni, pensai, e questa è la prima volta che posso depilarmi le gambe.
Era sciocco, davvero sciocco. Non sapevo cosa stessi facendo, ma non mi
importava. Ero abbastanza grande. Nessuno me l’avrebbe impedito.
La mamma mi tornava sempre in mente a sprazzi. A volte sentivo la sua voce,
una parola o due. Altre volte mi assaliva un ricordo così realistico che era come
rivivere un momento preciso. E ora, mentre continuavo a depilarmi, non riuscivo
a pensare ad altro che a quando avevamo parlato proprio di questo, e al suo
sorriso mentre mi ripeteva ancora e ancora: «Magari quando compirai tredici
anni».
Alla fine, lavai il rasoio e lo gettai verso lo zaino. Non pensavo che qualcun
altro avrebbe voluto usarlo, ormai. Con le gambe insanguinate, rivolsi
l’attenzione al nido che avevo in testa. I capelli erano ancora troppo arruffati per
riuscire a passarci le mani. Dovetti scioglierli nodo per nodo, usando più
shampoo di quanto avrei voluto; quando arrivai alla fine, piangevo.
Ho sedici anni.
Non so cosa avesse scatenato le lacrime. Un attimo stavo bene, un attimo
dopo mi sembrava che il mio petto fosse collassato su se stesso. Tentai di fare un
respiro profondo, ma l’aria era troppo calda. Trovai la parete di piastrelle
bianche con le mani un secondo prima di caderci addosso con il resto del corpo.
Mi sedetti sul pavimento in falsa pietra della doccia e mi premetti le mani al
petto, grata che il rumore dell’acqua e della ventola coprisse quello della mia
crisi di nervi. Non volevo che gli altri mi sentissero, specialmente Zu.
Era molto sciocco da parte mia. Avevo sedici anni… e allora? Non vedevo i
miei genitori da sei anni, e allora? Forse non li avrei rivisti mai più, e allora?
Non che si ricordassero di me.
Avrei dovuto essere contenta di aver finito, di essermene andata da quel posto.
Ma, dentro o fuori, ero sola, e stavo iniziando a chiedermi se lo fossi sempre
stata, e se lo sarei rimasta per sempre. La pressione dell’acqua cambiò e la
temperatura diventò bollente quando qualcuno nella stanza di fianco tirò lo
sciacquone. Non aveva importanza: la sentivo a malapena precipitarmi sulla
schiena. Con le dita schiacciai le ginocchia sanguinanti, ma non sentii nemmeno
quello. Cate mi aveva detto che dovevo chiudermi il passato alle spalle, ma
come potevo farlo? Come si poteva dimenticare e basta?
Bussarono alla porta, prima in modo leggero, incerto, poi più insistente dato
che non rispondevo.
«Ruby?» chiamò la voce di Liam. «Tutto a posto?»
Feci un respiro profondo e cercai a tentoni il rubinetto. L’acqua si ridusse a
poche gocce, poi sempre meno, poi più niente.
«Puoi… ehm… aprire la porta? Solo per un attimo.» Sembrava così nervoso
che fece innervosire anche me. In un momento di panico pensai che fosse
capitato qualcosa. Afferrai l’asciugamano e me lo avvolsi intorno. Feci scattare
la serratura e abbassai la maniglia prima ancora che il cervello registrasse le mie
azioni.
La prima cosa che mi investì fu un getto d’aria gelida. La seconda furono gli
occhi di Liam. La terza, i calzettoni bianchi che aveva tra le mani.
Lanciò un’occhiata dentro il bagno, stringendo la bocca in una linea sottile. La
stanza del motel era più scura di quando eravamo entrati; doveva essere notte
piena. Non ne ero sicura, non del tutto, ma mi sembrò che una punta di colore gli
infiammasse le orecchie.
«Va tutto bene?» sussurrai. Lui si limitò a fissarmi, lasciandosi avvolgere dalla
nebbia tiepida del bagno. «Liam?»
Mi porse le calze. Le guardai, poi rialzai lo sguardo su di lui, sperando che la
mia espressione non tradisse lo stupore.
«Volevo solo… darti queste», disse, agitandole per aria e tendendomele di
nuovo. «Sono per te…»
«A te non servono?»
«Ne ho qualche paio di riserva, e tu non ne hai, giusto?» Sembrava stesse
provando una forma di dolore fisico. «Sul serio. Per favore. Prendile. Ciccio dice
che le estremità sono la prima cosa che si raffredda, perciò ne hai bisogno, e…»
«Oh mio Dio, Verde», sentii dire a Ciccio da qualche parte nella stanza.
«Prendi quelle dannate calze e metti fine alla sua sofferenza!»
Liam non attese che tendessi la mano. Si sporse oltre me e le posò sul mobile
accanto al lavandino.
«Ehm… grazie», dissi.
«Grande… volevo dire, figurati.» Si voltò per andarsene, ma cambiò idea,
come se gli fosse venuto in mente qualcosa. «Okay. Grande. A posto…
insomma, tu…»
«Con parole tue, Lee», disse Ciccio. «Qui c’è qualcuno che vuole dormire.»
«Ah, giusto. Dormire.» Liam fece un gesto vago in direzione del letto. «Tu e
Zu dormite insieme. Spero che non ti dispiaccia.»
«Certo che no.»
«Okay, grande!» Fece un sorriso stranamente luminoso.
Mi domandai cosa si aspettasse che dicessi o facessi, se si trattasse di uno di
quei momenti per i quali non ero preparata, avendo trascorso gli ultimi sei anni
della mia vita in una baracca con altre decine di ragazze. Sembrava che
parlassimo lingue diverse.
«Sì, beh, grande», ripetei, più confusa che mai.
Sembrò funzionare, comunque. Liam si voltò e si allontanò senza aggiungere
altro.
Presi le mie nuove calze dal mobile e le esaminai. Appena prima di chiudere
la porta, sentii la voce di Ciccio con il solito tono da saputello.
«…spero tu sia contento», diceva. «Avresti dovuto lasciarla in pace. Stava
bene.»
Ma non era vero, e in qualche modo Liam lo aveva capito.

Impiegai diversi minuti ad accorgermi che il sogno apparteneva a Zu.


Eravamo entrambe nel lettone, rannicchiate per conservare il calore. I ragazzi
erano a terra con le coperte, e come cuscini usavano degli asciugamani rubati dal
carrello delle pulizie. Né Liam né Ciccio, nemmeno mettendosi insieme,
avevano capito come spegnere il condizionatore, che continuava a vomitare aria
gelida appena la temperatura nella stanza superava i quindici gradi.
Mi cullavo da ore in un dolce dormiveglia, quando sentii il prurito in fondo
alla mente. Una parte di me se lo aspettava; anche se il mio corpo si era
accasciato sul letto come una colata di cemento, il cervello era ancora in piena
attività, intento ad analizzare quanto successo con le FSP e a domandarsi se fossi
in grado di rifare ciò che avevo fatto a quell’uomo, quando il piede nudo di Zu
sfiorò il mio, e non ci fu bisogno d’altro: precipitai a capofitto nel suo sogno.
Io ero Zu e Zu si trovava in un lettino, a fissare la pancia di un materasso
marrone scuro. L’oscurità si muoveva intorno a noi fino a far emergere delle
figure riconoscibili. File di letti a castello, una lavagna, armadietti azzurri che
arrivavano al soffitto, grandi finestre sbarrate da assi di compensato e strane
macchie scolorite sui muri dove un tempo dovevano essere stati appesi dei
poster.
Non riuscii a tirarmi fuori. Era quella la cosa pericolosa dei sogni: la velocità
con cui potevano invischiarti. Nel sonno, la gente era naturalmente portata ad
abbassare le difese, tanto che a volte, se il sogno era abbastanza spaventoso, non
avevo nemmeno bisogno di un tocco per farmi trascinare.
Non sentivo l’odore di fumo, ma lo vidi immediatamente infilarsi sotto la
vecchia porta della classe come una macchia di latte che si allargava sul
pavimento. In un secondo scattai in piedi, rotolando fino a scivolare
completamente fuori dal letto. Osservai inorridita una decina di ragazze saltare
giù dai letti e radunarsi al centro della stanza in un brusio di voci.
Una ragazza, che era più alta delle altre di tutta la testa e doveva avere almeno
quattro anni in più, tentò di convincerle ad accovacciarsi in fila sotto le finestre,
ma senza successo. Agitava le braccia in aria, tanto che gli orli delle sue maniche
color senape sembravano sfocati.
A quel punto, scattarono gli allarmi e la porta al lato opposto della stanza si
spalancò.
Il suono della sirena fu una tortura, quasi come il Rumore Bianco, e nel sogno
la tonalità veniva distorta e strascicata. Venni spinta in avanti quando le altre
bambine fuggirono verso la porta. Non sembrava importare che il fumo fosse
soffocante, o che non se ne vedesse il punto di origine.
Anziché file ordinate, c’era il caos. Ragazzi con uniformi verdi, blu e gialle si
riversarono nel corridoio con le piastrelle bianche. Le luci di emergenza si erano
accese, e gli allarmi antincendio lampeggiavano rossi e gialli sul muro. Fui
scagliata nel fiume travolgente di corpi, tutti rivolti nella stessa direzione, la
direzione del fumo.
Mi si appannò la vista e mi si mozzò il respiro. Uno sguardo alle mie spalle mi
bastò per vedere alcuni dei ragazzi più grandi, sia maschi sia femmine, trascinare
gli armadietti azzurri fuori dalle stanze e farli rotolare davanti alle doppie porte
argentate all’estremità opposta del corridoio. Non era affatto un’evacuazione: era
un’evasione.
Avevo ormai macchie nere davanti agli occhi quando fummo spinti oltre
un’altra serie di porte e su una scala affollata. Lì il fumo era più denso e non
proveniva da fiamme scintillanti ma da due tubicini neri, di quelli che le FSP
tenevano appesi alla cintura in attesa di lanciarli su un gruppo di ragazzini
riottosi.
Quindi erano state le FSP a farli scattare? No, non era possibile. Era molto più
probabile che un gruppo di ragazzini li avesse rubati per far partire gli allarmi e
far aprire le porte. Quello doveva essere l’unico protocollo di emergenza.
Eravamo intrappolati sulla scala, premuti gli uni sugli altri in un ammasso
tremante di nervi ed euforia.
Tentai di tenere lo sguardo in avanti e tastare gli scalini con i piedi, ma era
difficile non vedere l’effetto che l’oscurità e le luci lampeggianti stavano
causando negli altri ragazzi. Alcuni erano presi da un pianto isterico, altri
sembravano sul punto di svenire, ma certi ridevano. Ridevano, come se fosse un
gioco.
Non so come feci a vedere l’altra piccola ragazza asiatica sotto la marea di
mani e teste. Era incastrata nell’angolo a sinistra del pianerottolo, in punta di
piedi, l’uniforme verde visibile a malapena. I suoi capelli brillavano sotto le luci
d’emergenza, e aveva un braccio teso sopra la testa, forse teso verso di me.
Nell’istante in cui incrociai il suo sguardo, il suo viso si illuminò e mi
riconobbe. Vidi le sue labbra formare il nome di Zu. Mi sporsi tentando di
afferrare la sua mano, ma la folla mi spinse in basso, correndo in avanti. Quando
riuscii a voltarmi indietro, era già sparita anche lei.
Non vidi nemmeno un FSP né un dirigente finché fummo arrivati alla base
della scala, a scavalcare, o calpestare, tre figure in nero sdraiate a terra. Avevano
i volti deformati da lividi e contusioni. Sotto di loro c’erano macchie di sangue
rappreso.
Qualcuno, probabilmente un Blu, aveva sollevato le porte dai cardini e le
aveva fatte volare all’esterno, verso ciò che sembrava un deserto di neve. Il
terreno aveva un candore innaturale benché non ci fosse la luna: in parte era un
effetto del sogno, in parte era dovuto ai fari che si erano accesi quando l’allarme
antincendio si era trasformato in una sirena di avvertimento.
Una volta oltrepassate le ultime porte iniziammo a correre.
La neve arrivava al ginocchio, e la maggior parte di noi non indossava altro
che le uniformi, leggere come carta; molti non si erano nemmeno ricordati di
mettersi le scarpe. I minuscoli fiocchi galleggiavano tra le file di impronte
profonde e incrociate, e per un momento mi accorsi di avere rallentato per
osservare la neve che sembrava non cadere né volare, ma si librava sospesa
come un respiro trattenuto. I fiocchi si illuminavano come mille lucciole sotto i
fari del campo. Poi l’incantesimo si ruppe, infranto dal primo sparo.
E dopo furono i proiettili, e non la neve, a cadere intorno a noi.
Dalla gola di centinaia di bambini esplosero grida roche e penetranti. Cinque,
dieci, quindici… era impossibile contare i bambini che improvvisamente
venivano spinti in avanti cadendo a faccia in giù nella neve, urlando e
lamentandosi per il dolore. Un rosso spaventoso si fece strada sul terreno
innevato come una macchia di inchiostro che si espandeva, che divorava ogni
cosa. Mi portai una mano alla guancia, trovandola bagnata; quando la allontanai,
il mio cervello si rese conto che ero stata investita da uno schizzo di sangue. Ne
ero coperta: il sangue di qualcun altro mi gocciolava sulle guance e sul mento.
Corremmo più forte, ancora più veloce, verso l’estremità posteriore della
catena che recintava la vecchia scuola. Lanciai uno sguardo all’edificio in
mattoni alle mie spalle e alle decine di figure vestite di nero in piedi sul tetto
grigio, e poi verso le decine che sbucavano dalle finestre e dalle porte del primo
piano. Quando finalmente mi voltai, il campo davanti a me era coperto di
mucchi di ogni colore: giallo, blu, verde. E rosso. Tanto, tanto rosso.
Formavano delle file, delle barriere ignare che gli altri dovevano oltrepassare
al balzo per proseguire.
Caddi in avanti, riuscendo a malapena a puntare le mani nella neve.
Qualcosa, qualcuno, mi aveva afferrato una caviglia. Una Verde strisciava
sulla pancia verso di me, gli occhi sbarrati, la bocca spalancata alla ricerca di
aria. «Aiutami», singhiozzava la ragazza, una schiuma di sangue sulle labbra.
«Aiutami.»
Ma mi rialzai e ricominciai a correre.
C’era un cancello su quel lato del campo; lo vedevo perché mi trovavo a pochi
metri di distanza. Ciò che non vedevo era la causa di quell’ammasso di bambini,
il motivo per cui non ci stavamo lanciando oltre il cancello verso la libertà. Con
un sussulto mi resi conto che i bambini nella neve alle mie spalle erano il triplo
di quelli davanti a me.
Il gruppo si spinse in avanti gridando all’unisono, tendendo centinaia di mani.
La mia taglia ridotta mi permise di infilarmi tra le gambe degli altri e farmi
strada fino alla prima fila, dove tre ragazzi più grandi in uniforme blu tentavano
di trattenere la folla a distanza dal cancello e dal gabbiotto di controllo che in
quel momento ospitava tre persone: un soldato FSP svenuto, Liam e Ciccio.
Fui così scioccata al vederli, che quasi non notai la macchia verde di un
bambino che si gettava di corsa verso la recinzione. Scartò gli adolescenti che gli
bloccavano la strada e si lanciò contro le sbarre giallo vivo che tenevano il
cancello ben chiuso.
Lo aveva appena sfiorato quando ogni capello sulla sua testa sembrò
sollevarsi, e un lampo di luce gli esplose sotto le dita. Anziché mollare la presa,
le sue mani sembrarono stringere più forte mentre migliaia di volt di elettricità
percorrevano il suo corpo in un tremito frenetico.
Oh mio Dio.
Il cancello era ancora attivato. Liam e Ciccio stavano tentando di spegnerlo.
Sentii il mio stesso urlo gorgogliarmi in gola alla vista del bambino che
crollava a terra, finalmente immobile. Dal gabbiotto, Liam gridò qualcosa che
non sentii, date le urla che mi circondavano. La vista di quel bambino fece
esplodere in un batter d’occhio la momentanea bolla di calma.
Le FSP erano più vicine, ormai; dovevano esserlo per forza, perché quando
ricominciarono a sparare fu come prendere di mira i pesci in un barile. Una fila
dopo l’altra, i bambini caddero a terra, rivelando un nuovo strato da trucidare;
non riuscivo nemmeno più a vedere la neve sotto di loro.
Tutti si sparpagliarono in ogni direzione, alcuni tornando verso la scuola, altri
seguendo il percorso della recinzione, alla ricerca di una via di fuga alternativa.
Sentii cani abbaiare e motori ruggire. Insieme, quei due rumori sembravano un
mostro proveniente dall’inferno. Mi voltai a guardare la fila di animali e veicoli
che ci stava inseguendo a tutta velocità, e qualcosa mi colpì violentemente da
dietro, facendomi cadere.
Mi hanno sparato, pensai, scioccata.
No, non era possibile. Il colpo era stato una gomitata alla nuca.
La ragazza Blu correva talmente veloce che non mi aveva nemmeno vista. Mi
voltai appena in tempo per vederle sollevare le braccia in aria, un chiaro segno di
resa, ma le spararono ugualmente. Gridò e si accasciò a terra.
Non fu l’unica a non vedermi nella neve: nessuno mi vide. Sentii le braccia
bruciare per il freddo e mi sforzai di tirarmi su e allontanarmi dalla sua presa
gelida ma, ogni volta che riuscivo a emergere, un piede si abbatteva sulle mie
spalle o sulla mia schiena. Facevo appena in tempo a proteggermi la testa,
nient’altro. Non riuscivo a riempirmi d’aria i polmoni: urlavo e nessuno mi
sentiva.
La rabbia e la disperazione mi lacerarono. La ressa di bambini in fuga mi
premeva sempre di più nella neve, e continuavo a pensare: Si rischia di affogare
così? Si può soffocare in questo buio gelido? Sarebbe meglio morire così?
Sentii delle mani intorno alla vita. L’aria gelida mi riempì i polmoni in un
solo, doloroso sussulto quando qualcuno mi tirò su dalla neve.
Il cancello era ormai aperto, e i ragazzini che avevano avuto il sangue freddo
di restare – che avevano avuto la fortuna di non essere colpiti – lo attraversarono
di corsa, fiondandosi verso la fitta macchia di alberi poco oltre. Non potevano
essercene più di venti: delle centinaia di ragazzini che si erano precipitati fuori
dalle aule della vecchia scuola, venti.
Sentii caldo, un tepore impossibile. Le braccia che mi tenevano mi strinsero
più forte. Quando alzai lo sguardo, vidi gli occhi luminosi di Liam.
Tieni duro, d’accordo?
Zu si svegliò con un sussulto, riemergendo dall’incubo per riempire d’aria i
polmoni.
Venni espulsa dal sogno e rispedita violentemente nella gelida stanza del
motel. Nonostante la vertigine che mi investì, mi voltai verso Zu, mettendo a
malapena a fuoco la sua sagoma. Quando tesi le mani verso di lei, mi accorsi che
qualcun altro mi aveva battuta sul tempo.
Liam scosse la testa, sforzandosi di sfuggire alla persistente presa del sonno.
«Zu», sussurrò. «Ehi, Zu…»
Rimasi immobile.
«Ehi», disse Liam con gentilezza. «Va tutto bene. Era solo un brutto sogno.»
Mi si torsero le budella quando mi accorsi che piangeva. Sentii grattare legno
su legno, come se Liam avesse preso qualcosa dal comodino.
«Scrivilo», disse. «Non sforzarti.»
Doveva essere la cancelleria dell’albergo. Chiusi gli occhi aspettandomi che
avrebbe acceso la semplice abat-jour sul comodino, ma si attenne alla regola:
niente luci fuori dal bagno.
«Per cosa ti dispiace?» sussurrò Liam. «L’unico a cui serve il riposo di
bellezza è Ciccio.»
Zu fece una risatina incerta, ma sentivo che il suo corpo era ancora in tensione
accanto al mio.
«Era… lo stesso delle altre volte?» Il letto si abbassò sotto il peso di Liam.
«Un po’ diverso?» ripeté dopo un attimo. «Sì?»
Il silenzio fu più protratto. Non ero sicura che Zu stesse ancora scribacchiando
al buio. Poi Liam tossicchiò e, con voce roca, disse: «Non potrei mai
dimenticarlo. Ero… ero davvero preoccupato che avresti toccato la recinzione
prima che Ciccio capisse come disattivarla». E poi, così piano che pensai di
averlo immaginato, aggiunse: «Mi dispiace tanto».
Il senso di colpa e la tristezza che ammantavano le sue parole furono come un
calcio nel petto. Senza volere, scivolai in avanti nel letto, attirata dalla sofferenza
che vi sentivo, desiderando disperatamente rassicurarlo che quanto accaduto nel
campo innevato non era colpa sua. Mi spaventava, sapendo quanto
profondamente condividessi i suoi sentimenti in quel momento. Ma non potevo.
Era una conversazione privata, proprio come i ricordi di Zu. Come facevo a
cacciarmi sempre in posti dove non avrei dovuto essere?
«Ciccio non è l’unico a pensare che sia troppo pericoloso. Ma io penso che
Ruby sia abbastanza in gamba da cavarsela senza di noi, se lo desidera. Perché?»
Zu scribacchiò ancora.
«Ciccio vuole solo che siamo al sicuro», rispose, sussurrando. «A volte questo
gli impedisce di fare ciò che è giusto per gli altri, di avere una visione d’insieme,
capisci? Siamo evasi solo due settimane fa: devi dargli più tempo.»
In quel momento, sembrava così sicuro di sé che una parte di me cedette. Gli
credetti.
«Oh, caspita.» Mi pareva di sentirlo passarsi la mano tra i capelli. «Non devi
mai vergognarti di quello che sai fare, hai sentito bene? Se non ci fossi stata tu,
non saremmo mai arrivati fin qui.»
La stanza piombò di nuovo nel silenzio, a parte il russare ansimante di Ciccio.
«Ti senti meglio?» chiese. «Hai bisogno di qualcosa da Betty?»
Zu doveva aver scosso la testa, perché sentii il letto sollevarsi quando Liam si
alzò. «Sono qui vicino. Svegliami se cambi idea, d’accordo?»
Non gli sentii dire buonanotte. Anziché sdraiarsi, si sedette con la schiena
appoggiata al bordo del letto a fare la guardia alla porta nell’evenienza che
qualcosa potesse attraversarla.

Qualche ora più tardi, con la luna ancora visibile nel cielo grigiazzurro del
mattino, sciolsi delicatamente le dita di Zu dal mio vestito e scivolai fuori dal
letto. La luce rossastra della sveglia sul comodino mi impresse a fuoco l’ora
nella mente. Le 5.03. Ora di andarsene.
Nessuno di noi aveva disfatto le valigie, visto che Liam aveva insistito, ma
dovevo recuperare lo spazzolino e il dentifricio da dove li avevo lasciati, accanto
a quelli di Ciccio, in bagno. C’era un altro set da bagno vicino al lavandino,
insieme alla macchinetta per il caffè istantaneo più brutta del mondo. Lo infilai
nello zaino, insieme al più piccolo degli asciugamani.
Fuori, c’era solo qualche grado in più che all’interno della stanza. Il tipico
meteo schizofrenico della Virginia in primavera. Doveva aver piovuto la sera
precedente, per giunta. La nebbiolina bianca che il temporale si era lasciato
dietro serpeggiava tra le auto e gli alberi. Il minivan, che durante la notte
avevamo lasciato in fondo al parcheggio, era davanti alla porta del motel. Se non
avessi costeggiato la fiancata di Black Betty, passando una mano sulle sue
ammaccature, non credo che mi sarei accorta di Liam.
Era in ginocchio a lato della portiera scorrevole, intento a grattare via con le
chiavi ciò che restava della scritta . Per terra c’era la targa dell’Ohio
BETTY JEAN PULIZIE

che avevamo usato fino ad allora. Trascinai i piedi e mi fermai a poca distanza
da lui.
Aveva le occhiaie, il viso teso e assorto nei pensieri, la bocca stretta in una
linea seria che non gli donava per niente. Con i capelli umidi pettinati
all’indietro e il viso appena rasato, poteva dimostrare due o tre anni in meno del
giorno prima, ma i suoi occhi raccontavano una storia diversa.
Sfregai l’asfalto sbriciolato con la punta delle scarpe, attirando la sua
attenzione. Si alzò. «Cosa c’è che non va?»
«Eh?»
«Ti sei svegliata presto. Di solito, devo trascinare Ciccio nella doccia e
sbatterlo sotto il getto gelido per farlo partire.»
Alzai le spalle. «Mi sa che sono ancora abituata ai ritmi di Thurmond.»
Liam si alzò lentamente, pulendosi le mani sui jeans. Il modo in cui i suoi
occhi continuavano a tornare su di me mi faceva pensare che volesse dirmi
qualcosa, ma si limitò a farmi un sorrisetto. Gettò la targa dell’Ohio sul sedile
posteriore, e al suo posto ne mise una del West Virginia. Non feci in tempo a
chiedergli da dove l’avesse tirata fuori.
Misi lo zaino per terra e mi appoggiai alla portiera. Liam scomparve sul retro
del minivan, e riapparve pochi minuti dopo con una tanica rossa e un tubo nero
mangiucchiato. Con gli occhi chiusi e le orecchie appoggiate al vetro freddo,
ascoltai la canzoncina stucchevole di una pubblicità di un supermercato. Quando
tornò la voce dell’annunciatrice fu per una cupa proiezione di ciò che restava di
Wall Street: lesse i valori della Borsa come se fosse stato un elogio funebre.
Mi costrinsi ad aprire gli occhi e posai lo sguardo dove Liam si trovava fino a
un minuto prima.
«Liam?» chiamai, prima di riuscire a trattenermi.
«Sono quaggiù», fu la risposta immediata.
Lanciai un’occhiata alla fila di porte color acquamarina e mi diressi verso il
retro del minivan. Mi fermai un paio di passi dietro di lui e mi alzai sulle punte
dei piedi, chinandomi a destra per vedere meglio cosa stesse facendo al SUV
grigio parcheggiato lì a fianco. Lavorava in silenzio e concentrato. Una estremità
del tubo era infilata a fondo nel serbatoio del SUV. Liam si attorcigliò il resto del
tubo indisciplinato intorno alla spalla e fece cadere l’altra estremità nella tanica
rossa.
«Cosa stai facendo?» Non mi premurai di nascondere lo shock.
Passò la mano libera lungo il tubo, tirandolo leggermente nella nostra
direzione, come se stesse tirando una corda, o facendo cenno a qualcuno di
seguirci. Qualche goccia di liquido dall’odore pungente cominciò a cadere
dall’estremità libera del tubo. Sta rubando la benzina, mi resi conto. Avevo
sentito di gente che lo faceva durante l’ultima crisi del carburante, ma non lo
avevo mai visto fare dal vivo. Il liquido colmò la tanica con flusso costante,
riempiendo lo spazio tra noi di un odore penetrante.
«C’è crisi», disse senza traccia di rimorso. «Sono tempi un po’ disperati, e per
un bel pezzo ieri siamo andati avanti in riserva.»
«Tu sei Blu, giusto?» dissi, indicando la mano che guidava la benzina verso la
tanica. «Non potresti far muovere Betty anche senza la benzina?»
«Sì, ma… non per molto.» Liam sembrava timido. Strinse le labbra, che si
tinsero di un bianco innaturale, facendo risaltare una piccola cicatrice
sull’angolo destro. Quando mi accorsi che lo stavo fissando, mi accucciai
accanto a lui, più per nascondere l’imbarazzo che per aiutare davvero. Rubare
benzina era sorprendentemente facile.
«Sono colpita dal fatto che tu sia in grado di usare i tuoi poteri, credo.»
Una parte di me si chiese se avessi capito male fin dall’inizio. Per come
andavano le cose a Thurmond… i dirigenti del campo ci facevano vivere nel
terrore di farci sorprendere a usare le nostre abilità, e ci facevano capire che ciò
che eravamo e ciò che sapevamo fare era pericoloso e innaturale. Errori e
incidenti non erano scuse valide, e la punizione era inevitabile. Non c’era modo
di testare la nostra curiosità, di sfiorare i limiti per vedere se fosse possibile
infrangerli.
Se Liam era così padrone delle proprie abilità doveva significare che aveva
passato anni a addestrarsi, per la maggior parte fuori dalla recinzione di un
campo. Non mi era mai venuto in mente che gli altri bambini, al sicuro tra le
mura di casa, nascosti – che gli altri, che non avevano mai visto l’interno di una
baracca, mai sperimentato il nulla pesante e immobile della vita in un campo –
potessero essere riusciti a imparare cose meravigliose. Non avevano paura di se
stessi; non erano schiacciati dal peso di ciò che non sapevano.
Provai una sensazione stranissima, come se avessi perso qualcosa pur senza
averlo mai avuto: la sensazione di non essere più ciò che ero stata, e di non
essere ancora ciò che ero destinata a diventare. Mi sentii vuota fin dentro le ossa.
«Per noi Blu la faccenda è abbastanza semplice», spiegò Liam. «Guardi
qualcosa, ti concentri abbastanza da immaginare quell’oggetto muoversi dal
punto A al punto B, e lui… lo fa. Scommetto che un sacco di Blu a Thurmond
avevano capito come usare le proprie abilità. Solo che hanno scelto di non farlo.
Magari a causa di quel rumore.»
«Forse hai ragione.» Non avevo interagito a sufficienza con i Blu per saperlo.
Liam strattonò il tubo e il flusso si ridusse a uno sgocciolio. Alzai lo sguardo,
perlustrando il parcheggio e le porte del motel alla ricerca di segni di vita, e non
mi riabbassai finché fui sicura che eravamo soli.
«Lo hai imparato da solo?» chiesi, per verificare la mia teoria.
Lui mi lanciò uno sguardo. «Sì. Sono entrato in un campo abbastanza tardi e
ho avuto un sacco di tempo, da solo e annoiato a morte, per capire le cose.»
Naturalmente, la domanda successiva era: Ti nascondevi? Ma non avrei potuto
chiederlo senza che lui chiedesse a me della mia storia e di come fossi stata
catturata.
Dovevo smetterla. Mi tremavano le mani come se mi avesse appena detto che
aveva intenzione di strangolarmi. Fino a quel momento non aveva fatto nulla che
non fosse perfettamente gentile. Non mi aveva forse dimostrato, più e più volte,
di essere disposto a essere mio amico se io glielo avessi permesso?
Era passato tanto tempo dall’ultima volta che avevo desiderato un amico che
non ero nemmeno più sicura di come fare amicizia. In prima elementare era stato
ridicolmente facile. La maestra ci aveva detto di scrivere il nome del nostro
animale preferito su un foglio, poi ci aveva fatto girare per la stanza fino a
trovare qualcuno con lo stesso animale. Perché fare amicizia, a quanto pareva,
poteva essere facile come trovare qualcun altro a cui piacessero gli elefanti.
«Mi piace questa canzone», dissi all’improvviso. La voce di Jim Morrison era
morbida e ci raggiungeva a malapena, filtrando dagli altoparlanti di Betty.
«Ah sì? I Doors?» Il viso di Liam si illuminò. «Come on baby, light my fire»,
canticchiò a voce bassa, imitando quella di Jim Morrison. «Try to set the night
on fire…»
Scoppiai a ridere. «Mi piace quando la canta lui.»
Liam si strinse il petto, come se lo avessi ferito, ma si riprese in fretta. Quando
il DJ annunciò la canzone successiva, fu come se avesse vinto la lotteria.
«Adesso sì che ragioniamo!»
«Gli Allman Brothers?» Che buffo, avrei detto che fosse un fan dei Led
Zeppelin.
«Questa è la musica della mia anima», dichiarò, muovendo la testa a ritmo.
«Ma hai mai ascoltato bene le parole?» L’ansia si allontanava dalle mie spalle
e la mia voce diventava più salda a ogni parola. «Tuo padre era un giocatore
d’azzardo giù in Georgia, che si è trovato dal lato sbagliato di una pistola? Sei
nato sul sedile posteriore di un Greyhound?»
«Ehi, su», disse arruffandomi i capelli. «Ho detto che era la musica della mia
anima, non della mia vita. Per tua informazione, il mio patrigno fa il meccanico
giù nel North Carolina e, a quanto ne so, è ancora vivo e vegeto. Ma sì, sono
nato sul sedile posteriore di un autobus.»
«Stai scherzando», mormorai confusa.
«Proprio no. Sono finito sul giornale e compagnia bella. Sono stato il
Miracolo del Bus per i primi tre anni di vita e ora sto…»
«‘Tentando di guadagnarmi da vivere e facendo il meglio che posso’?»
conclusi.
Lui rise, e le punte delle sue orecchie si tinsero di rosa acceso. La canzone
proseguì, riempiendo l’aria tra noi del suo ritmo veloce e delle chitarre
inarrestabili. Ogni pezzetto si incastrava alla perfezione: non proprio country e
non proprio rock and roll. Un suono caldo, veloce, del Sud. Mi piacque ancora di
più quando Liam iniziò a cantare.
Quando il flusso di benzina si arrestò del tutto, estrasse con cura il tubo e
rimise a posto il tappo. Prima di alzarsi, mi toccò la spalla con la sua. «Dove
diavolo hai preso quel vestito?»
Sbuffai, tirando la gonna. «Un regalo di Zu.»
«Sembra che tu non veda l’ora di darlo alle fiamme.»
«Non posso promettere che non ci sarà uno sfortunato incidente a un certo
punto», dissi, molto seriamente.
Liam rise di nuovo, e mi sembrò una piccola vittoria.
«Beh, Verde, è stato carino da parte tua indossarlo», mi disse. «Ma fai
attenzione. A Zu manca così tanto la compagnia di una ragazza che potrebbe
trasformarti in una bambolina da vestire.»
«I giovani d’oggi. Pensano che il mondo appartenga a loro.»
Liam sorrise. «I giovani d’oggi.»
Ci spostammo da una macchina all’altra, percorrendo l’intero parcheggio.
Non mi chiese aiuto, e io non gli feci altre domande. Avremmo potuto rimanere
in quel confortevole silenzio per ore, e ancora non mi sarebbe bastato.
13

C e Zu non furono contenti di essere tirati giù dal letto alle cinque e mezzo del
ICCIO

mattino, e furono ancora meno entusiasti che Liam li obbligasse a rifare il letto
mentre noi sistemavamo il bagno e rimettevamo a posto gli asciugamani usati.
Non proprio igienico, ma meglio che far sapere al direttore che avevamo invaso
il suo motel per una notte.
Ciccio mi lanciò un’occhiata mentre si dirigeva a grandi passi verso il
minivan, e si bloccò. Si vedeva benissimo cosa stesse pensando: Sei ancora qui?
Alzai le spalle. Affari tuoi.
Scosse la testa e fece un altro dei suoi sospiri.
Dopo esserci sistemati, Zu e Ciccio nei sedili centrali, osservammo Liam che
richiudeva la porta del motel con in mano una tazza di caffè schifoso.
È vero, pensai sbirciando Zu con la coda dell’occhio. Si era accoccolata sul
sedile e usava la mano guantata come cuscino. Non è che abbiamo riposato un
granché, ieri notte.
Liam seguì la solita routine di controllare la posizione degli specchietti,
aggiustare l’inclinazione del sedile, allacciare la cintura e girare la chiave nel
cruscotto. Ma il punto successivo all’ordine del giorno non era rispondere al
fuoco di fila di domande di Ciccio su dove fossimo diretti. Attese che il suo
amico fosse nel mondo dei sogni prima di chiedermi: «Sai leggere una mappa?»
L’imbarazzo e la vergogna che mi assalirono mi fecero arrossire. «No. Scusa.»
Non era una di quelle cosa che prima o poi tuo padre ti dovrebbe insegnare?
«Nessun problema.» Liam batté una mano sul sedile vuoto accanto a sé.
«Dopo ti insegno, ma per ora ho solo bisogno di qualcuno che tenga d’occhio i
cartelli per me. Vieni nella postazione del copilota.»
Indicai Ciccio con il pollice.
Liam scosse la testa. «Mi prendi in giro? Ieri pensava che una cassetta delle
lettere fosse un clown.»
Mi slacciai la cintura con un sospiro. Arrampicandomi sopra le gambe tese di
Ciccio per raggiungere il posto davanti, mi guardai alle spalle e notai i suoi
occhiali troppo piccoli. «Ci vede davvero così male?»
«Peggio», rispose Liam. «Allora, appena scappati da Caledonia, ci siamo
intrufolati in una casa per dormire. Mi sono svegliato nel cuore della notte e ho
sentito un rumore terribile, come una mucca in punto di morte o qualcosa del
genere. Ho seguito i lamenti, con in mano una mazza da baseball che avevo
trovato in giro, pensando di dover prendere qualcuno a bastonate in testa per
poter scappare. Poi ho visto cosa c’era sul fondo della piscina vuota.»
«Non ci credo…»
«Credici», confermò. «Occhio di Falco voleva andare a fare la pipì e, chissà
come, non ha visto l’enorme buco per terra. Si è storto la caviglia e non riusciva
più ad arrampicarsi fuori.»
Mi sforzai di non ridere, ma era impossibile. La scena che mi aveva descritto
era troppo buffa. Liam cambiò stazione radio, lasciando scegliere a me. Sembrò
soddisfatto della mia decisione di fermarmi sugli Who.
Con il finestrino completamente abbassato, mi sporsi all’esterno, appoggiando
il mento sulle mani. L’aria mattutina era tiepida, accarezzata dai primi raggi di
sole. Quando alzai lo sguardo oltre le cime degli alberi, non vidi altro che il cielo
azzurro.
Un suono leggero, l’ombra di un sospiro, si librò alle nostre spalle. Sia Liam
sia io ci voltammo a guardare Zu che dormiva.
«Ti abbiamo svegliata ieri notte?» chiese Liam.
«Ho sentito qualcosa», risposi. «Ha spesso incubi?»
«Nelle poche settimane da quando ci siamo conosciuti, è capitato una notte sì
e una no. A volte sogna Caledonia e riesco a calmarla, ma non so mai cosa dire
sulla sua famiglia. Giuro che se incontro i suoi genitori…» La sua voce si
spense, ma la rabbia che ammantava le sue parole diede all’atmosfera una carica
palpabile.
«Cosa le hanno fatto?»
«L’hanno consegnata, perché avevano paura di lei. Prendi Ciccio e me. I nostri
genitori hanno provato a tenerci nascosti, ed è per questo che siamo finiti tardi
nei campi. I genitori di Zu l’hanno mandata via quando ha fatto andare in corto
circuito la macchina di suo padre in mezzo all’autostrada.»
«Oh Dio.»
«L’hanno consegnata durante la prima Raccolta ufficiale.» Liam appoggiò il
gomito alla portiera e il viso sulla mano. Il cappello dei Redskins gli nascondeva
gli occhi. «Mi ero dimenticato, tu te la sei persa.»
Aspettai che mi spiegasse.
«È stato dopo che la maggior parte dei nostri coetanei sono stati catturati o si
sono nascosti. Il governo ha emesso un avviso per i genitori che non si sentivano
al sicuro o in grado di prendersi cura dei figli, dicendo che potevano mandarli a
scuola in un dato giorno e le Forze Speciali Psi li avrebbero portati a un centro di
riabilitazione. Fu fatto tutto di nascosto per non spaventare i bambini o
incoraggiarli a comportarsi male.»
Mi sfregai la fronte per allontanare le immagini che mi svolazzavano nella
mente. «Te l’ha detto lei?»
«A voce, intendi?» Tenne gli occhi fissi davanti a sé, ma le sue mani
strozzavano il volante. «No. Lo ha scritto a spizzichi e bocconi. Non le ho
sentito pronunciare una sola parola da quando…»
«Da quando siete evasi?» conclusi. Mi sentii sollevata malgrado quello che
avevo scoperto. «È una sua scelta allora, non qualcosa che le hanno fatto.»
«No, è esattamente per quello che le hanno fatto, e non è una scelta», disse
Liam. «Penso che la cosa più frustrante al mondo sia la sensazione di avere
qualcosa da dire e non sapere come trasformarlo in parole. Aver vissuto
un’esperienza, e non essere in grado di tirarla fuori prima che ti avveleni. Hai
ragione, Zu è in grado di parlare, e forse un giorno lo farà; ma dopo tutto quello
che le ho fatto passare, dopo quanto è successo… non lo so proprio.»
Era davvero la cosa più frustrante al mondo, al secondo posto dopo il senso di
inutilità che accompagna l’essere intrappolati in un campo, dove ogni decisione
viene presa al posto tuo. Dopo quanto accaduto con Sam, non dissi una parola
per quasi un anno; non c’era modo di dar voce a un dolore di quel tipo.
La radio perse il segnale e si spostò su una stazione in spagnolo, poi su una di
musica classica, infine si fermò su una voce maschile asciutta e nasale che
leggeva il notiziario.
«…per informarvi che i primi resoconti sembrano indicare che quattro
esplosioni separate siano avvenute questa mattina nella metropolitana di
Manhattan…»
Liam fece per cambiare stazione, ma lo fermai.
«Sebbene le conferme tardino ad arrivare dalla città, si ritiene che le
esplosioni non avessero natura nucleare o biologica e che fossero concentrate
nella zona centrale, dove pare che il presidente Gray si fosse nascosto dopo il
più recente tentativo di omicidio.»
«Lega, West Coast o fasulla?» La voce assonnata di Ciccio si levò dietro di
noi.
«Secondo le nostre fonti, il presidente Gray e il suo gabinetto credono sia
opera della Coalizione Federale.»
«Coalizione Federale?»
«West Coast», risposero i ragazzi all’unisono. Ciccio mi spiegò meglio.
«Hanno sede a Los Angeles. Sono composti da quella parte di governo che è
sopravvissuta al bombardamento di Washington e non era entusiasta della
decisione di Gray di ignorare il limite di due mandati che avevano stabilito. Per
la verità, non fanno che parlare, dato che l’esercito si è schierato dalla parte di
Gray, ovviamente.»
«Perché Gray è a New York e non a Washington?»
«Stanno ancora ricostruendo il Campidoglio e la Casa Bianca, solo che non
sta andando troppo bene, dato che lo Stato è in default totale», disse Liam.
«Gray ha sparpagliato i membri del governo tra la Virginia e New York, per
proteggerli. Per assicurarsi che nessuno dei gruppi di Psi fuggitivi né la Lega
potesse farli fuori tutti in un colpo solo.»
«Quindi la Coalizione Federale… è contraria ai campi? Al programma di
riforma?»
Ciccio sospirò. «Mi spiace essere io a darti la notizia, Verde, ma una cosa che
dovrai imparare abbastanza in fretta è che noi non siamo una priorità per
nessuno, in questo momento. Sono tutti concentrati sul fatto che il Paese è
rimasto senza il becco di un quattrino.»
«Per chi tifiamo, allora?» insistei.
«Tifiamo per noi», disse Liam dopo un momento. «E basta così.»

A quanto pareva, erano rimaste solo due catene di ristoranti nell’intero Stato
della Virginia, o almeno nella parte occidentale: Cracker Barrel e Waffle House,
e uno dei due non apriva prima delle nove del mattino.
«Grazie al cielo», disse Liam con voce solenne, parcheggiando a poca
distanza da Waffle House. «Non avrei saputo scegliere tra due ristoranti così
ricercati.»
Si era incaricato di ordinare tutto quello che poteva permettersi con venti
dollari, ma rifiutò quando gli chiesi se voleva che lo accompagnassi.
Zu agitò in aria un quadernino per attirare la sua attenzione prima che se ne
andasse.
«Già finito?»
Annuì.
«Perché non chiedi a Ciccio di controllarti le risposte? No, non fare quella
faccia. È più bravo di me in matematica.»
«Ci puoi scommettere», replicò Ciccio senza alzare gli occhi dal libro.
Zu aprì il quadernino a una pagina bianca e scribacchiò qualcosa. Quando lo
alzò per farglielo leggere, Liam sorrise.
«Wow, wow… le divisioni in colonna? Mi sa che stai facendo il passo più
lungo della gamba, signorina. Ancora non padroneggi le moltiplicazioni a doppia
cifra.»
Lo osservai saltare giù dal minivan, scossa nel profondo da una fiammata di
rabbia. Sarebbe stato tutto più facile se lui non fosse stato l’unico a dimostrare
una ventina d’anni: mi sarei sentita molto meglio sapendo che uno di noi poteva
essere là fuori a guardargli le spalle. Doveva aver sentito addosso il mio sguardo,
perché si fermò e si voltò con un cenno di saluto prima di sparire dietro l’angolo.
«È ora che tu la smetta di incoraggiarlo», stava dicendo Ciccio a Zu. Guardai
verso di loro e vidi che lui usava la cima della matita per seguire le righe di
numeri sul quaderno. «Dovrà accettare la realtà, prima o poi.»
Zu fece una smorfia come se avesse avuto una caramella al limone attaccata
alla lingua, e gli diede un pugno sulla spalla.
«Mi dispiace», disse lui, anche se era evidente che non fosse vero. «È uno
spreco di tempo e di energie insegnarti questa roba se tanto non avrai mai
occasione di usarla.»
«Non è detto», replicai. Rivolsi a Zu un sorriso rassicurante e aggiunsi: «Sarai
più avanti di tutti i tuoi compagni di classe quando le cose torneranno alla
normalità».
E comunque, da quando avevo cominciato a credere nella normalità? Tutto
quello che avevo passato fino a quel momento non faceva altro che sostenere la
tesi di Ciccio. Aveva ragione, anche se non volevo ammetterlo.
«Sai cosa starei facendo io, se le cose fossero normali?» disse Ciccio. «Starei
scegliendo quale college frequentare quest’autunno. Avrei fatto gli esami, sarei
andato alle partite di football e al ballo di fine anno, avrei frequentato le lezioni
di chimica…»
La sua voce si spense, ma seguii ugualmente il filo dei suoi pensieri… come
potevo evitarlo? Erano esattamente le stesse cose che pensavo io quando mi
permettevo di crogiolarmi nell’oscurità dei se e dei magari. La mamma, una
volta, mi aveva detto che l’istruzione era un privilegio di pochi, ma aveva torto.
Non era un privilegio, era un nostro diritto. Avevamo diritto a un futuro.
Zu si accorse che l’umore era cambiato. Spostò lo sguardo da Ciccio a me,
muovendo le labbra silenziosamente. Avevamo bisogno di cambiare argomento.
«Pfff», feci, mettendomi a braccia conserte e appoggiandomi all’indietro sullo
schienale. «Come se fossi il tipo che va alle partite di football.»
«Ehi, come ti permetti!» Ciccio porse a Zu il quadernino. «Ecco, guarda. Devi
esercitarti con i nove.» Quando tornò a voltarsi verso di me, fu con uno sguardo
di disapprovazione. «Non riesco a credere che proprio tu abbia queste illusioni
tutte rose e fiori.»
«E questo cosa vorrebbe dire?»
«Sei stata a Thurmond per quanto… cinque anni?»
«Sei», lo corressi. «E non è questo il punto. Non è tanto che credo in quello
che Lee dice; è che spero che abbia ragione. Spero davvero che abbia ragione,
perché in caso contrario qual è l’alternativa? Siamo obbligati a nasconderci
finché tutti quelli della loro generazione saranno morti? Scappiamo in Canada?»
«Buona fortuna, allora», disse Ciccio. «Sia il Canada sia il Messico hanno
costruito muri per tenerci fuori e rimanere al sicuro.»
«Perché pensavano che la NIAA fosse una malattia contagiosa?»
«No, perché ci hanno sempre detestati e stavano solo aspettando la scusa
buona per tener fuori dal loro Paese i nostri culi grassi e i nostri marsupi fuori
moda.»
Liam scelse di riapparire esattamente in quel momento, con quattro
contenitori di polistirolo in equilibrio tra le mani. Si muoveva in fretta, quasi
correndo. Mi sporsi ad aprirgli la portiera e lui quasi mi rovesciò i contenitori
sulle gambe.
«Oddio, e adesso cosa c’è?» gridò Ciccio.
«Ehi…» feci, tentando di evitare che le pietanze calde si rovesciassero sulle
mie gambe e sul sedile. Il motore di Betty si accese con un ringhio, e
improvvisamente fummo scagliati all’indietro. Con il lenzuolo che copriva il
lunotto posteriore, Liam dovette affidarsi allo specchietto laterale per riportarci
sulla carreggiata e poi su per la stradina che separava Waffle House da un
negozio di gioielli in conto vendita abbandonato. Appoggiai un gomito sulla
portiera mentre Liam manovrava il vecchio minivan oltre i cassonetti e fino al
minuscolo parcheggio per i dipendenti nascosto in un vicolo cieco dietro
l’angolo. Il minivan si fermò con un sussulto, sbilanciandoci tutti e quattro in
avanti.
«Rimarremo… qui per un poco», annunciò, vedendo i nostri volti spaventati.
«Non andate nel panico, ma penso di aver visto… insomma, è più sicuro se
rimaniamo qui per un po’.»
«Hai visto lei.» Non era una domanda; Ciccio conosceva la risposta prima
ancora di chiedere. «Lady Jane.»
Liam si sfregò la nuca e si chinò in avanti. Aveva spinto il muso del minivan
abbastanza in avanti da permetterci di sbirciare oltre il muro del ristorante e
lungo la strada. «Sì. Sono abbastanza sicuro.»
Com’era possibile che ci avesse raggiunti?
«Per la miseria», strillò Ciccio. «Abbastanza sicuro o decisamente sicuro?»
Dopo un momento, Liam rispose: «Decisamente sicuro. Ha un nuovo mezzo
di trasporto, un camioncino bianco, ma quel brutto muso arrogante lo
riconoscerei ovunque».
«Lei ti ha visto?» chiesi.
«Non lo so. Probabilmente no, altrimenti lei e chiunque sia il suo toy-boy di
turno avrebbero tentato di mettermi sotto. Mi sono passati davanti in macchina
mentre uscivo.»
Mi sporsi per vedere oltre il muro del ristorante fino all’imbocco della strada.
Come in risposta a un segnale, un camioncino bianco lucido passò lì accanto,
con due figure scure sedute davanti. Liam e io ci appiattimmo sui sedili nello
stesso momento, scambiandoci uno sguardo allarmato. Nessuno di noi due osò
respirare finché fummo sicuri che nessuno stesse risalendo la stradina per
investigare.
Si schiarì la voce. «Ehm… perché non distribuisci il cibo? Io vado solo a
controllare…»
«Liam Michael Stewart», tuonò la voce di Ciccio dal sedile posteriore. «Se
metti un piede fuori da questo minivan, ordino a Verde di investirti.»
«Non credere che non lo farei», lo avvisai, perché sapevo esattamente cosa
avesse intenzione di fare: uscire e rischiare la pelle scendendo lungo la stradina
per assicurarsi che la via fosse libera. Gli passai uno dei contenitori di
polistirolo, e lui si accasciò sul sedile, accettando la sconfitta.
Liam aveva ordinato per ciascuno di noi un pasto semplice composto da uova
strapazzate, bacon e due pancake senza sciroppo. Gli altri si avventarono con
gusto sul cibo, finendolo in cinque bocconi. Diedi i miei pancake a Zu prima che
Liam avesse il tempo di farlo.
Quando fu tornata una parvenza di calma, Liam tirò fuori la mappa e la aprì
sul volante. L’orologio del cruscotto segnava le 7.25; quando si voltò verso di
noi, Liam aveva un’espressione determinata che non avevo mai visto a nessuno
così presto al mattino.
«Okay, squadra», esordì. «Dobbiamo rimetterci in riga. So che il nostro ultimo
East River è stato un fiasco, ma dobbiamo continuare a cercare. Perciò,
rivediamo i dettagli che quei Blu ci hanno dato: Eddo.»
Solo dopo un intero minuto mi accorsi che tutti i «dettagli» erano già finiti.
«Avremmo dovuto corromperli per farci dare altre informazioni», disse
Ciccio.
«Con cosa?» replicò Liam, posando la mappa. «Non ti avrebbero preso,
Ciccio, e la cosa più preziosa che abbiamo sei tu.»
Ciccio non lo trovò divertente, e la cosa non mi stupì.
«Vi hanno fatto lo spelling di Eddo? Aveva una o due ‘d’?» chiesi. «Perché, se
è un vero indizio, il modo in cui si scrive probabilmente ha la stessa importanza
delle parole.»
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo.
«Cavolo», disse Liam, alla fine.
Sentii uno strattone al braccio e mi voltai verso Zu, che aveva alzato il
quaderno per farcelo vedere. Aveva scritto le lettere . E-D-O

«Ottimo lavoro, Zu», disse Liam. «Meno male che almeno uno di noi stava
ascoltando.»
«E non c’era nient’altro?» domandai.
«L’unica altra cosa che ci hanno rivelato era che se arrivavamo a Raleigh
eravamo andati troppo a sud. E abbiamo dovuto supplicarli anche per quello»,
ammise Liam. «È stato davvero patetico.»
«E magari ci stavano pure prendendo in giro», disse Ciccio. «È questo che mi
dà più fastidio. Se East River è così meraviglioso, perché se ne stavano
andando?»
«Stavano andando a casa, ricordi, Slip Kid…»
Mentre discutevano, tolsi la mappa da sotto le mani di Liam e la osservai
socchiudendo gli occhi, nel tentativo di capirne le linee. Liam mi aveva dato
un’infarinatura generale su come tracciare un percorso dal punto A al punto B,
ma per me era ancora troppo.
«Cosa ne pensate voi?» chiesi. «Avevate una teoria su cui lavorare?»
«Abbiamo incontrato quei ragazzi vicino al confine dell’Ohio», rispose Liam.
«Arrivavano da est ed erano diretti a ovest. Se aggiungi gli altri pezzetti su
Washington e Raleigh, i candidati più probabili sono West Virginia, Virginia e
Maryland. Zu dice che Edo è un altro nome di Tokyo, ma mi sembra esagerato
pensare che sia così lontano.»
«E io penso che sia un codice», disse Ciccio. «Un codice cifrato.» Si raddrizzò
e si voltò verso di me. Il modo in cui il sorriso gli si estese sul viso mi ricordò un
documentario che avevamo visto una volta a scuola, sui coccodrilli e il modo in
cui mostrano le zanne mentre fendono l’acqua per raggiungere la preda.
«A proposito di codici, non avevi detto che la Lega ti ha fatta evadere perché
sei una campionessa mondiale di interpretazione di codici?
Cavolo.
«Non ho mai detto campionessa mondiale…»
«È vero!» Il viso di Liam si illuminò di un’espressione eccitata che mi spezzò
il cuore. «Puoi dare un’occhiata?»
Doppio cavolo.
«Ehm… penso di sì», dissi, attenta a mantenere un’espressione neutra. «Zu,
posso guardare di nuovo il quaderno?»
Mi stavano fissando tutti; l’effetto era così paralizzante che sembrava si
fossero seduti sul mio petto. Nel minivan, senza riscaldamento, l’aria era gelida
ma il mio corpo pareva appesantito da un panico bollente e appiccicoso. Mi
aggrappavo a quel quadernino come a una preghiera dal cielo.
Sapevo che c’erano ragazzini là fuori che potevano infilarsi nel cervello
qualche decina di lettere e sputare fuori una serie di coordinate complesse, o che
erano in grado di individuare immediatamente la soluzione di un indovinello, ma
decisamente io non ero una di loro.
Ciccio sbuffò. «Mi sa che la Lega è andata in bianco.»
«Ehi», disse Liam, con tono tagliente. «Noi ci rimuginiamo da due settimane e
non abbiamo ottenuto un bel niente. Non puoi concederle un’oretta per
pensarci?»
Si potevano forse sostituire le lettere EDO con dei numeri? 5-4-15? Dio, quali
altri tipi di codici esistevano? Un codice ferroviario? No, non poteva essere.
Oppure non era affatto un codice? Avrebbe avuto più senso, in realtà. L’enigma
doveva essere qualcosa che sia i ragazzini prigionieri dei campi sia quelli
all’esterno potessero capire facilmente, e non doveva essere troppo difficile,
altrimenti nessuno lo avrebbe mai risolto.
Menti, pensai, alzando una mano per lisciare una ciocca ribelle di capelli.
Menti. Fallo e basta. Di’ qualcosa! Cosa rappresentano di solito i numeri a tre
cifre? Un prezzo, un orario, un codice postale.
«Oh!» Se avevo ragione, Oddio sarebbe stato più appropriato.
«Oh?» mi fece eco Liam. «Oh cosa?»
«Mi ero dimenticata… beh», mi corressi, «potrei ricordarmi male, quindi non
emozionatevi troppo, ma penso che sia un prefisso della Virginia.»
«Non esistono prefissi a quattro cifre», disse Ciccio. «Cinque-quattro-quindici
non funziona.»
«Ma cinque-quattro-zero sì», replicai. «La gente usa lo zero al posto della ‘O’,
a volte, giusto?»
Liam si grattò la nuca e guardò Ciccio. «Cinque-quaranta? Ti suona
familiare?»
Mi voltai verso Ciccio, vedendolo improvvisamente in una nuova luce. «Tu
vieni dalla Virginia?»
Lui si mise a braccia conserte e guardò fuori dal finestrino. «Veramente, dalla
Virginia settentrionale.»
Beh, si capiva. «Cinque e quaranta è il West Virginia», spiegai a Liam. «Non
sono sicura di quanto si estenda a nord e a sud, ma dovrebbe essere proprio in
quest’area, penso.» Glielo mostrai sulla mappa. Non lo pensavo, lo sapevo. 540
era il mio prefisso quando abitavo con i miei genitori a Salem. «Ci sono un certo
numero di città e paesi, ma c’è anche un sacco di terreno libero; non è un brutto
posto per nascondersi.»
«Ma davvero?» Liam tenne gli occhi fissi sulla strada e la voce piatta, ma la
sua noncuranza pareva esagerata. «Sei cresciuta da quelle parti?»
Abbassai di nuovo lo sguardo sul quaderno, sentendo qualcosa stringermi il
petto. «No, non proprio.»
«Virginia Beach, allora?»
Scossi la testa. «Sicuramente un posto che non hai mai sentito.»
Ciccio schioccò la lingua e aprì la bocca per dire qualcosa, ma ci fu un secco
colpo di tosse dal lato del conducente. Lasciammo cadere l’argomento, senza che
nessuno avesse voglia di riprenderlo, men che meno io.
«Beh, è una pista come un’altra, anche se sarei più contento se si trattasse di
una zona più piccola.» Liam guardò verso di me. «Grazie, Ruby Tuesday.»
Una sensazione di calore, tutt’altro che spiacevole, mi pervase. «Figurati.» E
se mi sbaglio… Lasciai che il pensiero rimanesse sospeso. Era una buona pista.
Dopo aver dato un ultimo sguardo al vicolo per assicurarsi che la via fosse
libera, Liam ripiegò la mappa e la ripose nel portaoggetti. Betty si risvegliò con
un ruggito sordo.
«Dove andiamo?» chiese Ciccio.
«Conosco un posto», rispose Liam alzando le spalle. «Un posto dove sono già
stato. Non dovremmo metterci più di tanto, magari un paio d’ore. Se mi perdo,
però, uno di voi due autoctoni dovrà farsi avanti e aiutarmi.»
Era passato molto tempo da quando qualcuno mi aveva chiamata così, come
se avessi una casa. Era vero, ero nata lì, ma Thurmond era stata casa mia per
quasi metà della mia vita. Le sue mura grigie e i pavimenti di cemento avevano
cancellato quasi ogni ricordo della casa dei miei genitori, portandomi via i
dettagli più piccoli – il profumo dei biscotti al miele di mia madre, la posizione
delle foto sul muro accanto alla scala – prima di divorare anche quelli più grandi.
Mi domandavo, nelle notti in cui la baracca era abbastanza silenziosa da
permettermi di pensare, quando mi sarebbe venuto il desiderio di tornare a casa.
Se la casa, nel mio cuore, dovesse essere il posto in cui ero nata o quello in cui
venivo cresciuta. Se mi sarebbe stato concesso di scegliere, o se qualcuno avesse
già scelto per me.
La verità era che, quando guardavo il mio riflesso nel finestrino, non trovavo
traccia della Ruby che aveva vissuto nella casetta bianca in fondo alla via, con le
dita appiccicose di miele e i capelli che sfuggivano alla treccia. E ciò, in qualche
modo, mi faceva sentire vuota, come se mi fossi scordata le parole della mia
canzone preferita.
Quella ragazza era scomparsa per sempre, e quello che ne rimaneva era il
prodotto del luogo che le aveva insegnato a temere tutto ciò che di luminoso
aveva nel cuore.

Oltrepassammo un’uscita dopo l’altra in direzione di Harrisonburg e le svolte


per la James Madison University. Percorrere una delle principali autostrade
senza nient’altro che la speranza che nessuno ci fermasse non era esattamente la
mia idea di divertimento, ma sembrava valere la pena di correre il rischio,
almeno per il panorama.
Amavo la Shenandoah Valley, ogni centimetro della sua meravigliosa distesa.
Quando ero piccola, i miei genitori a volte mi facevano uscire prima da scuola
per un lungo weekend in campeggio, o a fare trekking. Non mi portavo mai libri
o videogame per il tragitto in auto: non ne avevo bisogno. Mi limitavo a
guardare fuori dal finestrino e godermi ogni dettaglio.
Avete presente nei film, specialmente quelli ambientati nel passato, quando
l’inquadratura si blocca sui protagonisti con lo sguardo perso nella foresta,
oppure oltre il fiume, e il sole batte sulle foglie con un angolo perfetto, e la
musica comincia a crescere? Mi sentii esattamente così quando entrammo nella
Shenandoah Valley.
Finché non vidi per la prima volta la foschia azzurra che circondava le
montagne, leggera come cotone, non mi resi veramente conto che eravamo in
West Virginia. Che, se avessimo continuato sull’autostrada, in meno di due ore
saremmo arrivati dai miei genitori a Salem. Due ore. Non sapevo nemmeno io
come sentirmi.
Liam gemette, indicando il cartello di deviazione poco oltre: 81 CHIUSA TRA HARRISONBURG E

.
STAUNTON. USARE STRADE STATALI

Alle nove del mattino ci eravamo finalmente addentrati in Harrisonburg, alla


ricerca del suo battito vitale. Qua e là vedemmo ristoranti che aprivano i battenti.
Oltrepassammo un paio di persone di una certa età in bicicletta, in equilibrio
precario sulle due ruote con le loro borse o ventiquattrore, le teste chine sul
marciapiede. Al nostro passaggio, non alzarono nemmeno lo sguardo.
Nessuno studente universitario. Almeno, nessuno che riuscissi a individuare.
Ciccio sospirò, appoggiando la fronte al finestrino.
«Tutto bene, amico?» chiese Liam. «Vuoi fermarti e respirare l’aria
accademica?»
«Che senso ha?» Ciccio scosse la testa. «È chiusa, come le altre.»
Mi voltai di scatto sul sedile. «Perché?»
«Per mancanza di studenti, principalmente. Se sei abbastanza grande da
andare al college, sei abbastanza grande da arruolarti. E, anche in caso contrario,
ormai la gente non se lo può più permettere.»
«È deprimente», mormorai.
«L’offerta è ancora valida», disse Liam. «Sai che mi fa piacere intrufolarmi in
un’aula per te, se hai bisogno di sederti su una di quelle minuscole seggioline e
fissare la lavagna per un po’. So quanto ti piace l’odore dei pennarelli
cancellabili.»
«Lo apprezzo molto», replicò Ciccio, ripiegando le mani in grembo. «Ma non
è necessario.»
Attraversammo una sorta di cancello in ferro battuto, ma era quasi impossibile
da vedere, intrappolato com’era sotto quella che sembrava una lacera coperta in
patchwork. Solo quando ci avvicinammo capii di cosa si trattasse in realtà:
centinaia, forse migliaia di fogli di carta legati o incollati alla recinzione o
infilati tra le sbarre sottili.
Liam rallentò, sollevando gli occhiali da sole per vedere meglio.
«Cosa dicono?» chiese Ciccio. «Non vedo…»
Zu abbassò la testa e chiuse gli occhi.
Erano avvisi di scomparsa, con i volti di bambini e adolescenti, fotografie,
cartelli le cui parole erano state cancellate dalla pioggia; il più grande era uno
striscione che diceva solo MATTEO 19:14. Penzolava storto, come se qualcuno avesse
provato a strapparlo e qualcun altro lo avesse riappeso in qualche modo. Il muro
di carta sbiadita fu scosso dalla folata di vento che investì la recinzione,
strappando alcuni dei fogli decrepiti e facendone svolazzare altri come ali di un
colibrì. E, dove c’era spazio, c’erano peluche e fiori e coperte e nastri.
No, pensai, non erano scomparsi. Quei ragazzi erano stati catturati, oppure se
n’erano davvero andati per sempre. Se i genitori e le famiglie continuavano a
cercarli, appendendo le loro foto, era perché li volevano riavere. Avevano
bisogno di loro.
«Dio.» La voce di Liam era affaticata. «Dove dicevano che si può riprendere
la 81?»
I frassini che crescevano ai lati della solitaria strada a una corsia stavano
iniziando a sbocciare nelle vesti primaverili, ma nella luce del pomeriggio le loro
ombre non avrebbero potuto essere più lugubri.
14

S nel sonno da qualche parte tra Staunton e Lexington, e mi svegliai appena


CIVOLAI

in tempo per godere di una vista perfetta sull’imponente capannone bianco di


Roanoke, il vecchio ipermercato della Virginia. L’insegna azzurra era ancora
appesa disperatamente a lato dell’edificio, ma era l’unico tratto riconoscibile del
centro commerciale. Diversi carrelli si muovevano senza direzione nel
parcheggio, portati di qua o di là dagli indecisi soffi di vento. A eccezione di un
paio di auto abbandonate e cassonetti verdi, l’enorme parcheggio era deserto.
Sullo sfondo del tramonto arancione del pomeriggio, sembrava che la Virginia
avesse già attraversato l’apocalisse.
Ed eravamo a un tiro di schioppo da Salem. Dieci minuti in auto. Il pensiero
mi fece contorcere lo stomaco.
Ancora una volta, Liam insisté per andare in avanscoperta da solo. Sentii il
guanto di gomma di Zu su un braccio e non ebbi bisogno di guardarla per sapere
che espressione avrei trovato sul suo viso. Nemmeno lei voleva che Liam si
avventurasse da solo in quel luogo infernale, proprio come me.
È per questo che sei rimasta, mi ripetei. Per prenderti cura di loro. E, in quel
momento, la persona che aveva più bisogno di me era quella che si stava
allontanando.
Saltai giù da Betty, stringendo la maniglia della portiera.
«Suona il clacson tre volte se ci sono problemi», dissi prima di chiuderla.
Liam doveva avermi sentito, perché si fermò ad aspettarmi, appoggiato a una fila
di carrelli arrugginiti.
«C’è modo di convincerti a rimanere a bordo di Betty?»
«Neanche per sogno», risposi. «Andiamo.»
Si avviò dietro di me, con i pugni affondati nelle tasche. Non vedevo i suoi
occhi, ma il modo in cui si ingobbì avvicinandosi alle porte distrutte la diceva
lunga.
«Mi hai chiesto prima come facevo a conoscere questo posto…» disse quando
fummo a ridosso dell’ingresso.
«No, no, tranquillo. So, non sono affari miei.»
«Verde», disse Liam. «Va bene. È solo che non so da dove cominciare. Sai che
Ciccio e io vivevamo entrambi alla macchia? Beh, non è stato esattamente
piacevole per nessuno dei due. Almeno, lui ha potuto vivere nella baita dei nonni
in Pennsylvania.»
«Ah, ma tu hai avuto il piacere di fare il nido in questo nobile esercizio
commerciale americano.»
«Tra gli altri posti», confermò lui. «Io… non amo parlare di quel periodo
davanti a Zu. Non voglio che pensi che anche la sua vita sarà così d’ora in poi.»
«Ma non puoi mentirle», obiettai. «So che non vuoi spaventarla, ma non puoi
fingere che la sua vita non sarà dura. Non è giusto.»
«Non è giusto?» ripeté lui con un respiro secco, chiudendo gli occhi.
Quando tornò a parlare, la sua voce aveva ripreso il solito tono morbido. «Non
importa, lascia stare.»
«Ehi», dissi, prendendogli un braccio. «Capisco, sai? Sono dalla tua parte. Ma
non puoi far finta che sarà tutto facile. Non farle questo, non illuderla per poi
schiacciarla con la verità. Nel campo con me c’erano migliaia di ragazzi che
pensavano che mamma e papà sarebbero sempre stati lì a proteggerli e loro…
noi… ne usciremo con danni seri.»
«Ehi, aspetta un attimo.» Ogni traccia di rabbia era ormai sparita dalla sua
voce. «Tu non sei affatto danneggiata.»
Su quello, avrei potuto protestare fino a diventare livida in viso.
Chiunque avesse rimosso le porte scorrevoli in vetro del supermercato non
aveva certo trovato un buon posto per riporle. Il pavimento di cemento era
coperto da schegge di vetro, scagliate a metri di distanza dagli stipiti di metallo
nero. Le calpestammo attraversandone le forme contorte, ed entrammo nel
piccolo spazio di accoglienza.
Liam scivolò sulla polvere giallastra che si era accumulata sul pavimento.
Allungai un braccio a sostenerlo, e lui mugugnò per la sorpresa. Persino mentre
lo aiutavo a raddrizzarsi, non alzò gli occhi da terra, dove una decina di impronte
si allargavano nella polvere. Ogni forma e misura, dal disegno acuminato di uno
scarponcino da trekking da uomo alle curve decorative lasciate dalla scarpa da
ginnastica di un bambino piccolo, tutte nitide come biscotti appena ritagliati
nella pasta fresca.
«Potrebbero essere vecchie», sussurrai.
Liam annuì, ma non si allontanò dal mio fianco. Non avevo convinto nessuno
dei due.
L’elettricità era stata sospesa tempo addietro, ed era chiaro che l’interno fosse
rimasto esposto agli elementi fin troppo a lungo. Bastò un secondo perché
sentissimo il crepitio sugli scaffali vicini. Liam saltò davanti a me.
«È solo…» esordii, ma lui mi zittì con un cenno del capo. Rimanemmo in
attesa, a osservare gli scaffali.
E quando il cervo, uno stupendo e dolcissimo esemplare dal manto setoso
color caramello e dai grandi occhi neri, sbucò trotterellando da dietro un
espositore di riviste rovesciato, Liam e io ci guardammo e scoppiammo in una
risata tremolante.
Liam si premette un dito sulle labbra e mi fece segno di avanzare, tenendo gli
occhi fissi sulla flotta buia di registratori di cassa davanti a noi. Qualcuno aveva
preso i carrelli e aveva provato a incastrarli tra le casse, per creare una sorta di
muro fortificato contro i visitatori non graditi.
Con cautela, senza muovere la pila di cestini di plastica, ci arrampicammo
oltre il nastro trasportatore della cassa più vicina. Salendoci sopra, vidi che altri
scaffali avevano sbarrato la seconda uscita. Sembrava che qualcosa di enorme vi
si fosse ficcato in mezzo, abbattendo quella barricata improvvisata.
Cos’era stato?
Credo che ci sia qualcosa dentro ognuno di noi, Psi o meno, in grado di
percepire i ricordi di un luogo. I sentimenti molto forti, specialmente il terrore e
la disperazione, lasciano un’impronta nell’aria che continua a echeggiare per chi
è così sfortunato da dover attraversare di nuovo quel luogo. Sembrava che
l’oscurità mi accarezzasse il mento con un dito invitante, sussurrandomi di
chinarmi in avanti e scoprire i suoi segreti.
Qui è accaduto qualcosa di terribile, pensai, sentendo una goccia gelida
scendermi lungo la schiena. Il vento fischiò tra le porte infrante, producendo un
canto stridente che mi fece rizzare i capelli.
Volevo andarmene. Quello non era un posto sicuro, non era un posto in cui
portare Ciccio o Zu; e allora perché Liam proseguiva? Sopra le nostre teste, le
luci di emergenza si accendevano e si spegnevano, ronzando come mosche in
trappola. Proiettavano su ogni cosa una luce verdognola. Liam si inoltrava
sempre di più lungo il primo corridoio, e l’oscurità che lo attendeva in fondo
pareva pronta a ingoiarlo in un boccone.
Corsi in avanti nel mare di scaffali di metallo vuoti, la metà dei quali era
caduta all’indietro o si appoggiava obliquamente agli altri, cedendo sotto
qualche peso invisibile. Le mie scarpe scricchiolarono mentre mi muovevo nella
marea di creme, collutori e smalti sparsi a terra. Cose che in passato erano
sembrate indispensabili, quasi vitali, erano sprecate e dimenticate.
Quando raggiunsi Liam, strinsi le dita intorno al cuoio morbido della sua
manica. Al minimo tocco, si voltò, gli occhi azzurri accesi di sorpresa. Feci un
passo indietro e ritrassi la mano, scioccata da me stessa. Mi era sembrato un
gesto naturale, non stavo pensando a nulla, avevo solo provato un desiderio
intenso e reale di essere vicina a lui.
«Credo che dovremmo andarcene», sussurrai. «Qualcosa, qui, non mi sembra
a posto.» E non aveva niente a che fare con le strane grida del vento, o con gli
uccelli intrappolati nel vecchio negozio.
«Va tutto bene.» Mi dava le spalle, ma aveva tirato fuori dalla tasca la mano e
la tendeva all’indietro verso di me nell’oscurità. Non sapevo se intendesse dirmi
di andare avanti, o volesse che la afferrassi, ma non riuscii a fare nessuna delle
due cose.
Proseguimmo fianco a fianco verso l’angolo destro del negozio; sembrava che
quel settore, con gli attrezzi e le lampadine, non fosse stato saccheggiato, o
quantomeno non fosse parso così utile alle persone che avevano ripulito gli altri
scaffali.
Capii immediatamente dove fossimo diretti. Qualcuno aveva creato una sorta
di accampamento, usando materassini gonfiabili da piscina come letti. Sopra una
borsa frigo erano impilate alcune scatole vuote di cracker e di dolci, sulle quali
erano appoggiate una radiolina senza fili e una torcia da campeggio.
«Wow, non ci posso credere. È ancora qui.» Liam era un passo dietro di me,
con le braccia conserte. Seguii il suo sguardo lungo le decine di crepe tra le
piastrelle bianche. Bastarono quasi a distrarmi dal vecchio puzzle di macchie di
sangue sotto i suoi piedi. Schiusi le labbra.
«È vecchio», disse Liam, velocemente, come se fosse sufficiente a farmi
sentire meglio. Mi tese una mano con un sorriso forzato. Rilasciai il respiro che
stavo trattenendo e la strinsi.
Nell’istante in cui le nostre mani si sfiorarono, lo vidi.
La luce d’emergenza su quella sezione del muro posteriore tornò ad
accendersi a piena potenza come un faro, e illuminò l’enorme Ψ nera che vi era
dipinta, insieme a un messaggio molto chiaro: .
FUORI DI QUI SUBITO

Le lettere, spesse e diseguali, sembravano piangere. La luce crepitò e si spense


con uno schiocco, ma comunque mi lanciai in avanti, lasciando la presa di Liam
e dirigendomi verso il messaggio dipinto a bomboletta. Perché quell’odore… il
modo in cui le parole colavano… Premetti le dita sul simbolo Psi e le ritrassi
appiccicose. Nere.
La vernice era fresca.
Liam mi aveva appena raggiunta quando sentii una stranissima sensazione,
come se il centro di me stesse bruciando. Abbassai lo sguardo, aspettandomi di
vedere una scintilla accendersi sul vestito ridicolo che Zu mi aveva regalato, poi
caddi, e Liam cadde addosso a me. Stesi, come se fossimo due margheritine
sbucate tra le crepe delle piastrelle.
La spalla di Liam mi colpì in pieno petto, e restammo entrambi senza fiato.
Tentai di alzare la testa per vedere cosa stesse succedendo, ma un peso – una
sorta di solida, invisibile lastra di pietra – mi teneva sdraiata sulla schiena, e
Liam sopra di me.
Il pavimento era gelato, ma ero concentrata solo sulla pressione della sua
spalla sulla mia guancia. Avevamo le mani intrappolate tra i nostri corpi, e per
un momento ebbi la sensazione di non sapere dove finisse l’uno e iniziasse
l’altro. Lo sentii deglutire, e il cuore gli batteva in gola così vicino che sentii
anche quello.
Liam tentò di sollevare la testa, contraendo i forti muscoli dorsali.
«Ehi!» gridò. «Chi c’è là?»
L’unica risposta fu un’altra spinta di mani invisibili. Improvvisamente fummo
trascinati a terra, e il suo giubbotto di pelle stridette sul pavimento polveroso.
Vidi le luci di emergenza oltre la sua testa scorrere a velocità vertiginosa,
fondendosi in un unico raggio. Una risata scrosciante ci inseguì lungo le corsie:
sembrava provenire da sopra di noi, sotto di noi, da destra e da sinistra. Con la
coda dell’occhio scorsi una sagoma scura, ma pareva più un mostro che una
persona.
Passammo attraverso frammenti di tende da doccia strappate, creme per il
corpo, candeggina, fino alla fila di registratori di cassa sul davanti del negozio.
«Smettetela!» urlò Liam. «Siamo…»
Ci sono suoni che si sentono una volta e non si dimenticano più. Un osso che
si spezza. La canzoncina del carretto dei gelati. Lo strappo del velcro. Una
pistola a cui viene tolta la sicura.
No, pensai. Non qui, non ora!
Scivolammo fino a fermarci dolorosamente contro le casse; l’impatto rubò
ogni sensazione al mio corpo. Ci fu un solo istante di terribile silenzio prima che
le luci del negozio, defunte poco prima, si accendessero tutte insieme. Poi
partirono anche i registratori di cassa, i nastri trasportatori si mossero con un
sussulto: prima uno, poi tutti gli altri, di seguito, rispondendo all’ordine come
soldati. I numeri luminosi sopra ogni corsia si accesero di giallo e poi di blu,
come dei segnali d’allarme, più veloci di quanto i miei occhi riuscissero a
vedere.
Dapprima pensai che fosse Rumore Bianco: a un tratto, gli allarmi, il sistema
di annunci e tutti i televisori in esposizione si accesero, rovesciandoci addosso
l’urlo di cento voci diverse. Una dopo l’altra anche le plafoniere sul soffitto si
accesero, inondate di elettricità dopo anni di esistenza vuota, come vene cave e
polverose.
Liam e io ci voltammo e vedemmo Zu con le mani nude aperte e dirette verso
uno dei registratori di cassa. Ciccio era accanto a lei, con il viso cereo. Pochi
secondi dopo l’iniezione di elettricità di Zu, le luci sopra le casse esplosero come
tanti petardi, facendo cadere una pioggia di scintille blu e bianche e di schegge
di vetro.
Credo che volesse solo creare un diversivo; un lampo e un’esplosione per
distrarre chi ci aveva attaccati quanto bastava a permetterci la fuga. Con la coda
dell’occhio, la vidi gesticolare verso di noi, ma la macchina che si trovava sotto
la sua mano si era scaldata al punto da diventare incandescente. La presa
invisibile su di me scomparve all’improvviso, ma la paura mi fece rimanere
immobile come un cadavere. Zu non mollava la presa. Liam e io dovevamo aver
avuto la stessa idea – la stessa paura bruciante – perché balzammo in piedi,
urlandole di smettere.
«Spegnetela!» qualcuno riuscì a urlare al di sopra delle sirene d’allarme.
«Zu, molla la presa!» Liam inciampò nei flaconi di crema solare e spray
antizanzare di una vetrinetta. Alzò le braccia, pronto ad allontanare Zu con le
proprie abilità, ma Ciccio fu più veloce: strappò il guanto dall’altra mano di Zu e
se lo infilò, per poi allontanarle bruscamente il braccio dalla superficie di
metallo.
Le luci si spensero. Un attimo prima che le lampadine sopra di noi
esplodessero, vidi il viso di Zu emergere da quella sorta di trance in cui era
precipitata. I suoi grandi occhi erano cerchiati di rosso, i capelli corti tutti dritti e
le lentiggini risaltavano sul viso ovale. L’oscurità improvvisa diede a Liam
l’opportunità di far cadere a terra sia lei sia Ciccio.
Poi, come un piccolo miracolo, le luci d’emergenza tornarono ad accendersi.
Il primo segnale di movimento non provenne da noi. Ormai, vedevo
chiaramente i nostri assalitori arrampicarsi oltre le pile sbilenche di mensole
bianche. Erano quattro, ciascuno vestito a strati di abiti neri, ciascuno con una
pistola puntata su di noi. Il mio primo istinto, come sempre quando vedevo
qualcuno in uniforme nera, fu di scappare. Di afferrare gli altri e filarmela.
Ma questi non erano FSP. Non erano nemmeno adulti.
Erano ragazzi, come noi.
15

Q si avvicinarono, vidi che i loro abiti scuri non erano coordinati e avevano
UANDO

la faccia sporca, gambe e braccia magre e guance scavate, come se fossero


cresciuti tanto in poco tempo.
Tutti maschi, tutti più o meno della mia età.
Tutti facili da battere, se ce ne fosse stato bisogno.
«Per la miseria», borbottò quello più vicino a me, scuotendo una massa di
capelli rossi. «Te l’avevo detto che avremmo dovuto controllare prima il
minivan.»
La testa bionda di Liam sbucò da quel caos.
«Che diavolo credevate di fare, idioti?» ringhiò. Ci fu un altro rumore, come
un gattino che miagolava. O una bambina che piangeva.
Mi arrampicai sopra una cassa di DVD in offerta per raggiungerli. Zu era
seduta per terra con il palmo della mano rivolto verso gli occhi stretti di Ciccio.
Senza quegli occhiali appollaiati sul naso, sembrava un’altra persona. «Sta
bene», disse. «Niente bruciature.»
Liam apparve improvvisamente al mio fianco e si appoggiò alla mia spalla per
tenersi in equilibrio mentre scavalcava uno degli scaffali rovesciati.
«Tu stai bene?» mi chiese.
«Sì. Arrabbiata. Tu?»
«Sì. Arrabbiato.»
Mentre tornavamo verso il gruppo di ragazzi, fui quasi sicura di doverlo
trattenere, ma la furia sembrava cadergli di dosso a ogni passo. Gli altri si erano
raggruppati dietro un espositore rovesciato di galleggianti da piscina
fluorescenti.
Il più alto, con una nuvola di capelli castani crespi che aleggiava intorno a un
collo sottile come una matita, fece un passo avanti agli altri: il rosso che aveva
parlato prima e due biondi dalle spalle larghe che sembravano fratelli.
«Guarda, amico, mi dispiace», disse.
«Fate sempre stupidaggini del genere?» sbottò Liam. «Aggredite le persone
senza nemmeno controllare se sono armate… se sono come voi?»
Il capo si indispettì. «Avreste potuto essere tracciatori.»
«Ed è stata la vostra Gialla che ha fatto tutto questo», intervenne il rosso
indicando gli scaffali. «Quella bambina ha bisogno di un guinzaglio.»
«Attento a come parli», scattò Liam. I fratelli biondi fecero un passo in avanti,
gli occhi accesi alla prospettiva di una sfida. «Non sarebbe andata nel panico se
non ci aveste puntato addosso le pistole.»
«Non avremmo avuto bisogno di usarle se voi aveste ascoltato il nostro
avvertimento là dietro e ve ne foste andati.»
«Perché ci avete dato il tempo necessario per andarcene, vero?» sibilò Liam.
«Sentite, potremmo continuare a discutere all’infinito e non risolveremmo
niente», mi intromisi. «Speravamo di passare la notte qui, ma se lo considerate
territorio vostro o che ne so, allora ce ne andiamo. È l’unico motivo per cui
siamo venuti: per cercare riparo.»
«Per cercare riparo», ripeté il capo.
«Oh, scusa, farfuglio?»
«No, ma mi sanguinano ancora le orecchie per la crisi di nervi della vostra
Gialla», ringhiò. «Forse dovresti ripeterlo, tesoro, per sicurezza.»
Liam alzò un braccio di scatto, bloccandomi prima che potessi imboccare il
sentiero di guerra.
«Vogliamo solo passare una notte qui. Non cerchiamo rogne», disse, con voce
piatta.
Il capo mi guardò dall’alto in basso, soffermandosi sulle mie mani chiuse a
pugno sui fianchi, che facevano arricciare il vestito.
«Mi sa che le avete già trovate.»

Il suo nome era Greg e veniva da Mechanicsville, in Virginia. Il ragazzo


nervoso dai capelli rossi si rifiutò di presentarsi, ma gli altri lo chiamavano
Collins. Sentii che veniva da qualche parte della Pennsylvania, ma quello fu il
massimo che fosse disposto a condividere. I due biondi – che erano, come avevo
immaginato, fratelli – si chiamavano Kyle e Kevin. L’unica cosa che quel gruppo
raffazzonato avesse in comune, al di fuori della scorta di cibo e un inquietante
mucchio di armi da fuoco e coltelli, era il campo di New York in cui erano stati
rinchiusi, che avevano amorevolmente ribattezzato «Buco del culo di Satana».
Raccontarono la storia drammaticissima – e altamente improbabile – della
loro fuga dalle FSP mentre condividevamo una cena a base di snack alla frutta,
Pringles vecchie e merendine.
«Fammi capire bene», disse Ciccio, chiaramente incredulo. «Vi stavano
spostando da un campo a un altro?»
Greg appoggiò la schiena a una delle porte di vetro del banco frigo. «Non ci
stavano portando in un altro campo: hanno raggruppato quanti più ragazzini
potevano e ci hanno detto che ci avrebbero portati in un centro diagnostico nel
Maryland.»
«Solo maschi?» chiese Ciccio.
«Ragazze non ce n’erano.» La voce di Greg era carica di delusione, e ciò
spiegava molte cose, specialmente il perché continuasse a gravitarmi intorno
nonostante io continuassi a ritrarmi. «Altrimenti, sono sicuro che avrebbero
caricato anche loro.»
«Mi stupisce che vi abbiano rivelato così tanto», dissi, tentando di riportare la
conversazione sul giusto binario. «Pensi che vi stessero davvero portando lì?»
«No», si intromise Collins. «Era chiaro che avessero ricevuto l’ordine di farci
fuori.»
«E un temporale ha allagato la strada, facendo rovesciare l’autobus e
permettendovi di fuggire?»
Quella parte della storia creava qualche problema anche a me. Era stato
davvero così facile, per loro? Un semplice intervento di Madre Natura ed erano
in salvo, navigando verso la libertà e una nuova vita come in un episodio della
Bibbia? E che fine aveva fatto la pattuglia di FSP che viaggiava con loro?
«Da allora siamo rimasti nascosti. Ci sono voluti sei mesi per far sapere a mio
padre che ero sano e salvo, e altri tre per avere una risposta da lui.»
Ciccio si chinò verso di lui. «E di preciso come hai fatto a contattarlo? Con
internet?»
«Nah, figurati», rispose Greg. «Dopo quella faccenda dei terroristi non si può
più nemmeno cercare una ricetta online senza che le FSP vengano a ficcanasare
e a buttarti giù la porta. Non aspettano altro che la parvenza di un sospetto.»
«Quali terroristi?» chiesi.
«La Lega», disse Ciccio. «Non ti ricordi… ah.»
Sembrò accorgersi di aver fatto un errore un secondo troppo tardi e, con più
pazienza di quanta credevo ne possedesse, spiegò: «Tre anni fa, la Lega ha
hackerato il database Psi del governo e ha tentato di postare online le
informazioni sui campi per farle vedere a tutti. Altri gruppi hanno seguito
l’esempio e deciso di hackerare le banche, la Borsa, il Dipartimento di Stato…»
«E quindi c’è stata una rappresaglia?»
«Esatto. La maggior parte dei social media sono spariti, e tutti i servizi di
email sono obbligati a monitorare i messaggi inviati sui loro server.» Si voltò
verso gli altri ragazzi, che mi stavano fissando con varie gradazioni di interesse e
curiosità. Credo che Kevin – o era Kyle? – non mi avesse tolto gli occhi di dosso
nemmeno per un secondo da quando mi ero seduta. «E come, allora?»
«Facile», disse Greg, rivolgendomi una strizzatina d’occhio del tutto
superflua. «Abbiamo usato quel che restava. Ho messo un annuncio sul giornale
locale con un messaggio che solo mio fratello avrebbe capito.»
Non ebbi bisogno di guardarlo per sapere che Ciccio aveva stretto gli occhi.
Lo sentii irrigidirsi al mio fianco. «E chi ha pagato questo annuncio? I redattori
non te lo hanno certo pubblicato gratis, no?»
«No, è stato Slip Kid», rispose Greg. «Ha organizzato tutto lui al posto mio.»
Mi raddrizzai, calciando via le carte delle merendine.
«Sei stato davvero in contatto con Slip Kid?»
«Oh sì. È come… un dio», sussurrò Collins. «Ci ha radunati tutti. Ragazzini
da ogni parte del New England e del Sud. Ogni colore. Ragazzi più grandi, ma
anche bambini. Dicono che le FSP stanno alla larga dal suo regno nei boschi
perché hanno paura di lui. Che ha dato fuoco al proprio campo e ha ammazzato
tutte le FSP che hanno mandato a riprenderlo.»
«Chi è?» chiesi.
I quattro si scambiarono un sorriso, e le luci ballerine dei segnali di emergenza
resero la loro espressione ancora più compiaciuta.
«Cos’altro?» domandò Ciccio, bevendosi avidamente ogni informazione.
«Come ha fatto a spedire i soldi per l’annuncio? E com’è fatto East River, dove
si trova?»
Lanciai uno sguardo alle mie spalle, a Liam, appoggiato a un vecchio
contenitore di piatti pronti surgelati. Era rimasto stranamente silenzioso per tutto
il tempo, con le labbra strette e l’espressione impassibile.
«Sono organizzati bene a East River», disse Collins. «Ma se volete trovare
East River, dovete farlo da soli.»
«Così pare», disse Liam. «Ci sono molti ragazzi, lì?»
I quattro dovettero rifletterci. «Più di cento, ma non, tipo, migliaia», rispose
Greg. «Perché?»
Liam scosse la testa, ma fui sorpresa di vedere nel suo gesto una punta di
delusione. «Così, per sapere. La maggior parte di loro non è mai stata nei campi,
mi pare.»
«Alcuni.» Greg alzò le spalle. «E altri lo hanno trovato dopo essere sfuggiti
alla cattura da parte di tracciatori o di FSP.»
«E Slip Kid… lui non ha…» Liam sembrava incerto su come formulare la
domanda. «Non ha un piano per loro, vero? Qual è il suo obiettivo finale?»
Gli altri sembrarono stupiti dalla domanda quasi quanto me. Solo quando
Greg disse: «Nessun obiettivo finale. Solo sopravvivere, credo», mi resi conto
che non avevo mai riflettuto sul perché Liam volesse trovare Slip Kid. Avevo
dato per scontato che sia lui sia gli altri volessero trovarlo per tornare a casa e
consegnare la lettera di Jack; ma, se era davvero così, cosa aveva acceso il fuoco
negli occhi di Liam? Aveva infilato le mani nelle tasche del giubbotto, ma
scorgevo il loro profilo stretto a pugno.
«Che ne dite di darci qualche indicazione?»
«Beh, ecco.» Qualcosa cambiò nell’espressione di Greg; un sorriso subdolo
prese posto sul suo viso e appoggiò la mano libera sul mio piede. I fratelli, Kyle
e Kevin, non avevano detto una parola da quando ci eravamo seduti
nell’accampamento improvvisato tra i banchi frigo, ma in quel momento si
guardarono negli occhi con la stessa espressione saccente. Tentai di ingoiare la
repulsione che mi montava dentro.
«Sono certo che sarebbero felici di averti», disse Greg, facendo scorrere le
dita sulla mia scarpa per accarezzarmi la caviglia. Feci per spingerlo via e lui
aggiunse: «È in un gran bel posto, lungo la costa, ma non ci sono molte ragazze.
Farebbe loro bene qualcosa di… così carino su cui posare gli occhi».
Mosse di nuovo le dita, tracciando una linea lungo il mio polpaccio. «Dovresti
andarci. È meglio che farsi beccare da una delle tribù. C’è un gruppo di Blu che
sta nella zona di Norfolk: sono tremendi. Ti rubano i vestiti di dosso. C’è stata
una tribù di Gialli qui intorno per un po’, ma un ragazzino che era nel nostro
campo dice che le FSP li hanno catturati tutti.»
La faccenda delle tribù era una novità per me. Ragazzi che si univano e
vagavano per la campagna, tentando di evitare la cattura, prendendosi cura gli
uni degli altri: fantastico.
Il palmo caldo e carnoso di Greg continuò la salita fino ad agguantare il mio
ginocchio e stringerlo, e quello era il massimo che gli avrei concesso. Sentii un
pizzicore in fondo alla mente, un ronzio che si spinse persino oltre la mia rabbia,
e dovetti chiudere gli occhi per resistere al lampo di immagini che lo seguì.
Intravidi il giallo brillante di uno scuolabus che risaliva una stradina sterrata. Il
viso sfocato di una donna che muoveva le labbra in un canto silenzioso. Un falò
che si alzava verso il cielo notturno. I volti di Kevin e Kyle chini su quella che
sembrava una radiosveglia, nel mezzo di un negozio di elettronica distrutto; i
numeri sul display della radiosveglia salivano, ma non tenevano il tempo. Si
accesero di un verde elettrico nel buio: 310, 400, 460, 500, finché finalmente si
fermarono a…
Strinsi la mano a pugno tentando di staccarmi da Greg e dallo sciame setoso
dei suoi ricordi, ma Ciccio era già accanto a me. Si sporse oltre le mie gambe e
tirò via la mano di Greg, un dito alla volta, con uno sguardo di puro disprezzo.
Dal canto suo, Greg aveva solo un’espressione un po’ confusa, gli occhi vacui e
nessuna idea di cosa avessi appena fatto. Mi guardai intorno agitata, il cuore
incastrato da qualche parte tra il petto e la gola, ma nessuno sembrava essersi
accorto del mio scivolone. L’unico a muoversi fu Ciccio, che si avvicinò a me.
Maledizione, pensai, chiudendo di nuovo gli occhi. Alzai una mano e me la
premetti sulla fronte, come se potessi trattenere a forza le sue dita invisibili.
Troppo vicino. Ci ero andata troppo vicino.
«Come hai detto che si chiamava quel ragazzo, il Giallo che lavorava con noi
nelle cucine? Fred? Frank?» Collins si sdraiò sul sacco a pelo, piegando le mani
sul petto. «Felipe… Felipe Marino?»
Gli occhi di Greg ripresero vita e risalirono lungo le mie gambe, oltre al punto
che aveva raggiunto con le mani.
«Felipe?» intervenne Liam, come risvegliandosi da una trance. «Intendevi
Felipe Marco?»
«Lo conosci?»
Liam annuì. «Abbiamo viaggiato insieme per un po’.»
«Dev’essere stato prima che si facesse trovare qui», disse Greg. «È stato lui a
parlarci di questo posto. Ci ha detto che era stato qui con il suo amico… saresti
tu?»
«Già. Cosa gli è successo?» Liam si mise in ginocchio, infilandosi tra Greg e
me. «Ci hanno portati in campi separati.»
Greg alzò le spalle. «Era in uno dei primi gruppi che hanno portato nel
Maryland. Chi lo sa?»
Allora, anche nel loro campo i Gialli erano stati portati via. Dovevano averli
presi solo dai campi più grandi, non da quelli piccoli che avevano messo in piedi
più a ovest.
«Mi manca quel ragazzo. Era intelligente. Sapeva usare i suoi poteri…
almeno, meglio della tua cocca. Dovresti rimandarla indietro, per quel poco che
ti può servire.» Greg fece un cenno verso Zu, che sedeva dandoci le spalle e
completando le pagine di moltiplicazioni che Liam le aveva preparato.
Non avevo intenzione di sopportare oltre.
«Hai due secondi per dirmi che stavi scherzando», gli ordinai. «Altrimenti ti
do un pugno sul muso.»
«Fallo», sibilò Ciccio accanto a me.
Ma Liam mi posò una mano sulla spalla con fermezza, e mi tolse ogni
opportunità di dare seguito alla minaccia. Mantenne un’espressione passiva,
tranquilla, ma il respiro gli si bloccò in gola. Sfiorò le mie dita sul pavimento
con le sue. Sussultai al suo tocco, ma non riuscii a ritrarmi.
Greg alzò le mani. «Dico solo che c’è qualcosa che non va in lei. Non è come
gli altri, vero?» Si chinò in avanti. «È ritardata? Hanno fatto degli esperimenti
con lei?»
«È muta, non sorda», si intromise Liam in tono affabile. «E ti garantisco che è
almeno cinque volte più intelligente di noi sette messi insieme.»
«Non ne sono così sicuro», disse Ciccio. «Io sono…»
Liam lo zittì con uno sguardo, poi avvicinò le labbra al mio orecchio. «Porta
via Zu.»
Annuii, sfiorandogli le dita per comunicargli che avevo capito. Mi alzai da
terra con una spinta, sentendomi più calma. Raggiunsi Zu e le tesi la mano. Lei
alzò la sua senza neanche guardarmi, tendendosi ciecamente verso di me. Fissai
il guanto giallo macchiato di sporco e di nero e, nonostante quanto accaduto
pochi minuti prima, glielo strappai dalle dita. Non avrei saputo spiegare perché
lo avessi fatto; forse essere stata così vicina a Liam senza perdere il controllo mi
aveva resa scioccamente coraggiosa, o forse ero solo stufa della realtà che
l’aveva costretta a indossarli. Sapevo solo che il giorno in cui Zu avrebbe smesso
di indossarli non sarebbe arrivato mai troppo presto.
«Andiamo.» Le strinsi la mano. «Cose da ragazze.»
Il viso di Zu si illuminò, ma lei non sorrise.
«Non allontanatevi troppo», ci urlò dietro Liam.
«Non allontanatevi troppo», gli fecero il verso gli altri, poi scoppiarono a
ridere.
Zu fece una smorfia di disgusto.
«Capisco perfettamente», replicai, e la portai il più possibile lontano da loro.

Per i primi dieci minuti che passammo a girovagare per il negozio, Zu tornava
in continuazione con lo sguardo alle nostre dita intrecciate, come se non credesse
ai suoi occhi. Ogni tanto, una cassa di DVD che nessuno voleva o un espositore
di chincaglieria catturavano la sua attenzione, ma i suoi occhi scuri tornavano
sempre alle nostre mani unite che ondeggiavano tra noi. Avevamo appena
svoltato in una delle numerose corsie saccheggiate di prodotti per la pulizia
quando mi tirò il braccio.
«Cosa c’è che non va?» chiesi, calciando via una scopa abbandonata.
Indicò il guanto che facevo roteare con la mano libera.
Alzai le nostre mani. «Perché, questo non va bene?»
Buttò fuori il fiato che stava trattenendo come a sottolineare che non avevo
capito niente. Mi trascinò fino al lato opposto della corsia, dove lasciò la mia
mano per afferrare una scatola bianca dalla mensola. La aprì con fatica,
scartando il polistirolo all’interno e lanciandolo da parte per estrarre il tostapane
argentato, vecchio stile, che c’era dentro.
«Non credo che ne avremo bisogno», dissi, lentamente.
Mi rivolse uno sguardo che diceva chiaramente: Silenzio, per favore. Si sfilò
l’altro guanto e allargò tutte e dieci le dita ai lati del tostapane. Dopo un attimo,
chiuse gli occhi.
I cavi di metallo all’interno del tostapane si accesero di un rosso
incandescente. Il lungo cavo elettrico nero giaceva ai suoi piedi, scollegato. Il
piccolo elettrodomestico durò solo un altro minuto prima che le sue interiora
iniziassero a fondersi. Glielo feci posare al primo sbuffo di fumo.
Visto? sembrava voler dire. Adesso hai capito?
«Ma non puoi fare la stessa cosa a me», la rassicurai, prendendole di nuovo la
mano. «Non devi preoccuparti di farmi del male, perché non potresti mai.»
Quello che avrei dovuto dirle in realtà era: So come ci si sente. So cosa vuol
dire avere paura di ciò che sei a malapena in grado di controllare.
Mi ero costretta a smettere di pensare a ciò che avevo fatto al soldato FSP
sotto copertura. Non mi permisi di chiedermi se sarei stata in grado di farlo di
nuovo, per non parlare di provarci. Ma come avremmo mai potuto imparare a
controllarci, mi chiedevo, se non potevamo esercitarci? Se non potevamo testare
e forzare i nostri limiti?
«Vediamo di trovare qualcosa di utile», proposi, intrecciando di nuovo le dita
alle sue. Aspettai di sentire le sue stringersi intorno alle mie prima di condurla
lungo la corsia. «Che ne pensi…»
Non so nemmeno cosa volessi chiederle, ma non mi stava dando retta. Si
fermò così di colpo e strinse la mia mano così forte che mi fece inciampare.
Seguii con gli occhi la linea del suo braccio teso fino al reparto abiti e scarpe.
Più precisamente, al solitario abito rosa acceso che penzolava da un
attaccapanni.
Zu iniziò a correre, scattando lungo le corsie di prolunghe elettriche e secchi
per lavare il pavimento. Provai a starle dietro ma era come se un vento
improvviso l’avesse sollevata e la stesse spingendo in avanti.
Si fermò davanti all’attaccapanni. La osservai, affascinata, mentre tendeva una
mano per accarezzare la stoffa, solo per ritrarla all’ultimo secondo.
«Bellissimo», mormorai. Il vestito era stretto in vita e poi si allargava, con un
grande fiocco nel punto in cui il top smanicato si univa alla gonna a righe
bianche e rosa. Sembrava che Zu non desiderasse altro che tirarlo giù, stringerlo
al petto e affondare il viso nella stoffa lucida.
Mi venivano in mente un migliaio di cose che mi erano mancate mentre ero a
Thurmond, ma tra esse non figuravano i vestiti. L’aneddoto preferito di mio
padre, quello che amava raccontare agli estranei e con cui divertiva i parenti,
riguardava il giorno in cui lui e la mamma tentarono di infilarmene uno blu
quando avevo tre anni, per il suo compleanno. Siccome i bottoni erano troppo
piccoli e io non ci arrivavo, avevo strappato la stoffa leggera a mano, pezzo per
pezzo. Per il resto della festa ero andata in giro mostrando con orgoglio le mie
mutandine di Batman.
«Te lo vuoi provare?» chiesi.
Zu tornò a guardarmi e scosse la testa. Lasciò cadere le mani che teneva
sospese sopra l’attaccapanni di plastica; ci misi un attimo a capire cosa stesse
succedendo. Non pensava di meritarselo, pensava che fosse troppo bello, troppo
nuovo, troppo elegante. Sentii montare dentro di me un odio bruciante, ma non
sapevo a chi rivolgerlo. Ai suoi genitori, che l’avevano mandata via? Al campo
in cui era stata prigioniera? Alle FSP?
Con una mano sfilai il vestito dall’attaccapanni e con l’altra afferrai il braccio
di Zu. Sapevo che mi stava di nuovo fissando, con gli occhi scuri spalancati per
la confusione, ma, invece di spiegarmi – invece di costringerla a capire le parole
che volevo dirle – la condussi ai camerini al centro del reparto abbigliamento, le
ficcai il vestito tra le mani e le dissi di provarselo.
Fu come tentare di trascinare una barca in porto usando una cima sottile.
Glielo dovetti porgere diverse volte, e lei dapprima lo lasciò cadere a terra,
costringendomi a raccoglierlo. Non so se il suo desiderio ebbe finalmente la
meglio, o se fossi riuscita a sfinirla a dispetto della sua cautela, ma quando la
vidi riapparire da dietro la porta del camerino fui così sollevata che quasi mi misi
a piangere.
«Stai benissimo.» Le feci fare una piroetta, affinché potesse vedersi nello
specchio della saletta. Quando la convinsi a guardarsi, sentii le sue spalle
sobbalzare sotto le mie mani, vidi i suoi occhi spalancarsi e illuminarsi, solo per
spegnersi un attimo dopo. Iniziò a tirare la stoffa con le dita. Scuoteva la testa,
come a dire: No, non posso.
«Perché no?» le chiesi, facendola voltare in modo da poterla guardare negli
occhi. «Ti piace, giusto?»
Non alzò lo sguardo, ma annuì.
«E allora qual è il problema?» A quelle parole, lanciò una timida occhiata al
suo riflesso. Con le mani lisciava la stoffa della gonna, apparentemente senza
rendersene conto.
«Esatto», dissi. «Non c’è nessun problema. E adesso vediamo cos’altro
riusciamo a scovare.»
A quel punto, si mise in testa di trovare qualcosa per me. Non mi sorprese
scoprire che il reparto adulti era stato saccheggiato; la scelta sembrava limitata a
equipaggiamento da caccia e tute da lavoro. Dopo una lunga e paziente
spiegazione del perché non avessi bisogno di una camicia da notte in seta color
fiordaliso né di una gonna con una fantasia di margherite, Zu – con
un’espressione di esasperazione totale – accettò il fatto che avrei indossato solo
jeans e magliette.
Infine, indicò il reparto reggiseni, e una parte di me desiderò lasciarsi morire
sotto i mucchi di pigiami da bambino abbandonati. Le lettere e i numeri
sembravano caratteri cinesi: non ci capivo niente, e mi aspettavo quasi che Zu
scoppiasse a ridere quando le prime lacrime di frustrazione mi riempirono gli
occhi.
Non c’erano stati molti momenti in cui avessi pensato: Vorrei che mia madre
fosse qui. Ormai capivo che ciò che le avevo fatto non si sarebbe mai potuto
aggiustare. Non mi avrebbe mai più riconosciuta con un solo sguardo, e non
sarei mai stata in grado di pensare ad altro che all’espressione nei suoi occhi
quando mi vide quella mattina.
Era strano: i miei sentimenti per lei sembravano cambiare di minuto in
minuto. Se d’un tratto ricordavo la sensazione che provavo quando mi pettinava,
un attimo dopo ero furiosa perché mi aveva abbandonata. Perché non mi aveva
insegnato a essere a mio agio nella mia pelle, a comportarmi da ragazza come
avrei dovuto. Ma, d’altronde, di chi era la colpa?
Zu strinse le labbra, pensierosa, e osservò l’Everest di biancheria intima
davanti a noi. Prese un pezzo per ogni taglia, lanciandolo verso di me, finché
tutte e due scoppiammo a ridere senza motivo.
Finalmente, trovai qualcosa che mi andasse. Era difficile da capire; erano tutti
scomodi, con quei ferretti e le spalline. Mentre mi toglievo il vestito, Zu mise
insieme allegramente un completino che sembrava uscito da un catalogo: l’abito
rosa, dei leggings bianchi e un giubbotto di jeans di un paio di taglie troppo
grande per lei. Il resto delle cose che aveva preso fu infilato in uno zainetto a
fiori che presi per lei da una vetrinetta. Dopo che aveva trovato qualcosa per sé,
voleva andare fino in fondo e cercare anche qualcosa per i ragazzi.
Quando le trovai un paio di scarpe da ginnastica con i lacci rosa, mi gettò le
braccia intorno alla vita e mi strinse come se volesse trasmettermi la propria
gratitudine attraverso la pelle. E, anche se non fu particolarmente colpita dagli
stivaletti neri che scelsi per me nel reparto maschile, non mi costrinse a provare
delle ballerine con fiocchetti né décolleté dal tacco a spillo.
Zu stava piegando accuratamente la camicia che aveva scelto per Ciccio
quando mi ricordai di una cosa.
«Torno subito», le dissi. «Aspettami qui, okay?»
Ci misi qualche minuto a ritrovare la corsia giusta. Liam e io ci eravamo
passati così velocemente mentre tentavamo di raggiungere il fondo del negozio,
che non ero nemmeno sicura che non fossero solo frutto della mia
immaginazione. Invece eccoli lì, sopra i prodotti per la pulizia: un paio di guanti
di gomma rosa in mezzo a un mare di quelli gialli, più tradizionali.
«Ehi, Zu», la chiamai, tornando verso di lei. Li feci penzolare davanti a me e
aspettai che si girasse.
Rimase a bocca aperta. Era così affascinata dai nuovi guanti che teneva le
mani tese davanti a sé anche mentre camminava, come una principessa che
esamini la collezione di gioielli sulle dita e sui polsi. La guardai fare piroette e
riverenze nel suo vestito nuovo continuando a gironzolare per il negozio, mentre
con i piedi danzava sulle prove di quanto accaduto alle casse. Osservandola,
sentendo la stessa eccitazione gonfiarmi il petto, non mi rendevo conto
nemmeno io dei frammenti di vetro e dei monitor lampeggianti. Ripiegammo
nella penombra lungo il corridoio dei cosmetici, e riuscivo a malapena a
trattenere il sorriso.
Incontrammo Liam poco dopo, mentre Zu legava la treccia che mi aveva fatto
con un elastico coperto di glitter. Ero seduta sul pavimento, e lei sulla mensola
alle mie spalle come una specie di regina delle fate. «Magnifico!» esclamai,
quando mi mise uno specchio rotto davanti al viso. «Sei incredibile.»
La mia ricompensa fu di sentire le sue braccia, dalle ossa sottili come quelle di
un uccellino, stringersi intorno al mio collo. Mi voltai verso di lei perché volevo
che mi guardasse negli occhi e capisse che ero seria e sincera quando ripetei:
«Sei incredibile».
«Vi siete date da fare, vedo.»
Liam si appoggiò all’ultimo scaffale della corsia. Zu gli salterellò incontro,
raccogliendo le camicie e le calze che aveva scelto per lui.
«Grazie, oddio, Ciccio se la farà nei pantaloni quando vedrà questa roba!»
Posò una mano sulla testa di Zu. «Vi lascio sole per un attimo e voi due ripulite
il negozio. Ben fatto!»
Mi alzai da terra con una spinta, aiutandoli a raccogliere i vestiti e le provviste
che avevamo racimolato. Dopodiché iniziammo, lentamente e con riluttanza, a
tornare verso gli altri. Tutti e tre eravamo consapevoli che, una volta
abbandonato quel momento di pace, lo avremmo perso per sempre.
Zu era scattata in avanti di qualche passo quando Liam si voltò verso di me e
disse: «Grazie per quello che hai fatto. Mi fa piacere che tu abbia capito cosa
intendessi». Tirò scherzosamente la mia treccia. «Volevo solo fare qualche
domanda in più.»
«E non volevi che sentisse?» domandai indicando Zu con un cenno del capo.
Abbassò lo sguardo sui suoi piedi, e quando lo rialzò, aveva le orecchie rosse.
«Sì, ma anche… li stavi un po’ distraendo.»
«Cosa? Mi spiace se li ho minacciati o che ne so, ma…»
«No, li distraevi», ripeté. «Con… il tuo viso.»
«Oh.» Mi ripresi rapidamente. «Hai ottenuto qualcosa di buono?»
«I nomi di qualcuna delle tribù più amichevoli, un paio di città che sono in
isolamento per insurrezione, roba del genere. Volevo solo farmi un’idea di cosa
stesse accadendo in Virginia.»
«Intendevo su Slip Kid», dissi, forse un po’ troppo avidamente.
«Niente che non sapessimo già. A quanto pare, tutti devono fare una specie di
giuramento sacro di non rivelare altre informazioni. È ridicolo.»
«Davvero non hanno voluto dirti niente di più?»
Liam guardò a terra. «Greg ci ha fatto un’offerta… uno scambio… ma lo
abbiamo rifiutato.»
«Cosa voleva?» Cosa poteva avere tanto valore da non poterlo scambiare con
l’unica cosa in grado di riunirli alle loro famiglie? Black Betty?
«Non ha importanza», tagliò corto Liam. «Se ce l’hanno fatta quegli imbecilli,
sono sicuro che anche noi possiamo trovare East River. Prima o poi.»
«Già.» Feci una risatina. «Vero.»
Lo sbirciai mentre sollevava il mucchietto di vestiti e se lo posava sulla spalla,
senza mai distogliere lo sguardo da Zu che saltellava nella distesa di lattine e
vecchie riviste. Lanciai un’occhiata alla foto di una bionda star del cinema,
leggendo le parole stampate sotto il suo viso.
FINALMENTE RIVELA TUTTO

«Posso farti una domanda?»


«Certo», disse Liam.
«Perché stai cercando Slip Kid?» Sentii i suoi occhi su di me e sapevo quale
spiegazione stesse per tirare fuori. «Intendo, a parte aiutare Ciccio e Zu ad
arrivarci, e tentare di consegnare la lettera di Jack. È perché vuoi tornare a casa,
o…?»
«C’è un motivo particolare per cui lo vuoi sapere?» chiese con voce neutra.
Un tentativo.
«Le domande che facevi sul campo», spiegai. «Sembrava che stessi tentando
di capire qualcosa.»
Per lungo tempo Liam non parlò, finché vedemmo le tende che erano state
montate per la notte. E, anche a quel punto, non diede una risposta.
«E tu, perché vuoi trovare Slip Kid?»
«Perché voglio rivedere mia nonna.» Perché ho bisogno di capire come
controllare le mie abilità prima che distruggano tutto ciò che amo. «Ma non hai
risposto alla mia domanda.»
Zu si infilò nell’apertura della nostra tenda, e la lanterna all’interno illuminò il
viso felice di Ciccio. Quando gli porse gli abiti nuovi, lui la strinse in un enorme
abbraccio, talmente forte da sollevarla da terra.
«È lo stesso per me…» disse Liam. «Voglio solo tornare a casa.»
«E dov’è casa tua?»
«Vedi, è questa la cosa buffa. Un tempo era il North Carolina, ma ora non ne
sono più così sicuro.»
Rimanemmo a fissarci per un momento, piede contro piede, e, quando sollevò
l’apertura della tenda per permettermi di entrare, non potei fare a meno di
domandarmi se avesse smascherato la mia mezza verità con la stessa facilità con
cui io avevo smascherato la sua.
16

C volle un’ora, forse di più, prima che Liam si addormentasse abbastanza


I

profondamente da iniziare a russare. Dormiva sdraiato sulla schiena, con le mani


sulla morbida camicia. Il suo viso, che prima era apparso segnato da ombre
scure, sembrava di nuovo giovane. Poteva farsi passare per ventenne con
un’ombra di barba e la corporatura robusta, ma non poteva ingannare nessuno
quando si abbandonava al sonno.
Aveva il viso rivolto verso Zu, che dormiva tra noi sotto una montagna di
coperte, e che al momento era l’unica cosa che mi impediva di avvicinarmi a lui,
di infilare la mano sotto la sua, più grande, e scoprire cosa stesse sognando.
Ma la distanza fra noi aveva una ragione. L’immagine di un futuro in cui io
non esistevo più, in cui mi ero accidentalmente cancellata dai suoi ricordi,
tratteneva le mie mani ben ferme sotto le mie gambe e, una volta tanto, teneva
sotto controllo anche la mia mente.
Quando sentii Greg e i suoi amici muoversi nella tenda accanto alla nostra,
smisi finalmente di fingere di dormire. Dapprima era stato un mormorio
indistinto, ma con il passare dei minuti il volume delle loro voci si alzò. Alla
fine, accesero la lanterna settandola sulla potenza più bassa, quanto bastava
perché la vedessimo attraverso l’involucro verde della nostra tenda.
Scivolai fuori dal lato opposto della tenda, camminando in silenzio sul
cemento. Più mi avvicinavo, più i loro sussurri diventavano forti e animati.
«…loro», borbottò Greg. «Non gli dobbiamo un bel niente.»
Strinsi le mani lungo i fianchi, sentendo esplodere tutta l’ansia e la sfiducia
che erano cresciute dentro di me nelle ultime ore. Per un solo istante, mi pentii di
non aver portato con me lo zaino: dentro c’era ancora il pulsante di emergenza,
pronto per essere usato se la situazione avesse preso una brutta piega.
Stupida Ruby, pensai, stupida.
Non mi preoccupava l’idea di occuparmi di Greg e dei suoi amici. Anche se
avevano le pistole, saremmo riusciti scappare. Ma se avessero fatto qualcosa
mentre dormivamo, o se avessero chiamato rinforzi…
Il mio piede si fermò a mezz’aria. Ciccio mi aveva battuta sul tempo,
mettendosi di guardia.
Era seduto, con il viso rivolto alle tende e le lunghe gambe da ragno
incrociate, con sopra il quaderno di Zu. Era chino verso la tenda degli altri,
talmente concentrato sulla loro conversazione che non si accorse del mio arrivo;
quando mi vide, fece un salto.
«Zu?» domandò stringendo gli occhi.
«Zu?» sussurrai. «Sul serio?» Voglio dire, sul serio?
Gli tolsi dalle mani il quaderno e la matita di Zu e girai pagina senza
nemmeno guardare cosa stesse scrivendo.
scrissi. Lui fece una smorfia e rifiutò di rispondere quando tentai di
CHE STAI FACENDO?

rimettergli in mano la matita.


PENSI CHE TENTERANNO QUALCOSA?

Dopo una pausa, fece un sospiro e finalmente annuì.


scarabocchiai.
ANCH’IO, VIENI CON ME?

Dal modo in cui si ingobbì, sembrava pensare di non avere altra scelta. Si alzò
in fretta e in silenzio, pulendosi le mani sui pantaloni beige.
«Ho una brutta sensazione», disse quando ci fummo allontanati a sufficienza.
Potevamo tenere d’occhio le tende, ma da lì non potevano vedere noi. «Su di
loro.»
«Pensi che tenteranno di rapinarci?»
«In realtà, penso che tenteranno di prendere Betty.»
Ci fu una lunga pausa; sentii gli occhi di Ciccio posarsi su di me, ma i miei
erano fissi sulle tende, alla ricerca di segnali di pericolo.
«Dovresti tornare a dormire.» Il suo tono era burbero, e teneva le braccia
conserte. Ma c’era anche stato qualcosa nel modo in cui aveva parlato che mi
fece pensare che mi stesse mettendo alla prova per vedere cosa avrei risposto.
«Cosa ci fai in piedi, comunque?»
«Vale lo stesso per te», replicai. «Mi accerto che nessuno venga brutalmente
rapinato, picchiato, o assassinato nel sonno. Controllo se quei ragazzi sono
davvero stronzi come sembrano.»
Sbuffò, passandosi una mano sulla fronte.
Dopo un lungo silenzio, l’atmosfera tra noi si ammorbidì, passando da una
sorta di circospetta ostilità a qualcosa che somigliava alla tolleranza. Ciccio non
aveva più le spalle contratte per la tensione e, quando piegò la testa verso di me,
capii che quel gesto era un sottile invito, e mi avvicinai.
«Era già abbastanza brutto che dovesse tornare qui», borbottò, più a se stesso
che a me. «Dio…»
«Liam?» chiesi. «È qui che lui e i suoi amici sono stati catturati, vero?»
Ciccio annuì. «Non mi ha mai raccontato tutta la storia, ma penso che sia
andata così: lui e Felipe stavano viaggiando e si sono imbattuti in una tribù di
Blu. Invece di reclutarli, come Liam aveva sperato, la tribù li ha riempiti di botte
e ha rubato tutto: cibo, zaini, foto di famiglia, qualsiasi cosa. Sono venuti qui per
qualche giorno per riprendersi, ma erano in condizioni pessime e quando sono
arrivati i tracciatori non sono più riusciti a scappare.»
Mi si serrò la gola.
«Lee pensa che sia stata la tribù a chiamarli», continuò Ciccio. «Che si siano
intascati una parte della ricompensa.»
Non sapevo cosa dire. Il pensiero di un ragazzo, di uno qualunque di noi, che
si rivoltasse contro i propri simili mi faceva venire voglia di fracassare lo
scaffale su cui ci appoggiavamo fino a ridurlo a una pila di lamiere.
«Mi fido di Liam», dissi con calma. «È una brava persona; ma è troppo facile
da leggere, per gli altri, e non tutti hanno buone intenzioni.»
«Esatto», confermò Ciccio. «È troppo impegnato a guardare dentro le persone
per trovarvi qualcosa di buono, che non vede il coltello che tengono in mano.»
«E anche allora probabilmente darebbe la colpa a se stesso per aver permesso
che quella persona avesse un coltello, e si scuserebbe per essere stato un
bersaglio così allettante.»
Era quella la cosa che mi turbava di più a proposito di Liam: se fosse stato
appena più fiducioso, o di buon cuore, sarebbe stato un boy scout. Il fatto che
qualcuno che aveva visto così tanta morte e sofferenza continuasse ad avere una
tale fiducia incondizionata nella bontà della gente doveva essere un incredibile
atto di testardaggine, oppure di ingenuità, pensai. Era qualcosa che provocava in
me sia esasperazione sia un feroce istinto di protezione; e anche in Ciccio, a
quanto pareva.
«Penso che entrambi sappiamo che è tutt’altro che perfetto, per quanto si
impegni», disse Ciccio, sedendosi a terra e appoggiando la schiena allo scaffale
vuoto. «Non è mai stato un gran pensatore, quello lì. Fa sempre tutto di corsa,
seguendo ciò che gli dice l’istinto, e poi affoga nell’autocommiserazione quando
le cose gli esplodono in faccia.»
Annuii, giocherellando sovrappensiero con uno strappo nella manica della mia
camicia a quadri, che non avevo notato prima di prenderla. Dopo averlo sentito
parlare con Zu, sapevo che Liam si sentiva terribilmente in colpa per quanto
accaduto la notte dell’evasione, ma sembrava qualcosa di ancora più profondo.
«Posso aggiustartelo dopo», disse Ciccio indicando lo strappo. Con le lunghe
dita tamburellava sulle ginocchia. «Ricordamelo, però.»
«Chi ti ha insegnato a cucire, comunque?» A quanto pareva, non era la
domanda giusta. La sua schiena divenne rigida e dritta, come se gli avessi fatto
scivolare un cubetto di ghiaccio dentro la camicia.
«Non so cucire», scattò. «So suturare. Cucire serve a decorare; suturare serve
a salvare vite. Non lo faccio perché penso che sia carino o divertente: lo faccio
per esercitarmi.»
Mi fissò da sopra la montatura degli occhiali, in attesa di vedere se avessi
capito ciò che voleva dirmi.
«Mio padre mi ha insegnato a suturare prima che mi nascondessi», disse, alla
fine. «In caso di emergenza.»
«Tuo padre è un dottore?»
«È un chirurgo, un traumatologo.» Ciccio non si preoccupò di nascondere
l’orgoglio nella voce. «Uno dei migliori nella zona di Washington.»
«E tua mamma cosa fa?»
«Lavorava per il ministero della Difesa, ma è stata licenziata per aver rifiutato
di registrarmi nel database NIAA. Non so cosa stia facendo adesso.»
«Sembrano fantastici», commentai.
Lui sbuffò, ma era evidente che fosse compiaciuto.
I minuti si trascinarono e la conversazione scemò. Mi sorpresi a prendere il
quaderno di Zu e ad aprirlo. Le prime pagine erano per lo più disegni e
scarabocchi, ma ben presto lasciarono spazio a pagine su pagine di problemi di
matematica. La calligrafia di Liam era pulita e ordinata e, sorprendentemente,
anche quella di Zu.

Betty ha percorso centonovanta chilometri in tre ore. A che velocità


guidava Liam?
Hai cinque barrette di Snickers da dividere fra tre amici. Le tagli tutte a
metà. Come puoi dividere equamente gli avanzi in modo che Ciccio non si
lamenti?

Poi capitai su una pagina piena di una calligrafia completamente diversa,


caotica e disordinata. Le lettere erano più scure, come se l’autore avesse premuto
troppo sulla pagina.

Fuori da quanto già detto su questo romanzo, temo di non avere altro
da dire; sicuramente l’autore è un maestro in questo
campo. Dalla lista dei miei autori preferiti di sempre, di certo
non può mancare Jonathan Swift. Per quanto mi sforzi, non
posso non ammirare i suoi brillanti giochi di parole. È difficile
raggiungere tale arguzia intrecciando parodia e originalità, anche se la
casa dei Lillipuziani non è la parte migliore del romanzo. Ho notato,
forse, somiglianze con Robinson Crusoe, nel viaggio verso Lilliput.
Posso capire perché il libro sia stato letto con tale attenzione dagli studiosi.
Incontrarvi Gulliver quando è un giovane avventuroso, che tenta sempre e
comunque di partire, rende entusiasmante la sua evoluzione. Se dovessi
indicare la parte migliore del libro, sarebbe il mondo dei Lapuziani, un
luogo che vorrei visitare, perché anch’io ho spesso la testa tra le nuvole,
e pensare di avere come loro finalmente la possibilità, un
giorno, di studiare filosofia e matematica sarebbe un sogno. Però ci
sono stati momenti nel corso del libro in cui ho pensato che, pur scrivendo
al meglio delle proprie capacità, l’autore non sia riuscito di
sicuro a spiegare la propria visione di una società ideale. Se
vi piace la letteratura che fa riflettere o vi è capitato di pensare:
Voglio viaggiare per il mondo, un giorno, con la persona a cui voglio più
bene, mi sento di dire che questo libro fa davvero per voi.

«Mmm…» alzai la pagina per mostrargliela. «Questo è tuo?»


«Dammi qua», disse, con un’espressione di panico selvaggio. Non solo
panico: dal modo in cui aveva allargato le narici e gli tremavano le mani,
sembrava che lo avessi spaventato a morte. Fui invasa dal senso di colpa. Gli
passai il quaderno e lui strappò la pagina.
«Ehi, mi dispiace», mormorai, preoccupata per il suo colorito verdastro. «Non
intendevo fare niente di male. Mi chiedevo solo perché ti esercitassi a scrivere
saggi brevi se hai detto che non credi che potremo mai tornare a scuola.»
Continuò a fissarmi per diversi secondi, finché qualcosa cedette nella sua
espressione di pietra.
«Non mi sto esercitando per la scuola.» Invece di infilare il foglio dentro la
copertina, lo stese in mezzo a noi.
«Prima… prima del campo, i miei genitori pensavano che le FSP stessero
indagando su di loro, cosa che in effetti era vera. Mi hanno mandato nella baita
dei miei nonni per nascondermi, e… ti ricordi che ti avevo detto che internet era
controllato? Dovevamo trovare un modo per aggirarlo, specialmente quando
hanno iniziato a fare pressione sulla mamma al lavoro.»
Abbassai di nuovo lo sguardo sul foglio. «Quindi, hai iniziato a mandare
recensioni di libri?»
«Avevo un portatile e qualche coupon per la connessione Wi-Fi. Postavamo
recensioni online. Era l’unico modo che ci fosse venuto in mente per comunicare
senza essere scoperti.»
Si chinò, coprendo il foglio in modo che solo la prima colonna di parole fosse
visibile.

Fuori da campo non posso raggiungere casa forse posso incontrarvi


comunque indicare luogo e giorno sono al sicuro vi voglio bene.

«Oh.»
«Volevo scriverlo ora», disse Ciccio. «Se per caso riesco a connettermi, ma ho
solo qualche minuto di tempo.»
«Sei decisamente geniale», mormorai. «Tutta la tua famiglia lo è.»
Per tutta risposta, Ciccio sbuffò. Ovvio.
Avevo sulla punta della lingua la domanda che volevo davvero fargli, ma lui
tirò fuori dalla sua valigetta un mazzo di carte.
«Vuoi fare un paio di partite?» propose. «Ci tocca restare qui per un po’.»
«Certo… ma conosco solo briscola e rubamazzetto.»
Si schiarì la voce. «Non abbiamo il mazzo adatto per briscola e, purtroppo per
te, sono un asso a rubamazzetto. Ho vinto il torneo di rubamazzetto in quinta
elementare.»
Sorrisi, in attesa che distribuisse le carte. «Sei una star, Ciccio, una…» Fece
una smorfia al soprannome. «Non posso chiamarti in nessun altro modo se non
so qual è il tuo vero nome.»
«Charles», rispose. «Charles Carrington Meriwether IV, in realtà.»
Tentai di mantenere un’espressione più seria possibile. Era ovvio che avesse
un nome simile. «D’accordo, Charles. Charlie? Chuck? Chip?»
«Chip?»
«Non so, mi sembrava carino.»
«Chiamami Ciccio e basta. Tanto lo fanno tutti.»

Finalmente ci ero arrivata.


Dovevano essere le cinque e mezzo del mattino, molto dopo le numerose e
deliranti partite a carte e a sciarade influenzate da troppi dolci e troppo poco
riposo. Avevamo aspettato il segnale che avrebbe confermato i nostri sospetti
sugli altri ragazzi. Avevamo tenuto la mazza da baseball a portata di mano e non
avevamo mai, neanche per un secondo, voltato le spalle alle tende. Quando
finalmente lo sfinimento ci travolse, facemmo a turno a sdraiarci per terra,
rubando qualche minuto di sonno qua e là.
Presi di nuovo il quaderno di Zu per non farmi cullare nel sonno dal russare
cadenzato di Ciccio, e aggiunsi qualche stellina e qualche nuvola alla pagina di
scarabocchi. I fogli sventagliavano sotto le mie dita, e non le avrei fermate
finché avessi trovato quello che cercavo.
540.
Era davvero il prefisso di quella parte dello Stato, ne ero sicura.
La nonna aveva vissuto per un po’ dalle parti di Charlottesville, e avevo un
vago ricordo di me in piedi nella cucina dei miei genitori, intenta a fissare il
numero scritto su un taccuino accanto al telefono. Ma l’area che copriva non era
certo piccola, e comunque non c’era alcuna garanzia che si trattasse
effettivamente di un prefisso.
Era più facile riflettere in quel momento, senza tre paia di occhi ansiosi
puntati su di me, ma era reso più complicato dal fatto che ormai andavo avanti
per inerzia, visto che non dormivo da troppo tempo. Poiché avevo tempo da
perdere, decisi di rimettermi al lavoro, cambiandoli di posto, tentando di creare
anagrammi, sostituendo le lettere con altre. Una sensazione si fece strada
lentamente dentro di me, strisciando tra le zone più stanche e affollate del mio
cervello.
L’altro numero – 540 – dove l’avevo già visto? Come mai mi sembrava
che…?
Quando mi venne in mente, quasi scoppiai a ridere. Quasi.
Avevo visto il numero nei ricordi di Greg poche ore prima, acceso e luminoso
anche attraverso le nuvole più offuscate dei suoi pensieri.
Era 540 AM, una stazione radio.

Mi sentivo sul punto di esplodere per l’eccitazione, e per svegliare Ciccio non
mi bastò scuoterlo: gli saltai praticamente addosso, spaventandolo a morte e
dandogli una ginocchiata in un rene allo stesso tempo. Non so che verso avesse
fatto quando atterrai sopra di lui, ma ero quasi certa che non fosse del tutto
umano.
«Svegliati, svegliati, svegliati!» esclamai, tirandolo in piedi di mala grazia
nonostante le sue vigorose proteste. «Quando vi hanno detto EDO, hanno detto
anche qualcos’altro?»
«Verde, se domani cammino ancora, giuro su Dio che…»
«Ascoltami!» sibilai. «Penso che quel numero non abbia niente a che vedere
con un numero di telefono. Avevamo ragione prima. L’ultima lettera non è
affatto una lettera: dovrebbe essere uno zero. Cinque-quaranta. È una specie di
stazione radio.»
«Come diavolo sei arrivata a questa conclusione?»
Ah. Ecco la parte più delicata. Come potevo mascherare il fatto di aver
imbrogliato e aver visto la risposta, anziché essere abbastanza intelligente da
arrivarci da sola?
«Tentavo di pensare a qualcos’altro che usi numeri a tre cifre e mi sono
ricordata che li ho sentiti parlare – Greg e gli altri, intendo – del fatto che
avevano bisogno di trovare una radio qui dentro. Avrei dovuto dirvelo prima, ma
non mi è sembrato importante fino a questo momento.»
«Oh mio Dio.» Ciccio scuoteva la testa, un po’ stupito. «Non ci credo.
Abbiamo avuto talmente tanta iella durante tutto il viaggio che pensavo che
almeno due di noi sarebbero finiti morti stecchiti in un fosso prima che
riuscissimo a capirlo.»
«Ci serve una radio», dichiarai. «Penso di avere ragione, ma in caso
contrario… dobbiamo fare una prova prima di dirlo agli altri.»
«Betty?»
«No!» Non avevo intenzione di togliere la guardia alla tenda, nemmeno per un
quarto d’ora. «Credo di aver visto una radio nel retro; aspetta, vado a prenderla.»
Il negozio mi scorreva intorno come strisce scure di colori sbiaditi, ma ormai
non temevo più ciò che vi si poteva nascondere.
Non mi ero immaginata la radio, dopo tutto. La trovai in mezzo
all’accozzaglia di materassini e coperte che Liam e il suo amico avevano
assemblato l’ultima volta che erano stati lì. Quando tornai indietro, Ciccio
camminava su e giù tra gli scaffali. Posai l’aggeggio su una mensola ad altezza
occhi e iniziai a toccare i pulsanti, cercando quello di accensione.
Dovevo essere io ad accenderla, e ovviamente a giocare con la manopola del
volume, quando ci fece quasi esplodere i timpani con un’interferenza. Era una
radio antica, poco più di una scatola argentata e scalcagnata, ma funzionava.
Dalle casse uscirono voci, pubblicità, persino qualche vecchia canzone che
conoscevo.
«Dev’essere AM», disse Ciccio, prendendola in mano. «Le frequenze FM non
vanno oltre il 108 o giù di lì. Ci siamo…»
Il mio primo pensiero fu che Ciccio avesse sbagliato stazione. Non avevo mai
sentito un suono simile a quello che usciva tossicchiando dalle casse: un
profondo ringhio di elettricità statica, interrotto ogni tanto da quello che
sembrava un contenitore pieno di vetri rotti che veniva sbattuto di qua e di là.
Non era fastidioso come il Rumore Bianco, ma non era nemmeno piacevole.
Ma Ciccio continuava a sorridere.
«Sai cos’è questo?» chiese e, quando scossi la testa, fu fin troppo felice di
spiegarmi. «Hai mai sentito dire che ci sono certe frequenze e tonalità che solo i
ragazzi con un cervello Psi riescono a captare?»
Mi appoggiai con la mano allo scaffale per non cadere in avanti. Era vero. Me
lo aveva detto Cate, quando mi aveva spiegato che i controllori del campo
avevano inserito una certa frequenza nel Rumore Bianco per stanare tutti i casi
potenzialmente pericolosi che si nascondevano ancora tra le baracche.
«Non è tanto che gli altri non riescano a sentire il rumore, quanto che i loro
cervelli traducono i suoni in modo diverso dal nostro; una roba davvero
affascinante. Hanno fatto dei test a Caledonia, per vedere se c’erano tonalità che
solo certi colori captavano, e il suono era sempre uguale a questo quando non
riuscivamo…»
Non aveva ancora finito di parlare, che ci fu un altro click secco e il rumore si
interruppe del tutto, sostituito da una morbida voce maschile che sussurrava: «Se
riesci a sentire queste parole, sei uno di noi. Se sei uno di noi, puoi trovarci.
Lake Prince. Virginia».
Lo stesso messaggio, tre volte, poi un altro clic e il ritorno della frequenza che
avevamo sentito prima. Per lungo tempo, Ciccio e io non riuscimmo a far altro
che fissarci, senza parole.
«Oh mio Dio!» esclamò. «Oh mio Dio!» E poi lo ripetemmo insieme,
saltellando, gettandoci le braccia intorno al collo a vicenda come due idioti…
Come se tutte le occasioni in cui avremmo voluto prenderci a sberle più volte al
giorno per più giorni di fila non fossero mai esistite. Lo abbracciai senza alcun
timore o imbarazzo, con una scarica di emozione che quasi mi fece venire le
lacrime agli occhi.
«Potrei baciarti!» gridò Ciccio.
«Non ci provare!» esclamai, sentendo le sue braccia stringermi al punto di
farmi scricchiolare le costole.
Fu Liam a svegliarsi per primo, forse a causa del suo orologio interno o forse
per le urla di Ciccio. Con la coda dell’occhio scorsi la sua testa bionda arruffata
che faceva capolino dalla tenda. Guardò Ciccio e poi me e rientrò nella tenda,
riemergendone un secondo più tardi con uno sguardo a metà tra la confusione e
la preoccupazione.
«Cosa c’è che non va?» chiese. «Cosa succede?»
Ciccio e io ci guardammo con lo stesso identico sorriso stampato in faccia.
«Chiama Zu», dissi. «C’è una cosa che dovete sentire.»
17

S a Ciccio, Jack Fields era il secondo di cinque figli, e l’unico a essere


TANDO

sopravvissuto alla Neurodegenerazione Idiopatica Adolescenziale Acuta. Suo


padre aveva un ristorante italiano e sua madre era morta di cancro quando era
piccolo. Aveva un aspetto normale, il tipo di ragazzo che potresti incrociare in
corridoio a scuola senza nemmeno notarlo. Ma sotto sotto era in gamba, l’unico
nella loro camera che avesse la minima idea di cosa intendesse Liam quando
parlava di film horror giapponesi o di articoli tratti da vecchi numeri di Rolling
Stone. A quanto pareva, gli piaceva raccontare storie facendo voci strane e ci
aveva messo anni a intagliare una replica perfetta dello skyline di New York sul
retro di una lavagna nella vecchia aula in cui dormivano. Le FSP che erano di
servizio nella loro camera erano rimaste talmente colpite dal livello di dettaglio
del suo lavoro, che gli avevano permesso di portarlo a termine.
La cosa più importante, però, era che Jack si divertiva un mondo a stuzzicare
gli addetti alla sicurezza del campo usando le proprie abilità per rubare gli
oggetti che portavano appesi alla cintura o nelle tasche, oppure per gettar loro
qualcosa tra i piedi e farli inciampare e cadere davanti a tutti. A sentire Ciccio, si
poteva pensare che Jack Fields fosse un santo sceso in terra, un discepolo del
Fantastico, che predicava come utilizzare in modo corretto le abilità Blu dopo
aver impiegato anni a capirlo da solo.
Probabilmente fu per quello che le FSP spararono a lui per primo la notte in
cui i prigionieri tentarono di fuggire dal campo.
Liam rimase in silenzio mentre ci avvicinavamo ai confini della città di
Petersburg, annuendo solo ogni tanto per confermare che anche le parti più folli
del racconto di Ciccio erano vere. Subito si era emozionato quanto noi quando lo
trascinammo ad ascoltare la trasmissione radio ma lentamente, nel corso di
qualche ora, il suo umore era peggiorato. Quando Ciccio terminò il racconto,
ogni forma di conversazione nel minivan cessò.
«Sembra che sia bellissimo laggiù», dissi all’improvviso, poi trasalii per
quanto suonava forzato. «Intendo dire Lake Prince.»
Liam non sembrava stressato, ma profondamente triste. Era quello che mi
preoccupava: che stesse precipitando in qualcosa da cui nemmeno la nostra
scoperta poteva tirarlo fuori.
«Di sicuro hai ragione», replicò, piano. Mi porse la mappa piegata a metà.
«Puoi rimetterla nel portaoggetti?»
Di certo non le stavo cercando, ma quando aprii il piccolo scompartimento le
trovai appoggiate su un mucchietto di fazzoletti appallottolati. In realtà, mi sarei
aspettata di trovare delle buste, o almeno dei fogli a righe. Il che era sciocco,
perché nei campi non avevamo certo ore dedicate all’educazione artistica. Di
sicuro non gli avevano semplicemente consegnato penne e matite. Eppure mi
sarei aspettata che le lettere fossero più… pesanti. E che Liam e Ciccio avessero
con sé le proprie.
La lettera di Jack era in cima, a quanto pareva scritta al computer, e il foglio
era strappato a metà e ripiegato più volte. Era riuscito a infilare il nome di suo
padre in strette lettere maiuscole sul retro del foglio, tra le parole in grassetto: AREA

.
RISERVATA

Invece di ritirare la mappa, estrassi la lettera, solo vagamente consapevole del


dibattito tra Ciccio e Liam su quale fosse la strada più breve per Lake Prince.
Non pensavo a granché mentre facevo scivolare le dita sulla carta stropicciata,
aprendola e lisciandola. Nessuna data nell’angolo in alto a destra, solo un
affrettato, diretto «Caro papà».
Non riuscii a leggere nemmeno una parola in più. Liam si sporse verso di me e
mi strappò il foglio dalle mani, accartocciandolo un poco nel pugno.
«Cosa stai facendo?» domandò.
«Scusa, volevo solo…»
«Volevi solo cosa?» sbraitò, facendomi trasalire. «È personale! Non è affar tuo
quello che c’è scritto.»
«Lee…» disse Ciccio, e dalla voce sembrava sorpreso quanto me. «Dai.»
«No, è una cosa seria. Non si leggono le lettere degli altri!»
«Mai?» chiesi. «E se non riesci a trovare suo padre e nella lettera c’è un
indizio su dove potrebbe trovarsi?»
Liam scosse la testa, ma Ciccio disse: «Ha ragione».
Lui non rispose, ma le mani gli tremavano sul volante. Era il suo silenzio a
farmi male e, quando non lo sopportai più, mi sporsi e accesi la radio, pregando
di trovare una canzone degli Allman Brothers. Invece, Betty si sintonizzò su un
talk show di attualità.
«…i bambini sono in isolamento per il loro bene, non solo per la sicurezza del
popolo americano. Le mie fonti, molto ben posizionate nel governo Gray, mi
hanno informato che tutti i casi in cui un bambino è stato rimosso troppo presto
dal programma di riabilitazione hanno portato alla sua morte prematura. Non
c’è altro modo di riprodurre la routine di medicine, esercizio fisico e stimolo che
questi centri di riabilitazione stanno usando per tenere in vita i vostri figli.»
Liam diede un pugno al pulsante del volume, tentando di spegnere. Invece, la
radio saltò alla stazione successiva, e lì era la voce di una donna a dare la brutta
notizia. «Le nostre fonti riportano che due fuggiaschi Psi sono stati catturati al
confine tra Ohio e West Virginia, dove viaggiavano a piedi…»
Betty svoltò in un’area di servizio vuota così velocemente e all’improvviso
che avrei giurato fosse rimasta su due ruote. Liam parcheggiò in diagonale
occupando ben tre posti, e tirò il freno a mano. «Torno subito», disse in fretta.
Un minuto era accanto a me, e quello successivo ci trovammo tutti e tre a
guardare il retro della sua camicia rossa di flanella che saltava oltre una
pozzanghera melmosa e si dirigeva verso l’edificio di mattoni in stile coloniale e
i distributori di snack.
«Mi sembra un po’… melodrammatico.»
Mi voltai verso Ciccio nel sedile dietro, ma lui era confuso quanto me.
«Penso che dovresti seguirlo», mormorò.
«E cosa dovrei dire?»
Ciccio mi rivolse uno dei suoi sguardi. «Davvero? Hai bisogno che te lo
spieghi io?»
Non avevo idea di cosa intendesse, ma ci andai in ogni caso, seguendo la
traccia della rabbia e della frustrazione di Liam oltre i bagni, oltre la zona picnic
abbandonata, fino all’altro lato dell’edificio. Dove c’erano erba alta e selvatica,
alberi e la possibilità di nascondersi dai passeggeri di Betty.
Mi dava le spalle, appoggiato al muro dell’edificio. Stava a braccia conserte e
aveva i capelli dritti. Pensavo di essere silenziosa come un gatto, ma si accorse
subito del mio arrivo. Il suo dolore aleggiava nell’aria intorno a noi come
umidità, e mi penetrava nella pelle. Sentii risvegliarsi le dita invisibili nel fondo
della mia mente. Le sentii ululare, come un animale selvatico tenuto in gabbia
troppo a lungo.
Rimasi a distanza.
«Lee?»
«Sto bene. Torna pure in macchina.» Ancora con una voce forzatamente
allegra.
Si piegò sulle ginocchia, poi si abbandonò a terra. Ma non mi mossi, finché
mise la testa tra le ginocchia come se fosse sul punto di vomitare tutto quello che
aveva nello stomaco.
Rimasi a lungo a fissare i suoi capelli chiari che si arricciavano sul collo, nel
punto esatto in cui un vecchio livido scompariva sotto al colletto della camicia.
Alzai la mano dal fianco e sollevai la stoffa morbida. Volevo vedere fino a dove
si estendeva quel segno, quali altre ferite nascondeva.
Lo hai già toccato in passato, sussurrò una vocetta in fondo alla mia mente, e
non è successo nulla…
Feci un passo indietro, per non stare alle sue spalle, ma di fianco. A distanza.
La distanza era una buona cosa.
«Hai ragione, sai», disse, piano. «Non voglio trovare Slip Kid solo per
consegnare la lettera di Jack. Non voglio nemmeno usarlo per farmi aiutare a
trovare la mia famiglia. So dove sono e come raggiungerli, ma non posso andare
a casa. Non ancora.»
Da qualche parte alle nostre spalle, sentii aprirsi una delle portiere di Betty,
ma non bastò a infrangere l’immobilità del momento. «Perché no? Di certo ai
tuoi genitori manchi un sacco.»
Liam posò le braccia sulle ginocchia, dandomi ancora le spalle. «Ciccio ti ha
detto… ti ha mai raccontato qualcosa su di me e la Lega?»
Non mi vedeva, ma scossi comunque la testa.
«Harry, il mio patrigno, aveva capito subito che la Lega era un mucchio di
gentaglia. Aveva detto che ci avrebbero usato peggio di come avrebbe fatto
Gray, e non avrebbero versato una lacrima se fossimo morti per aiutarli. Anche
dopo… dopo che Claire… Claire è, era, la mia sorella minore.» Si schiarì la
voce. «Anche dopo che lei se n’è andata, lui mi ripeteva che nessuna battaglia
l’avrebbe mai riportata indietro. Cole si era già unito a loro, ed era tornato per
convincermi ad andare con lui. A combattere.»
Era. Era la mia sorella minore. Se n’è andata. Un’altra vittima della NIAA.
«Ci credetti. Ero arrabbiatissimo e odiavo tutto e tutti, ma non c’era niente
contro cui dirigere il mio odio. Sono stato con loro per settimane, in
addestramento, e ho permesso loro di trasformarmi in un’arma. Nel tipo di
persona che sarebbe disposta a togliere la vita a un innocente solo perché poteva
avvicinarmi all’obiettivo o a quello che volevo. Mio fratello era diventato un
estraneo; aveva persino una specie di… un diagramma di tutte le persone che
aveva ucciso, nella sua camera. E aggiungeva dei pezzi ogni volta che
ammazzava qualcuno di importante, ogni volta che completava una missione. E
io entravo dopo aver passato l’intera giornata in addestramento, e lo guardavo, e
pensavo: Quante di quelle persone avevano una famiglia? E quante di quelle
persone avevano qualcuno che aveva bisogno di loro come noi avevamo bisogno
di Claire? Ed è proprio questo il punto: tutti loro ne avevano, Ruby, ne sono
certo. Le persone non sono isole.»
«Così te ne sei andato.»
Annuì. «Dovetti scappare durante una simulazione all’aperto. Stavo tentando
di tornare da Harry e da mia madre quando le FSP mi hanno catturato.»
Finalmente si voltò a guardarmi. «Non posso tornare da loro, almeno finché me
lo sarò guadagnato. Quando avrò rimesso a posto le cose.»
«Di cosa stai parlando?»
«Mentre ero con la Lega mi sono reso conto che le uniche persone su cui
potevamo contare per un aiuto eravamo noi stessi. Perciò, quando trovai un
modo per evadere da Caledonia…» Fece una pausa, poi proseguì: «È stato
orribile. Orribile. Li ho delusi, anche dopo aver promesso che alla fine sarebbe
andato tutto bene. E allora perché…» La sua voce si incrinò. «Hai sentito cos’ha
detto l’annunciatore. Pochi di noi sono sfuggiti, e ci fanno fuori come conigli
nella stagione di caccia. E allora perché voglio farlo di nuovo? Perché non riesco
a lasciar perdere? L’unica cosa che desidero è aiutare altri ragazzi a evadere da
Caledonia, da Thurmond, da ogni singolo campo, uno a uno.»
Oh, pensai, sentendomi un po’ sciocca. Oh. Avevo sempre desiderato trovare
Slip Kid solo per me stessa, per capire come domare le mie abilità. Liam, invece,
per tutto il tempo aveva desiderato trovarlo perché era sicuro che fosse in grado
di aiutare gli altri. Che, insieme, avrebbero trovato un modo per salvare i ragazzi
che tutti noi eravamo stati costretti ad abbandonare.
«È ingiusto, non credi? Per tutta la mattina ho pensato che fosse così
dannatamente ingiusto che io fossi qui, così vicino a trovare East River, mentre
gli altri sono scomparsi.» Si premette i palmi delle mani sugli occhi. «Mi fa
sentire male. Non riesco a lasciar perdere. Quei ragazzi di cui parlavano alla
radio… sono sicuro che venissero da Caledonia. È solo…» Fece un respiro
affannoso. «Pensi… che si siano pentiti di avermi seguito?»
«Neanche per un secondo», risposi. «Ascoltami bene: non li hai costretti a
seguirti. Hai solo dato loro ciò di cui le FSP e i controllori del campo li avevano
privati: una scelta. Se quei ragazzi ti hanno seguito nell’evasione, è stato perché
lo hanno scelto. Ti hanno creduto quando hai detto che tutti saremmo tornati a
casa, prima o poi.»
«Ma la maggior parte di loro non tornerà mai», mormorò scuotendo la testa.
«Per certi versi, sarebbero stati più al sicuro se fossero rimasti nei campi, vero?
Nessuno avrebbe dato loro la caccia. Non sarebbero stati costretti a vedere
quanto la gente abbia paura di loro, e non si sarebbero sentiti come se non
avessero un posto dove stare, qui fuori.»
«Ma non è forse meglio dar loro la scelta?»
«Lo è?»
Mi pulsava la testa e mi facevano male le spalle. Quando finalmente mi venne
in mente una risposta, Liam si stava già alzando sulle ginocchia.
«Che ci fai ancora qui?» Non era scosso, né arrabbiato. Non più.
«Ti guardo le spalle.»
Fece un sorriso triste. «Hai ben altro di cui preoccuparti.»
«Mi dispiace tanto.» Le parole mi scivolarono fuori in una corsa senza fiato.
«Non avrei mai dovuto aprire la sua lettera. Non erano affari miei. Non ci ho
pensato.»
«No… è a me che dispiace. Non volevo aggredirti in quel modo. Dio, era
come se mio padre stesse parlando attraverso di me. Mi dispiace tantissimo.»
Liam abbassò gli occhi e, quando tornò a guardarmi, aveva le labbra strette.
Pensai che si sarebbe messo a piangere o a urlare, e mi sentii tirare in avanti
nello stesso istante in cui anche lui fece un altro, pericoloso passo verso di me.
Incrociare il suo sguardo mi fece venire le gambe molli, ma volevo vederlo
veramente, per quanto potessi temere di essere bruciata dalla sua intensità.
«Vieni, torniamo indietro», disse con un cenno della testa. «Sto bene. Non
avrei dovuto lasciare quei due di nuovo da soli.»
«Penso che ti serva un altro minuto», replicai. «E penso che dovresti
godertelo. Perché quando tornerai a bordo di quell’auto, ci saranno delle persone
che dipendono da te.»
Tentò di toccarmi il braccio, ma feci un passo indietro. «Non so cosa tu…»
disse.
Desiderai con tutta me stessa stringere la sua mano quando me la porse. Le
mie erano ghiacciate, perforate dal dolore.
«Qui…» Indicai lo spazio tra noi. «Questo è un posto in cui non hai bisogno
di mentire. Prima ho detto quello che pensavo, ma non posso aiutarti se non mi
dici cosa ti passa davvero per la testa. Se hai bisogno di parlare o di sfogarti o di
urlare, puoi farlo con me. Ma non puoi prendere e andartene di nuovo, come fai
sempre. So che credi di proteggerci, Lee, ma cosa succederebbe se un giorno di
questi te ne andassi e non tornassi più indietro?»
Fece un passo verso di me, negli occhi un’ombra che non riconoscevo. Non
mi ero mai accorta di quanto fosse alto, ma in quel momento torreggiava su di
me, e si chinò finché il suo viso non fu all’altezza del mio. Sapevo cosa avrei
fatto se la situazione fosse stata diversa. Se avessi potuto controllare me stessa.
Sapevo cosa voleva Liam.
Cosa volevo io.
Scivolai con il piede su una roccia, allontanandomi, e sfregai la schiena sulla
parete, mentre la mia mente sprofondava vorticosamente nel panico e fremeva
per l’aspettativa, pregustando la vicinanza. Forse la rabbia di Liam era
evaporata, ma qualunque cosa stesse provando in quel momento era persino più
forte di prima, più forte del dolore, della frustrazione, della furia. Allontanati da
me; non farlo, avrei voluto dire, ma le parole mi si erano bloccate in gola,
incastrate fra il terrore e il desiderio. Le labbra di Liam formarono il mio nome,
ma non sentivo altro che il sangue che mi pulsava nelle orecchie.
Provai a scansarmi un’ultima volta, ma le ginocchia, traditrici, cedettero.
Davanti agli occhi mi esplosero forme di tutti i colori dell’arcobaleno.
In quel momento Liam mi afferrò, ma lo fece per sostenermi, non per tirarmi a
sé. Non aveva importanza: nell’istante in cui le sue mani mi presero intorno alla
vita, sparì.
18

A gli occhi chiusi, ma immaginavo ciò che doveva essere successo. Le sue
VEVO

pupille si erano dilatate, aperte e vulnerabili. In attesa di un comando. La mente


di Liam era un vortice di luci e colori. In un attimo mi trovai accanto a un bimbo
dai capelli biondi con una tuta addosso, la mano stretta a quella di una donna. Un
secondo dopo ero in equilibrio sul paraurti anteriore di una vecchia auto mentre
un uomo dal viso gentile e dalle braccia forti indicava i pezzi del motore. Vidi il
viso di un bambino scattare all’indietro quando gli diedi un pugno sul naso,
sentii il ruggito di approvazione dei ragazzi in cerchio intorno a noi. Fissai le
gambe lunghe di Ciccio che penzolavano dal letto a castello, e poi fui davanti a
Black Betty e guardai Zu nel sedile dietro, con un aspetto fragile e affamato.
E poi vidi me.
Mi vidi con la luce del sole che si rifletteva sui miei capelli scuri, mentre
ridevo come una matta sul sedile del passeggero. Non sapevo di poter avere un
aspetto simile.
No.
No.
No! Non voglio vedere…
Gli diedi uno schiaffo in piena faccia. Il suono echeggiò tra i rami degli alberi.
Una sensazione di dolore esplose nella mia mano, e si espanse velocemente
lungo il braccio fino al centro del petto. Sentii anche qualcos’altro: uno scatto,
come un osso secco spezzato di netto. Caddi all’indietro come se fosse stato lui a
colpirmi. Avrei preferito che lo avesse fatto davvero, perché il dolore mi avrebbe
distratta dal disorientamento e dalla nausea che seguirono.
Mi feci prendere dal panico. Sapevo, per le innumerevoli esperienze a
Thurmond, che il modo migliore per interrompere il contatto era farlo
lentamente, con attenzione. Sciogliere uno a uno i lacci invisibili che ci
legavano. Non era forse accaduto lo stesso con Sam? Un tocco sbagliato e mi ero
ritratta così velocemente e all’improvviso dalla sua mente che avevo portato via
con me ogni traccia della mia esistenza.
Non era così?
Non era così?
Più mi trascinavo lontano da lui, più il dolore sembrava scomparire.
«Ruby?»
Perché dovevo sempre fare così? Perché non riuscivo a controllarmi una volta
tanto?
Liam mi fissava. Fissava proprio me, non al di là di me. Sembrava
concentrato, anche se confuso. Il mio sguardo si posò sul segno rosso che gli era
venuto su una guancia.
Avevo sentito bene? Il mio nome?
«Che diavolo è successo?» disse Liam con una risata strozzata. «Mi sembra di
essere appena stato colpito da un giocatore di football.»
«Sono scivolata…»
Cos’altro potevo dire? Avevo la verità sulla punta della lingua, in attesa, ma,
se avesse saputo, se avesse saputo cosa gli avevo appena fatto…
«E io che credevo di fare il cavaliere a prenderti al volo!» Sorrise,
appoggiandosi a un albero per rimettersi in piedi. «Ho imparato la lezione! La
prossima volta ti lascio cadere, tesoro, perché, per la miseria, hai una testa
dura…»
«Mi dispiace», sussurrai. «Mi dispiace tanto…»
Lui smise di ridere. «Verde… sai che sto scherzando, vero? Devo essere
proprio speciale per farmi mandare ko dalla persona che speravo di salvare. A
parte qualche ricordo umiliante dei tempi in cui facevo sport a scuola, sto bene,
davvero… Cosa?»
Ti ricordi almeno di cosa stavamo parlando?
«Oddio», disse, accorgendosi all’improvviso che ero ancora a terra. «Stai
bene? Non posso crederci, non te l’ho nemmeno chiesto: ti sei fatta male?»
Evitai la mano che mi tendeva. Era troppo presto.
«Sto bene», risposi. «Penso che dovremmo tornare, ora. Hai lasciato il motore
acceso.»
La mia voce era calma, ma dentro mi sentivo un deserto. Tutta la speranza che
vi era sorta, ed era cresciuta e si era allargata e scorreva come un torrente, si era
prosciugata in un istante. Avevo commesso un errore, e lui non se n’era accorto.
Non se ne accorgevano mai.
Non potevo permettere che capitasse di nuovo. Avevo avuto fortuna: si
ricordava ancora di me anche se non ricordava cosa avessi fatto, ma non c’era
alcuna garanzia che la fortuna si sarebbe ripetuta.
Niente più contatto. Niente più dita che sfioravano le braccia, o spalle contro
spalle. Niente più strette di mano, per quanto le sue fossero grandi e calde.
Già questo era un buon motivo per trovare Slip Kid. Per supplicarlo di
aiutarmi.
«Già… già.» Liam annuì, ma non mi sfuggì il modo in cui si accigliò
rivolgendo lo sguardo su di me, né la fitta di dolore nel mio petto quando mi
passò accanto e non tese la mano verso di me.
Ci facemmo strada intorno alla stazione di servizio, oltre le fontanelle
d’acqua, oltre la tettoia con le panchine e i tavoli in metallo, io cinque passi
davanti a lui. Mi muovevo più in fretta, quasi correndo, e svoltai l’angolo. Mi
aspettavo di vedere Ciccio e Zu all’esterno, intenti ad agitare i distributori per
tirare fuori le poche merendine rimaste.
Ma non c’era Ciccio ad attendermi, e di certo non c’era Zu.
Capelli scuri e occhi ancora più scuri. Un ragazzo che non poteva avere più di
venticinque anni, con una cicatrice che partiva da sotto l’occhio destro e risaliva
fino all’attaccatura dei capelli, dove la pelle lucida e arrossata impediva che
ricrescessero. Il mio cervello analizzò ogni suo tratto con lentezza straziante. Lo
osservai contrarre il viso in una smorfia, alzare il naso stretto in segno di
disgusto.
Liam mi chiamò per nome con voce impaurita, i piedi che battevano contro il
cemento. Scappa, avrei voluto urlargli, cosa stai facendo? Scappa!
Tornai a voltarmi verso l’uomo – il tracciatore – con la giacca a vento blu
appena in tempo per vedere il calcio del suo fucile abbattersi sul mio viso,
spazzando via dalla mia testa ogni pensiero.

Il dolore mi accecò con un lampo bianco dietro le palpebre. Caddi, ma senza


perdere i sensi. Quando l’uomo provò a sollevarmi afferrandomi per la maglia,
tesi una gamba e lo colpii alle caviglie, facendolo cadere e facendo scivolare la
sua arma verso un mucchio di sassi lì vicino. Continuai a scalciare fino a colpire
qualcosa di solido, ma sapevo che non era abbastanza.
Tentai di alzarmi, ma il mondo girò vorticosamente intorno a me. La testa mi
pulsava e qualcosa di caldo e umido mi colò sull’occhio destro: sangue. Ne sentii
il sapore in quel momento, con la stessa chiarezza con cui avvertii lo
spostamento d’aria quando Liam sollevò l’uomo da terra con un solo gesto della
mano per poi scagliarlo contro lo spigolo tagliente dei tavoli da picnic,
mandandolo al tappeto in un colpo solo.
Zu, Ciccio, Zu, Ciccio, la mia mente era intrappolata in un circolo vizioso. Mi
premetti una mano sulla fronte, dove il fucile mi aveva lacerato la pelle.
Non so cosa sia accaduto dopo. Sembrava che la mia mente si perdesse dei
secondi a ogni mio movimento. A un certo punto, credo che Liam avesse provato
ad aiutarmi ad alzarmi, ma lo allontanai con gesti lenti e maldestri. Scappa!
tentavo di dire. Vattene!
«Ruby… Ruby.» Liam provava ad attirare la mia attenzione, perché non aveva
visto cosa c’era davanti a noi. Zu e Ciccio erano seduti per terra, accanto a Betty.
Avevano le mani ammanettate dietro la schiena e i piedi legati con una corda
giallo acceso. Davanti a loro c’era nientemeno che Lady Jane.
Era la prima volta che la vedevo da vicino; abbastanza vicino, in ogni caso, da
vedere la voglia che aveva sul collo, e gli occhi un po’ affossati dietro la
montatura nera degli occhiali. I capelli scuri erano sciolti sulle spalle e si
arricciavano per l’umidità, ma la pelle sembrava ancora ben tesa sugli angoli
affilati del suo viso. La camicia nera era infilata ordinatamente nei jeans, e
portava una cintura nera da lavoro per tenere fermi entrambi. Riconobbi gli
aggeggi che vi erano appesi. Lo strumento arancione per identificarci, un taser,
manette…
«Salve, Liam Stewart», disse, con un accento freddo e setoso.
Accanto a me, Liam si piantò saldamente sui piedi e alzò le braccia; per
scagliarla all’indietro, pensai. Lei rispose con un verso di scherno, indicando con
un cenno del capo il proprio braccio teso. Ne seguii la linea con gli occhi fino a
vedere la pistola puntata alla tempia di Zu.
«Lee…» La voce di Ciccio era stranamente acuta, ma fu lo sguardo di Zu che
mi fece rimanere immobile.
«Vieni qui», disse la donna. «Lentamente, con le mani sulla testa; subito,
Liam, altrimenti non posso garantire che non mi scivoli il dito», concluse
inclinando la testa.
Emergenza, pensai, il pulsante d’emergenza… dove? Il mio zaino era infilato
da qualche parte sotto il sedile davanti. Se riuscivo a raggiungerlo, se riuscivo ad
arrivare alla portiera…
«Ah sì?» sbottò Liam. «E qual è il mio prezzo oggi? Quanto lo hanno
abbassato, considerando che ci sono volute tre settimane per prenderci?»
Il sorriso della donna si spense, ma presto tornò, più ampio di prima. «Sei
sempre al bel gruzzolo di duecentocinquantamila dollari, tesoro. Dovresti
esserne fiero. Me ne hai fruttati solo diecimila, la prima volta.»
Liam tremava di rabbia e non riusciva a parlare. Sentii il respiro bloccarglisi
in gola. Improvvisamente capii come faceva a sapere tante cose di lei: era la
stessa donna che lo aveva catturato in passato.
«Non puoi immaginare la mia sorpresa quando il tuo nome è sbucato di nuovo
nel database delle taglie, e con una ricompensa di quel genere, poi. Sembra che ti
sia cacciato in un bel po’ di guai, dall’ultima volta che ci siamo visti.»
«Sì», replicò lui con voce roca. «Faccio del mio meglio.»
«Ma, tesoro, come hai potuto essere così stupido da tornare in quel posto?
Non hai pensato che sarei andata a cercarti proprio lì?» Inclinò la testa. «I tuoi
amici erano pronti a dirmi dove stavate andando e perché, in cambio della loro
libertà. Lake Prince, non è così?»
Il mio dolore lasciò spazio alla paura. Se trova East River… Dio, non riuscivo
nemmeno a immaginare le conseguenze.
Liam, invece, sembrava immaginarle benissimo. Aveva le nocche bianche per
lo sforzo di tenere le mani strette tra i capelli.
«Se posso guadagnare così tanto per te da solo, pensa quanto mi daranno per
un campo intero, pieno di ragazzini», disse. «Abbastanza da comprarmi il
biglietto per tornare a casa, credo, quindi grazie tante. Non hai idea della
quantità di soldi che ci vuole per convincere un funzionario a far finta di niente e
lasciar entrare nel Paese una persona proveniente da un focolaio di malattia.»
Il successivo secondo di silenzio fu assordante, ma solo perché sapevo
esattamente cosa stesse per dire Liam.
«Se lasci andare tutti loro, puoi prendere me», disse, con le mani ancora sulla
testa. «Non ti darò problemi.»
«No!» urlò Ciccio. «Non…»
La donna non lo prese nemmeno in considerazione. «Pensi davvero che ti
faccia dei favori? No, Liam Stewart, vi prendo tutti, persino la tua ragazza; forse
dovresti considerare in che stato è, prima di provare a negoziare.»
Liam spostò lo sguardo su di me, notando il sangue che mi scorreva sul viso.
Mantenni lo sguardo saldo e feci un minuscolo passo avanti.
«Non so da dove tu sia sbucata, ragazzina, ma ti assicuro che quello che ti
aspetta sarà peggiore.»
Non tornerò indietro.
Nessuno di noi sarebbe tornato indietro, se potevo evitarlo.
«Venite qui», disse la donna, gli occhi su di me ma la pistola ancora puntata su
Liam. «Tu per prima, ragazzina. Mi prenderò particolarmente cura di te.»
Avanzai un passo alla volta, ignorando l’esclamazione di Liam e il ronzio che
avevo nelle orecchie. Spostai gli occhi da Ciccio a Zu, al viso fin troppo
compiaciuto della donna. Tutti stavano guardando me.
Tutti lo sapranno.
E nessuno mi avrebbe più voluta, dopo.
«Voltati», ringhiò, posando gli occhi nel punto in cui il suo socio era ancora
nascosto dietro una pila di tavoli da picnic. Notai che, spostando l’attenzione,
aveva mollato leggermente la presa sulla pistola, e ne approfittai.
Alzai il ginocchio colpendola sotto il petto. La pistola rimbalzò a terra, e Liam
corse nella mia direzione, ma in qualche modo riuscii a essere più veloce.
Sentivo il sangue vivo e caldo che mi gocciolava sul viso e lungo il mento. La
donna spalancò gli occhi quando le strinsi una mano intorno alla gola,
sbattendola contro la portiera di Betty. Quando incrociò il mio sguardo, seppi di
averla in pugno, e il dolore che mi esplose tra gli occhi me lo confermò.
Scivolare nella sua testa fu facile come fare un sospiro. Vedendo le sue pupille
rimpicciolirsi e poi tornare alla dimensione normale, mi sentii come se mi
avessero attorcigliato del filo spinato intorno al cervello, stringendo la presa ogni
secondo di più.
Il viso di Ciccio comparve ai margini del mio campo visivo, con gli occhi
sbarrati. Quando tentò di alzarsi, lo bloccai con un piede.
No. Non era sicuro. Non ancora.
La donna si guardò intorno, con occhi spalancati e vacui.
In quel momento sentii un battito nelle orecchie: Dum dum. Dum dum. Dum
dum. Non avrei saputo dire se fosse il mio cuore o il suo.
«Dagli la tua pistola», dissi, indicando con la testa il punto in cui sapevo che
Liam si era fermato. Poiché la donna non si muoveva, spinsi l’immagine di ciò
che volevo attraverso le macchie scure e gorgoglianti della sua mente. Non
riuscii a costringermi a guardare la reazione di Liam quando l’arma fu deposta
tra le sue mani.
«Ascoltami con molta attenzione», continuai, sentendo in bocca il sapore del
sangue. «Adesso ti volterai e attraverserai la strada. E poi… andrai nella foresta
a piedi e continuerai a camminare finché sarà passata un’ora. Poi ti siederai nel
bel mezzo della foresta e non ti muoverai. Non mangerai, non dormirai e non
berrai, per quanto tu possa desiderarlo. Non ti muoverai affatto.»
Immaginare di entrare nella sua testa, e spingervi il pensiero di lei che seguiva
le mie istruzioni alla lettera, diventava sempre più difficile. Non perché la mia
presa su di lei stesse cedendo, ma perché stavo perdendo la presa sulla mia stessa
coscienza. Puoi farcela, mi ripetei. Non importava che nessuno mi avesse mai
insegnato, o che non mi fossi mai esercitata. Alla fine, non era altro che istinto.
Come se lo avessi sempre saputo.
Chiusi gli occhi e iniziai a scorrere i ricordi oscurati che le sorgevano dietro
agli occhi. Mi trovai a guidare lungo l’autostrada, una mano sul volante e l’altra
che indicava la stazione di servizio poco oltre. Fermai la macchina un po’
distante, seminascosta dagli alberi, e iniziai a camminare verso il minivan nero e
solitario nel mezzo del parcheggio. Rimasi in quel ricordo, assorbendo l’odore di
pioggia ed erba, sentendo la brezza leggera, finché il suo socio ebbe raggiunto il
minivan con il fucile alzato e pronto a sparare. Spinsi via il ricordo a forza,
immaginando che non ci fosse nulla dove Black Betty era stata fino a poco prima
nel parcheggio. Seguii il filo del ricordo fino ai ragazzi nell’ipermercato, al
segreto che avevano rivelato su East River. Le immagini sparirono
trasformandosi in scie di luce, come gocce di pioggia che scivolano sul
finestrino di un’auto.
«Adesso, sei… non ti ricorderai niente di tutto questo, né di noi.»
«Non mi ricorderò niente di tutto questo…» ripeté, come se ci avesse appena
pensato.
Lasciai la presa sul suo collo, ma non bastò a farmi passare il dolore. I suoi
occhi tornarono a mettere a fuoco parte di ciò che potevano vedere. Il dolore non
passava. Si voltò di scatto e iniziò a dirigersi verso l’autostrada deserta.
Il dolore non passava.
Anzi, peggiorava. Una goccia di sudore partì dalla mia tempia e scivolò lungo
tutta la schiena. Ero madida. Avevo i capelli incollati al viso, e la maglietta
appiccicata addosso come una seconda pelle. Mi piegai sulle ginocchia: se stavo
per svenire, era meglio essere vicini a terra.
Dio, non voglio svenire. Non svenire. Non. Devo. Svenire…
Sentii che Liam stava dicendo qualcosa. Il suo piede entrò nel mio campo
visivo, e mi allontanai.
«Non…» Non toccarmi. Non adesso.
Ed era strano, perché l’ultima cosa che vidi prima di chiudere gli occhi non fu
il vecchio asfalto, il cielo e nemmeno il mio riflesso nella carrozzeria di Betty.
Fu uno scintillante ricordo che apparteneva a me. Di qualche giorno prima,
quando Liam era seduto al posto di guida e cantava a squarciagola Layla, di
Derek and the Dominos, così stonato che persino Ciccio si era messo a ridere. Zu
era seduta dietro a lui e si muoveva a ritmo di musica, agitando tutto il corpo al
suono stridente della chitarra elettrica.
Era stato così facile allora ridere e fingere, anche solo per un secondo, che
sarebbe andato tutto bene. Che il mio posto fosse insieme a loro. Perché ancora
non sapevano, nessuno di loro sapeva; ma ormai avevano capito, ed era finita.
Era tutto finito, e non lo avrei riavuto mai più.
Desiderai aver preso il pulsante di emergenza. Desiderai che Cate fosse venuta
a prendermi per riportarmi dalle uniche persone che mi avrebbero mai accettata
per il mostro che ero.
19

Q stavo per compiere dieci anni, la cosa più significativa di quel numero era
UANDO

che avesse due cifre. Non sembrava un gran compleanno, in ogni caso. A cena,
sedetti a tavola in mezzo ai miei genitori, spostando i piselli da un lato all’altro
del piatto, e tentando di ignorare il fatto che non stessero parlando, né tra loro, né
con me. Gli occhi della mamma erano cerchiati di rosso e lucidi per il litigio che
avevano avuto mezz’ora prima; lei stava ancora tentando coraggiosamente di
radunare dei bambini per farmi una festa a sorpresa, ma papà l’aveva costretta a
chiamare tutti e annullare. Aveva detto che non c’era molto da festeggiare
quell’anno e che, essendo l’ultima bambina viva nel mio quartiere, sarebbe stato
crudele da parte nostra appendere uno striscione di auguri e il solito grappolo di
palloncini davanti a casa. Sentii ogni parola dalla cima delle scale.
In ogni caso, non mi importava molto del mio compleanno. Non che fosse
rimasto qualcuno che volessi davvero invitare. Quello che mi importava di più
era il fatto che, a dieci anni, improvvisamente ero vecchia, o meglio, lo sarei
diventata presto. Avrei cominciato ad assomigliare alle ragazze sulle riviste,
sarei stata costretta a indossare vestiti e tacchi alti e trucco… e andare alle
superiori.
«Tra dieci anni esatti, ne avrò venti.» Non so perché lo avessi detto ad alta
voce. Semplicemente, mi era sembrato di aver capito una cosa importante e
profonda, e volevo condividerla.
Il silenzio che seguì fu quasi fisicamente doloroso. La mamma si raddrizzò e
si premette il tovagliolo sulla bocca. Per un attimo, pensai che si sarebbe alzata e
se ne sarebbe andata, ma la mano di papà si posò sulla sua, calmandola, come
un’ancora.
Papà finì di masticare il pollo alla griglia prima di farmi un sorriso tremolante.
Si chinò fino a quando i nostri occhi verdi, identici, si incrociarono. «Hai
ragione, piccoletta. E quanti ne avrai dieci anni dopo?»
«Trenta!» esclamai. «E tu ne avrai… cinquantadue!»
Ridacchiò. «Esatto! Con un piede nella…»
Tomba, sussurrò la mia mente. Con un piede nella tomba. Papà si rese conto
dell’errore prima di concludere la frase, ma non aveva importanza. Tutti e tre
sapevamo cosa volesse dire.
Tomba.
Sapevo cosa fosse la morte. Sapevo cosa succedeva quando si moriva. A
scuola, avevano invitato ospiti speciali per parlare ai bambini che erano tornati.
Quella affidata alla nostra classe, la signorina Finch, fece una presentazione
prima di Natale, indossando un dolcevita rosa acceso e occhiali che le coprivano
mezza faccia. Scrisse tutto sulla lavagna in lettere maiuscole e spesse:
LA MORTE NON È COME IL SONNO. CAPITA A TUTTI. POTREBBE CAPITARE IN OGNI MOMENTO. NON SI TORNA INDIETRO.

Quando le persone muoiono, spiegò, smettono di respirare. Non hanno più


bisogno di mangiare, non parlano più e non possono pensare o sentire la nostra
mancanza come noi sentiamo la loro. Non si svegliano mai, mai più. Continuava
a farci degli esempi, come se fossimo troppo piccoli o stupidi per capire; come
se i sei di noi che erano rimasti non fossero stati costretti a guardare la luce
spegnersi negli occhi di Grace. I gatti morti non fanno le fusa e i cani morti non
giocano più. I fiori morti – la signorina Finch indicò il mazzolino di fiori secchi
sulla cattedra della maestra – non crescono né fioriscono più. Ore e ore. Ore a
chiederci: Avete capito? Ma, pur con tutte le sue risposte, non era mai arrivata
alla domanda che davvero volevo farle.
«Che effetto fa?»
Papà alzò lo sguardo di scatto. «Che effetto fa cosa?»
Abbassai gli occhi sul piatto. «Morire. Lo senti? So che non è lo stesso per
tutti, e che si smette di respirare e il cuore smette di battere, ma che effetto fa?»
«Ruby!» esclamò la mamma con voce inorridita.
«Non importa se fa male», dissi. «Ma si rimane nel corpo dopo che le cose
hanno smesso di funzionare? Sai che sei morto?»
«Ruby!»
Le folte sopracciglia di papà si unirono e le sue spalle si piegarono in avanti.
«Beh…»
«Non ti permettere», disse la mamma usando la mano libera per allontanare le
grandi dita di lui dalle sue. «Jacob, non ti permettere…»
Tenni le mani strette sotto il tavolo e tentai di non fissare il viso di mamma
che da un color rosso acceso diventava di un bianco candido.
«Nessuno…» iniziò a dire papà. «Nessuno lo sa, tesoro. Non so darti una
risposta. Ciascuno lo scopre quando è arrivato il suo momento. Penso che
probabilmente dipenda…»
«Smettila!» tuonò la mamma, battendo una mano sul tavolo. I piatti
sobbalzarono. «Ruby, vai in camera tua!»
«Calmati», disse papà in tono severo. «È una cosa di cui è importante
parlare.»
«Non è vero! Assolutamente no! Come ti permetti? Prima annulli la festa, e
quando ti ho detto…» La mamma si ribellò alla sua presa. A bocca spalancata,
afferrò un bicchiere e lo lanciò verso la testa di mio padre. Scansandosi, lui alzò
la mano dal tavolo quanto bastava perché la mamma si allontanasse e si alzasse
in piedi. La sua sedia cadde a terra con fragore un secondo dopo l’impatto, che
mandò in mille pezzi il bicchiere sul muro dietro la testa di papà.
Strillai; non ne avevo intenzione, ma mi sfuggì. La mamma mi raggiunse dal
mio lato del tavolo e mi afferrò per il gomito, tirandomi su e trascinando quasi
tutta la tovaglia.
«Piantala», disse papà. «Fermati! Dobbiamo parlargliene! I dottori dicono che
dobbiamo prepararla!»
«Mi fai male», riuscii a tirare fuori. La mamma trasalì al suono della mia
voce, e abbassò lo sguardo sul punto in cui le sue unghie si piantavano nella
pelle del mio braccio.
«Oh mio Dio…» disse, ma ormai ero nel corridoio, salivo le scale di corsa,
sbattevo la porta della mia camera e la chiudevo a chiave, allontanando il suono
dei miei genitori che si urlavano contro.
Mi infilai sotto il piumone viola, facendo cadere a terra la fila di peluche che
avevo posato con tanta cura. Non mi preoccupai nemmeno di togliermi i vestiti
della scuola né di spegnere le luci, finché fui certa che loro due fossero ancora in
cucina, e molto lontano da me.
Un’ora più tardi, mentre respiravo sempre la stessa aria calda sotto il piumone
e ascoltavo il tremito della ventola, mi venne in mente cos’altro ci fosse di
significativo nel compiere dieci anni.
Grace aveva dieci anni. E anche Frankie e Peter e Mario e Ramona. E metà
della mia classe, la metà che non era tornata dopo Natale. Dieci anni era l’età in
cui la NIAA si manifestava più comunemente, avevo sentito dire al telegiornale,
ma poteva colpire chiunque tra gli otto e i quattordici anni.
Stesi le gambe e premetti le braccia lungo i fianchi. Trattenni il respiro e
chiusi gli occhi, tentando di rimanere più ferma possibile. Morta. La signorina
Finch lo aveva descritto come una serie di assenze e divieti.
Assenza di respiro. Nessun movimento. Assenza di battito cardiaco. Niente
sonno. Non sembrava che potesse essere così facile.
«Quando qualcuno che amiamo muore, non si risveglia più», aveva detto.
«Non si torna indietro, non ci sono seconde opportunità. Magari desiderate che
tornino, ma è importante che capiate che non possono e che non lo faranno.»
Le lacrime mi scorrevano sul viso e mi finivano sulle orecchie e tra i capelli.
Mi voltai su un fianco e mi schiacciai un cuscino sulla faccia per bloccare le urla
che provenivano dal piano di sotto. Stavano venendo in camera mia per
sgridarmi? Un paio di volte sentii dei passi pesanti sulle scale, ma poi la voce di
papà galleggiava fino alle mie orecchie, gridando parole che non mi piacevano o
che non capivo. La mamma sembrava sotto tortura.
Mi portai le ginocchia al petto e vi posai sopra la testa. Nella migliore delle
ipotesi, inspiravo due volte ed espiravo una. Sembravano ore che il mio cuore
batteva all’impazzata, e saltava a ogni tonfo o rumore dal piano di sotto. Solo
una volta feci sbucare la testa dal piumone, per assicurarmi di aver chiuso a
chiave la porta. La cosa li avrebbe fatti arrabbiare ancora di più, se mi avessero
scoperta, ma non mi importava.
La mia testa sembrava leggera e pesantissima allo stesso tempo, ma la cosa
peggiore di tutte era il dolore pulsante. Il dum dum dum all’altezza della nuca,
come se avessi qualcosa nel cranio che batteva e spingeva per uscire.
«Basta», gemetti, stringendo gli occhi per resistere al dolore. Le mani mi
tremavano così tanto che non riuscivo a tenerle ferme sopra le orecchie. «Per
favore, per favore, basta!»
Ore dopo, quando i piedi mi trascinarono di sotto, trovai i miei genitori nella
loro camera da letto buia, profondamente addormentati. Rimasi ferma nella
stretta fascia di luce che proveniva dalla porta socchiusa, aspettando che si
svegliassero. Avevo una mezza idea di infilarmi nel letto in mezzo a loro come
facevo una volta, in quello spazietto che sapevo essere caldo e sicuro. Ma papà
mi aveva detto che ormai ero troppo grande per fare simili sciocchezze.
Così decisi di andare dalla parte della mamma e le diedi il bacio della
buonanotte. La sua pelle era umida di crema al profumo di rosmarino, fresca e
liscia. Nell’istante in cui vi posai le labbra, saltai indietro accecata da un lampo
di luce bianca sotto le palpebre. Per uno strano secondo, l’immagine del mio
viso saltò fuori da una lunga serie di pensieri ingarbugliati, poi scomparve, come
una foto che affonda nell’acqua scura. Dovevo aver preso una scossa dalla sua
coperta; la sensazione risalì lungo il mio braccio fino al cervello, abbagliandolo
per un momento.
La mamma non doveva averlo sentito, perché non si svegliò. Nemmeno papà,
neanche quando capitò la stessa stranezza.
Mentre tornavo al piano di sopra, il peso che avevo sul petto si sollevò e se ne
andò come il piumone che avevo calciato a terra. Il dolore che mi spaccava il
cervello allentò la presa, e mi sentii come se avessi esaurito il carburante.
Dovetti chiudere gli occhi per non vedere la mia stanza rotearmi intorno
nell’oscurità.
E poi fu mattina. La sveglia suonò alle sette, accendendo la radio proprio
mentre partiva Goodbye Yellow Brick Road, di Elton John. Ricordo di essermi
seduta nel letto, più sorpresa che altro. Mi toccai il viso, il petto. La stanza
sembrava troppo luminosa per quell’ora del mattino, nonostante le tende tirate, e
nel giro di pochi minuti il mal di testa era tornato a sfoderare gli artigli.
Rotolai giù dal letto e mi lasciai cadere sul pavimento, con lo stomaco
sottosopra. Attesi che le macchie scure davanti agli occhi si fossero dissipate e
deglutii per dare sollievo alla gola secca. Conoscevo la sensazione, sapevo cosa
significava quella stretta alle budella. Ero malata. Malata il giorno del mio
compleanno.
A fatica mi alzai dal letto e mi infilai il pigiama di Batman prima di
raggiungere la porta. La mamma si sarebbe arrabbiata ancora di più se avesse
scoperto che avevo dormito con la camicia elegante; era spiegazzata e zuppa di
sudore, malgrado il freddo che spingeva contro i vetri della finestra. Forse la
mamma si sarebbe sentita in colpa per come mi aveva trattata la sera precedente,
e mi avrebbe permesso di rimanere a casa per dimostrarmi che le dispiaceva.
Non ero neanche a metà delle scale quando vidi il disastro nel salotto. Dal
pianerottolo, sembrava che un branco di animali selvatici si fosse scatenato a
lanciare in aria cuscini, rovesciare poltrone e mandare in frantumi ogni singolo
portacandela di vetro che si trovava sul tavolino, a sua volta spaccato.
Ogni foto sul caminetto era stata gettata a terra a faccia in giù, così come le
foto di classe che la mamma aveva appoggiato sul tavolino dietro al divano. E
poi c’erano i libri: decine di libri. La mamma doveva aver svuotato ogni
centimetro della libreria per dare sfogo alla rabbia. Giacevano a terra come
caramelle colorate.
Ma, per quanto la vista di quella stanza mi avesse spaventata, non mi venne da
vomitare finché raggiunsi l’ultimo gradino e sentii odore di bacon anziché di
pancake.
Non avevamo molte tradizioni di famiglia, ma i pancake al cioccolato per i
compleanni erano una di quelle, e non ce la scordavamo quasi mai. Negli ultimi
tre anni, i miei genitori si erano dimenticati di mettere latte e biscotti per Babbo
Natale, si erano dimenticati il patto di andare in campeggio nel weekend del
Quattro Luglio e, addirittura, di tanto in tanto, si erano dimenticati di celebrare il
giorno di san Patrizio. Ma dimenticarsi i pancake del compleanno…
O magari la mamma era talmente arrabbiata con me che aveva deciso di non
farli.
Magari mi detestava, dopo quello che avevo detto la sera precedente.
La mamma mi dava le spalle quando entrai in cucina, riparandomi gli occhi
dalla luce del sole che filtrava dalla finestra sopra al lavello. I suoi capelli scuri
erano raccolti in uno chignon basso e disordinato, appoggiato al colletto della
vestaglia rossa. Ne avevo una uguale: papà ce le aveva regalate per Natale il
mese precedente. «Rosso rubino per la mia Ruby», aveva detto.
Canticchiava sottovoce, mentre con una mano girava le fette di bacon nella
padella e con l’altra teneva un giornale ripiegato. La canzone che aveva in testa
era ritmata, allegra, e per un momento pensai davvero che appellarmi alla mia
buona stella avesse funzionato. Le era passata. Mi avrebbe lasciata rimanere a
casa. Dopo mesi in cui si era arrabbiata o risentita per la minima cosa,
finalmente era di nuovo felice.
«Mamma?» Poi di nuovo, più forte. «Mamma?»
Si voltò così di scatto che quasi fece cadere la pentola dal piano di cottura,
esponendo il giornale alla fiamma. Si allungò verso una delle manopole e vi
batté la mano, girando e girando fino a far scomparire la puzza di gas.
«Non sto bene. Posso rimanere a casa?»
Nessuna risposta, nemmeno un battito di ciglia. La sua mascella si muoveva,
contratta, ma dovetti avvicinarmi al tavolo e sedermi prima che ritrovasse la
voce. «Come… come sei entrata qui?»
«Ho tanto mal di testa e mi fa male lo stomaco», le dissi, poggiando i gomiti
sul tavolo. Sapevo che non sopportava le lamentele, ma non credevo che le
detestasse al punto da avvicinarsi a me e afferrarmi di nuovo per il braccio.
«Ti ho chiesto come sei entrata, signorina. Come ti chiami?» Aveva una voce
strana. «Dove abiti?»
La presa sulla mia pelle continuò a stringersi via via che tardavo a rispondere.
Doveva essere uno scherzo, giusto? Era malata anche lei? A volte, il farmaco per
il raffreddore la faceva diventare strana.
In modo buffo, però. Non in modo spaventoso.
«Puoi dirmi come ti chiami?» ripeté.
«Ahia!» esclamai, tentando di tirare via il braccio. «Mamma, cosa c’è che non
va?»
Mi strattonò, obbligandomi ad allontanarmi dal tavolo e alzarmi in piedi.
«Dove sono i tuoi genitori? Come sei entrata in questa casa?»
Qualcosa si tese, dentro di me, al punto di spezzarsi.
«Mamma, mami, perché…»
«Smettila», sibilò. «Smettila di chiamarmi così!»
«Ma cosa stai…?» Credo di aver provato a dire qualcos’altro, ma mi trascinò
verso la porta che conduceva al garage. Puntai i piedi sul pavimento in legno,
fino a farmi male.
«Cosa ti succede?» gridai. Tentai di sottrarmi alla sua presa, ma non mi degnò
di uno sguardo finché fummo davanti alla porta del garage. A quel punto, mi ci
spinse contro.
«Possiamo farlo con le buone o con le cattive. So che sei confusa, ma ti
garantisco che non sono io tua madre. Non so come sei entrata in questa casa, e
francamente non sono sicura di volerlo sapere.»
«Ma io abito qui!» le dissi. «Abito qui! Sono Ruby!»
Quando mi guardò di nuovo, non vidi nessuna delle cose che la rendevano la
mia mamma. Le rughe che le si formavano intorno agli occhi quando sorrideva
erano scomparse, e la mascella era stretta intorno alle parole che stava per dire.
Quando mi guardò, non vide me. Non ero invisibile, ma non ero nemmeno Ruby.
«Mamma», mormorai mettendomi a piangere. «Mi dispiace, non volevo
essere cattiva. Mi dispiace, mi dispiace tanto! Ti prego, ti prometto che sarò
buona, andrò a scuola e non starò male e metterò in ordine la mia camera. Mi
dispiace, per favore ricordati. Per favore!»
Mise una mano sulla mia spalla e una sulla maniglia della porta. «Mio marito
è un agente di polizia. Lui potrà aiutarti a tornare a casa. Aspetta qui dentro, e
non toccare niente!»
La porta si aprì e io fui spinta contro un muro di gelida aria invernale.
Inciampai sul cemento sporco e macchiato di olio, riuscendo appena a
trattenermi prima di cadere sulla portiera della sua auto. Sentii la porta chiudersi
alle mie spalle, e la serratura scattare. Sentii la mamma chiamare il nome di papà
con la stessa nitidezza con cui sentivo gli uccellini sugli alberi all’esterno del
garage buio.
Non mi aveva nemmeno acceso la luce.
Mi sollevai a quattro zampe, ignorando il morso dell’aria gelida sulla pelle.
Mi lanciai in direzione della porta, annaspando fino a trovarla. Scossi la
maniglia, sperando e pregando che si trattasse solo di una grossa sorpresa di
compleanno, e che nel momento in cui sarei tornata all’interno ci sarebbe stato
un piatto di pancake sul tavolo e papà avrebbe portato i regali e avremmo
potuto… avremmo potuto… avremmo potuto far finta che la notte precedente
non ci fosse mai stata, malgrado le prove nella stanza accanto.
Ma la porta era chiusa a chiave.
«Mi dispiace!» urlavo, e battevo i pugni contro la porta. «Mammina,
perdonami! Ti prego!»
Papà comparve un attimo dopo, la figura robusta contornata dalla luce che
proveniva dall’interno della casa. Vidi il viso arrossato della mamma sopra la sua
spalla; lui si voltò per farle segno di allontanarsi, poi si sporse ad accendere la
luce.
«Papà!» esclamai, gettandogli le braccia intorno alla vita. Mi permise di farlo,
ma in cambio ottenni solo una lieve pacca sulle spalle.
«Sei al sicuro», mi disse con la sua solita voce morbida e profonda.
«Papà… c’è qualcosa che non va in lei», blaterai. Le lacrime mi bruciavano le
guance. «Non volevo essere cattiva! La devi aggiustare, okay? Lei… lei…»
«Lo so, ti credo.»
Con quelle parole, allontanò con cautela le mie braccia dalla sua uniforme e
mi guidò verso il basso, in modo che ci sedessimo sul gradino rivolti verso l’auto
color granata della mamma. Papà cercava qualcosa nelle tasche, ma mi ascoltò
ripetere tutto quello che era successo da quando ero entrata in cucina. Tirò fuori
dalla tasca un piccolo taccuino.
«Papà», provai di nuovo, ma lui mi interruppe, abbassando un braccio in
mezzo a noi. Allora capii: non dovevo toccarlo. Lo avevo già visto fare un gesto
simile, nei giorni in cui si potevano portare i figli a visitare la stazione di polizia.
Il modo in cui mi parlava, il modo in cui non mi permetteva di toccarlo… lo
avevo visto comportarsi allo stesso modo con un altro ragazzino, che però aveva
un occhio nero e il naso spaccato. Quel ragazzino era un estraneo.
La speranza che avevo sentito gorgogliare dentro di me esplose in mille
pezzettini.
«Te l’hanno detto i tuoi genitori, che sei stata cattiva?» chiese, quando riuscì a
parlare. «Sei andata via da casa tua perché avevi paura che ti facessero del
male?»
Mi alzai da terra con una spinta. Questa è casa mia! avrei voluto urlare. Siete
voi i miei genitori! Mi sembrava che la gola mi si fosse chiusa del tutto.
«A me puoi dirlo», mi rassicurò, con grande gentilezza. «Non permetterò a
nessuno di farti del male. Ho solo bisogno di sapere il tuo nome, poi possiamo
andare al commissariato e fare qualche telefonata.»
Non so quale delle sue parole mi diede finalmente il colpo di grazia ma, prima
che potessi trattenermi, mi lanciai su di lui e lo presi a pugni, colpendolo ancora
e ancora come se potesse servire a farlo ragionare. «Sono tua figlia!» urlai.
«Sono Ruby!»
«Ti devi calmare, Ruby», mi disse, afferrandomi i polsi. «Andrà tutto bene.
Ora chiamo in commissariato per avvertire, poi andiamo.»
«No!» strillai. «No!»
Mi allontanò nuovamente da sé e si alzò, avvicinandosi ancora una volta alla
porta. Affondai le unghie nel dorso della sua mano; lui grugnì per il dolore, ma
non si voltò e si chiuse la porta alle spalle.
Rimasi da sola nel garage, a pochi metri dalla mia bici blu. Dalla tenda che
avevamo usato decine di volte in campeggio, dalla slitta sulla quale mi ero quasi
rotta il braccio. Ovunque, nel garage e in casa, c’erano pezzi di me, ma la
mamma e il papà non riuscivano a metterli insieme. Non vedevano il puzzle
completo di fronte a loro.
Ma, prima o poi, dovevano vedere le foto di me nel salotto, o entrare nel caos
della mia camera.
«…non è mia figlia, Ruby!» sentii mia madre urlare attraverso la parete. Stava
parlando con la nonna, di sicuro.
La nonna l’avrebbe convinta. «Io non ho figli! Non è mia, li ho già chiamati,
non… smettila! Non sono pazza!»
Dovevo nascondermi. Non potevo permettere che mi portassero al
commissariato, ma non potevo nemmeno chiamare il 911 per chiedere aiuto.
Forse, se avessi aspettato, si sarebbero ripresi? Corsi verso gli scatoloni dalla
parte opposta del garage, intrufolandomi nello spazio di fronte alla macchina
della mamma. Un passo, forse due, e avrei potuto saltare dentro uno degli
scatoloni e nascondermi sotto una pila di coperte. Ma la porta del garage si aprì
prima che potessi farlo.
Non del tutto, ma quanto bastava per farmi vedere la neve sul vialetto e sul
prato e la parte inferiore di un’uniforme scura. Strinsi gli occhi, alzando una
mano per proteggermi dalla luce bianca accecante che invase il mio campo
visivo. Ricominciò il dolore pulsante alla testa, mille volte peggio di prima.
L’uomo con l’uniforme scura si mise in ginocchio nella neve, gli occhi
nascosti da un paio di occhiali da sole. Non lo avevo mai visto prima, ma di
certo non avevo incontrato tutti i colleghi di mio padre. Questo sembrava più
vecchio. E anche più duro, mi ricordo di aver pensato.
Mi fece cenno di avvicinarmi, e disse: «Siamo qui per aiutarti. Vieni avanti,
per favore».
Feci un passo incerto, poi un altro. Quest’uomo è un poliziotto, mi dissi, la
mamma e il papà sono malati e hanno bisogno di aiuto. La sua uniforme blu
sembrava diventare più scura a ogni passo, come se fosse zuppa di pioggia. «I
miei genitori…»
L’agente non mi fece finire. «Vieni qui fuori, dolcezza. Sei al sicuro, adesso.»
Solo quando i miei piedi nudi sfiorarono la neve, e l’uomo ebbe afferrato i
miei lunghi capelli nel pugno dando un secco strattone per tirarmi fuori, mi resi
conto che la sua uniforme era nera.

* * *

Quando finalmente ripresi i sensi nella luce grigiastra, capii dalla curva dello
schienale e dall’odore di detergente al limone che ero tornata a bordo di Betty.
Il minivan non era in moto, e la strada non scorreva sotto di me, ma le chiavi
erano rimaste inserite e la radio accesa. Bob Dylan sussurrò la strofa iniziale di
Forever Young, nelle casse.
La canzone fu interrotta all’improvviso, rimpiazzata dalla voce imbarazzata
del DJ.
«Scusate l’interruzione…» Fece una risatina nervosa, affannata. «Non so
come sia possibile che il sistema abbia pescato proprio quella. È sulla lista delle
canzoni vietate. Ehm… torniamo… alla musica. Questa è una richiesta da parte
di Bill dal Suffolk. Ecco a voi We Gotta Get Out of This Place degli Animals.»
Aprii un occhio e tentai, senza successo, di raddrizzarmi. Il mal di testa era
così lancinante che dovetti stringere i denti per non vomitarmi addosso.
Passarono cinque minuti abbondanti prima che riuscissi ad alzare una mano e
sfiorare l’epicentro del dolore, sulla tempia destra. Feci scorrere le dita sulla
superficie gonfia e frastagliata della pelle, sentendo i punti irregolari che la
tenevano insieme.
Ciccio.
Tesi il braccio destro davanti a me. Ricadde, inutilizzabile e addormentato,
finché il sangue tornò a scorrervi. Da quel momento sentii aghi e fiamme. Ma il
dolore era una cosa buona: mi risvegliò completamente dal mio sonno ostinato.
Non mi permise di dimenticare.
Dovrei andarmene, pensai. Ora, prima che ritornino. Il pensiero di rivedere i
loro volti mi fece gonfiare il petto fin quasi a esplodere.
Lo sanno.
Lo sanno.
In quel momento sì che scoppiai a piangere. Non ne ero fiera, ma sapevo di
non poterlo affrontare un’altra volta e uscirne intera.
Sentii dei passi all’esterno.
«…dicendo che è troppo pericoloso.» Ciccio. «Dobbiamo prendere in
considerazione l’idea di liberarcene.»
«Non voglio parlarne adesso.» Liam sembrava agitato.
Usai una delle cinture per aiutarmi a raddrizzarmi. La portiera era spalancata e
mi regalava una vista perfetta di Liam e Ciccio in piedi davanti a un fuocherello
circondato da sassi diseguali.
Il cielo si scuriva per la notte.
«E allora quando ne parleremo?» disse Ciccio. «Mai? Continueremo a far
finta che non sia mai accaduto?»
«Zu torna presto…»
«Bene!» esclamò Ciccio. «Bene! È anche una decisione sua, è una decisione
che spetta a tutti noi, non solo a te!»
Non avevo mai visto Liam così rosso in faccia. «Che diavolo dovremmo fare,
abbandonarla qui?»
Sì, pensai. È esattamente quello che dovresti fare. E avevo iniziato ad
arrampicarmi sul sedile di mezzo per andare a dirglielo quando Ciccio si lanciò
in avanti, facendo cadere Liam sulla schiena senza nemmeno sfiorarlo. Senza
fare una piega, Liam strinse le labbra, alzò la mano e fece letteralmente mancare
la terra sotto i piedi del suo amico. Ciccio cadde con un verso, troppo stupito per
fare altro che rimanere dov’era.
Liam rimase a terra a sua volta, premendosi i pugni sugli occhi.
«Perché ci stai facendo questo?» gridò Ciccio. «Vuoi proprio farti catturare?»
«Lo so, lo so», disse Liam. «Questa è colpa mia. Avrei dovuto fare più
attenzione…»
«Perché non me l’hai detto?» continuò Ciccio. «Lo sapevi fin dall’inizio?
Perché mentire allora? Vuoi davvero andare a casa, oppure…?»
«Charles!»
«Me ne vado, perciò voi due non litigate più, d’accordo?» dissi. «Mi dispiace
avervi mentito. So che avrei dovuto andarmene, ma volevo aiutarvi ad arrivare a
casa perché voi avevate aiutato me, e mi dispiace, mi dispiace tanto…»
«Ruby», disse Ciccio, poi di nuovo, più forte: «Ruby! Per l’amor del…
stavamo parlando di Black Betty, non del tuo culo arancione».
Mi bloccai. «È solo… ho pensato… capisco perché mi vogliate lasciare
qui…»
«Eh?» Liam pareva inorridito. «Abbiamo lasciato la radio accesa così, nel
caso ti fossi svegliata, avresti saputo che non ti avevamo abbandonata.»
Quelle parole mi fecero solo piangere più forte.
Quando una ragazza piange, ci sono poche cose più inutili di un ragazzo.
Averne due accanto significava solo che rimasero a guardarsi l’un l’altro,
inebetiti, invece di guardare me. Ciccio e Liam si alzarono, imbarazzatissimi,
finché Ciccio mi diede una pacca sulla testa come si fa con i cani.
«Pensavi che volessimo liberarci di te perché non sei davvero una Verde?»
chiese Liam, come se facesse fatica a capirlo. «Voglio dire, non mi entusiasma il
fatto che tu non ti sia fidata di noi abbastanza da dirci la verità, ma era il tuo
segreto.»
«Mi fido, davvero», dissi. «Ma non volevo che pensaste che mi fossi infilata
tra voi a forza o che vi avessi manipolati. Non volevo che aveste paura di me.»
«Okay, tanto per cominciare», replicò Liam, «perché mai dovremmo pensare
che ci hai convinti a farti restare con qualche trucchetto Jedi? Abbiamo votato, ti
abbiamo anche chiesto. Seconda cosa, che diavolo c’è di sbagliato nell’essere
Arancione, per l’amor del cielo?»
«Non avete idea…» Di cosa sono capace.
«Esattamente», si intromise Ciccio. «Non ne abbiamo idea, ma non stiamo
certo per vincere il premio per la famiglia normale dell’anno. E allora, puoi
entrare nella testa delle persone? Noi due scaraventiamo la gente per aria come
fossero giocattoli. Una volta Zu ha fatto saltare in aria un condizionatore soltanto
passandoci accanto.»
Non era la stessa cosa, eppure non lo capivano.
«Non riesco sempre a controllarlo come fate voi», dissi. «E a volte faccio cose
brutte. Vedo cose che non dovrei vedere. Trasformo la gente. È orribile. Quando
sono nella testa di qualcuno, è come essere nelle sabbie mobili; più tento di
liberarmi, più danni faccio.»
Ciccio fece per dire qualcosa, ma si trattenne. Liam si chinò in modo che il
suo viso fosse all’altezza del mio, così vicino che quasi mi sfiorò la fronte.
«Noi ti vogliamo», disse, facendo scivolare la mano tra i miei capelli e
fermandola sulla nuca. «Ti volevamo ieri, ti vogliamo oggi e ti vorremo domani.
Niente che tu possa fare ci farà cambiare idea. Se hai paura e non capisci le tue
folli abilità, ti aiuteremo a capirle; ma non pensare, nemmeno per un secondo,
che potremmo mai abbandonarti.»
Attese che lo guardassi negli occhi prima di continuare. «È per questo che hai
reagito in quel modo quando ho detto che forse Slip Kid era un Arancione? È
davvero per questo che vuoi incontrarlo, o vuoi solo tornare da tua nonna?
Perché, in entrambi i casi, tesoro, ti aiuteremo.»
«Entrambe le cose», risposi. Era tanto sbagliato desiderare entrambe le cose?
Avevo smesso di piangere ma mi sentivo i polmoni pesanti e appiccicosi, e
farci entrare anche un solo respiro mi pareva uno sforzo troppo grande. Non so
perché il mio cervello fosse così calmo, ma tentai di non pensarci. Liam e Ciccio
mi presero ciascuno per un braccio, mi sollevarono dal minivan e mi condussero
accanto al fuoco scoppiettante.
«Dove siamo?» chiesi, finalmente.
«Da qualche parte tra il North Carolina e la Grande Palude del Terrore,
spero», rispose Liam, con una mano ancora sulla mia schiena ad accarezzarla
con gesti circolari. «Virginia sudorientale. Ora che sei sveglia, devo controllare
Zu. Voi due restate dove siete, okay?»
Ciccio annuì; lo guardammo allontanarsi in silenzio, poi si voltò verso di me.
«Ruby», mi disse, con voce estremamente seria. «Sai dirmi chi è il presidente?»
Battei le palpebre. «Tu sai dirmi perché me lo chiedi?»
«Ti ricordi cos’è successo?»
Bella domanda. Il ricordo era lattiginoso e distorto, come se stessi
intravedendo il sogno di qualcun altro. «Uomo arrabbiato», dissi. «Fucile. Testa
di Ruby. Ahia.»
«Piantala, sono serio!»
Trasalii, toccandomi ancora una volta i punti sulla fronte. «Puoi abbassare la
voce? Mi pare che la mia testa sia sul punto di crollare.»
«Sì, beh, ti sta bene, visto lo spavento che ci hai fatto prendere. Tieni, bevi»,
disse, porgendomi quel che restava della nostra bottiglia d’acqua. Anche se
l’acqua era tiepida e stantia, non importava: la trangugiai in un sorso solo.
«Voglio dire, mio padre ripeteva spesso che le ferite alla testa sembrano sempre
peggiori di quanto siano in realtà, ma ho pensato davvero che fossi spacciata.»
«Grazie per avermi ricucita», dissi. «Sembro un po’ Frankenstein, ma
immagino che sia appropriato, tutto considerato.»
Ciccio fece un sospiro affaticato. «Frankenstein è il nome del dottore che ha
creato il mostro, non il nome del mostro.»
«Non potevi proprio lasciar perdere, vero?»
«Non te la prendere con me. Sei tu che non conosci i classici della
letteratura.»
«Strano, non penso che ci fosse quel titolo nella biblioteca di Thurmond.»
Non avrei voluto usare un tono così tagliente, ma non era un’esperienza
piacevole farsi ricordare di avere un livello di istruzione pari a quello di un
bambino di dieci anni. Ciccio ebbe la decenza di rivolgermi uno sguardo di
scuse, facendo un gran sospiro. «È solo… rilassati, okay? Il mio cuore può
sopportare solo una certa quantità di stress.»
Per tutto il tempo in cui rimasi ad ascoltare Ciccio e Liam che provavano a
rincuorarmi, una parte di me aveva tentato di capire la discussione che avevo
origliato. Comprendevo, per quanto mi facesse inorridire, la necessità di
abbandonare Betty. Le FSP e i tracciatori ormai avevano capito che bastava
avvistarla. Ma c’era anche qualcos’altro, nascosto tra le loro parole, qualcosa su
cui non erano d’accordo. Avevo la sensazione di sapere esattamente di cosa si
trattasse, ma non potevo chiederlo a Liam. Volevo la verità, non una versione
edulcorata. La versione della Squadra Realtà; e poteva darmela solo Ciccio.
Ma esitai, perché per terra accanto ai suoi piedi c’era la sua copia della
Collina dei conigli. E continuavo a pensare a una riga che mi aveva fatto
arrabbiare da morire quando l’avevo letta la prima volta, da bambina.

I conigli hanno bisogno di dignità e, soprattutto, di rassegnazione al loro


destino.

Nel libro, i conigli avevano incontrato un covo – una comunità – che aveva
stretto un patto con gli umani: questi donavano cibo ai conigli, ma in cambio di
tanto in tanto ne ammazzavano uno. Quei conigli avevano smesso di lottare
contro il sistema, perché era più facile accettare la perdita della libertà,
dimenticare come si vivesse prima che il recinto li imprigionasse, che andarsene
per il mondo e dover lottare per trovare cibo e riparo. Avevano deciso che la
perdita di alcuni di loro valeva la comodità temporanea della maggioranza.
«Sarà sempre così?» Mi portai le ginocchia al petto e ci appoggiai il mento.
«Anche se troviamo East River e ci facciamo aiutare, ci sarà sempre una Lady
Jane dietro l’angolo, vero? E varrà mai la pena?»
Rassegnazione al proprio destino. Nel nostro caso, quel destino era di non
rivedere mai più le nostre famiglie. Di continuare a essere cacciati e inseguiti in
qualsiasi angolo buio ci desse un nascondiglio su questa terra. Qualcosa doveva
cambiare, non potevamo vivere così.
Sentii che Ciccio mi posava una mano pesante sulla nuca, ma ci volle del
tempo prima che riuscisse a rimettere in ordine i propri pensieri.
«Forse per noi non cambierà mai niente», disse. «Ma non vuoi restare nei
paraggi se mai invece dovesse cambiare?»

Non so se fu il fumo del falò a calmarmi, o l’improvvisa ricomparsa di Zu,


che era tornata da una ricognizione in un campeggio vicino per assicurarsi che
fosse deserto. Mentre mi stringeva la vita in un abbraccio, i ragazzi si misero a
raccogliere il cibo rimasto a bordo di Betty.
«Quindi, è così che hai risolto l’indizio», disse Liam. «Lo hai visto in un
ricordo?»
Annuii. «Non particolarmente entusiasmante ora, eh?»
«No, no, non è questo che intendevo», disse lui, e subito aggiunse: «È solo
che sto provando a immaginare che aspetto avesse la mente di quel ragazzo, e la
rappresentazione migliore che mi viene è quella di una palude infestata dagli
alligatori. Dev’essere stato terribile».
«Mai quanto scivolare nella mente di qualcuno che invece mi piace», ammisi.
«Lo hai fatto?» chiese Ciccio dopo quasi dieci minuti di silenzio. Liam stava
tentando di capire se si potevano usare le chiavi di Betty per aprire le lattine di
frutta sciroppata e minestra.
«Ho fatto cosa?»
«Sei mai entrata nelle nostre teste?» concluse. Il modo in cui lo chiese mi
ricordò un bambino che aspettava il finale di una storia della buonanotte:
impaziente. Mi sorprese: in tutti i miei incubi su come avrebbero reagito alla
scoperta della verità, immaginavo sempre che Ciccio avrebbe avuto la reazione
peggiore.
«Certo che è nelle nostre teste», disse Liam, sforzandosi di aprire una lattina.
«Ruby è una di noi ormai.»
«Non era questo che intendevo», sbuffò Ciccio. «Voglio solo sapere come
funziona. Non ho mai incontrato un Arancione prima. A Caledonia non ce
n’erano.»
«Forse è perché il governo li ha cancellati tutti», dissi, posandomi le mani in
grembo. «A Thurmond hanno fatto così.»
Liam alzò la testa, allarmato. «Cosa intendi?»
«Per i primi due o tre anni che ho trascorso lì, c’erano ragazzini di ogni
colore, persino Rossi e Arancioni», dissi. «Ma… nessuno sa come o perché sia
accaduto. Alcuni pensavano che li avessero portati via per tutti i guai che
causavano, ma c’erano voci che li avessero spostati in un altro campo dove
potessero fare su di loro tutti gli esperimenti che volevano. Ci siamo svegliati
una mattina e tutti i Rossi, Arancioni e Gialli erano spariti.» Era ancora
terrificante pensarlo, come un tempo.
«E tu?» chiese Ciccio. «Come hai fatto a non farti beccare?»
«Ho finto di essere Verde fin dall’inizio», dissi. «Avevo visto quanto le FSP
avessero paura degli Arancioni, e ho convinto lo scienziato che conduceva il test
di smistamento.» Fu una fatica spingere fuori le altre parole. «Quei ragazzi…
erano davvero mal messi, sapete? Forse erano così già prima di scoprire le loro
abilità, oppure si detestavano per averle acquisite, ma facevano cose terribili.»
«Tipo cosa?» insisté Ciccio.
Oh Dio, non riuscivo nemmeno a parlarne. Non riuscivo fisicamente ad aprire
bocca. Non per parlare delle centinaia di giochi mentali che avevo visto le FSP
subire. Nemmeno una parola su quella volta in cui dovemmo lavare i pavimenti
della sala mensa dopo che un Arancione aveva ordinato a un FSP di entrare e
sparare a tutti i soldati che avesse incontrato all’interno. Ebbi una stretta allo
stomaco e mi parve di sentire il gusto metallico del sangue. L’odore. Mi
ricordavo la sensazione dolorosa di doverlo grattare via da sotto le unghie, dove
si era seccato.
Ciccio aprì la bocca, ma Liam alzò una mano per zittirlo.
«Sapevo solo di dovermi proteggere.» E, a dire la verità, anch’io avevo paura
degli Arancioni.
C’era qualcosa di sbagliato in loro. In noi. Era il chiacchiericcio costante, il
flusso dei pensieri e delle emozioni di tutti quelli che ci circondavano, credo.
Prima o poi si imparava a bloccarne una parte, a costruire un muro sottile tra la
propria mente e quella degli altri, ma non prima che i pensieri velenosi di
chiunque fossero entrati e avessero macchiato i nostri. Alcuni di noi passavano
talmente tanto tempo fuori dalle proprie teste che non resistevano più quando
erano costretti a tornarvi.
«Perciò ora capite», dissi alla fine, «che errore sia stato farmi restare.»
Zu scuoteva la testa, addolorata per quanto avevo appena detto. Ciccio si
sfregò gli occhi, nascondendo la propria espressione. Solo Liam aveva il
coraggio di guardarmi in faccia. E non c’era disgusto nel suo sguardo, né paura,
né alcuna delle mille altre emozioni orribili che aveva il diritto di provare; c’era
solo comprensione.
«Prova a immaginare dove saremmo senza di te, tesoro», disse piano. «E forse
capirai quanto siamo stati fortunati.»
20

Q notte dormimmo nel minivan, ciascuno stravaccato su un sedile. Lasciai a


UELLA

Zu quello più indietro, e mi sedetti davanti accanto a Liam. Mi sentivo a disagio


nel silenzio, e il sonno tardava ad arrivare nonostante il mio richiamo. A un certo
punto, verso le cinque del mattino, proprio quando stavo per cedere alla nebbia
che mi attanagliava il cervello, sentii un dito leggero che scorreva lungo il mio
collo. Mi girai sull’altro fianco e vidi Liam, mezzo sveglio.
«Stavi parlando da sola», sussurrò. «Tutto bene?»
Mi alzai appoggiandomi su un gomito e mi sfregai gli occhi per allontanare il
sonno. La pioggia aveva creato condensa sui finestrini, e aveva coperto il
parabrezza incrinato come uno strato sottile di pizzo. Ogni volta che una grossa
goccia si staccava e scivolava lungo il vetro, sembrava uno strappo nel tessuto.
Guardare verso la foresta era come perquisire i sogni di qualcuno:
disorientava e inquietava. Ma dentro al minivan ogni dettaglio era vivido. I
contorni dei sedili reclinati, i pulsanti sul cruscotto; riuscivo persino a leggere la
marca sui bottoni della camicia di Liam.
In quella luce, vedevo ogni livido e taglio sul suo viso. Alcuni stavano
cominciando a guarire, altri da tempo si erano trasformati in cicatrici. Ma ciò che
attirò la mia attenzione non fu il livido sulla guancia – che gli avevo provocato
io qualche giorno, oppure una vita addietro – ma il modo in cui i suoi capelli
rimanevano quasi dritti sulla testa, arricciandosi intorno alle orecchie e sul collo.
Il temporale aveva cambiato il loro colore in una tinta miele più scura, ma non
aveva intaccato la loro morbidezza. Non mi aveva tolto il desiderio di tendere la
mano e accarezzarli.
«Che c’è?» sussurrò. «Perché sorridi?»
Gli sfiorai i capelli con le dita, tentando di pettinarli. Ci misi un intero minuto
per rendermi conto di cosa stessi facendo, e me ne accorsi solo dopo che Liam
ebbe chiuso gli occhi abbandonandosi al mio tocco. Nel petto mi esplose
un’ondata di imbarazzo, ma lui mi afferrò la mano quando feci per ritrarla. «Ora
è mia.»
Pericoloso. Questo è pericoloso. Fu un avvertimento passeggero, relegato in
un angolo remoto della mia mente, dove non avrebbe disturbato la sensazione
che quel tocco fosse piacevole; fosse giusto.
«Prima o poi me la dovrai restituire», dissi, lasciando che la facesse scorrere
sulla barbetta che aveva sul mento.
«Peccato.»
«…cracker…» mormorò una voce alle nostre spalle. «Oh sì!!!»
Ci voltammo entrambi a osservare Ciccio che si rigirava sul sedile per poi
calmarsi in una nuova posizione, profondamente addormentato.
Mi premetti una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere.
Liam sorrise. «Sogna il cibo», disse. «Gli capita spesso.»
«Almeno sono bei sogni.»
«Già», concordò lui. «Mi sa che è fortunato.»
Tornai a guardare la sagoma accoccolata di Ciccio e, per la prima volta, mi
accorsi di quanto faceva freddo quando il riscaldamento di Betty era spento.
Liam fece scivolare l’altra mano lungo il braccio, intrecciando le dita alle mie.
Sembrava osservare la forma che avevano, il modo in cui il mio pollice si
appoggiava al suo con naturalezza.
«Se volessi», disse, «potresti vedere cosa sta sognando?»
Annuii. «Ma sono cose private.»
«Lo hai già fatto in passato?»
«Non intenzionalmente.»
«A me?»
«Alle ragazze nella mia baracca, nel campo», dissi. «A Zu quella notte nel
motel. Sono stata nella tua testa, una volta. Ma non nei tuoi sogni.»
Ebbi l’istinto di ritrarmi, di interrompere il contatto prima che fosse lui a farlo,
ma non me lo permise.
«No», disse. «Non sono arrabbiato.»
Posò le nostre mani unite sulla sua fronte, e non mi guardò negli occhi quando
mi chiese: «Peggiora la situazione? Toccare qualcuno, intendo. È più difficile da
controllare?»
«A volte», ammisi. Non sapevo come spiegarlo perché non ne avevo mai
sentito la necessità. «A volte, se sono stanca o scossa, percepisco i pensieri di
qualcuno o un ricordo che hanno, ma posso evitare di farmi risucchiare se non
tocco quella persona. Toccarli quando la mia mente è in quelle condizioni è
come… una connessione automatica.»
«Come pensavo.» Liam sospirò e chiuse di nuovo gli occhi. «Sai, all’inizio,
quando ci siamo incontrati, facevi di tutto per evitare che ci sfiorassimo. Mi
chiedevo se fosse qualcosa che ti avevano addestrata a fare nel campo, perché
ogni volta che qualcuno di noi provava a parlarti o toccarti, facevi un salto come
se ti avessimo dato la scossa.»
«Non volevo fare del male a nessuno di voi», sussurrai.
Liam spalancò di nuovo gli occhi, stranamente più luminosi di prima. Fece un
cenno con la testa verso le nostre dita intrecciate. «Questo va bene?»
«Tu stai bene?» replicai. Riconoscevo la sua espressione: era identica al
dolore che aveva nella stazione di servizio, quando parlava del suo campo. «A
cosa stai pensando?»
«Pensavo a quanto è strano che ci conosciamo da meno di due settimane, ma
mi sembra di conoscerti da molto più tempo», disse. «E penso che è frustrante
conoscere così bene alcune parti di te mentre altre… Non ho la minima idea di
come fosse la tua vita prima che finissi nel campo.»
Cosa potevo dirgli? Come potevo raccontargli di quello che avevo fatto ai
miei genitori e a Sam senza spaventarlo e allontanarlo?
«Questo è un posto dove non c’è bisogno di mentire», disse, indicando lo
spazio tra noi. «Non sei tu che me l’hai detto?»
«Te lo ricordi?»
«Certo che me lo ricordo», rispose. «Perché continuo a sperare che valga per
entrambi. Che se ti chiedo perché non vuoi tornare a casa dai tuoi genitori mi
dirai la verità, o se ti chiedo com’era veramente Thurmond smetterai di mentire.
Ma poi mi sono accorto che non è giusto, perché non è che io abbia una gran
voglia di parlare della mia famiglia. È come se… quelle cose…»
Mi voltai a guardarlo, in attesa che riordinasse i pensieri. «Non so se riesco a
spiegarmi», disse. «È difficile da trasformare in parole. Quelle cose, quei ricordi,
appartengono solo a me, sai? Sono le cose che il campo non è riuscito a
togliermi quando ci sono entrato, le cose che non sono obbligato a condividere
con nessuno, se non me la sento. Sembrerà stupido, credo.»
«Non è stupido. Non lo è affatto.»
«E vorrei parlare di tutto con te. Di tutto. Ma non so cosa dirti di Caledonia»,
continuò. «Non so cosa posso dirti che non ti faccia provare odio nei miei
confronti. Sono stato stupido, e ora sono imbarazzato e mi vergogno, e so che
Ciccio e Zu danno la colpa a me per quello che è successo. E so che Cole ormai
lo avrà raccontato alla mamma, e lei lo avrà raccontato a Harry, e il solo pensiero
mi fa venire da vomitare.»
«Hai fatto quello che ritenevi giusto», dissi. «Sono sicura che lo capiranno.»
Liam scosse la testa e deglutì a fatica. Tesi la mano libera per allontanargli i
capelli dagli occhi. Il modo in cui girò di nuovo il viso verso di me, chiudendo
gli occhi e alzando leggermente il mento, mi diede il coraggio di ripetere il
gesto. Con le dita percorsi l’onda naturale dei suoi capelli, seguendone una
ciocca fino all’orecchio.
«Cosa vuoi fare?» sussurrai.
«Devo svegliare gli altri. Dobbiamo proseguire. A piedi.»
Fermai la mano, ma era chiaro che aveva già deciso.
«Perché questa fretta?» domandai con leggerezza.
Eccolo, all’angolo destro della bocca, dove la cicatrice si univa alle labbra, un
pallido sorriso. «Penso che possiamo lasciarli dormire, almeno per un paio
d’ore.»
«E poi?»
«Ci mettiamo in strada.»

Passarono due ore. A un certo punto dovevamo esserci addormentati entrambi,


perché quando aprii gli occhi, la condensa aveva iniziato a ritrarsi sui vetri, e un
paio di raggi di luce mattutina erano arrivati fino al cuore della foresta.
Quando mi mossi, lo fece anche Liam. Per un poco, non parlammo e non
facemmo null’altro che stiracchiarci per allontanare la rigidità dovuta alla
posizione scomoda in cui ci eravamo addormentati. Quando giunse il momento
di lasciare finalmente la sua mano, sentii il primo spiffero di aria fredda
intrufolarsi dall’esterno.
«Sveglia, squadra», disse Liam. La sua spalla scrocchiò quando si tese
all’indietro per dare una pacca sul ginocchio di Ciccio. «È ora di cogliere questo
stramaledetto attimo.»
Meno di un’ora più tardi, eravamo in piedi davanti al minivan nero, mentre Zu
faceva un ultimo controllo sotto ai sedili. Mi abbottonai la camicia a quadri fino
al mento, e mi avvolsi intorno al collo per tre giri una sciarpa che avevo trovato
da qualche parte. Non perché avessi particolarmente freddo, ma perché aiutava a
nascondere l’inquietante macchia di sangue che avevo sui vestiti.
«Urca.» Con un’espressione cupa Liam mi sfilò i capelli da sotto il colletto.
«Preferisci metterti il mio?»
Sorrisi e tirai su la cerniera del suo giubbotto. La fronte mi faceva ancora male
se la toccavo, e i punti erano brutti come il peccato, ma mi sentivo meglio. «È
stato davvero così terribile?»
«Livello: Alba dei Morti Viventi.» Liam si chinò e infilò qualche vestito in più
nel mio zaino. Qualcosa di rosso comparve tra le sue mani. «Mi hai quasi fatto
venire un infarto, Verde.»
«In realtà non puoi più chiamarla Verde, ormai», sottolineò Ciccio. Aveva
davanti a sé la difficile decisione di quali libri abbandonare e quali portare con
sé, e sembrava essersi deciso per La collina dei conigli, Il cuore è un cacciatore
solitario e un libro che non avevo mai sentito nominare intitolato Casa Howard.
Abbandonati: La spia che venne dal freddo e L’urlo e il furore, che Ciccio aveva
soprannominato La noia e il suicidio.
«Già», confermai, «niente più Verde…»
«Tutto fatto?» chiese Liam a Zu. La bambina gli rispose con un cenno
affermativo, così Liam si mise il suo zainetto rosa su una spalla e il mio
sull’altra. «Quando vuoi, signora bibliotecaria. Pensavo che fossi tu a volertene
andare.»
Ciccio gli fece un gestaccio e si spinse in avanti per chiudere la valigetta
appoggiandoci tutto il suo peso. Mi avvicinai per aiutarlo, tentando di evitare lo
sguardo di Liam, che stava fissando la carrozzeria nera e danneggiata di Betty.
Zu piangeva senza emettere alcun suono; Liam le aveva posato le mani sulle
spalle, a sostenerla.
Persino Ciccio rivolse all’auto un raro sguardo dolce, stringendo le dita sui
pantaloni. Capivo perché ci separavamo da Betty: il tracciatore che viaggiava
insieme a Lady Jane era ancora là fuori, e c’era una possibilità che la donna
avesse segnalato l’automobile alla rete di cacciatori di taglie che i tracciatori
utilizzavano.
Ma capivo anche perché Liam fosse stato così riluttante. A differenza delle
cittadine appassite e abbandonate che avevamo attraversato in West Virginia, da
quelle parti le città e i loro abitanti tenevano duro, e ciò significava che avremmo
incontrato più gente lungo la strada, e Betty, con i suoi finestrini crepati e i buchi
dei proiettili, non passava esattamente inosservata. Poi c’era il fatto che eravamo
quasi senza carburante, e non sarebbe stato facile trovarne altro se non rubandolo
alle auto abbandonate lungo l’autostrada. Per la strada c’era troppo traffico –
troppi occhi – per farlo.
Liam ci aveva portati il più vicino possibile a Lake Prince, ma chissà quanto
ci sarebbe voluto per arrivarci a piedi.
«Penso che dovremmo fare qualcosa», disse. «Non so, metterla su una chiatta
in mezzo al mare e darle fuoco. Farla uscire di scena con una fiammata di
gloria.»
Ciccio alzò un sopracciglio. «È un minivan, non un vichingo.»
Zu si sciolse dalla sua presa e si diresse verso gli alberi alla sua sinistra. Liam
si sfregò la nuca, con aria sperduta.
Ma quando Zu riapparve nel nostro campo visivo, non era a mani vuote.
Stretti tra le sue dita c’erano quattro fiorellini gialli… selvatici, a giudicare
dall’aspetto. Del tipo che dovevamo sempre estirpare dal giardino di Thurmond
in primavera.
Si avvicinò al minivan, si alzò sulle punte dei piedi, e sollevò il tergicristallo
più vicino. Con dita delicate, posò i fiori in fila, tenendoli dritti contro il vetro
crepato. Qualcosa di freddo e umido mi si impigliò tra le ciglia. Non lacrime, ma
una pioggia sottile, quasi nebbia, capace di inzupparti lentamente ma senza
scampo, facendoti impazzire per i brividi di freddo. E mi resi conto di quanto
fosse ingiusto che non potessimo semplicemente rientrare strisciando nell’auto;
se anche fossimo riusciti a raggiungere East River, saremmo rimasti fradici e
indolenziti per giorni.
Quell’auto era stata un luogo sicuro per loro. Per noi. E avevamo perso anche
quello.
Mi infilai le mani in tasca e mi voltai, dirigendomi verso gli alberi. Le mie
dita sfiorarono di nuovo qualcosa di duro e liscio nella tasca, e non ebbi bisogno
di tirarlo fuori per sapere che era il pulsante d’emergenza. Dapprima lo avevo
conservato perché non ero sicura di essere in grado di proteggerli da sola, e in
quel momento avevo una mezza idea di farlo cadere e lasciare che la terra lo
inghiottisse. Liam aveva confermato i miei sospetti, ma mi sembrava sciocco
buttarlo via quando c’era ancora una possibilità di sfruttarli come loro avrebbero
voluto sfruttare noi. Se un FSP o un tracciatore fosse stato sul punto di catturarci,
avrei potuto premere il pulsante, e gli agenti che si sarebbero precipitati sul posto
sarebbero stati una distrazione sufficiente a darci una possibilità di fuga.
Ma ciò non bastò a togliermi la vergogna di quanto mi sentissi sollevata ad
averlo trovato ancora al suo posto; di sapere che Cate, con tutte le sue promesse
di risolvere le cose, fosse ancora là fuori, ancora a un solo tocco di distanza.

Liam pensava che il modo più semplice e veloce di condurre il nostro


gruppetto a East River fosse di costeggiare le strade che avremmo percorso se
avessimo ancora avuto Betty. Eravamo abbastanza vicini all’autostrada da
sentire ogni tanto una macchina passare a tutta velocità, o da scorgere il lampo di
qualche lungo tir dalla pancia argentata, ma Liam ci assicurò che eravamo fuori
dal loro campo visivo. Era così che aveva viaggiato dopo essere sfuggito alla
Lega, era così che aveva attraversato quasi tutta la Virginia, ed era così che
sperava di tornare a casa.
Stavamo valutando se Ciccio si fosse rotto o meno un dito del piede
inciampando in una radice sporgente quando il silenzio fu infranto dal lamento
del clacson di un camion. I botti che seguirono furono mille volte peggio: il
rombo di qualcosa di pesante che cadeva su un fianco e il fragore del metallo che
si spezzava.
Trasalimmo tutti; io lasciai la mano di Zu per tapparmi le orecchie. Il suono
stridente delle ruote immediatamente prima della collisione sembrava il segnale
d’allarme del Rumore Bianco.
Liam si avvicinò e mi tolse con gentilezza le mani dalle orecchie.
«Vieni con me un secondo.» Si voltò verso gli altri. «Voi controllate le borse.»
Prima ancora che il suono si fosse spento nell’aria, sentimmo le urla. Non urla
disperate, quelle di qualcuno terrorizzato o ferito o persino fuori di sé per il
dolore. Quello era un urlo di guerra. Un urlo da ribelle in rivolta. E, dopo averlo
sentito, non avremmo mai permesso che Zu o Ciccio venissero con noi.
Rimasero indietro a controllare le borse mentre Liam e io ci avvicinammo alla
fila di alberi che ci separava dall’asfalto zuppo di pioggia dell’autostrada. Il
camion era ribaltato su un fianco in mezzo alla strada, come un giocattolo
scartato. La puzza di gomma bruciata e di fumo mi diede il voltastomaco. Ci
accovacciammo, preoccupati che la scia di scintille davanti a noi si trasformasse
in un muro di fiamme.
Liam si alzò e, prima che riuscissi ad afferrargli la spalla, aveva quasi
raggiunto il ciglio della strada.
«Cosa stai facendo?» dovetti urlare sopra il rumore della pioggia che batteva
sulla carrozzeria argentata e accartocciata del rimorchio che il camion stava
trasportando.
«L’autista…»
Aveva bisogno d’aiuto, certo, lo sapevo, e forse ero una persona orribile e
senza cuore, ma non avevo intenzione di lasciare che fosse Liam a soccorrerlo. I
camion non si rovesciavano in mezzo alla strada senza motivo. O c’erano
un’altra auto e un conducente che non vedevamo, oppure…
Oppure le grida e l’incidente erano collegati.
Liam e io ci trovavamo ancora allo scoperto quando le figure vestite di nero
sbucarono tra gli alberi davanti a noi. Ogni centimetro del loro corpo era coperto
di nero, dai passamontagna abbassati sui volti alle scarpe. C’era l’autostrada tra
noi, eppure la loro vista bastò per farmi afferrare il braccio di Liam e stringerlo
così forte che dovevo avergli lasciato l’impronta indelebile delle mie dita.
Ci saranno state venticinque figure in nero; si muovevano all’unisono, con
esperta agilità. Ed era stranissimo, ma mentre invadevano la strada e si
dividevano in due gruppi – uno si diresse verso il muso del camion, l’altro sul
retro dove gli scatoloni che trasportava si erano rovesciati – mi ricordarono una
squadra di football che riproduceva uno schema. I quattro diretti verso il muso si
arrampicarono e spalancarono la portiera. L’autista, che urlava qualcosa in una
lingua che non capivo, fu trascinato a terra.
Una delle figure in nero – un tipo grande e grosso, con le spalle larghe come il
Kansas – estrasse un coltello dalla cintura e, facendo segno agli altri di tenere
fermo l’autista, gli premette la lama argentata sul palmo. Sentii un urlo, e non mi
accorsi che proveniva da me finché la testa di quel mostro nero si girò verso di
noi. Liam sobbalzò al vedere dieci bocche di altrettante pistole puntare verso di
noi. Il primo proiettile passò così vicino da graffiargli l’orecchio. Non c’era
nemmeno tempo di voltarsi e scappare. Il fuoco cessò abbastanza da permettere
a tre di loro di correre in avanti, urlando: «In ginocchio!» e: «Faccia a terra!»
Volevo scappare. Liam doveva essersene accorto, perché mi afferrò una spalla
e mi spinse a terra, premendomi un lato del viso contro l’asfalto ruvido e
bagnato. La pioggia cadeva più forte, riempiendomi l’orecchio, il naso, la bocca
mentre mi sforzavo di trattenere un altro urlo.
«Non siamo armati!» gridò Liam. «Piano… piano!»
«Risparmia il fiato, stronzo», sibilò qualcuno.
Conoscevo fin troppo bene la sensazione di una canna di pistola premuta sulla
pelle. Chiunque lo stesse facendo in quel momento non ebbe remore a piantarmi
un ginocchio nella schiena, appoggiandosi con tutto il peso. La bocca metallica
della pistola era fredda sulla mia guancia, e sentii che qualcuno mi infilava una
mano tra i capelli e dava uno strattone. Fu in quel momento che allontanai da me
la sensazione di dolore e alzai una mano, tentando di girarmi abbastanza da
afferrare chi mi aveva immobilizzata. Non ero impotente; non saremmo morti lì.
«Non quelle!» sentii dire a Liam, implorante. «Vi prego!»
«Oh, non vuoi che le tue preziose carte si bagnino?» La stessa voce di prima.
«Che ne dici di preoccuparti di te stesso o della tua ragazza, invece, eh? Eh?»
Sembrava un atleta sbruffone, inebriato da troppa adrenalina prepartita.
Qualcuno mi pestò la mano con cui tentavo di afferrare il mio assalitore.
Lanciai un grido strozzato, desiderando di poter girare la testa per vedere cosa
aveva provocato la stessa reazione in Liam.
«Dottor Charles Meriwether», lesse la voce. «2.775 Arlington Court,
Alexandria, Virginia. George Fields…»
Le lettere.
«Smettetela», disse Liam. «Non abbiamo fatto niente! Non abbiamo visto
niente, solo…»
«Charles Meriwether?» disse un’altra voce. Sempre un maschio, stavolta con
un accento meridionale più marcato. Quasi non riuscivo a sentirlo sopra il suono
della pioggia. «George Fields… come Jack Fields?»
«Sì!» Liam capì molto prima di me. Era una tribù: quelli erano ragazzi come
noi. «Sì, siamo Psi, siamo Psi come voi!»
«Lee? Liam Stewart?» Dei passi si avvicinarono a noi di corsa.
«Mike? Sei tu?» domandò Liam.
«Oh mio Dio… Fermi, fermi!» La pistola si allontanò dal mio viso, ma ero
ancora schiacciata a terra. «Lo conosco: è Liam Stewart! Fermi! Hayes, levati di
lì!»
«Ci ha visti; conosci le regole!»
«Merda, ma sei sordo?» strillò Mike. «Le regole valgono per gli adulti: questi
sono ragazzi, idiota!»
Non so se Liam fosse riuscito finalmente a liberarsi o se furono le parole di
Mike a fare la differenza, ma sentii che si alzava accanto a me e, quando aprii gli
occhi, vidi che dava una spallata alla figura in nero che stava sopra di me. Mi
riempii i polmoni di aria.
«Stai bene?» domandò posando le mani ai lati del mio viso. «Ruby, guardami,
stai bene?»
Alzai le mani per afferrare le sue e annuii.
Dei sei tizi radunati intorno a noi, solo due si tolsero il passamontagna: quello
grande e grosso – una sorta di Ercole – con la pelle rubizza e della vernice nera
sotto gli occhi, e un altro dal colorito olivastro, con capelli castani spettinati e
tirati all’indietro in una corta coda di cavallo. Quest’ultimo era Mike. Si avvicinò
e tolse le lettere di mano a Ercole, premendosele al petto.
«Lee, amico, mi dispiace un sacco, non ho mai pensato…» La sua voce si
spense, strozzata. Liam lasciò una delle mie mani per dargli una pacca sulla
schiena. «Che diavolo ci fai tu qui?»
Liam riprese le lettere e si voltò di nuovo verso di me. «Siamo a posto ora»,
mi disse. Sembrava abbastanza vero. Gli altri ragazzi in nero avevano perso
interesse nei nostri confronti quando Mike si era fatto avanti.
«Dio, Lee», disse, asciugandosi il viso dalla pioggia. «Oh mio Dio, non riesco
a credere che tu sia riuscito a uscire.»
Liam rispose con voce tesa. «Pensavo che fossi con Josh quando…»
«Ero con lui, ma sono riuscito ad attraversare i campi.» Aggiunse: «Grazie a
te».
Un altro ragazzo, dalla pelle scura come quella di Ciccio, indicò Liam con il
pollice. «Questo sarebbe Lee Stewart? Da Caledonia?»
«Dal North Carolina», rispose, sorprendentemente avvelenato.
Mike strinse la mano di Liam, tutto tremante. «Gli altri… hai visto se
qualcuno degli altri è riuscito a uscire?»
Liam esitò. Sapevo a cosa stava pensando e mi chiesi se avrebbe raccontato a
Mike la verità su quanti ragazzi fossero fuggiti quella notte. Invece, tutti e sei i
loro orologi scattarono nello stesso istante, con un bip acuto.
«È ora», disse Ercole. «Prendete le provviste e tornate indietro. I tizi in
uniforme arriveranno da un momento all’altro.»
Un unico sparo sottolineò il suo ordine come un punto esclamativo, e
rimbombò lungo la strada deserta. Liam e io saltammo indietro, lontano da loro.
I ragazzi sul retro del camion stavano scaricando tutto il contenuto: scatoloni e
casse di frutta dai colori vivaci. Schiusi le labbra alla vista di banane ancora
verdi, che sarebbero state mature entro qualche giorno. Quando si allontanarono
dirigendosi verso gli alberi, vidi chiaramente l’autista del camion che, privo di
sensi e legato, veniva trascinato nel fosso a lato della strada.
«Insomma, cosa fate?» Liam si sfregò la nuca. «Colpite chiunque sia
abbastanza stupido da passare di qui?»
«È un colpo di rifornimento», spiegò Mike. «Stiamo solo tentando di portare a
casa qualcosa da mangiare, e questo è l’unico modo che funziona, per noi.
Dobbiamo soltanto fare in fretta: dentro e fuori prima che qualcuno se ne
accorga e ci possa seguire fino a casa.»
«Fino a casa?»
«Sì. Voi dove siete diretti?» Mike dovette urlare al di sopra delle voci degli
altri, che lo chiamavano. «Dovreste venire con noi!»
«Abbiamo già la nostra tribù, grazie», disse Liam.
Mike si accigliò. «Non siamo una tribù. Non in quel senso, almeno. Siamo
con Slip Kid. Ne hai mai sentito parlare?»
21

M il nostro fantasticare, East River non era altro che un campeggio. Grande,
ALGRADO

certamente, ma niente che non avessi visto almeno una decina di volte con i miei
genitori. A sentire le descrizioni entusiastiche di Mike, sembrava che fossimo
diretti ai cancelli scintillanti del paradiso, anziché a un vecchio campeggio che in
una vita passata si chiamava Chesapeake Trails.
Poiché era stato Mike a convincere gli altri a permetterci di andare con loro,
era compito suo farci da babysitter nella lunga camminata in salita su una strada
fangosa e non asfaltata, carichi delle casse di frutta che erano tanto allettanti
quanto pesanti.
«Facciamo queste cose – li chiamiamo colpi – per raccogliere provviste per il
campo. Cibo, medicine, qualsiasi cosa. A volte colpiamo anche i negozi.»
Liam mi aveva dato il suo giubbotto per ripararmi dalla pioggia. Anche se si
era trasformata in una pioggerellina leggera, il danno agli scatoloni di cartone
che trasportavamo era fatto. Di tanto in tanto il fondo di uno cedeva
completamente, e il poveretto che lo trasportava era costretto a infilarsi la frutta
bagnata nelle tasche o a usare la maglietta come sacco. Altri ragazzi tornavano
indietro a raccogliere i pezzi sparpagliati della scia colorata che lasciavamo
dietro di noi.
Mentre Mike ci dava le spalle, Liam infilò una mano nella cassetta in cima e
mi mise un’arancia davanti al viso, con un sorriso timido sulle labbra. Quando la
posò nella tasca del mio giubbotto, si chinò, facendo scivolare via il cappuccio
dalla testa, e mi diede un bacio leggero sulla guancia livida. Il freddo che sentivo
sulla pelle sembrò evaporare.
«Ahi, ahi, ahi, ahi», cantilenò Ciccio dietro di noi. «Ahi, ahi, ahi, ahi.»
«Sai», disse Mike, «mi rincuora vedere che, dopo tutto quello che abbiamo
passato, Ciccio è sempre lo stesso Ciccio che conosciamo e amiamo.»
«Oh, non è mica vero», disse Liam. «Questo è Ciccio due punto zero. Non ha
pianto neanche una volta per tutta la camminata.»
«Dagli tempo», sbuffò Greg. «Sono certo che non ci deluderà.»
«Ehi», dissi a voce bassa, come avvertimento. «Non fa ridere.»
Ciccio era ancora l’ultimo della fila, e la distanza tra noi aumentava a ogni
chilometro. Mi fermai ad aspettarlo, perché non volevo che si sentisse
abbandonato.
«Serve aiuto?» chiesi quando si avvicinò zoppicando. «La mia scatola non è
tanto pesante.» E la sua lo era, si vedeva. Era carico di pompelmi.
Gli leggevo negli occhi che aveva una voglia disperata di fare cambio, anche
solo per qualche minuto. Tuttavia, alzò il mento e, al di sopra di un’aletta di
cartone, disse: «Sto bene, ma apprezzo la proposta».
Liam e Mike scoppiarono a ridere per qualcosa; persino Zu si voltò a
sorridere, e il cappello di Liam le scivolò sugli occhi. Era incredibile quanto
l’aspetto di Liam fosse migliorato in poche ore; aveva il viso acceso di
un’energia che non vedevo… beh, mai.
«Com’era lui?» domandai piano. «Com’era quando era nel campo?»
Ciccio fece un lungo sospiro. «Tanto per cominciare, era molto più fastidioso
con quel continuo: ‘Ce la faremo, ragazzi, ne usciremo un giorno’, stile
Pollyanna. Quell’atteggiamento sta lentamente morendo, ora che Liam si è reso
conto di quanto tutto faccia effettivamente schifo.»
Si fermò per aggiustare il peso dello scatolone tra le braccia. «Insomma, cosa
vuoi che ti dica? Lee è Lee. Tutti lo adoravano, persino alcune delle FSP. Lo
avevano scelto tra tutti i Blu per fare da fattorino al centro di controllo del nostro
campo.»
«Davvero? E tu, com’eri nel campo?» chiesi con un sorriso.
«Ignorato, per lo più. Tranne quando ero con Lee.»
Come se avesse sentito il suo nome, Liam si voltò. «Sbrigatevi, signorine!
Altrimenti rimaniamo indietro!»
Mike era intento a spiegare come fosse arrivato dall’Ohio in Virginia facendo
l’autostop dopo essere scappato da Caledonia, quando Ciccio finalmente li
raggiunse. Zu mi tirò la manica del giubbotto e indicò gli alberi alla nostra
sinistra. Ero talmente assorta nella conversazione con Ciccio che mi ero persa il
lago blu e setoso che era improvvisamente apparso. Le nuvole si diradarono,
rivelando un sole alto sopra di noi. L’acqua scintillava al suo tocco, proiettando
riflessi di luce sugli alberi che lo circondavano. Attraverso la foresta,
intravedevo un piccolo attracco di legno a forma di T dall’altro lato e, oltre, una
serie di casette in legno.
«Insomma è più che altro un nascondiglio», disse Liam. «Può aiutarci a
contattare i nostri genitori?»
Mike fece una smorfia. «Penso di sì, ma di solito chiede in cambio di rimanere
e dare una mano per qualche settimana. E poi, chi ha voglia di tornare a casa
ormai? Qui è molto più sicuro.»
Mi resi conto che Ciccio voleva insistere, ma Liam proseguì imperterrito con
un’altra domanda. «Questo Slip Kid da quanto tempo è sistemato qui?»
«Due anni o giù di lì, credo», rispose Mike. «Cavolo, non vedo l’ora che lo
incontriate: impazzirete.»
Ciccio alzò gli occhi al cielo, ed ebbi la netta impressione che lui e Mike non
andassero poi molto d’accordo.
«E ci sono centinaia di ragazzi che vanno in giro, senza controlli?» chiesi.
«Come ha fatto a rimanere qui così a lungo senza che le FSP se ne
accorgessero?»
Mike aveva già spiegato il funzionamento del campo. Tutti i ragazzi che vi si
erano radunati – alcuni dei quali erano scappati da un campo o sfuggiti alla
cattura, mentre altri erano rimasti nascosti abbastanza a lungo da evitarli del
tutto – avevano delle responsabilità.
«Oh, vedi, è questo il bello di essere protetti da Slip Kid», disse Mike. «Le
FSP non possono toccarlo a causa della sua identità e di come potrebbe
vendicarsi. Persino il vecchio Gray ne è terrorizzato.»
«Ho capito chi è!» esclamò Liam schioccando le dita. «Babbo Natale!»
Zu ridacchiò.
«Non sei poi così lontano», disse Mike. «Sembrerò supersdolcinato, perciò
prendetemi pure in giro, ma qui ogni giorno sembra Natale.»
Capii immediatamente cosa intendeva. Appena raggiunta la radura dove,
immaginai, un tempo i campeggiatori avevano montato le tende, fummo
circondati da decine di ragazzi. Alla nostra destra, alcuni adolescenti giocavano
a pallavolo, con una rete vera. Sentii qualche risata e strillo divertito, e mi fermai
per lasciar passare un gruppo di bambine che giocava a prendersi. Furono loro a
catturare l’attenzione di Zu.
Avevano un aspetto felice: allegre, luminose e sorridenti. E pulite. Non piene
di tagli e lividi e fango, come noi, ma con vestiti e scarpe decenti. Alcuni ragazzi
che si erano attardati sotto gli alberi mollarono ciò che stavano facendo e ci
aiutarono a portare le casse di frutta verso un edificio bianco con l’insegna
, senza che ci fosse bisogno di chiedere.
UFFICIO/NEGOZIO

L’ufficio/negozio era la struttura più solida che avessimo visto fino ad allora,
costruita per durare più a lungo delle baracche di legno dalle porticine verde
scuro.
«È qui che teniamo il cibo», disse Mike, come se fosse la cosa più
emozionante che potessimo sentire. «Ed è da qui che Slip Kid manda avanti lo
show; entriamo, ve lo presento. Chiedo il permesso di farvi restare per un po’.»
«Abbiamo bisogno del permesso?» domandò Ciccio. «Cosa succede se dice di
no?»
«Non ha mai detto di no», rispose Mike, spostando la cassa sulla spalla per
mettere un braccio intorno alle spalle di Ciccio.
Poiché si accorse che stavo facendo attenzione, mi fece un ampio sorriso. «Tu
di sicuro non eri a Caledonia. Un viso come il tuo me lo ricorderei.» Penso che
fosse convinto di essere affascinante, con quegli occhi scuri e le fossette. Rivolse
uno sguardo a Lee, che osservava la mia reazione trattenendo a stento un sorriso.
«Da dove viene, e dove posso trovarne una?»
«Questa l’ho raccolta a un distributore di benzina in West Virginia, prezzo
scontato», disse Lee. «Era l’ultima sullo scaffale, mi spiace.»
Mike rise di nuovo, stringendo la spalla di Ciccio prima di salire le scale e
infilarsi oltre un lenzuolo bianco appeso alla piccola veranda. Lo guardai
distrattamente, ma dovetti tornare sui miei passi.
Al vedere l’enorme Ψ nera che vi era dipinta, Zu si bloccò, e il suo viso
assunse un pallore mortale. Io non riuscivo a muovermi, non riuscivo a
distogliere lo sguardo. Liam si schiarì la voce e strinse la mascella nel tentativo
di tirare fuori le parole più facilmente.
Fu sufficiente a impedire a me e Zu di fare un altro passo. Sul viso della
piccola comparve un’espressione allarmata. Liam rivolse al suo amico uno
sguardo confuso.
«Che c’è?» domandò Mike, vedendo la nostra reazione.
«C’è un motivo in particolare per cui avete deciso di decorare i muri di questo
bel posto con il simbolo dei nostri mortali nemici?» chiese Liam.
Era la prima volta che vedevo l’espressione di Mike incrinarsi nelle quasi due
ore che avevamo trascorso insieme a lui. Il suo sguardo si indurì, e contrasse i
muscoli della mascella. «È il nostro simbolo, non è così? È Psi. Dovrebbe
rappresentare noi, non loro.»
«Come spieghi il nero, allora?» insistette Liam. «Le fasce sul braccio, le
camicie…?»
Aveva ragione. Tutti, in un modo o nell’altro, indossavano quel colore. La
maggior parte sembrava soddisfatta di legare un laccio nero al braccio, ma altri,
e non solo quelli che avevano partecipato al raid, erano vestiti di nero dalla testa
ai piedi.
«Il nero è l’assenza di ogni colore», disse Mike. «Non siamo segregati per
colore, qui. Ci rispettiamo a vicenda, rispettiamo le nostre abilità e ci aiutiamo
reciprocamente a comprenderle meglio. Pensavo che, tra tutti, tu saresti stato in
grado di capirlo.»
«Oh no, no, certo che capisco. Capisco eccome», ribatté Liam. «Ero solo…
confuso, tutto qui. Il nero è il nostro colore. Capito.»
La porta scorrevole scricchiolò di nuovo. Mike la tenne aperta con il piede.
«Venite?»
All’interno, fui sorpresa di sentire un’ondata di calore colpirmi il viso, e di
trovare le luci accese. Elettricità; ricordavo di aver sentito dire a Greg che i
Gialli avevano fatto funzionare l’impianto in qualche modo, ma avevano anche
l’acqua corrente?
Le stanze sul davanti erano piene di coperte e lenzuola, qualche materasso
impilato e un certo numero di scatole di plastica grigia impossibili da
identificare. La stanza sul retro – il negozio nella combo ufficio/negozio – si
trovava sulla destra di una piccola cucina con le piastrelle bianche.
Mike fece un cenno ai ragazzi all’interno, che stavano mescolando con lunghi
cucchiai di legno una creazione deliziosa dentro le pentole.
Gli scaffali di legno del vecchio negozio erano dipinti di un verde cupo, ma
traboccavano di un assortimento multicolore di cibo in scatola, pacchi di
patatine, pasta e persino marshmallow. Liam fece un lungo fischio alla vista
delle scatole di cereali impilate più in alto delle nostre teste. Pensai che Ciccio si
sarebbe messo a piangere.
Lasciammo la frutta a terra, in un angolo ombreggiato della stanza, accanto a
una ragazza dai capelli corti e biondi che indossava una maglietta nera che le
lasciava scoperta la pancia. Batteva le mani per la gioia, saltellando. Non poteva
avere più di quattordici o quindici anni, e altrettanti piercing sulle orecchie.
«Sapevo che saresti stata contenta, Lizzie», disse Mike, lanciandole un
pompelmo.
«Non mangiamo frutta da una vita», commentò lei, alzando il tono a ogni
parola. «Spero che duri per un paio di settimane.»
Mike ci condusse fuori dalla stanza, lasciando che Lizzie si coccolasse le
arance e gli ananas. «Andiamo di sopra. Ormai la riunione con gli addetti alla
sicurezza dovrebbe essere finita. Hayes si occupa dei colpi, ma Olivia – la
incontrerete presto – coordina i turni di guardia al perimetro del campo. Se
volete, posso parlarle di voi e farvi assegnare a lei.» Abbassò gli occhi su Zu.
«Ma, purtroppo per te, mia cara, tutti quelli che hanno meno di tredici anni
devono andare a lezione.»
Questo attirò l’attenzione di Ciccio. «Che genere di lezione?»
«Roba di scuola, credo. Matematica, un po’ di scienze, qualche lettura;
dipende su quali libri riusciamo a mettere le mani. Il capo ci tiene che tutti
imparino almeno le basi.» Mike si fermò in cima alle scale e si voltò a guardarci
da sopra la spalla. «So che non ti è mai piaciuto usarle, ma ci sono anche lezioni
su come gestire le nostre abilità.»
Ciccio, dietro di me, si schiarì la gola. «Mi basta quello che mi ha insegnato
Jack.»
«Jack…» La voce di Mike si spense. «Cavolo, quel ragazzo mi manca.»
Mentre ci avvicinavamo, ci aveva spiegato che cinque ragazzini da Caledonia
vivevano nel campo di Slip Kid. Mike era l’unico che aveva condiviso la stanza
con Liam, ma c’erano anche due ragazze Blu, un ragazzo Giallo e un Verde che
in qualche modo era riuscito ad arrivare fino all’East Virginia.
Il secondo piano dell’edificio era una sorta di soffitta; era costituito da una
sola stanza, ma piuttosto bella. Mike bussò e, quando dissero: «Entrate», toccò la
maniglia. Ciccio emise un gemito nervoso e mi sorpresi a notare che il mio cuore
aveva saltato un battito.
La porta si aprì rivelandoci il centro della stanza. A destra c’era una tenda
bianca, completamente tirata come a nascondere quello che doveva essere un
appartamento. La finestra dietro la tenda lasciava entrare abbastanza luce
pomeridiana da far intravedere un letto e una cassettiera.
L’altra metà della stanza era arredata come un ufficio. C’erano due scaffali
pieni di raccoglitori e libri di ogni forma e dimensione. Una vecchia scrivania in
metallo, dalla vernice scrostata, era sistemata in mezzo. Di fronte alla scrivania
c’erano due semplici sedie e un lungo tavolo spinto contro la parete sinistra, su
cui era appoggiata ogni sorta di apparecchio elettronico. C’era un televisore
sintonizzato su un canale di news. Il viso del presidente Gray, affiancato da due
bandiere americane, riempiva lo schermo. La sua bocca si muoveva, ma il
volume era azzerato. L’unico suono, a parte il sospiro improvviso di Ciccio, era
provocato dalle dita di Clancy Gray che battevano sui tasti di un sottile computer
portatile argentato.
Lo avrei riconosciuto anche se si fosse rasato i folti capelli neri ondulati,
anche se si fosse tatuato le guance, o se avesse fatto un piercing sul lungo naso
dritto. Avevo trascorso sei anni a fissare ciascuno dei suoi ritratti a Thurmond,
memorizzando ogni neo, la forma delle sue labbra sottili; conoscevo a memoria
persino la curva dell’attaccatura dei suoi capelli. Ma non era paragonabile al
vederlo dal vivo. Quei ritratti non avevano saputo catturare i suoi occhi scuri, e
di certo non avevano saputo predire quanto sarebbe diventato particolare,
crescendo.
«Solo un secondo…» Alzò gli occhi dallo schermo e si voltò verso di noi con
uno scatto, tornando a guardarci con attenzione.
«Capo?» disse Mike. «Tutto bene?»
Il figlio del presidente si alzò lentamente, chiudendo il portatile. Le maniche
arrotolate della camicia bianca gli scivolarono sulle braccia abbronzate.
Sarebbe questo, Slip Kid? pensai. Lui? Dire che fossi sorpresa era un
eufemismo. Uno shock da ammutolire il cervello, del tipo che riduceva i miei
pensieri a un ammasso strisciante, era un eufemismo. Non ebbi nemmeno un
secondo di tempo per riprendermi prima che le tre parole successive gli uscissero
dalla bocca. Non avrei potuto, in ogni caso, perché Clancy Gray mi guardò dritta
negli occhi e disse l’ultima cosa in assoluto che mi sarei aspettata.
«Ruby Elizabeth Daly.»
La mia reazione fu davvero troppo forte per un gesto innocente come
pronunciare il mio nome. Non aveva certo sputato fuori tre imprecazioni volgari,
né urlato: Uccideteli tutti subito! oppure: Sbatteteli in prigione! Non avrei
dovuto inciampare tentando di fare un passo indietro, ma ero quasi già alla porta
prima ancora di accorgermene. Clancy fece un passo avanti ma Lee lo spinse
indietro con forza.
«Lee!» Mike sembrava scandalizzato.
Clancy alzò le mani. «Scusa, mi dispiace! Colpa mia. Avrei dovuto rendermi
conto di come potesse suonare. Ero solo sorpreso di vederti.» Si sporse oltre
Liam con un sorriso di scuse, e mi fermai sulla soglia, stupita per un momento
alla vista dei suoi denti dritti e bianchissimi.
«Ho letto il tuo file così tante volte, e su così tanti network, che mi sembra di
averti già incontrata. Ci sono un sacco di persone che ti cercano, là fuori.»
«E tu a chi di loro stai pensando di consegnarla?» scattò Ciccio.
Mi alzai, lasciando che Zu mi tenesse un braccio stretto intorno alla vita.
Clancy arrossì a quell’accusa, e tornò a posare gli occhi scuri su di me. «A
nessuno di loro. Io raccolgo solo informazioni, controllo i canali per capire di
cosa parla la gente. E a quanto pare la gente parla di te, signorina Daly.» Fece
una pausa, sfregandosi la spalla con aria distratta. «Vediamo se mi ricordo tutti i
dettagli: nata a Charlottesville, Virginia, ma cresciuta a Salem dalla madre
Susan, insegnante, e dal padre Jacob, agente di polizia. Hai frequentato la scuola
elementare di Salem fino al decimo compleanno, quando tuo padre ha chiamato
il commissariato per denunciare la presenza di una bambina sconosciuta in casa
sua…»
«Smettila», mormorai. Liam mi guardò da sopra la spalla, dividendo la propria
attenzione tra me e il ragazzo che recitava ogni sordido dettaglio della mia vita.
«…ma, purtroppo, le FSP sono arrivate a casa tua prima della polizia. Per
fortuna, qualcuno ha fatto un errore o ha avuto fretta di andare a prendere altri
ragazzini, perché non si sono attardati a interrogare i tuoi genitori e di
conseguenza non ti hanno preassegnata. E poi sei arrivata a Thurmond, e sei
riuscita a evitare di far loro scoprire che eri una Arancione…»
«Smettila!» Non volevo sentirlo, e non volevo che lo sentisse nessun altro.
«Che problemi hai?» urlò Liam. «Non vedi che la stai turbando?»
Clancy, forse aspettandosi un altro spintone, si spostò a lato della scrivania.
«Sono emozionato di incontrarla, tutto qui. Non capita spesso di trovare un altro
Arancione.»
Una scintilla si accese al centro del mio petto, espandendosi in fretta fino al
cervello. È un Arancione. Le voci erano vere. Potrebbe davvero aiutarmi.
«Ma… non ti avevano riformato?» chiesi lentamente. «Non è per questo che ti
hanno lasciato andare?»
«Tu più di chiunque altro dovresti sapere che non riformano un bel niente a
Thurmond, Ruby», rispose. «Come vanno le cose nel caro vecchio Thurmond, a
proposito? Ho avuto il dubbio onore di essere il primo prigioniero; ho potuto
vedere la costruzione della sala mensa mattone dopo mattone. Hanno davvero
appeso la mia foto dappertutto?»
Una domanda più adatta: pensava sul serio che avrei preso una sedia e mi
sarei messa a chiacchierare dei bei vecchi tempi? Clancy sospirò. «Comunque…
se tu sei Ruby, allora tu devi essere Liam Stewart. Ho letto anche il tuo file.»
«Qualcosa di interessante?» domandò Mike con una risatina nervosa.
«Le FSP hanno seguito ogni tua mossa», disse Clancy, appoggiandosi alla
sedia. «E ciò significa che hai bisogno di un posto dove nasconderti per un po’,
giusto?»
Liam esitò un secondo prima di annuire.
«Venire qui è stata la scelta giusta. Puoi restare per tutto il tempo che ti
serve.» Clancy appoggiò le mani sul petto. «Ora che sono riuscito a turbare tutti,
Mike, vuoi accompagnarli a una baracca e assegnarli ai turni?»
Mike annuì. «Per la cronaca, io non sono turbato, capo.»
Clancy rise, un suono ricco e profondo. «D’accordo, bene. Grazie per il duro
lavoro di oggi, a proposito. Sembra che sia stato un buon bottino.»
«Da non crederci», confermò Mike, avvicinandosi alla porta. Ci fece cenno di
seguirlo, ma non c’era più lo stesso calore nel suo sguardo. «La baracca 18 è
libera, giusto?»
«Già, Ty e i suoi hanno scelto la vita tribale», disse Clancy. «Non so se
qualcuno sia andato a pulire dopo la loro partenza, quindi mi scuso per il
disordine.»
Poi tornò a fissarmi, piegando verso l’alto un angolo delle labbra, poi l’altro.
Una sensazione calda, frizzante, mi riempì la mente e mi fece accelerare i battiti.
Mi voltai, interrompendo il contatto visivo, ma l’immagine continuava a
invadermi la testa, traboccando fino a farmi quasi soffocare. Nella mente, vidi
me e Clancy da soli in quella stessa stanza; lui era in ginocchio e mi offriva una
rosa.
Mi perdoni? La sua voce risuonava forte nelle mie orecchie, continuando a
echeggiare mentre scendevo le scale.
Come ci era riuscito? Aveva attraversato a passo di danza ogni mia difesa
naturale. E perché il mio cervello si era improvvisamente risvegliato, tendendosi
verso chiunque ci fosse a portata di mano, chiunque fosse così stupido da
lasciarmi entrare?
Sollevai il viso dalla spalla di Liam, dove lo avevo nascosto. Ma quando lo
avevo fatto? E quando eravamo usciti all’esterno, quando eravamo arrivati fino
alla baracca?
Liam tentò di incrociare il mio sguardo, ma mi ritrassi. Desideravo così tanto
di entrare nella sua mente da provare un dolore sordo ma reale nella testa. Era
troppo pericoloso essere così vicini.
«Non adesso», sussurrai.
Liam schiuse le labbra come per dire qualcosa, ma si limitò ad annuire e a
voltarsi verso la baracca, correndo su per i gradini.
Avevo bisogno di allontanarmi da loro il più possibile, almeno finché
l’agitazione nella mia testa fosse scemata. Non avevo nessun piano, né una
mappa; mi incamminai semplicemente lungo il sentiero più vicino. Un paio di
ragazzini, tutti sconosciuti, mi chiamarono preoccupati, ma li ignorai e seguii
l’odore di foglie marce e fango fino a raggiungere il lago che avevamo visto
arrivando.
Gli alberi e i cespugli avevano invaso la via d’accesso al piccolo attracco in
legno; dove la strada non era bloccata dalla vegetazione trovai una corda e un
cartello che diceva .
NON OLTREPASSARE

Mi infilai sotto e continuai ad avanzare, senza fermarmi fino a sedermi sul


bordo del vecchio attracco sbiancato dal sole; misi la testa tra le ginocchia,
ascoltando il rumore dei ragazzini che ridevano e schiamazzavano in lontananza,
chiedendomi quanto ci sarebbe voluto perché le mie gambe avessero abbastanza
forza da tenermi in piedi, e quando sarebbe svanita l’eco della voce di Clancy.
Sola, pensai, sdraiandomi sul legno invecchiato, finalmente sola.

Quella sera, la cena fu servita alle sette. Nel campo non c’era un sistema di
allarme né di altoparlanti, ma c’erano campanacci. A quanto pareva, erano un
segnale universalmente riconosciuto come richiamo per la cena, perché quando
suonò la prima campana, altre le risposero, spargendo la voce di casetta in
casetta e lungo i sentieri, fino a dove mi trovavo io, seduta a osservare il mio
riflesso nell’acqua scura.
Fu abbastanza facile individuare il centro dell’azione: circa duecento ragazzi
raccolti intorno a un enorme falò, pronti a mangiare, non erano certo facili da
nascondere. Avvicinandomi, rallentai il passo, e rimasi a osservare alcuni dei più
grandi che gettavano altri ceppi tra le dita avide del fuoco. Vecchi tronchi
disposti in cerchio fornivano sedie improvvisate per quelli che avevano già
ricevuto la propria porzione e non volevano mangiare da soli nella baracca.
Decine di ragazzi attendevano il proprio turno davanti ai pentoloni, tenendo
strette al petto le ciotole di plastica.
Trovai subito Liam, in piedi anziché seduto su uno dei tronchi. Aveva una
ciotola di chili in ciascuna mano, e si guardava intorno alla ricerca di qualcosa.
Ciccio gli sarebbe passato davanti senza vederlo se Liam non lo avesse sfiorato.
Gli chiese qualcosa, ma captai solo parte della risposta: «Uh, no, grazie. Ho letto
Il signore delle mosche. So come funziona: a un certo punto tutti si mettono a
danzare intorno al fuoco e si dipingono la faccia e adorano un maiale decapitato
e poi qualcuno viene colpito da un masso e precipita e poi muore; e, sorpresa, è
il ragazzo cicciottello con gli occhiali». Liam si mise a ridere, ma persino io mi
resi conto di quanto Ciccio fosse a disagio. «Penso che, per sicurezza, andrò a
leggere da qualche parte… Ehi! C’è Ruby! Voi due potete godervi la
degenerazione della dignità umana senza di me.»
Liam si voltò così in fretta che scivolò rischiando di far cadere le ciotole sui
capelli delle ragazze sedute accanto a lui.
«Divertiti», disse Ciccio passandomi accanto di corsa.
Lo afferrai per una manica e lo costrinsi a voltarsi. «Cosa c’è che non va?»
Alzò le spalle, con un sorriso triste. «Non me la sento proprio, stasera, mi sa.»
Sapevo cosa doveva provare. Dopo essere rimasti noi quattro da soli così a
lungo, era stressante trovarsi improvvisamente circondati da tutte quelle persone,
anche se erano ragazzi come noi. A Ciccio non era piaciuto quando una sola
persona – io – aveva invaso il suo mondo, e potevo solo immaginare che effetto
potesse avere sui suoi nervi questa situazione. «Beh, se cambi idea, ci trovi qui.»
Ciccio mi diede una pacca affettuosa sulla testa, e proseguì lungo il sentiero
che conduceva alla baracca assegnata a noi.
«Cosa gli è preso?» chiese Liam, porgendomi la ciotola di cibo fumante.
«Penso che sia solo stanco», risposi, senza approfondire. «Dov’è Zu?»
Liam fece un cenno con la testa alla sua sinistra e subito il viso sorridente di
Zu apparve al centro di un gruppetto di ragazzini e ragazzine della sua età.
Quando mi vide, mi salutò con la mano. Mi domandai come fosse possibile che
il suo viso fosse così acceso. La ragazza dai lineamenti asiatici che sedeva
accanto a lei le fece un gesto, come se potesse capire i suoi pensieri senza
bisogno di parlare. Zu si sporse per sfilarle il cappuccio della felpa, su cui era
scritto , e fece apparire una lunga treccia nera e lucida.
VIRGINIA IS FOR LOVERS

«Oh mio Dio», dissi, facendo immediatamente due più due.


«Che succede?»
«Quella ragazza era nel vostro campo. L’ho vista nell’incubo di Zu. Si sono
perse.»
«Davvero?» Sul suo viso apparve un’espressione adorabile di comprensione.
«Adesso capisco perché si sono corse incontro, prima.»
Risi. «Davvero?»
«Sì, si sono rotolate come dei cagnolini nell’erba… Ehi, Zu!» La bimba si
voltò di nuovo verso di noi. «Vieni qui un attimo. No, porta la tua amica.»
Quando le due ragazze si alzarono, fui sorpresa di vedere che l’altra era ben
più alta di Zu, anche se sembrava avere appena un anno in più. Zu la prese per
un braccio e saltellò verso di noi, sorridendo. Indossava di nuovo il vestito rosa.
«Ehi, ciao», disse Liam, tendendo la mano alla ragazzina. «Mi chiamo Liam, e
lei è…»
«Io so chi siete», lo interruppe la ragazza. «Liam e Ruby.» Si mise a braccia
conserte. «Suzume mi ha raccontato tutto di voi.»
«Proprio raccontato, o…?»
«Ovvio che non me lo ha detto a voce», sbuffò la ragazza, guadagnandosi una
gomitata nel fianco. Si voltò e disse qualcosa a Zu in giapponese; per tutta
risposta, Zu le tirò la treccia.
«D’accordo, va bene!» La ragazza alta si voltò di nuovo verso di noi,
stagliandosi contro il falò. «Io sono Hina. Suzume è mia cugina.»
«Wow!» feci, guardando Zu. «Dici sul serio? È fantastico!»
Zu saltellava, sorridendo.
«Ed eravate a Caledonia insieme?» domandò Liam, lentamente. «Zu, perché
non me l’hai mai detto? Potevamo provare a rintracciarla. Sei anche tu una
Gialla?»
«Sono Verde», disse Hina, indicando la folta capigliatura. «Ovviamente.»
Zu ci fece un gesto di scuse prima di trascinare via Hina, tornando al cerchio
di bambini assorti in qualche strano gioco di carte. Liam si voltò verso di me con
un’espressione di stupore totale. «Mi sono appena fatto rispondere male da una
dodicenne?»
«Si vede che è un tratto di famiglia», risposi, facendo roteare il cucchiaio nel
piatto. Il chili era caldo, deliziosamente piccante. Per quasi sette anni non avevo
mangiato altro che la sbobba che veniva servita a Thurmond e altre schifezze, e
il semplice fatto che qualcuno si fosse sforzato di prepararlo… dovetti tornare e
fare il bis, e poi di nuovo, finché fui piena come un uovo.
Stare così vicina al fuoco e con la pancia piena di cibo delizioso mi fece
venire sonno, ma mi sentivo al sicuro. Scivolai giù dal tronco e mi sedetti a terra,
appoggiando la schiena alle gambe di Liam.
«Questo mi fa venire in mente…» disse lui. «Ci credi che Zu si è messa a
saltellare e battere le mani quando le ho detto che avrebbe dovuto alzarsi alle
sette per ricevere una sana istruzione vecchio stile insieme agli altri Cuccioli?»
«Cuccioli?»
«Lezioni quotidiane. Scuola.» Mi toccò il naso con la punta pulita del
cucchiaio. «Resta da queste parti, Ruby Tuesday: vedrai che imparerai anche tu
il gergo dei ragazzi più cool.»
Finito di mangiare, ripose i nostri piatti in uno dei secchi di plastica che
circolavano tra i tavoli. Il Blu che controllava quello più vicino a noi era un
ragazzino talmente magro che doveva pesare la metà del suo secchio. Battei le
palpebre una, due volte, chiedendomi se fosse frutto della mia immaginazione.
Era la prima volta in vita mia che vedevo qualcuno usare le proprie abilità in
modo così… frivolo. Era uno strano contrasto in una situazione che per il resto
pareva perfettamente normale. Almeno, quello che pensavo fosse normale.
Alcuni ragazzi strimpellavano chitarre o usavano i tronchi come batteria. La
maggior parte chiacchierava sottovoce, o giocava a carte.
Liam scivolò a terra accanto a me, trovando abbastanza spazio tra la mia
schiena e il vecchio tronco. L’aria scintillante intorno alle fiamme, insieme al
delizioso teporino, aveva sciolto i miei muscoli.
Liam mi scostò i capelli dal collo. Il mio corpo seguì la traiettoria della sua
mano, e finii per appoggiarmi al suo petto, tra le sue ginocchia.
«Stai bene ora, tesoro?» mi sussurrò nell’orecchio. Annuii, trovando con le
dita la pelle dei suoi avambracci, tracciando il profilo dei muscoli e delle vene
che vi sporgevano. Una missione in avanscoperta, alla ricerca di qualcosa che
non mi ero resa conto di volere fino a quel momento. La sua pelle era morbida,
le sue mani ampie e calde, le nocche graffiate e piene di tagli ormai trasformati
in cicatrici. Premetti la mano sulla sua, intrecciando le nostre dita.
«Avevo bisogno di stare da sola per un po’, ma ora sto bene.»
«D’accordo», sussurrò. «Ma la prossima volta, non andare dove non posso
trovarti.»

* * *

Più che assopirmi, mi rilassai. Sembrava che, più rimanevo lì seduta, più la mia
mente si calmava e i dolori e le contratture del mio corpo si scioglievano,
facendomi sentire soffice come il terriccio sotto di noi.
Dopo un po’, qualcuno tirò fuori un grosso stereo vecchio di decenni, e
persino i ragazzi con le chitarre smisero di suonare in segno di rispetto per i
Beach Boys. Sembrava che fossi l’unica in tutto il campo a non ballare, ma era
divertente guardare gli altri. Zu, in particolare, che agitava i fianchi e alzava le
mani in aria, almeno fino a quando si diresse verso di noi e iniziò a tirarci per le
braccia. Io riuscii a declinare, ma Liam non ebbe altrettanta forza di volontà.
Ridevano entrambi quando la canzone si trasformò in Barbara Ann, e
piroettavano quando iniziò Fun Fun Fun. Avrei dovuto capire che stavano
complottando qualcosa quando entrambi si voltarono verso di me con la stessa
espressione subdola. Liam alzò un dito nella mia direzione, invitandomi a
raggiungerlo. Risi e agitai le mani davanti a me. «No!»
Lui sorrise – il primo vero sorriso da giorni – e sentii qualcosa tirarmi
all’altezza dell’ombelico. Era una sensazione calda, solleticante e familiare.
Liam mimò il gesto di tirarmi a sé con una corda, e Zu smise di dimenarsi per
contribuire alla scenetta. Entrambi avevano il viso arrossato e lucido di sudore.
Senza nient’altro che polvere e fango tra noi, scivolai dritta verso di loro, fra le
braccia aperte di Liam.
«Non vale», mi lamentai.
«Andiamo, Verde», disse. «Ti fa bene un balletto.»
Zu roteò intorno a noi, agitando le braccia al ritmo di Wouldn’t It Be Nice.
Posai la mano su quella di Liam, lasciando che se la portasse alla spalla. Poi mi
prese l’altra mano senza chiedere, e la tenne sollevata nella sua. «Sali sui miei
piedi.»
Gli rivolsi quello che speravo fosse uno sguardo incredulo.
«Fidati», mi disse. «Dai, prima che finisca la nostra canzone.»
Contro ogni buon senso, misi i piedi sopra i suoi, aspettandomi una smorfia
per il peso. Almeno, le sue ossa sembravano salde sotto le mie.
«Un po’ più vicino, Verde, non mordo mica.»
Mi sporsi in avanti, così vicino che la mia guancia poggiava sulla sua spalla.
La mano di Liam si strinse intorno alla mia, e mi sorpresi a stringere l’altra mano
sulla sua maglietta. Ed ero imbarazzata, perché ero certa che sentisse il mio
cuore che batteva forte.
«Niente piroette», dissi. Non ero sicura che il mio cuore o la mia testa
potessero sopportarle. Così da vicino, Liam era caldo e bellissimo. Avevo già le
vertigini.
«Niente piroette», accettò.
Quando iniziammo a muoverci, non ci mettemmo esattamente a ballare; più
che altro, ondeggiavamo. Avanti e indietro, con facilità. Per una volta, il mio
cervello si accontentava di stare per conto suo. I miei muscoli si muovevano a
rilento, come miele. Eravamo completamente fuori tempo, poi smettemmo del
tutto di muoverci.
Avevo la guancia appoggiata alla sua spalla. La mano che Liam mi aveva
poggiato sulla schiena si infilò sotto la mia maglietta, sfiorandomi la pelle.
Quando le campane tornarono a suonare, segnalando che era ora di spegnere le
luci in tutto il campo, ci fu un lamento generale, così distinto che Liam iniziò a
ridacchiare. Non mi resi conto di quanto fossi stanca finché ci separammo.
«Ora di andare a nanna», disse, facendo un cenno a Zu, che si alzò, si ripulì e
salutò con un gesto il gruppo di bambini da cui si stava allontanando.
Il falò scoppiettò e sibilò sotto il getto costante d’acqua di una pompa poco
lontana. Il suono era simile al verso di un animale che veniva ammazzato. E,
quando la luce si fu finalmente spenta, accasciandosi in una pila di braci
sparpagliate tra la cenere, non rimase altro che un velo di fumo a separarmi da
Clancy Gray, seduto dall’altra parte del falò, che mi fissava con gli occhi scuri.
22

A pareva, era una cosa che a Clancy Gray piaceva fare: fissarmi.
QUANTO

Osservarmi mentre stavo seduta sulla veranda ad aiutare Zu ad allacciarsi le


scarpe da ginnastica nuove prima di accompagnare lei e Hina alla baracca che
fungeva da scuola.
Osservarmi mentre prendevo in giro Ciccio per essere stato il primo e l’unico
a beccarsi una zecca.
Osservarmi mentre, accanto al falò, aspettavo con Liam che Mike arrivasse
con la lista dei turni a cui saremmo stati assegnati durante la nostra permanenza
a East River.
Mi osservava dalla finestra del secondo piano dell’ufficio, da dove sembrava
che controllasse ogni cosa senza fare niente.
Quando Mike aveva detto che tutti quelli che avevano più di tredici anni
avrebbero dovuto svolgere una parte del lavoro, non mi ero resa conto che non
avremmo potuto scegliere noi di quali compiti occuparci. Non mi pesava dare
una mano nella dispensa, organizzare e inventariare le provviste, ma avrei
decisamente preferito essere all’aperto con Ciccio nell’orticello, o in giro per la
foresta con Liam e gli altri addetti alla sicurezza. Era strano non passare tutta la
giornata insieme a loro.
I ragazzi con cui lavoravo erano gentili; più che gentili, a dire la verità. La
maggior parte di loro non era mai stata in un campo ma, d’altronde, io non avevo
mai cucinato un pasto, perciò nessuna delle due parti poteva vincere una gara di
esperienza. La cosa che ammiravo di più, era il loro coraggio. Lizzie, per
esempio, si nascondeva a East River da quasi due anni, dopo essere sfuggita per
un soffio alla cattura da parte delle FSP che avevano fermato l’auto dei suoi
genitori nel Maryland.
«Sei scesa e sei scappata?» chiesi.
«Veloce come il vento», confermò. «Non avevo niente con me, a parte i vestiti
che indossavo. Ho provato a raggiungere i miei genitori, ma non sono mai
tornati alla nostra vecchia casa. Poi ho incontrato una tribù di Verdi che mi ha
portata qui.»
Quello era un altro dettaglio: la maggior parte dei ragazzi, lì, era Verde o Blu,
con un piccolo e affiatato gruppo di Gialli che non socializzava al di fuori della
propria ristretta cerchia. Lizzie diceva che un tempo ce n’erano di più, ma che
Slip Kid aveva dato loro il permesso di andarsene e fondare una tribù per conto
proprio.
«Ha dato loro il permesso?» ripetei, segnando il numero delle scatole di
cereali rimaste.
«Sì, e ci sono altri requisiti», disse Dylan, un ragazzino minuto che aveva
finito da poco le lezioni con i Cuccioli. Diceva che quel nomignolo era nato
dalla marca di scaffali che Clancy aveva usato per riporre i loro libri e quaderni.
«Devi avere un gruppo di almeno cinque persone», continuò. «E poi Clancy
deve decidere se è sicuro o no, e devi giurare sulla tua testa di non rivelare nulla
sul campo, tranne che a un altro ragazzino in difficoltà, e anche in quel caso puoi
solo rivelare l’indizio. È per tenere tutti al sicuro. Se a un ragazzino capitasse
qualcosa per colpa sua, ne morirebbe.»
A quelle parole, mi ammorbidii un po’. Non era tanto che non mi fidassi delle
motivazioni di Clancy; era solo che mi innervosiva. Quando qualcuno si
interessa così tanto a te, è naturale chiedersi cosa stia cercando di preciso nel tuo
viso.
«Che state facendo?»
Tutti e tre ci voltammo verso la porta, dove Clancy, rigido e immobile, mi
stava fissando. Il vento che entrava dalla porta aperta gli scompigliava i capelli
scuri. Qualcosa si agitò dentro di me alla vista della sua espressione, ma non era
paura.
«L’inventario», disse Lizzie, confusa. «C’è qualcosa che non va?»
Clancy si risvegliò dalla trance in cui era caduto. «Sì, scusa, è solo che…
Ruby, ti dispiacerebbe venire con me un secondo? Penso che ci sia stata un po’
di confusione sulla tua assegnazione.»
Passai la mia cartellina a Lizzie, che mi guardò stringendo gli occhi.
«Sono stata assegnata al magazzino», dissi, quando fummo usciti sulla
veranda.
«Non ti ho assegnato a niente», replicò. «L’ho detto chiaramente a Mike.»
Mi piacerebbe pensare di essere il tipo di persona che non si fa intimidire
facilmente dagli altri ragazzi, nemmeno da quelli più grandi, più forti, o meglio
armati di me. Perciò non so come mai mi colpì il fatto di trovarmi a parlare con
Clancy Gray. Il figlio dell’uomo più potente del Paese. Un principe americano
dal sangue blu, che indossava una polo nera dal colletto alzato sotto un maglione
a trecce dello stesso colore. Aveva persino una cintura di pelle.
Mi misi a braccia conserte. «Sono perfettamente in grado di fare la mia parte.»
Alla luce del sole, sembrava meno minaccioso che in penombra. E più basso.
Era possibile che la sua reputazione avesse aggiunto qualche centimetro, ma era
appena più alto di me, e ciò significava che sia Ciccio sia Liam lo superavano di
tutta la testa. Non che questo gli togliesse il titolo di Persona Più Attraente che
Avessi Mai Visto.
Clancy era snello ma non magro, curato ma non affettato, composto ma non
comodo. Pensai, controvento, che si fosse messo un profumo speziato, ma mi
sembrava ridicolo.
Ero contenta che ci trovassimo in veranda, dove chiunque intorno al falò
potesse vederci. Non credevo che volesse farmi del male; perché mai avrebbe
dovuto? Mi accorsi di aver stretto le mani davanti a me, poi le portai sui fianchi,
infine a stringermi i gomiti, come se fossero indecise sul da farsi.
Non avevo dimenticato il motivo per cui mi trovavo lì, ma non riuscivo a
farmi coraggio e chiedergli aiuto. Era chiaro che avesse un ottimo controllo delle
proprie abilità se si tuffava volontariamente nella mente delle persone; la
domanda avrebbe dovuto seguire con la naturalezza di un respiro.
Se questi ragazzini ubbidivano a ogni suo ordine e capriccio, doveva essere un
bravo ragazzo, giusto? I ragazzi non si aiutano a vicenda solo per buon cuore.
Clancy aveva una sicurezza in se stesso che lo rendeva il sole al centro del
firmamento di East River. Ogni persona e ogni cosa ruotava intorno alla sua
luce.
E allora perché non mi decidevo a chiedere? Perché mi tremavano le mani?
«So che probabilmente non riuscirò mai a rimediare alla prima impressione
del nostro incontro», disse. «Ma mi dispiace. Non ho pensato che volessi tenere
segrete quelle informazioni.»
«Non importa», replicai. «Ma cosa c’entra questo con la mia assegnazione?»
Per qualche istante, non disse nulla. Mi fissò soltanto.
«La smetti?» borbottai, imbarazzata e infastidita allo stesso tempo. «Se ti dico
che ti perdono, la smetti di fissarmi?»
Fece un sorriso affascinante. «No.»
Clancy, a cui probabilmente non avevano mai insegnato a rispettare lo spazio
personale, fece un passo avanti, e io ne feci uno indietro, affondando i piedi nel
fango. Invece di arretrare, la prese come una sfida e avanzò ancora. Per chissà
quale ragione, forse le farfalle che avevo nello stomaco, glielo permisi.
«Ascolta», disse infine. «Il motivo per cui ho chiesto a Mike di non assegnarti
alcun compito è perché spero che vorrai lavorare con me.»
«Come, scusa?»
«Dai, mi hai sentito.» La sua mano si posò di nuovo sul mio braccio e fu come
se avesse liberato un’ape all’interno del mio cranio.
Il mio cervello si risvegliò all’istante, riempiendosi di immagini lattiginose di
noi due seduti alla sua scrivania, occhi negli occhi, mentre il fuoco divorava ogni
cosa intorno a noi.
Le immagini con cui mi stava inondando la mente.
Non so come fece, ma era molto realistico. L’immagine mi bruciava dentro,
scorticandomi i polmoni. Avvertii bolle di fumo acre gorgogliarmi sotto la pelle,
finché mi sentii sul punto di esplodere. I margini del mio campo visivo si tinsero
di nero. Le fiamme mi lambirono i vestiti, mi bruciarono i capelli.
Non è reale, non è reale, non è reale!
Clancy doveva aver mollato la presa, o io dovevo aver trovato il modo di
divincolarmi, perché, con la stessa velocità con cui era apparso, il fuoco
scomparve, disperdendosi in tre sbuffi tremanti.
«Non riesci a bloccarmi», disse, spalancando gli occhi. «Sei almeno capace di
usare le tue abilità? Il file che la Lega aveva creato su di te lasciava intendere
che fossi in grado di controllarle.»
Non era ovvio? Scossi la testa. È per questo che sono qui, avrei voluto dire. È
per questo che ho bisogno di te.
Clancy fece scorrere lo sguardo su di me, dalla testa ai piedi e ritorno. Poi
parlò con voce soave, compassionevole. «So cosa vuol dire. Non credi che ci sia
passato anch’io? Che non sappia quanto ci si sente soli a non poter toccare
qualcuno come vorresti, quanto sia terrificante essere intrappolati nella testa di
qualcuno senza sapere come uscirne? Ruby, tutto quello che so ho dovuto
impararlo da solo, ed è stato orribile. Voglio risparmiartelo. Posso insegnarti
delle cose, dei trucchi per usare i tuoi talenti nel modo in cui meritano di essere
usati.»
Sperai che non vedesse il tremito delle mie mani. Oh mio Dio, si era offerto
lui stesso – non avevo dovuto chiedere niente – e ancora non riuscivo ad aprire
bocca.
La sua postura divenne più rilassata e, quando mi toccò di nuovo, portandomi
la treccia oltre la spalla, non c’erano cattive intenzioni. «Pensaci, d’accordo? Se
decidi che lo vuoi, vieni direttamente in ufficio. Troverò il tempo per te.»
Strinsi le labbra, mordendomi forte la lingua.
«Non c’è niente di sbagliato nel voler imparare a usare le tue abilità»,
aggiunse Clancy. «È l’unico modo che abbiamo per sconfiggerli.»
Sconfiggere chi?
«Siamo rimasti in pochi», disse. «Finché non sei comparsa tu, ero convinto di
essere l’unico.»
«Beh, ce n’è almeno un altro. Si chiama Martin…»
«E sta con la Lega dei Bambini», concluse. «Lo so. Ho visto il loro rapporto
su di lui. Un tizio inquietante. Quando ho detto noi, intendevo gli Arancioni non
psicopatici.»
Sbuffai. «Ci penserò», dissi infine. Ero immobilizzata sotto il suo sguardo
cupo, ancora una volta. Avevo la pelle d’oca sulle braccia, come se fossero state
percorse da un sussurro di elettricità. Senza rendermene conto, feci un passo
verso di lui.
«Ascolta il tuo istinto», disse Clancy, voltandosi per rientrare nell’ufficio. Un
gruppo di ragazzini intenti a preparare il pranzo intorno al falò lo chiamò e lui,
da bravo figlio del presidente, sorrise e fece loro un cenno con la mano.
Ascolta il tuo istinto.
E come mai il mio istinto diceva il contrario della mia testa?

Avanzando a zig zag, mi diressi verso l’attracco in legno che avevo scoperto il
pomeriggio precedente, perché avevo bisogno di trovare un modo per dissipare i
brividi che mi percorrevano il cuore. La mia mente era attorcigliata tra mille
possibilità.
Clancy Gray mi aveva appena offerto tutto ciò che desideravo. Un modo per
evitare di ripetere quanto accaduto ai miei genitori e a Sam. Un modo per restare
con Liam, per ritrovare la nonna, per non vivere costantemente nel terrore di
poterli danneggiare. E allora perché non ero riuscita a tirare fuori un sì?
Mi infilai sotto la corda che bloccava l’accesso al lago e scesi fino in fondo al
sentiero prima di accorgermi che qualcosa non andava.
«Cavolo», dissi quando lo vidi.
«Oh no… no, no, no», disse Ciccio. Il sorriso ebete che aveva svanì e lui
smise di lanciare pezzi di pane alle anatre che si erano avvicinate alla riva.
«Questo è il mio nascondiglio segreto. Vietato l’accesso a Ruby!»
«Ma l’ho trovato prima io!» sbuffai, lasciandomi cadere accanto a lui.
«Ma certo che no.»
«E invece sì, una settimana fa, mentre tu svuotavi le valigie.»
A quelle parole si ritrasse. «Beh… d’accordo. Ma oggi sono arrivato prima
io.»
«Non dovresti essere di turno nel giardino?»
«Mi sono stufato delle ragazze che vanno in brodo di giuggiole raccontando di
quanto sia intelligente Slip Kid a farci piantare le carote.» Si chinò indietro. «E
tu non dovresti essere di turno in magazzino?»
Abbassai lo sguardo sulle mie mani strette a pugno. Dato che non risposi,
Ciccio mise giù la borsa del pane e si raddrizzò. «Ehi, stai bene?» Mi appoggiò
una mano fresca sulla fronte. «Sembri sul punto di vomitare. Ti capita di avere
emicranie o vertigini?»
Era a dir poco un eufemismo. Feci una risata roca.
«Oh.» Ritrasse la mano. «Quel genere di problemi di testa.»
Mi appoggiai con la schiena al legno ruvido e mi coprii gli occhi con un
braccio, sperando che l’oscurità aiutasse a smorzare il mal di testa.
«Hai detto che Jack ti aveva insegnato a usare le tue abilità?» domandai.
«Diciamo di sì. Era l’unico modo che avevo per imparare: farmi insegnare da
un altro ragazzo, intendo. Solo che ci ho messo un po’ a decidermi.»
«Perché?»
«Perché pensavo che se non le avessi usate, prima o poi sarebbero sparite»,
rispose sottovoce. «Pensavo che tutto sarebbe tornato alla normalità. Ci sono
prove scientifiche del fatto che, se smettiamo di usare alcune parti del cervello,
quelle sezioni prima o poi smetteranno di funzionare, sai.» Dopo una breve
pausa, chiese: «Clancy si è offerto di aiutarti con le tue abilità?»
«Sì. Gli ho detto che ci avrei pensato.»
«Cosa c’è da pensare?» Ciccio mi colpì sullo stomaco con il suo libro. «Non
hai detto che non sei in grado di controllarle?»
«Beh, sì, ma…» Mi spaventa pensare a quante cose non so.
«Devi saperle controllare, altrimenti saranno sempre loro a controllare te»,
disse. «Ti faranno paura e ti manipoleranno fino a farti impazzire, morire, o
finché troveranno la cura. E prova a indovinare quale delle tre cose succederà
per prima.»
Suonò la campana del pranzo: due rintocchi, per il secondo pasto. Ciccio si
alzò e si stiracchiò, gettando in acqua il pane rimasto.
«Pensi davvero che troveranno una cura?» domandai.
«Mio papà diceva sempre che tutto è possibile se ci metti l’impegno.» Fece un
sorriso amaro. Sentir nominare suo padre mi fece stringere lo stomaco.
«Non hai ancora avuto modo di mandargli un messaggio.»
«Ho chiesto in giro, ma c’è solo un computer in tutto questo campeggio
dimenticato da Dio, e solo una persona lo può usare.»
Giusto. Il portatile argentato sulla scrivania di Clancy.
«Gli hai domandato se lo puoi usare per qualche minuto?»
«Sì», rispose mentre ci dirigevamo al falò. Sembrava che stessero
distribuendo panini e mele. «Ha detto di no. A quanto pare è un ‘rischio per la
sicurezza’ se lo tocca qualcuno che non sia lui.»
Scossi la testa. «Domani glielo chiedo io. Magari riesco a convincerlo.»
«Lo faresti davvero?» Ciccio mi afferrò il braccio, e il suo viso si illuminò.
«Gli puoi dire che abbiamo una lettera molto importante da consegnare, ma
abbiamo bisogno di controllare il nuovo indirizzo del padre di Jack? Digli che
faremo qualsiasi cosa… no, digli che mi occuperò personalmente di leccare ogni
sua scarpa fino a farla brillare!»
«Facciamo che gli dico che è il motivo per cui siamo venuti qui, e lasciamo la
tua lingua fuori da questa faccenda?»
Ciccio attese che prendessi il mio panino dal tavolo prima di tirarmi a sé.
Pensai che volesse andare a mangiare nella nostra baracca o all’attracco, ma
gironzolammo fino a trovare Liam. Lui e un paio di altri ragazzi del servizio di
sicurezza erano in pausa, e si erano sistemati in una radura. Era abbastanza
grande da far fronteggiare due piccole squadre in una partita di hover ball, noto
anche come football senza mani. Ciccio e io ci sedemmo su un vecchio tronco,
ignorando le spettatrici che si erano radunate a fare il tifo.
Un ragazzo alto con i capelli rossi e un’esplosione di lentiggini sul viso fece
levitare la vecchia palla per iniziare un’azione. Vi corse accanto, tentando di
tenere sia la palla sia se stesso fuori dalla portata dei compagni. Liam, a un certo
punto, si trovò con la palla a pochi centimetri dal viso, ma le sue mani erano
troppo lente e i piedi troppo maldestri per afferrarla al volo.
«Tieni gli occhi sulla palla, mani di burro!» gli gridai. Liam si voltò di scatto
verso di noi. Appena i suoi occhi incrociarono i miei, Mike, che in quel
momento era in possesso di palla, lo scavalcò per raggiungere l’improvvisata
linea di fondo.
Ciccio e io rabbrividimmo nel vedere Liam colpire il terreno e sbattere la testa
su una delle radici dei vecchi alberi.
«Wow», esclamai. «Non scherzava quando diceva di non essere bravo nello
sport.»
«Farebbe ridere se non fosse così dannatamente triste.»
Gli altri ragazzi erano troppo presi dalle risate per riuscire a tenere in aria la
palla. Liam rimase a terra, tutto rosso ma a sua volta scosso dalle risa. Si sollevò
la maglietta per asciugarsi il sudore dal viso, concedendo a me, e a ogni altra
ragazza presente, una fugace visione della sua pelle.
Questa volta fui io ad arrossire.
Un ragazzo che non conoscevo si avvicinò a lui e lo aiutò a rialzarsi, dandogli
una pacca sulla spalla. Ridevano insieme come se si conoscessero dall’asilo.
Ma Liam era fatto così, prendeva in giro Zu per la rapidità con cui faceva
amicizia, ma lui era uguale. Ciccio e io, invece, eravamo ben contenti di restare
seduti per conto nostro, a guardare, ad aspettare, ma senza posare i piedi
nell’acqua. Forse eravamo troppo abituati a rimanere da soli per essere come
Liam; e forse era ora di cambiare.

Il mattino dopo, esattamente alle 9.21, mi trovai fuori dall’ufficio di Clancy


Gray, con una mano sollevata e pronta a bussare. L’unica cosa che me lo
impediva, oltre alla tensione che mi faceva attorcigliare le budella, era la
conversazione in corso dall’altra parte della porta.
«…sicura che abbiamo i numeri per farlo. Se mandassi il numero di ragazzi
che ci servirebbe, non ne resterebbero abbastanza a fare la guardia.» Era una
voce femminile, morbida ma non dolce. Olivia, probabilmente, se parlavano di
sicurezza.
«Capisco quello che dici, Liv, ma se perdiamo questa occasione sarebbe un
vero spreco», stava dicendo Clancy. «Stiamo finendo le scorte di medicinali, e la
Leda Corp fa passare sempre meno camion in questa zona.»
«Stai per fare uno dei tuoi viaggi?» insisté lei. «Non è lì che trovi le
informazioni sulle spedizioni, di solito?»
«Perché me lo chiedi?»
«È solo… è quasi un anno che non ne fai uno», disse Olivia. «E una volta ci
andavi in continuazione. So che le provviste non scarseggiano, ma magari se
incontri il tuo contatto…»
«No», disse Clancy, con decisione. «Non posso più lasciare il campo. Non è
sicuro.»
Le assi del pavimento scricchiolarono. «È sbucato qualcosa sullo scanner
delle FSP?» disse la voce aspra di Hayes.
«Ovviamente hanno saputo del colpo della frutta», disse Clancy. «Sarebbe
stato difficile farselo scappare, visto che hai marchiato l’autista.»
«Perché lo dici con quel tono?»
«Perché avresti dovuto lasciarlo stare, come ti avevo detto. Apprezzo che tu
voglia disseminare il nostro simbolo, ma non potevi scriverlo sul camion con
una bomboletta?»
«Ti preoccupi che possa danneggiare la nostra immagine?» La voce di Olivia
grondava fastidio.
«La maggior parte della gente farà già abbastanza fatica ad accettare che non
siamo mostri anche senza che si dica che torturiamo gli innocenti», disse Clancy.
«Perciò, vi prego, continuate pure a spargere il nero. Continuate a usare il
simbolo. Solo… fatelo con discrezione.»
«Con discre… cosa?» chiese Hayes.
«Mi spiace dover interrompere la riunione prima del tempo, ma penso che
entrambi abbiate la faccenda sotto controllo, e c’è qualcuno che mi aspetta»,
disse Clancy. Mi allontanai dalla porta. «Liv, pianifica il colpo. Mi preoccupo io
dei numeri.»
Feci qualche passo indietro lungo la scala, ma era inutile fingere di non aver
sentito. La porta si spalancò e la ragazza – Olivia – fu la prima a comparire. Era
alta e sinuosa, con gambe lunghissime e un’abbronzatura che le faceva
risplendere la pelle. Doveva avere più o meno la mia età, ma sembrava molto più
grande. Dimostrava vent’anni, o almeno così io mi immaginavo una ventenne.
Quando rialzai lo sguardo, vidi Clancy appoggiato allo stipite, sorridente.
«Sei venuta.» Mi fece cenno di entrare e mi guidò verso la scrivania. Seduta
su una delle sedie, vidi un lampo dell’altro lato della stanza, dove la tenda era
stata tirata. Clancy prese posto come al solito alla scrivania, dondolando
all’indietro sulla sedia con un sorriso. «Cosa ti ha fatto cambiare idea?»
«È come hai detto tu», mormorai. «Siamo rimasti in pochi.» E voglio sapere
come rimanere vicina alle persone che amo senza avere il terrore di cancellarmi
dalle loro menti.
«Ho letto sulla rete della Lega che non hanno trovato altri Arancioni a parte te
e Martin», disse Clancy. «La maggior parte dei Rossi sono stati uccisi, a quanto
pare. Questo ci mette in pole position.»
«Immagino di sì.» Mi venne in mente un’altra cosa. «Come fai ad avere
accesso alla rete della Lega? E delle FSP?» Indicai la stanza intorno a me. «Tutto
questo?»
«Ho amici ovunque», disse semplicemente. Tamburellò con le dita sul tavolo.
«E mio padre mi lascia in pace perché non potrebbe sopravvivere
all’indignazione dell’opinione pubblica se rendessi noto che non esiste alcun
programma di riabilitazione, non per quelli come me e te.»
«Come me e te», ripetei.
Clancy si passò una mano tra i capelli. «La prima cosa che devi capire, Ruby,
è che noi non siamo come gli altri. Tu e io… tutti quelli che sono stati classificati
come Arancioni. Siamo diversi. Speciali. No, no, aspetta, non alzare gli occhi,
devi ascoltarmi, d’accordo? Perché la seconda cosa che devi capire, è che tutti –
mio padre, i controllori del campo, gli scienziati, le FSP, la Lega dei Bambini –
ci hanno mentito per tutto il tempo. Siamo speciali non per ciò che siamo, ma
per ciò che non possono farci diventare.»
«Quello che dici non ha senso», replicai.
Clancy si alzò e venne a sedersi accanto a me. «Pensi che sarebbe utile se ti
raccontassi la mia storia, prima?» Alzai gli occhi per incontrare i suoi. «Se lo
faccio, devi promettere che rimarrà tra noi.»
Mantenere un segreto. In quello, ero imbattibile.
«D’accordo», continuò. «Dammi la mano. Devo fartelo vedere.»

* * *

Dopo essermi intrufolata nelle menti altrui, mi ero sempre sentita nauseata, come
se stessi sprofondando. La maggior parte delle volte, venivo scaraventata in una
palude di ricordi in penombra e di emozioni a briglia sciolta senza una mappa,
una torcia, né altro modo di trovare facilmente l’uscita. Ma non c’era niente di
spaventoso nella mente di Clancy. I suoi ricordi erano nitidi e puliti, pieni di
colore e di immagini che sbocciavano. Sembrava che mi tenesse per mano anche
lì dentro, e che mi stesse guidando attraverso ciascuno di essi.
Intorno a me prese corpo un ufficio semplice, pieno di scaffali d’archivio
color canna di fucile, ma poco altro. Poteva trovarsi ovunque; la vernice bianca
era abbastanza fresca da fare delle bollicine sul muro. Ma riconobbi i margini del
macchinario a forma di mezzaluna nell’angolo in fondo e l’uomo che mi fissava
dall’altro lato del tavolo che fungeva da scrivania. Era paffuto e stava diventando
calvo; era una presenza fissa nell’infermeria. Lo osservai muovere le labbra in
una spiegazione muta, mentre i miei occhi venivano attirati da una ordinata pila
di fogli sulla scrivania davanti a lui.
Continuavo a riportare gli occhi sulla sua mano appoggiata al tavolo, che
tentava di tenere aperto un foglio spiegazzato che si ripiegava continuamente su
se stesso. In cima, l’intestazione della Casa Bianca. Misi immediatamente a
fuoco le parole che vi erano scritte, scorrendovi sopra gli occhi, bevendole quasi,
incredula.

Gentili signori,
avete il mio permesso di condurre esami e trattamenti sperimentali su mio
figlio, Clancy James Beaumont Gray, a patto di non lasciare cicatrici
visibili.

Le luci nell’ufficio divennero sempre più intense, abbagliando il ricordo.


Quando tornarono a smorzarsi, mi trovavo in una stanza molto diversa
dell’infermeria, coperta di piastrelle blu e monitor. No! pensai, tentando di
liberarmi dai lacci di velcro che mi tenevano legata alla barella di metallo.
Conoscevo quel posto.
Una mano guantata avvicinò al mio viso le luci sopra di me. Al margine del
mio campo visivo, scorsi scienziati e dottori in camici bianchi, intenti a
preparare strani macchinari e computer. Avevo la mascella immobilizzata da una
sorta di museruola legata sulla nuca, e delle mani mi tenevano ferma la testa
mentre venivano collegati strani cavi e monitor. Mi dimenai di nuovo, torcendo
il collo abbastanza da intravedere un tavolino su cui erano disposti bisturi e
piccoli trapani; vidi il mio riflesso nelle finestre di osservazione: giovane, pallido
per il terrore, la stessa identica immagine che dopo sarebbe stata appesa ovunque
nel campo.
La luce violenta crebbe e si gonfiò fino a ingoiare l’intera scena. Quando
scomparve, il ricordo era cambiato di nuovo. Il mio sguardo si posò prima sulla
mano che stavo stringendo, poi sugli occhi vacui dello stesso scienziato che
avevo visto poco prima. Gli uomini intorno a noi avevano la stessa espressione
indefinita: sorrisi vacui, occhi ancora più vacui. Raddrizzai le spalle e sentii un
piccolo brivido vittorioso farsi strada dentro di me mentre oltrepassavo il
cancello principale diretto verso un’auto in attesa. L’uomo ben vestito che mi
accolse con una pacca meccanica sulla spalla non era il presidente ma compariva
in quasi tutti i ricordi che si succedettero in seguito, accompagnandomi sul palco
di un auditorium scolastico, all’esterno di palazzi presidenziali dalle grandi
cupole, davanti ai fotografi al centro di piccole cittadine. Ogni volta, mi
venivano consegnati gli stessi appunti da leggere, mi venivano sottoposte le
stesse espressioni di speranza e profondo dolore della folla. Ogni volta, le mie
labbra formavano le stesse parole: «Mi chiamo Clancy Gray e sono qui per dirvi
che il programma di riabilitazione nei campi mi ha salvato la vita».
Un’altra luce, stavolta il flash di una macchina fotografica. Quando passò lo
shock, mi trovai a guardare un volto che era una versione più adulta, più matura
del mio. Il fotografo fece ruotare il monitor per mostrarmi lo scatto, e non mi
vidi più come un bambino, ma come un giovane uomo di quindici, forse sedici
anni.
Mentre il fotografo sistemava di nuovo l’equipaggiamento, stavolta dall’altro
lato della stanza, misi una mano sulla schiena del presidente, guidandolo intorno
ai divani, verso la grande scrivania di legno. I cespugli di rose graffiavano le
finestre, ma lo portai a concentrarsi sul foglio che lo attendeva sulla scrivania, e
lo indussi a prendere la penna. Quando ebbe firmato, si voltò verso di me con
uno sguardo distratto e un sorriso sciocco, ignaro.
Dovevano essere passate settimane, mesi, forse persino anni; mi sentii
prendere dallo sfinimento, che si avvolgeva intorno a me come una pesante
catena. Era buio ormai; non capivo che ora della notte fosse, ma vedevo che si
trattava di una stanza d’albergo, non particolarmente bella. Fissavo il soffitto,
semisepolto sotto le coperte, quando una figura sembrò emergere dalle ombre
dello sgabuzzino. Fu rapida, quasi troppo rapida per seguirla. Un uomo con la
maschera nera, il riflesso metallico di una pistola; lanciai lontano le coperte e
scalciai, facendo cadere all’indietro il mio assalitore. Dalla sua pistola partì un
colpo, con un’esplosione di luce e poco rumore. L’odore mi bruciò le narici.
Fui scaraventato sulla schiena, con l’avambraccio dell’uomo premuto sul collo
così forte da spezzare la fragile cartilagine. Tesi le mani, colpendo il tappeto
ruvido, il comodino e finalmente il suo viso. Nemmeno il terrore che pervadeva
ogni centimetro del mio corpo bastò a trattenermi dal precipitare nella sua
mente.
Fermo! Sentii che le mie labbra formavano la parola, ma non udivo alcun
suono. Fermo!
E l’uomo si fermò, con lo sguardo vacuo come se gli avessero spaccato il
cranio esponendo il cervello alle intemperie. Si sedette sui talloni, la pistola a
terra accanto a lui.
Tossivo così forte da avere conati di vomito, tentando disperatamente di
riempire d’aria i polmoni, ma afferrai la pistola e la infilai nell’elastico del
pigiama. Mi trattenni solo per prendere il cappotto da dove era stato scaraventato
oltre la sedia della scrivania, poi mi precipitai fuori, nel corridoio, a fissare il
punto in cui un uomo avrebbe dovuto essere di guardia. E capii immediatamente
cosa stava succedendo. Capii cosa mi sarebbe accaduto se qualcuno mi avesse
trovato vivo il mattino seguente.
Corsi giù per le scale dell’hotel, attraverso le cucine, oltre i cassonetti
dell’immondizia e il parcheggio. Correvo, con il petto in fiamme, sentendo le
urla alle mie spalle, gli stivali che rimbombavano sul marciapiede. Correvo
verso gli alberi, verso l’oscurità.
«Ruby, Ruby!»
Tornai in me poco a poco, nell’ufficio di Clancy, con un’emicrania così forte
che dovetti poggiare la testa tra le ginocchia per non vomitarmi addosso.
«Hanno tentato di ucciderti», dissi, quando finalmente ritrovai la voce. «Chi?»
«Tu chi credi?» La voce di Clancy era secca. «Quell’uomo era uno degli
agenti dei servizi segreti che avrebbero dovuto proteggermi.»
«Ma non ha senso.» Mi premetti il dorso della mano sulla fronte, stringendo
gli occhi per contrastare le vertigini. «Se ti portavano in giro a spiegare il
programma di riabilitazione, allora perché…?»
«Perché si era accorto che non ero stato riabilitato affatto», rispose. «Mio
padre, intendo. L’unico motivo per cui mi avevano lasciato uscire da Thurmond
era perché li avevo convinti di avermi curato. Ma divenni troppo ambizioso.
Tentai di ingannare mio padre, influenzandolo, e mi feci scoprire.» Clancy si
interruppe per un momento, poi continuò: «Temeva che la verità sui campi
sarebbe venuta a galla, ne sono certo, ma non poteva semplicemente
allontanarmi dai riflettori, non quando era stato lui a puntarli su di me. No, credo
che nella sua mente fosse più facile liberarsi di me del tutto, prima che gli
causassi dei problemi. Posso solo immaginare cosa si sarebbe inventato come
giustificazione del mio assassinio per guadagnarsi il favore dei nostri cari
concittadini americani».
Lo fissai a lungo, senza parole. Come hai fatto a sopravvivere? volevo
chiedergli. Come hai fatto a diventare te stesso, e non il mostro che hanno
tentato di creare?
«Dopo essere scappato, quella notte, incontrai Hayes e poi Olivia e poi altri.
Trovammo questo posto e ci mettemmo al lavoro, e per tutto il tempo mio padre
non poté mettere una taglia sulla mia testa, non senza rivelare la verità su di me e
sul suo programma di riabilitazione. Dovette inventarsi una bugia e dire che ero
andato al college per togliersi di torno la stampa.» A quel punto, Clancy sorrise.
«Perciò, vedi, alla fine ho comunque vinto io.»
Si alzò dalla sedia e mi tese una mano. La presi senza rendermene conto,
sentendo un’ondata di calma posarsi su di me quando mi strinse le dita. La mia
testa era silenziosa. Mi accorsi di essermi sporta in avanti.
«Quando ho sentito la tua storia, ho capito di doverti incontrare. Dovevo fare
in modo che tu conoscessi la verità su quanto sta accadendo, perché non
rimanessi intrappolata nel buio come è capitato a me.»
«La verità?» Alzai lo sguardo, sorpresa. «Cosa intendi?»
Clancy non lasciò la mia mano; si sedette semplicemente sul bordo della
scrivania davanti a me. «La donna che ti ha fatto evadere da Thurmond, l’agente
della Lega: cosa ti ha raccontato sul Rumore Bianco che hanno usato quel
giorno?»
«Che i controllori del campo vi avevano inserito una frequenza che solo gli
Arancioni, i Gialli e i Rossi potevano percepire», risposi. Sicuramente lo sapeva
già: avevano utilizzato lo stesso metodo per comunicare la posizione del campo.
«Che stavano tentando di isolare gli individui pericolosi che si nascondevano
ancora tra gli altri.»
Clancy lasciò la mia mano e girò il portatile verso di me. Sullo schermo c’era
un fermo immagine del mio viso il mattino in cui ci avevano portati al campo,
ma il testo a fianco non conteneva la mia storia.
«Leggi ad alta voce il secondo paragrafo.»
Alzai lo sguardo su di lui, confusa, ma feci come chiedeva. «‘Il Controllore
Harris ha scoperto la discrepanza nel Controllo della Calma alle 05.23 del
mattino seguente, dopo aver notato che una frequenza sottesa era stata aggiunta
senza il suo consenso.’» Mi fermai, passandomi la lingua sulle labbra secche.
«‘A seguito di ulteriori indagini sui sistemi di ripetizione nella sala mensa, è
giunto alla conclusione che lo scoppio di violenza nel medesimo luogo che
risultò nell’utilizzo del Controllo della Calma alle ore 11.42 circa fosse stato
direttamente provocato da agenti sotto copertura del gruppo terroristico noto
come Lega dei Bambini. Ritiene che gli stessi agenti abbiano infiltrato una
frequenza di identificazione nel Controllo della Calma. Si ritiene ora che i
soggetti Psi 3.285 e 5.312, che sono stati allontanati dal campo alle ore 03.34
circa da un agente della Lega dei Bambini, siano stati erroneamente identificati
come Verdi durante lo smistamento iniziale…’»
«Vai avanti», mi esortò Clancy quando la mia voce si spense.
«‘I soggetti 3.285 e 5.312 sono ritenuti altamente pericolosi. È stato emesso
un ordine per la loro immediata cattura e riassegnazione’…riassegnazione?»
Alzai gli occhi di scatto. «Ma il modo in cui scrivono… non sapevano… non…
vorrai dirmi che non sapevano che fossi Arancione fino a dopo che sono
scappata?»
Clancy annuì. «Così pare.»
«Quindi non ero affatto in pericolo, dopo tutto? Non stavano per uccidermi?»
«Oh, eri decisamente in pericolo», rispose. «Avevano tutte le tessere del
puzzle, e ci voleva solo una mente curiosa per metterle insieme. Ma se la tua
domanda è se ti avrebbero scoperta o meno se la Lega non avesse inserito la
frequenza, allora la risposta è no, probabilmente no.»
«E allora perché l’hanno fatto? Mi sembra un rischio enorme per tirare fuori
solo un paio di ragazzini.»
«Un paio di ragazzini estremamente rari e di grandissimo valore», mi
corresse. «Ragazzini che altrimenti sarebbero stati uccisi.»
Vedendo la mia espressione, aggiunse, con gentilezza: «Non pensavi davvero
che lasciassero vivere quelli come noi, vero? Non gli Arancioni. I Gialli sì,
perché si possono contenere, ma non gli Arancioni».
Mi passai una mano sul viso. «E che mi dici dei Rossi, allora? Hanno
ammazzato anche loro?»
«No.» La sua voce divenne esitante. «Hanno avuto un destino ben peggiore.»
Aspettai che proseguisse, torcendomi le mani.
«Il programma segreto del presidente.» Clancy si mise a braccia conserte e si
appoggiò all’indietro. «Il Progetto Jamboree. Il caro vecchio paparino sta
addestrando un esercito speciale usando tutti i Rossi che sono stati portati via dai
campi. Quindi capisci perché…» Si schiarì la voce. «Capisci perché la Lega sia
interessata ad arruolare a propria volta ragazzini particolarmente pericolosi.»
Scossi la testa, portandomi le mani sul viso. Di tutti gli scenari che mi ero
immaginata – tutte le cose che avevo pensato potessero essere accadute a quei
ragazzi – quello era troppo folle perché me lo potessi anche solo sognare. «Come
hanno potuto costringerli a farlo?» chiesi, con una voce che suonava vuota
persino alle mie orecchie. «E loro perché hanno accettato?»
«Che alternativa avevano?» replicò Clancy. «Hanno fatto credere loro che se
non avessero collaborato le loro famiglie ne avrebbero pagato le conseguenze.
Sono stati sottoposti a un programma di condizionamento speciale per
convincerli che si sarebbero preoccupati di ogni loro necessità. Prima che mio
padre e i suoi consiglieri si accorgessero della mia influenza, sono riuscito a
controllare il programma abbastanza da garantire che ci si prendesse cura di
loro… almeno, meglio di come avrebbero fatto nei campi.» Scosse la testa.
«Non temere per loro. Un giorno o l’altro si libereranno dal controllo di mio
padre.»
E non sono morti, pensai; almeno questo.
«Ruby.»
Alzai lo sguardo e sentii il gelo fin dentro alla pancia.
«Lascia che ti mostri quello che so», mi sussurrò, alzando una mano per
scostarmi i capelli dalla guancia. Al suo tocco, l’ammasso di nervi contratti che
avevo nello stomaco si allentò, e sentii svanire i pochi sospetti che mi
rimanevano su di lui. Eravamo uguali in ciò che contava. Voleva aiutarmi anche
se non avevo nulla da offrirgli in cambio.
«Nessuno sarà in grado di ferirti o cambiarti se sarai capace di respingerli»,
disse, piano.
Non fu la depressione a spingermi, e nemmeno il vittimismo. Fu una qualità
pura, distillata, di odio che si fece strada fino al centro di me. Pensavo che Slip
Kid sarebbe stato in grado di aiutarmi a riprendermi la vita di prima, ma sapevo
che non sarebbe bastato. Avevo bisogno che mi aiutasse a proteggere il mio
futuro. Quando aprii la bocca, le mie parole bruciarono l’aria tra noi.
«Insegnami.»
23

S perché Clancy aveva tutto quel potere, non significava che lo sfruttasse. Mi
OLO

sembrava strano che qualcuno che potesse influenzare i pensieri degli altri
potesse anche avere una personalità innata in grado di attrarre a sé la gente. Lo
sperimentai di persona, quando Clancy si offrì di farmi fare il giro del campo.
Salutò i pochi ragazzi vestiti di nero intorno al falò. La sua presenza sembrava
far vibrare l’aria. Su ogni viso che incontravamo sbocciava un sorriso, e non ci
fu una sola persona che non ci facesse un cenno con la mano o gridasse un
saluto, anche solo un rapido: «Ehilà!»
«Hai mai raccontato a qualcuno quello che hai dovuto passare?» chiesi.
Mi guardò di sottecchi, come se la domanda lo avesse sorpreso. Lo osservai
infilare le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni, le spalle chine sotto il peso
dei pensieri.
«Si sono fidati di me», disse, con un piccolo sorriso triste. «Non voglio farli
preoccupare. Devono credere che io sia in grado di prendermi cura di loro,
altrimenti il sistema non funziona.»
Il «sistema», era incredibile. Una cosa era incidere il simbolo Psi sulle pareti
degli edifici e appendere striscioni sopra alle verande, un’altra era assorbire
davvero il messaggio.
Il primo esempio lo ebbi quando una ragazza incaricata degli orti si avvicinò a
noi a grandi passi pretendendo che Clancy punisse tre ragazzini che secondo lei
le rubavano la frutta da sotto al naso.
Mi bastarono due secondi ad ascoltare Clancy per capire che lo stile di vita a
East River non era basato su regole ferree, ma si appoggiava quasi
completamente sul suo buon senso e su ciò che tutti i suoi sottoposti percepivano
come giusto.
Gli accusati erano tre Verdi, di pochi mesi più grandi dei Cuccioli. La
responsabile li aveva lasciati seduti nella terra scura come tre paperelle in fila.
Indossavano tutti magliette nere, ma avevano jeans rovinati. Mi feci da parte
mentre Clancy si metteva in ginocchio davanti a loro, incurante della terra umida
che gli macchiava i pantaloni stirati.
«Avete rubato quella frutta?» chiese in tono gentile. «Per favore, ditemi la
verità.»
I tre si scambiarono uno sguardo. Toccò al più grande, seduto in mezzo,
rispondere. «Sì. Ci dispiace tanto.»
Alzai le sopracciglia.
«Grazie per la risposta onesta», disse Clancy. «Posso chiedervi come mai?»
I ragazzi rimasero in silenzio per alcuni minuti. Alla fine, con qualche
insistenza, Clancy ottenne la verità. «Pete è molto malato e non è riuscito a
venire ai pasti. Non voleva che lo sapesse nessuno perché aveva paura di finire
nei guai per aver saltato il turno di pulizia questa settimana e… non voleva
deluderti. Ci dispiace, ci dispiace tanto.»
«Capisco», disse Clancy. «Ma se Pete è davvero così malato, avreste dovuto
dirmelo.»
«All’ultima riunione del campo tu hai detto che le medicine scarseggiano.
Non voleva prendere medicine nel caso fossero servite a qualcun altro.»
«Sembra che servano a lui, però, se è troppo debole per venire a mangiare»,
sottolineò Clancy. «Sapete che quando prendete del cibo dall’orto c’è la
possibilità che questo mandi a pallino i pasti che abbiamo pianificato per tutti.»
I ragazzi annuirono con espressione avvilita. Clancy si rivolse ai ragazzi che si
erano radunati intorno a noi e chiese: «Cosa volete che facciano in cambio della
frutta che hanno rubato?»
La responsabile aprì la bocca ma un altro ragazzo, più grande, si fece avanti e,
con il rastrello che teneva in mano, indicò il semplice steccato che recintava il
giardino. «Se sono disposti ad aiutarci a togliere le erbacce per qualche giorno,
faremo a turno a fare compagnia a Pete e ci assicureremo che prenda sia il cibo
sia le medicine.»
Clancy annuì. «Mi sembra equo. Che ne pensano gli altri?»
Credetti che la responsabile avrebbe pestato i piedi per terra con stizza quando
tutti si dissero d’accordo con la «punizione». Era profondamente scontenta del
risultato, a giudicare dalla vampata di rossore sulle sue guance. «Questo non è
un problema occasionale, Clancy», disse, accompagnandoci fuori dal giardino.
«La gente pensa di poter venire qui e prendere quello che vuole, e non possiamo
certo chiuderlo a chiave come il magazzino!»
«Ti prometto che lo metterò nell’agenda della riunione del campo, il mese
prossimo», disse Clancy con uno dei suoi sorrisi. «Sarà il primo punto all’ordine
del giorno.»
Questo sembrò soddisfarla, almeno per il momento. Con uno sguardo curioso
nella mia direzione, l’Imperatrice delle Verdure girò sui tacchi e tornò a passo di
marcia nel suo regno.
«Wow», feci. «Che caratterino.»
Clancy alzò le spalle, giocherellando distrattamente con l’orecchio destro.
«Non ha torto. Se le scorte del magazzino cominciano a scarseggiare, dobbiamo
appoggiarci all’orto, e se lo saccheggiano siamo nei guai. Penso che sia chiaro
che la vita a East River è tutta interconnessa. Ehi, ti dispiace se ci fermiamo a
salutare Pete?»
Sorrisi. «Certo che no.»
Il ragazzino era sepolto sotto una pila di coperte; a giudicare dai materassi
spogli lì intorno, gli altri gli avevano prestato le proprie. Quando finalmente il
suo viso arrossato sbucò dalle coltri, lo salutai e mi presentai.
Clancy rimase a chiacchierare con lui per un buon quarto d’ora, ma io aspettai
fuori all’aria aperta, osservando il viavai del campo. I ragazzini mi salutavano
con la mano e mi sorridevano, come se fossi lì da anni anziché da qualche
giorno. Con una stretta al petto, ricambiavo i saluti. Non so se me ne fossi
accorta di colpo o attraverso un processo lento e strisciante, ma avevo iniziato a
capire che il nero – il colore che avevo imparato a temere e odiare – era lo stesso
che permetteva a quei ragazzi di provare una certa misura di orgoglio e
solidarietà.
«Non ti sentirai mai sola qui», disse Clancy, chiudendosi alle spalle la porta
della baracca. Ci dirigemmo alla lavanderia, poi ci fermammo ai bagni per
controllare i rubinetti e verificare che tutte le luci funzionassero. Di tanto in
tanto, qualcuno fermava Clancy per fargli una domanda o esprimere una
lamentela, ma lui non mostrava altro che pazienza e comprensione. Lo osservai
risolvere un’incomprensione tra coinquilini, accettare suggerimenti per la cena e
condividere la propria opinione sull’aggiunta di personale alle squadre di
sicurezza.
Quando raggiungemmo la baracca che faceva da aula per i Cuccioli, non mi
reggevo più in piedi. Clancy, dal canto suo, era pronto a impartire una lezione di
storia degli Stati Uniti.
La stanza era piccola e affollata, ma ben illuminata e decorata con poster e
disegni colorati. Individuai Zu e i suoi guanti rosa prima ancora di vedere la
ragazza adolescente che di fronte alla classe tracciava con un dito il percorso del
fiume Mississippi su una vecchia mappa degli Stati Uniti. Hina era seduta
accanto a Zu, ovviamente, e prendeva freneticamente appunti. Ripensandoci,
non avrebbe dovuto sorprendermi, ma i bimbi applaudirono quando Clancy
apparve sulla porta, e la ragazza gli lasciò subito il posto di fronte alla classe.
«D’accooordo, d’accooordo», esordì Clancy. «Chi mi sa dire dov’eravamo
rimasti?»
«Pellegrini!» cinguettarono una decina di voci.
«Pellegrini?» ripeté Clancy. «E cosa sono? Me lo dici tu, Jamie? Ti ricordi chi
erano i pellegrini?»
Una bambina più o meno dell’età di Zu scattò in piedi. «La gente in
Inghilterra li trattava male a causa della loro religione, allora sono venuti in
America in barca e sono approdati a Plymouth Rock.»
«Qualcuno mi sa dire cos’hanno fatto dopo essere arrivati?»
Una decina di mani si alzarono. Clancy scelse un bimbetto accanto a lui;
poteva essere un Verde, ma anche un Giallo o un Blu. Il mio solito modo di
distinguere i ragazzini non era più valido da quando erano tutti mischiati. Cosa
che, a ben pensarci, era voluta.
«Hanno fondato una colonia», rispose il bambino.
«Esatto. Era la seconda colonia inglese, dopo quella fondata a Jamestown nel
1607, non troppo lontano da dove ci troviamo adesso, in realtà!» Clancy prese la
mappa che l’insegnante aveva usato e indicò entrambi i posti. «Mentre si
trovavano a bordo della Mayflower, crearono il Patto della Mayflower, un
accordo per garantire che tutti collaborassero e si comportassero in modo da
portare beneficio alla colonia. Quando arrivarono, dovettero affrontare un sacco
di difficoltà. Ma lavorarono tutti insieme e crearono una comunità in cui
potevano essere liberi dal dominio della Corona inglese e potevano praticare
apertamente la propria religione.» Smise per un attimo di passeggiare, posando
gli occhi scuri sugli spettatori. «Vi ricorda qualcosa?»
Accanto a me, Zu era attentissima. Ero abbastanza vicina a lei da vedere le
lentiggini sul suo viso, ma, più importante ancora, sentivo la felicità che
emanava. Il mio cuore si alleggerì. Hina si chinò a sussurrarle nell’orecchio
qualcosa, che ampliò ulteriormente il suo sorriso.
«Ricorda noi!» esclamò qualcuno dal fondo della stanza.
«Puoi scommetterci», disse Clancy, e per l’ora e mezza successiva parlò di
come i padri pellegrini avessero interagito con le tribù indigene, di Jamestown,
di tutte le cose che mia madre insegnava al liceo. E, quando ebbe finito il tempo
a sua disposizione, fece un piccolo inchino e mi fece cenno di seguirlo fuori,
malgrado le lamentele dei Cuccioli. Ridacchiando, ci avvicinammo al falò, dove
avevano iniziato a preparare la cena. Diversi sguardi ci si posarono addosso
immediatamente, ma non mi importava. Anzi, sentii un fremito di orgoglio.
«Allora?» disse Clancy, mentre eravamo accanto alla veranda dell’ufficio, ad
ascoltare le campane che richiamavano gli altri a cena. «Che ne pensi?»
«Penso di essere pronta per la mia prima lezione», dissi.
«Oh, Miss Daly.» Un sorriso spuntò sul suo viso. «Hai già avuto la tua prima
lezione. Solo che non te ne sei accorta.»

Due settimane trascorsero come pagine strappate da un vecchio libro.


Passai così tante ore chiusa nella stanza di Clancy, tentando di spingere
immagini nella sua mente, di impedirgli di fare lo stesso, parlando della Lega, di
Thurmond e del Rumore Bianco, che entrambi perdemmo il filo della routine del
campo. Lui aveva le sue riunioni quotidiane ma, anziché chiedermi di uscire, mi
faceva aspettare al di là della tenda bianca, dove avevano luogo ormai quasi tutte
le nostre sessioni di addestramento.
Certe volte doveva uscire e ispezionare le baracche, o calmare un litigio, ma
quasi sempre io rimanevo in quella vecchia stanza umida. Avevo a disposizione
libri, musica e un televisore, perciò non c’era rischio che mi annoiassi.
Vedevo ancora Ciccio ai pasti, ogni tanto, ma Clancy spesso ci faceva portare
il cibo in camera. Era ancora più difficile incontrare Zu, perché quando non era a
scuola, era con Hina o con qualcun altro dei Gialli più grandi. Le uniche volte in
cui passavo davvero del tempo insieme a loro era la sera, prima che le luci
venissero spente. Ciccio, per lo più, era un fantasma: sempre al lavoro, sempre
alla ricerca di un modo per attirare l’attenzione di Clancy suturando il labbro alla
ragazza che si era ferita o suggerendo un modo più efficiente di raccogliere la
verdura nell’orto.
L’intervallo di tempo più lungo che trascorsi con lui fu quando mi tolse i
punti.
Zu, da parte sua, era felice di mostrarmi ciò che aveva imparato a scuola e i
trucchi che gli altri Gialli le avevano insegnato nel tempo libero.
Dopo qualche giorno, smise di indossare i guanti. Me ne accorsi una sera,
mentre mi pettinava. Mi ero allontanata per spegnere la luce, ma lei aveva fatto
prima: uno schiocco di dita, e la luce sopra di noi si era spenta.
«Ma è fantastico», commentai, ma avrei detto una bugia terribile se non avessi
ammesso una fitta di gelosia per i progressi che aveva ottenuto. Ero riuscita a
bloccare l’ingresso di Clancy nella mia mente una volta sola, e non prima che
avesse scoperto quanto accaduto con Sam.
«Interessante», fu il suo unico commento.
Se vedevo Zu e Ciccio ogni giorno, con Liam era ben diverso. La squadra di
sicurezza gli aveva assegnato il secondo turno di guardia – dalle cinque del
pomeriggio alle cinque del mattino – all’estremità occidentale del lago. Di solito
era troppo stanco per trascinarsi nella sua baracca dopo il turno, e passava la
maggior parte dei giorni a dormire nelle tende che erano state sistemate accanto
a quell’ingresso. Lo vidi una volta o due parlare animatamente con delle persone
a colazione o in visita a Zu e agli altri Cuccioli, ma sempre dalla finestra della
stanza di Clancy.
Mi mancava tanto che sentivo un dolore reale, fisico, ma capivo che Liam
aveva delle responsabilità. Quando potevo distrarmi un attimo, il mio pensiero
correva sempre a lui, ma ero così concentrata sulle nostre lezioni che era difficile
lasciare che la mia mente si dirigesse altrove troppo a lungo.
Clancy rise, riportando la mia attenzione su di lui, e improvvisamente non mi
capacitai di aver lasciato vagare i pensieri. Indossava una polo bianca che faceva
risaltare la sua carnagione luminosa, e pantaloni kaki stirati e arrotolati con
disinvoltura alle caviglie. Quando era in giro con gli altri, era sempre tutto
abbottonato, con abiti puliti e stirati alla perfezione, ma non con me.
Non dovevamo recitare alcuna parte, non tra noi. Quando avevamo appena
iniziato le lezioni, eravamo ai lati opposti di quella ridicola scrivania; mi
sembrava di dover affrontare il preside di una scuola, non di essere guidata in
una lezione Psi da quel matto del mio guru. In seguito, avevamo provato il
pavimento, ma dopo qualche ora seduta a terra la mia schiena sembrava sul
punto di sbriciolarsi. Era stato lui a suggerire di sedersi sul suo letto stretto. Si
era sistemato a un’estremità e io all’altra. Poi, avevamo iniziato ad avvicinarci.
Ad accorciare la distanza sulla sua trapunta rossa, sempre più vicini a ogni
lezione, finché un giorno mi risvegliai dalla trance in cui gli occhi scuri di
Clancy mi avevano fatto cadere e mi resi conto che le nostre ginocchia si
toccavano.
«Scusa», mormorai, quando tornai a voltarmi verso di lui. «Possiamo
riprenderlo dall’inizio?»
A quanto pareva, ogni cosa di me lo divertiva. «Riprenderlo dall’inizio?
Stiamo facendo le prove di uno spettacolo? Devo chiedere a Mike di cominciare
a costruire una scenografia?»
Non so perché risi a quelle parole: non erano poi tanto comiche. Forse tentare
di attaccarlo con la mia mente per venti minuti di fila mi aveva resa instabile.
L’unica cosa di cui mi sentivo sicura era di quanto fosse grande e rassicurante la
sua mano quando prese la mia e la strinse.
«Prova di nuovo», disse. «Stavolta, prova a immaginare che le mani invisibili
di cui mi dicevi siano in realtà coltelli. Fendi la nebbia.»
Più facile a dirsi che a farsi. Annuii e chiusi gli occhi, sforzandomi di
respingere l’ondata di colore dalle mie guance. Ogni volta che usava le mie
sciocche metafore per spiegare il funzionamento del mio cervello provavo
imbarazzo, persino un po’ di vergogna. Aveva riso la prima volta che avevo fatto
quel paragone, agitando le dita nella mia direzione come se mi stesse facendo un
incantesimo.
Aveva provato vari metodi per mostrarmi come farlo. Eravamo scesi nella
dispensa affinché potessi osservarlo entrare nella mente di Lizzie e, solo per
farmi ridere, chiederle di fare il verso di una chioccia. Clancy aveva provato a
farmi vedere quanto fosse facile influenzare l’umore di più persone allo stesso
tempo, risolvendo un litigio tra due ragazzi senza dire nemmeno una parola.
A un certo punto, ci sedemmo sulla soglia dell’ufficio e mi lesse i pensieri di
tutti quelli che ci passarono davanti, inclusa la povera Hina, che a quanto pareva
aveva una terribile cotta per lui.
La verità era che poteva davvero fare qualunque cosa. Bloccarmi, spingere in
me un’immagine, un sentimento, una paura. Una volta, ne ero sicura, mi aveva
persino passato un sogno. Non volevo provare la sensazione di deluderlo, dato
che mi stava dedicando così tanto del suo tempo prezioso; il solo pensiero mi
faceva torcere le budella per la paura. Mi diceva di prendermela con calma, che
lui stesso ci aveva messo anni a padroneggiare la materia, ma era impossibile
resistere al desiderio di superare le lezioni di corsa, di avere il controllo delle
mie abilità il prima possibile. Mi sembrava che il modo migliore di ripagare la
sua gentilezza fosse di riuscire a controllarmi al punto di poter stare accanto a lui
e provare orgoglio, non vergogna, per ciò che sapevo fare.
Fino a quando non fossi stata in grado di scoprire i suoi segreti, non saremmo
mai stati alla pari. Mi aveva definita sua «amica» diverse volte, durante le nostre
lezioni e di fronte agli altri ragazzi, e mi sorprendeva il fatto di rabbrividire a
quel termine. Clancy aveva centinaia di amici. Volevo essere più di un’amica:
volevo che si fidasse di me e si confidasse con me.
A volte, volevo solo che si avvicinasse di più, che mi sistemasse i capelli
dietro l’orecchio. Era un pensiero disgustosamente frivolo, però, e non ero sicura
da quale anfratto della mia mente fosse strisciato fuori. Penso che la testa mi
stesse giocando qualche brutto tiro, perché sapevo che in realtà era quello che
volevo facesse Liam; anzi, volevo che Liam facesse anche di più.
Ma ogni volta che provavo a intrufolarmi nella mente di Clancy, venivo spinta
indietro. Clancy aveva un tale controllo sui propri poteri che non avevo
nemmeno il tempo di sentire il solito vertiginoso flusso di pensieri e ricordi.
Ogni singola volta, era come se avesse avvolto il cervello in una tenda bianca.
Per quanto la tirassi, non riuscivo ad aprirla.
Però non significava che non ci provassi.
Clancy sorrise, avvicinandosi per portarmi i capelli oltre la spalla. La sua
mano si trattenne, scivolando sulla mia nuca. Sapevo che mi stava fissando, ma
non trovavo il coraggio di alzare gli occhi a incrociare i suoi, nemmeno quando
si avvicinò.
«Puoi farcela. So che puoi.»
Strinsi i denti finché la mascella schioccò. Un muscolo si contrasse nella mia
guancia destra. Tentai di radunare le centinaia di migliaia di dita erranti,
affilandole in qualcosa di abbastanza tagliente e letale da penetrare le sue difese.
Gli strinsi la mano, premendo sempre più fino a essere sicura che provasse
dolore, e poi gli lanciai contro il pugnale invisibile, affondandolo il più forte e
veloce possibile.
Tuttavia, nel momento in cui sfiorai quel muro bianco, mi sentii come se si
fosse chinato in avanti per schiaffeggiarmi. Clancy sospirò e allontanò la mano.
«Scusa», dissi, detestando il silenzio che seguì.
«Scusa tu.» Clancy scosse la testa. «Sono un pessimo insegnante.»
«Fidati, non sei tu il problema in questa equazione.»
«Ruby, Ruby, Ruby», disse. «Non è un’equazione. Non si può risolvere in tre
semplici passaggi, altrimenti non avresti accettato il mio aiuto, giusto?»
Abbassai lo sguardo, e lui iniziò a sfregare il pollice sul mio palmo. Un
cerchio lento, pigro. Stranamente lo trovai calmante, e quasi ipnotico.
«È vero», esordii. «Ma dovresti sapere che non sono stata del tutto… onesta.»
Questo attirò la sua attenzione.
«Gli altri ti cercavano perché pensavano che tu fossi una specie di sciamano
che poteva riportarli a casa. Ma io volevo trovarti perché contavo sui
pettegolezzi riguardo il tuo essere Arancione. E speravo volessi insegnarmi.»
Le sopracciglia scure di Clancy si avvicinarono, ma non lasciò la mia mano.
Al contrario, appoggiò l’altro palmo nello stretto spazio tra le nostre gambe
incrociate. «Ma questo è stato prima che ti rivelassi ciò che la Lega aveva in
programma per te», disse. «Come pensavi che ti potessi aiutare? No, lasciami
indovinare. Qualcosa a che fare con quanto accaduto ai tuoi genitori, giusto?»
«Come mi sono cancellata», confermai. «Come evitare di farlo di nuovo.»
Clancy chiuse gli occhi per un istante e, quando finalmente li riaprì,
sembrarono più scuri di prima, quasi neri. Mi avvicinai ancora, percependo uno
strano miscuglio di tristezza, senso di colpa e qualcos’altro che sembrava
traspirare dai pori della sua pelle.
«Vorrei poterti aiutare in questo», disse. «Ma la verità è che non so fare quello
che sai fare tu. Non ho idea di come aiutarti.»
Non ho idea di come aiutarti. Ma certo. Ma certo che no.
Anche Martin era un Arancione, ma non aveva le stesse abilità che avevo io.
Chissà perché avevo dato per scontato che Slip Kid invece le avesse.
«Se tu… me ne parli, e mi spieghi come credi che funzioni, allora potrei
riuscire a pensare a qualcosa.»
Non era tanto che non fossi in grado di parlarne, quanto che non volevo. Non
in quel momento. Mi conoscevo abbastanza bene da poter immaginare le parole
strozzate e la spiegazione piagnucolosa che sarebbe seguita. Ogni volta che
permettevo a me stessa di pensare a quanto accaduto, ne uscivo sempre esausta e
tremante, sentendomi spaventata e senza speranza e orribile esattamente come
quando avevo vissuto quegli istanti la prima volta.
Mi osservò da sotto le sue folte ciglia scure, e subito il suo sguardo si tinse di
comprensione. Il suo pollice si attardò sul battito nel mio polso. «Ah. È un
Benjamin. Avrei dovuto aspettarmelo, mi dispiace.» Vedendo la mia espressione
confusa, mi spiegò: «Benjamin era il mio vecchio tutor prima… beh, prima che
tutto andasse al diavolo. È morto quando ero molto giovane, e non riesco ancora
a parlarne. Mi fa ancora male». Fece un sorriso mesto. «Forse non c’è bisogno
che tu dica niente, però. Possiamo provare qualcosa di diverso.»
«Tipo cosa?»
«Tipo che sia tu a provare a bloccarmi, stavolta, anziché il contrario.
Scommetto che lo troverai più facile.»
«Perché?»
«Perché non sei abbastanza crudele da lanciare una buona offensiva: fidati di
me, è un complimento.» Attese il mio sorriso prima di proseguire: «Ma sei
sempre in guardia. Non mostri le tue carte a nessuno. A volte è impossibile
interpretarti».
«Non è mia intenzione», lo interruppi.
Clancy replicò solo con un gesto della mano. «Non è una brutta cosa», disse.
«Anzi, ti aiuterà.»
Beh, di certo non mi aveva aiutato a respingere Martin.
«Riesci a percepire quando qualcuno tenta di entrare nella tua testa?» mi
chiese. «C’è come un formicolio…»
«Sì, so di cosa parli. Cosa dovrei fare quando lo sento?»
«Devi restituire la spinta con la stessa forza, per sviare il tuo assalitore dalla
traiettoria che aveva preso. Nella mia esperienza, le cose che vuoi veramente
proteggere, come i ricordi o i sogni. Hanno già le loro difese naturali. Devi solo
aggiungere un altro muro.»
«Ogni volta che provavo a entrare nella tua testa, era come se una tenda
bianca mi bloccasse.»
Clancy annuì. «Io faccio così. Quando provo quella sensazione, spingo
l’immagine di quella tenda e non mollo, qualsiasi cosa accada. Perciò ora voglio
che ti porti alla mente un segreto o un ricordo – qualcosa che non vorresti far
vedere a me o ad altri – e poi voglio che tu chiuda quella tenda per proteggerlo.»
Non dovevo essere riuscita a nascondere la mia esitazione, perché Clancy mi
afferrò nuovamente le mani e intrecciò le dita alle mie. «Andiamo», disse. «Qual
è la cosa peggiore che possa capitare? Che io veda un ricordo imbarazzante?
Penso che ormai siamo abbastanza amici da poterti fidare che io non sbandieri ai
quattro venti di quella volta che sei inciampata o hai vomitato in pubblico.»
«E se si trattasse di correre in giro nudi o mangiare la sabbia del parco
giochi?»
Finse di pensarci per un secondo e poi sorrise. «Credo che potrei trattenermi
dal raccontarlo al resto del campo, a cena.»
«Sei davvero un leader buono e giusto», commentai. Dopo un momento,
aggiunsi: «Mi consideri davvero un’amica, o lo dici solo perché vuoi vedere che
mi cadono i denti davanti giocando a calcio?»
Clancy scosse la testa e rise. I suoi aneddoti preferiti erano quelli in cui io
tentavo di comportarmi da maschiaccio, oppure le volte in cui mio padre mi
portava al fast food quando la mamma era fuori città per qualche corso di
aggiornamento. Erano talmente lontani dalla sua esperienza, mi ero resa conto,
che dovevo sembrargli un’aliena.
«Ma certo che ti considero mia amica, anzi», rispose a bassa voce. Quando i
suoi occhi scuri tornarono nei miei, bruciavano con un’intensità tale da farmi
sentire la testa piena d’aria, sul punto di galleggiare lontano. «Ti considero molto
più di un’amica.»
«Cosa intendi?»
«Tu magari mi stavi cercando, ma diciamo che io ti stavo aspettando. È da
tanto tempo che nessuno capisce cos’ho dovuto passare. Essere Arancione… non
c’è paragone con le esperienze degli altri. Non possono capire noi e le nostre
abilità.»
Siamo solo noi, disse una vocina nella mia mente, solo noi due.
Gli strinsi le mani. «Lo so.»
La sua attenzione sembrò disperdersi, e i suoi occhi andarono all’altro lato
della stanza, verso il computer e il televisore. Mi sembrò di scorgervi un lampo
di tristezza, una vera sofferenza, ma in un momento sparì, rimpiazzato dalla
consueta espressione sicura di sé.
«Sei pronta a fare un tentativo?»
Annuii. «Ti giuro che ci sto provando. Ti prego, ti prego, non gettare la
spugna con me.»
Mi sorpresi quando sentii le sue mani ritrarsi dalle mie.
Scioccata, le sentii risalire sulle mie braccia nude e fin sopra le spalle. Non lo
fermai. Era una caratteristica di Clancy, con la quale stavo scendendo a patti in
fretta. Con lui, non avevo nulla da temere, riguardo a ciò che potevo fare
volontariamente o per sbaglio. Non avevo bisogno di alzare ogni difesa che
possedevo per trattenere i tentacoli del mio cervello, perché Clancy era
perfettamente in grado di tenermi fuori dalla sua testa.
Ma Liam… lui era una cosa preziosa, che potevo infrangere con il minimo
errore. Era qualcuno con cui non potevo stare, non in quel momento, non così
com’ero.
Clancy si chinò in avanti per iniziare l’esercizio. Mi chinai anch’io,
appoggiandomi al suo petto caldo che profumava di pino e vecchi libri e di
migliaia di possibilità che non avevo mai conosciuto.
Non lo bloccai al primo tentativo… nemmeno al quinto. Ci vollero tre giorni e
lui vide quasi tutti i miei ricordi più amari e imbarazzanti prima che riuscissi a
mettere in piedi una forma di difesa.
«Pensa più profondamente», mi disse. «Pensa a qualcosa che non vuoi far
sapere a nessuno. Sono quei ricordi a evocare le difese più forti.»
Non era rimasto niente che non avesse già visto. Quel tizio avrebbe potuto
essere un neurochirurgo, per la precisione e l’accuratezza dei suoi affondi! Ogni
volta che portavo alla mente un ricordo o un pensiero e tentavo di proteggerlo
con un muro invisibile, le mie difese si sbriciolavano, deboli come carta oleata.
Eppure, non demordeva.
«Puoi farcela», ripeteva. «So che puoi farcela. Sei in grado di fare molto più
di ciò che ammetti con te stessa.»
Fu la sua strana insistenza su un ricordo particolarmente succoso che produsse
finalmente il mio primo risultato.
«Deve per forza essere un ricordo?» chiesi.
Sembrò rifletterci. «Forse dovresti provare qualcosa di diverso, stavolta.
Qualcosa che immagini.» Poteva essere solo un trucco della mia mente, ma il
suo viso d’un tratto mi sembrò molto più vicino. «Qualcosa che vuoi. O…
qualcuno?»
Il modo in cui lo disse mi fece pensare che si trattasse di una domanda, una
domanda seria mascherata da un tono noncurante e casuale. Mantenni
un’espressione impassibile.
«D’accordo», dissi. «Penso di essere pronta.»
Clancy non sembrava così sicuro. Ma io lo ero. Quella fantasia in particolare
si era intrufolata nei miei sogni da settimane, invadendo il poco tempo lasciato
libero dai miei allenamenti mentali.
Mi era venuta nel mezzo della nostra terza notte a East River, proprio in
quell’ora che separa il giorno dalla notte. Sobbalzai nel letto, svegliandomi
confusa e sentendo Ciccio russare e Zu agitarsi nel sonno. Ogni centimetro della
mia pelle formicolava mentre analizzavo ciò che avevo visto, per capire se fosse
davvero successo, o se potesse succedere davvero.
Quello era un sogno che non desideravo affatto condividere, che cullavo nel
profondo del mio cuore, così nascosto che non mi ero nemmeno resa conto della
sua presenza finché sbucò all’esterno, fatto e finito.
Dovevo aver sognato che fosse primavera. I ciliegi in fondo alla strada di casa
mia a Salem erano in piena fioritura.
Li oltrepassammo a bordo di Black Betty: Liam e io sul sedile davanti ad
ascoltare una canzone dei Led Zeppelin che forse non esisteva nemmeno. A casa
c’erano palloncini bianchi, legati ai lati del cancello bianco, come frecce
galleggianti che ci indicavano la porta aperta. Liam, con addosso gli stessi vestiti
della prima volta che ci eravamo incontrati, mi prese per mano, e insieme
percorremmo il vialetto principale, entrammo nella cucina giallo pastello e
arrivammo finalmente alla porta che conduceva al giardino sul retro, dove tutti ci
stavano aspettando.
Tutti. I miei genitori. La nonna. Zu. Ciccio. Sam. Tutti seduti intorno a una
coperta che i miei avevano steso sull’erba, a mangiare ciò che mio padre
cuoceva sulla griglia. La mamma correva di qua e di là, legando altri palloncini,
con le mani sporche di terra scura per aver piantato i nuovi, pallidi fiori dove
prima c’era soltanto erba. Salutammo tutti, io abbracciai Sam, indicai gli
uccellini sugli alberi a Zu e presentai Ciccio a mia madre.
E poi, Liam si chinò a baciarmi, e non c’erano parole per descriverlo.
L’intrusione di Clancy arrivò come tutte le altre in precedenza, prima con un
formicolio e poi con un ruggito. Ero così persa nel sogno che non avevo
nemmeno sentito che mi prendeva la mano per iniziare la prova.
Clancy mi piaceva molto, più di quanto mi fossi aspettata. Ma non c’era posto
per lui in quel sogno. Non c’era niente, lì, che volessi condividere con lui.
Strinsi la sua mano con forza, e usai ogni granello di volontà che avevo in me
per spingerlo via dalla mia mente.
La sua strategia della tenda non aveva funzionato con me, ma usare l’attacco
come difesa? Forse era persino troppo efficace.
Prima ancora di aprire gli occhi sentii Clancy sobbalzare e ritrarsi
risucchiando un sospiro di dolore.
«Oh mio Dio», dissi, quando finalmente riuscii a scuotere la nebbia via dalla
mente. «Mi dispiace tanto!»
Ma quando Clancy alzò gli occhi, fu con un sorriso. «Te l’avevo detto»,
mormorò. «Te l’avevo detto che ci saresti riuscita.»
«Possiamo farlo di nuovo?» chiesi. «Voglio essere sicura che non sia stato un
caso.»
Clancy si sfregò la fronte. «Possiamo riposare un po’? Mi sento come se il
mio cervello fosse stato vittima di un placcaggio.»
Ma Clancy non ottenne il riposo sperato. Appena le parole lasciarono le sue
labbra, sentimmo un avvertimento ben diverso.
Ci fu uno strillo acuto dall’altro lato della stanza, un suono che non avevo mai
udito, come l’antifurto di un’auto. Clancy sussultò, abbassando la testa per
sfuggire al rumore, e saltò giù dal letto. Si avvicinò alla scrivania e aprì il
portatile. Le sue dita sembravano volare mentre digitava la password, e la luce
bluastra dello schermo gli illuminò il viso pallido. Mi fermai alle sue spalle
proprio mentre avviava un nuovo programma.
«Cosa sta succedendo? Clance?»
Non alzò nemmeno lo sguardo. «È scattato uno degli allarmi al perimetro del
campeggio. Non preoccuparti, potrebbe non essere niente. È già capitato che
degli animali si avvicinassero troppo ai fili.»
Mi ci volle un attimo per rendermi conto di cosa avevo davanti agli occhi.
Quattro video di colori diversi, ciascuno in un quadrante diverso dello schermo;
quattro punti di vista differenti sui confini del campeggio. Clancy si chinò in
avanti, poggiando le mani ai lati del computer. Si sporse davanti a me per
raggiungere la radio senza fili dall’altro lato della scrivania. Non distolse mai lo
sguardo dallo schermo.
«Hayes, mi ricevi?»
Ci fu un momento di silenzio prima che il burbero «Sì, che c’è?» di Hayes
gorgogliasse dal ricevitore.
«È scattato l’allarme al perimetro sudoccidentale. Sto guardando il video ora,
ma…» Pensai che stesse per dire: Non vedo niente e nessuno, ma le sue parole
successive mi fecero venire voglia di infilarmi sotto il suo braccio per vedere lo
schermo con i miei occhi. «Sì, vedo un uomo e una donna, entrambi in
mimetica; nemici, a giudicare dall’aspetto.»
Ed eccoli. Sembravano di mezz’età, ma era difficile esserne sicuri. Entrambi
indossavano quelli che potevano essere descritti solo come vestiti da caccia,
mimetici, dalla testa ai piedi. Sembrava che si fossero dipinti di marrone anche il
viso.
«Ricevuto. Ci penso io.»
«Grazie… falli arretrare, d’accordo?» disse Clancy con cura, poi azzerò il
volume della radio.
Perimetro sudoccidentale: bene, non nella zona di Liam. Feci un sospiro di
gratitudine.
Avevo ancora gli occhi incollati allo schermo quando Clancy chiuse il
computer. «Rimettiamoci al lavoro. Scusa per la distrazione.»
Mi sentii tradita dallo stupore. «Non devi andare là fuori?» chiesi. «Cosa farà
Hayes con loro?»
Lui replicò con un vago cenno della mano. Di nuovo.
«Non ti preoccupare, Ruby. È tutto sotto controllo.»

Una crepa forse non era sufficiente ad abbattere le difese di una fortezza, ma
era abbastanza per spaccarle in due, poi in tre e poi in quattro. Dopo il primo
sfondamento, trovare altri modi di intrufolarmi nella mente di Clancy divenne
per me una missione.
Non riuscivo mai a rimanere più di tanto prima di farmi buttare fuori senza
tante cerimonie, ovviamente; ma ogni piccola vittoria mi incoraggiava a cercarne
un’altra e un’altra ancora. Potevo sorprenderlo quando era distratto, ingannarlo e
fargli proteggere un ricordo mentre in realtà andavo a caccia di un altro. Clancy
ne era sorpreso, ma secondo me anche, segretamente, eccitato. Almeno quanto
bastava per iniziare a farmi fare pratica sugli altri.
Per certi versi era come correre in discesa: l’inerzia mi trascinò in esperimenti
di ogni tipo, grandi e piccoli. Combinai un casino spettacolare una sera a cena,
quando presi ciascuno dei sei ragazzini di turno e misi loro in mente sei idee
molto diverse di cosa dovessero preparare da mangiare, tutte allo stesso tempo.
Feci pensare a una ragazza di chiamarsi Theodore con tale convinzione che si
metteva a piangere quando qualcuno la contraddiceva. Divenne così facile, in
effetti, convincere qualcuno a fare ciò che volevo, o fargli pensare di aver fatto
qualcosa che non aveva fatto, che Clancy mi disse che era giunto il momento di
provare a metterlo in pratica senza contatto fisico con il soggetto.
Ci stavo arrivando, lentamente e senza troppa sicurezza, ma c’era qualcosa di
delizioso nel sentire di poter controllare la stessa potente ondata delle abilità che
un tempo mi avevano terrorizzata. Ogni loro aspetto divenne più preciso, più
facile.
Ma il martedì seguente fummo di nuovo interrotti.
Una delle ragazze Gialle più grandi, Kylie, bussò forte alla porta di Clancy.
Non attese di essere invitata a entrare; quasi caddi dal letto per la forza con cui
irruppe nella stanza.
«Come sarebbe a dire che rifiuti la nostra richiesta di andarcene?» I riccioli
scuri e arruffati le incorniciavano il viso. «Hai lasciato andare Adam, hai lasciato
andare il gruppo di Sarah, hai persino lasciato partire Greg e i suoi, e sia tu sia io
sappiamo che anche messi insieme avevano meno cervello di un moscerino…»
Le assi del pavimento scricchiolarono quando mi riavvicinai al letto. Clancy
aveva lasciato aperta la tenda quando era andato alla porta, perciò Kylie mi vide
benissimo. Si voltò di scatto verso Clancy, che le aveva messo le mani sulle
spalle per calmarla. «Oh mio Dio! Sei qui a pomiciare? Almeno hai visto la mia
proposta? Ci ho messo giorni a scriverla!»
«L’ho letta tre volte», rispose lui, facendomi cenno di avanzare con la mano.
Guardò Kylie con lo stesso sorriso paziente e calmo che mi aveva rivolto
dall’inizio delle nostre lezioni. «Ma sono ben felice di discutere ora del perché
l’abbia respinta. Ruby… domani?»
E in un batter d’occhio mi ritrovai all’esterno, nel sole mattutino.
La primavera era ancora incerta: il clima freddo e uggioso un giorno, tiepido
quello seguente. Le due settimane trascorse rinchiusa con Clancy avevano reso
ancora più difficile stare dietro alle tendenze bipolari del meteo.
Mi tolsi la felpa e raccolsi i capelli in uno chignon disordinato. Andai a
cercare Ciccio nell’orto, ma la responsabile – nel tono più prepotente che riuscì a
tirare fuori – mi disse che non lo vedeva da una settimana, e che lo avrebbe detto
a Clancy per fargli avere la punizione che si meritava.
«Punizione?» ripetei, impaziente, ma la ragazza non disse altro.
Lo trovai nel posto più logico. «Sai», gli dissi, camminando sull’attracco, «il
pane in realtà fa male alle papere.»
Ciccio non alzò nemmeno lo sguardo. Mi sedetti accanto a lui, ma per tutta
risposta si alzò e si allontanò, lasciandosi alle spalle la borsa e il libro.
«Ehi!» esclamai. «Che problemi hai?»
Nessuna risposta.
«Ciccio… Charles!»
Si voltò di scatto. «Vuoi sapere che problemi ho? Da dove iniziare? Magari
dal fatto che è passato quasi un mese e siamo ancora qui? Oppure dal fatto che tu
e Lee e Suzume ve ne state in giro a fare amicizia mentre dovremmo pensare a
un modo per tornare a casa?»
«E questa rabbia da dove arriva?» Forse non si era inserito con la stessa
naturalezza di me, Zu e Liam, ma lo avevo visto chiacchierare con gli altri
ragazzi mentre lavorava. Sembrava okay; forse non proprio felice, ma quando
mai lo era? «Questo posto non è poi così male…»
«Ruby, è orribile!» sbottò. «Orribile! Ci dicono quando possiamo mangiare,
quando dormire, cosa indossare, e siamo costretti a lavorare. Che differenza c’è
tra qui e i campi?»
Feci un brusco respiro. «Sei tu che volevi venire qui! Mi dispiace se non
risponde alle tue esigenti aspettative, ma per noi va bene così. Se solo ci
provassi, potresti essere felice qui. Siamo al sicuro! Perché hai tutta questa fretta
di andartene?»
«Solo perché i tuoi genitori non ti volevano, non significa che per noi sia lo
stesso. Forse tu non hai nessuna fretta di tornare, ma io sì!»
Se mi avesse sparato in pieno petto, sarebbe stato lo stesso; sentii il sangue
abbandonare il mio cuore, e vidi Ciccio che si afferrava i capelli scuri con una
mano. «Ho lavorato duramente, ci ho provato e, santo cielo, tu non glielo hai
nemmeno chiesto, vero?»
«Chiesto…?» Ma sapevo. Appena le parole mi uscirono di bocca, seppi
esattamente quale promessa non avevo mantenuto. La mia rabbia scomparve.
«Mi dispiace tanto, sono stata così presa dalle lezioni che mi sono scordata.»
«Beh, io no», disse lui, e mi mollò lì al sole.
Un’ora più tardi mi trovavo sotto un getto di acqua calda, con le mani premute
sul viso.
I bagni del campo – uno per i maschi e uno per le femmine – erano eleganti
più o meno come un capanno degli attrezzi. I pavimenti erano di cemento e le
cabine doccia erano in legno con tende di plastica ammuffite. Li usavamo ogni
sera per lavarci i denti e il viso, e una o due volte alla settimana per fare la
doccia.
Ma quel giorno, senza il profumo floreale di shampoo e balsamo nell’aria, mi
accorsi che la stanza cavernosa puzzava di segatura.
Rimasi lì dentro finché suonò la campana che segnalava la fine del pranzo.
Non avevo ancora formulato un piano per il resto della giornata quando uscii e
inciampai nella persona che più al mondo desideravo incontrare, senza
essermene resa conto.
Liam arretrò di qualche passo per l’impatto, con i capelli bagnati, più lunghi
di quanto ricordassi, appiccicati alle guance.
«Oh mio Dio», dissi con una risata, mettendomi una mano sul petto. «Mi hai
spaventata a morte.»
«Mi dispiace.» Sorrise, tendendomi la mano. «Ehi, mi sa che non ci siamo
ancora presentati. Io sono Liam.»
24

N so quanto a lungo rimasi lì impalata, a fissare la sua mano, con la bile che mi
ON

risaliva in gola alla stessa velocità di un urlo.


Oh mio Dio, no, pensai, facendo un passo indietro. No, no, no nonono…
«Sai, sei uguale a una mia amica, Ruby, ma non la vedo da una vita, perciò
io…» La sua voce si spense. «Era davvero uno scherzo pessimo?»
Mi voltai e premetti il viso nell’asciugamano perché non vedesse le mie
lacrime.
«Ruby?» Mi mise il suo asciugamano intorno alla vita per attirarmi a sé.
«Quello era lo stile Liam Stewart per dirti: Ciao, tesoro, mi sei mancata da
morire. Oh caspita, pessimo al punto da farti piangere?»
Mi passò le mani sui capelli. «D’accordo, basta così…» Si chinò e, prima che
potessi reagire, mi sollevò e mi caricò su una spalla.
Non mi permise di divincolarmi finché fummo tornati alla baracca 18. Mi
depose sul futon che condividevo con Zu, prendendo una coperta dal suo letto.
«Non ho freddo», protestai, quando me la avvolse intorno alle spalle.
«E allora perché tremi?» Si sedette accanto a me, e io mi voltai per appoggiare
il viso nella piega del suo collo e respirare il suo profumo pulito, legnoso.
«Sono solo arrabbiata con me stessa», dissi, quando ritrovai la voce. «Avevo
promesso a Ciccio che avrei chiesto a Clancy di poter usare il suo portatile, ma
mi sono distratta e l’ho scordato.»
«Mmm…» Liam mi pettinò con le dita i capelli bagnati. «Non penso che sia
arrabbiato con te. Penso che sia arrabbiato perché vi ho fatti rimanere qui.
Questo alimenta le sue paure di non riuscire a tornare a casa.»
«Come posso farmi perdonare?»
«Beh, tanto per cominciare, potresti chiedere del computer», propose,
prendendomi per mano. «Anche se continuo a non capire come tu possa chiedere
di prenderlo in prestito. Mi sembra di non vederti da una vita.»
«È così», confermai. «Sei sempre di guardia.»
Liam rise. «È una vita solitaria, seduto su un albero senza di te.»
«Voglio sapere cosa fai ogni notte», dissi. «Hai già provato a parlare con
qualcuno del tuo piano di liberare i campi?»
«L’ho accennato ad alcuni ragazzi nel mio turno di guardia e a Olivia. Sta
organizzando di farci parlare con Clancy a questo proposito. Penso… che andrà
alla grande, davvero. Potrebbe proprio funzionare.»
«Clance dice che il cancello occidentale è quello che di solito dava più
problemi», dissi, voltandomi per guardarlo negli occhi. «Tu stai sempre attento,
vero?»
Lui rimase immobile, talmente immobile che sembrava non respirare
nemmeno.
«Clance, eh?» disse con voce stranamente leggera. «Allora sì che puoi
chiedere favori.»
«Cosa vorresti dire?»
«Niente, scusa», sospirò. «Non intendevo usare quel tono. Sono contento che
voi due siate diventati amici.» Tentai di alzare lo sguardo su di lui, ma era girato
verso la parete, dove si trovava la cassettiera con le nostre cose. «Insomma, ti sta
dando lezioni?»
«Già.» Mi domandai se e cosa dovessi tenere per me. «Mi sta insegnando
come impedire agli altri di leggere la mia mente.»
«E invece i trucchi per trattenerti dall’entrare nella mente altrui? Ti sta
aiutando anche con quello?»
«Ci sta provando», risposi. «Ha detto che se riesco ad avere più controllo sulle
mie abilità, questo verrà di conseguenza.»
«Puoi sempre esercitarti con me», disse, poggiando la fronte alla mia. Sentii il
formicolio risvegliarsi in fondo alla mia mente, come un avviso prima del
diluvio. Clancy mi aveva detto che, quando lo sentivo arrivare, dovevo
interrompere ogni contatto fisico e immaginare che una tenda bianca cadesse tra
me e la persona con cui mi trovavo.
Ma non volevo fare nessuna delle due cose.
Le sue labbra si spostarono dalla mia fronte, sussurrando qualcosa contro le
palpebre, le guance, il naso. Con i pollici mi accarezzò i lati del viso, ma appena
si fermò mi ritrassi e mi voltai dall’altra parte.
«Cos’è che ti spaventa tanto?» sussurrò, con la voce carica di dolore.
Davvero questo ragazzo era solo un estraneo, prima?
Davvero avevo pensato di poter vivere una vita intera senza di lui?
«Non voglio perderti.»
Fece un gemito di frustrazione, e i suoi occhi si accesero quando domandò: «E
allora perché sei tu che continui a ritrarti?»
Non ebbi la possibilità di rispondere. Un secondo più tardi, Hina irruppe nella
baracca, con Zu alle calcagna, e ci disse che se ne stavano andando.

«Okay, okay, rallenta», disse Liam. Zu correva da una parte all’altra,


raccogliendo le sue cose, mentre Hina parlava a raffica. Non sapevo nemmeno a
chi prestare attenzione, se alla mia amica o alla ragazza che apparentemente
aveva incaricato di parlare al posto suo. Ogni volta che Hina apriva bocca, Liam
e io tornavamo allo stesso stato di shock.
Zu. Che se ne andava.
Se ne andava.
La afferrai mentre si avvicinava alla cassettiera, la condussi al futon e la
costrinsi a sedersi. Non doveva essersi accorta del nostro turbamento perché il
suo viso era acceso ed eccitato. Il suo sorriso sembrava crepitare di elettricità
propria, e qualcosa dentro di me si sgonfiò per la sconfitta.
«Noi e altri tre», disse Hina, senza fiato. Mi chiesi se avesse fatto tutta la
strada di corsa, dalla scuola. «Due Blu e un Giallo. Kylie finalmente ha avuto il
permesso di lasciare il campo.»
Liam si voltò per guardare Zu e disse: «E andare… in gita?»
Zu gli rivolse uno sguardo che sembrava dire: Per chi mi hai preso?
«Ehi, dammi una mano. Dimmi quello che vuoi dire tu.»
Hina rimase finalmente in silenzio e per un momento, un vero secondo di
follia, pensai che Zu avrebbe davvero aperto bocca e iniziato a parlare. L’intero
corpo di Liam si contrasse, come se si aspettasse la stessa cosa. Ma Zu non fece
altro che tirare fuori il quaderno e mettersi a scrivere nella sua calligrafia
ordinata, inclinata.
Quando voltò il quaderno verso di lui, lo guardò dritto negli occhi.

Voglio andare con loro in California.

So che avrei dovuto essere felice per lei. Avrei dovuto celebrare il fatto che si
sentisse finalmente abbastanza sicura da poterci dire esattamente cosa
desiderava. Solo che non avevo mai immaginato che desiderasse un futuro senza
di noi.
«Pensavo che Clancy avesse respinto la richiesta di Kylie», dissi a Hina.
«È così, ma lei sostiene che finalmente lo ha convinto.»
«Cosa c’è in California?» domandò Liam, appoggiandosi alla parete.
«I miei genitori hanno una casa lì», spiegò Hina, «e ci stanno aspettando. Il
governo della West Coast non ci consegnerà ai campi.»
«E i genitori di Zu?» chiesi. «Loro…»
Hina capì al volo cosa intendessi, e ciò le fece onore. «Mio padre e suo
fratello non si parlano da tempo.»
«Zu, è un viaggio lungo», iniziò Liam, incerto. «E se succede qualcosa? Chi
altro viene con voi? Quel tizio, Talon?»
Zu annuì, e all’improvviso spostò lo sguardo su di me. Tentai di farle un
sorriso incoraggiante, ma temevo di scoppiare in lacrime. Rimanemmo tutti in
attesa mentre scribacchiava un altro appunto veloce e lo mostrava a Liam:

Non devi più preoccuparti per me. Non sei contento?

«A me piace preoccuparmi per te.» Liam le posò una mano sulla testa.
«Quando partireste?»
Hina ebbe almeno la decenza di mostrare un po’ di senso di colpa. «In realtà
dobbiamo partire immediatamente. Kylie teme che Clancy cambi idea. Non
era… entusiasta.»
«Mi sembra un po’ affrettato», commentai, con voce strozzata. «Ci avete
pensato bene?»
Zu mi guardò dritta negli occhi e annuì. L’appunto successivo era diretto a
entrambi.

Voglio stare con la mia famiglia. Però non voglio che siate arrabbiati con
me.

«Arrabbiati?» Liam scosse la testa. «Mai e poi mai. Sei mia amica, Zu.
Vogliamo solo che tu sia al sicuro. Morirei se ti capitasse qualcosa.»
Bussarono alla porta. Talon, un ragazzo Giallo un poco più grande con i
dreadlocks, comparve per primo sulla soglia, seguito da Ciccio, con gli occhi
spalancati.
«Bene», disse Liam alzandosi in piedi. «Speravo di parlare con te.»
Talon annuì. «Lo immaginavo. Ci sono anche Kylie e Lucy.» Quest’ultima
fece sbucare la testa oltre la porta e salutò con la mano. «Vuoi parlarne fuori?»
Liam mi posò la mano sulla schiena. «Puoi aiutare Zu a fare le valigie?»
«Sei impazzita?» esclamò Ciccio. «Li conosci a malapena!»
«Scusa tanto», protestò Hina, con le mani sui fianchi. «Nel caso te lo fossi
dimenticato, è mia cugina.»

Mi mancherai anche tu.

Zu smise di ammucchiare le sue cose nella valigia rosa e strappò il foglio dal
quaderno per consegnarlo a Ciccio, che si sedette così di colpo che quasi cadde
dal futon. Per diversi minuti, non riuscì a far altro che fissarla. Conoscevo bene
la sensazione.
«Kylie ti ha detto perché dovete partire proprio stasera?» chiesi, sedendomi
accanto a Ciccio.
Zu si limitò ad alzare le spalle.
«Voglio dire… non andrete mica in California a piedi?» domandò Ciccio, con
voce sempre più alta a ogni parola. «Avete un piano, almeno?»
«Magari troverete un’altra Betty», dissi io, ma nel momento in cui pronunciai
il suo nome, Zu si fermò di nuovo e scosse la testa. Ci mise un po’ a scrivere
l’appunto successivo.

No, di Betty ce n’è una sola.

«E, a quanto pare, per te non era abbastanza», commentò Ciccio, con un tono
così ferito che mi sconvolse. «Si vede che tutto si può rimpiazzare. Persino noi.»
Zu fece un respiro profondo, avvicinandosi a lui con la valigia rosa a fianco.
Ciccio distolse lo sguardo, ma lei si fermò di fronte a lui e gli mise le braccia
intorno al collo. Ciccio non poté far altro che restituire l’abbraccio, nascondendo
il viso nella giacca.
Le campane del campo iniziarono a rintoccare, un suono frenetico che non
cessò finché ebbe trascinato tutti all’esterno. Lasciai che Zu e Hina passassero
per prime, facendosi strada tra i ragazzini che si erano radunati. Era la prima
volta in cui gli abiti neri sembravano appropriati.
Kylie porse un foglio a Lee, che annuì in risposta alle sue parole. Lucy era al
loro fianco, minuta e silenziosa come sempre, ma si avvicinò a Liam e gli diede
una pacca sulla spalla nel tentativo, credo, di rassicurarlo. Ogni pretesa di
allegria era sparita. La sua espressione si poteva solo dire affranta.
«Mi presti la penna?» chiese a Talon. Il ragazzo si tastò i pantaloni da lavoro,
cercando in ogni tasca finché trovò una penna dal tappo blu. Liam la prese, si
mise in ginocchio davanti a Zu e strappò metà del foglio che Kylie gli aveva
dato.
Avrei voluto vedere cosa gli aveva scritto, ma non era per me. Quando ebbe
finito, piegò il foglio più volte e glielo premette nel palmo della mano.
La campana tacque. Gli sguardi di tutti si spostarono a sinistra, dove Clancy
era apparso in cima al sentiero, con Hayes che svettava al suo fianco. Il suo viso,
che ero abituata a vedere rilassato e fiero, era contratto per il fastidio o per la
rabbia.
«Kylie ha deciso di fondare una tribù e se ne andrà immediatamente.»
Nella folla si diffuse un mormorio di sorpresa.
«Porterà con sé solo questi quattro», urlò Clancy al di sopra del brusio. «Non
verranno accordate altre richieste di andarsene finché avremo rimpolpato i
numeri. Ci siamo capiti?»
Silenzio.
«Ci siamo capiti?» ripeté in tono perentorio.
Ciccio, accanto a me, sobbalzò nel sentire il rumore e le urla che
confermavano che avevamo capito.
Clancy si girò di scatto senza aggiungere altro, e si diresse di nuovo verso
l’ufficio. Appena raggiunse l’edificio bianco, i ragazzi intorno a noi sembrarono
rilasciare all’unisono il respiro che avevano trattenuto, e si guardarono a vicenda
con sussurri confusi.
«Che strano.»
«Perché non gli ha dato delle borse, come fa di solito?»
«È preoccupato che se rimaniamo troppo pochi non saremo in grado di
proteggere il campo.»
Il mio sguardo salì fino all’ufficio, poi vidi che Zu mi faceva cenno di
avvicinarmi.
Niente guanti, pensai, guardandola riportare il braccio sul fianco. Speriamo
che non se li metta mai più.
«Devi proprio partire subito?» chiesi quando raggiunsi lei e Liam. Gruppi di
ragazzi attorniavano Kylie e gli altri, augurando loro buona fortuna e offrendo
coperte e borse di cibo.
Zu assunse un’espressione coraggiosa e mi abbracciò.
«Ti prego, stai al sicuro», le dissi.
L’appunto successivo era per me, solo per me.

Quando tutto sarà finito, verrai a cercarmi? C’è una cosa che ti vorrei dire
ma non so ancora come fare.

«Ma certo», sussurrai. «Mi mancherai ogni giorno.»


Un attimo prima che si allontanassero dal sentiero per inoltrarsi nella foresta,
Zu si voltò e ci rivolse un ultimo cenno di saluto. Hina fece lo stesso, poi
sparirono.
«Se la caverà», dissi. «Si prenderanno cura di lei. È giusto che stia con la sua
famiglia. Quella vera.»
«Dovrebbe stare con noi.» Liam scosse la testa, un sospiro incastrato in gola.
«Allora forse dovremmo seguirla.»
Liam e io ci voltammo. Ciccio era dietro di noi, gli occhi nascosti dal riflesso
della luce obliqua del sole sugli occhiali.
«Sai che non possiamo», disse Liam. «Non ancora.»
«Perché no?» Ciccio si avvicinò e la sua voce perse ogni sembianza di calma.
Sentii su di noi sguardi curiosi, perciò trascinai entrambi fuori dal sentiero
principale.
«Perché no?» ripeté Ciccio. «È chiaro che non otterremo l’aiuto che ci serve
per rintracciare i nostri genitori o quelli di Jack. Sarebbe meglio andarcene
subito, prima che si accorgano della nostra assenza. Potremmo ancora
raggiungerla.»
«E fare cosa?» Liam si passò una mano tra i capelli già scompigliati, frustrato.
«Girovagare finché li incontriamo per caso? Sperare che nessuno venga a
catturarci per rispedirci in un campo? Ciccio, qui siamo al sicuro. È destino che
rimaniamo qui; possiamo fare del bene, da qui.»
Mi accorsi, prima ancora di Liam, che era la cosa sbagliata da dire. Nella mia
mente suonarono campanelli d’allarme vedendo le narici di Ciccio che
fremevano e le sue labbra contorte dalla rabbia. Sapevo che qualsiasi cosa stesse
per uscirgli dalla bocca sarebbe stata non solo tagliente, ma crudele.
«Lo capisco, lo capisco, Lee, okay?» Scosse la testa. «Vuoi essere di nuovo il
grande eroe. Vuoi che tutti ti adorino e credano in te e ti seguano.»
Liam si fermò, teso. «Non è questo…» iniziò a dire, arrabbiato.
«Cosa ne è stato di quelli che ti hanno seguito in passato?» Infilò una mano
nella tasca dei pantaloni e tirò fuori un foglio spiegazzato ormai familiare. La
stretta delle sue dita lo accartocciava quasi completamente. «E cosa mi dici di
Jack, Brian, Andy e tutti gli altri? Anche loro ti hanno seguito, ma è facile
dimenticarli quando non li hai tra i piedi, vero?»
«Ciccio!» esclamai, infilandomi tra loro quando Liam fece un passo avanti
alzando il pugno.
Non lo avevo mai visto così furibondo. Un’ondata cremisi gli invase il viso e
il collo.
«Non puoi ammettere che lo stai facendo solo per sentirti meglio, e non per
aiutare gli altri?» urlò Ciccio.
«Tu pensi…» Liam quasi non riusciva a parlare. «Pensi che non siano nei miei
pensieri ogni dannato secondo di ogni dannato giorno?» Invece di colpire il suo
amico, Liam colpì se stesso, sbattendosi il pugno sulla fronte finché afferrai il
suo braccio.
«Santo cielo, Charles!» mormorò con voce spezzata.
«È solo…» Ciccio ci oltrepassò, ma poi si fermò e si voltò di nuovo. «Non ti
ho mai creduto, sai», disse con voce tremante, «quando parlavi di tirarci fuori dai
campi e riportarci sani e salvi a casa. È per questo che ho accettato di scrivere la
mia lettera. Sapevo che la maggior parte di noi non ce l’avrebbe fatta, con te al
comando.»
Feci un passo avanti nello stesso momento in cui lo fece Liam, tenendo le
mani tese davanti a me per impedirgli di fare qualcosa di cui si sarebbe pentito.
Ciccio scappò alle mie spalle, diretto verso la nostra baracca. Liam tentò di fare
un altro passo avanti, ma rimasi ferma contro il suo petto. Respirava a fatica e
aveva i pugni stretti sui fianchi.
«Lascialo andare», gli dissi. «Deve solo sfogarsi. E forse tu dovresti fare lo
stesso.»
Sembrò sul punto di dire qualcosa, invece fece un gemito di frustrazione, si
voltò e si avviò verso gli alberi, nella direzione opposta a quella di Ciccio.
Appoggiai la schiena a un tronco e chiusi gli occhi. Attesi, con un peso sul
petto che mi permetteva di fare solo respiri corti e superficiali.
Era quasi buio quando Liam riemerse, sfregandosi il viso. La pelle delle mani
era lacerata e sanguinante, a forza di sbatterle contro qualcosa. Nella luce del
crepuscolo il suo viso appariva teso, come se l’ondata di rabbia gli fosse stata
strappata lasciando soltanto una grigia tristezza. Tesi un braccio verso di lui
quando si avvicinò, e lo strinsi intorno alla sua vita, solida e calda. Lui mi posò
un braccio intorno alle spalle e mi tirò a sé, nascondendo il viso tra i miei capelli.
Respirai a fondo il suo odore confortante: fumo di legna, erba e cuoio.
«Non diceva sul serio», mormorai, avvicinandomi con lui a un tronco caduto.
Tremava ancora e sembrava incerto sulle gambe.
Più che sedersi, si lasciò cadere, si chinò in avanti e posò i gomiti sulle
ginocchia. «Non lo rende certo meno vero.»
Restammo seduti a lungo, abbastanza a lungo perché il sole scomparisse
dietro gli alberi e poi oltre l’orizzonte. Il silenzio e l’immobilità divennero
insopportabili. Feci scorrere una mano con leggerezza tra le sue scapole.
Liam si raddrizzò lentamente e si girò a guardarmi. «Credi che stia bene?»
sussurrò.
«Penso che dovremmo andare a controllare.»
Non so come riuscimmo a tornare alla baracca, so solo che quando
arrivammo, Ciccio era seduto sulla veranda, il viso bagnato da lacrime
silenziose. Vi lessi delle scuse, un terribile senso di colpa, e mi sorpresi a
scoprire che il mio cuore potesse fare ancora più male.
«È finita», disse quando ci sedemmo accanto a lui, uno per parte. «È tutto
finito.»
Rimanemmo immobili a lungo.
25

N avrebbe dovuto sorprendermi che Liam si lanciasse anima e corpo nei turni
ON

di guardia, ma ci volle una generosa dose di insistenza da parte dei suoi


compagni affinché riportasse la mente sui campi. Mi sedetti al suo fianco più di
una volta mentre lui e Olivia discutevano dei possibili modi di infrangere le
difese dei campi, offrendo suggerimenti ogni tanto quando parlavano di come
portare le loro idee all’attenzione di Clancy.
Il problema dell’entusiasmo – specialmente quello particolare di Liam – è che
è contagioso. C’erano notti in cui mi limitavo a starmene seduta, a osservarlo
parlare gesticolando sempre di più, come se volesse dar forma con le mani alle
proprie idee nell’aria della foresta e farcele vedere. Le sue parole erano
ammantate di una speranza così inamovibile da ispirare tutti quelli che gli erano
intorno. Al termine della prima settimana, l’interesse nel suo progetto era
cresciuto a tal punto che dovemmo spostare i nostri incontri dalla piccola
baracca al falò. Quando Liam andava da qualche parte, era sempre
accompagnato da un branco di ragazzi leali, desiderosi di avere la sua attenzione.
Ciccio e io eravamo meno entusiasti della ripresa della routine. Mi aveva
perdonata, forse perché una persona triste sopporta fino a un certo punto di
rimanere da sola con la propria tristezza. Non tornò più a lavorare nell’orto, ma
la responsabile non fece mai la spia.
Io ripresi le mie lezioni con Clancy, o almeno ci provai.
«Dove hai la testa oggi?»
Non pronta a invadere la sua, poco ma sicuro. Nemmeno lontanamente.
«Mostrami quello che stai pensando», mi disse, quando feci per rispondere.
«Non voglio sentirlo. Voglio vederlo.»
Alzai gli occhi dalla pozza di luce sul pavimento, che entrava dalla finestra.
Clancy mi rifilò uno sguardo infastidito, che gli avevo visto soltanto quando si
era accorto che uno dei Gialli rimasti non era in grado di far rivivere una delle
poche lavatrici del campo.
Non l’aveva mai rivolto a me, però.
Chiusi gli occhi e afferrai di nuovo la sua mano; portai alla mente il ricordo
dello zainetto di Zu che scompariva nella foresta. Nel corso delle ultime
settimane, le nostre conversazioni avvenivano sempre meno per mezzo di parole.
Quando volevamo far capire qualcosa all’altro, lo condividevamo a modo nostro,
parlavamo una lingua tutta nostra.
Ma non quel giorno. La sua mente sembrava chiusa in una fortezza di
cemento, e la mia pareva fatta di gelatina.
«Scusa», mormorai. Non riuscivo nemmeno a racimolare la forza di essere
delusa. Il mio umore stava precipitando, e ogni minuscolo rumore o
avvenimento all’esterno era sufficiente a distrarmi. Mi sentivo stanca e confusa.
«Ho altre cose da fare, sai», continuò, e qualcosa sobbolliva sotto le sue
parole. «Devo fare dei giri di controllo e parlare con alcune persone, ma sto
tentando di aiutare te. Sono qui con te.»
A quelle parole, sentii un fremito. Mi raddrizzai contro la spalliera, pronta a
scusarmi di nuovo, ma lui si alzò dal letto e andò alla scrivania.
«Clancy, mi dispiace davvero.» Quando arrivai di fronte a lui, aveva già
iniziato a scrivere qualcosa al computer. Mi lasciò lì in piedi, in silenzio,
attanagliata dal senso di colpa, per un tempo che mi sembrò infinito, prima di
degnarsi ad alzare lo sguardo. Sembrava stanco di fingere. L’espressione
infastidita si era trasformata improvvisamente in rabbia.
«Sai, pensavo davvero che far andare via la tua Gialla ti avrebbe aiutata a
concentrarti, ma si vede che mi sbagliavo.» Scosse la testa. «Mi sbagliavo su un
sacco di cose, a quanto pare.»
Mi innervosii, ma non so se fosse per il modo in cui aveva detto «la tua
Gialla» o perché stesse sottintendendo che non ero in grado di apprendere le
cose che stava provando a insegnarmi.
Dovevo andarmene. Se fossi rimasta un secondo in più, avrei potuto dire
qualcosa che avrebbe rovinato la nostra amicizia. Avrei potuto dirgli che Zu
aveva un nome, e che ovviamente mi sarei preoccupata per lei sapendola in giro
per il mondo senza che io potessi proteggerla. Avrebbe dovuto rendersi conto
che avrei potuto usare le settimane passate per trascorrere più tempo insieme a
lei, invece avevo accettato di lavorare con lui. Di passare del tempo con lui. Di
sostenerlo e di confortarlo.
Magari avevo imparato molto, e magari avevo un controllo migliore sulle mie
abilità, ma a guardarlo, con i pugni stretti e tremanti, non mi sembrava una
giustificazione sufficiente. Che senso aveva chiudersi dentro con qualcuno che
non aveva fiducia in me quando là fuori c’erano persone che invece ne avevano?
Mi diressi verso la porta. Quando la aprii, Clancy disse: «Esatto, Ruby, scappa
di nuovo. Vediamo fin dove arrivi stavolta!»
Non mi guardai indietro e non mi fermai, anche se una parte di me si rendeva
conto che quella poteva essere la fine, che stavo voltando le spalle all’unica
opportunità che avevo di imparare a gestire le mie abilità. A un certo punto, negli
ultimi dieci minuti, la mia testa si era scollegata dal muscolo cocciuto che
batteva nel mio petto e, in tutta onestà, non ero sicura di quale dei due mi stesse
conducendo all’esterno e lontano da lui.
Ma quello che sapevo, con una certezza assoluta e inequivocabile, era che non
volevo che lui vedesse il mio viso rabbuiarsi, né che avesse idea dei sussurri di
senso di colpa e di tristezza che mi giravano in testa. Non potevo nascondergli
nulla, ma per la prima volta lo avrei tanto voluto.

Mi servì qualche giorno per rendermi conto che la partenza di Zu non era stato
l’unico avvenimento ad aver spostato l’asse terrestre. Da quando Ciccio mi
aveva fatto notare le somiglianze tra la vita a East River e quella nei campi, non
fui più in grado di togliermelo dalla testa.
Se prima vedevo solo ragazzi in jeans e T-shirt nere, dopo vedevo uniformi.
Se prima vedevo ragazzi in fila per il cibo, dopo vedevo la sala mensa. Alle
nove, quando le luci si spegnevano nelle baracche e osservavo passare i
gruppetti di guardia, mi sentivo di nuovo nella baracca 27, a fissare il materasso
di Sam.
Cominciai a domandarmi se le telecamere di sorveglianza, apparentemente
spente, fossero accese.
Provai diverse volte ad andare a scusarmi con Clancy, ma mi mandava sempre
via con un severo: «Non ho tempo per te, oggi». Avevo l’impressione che
volesse punirmi, ma non ero sicura di cosa avessi detto o fatto per meritarmelo.
In ogni caso, diventò ben presto evidente che avevo bisogno di lui molto più di
quanto lui avesse bisogno di me. Insieme al mio orgoglio ferito, la cosa mi
faceva sentire persino peggio.
Un mercoledì, solo un’ora prima che Liam e gli altri si incontrassero per
discutere di una strategia per liberare i campi, Clancy si dichiarò finalmente
disposto a vedermi.
«Torno tra poco», dissi a Liam, stringendogli la mano a colazione. «Tarderò di
qualche minuto.»
Ma, quando entrai nell’ufficio di Clancy e vidi in che stato era, mi domandai
se avessi fatto bene ad andare.
«Ehi, entra pure, attenta solo a dove metti i piedi. Sì, e scusa per il disordine.»
Disordine? Disordine? Sembrava che nel suo ufficio fosse scoppiata una
bomba e che poi fosse passato un branco di lupi a saccheggiare quanto rimasto.
C’erano mucchi di carta ovunque, stampe, mappe strappate, scatoloni… E poi
c’era Clancy, con i capelli che gli coprivano il viso e la stessa camicia
stropicciata del giorno prima.
Da quando ci eravamo conosciuti, lo avevo sempre visto vestito in maniera
impeccabile. Faceva persino un po’ paura, per quanto era preciso. Sono sicura
che fosse dovuto all’educazione ricevuta. Che, se anche non fosse stato suo
padre in persona a insegnarglielo, una vecchia tata irritabile gli avesse inculcato
il valore di una camicia ben stirata, scarpe ben lucidate e capelli ben pettinati.
Sembrava stesse iniziando a sbriciolarsi.
«Tutto bene?» chiesi, chiudendomi la porta alle spalle. «Cosa succede?»
«Stiamo organizzando un colpo per ottenere delle medicine.» Si sistemò sulla
sedia, ma si rialzò un momento più tardi, quando il portatile fece bip. «Aspetta
un secondo.»
Sfiorai con la punta del piede uno dei mucchietti di fogli a terra, tentando di
sbirciare cosa ci fosse scritto.
«Sono verbali delle insolite attività notturne in una stazione di servizio per
camion qui vicino», disse Clancy, come se mi avesse letto nel pensiero. Le sue
dita volavano sulla tastiera. «E informazioni della Lega sulla presenza di FSP in
quell’area. Sembra che la Leda Corporation abbia appaltato la protezione delle
proprie spedizioni a forze governative.»
«Come mai le FSP?» chiesi.
Lui alzò le spalle. «Sono la principale forza armata di cui il governo dispone
in questo momento e, grazie al caro vecchio paparino, anche la meglio
organizzata.»
«Direi che ha senso.» Mi appoggiai all’indietro, ma fissare il simbolo
luminoso sul monitor del portatile mi fece venire in mente Ciccio. «Posso
chiederti un favore?»
«Solo se prima mi permetti di scusarmi.»
Tornai a sedermi e mi fissai le mani. «Non possiamo semplicemente
dimenticare quello che è successo?»
«No, non questa volta. Ehi, guardami.»
L’espressione sul suo viso bastò a farmi gonfiare il cuore fino a raddoppiare di
volume. Era talmente bello da essere pericoloso, ma quel giorno il suo sguardo
addolorato era decisamente letale.
Gli importa, sussurrò una vocina nella mia testa, gli importa di te.
«Mi spiace di aver perso la pazienza», mormorò. «Non dicevo sul serio
quando parlavo della tua amica Suzume, e di sicuro non intendevo dire che non
ti sei impegnata.»
«E allora perché lo hai detto?»
Si sfregò una mano sul viso. «Perché sono un cretino.»
«Non è una risposta valida», ribattei, scuotendo la testa. Mi hai davvero ferita.
«Ruby, non è ovvio?» disse. «Mi piaci. Ti conosco solo da quanto, un mese? E
sei forse l’unica amica che ho avuto da quando ho compiuto dieci anni e ho
scoperto chi ero. Sono stato stupido a prendermela tanto perché davi attenzione a
qualcun altro quando volevo che ti concentrassi solo su di me.»
Ero troppo stupita per riuscire a muovermi.
«Non ho lasciato andare Suzume e gli altri perché pensavo che ti avrebbe
aiutato a concentrarti. L’ho fatto perché pensavo che ti avrebbe reso felice. Non
mi sono nemmeno fermato a pensare che certo, ovviamente ti saresti preoccupata
per lei, soprattutto dopo che ti sei impegnata così tanto per proteggerla.»
Gli importa di te eccome.
Dovetti distogliere lo sguardo. Sminuire la situazione. Il mio cervello era
andato in tilt, e il cuore non se la cavava meglio. «Credo che potrei
perdonarti…»
«Ma solo se ti faccio quel favore?» Avvertivo il sorriso nella sua voce. «Certo.
Quale?»
«Beh… so che non dai il permesso a nessuno, ma speravo che potessi fare
un’eccezione in questo caso», dissi, restituendogli finalmente lo sguardo. «Il mio
amico… ha bisogno di usare il tuo computer per provare a contattare i suoi
genitori.»
Clancy smise di sorridere. «Il tuo amico Liam?»
«No, Charles Meriwether.»
«Quello che ha smesso di presentarsi al turno nell’orto?»
Okay, a quanto pareva la responsabile aveva fatto la spia.
Clancy si alzò e chiuse il portatile, rimanendo in silenzio. «Mi dispiace, Ruby,
ma pensavo di essere stato chiaro: nessun altro può andarsene.»
«Oh, no!» esclamai, con una risata forzata. «Vuole solo farsi sentire dai suoi
per essere sicuro che stiano tutti bene.»
«No», disse, spostandosi in modo da sedersi sul bordo della scrivania di fronte
a me. «Vuole organizzarsi per andare via e vuole portarti con sé. Non tentare di
coprirlo, Ruby. È lo stesso per tutti. Non ho alcun dubbio che sia abbastanza
disperato da rivelare ai suoi la posizione del campo.»
«Non lo farebbe mai», replicai, offesa per conto di Ciccio. «Davvero.»
«C’eri anche tu quando abbiamo avuto un’intrusione qualche settimana fa.
Hai visto quanto potrebbe essere facile per qualcuno oltrepassare le nostre
difese. E se non avessero fatto scattare l’allarme? Ora saremmo in guai seri.» Il
viso di Clancy era cupo. «Se Charles vuole contattare i suoi genitori, digli che
deve presentare una richiesta con le istruzioni precise di come contattarli, come
tutti gli altri. Devo basare le mie decisioni su ciò che potrebbe minacciare la
sicurezza del campo, malgrado voglia aiutarti ad aiutare il tuo amico.»
Ciccio avrebbe preferito rinunciare a contattare i genitori, piuttosto che
permettere a un estraneo di accedere all’unico strumento che aveva per
comunicare con loro in sicurezza.
«Però», aggiunse Clancy dopo qualche istante, sedendosi accanto a me e
poggiando i piedi sulla scrivania. «C’è qualcosa che potrebbe persuadermi.»
Non riuscivo a guardarlo.
«Quindici minuti, Ruby. Insegnami tu.»
Cosa potevo mai sapere io che lui non sapesse già?
«Pensi che potresti spiegarmi passo per passo come cancellare i ricordi di
qualcuno? So che non è una cosa di cui vai fiera, e so che ti ha fatto soffrire
molto in passato, ma mi sembra un trucco utile e sarei interessato a impararlo.»
«Beh… credo di sì», dissi in tono incerto. Come se avessi potuto dirgli di no
dopo tutto quello che aveva fatto per me. Ma non era qualcosa che fossi in grado
di insegnare. Ero a malapena riuscita a comprenderlo io stessa.
«Credo che capire come lo fai mi aiuterebbe anche a capire come impedire
che tu lo faccia di nuovo per errore. Che te ne pare?»
Mi pareva ottimo, a dire la verità.
«Se me lo permetti», continuò, «mi piacerebbe percorrere i tuoi ricordi e
vedere se riesco a trovare degli indizi. Voglio solo confermare un sospetto.»
Non credo che si aspettasse di vedermi indecisa, ma lo ero. Clancy era stato
nella mia testa più volte, aveva visto cose di cui non avevo mai parlato con
nessuno. Ma ero stata in grado di impedirgli di vedere le cose che importavano
davvero, i sogni che volevo proteggere.
Continuavo a pensare a quanto Liam aveva detto una volta, quando mi aveva
parlato di sua sorella. Quei ricordi sono solo miei.
Ma se volevo un futuro con la mia famiglia – e con Liam – dovevo per forza
cedere il controllo. Dovevo lasciar entrare Clancy, se ciò significava che sarei
stata in grado di evitare che la cosa si ripetesse in futuro.
Puoi fidarti di lui, disse la stessa vocina in fondo alla mia mente. È tuo amico.
Non se ne approfitterebbe mai.
«D’accordo», dissi. «Ma solo quei ricordi; e dopo, Charles potrà usare il tuo
computer.»
«Affare fatto.»
Si mise in ginocchio di fronte a me, prendendomi il viso tra le mani e
infilando le dita tra i miei capelli. Tentai di non rabbrividire per la vicinanza e
per il fatto che avesse dato per scontato che mi andasse bene. Eravamo già stati
così vicini, ma per qualche motivo in quel momento era diverso.
«Aspetta», mormorai, arretrando. «Ho detto a Liam e agli altri che li avrei
incontrati per parlare di una cosa. Possiamo farlo più tardi? O magari domani?»
«Ci vorrà solo un secondo», promise Clancy con voce bassa, suadente.
«Chiudi gli occhi e pensa a quando ti sei svegliata il mattino del tuo decimo
compleanno.»
Andiamo, disse la stessa vocina, andiamo, Ruby…
Deglutii a forza e feci come chiedeva, immaginando di essere nella mia
vecchia stanza, con le pareti blu e le finestre enormi. Pezzo per pezzo, la stanza
si ricompose. Sulle pareti vuote sbocciarono quadretti a punto croce ricamati
dalla nonna, foto dei miei genitori e una mappa della metropolitana di
Washington. Vedevo tutti e sei i peluche con cui mi addormentavo, sul
pavimento accanto al mio piumone viola.
Anche le cose che mi ero completamente dimenticata – la lampada sulla mia
piccola scrivania, la mensola imbarcata nella libreria – all’improvviso tornarono
vivide.
«Bene.» La voce di Clancy sembrava lontana ma lo sentivo vicino, sempre di
più. Il suo respiro caldo sulla mia guancia, un tocco inaspettato. «Continua…»
Sembrava senza fiato. «Continua a pensare…»
Vidi il suo viso come attraverso una nebbia lucida, i suoi occhi neri che
bruciavano nell’aria scintillante. Vidi solo lui perché, per quei pochi secondi
fuggevoli, nel mio mondo esisteva solo lui. Ogni parte di me sembrava lenta e
calda, come miele. Clancy batté le palpebre una, due volte, come per schiarirsi la
vista appannata, per ricordarsi cosa dovesse fare. «Continua…»
E poi le sue labbra: le sue labbra erano vicine, sorridenti, sulle mie.
Le sue dita si fecero strada tra i miei lunghi capelli, i pollici scivolarono lungo
le mie guance. «Tu…» esordì, con voce roca. «Tu sei…»
Alla minima pressione, esplose qualcosa di caldo e oscuro, che provocò
un’ondata di desiderio al centro di me. Le sue mani scivolarono lungo il mio
collo, le spalle, le braccia, giù…
E poi non ci fu nulla di gentile.
Le sue labbra premettero forte sulle mie, così forte da aprirle, da rubarmi il
respiro e la lucidità e la sensazione del letto sotto di me. La pelle del suo viso era
liscia e fresca contro la mia, ma io ero calda, troppo calda. La febbre che mi
travolse rese fiacco il mio corpo, fui spinta all’indietro sul letto e affondai tra i
cuscini come se stessi cadendo tra le nuvole.
Il sangue era sceso lontano dalla mia testa, lasciandosi dietro un dolore sordo
e pulsante. Alzai le mani per afferrare la sua camicia; avevo bisogno di
aggrapparmi a qualcosa prima di cadere del tutto.
«Sì», sospirò, poi la sua bocca fu di nuovo sulla mia, le sue mani all’orlo della
mia maglia, sempre più vicine al mio ventre.
È quello che vuoi, sussurrò una voce, è quello che vuoi.
Ma non era la mia voce. Non ero io a dirlo, giusto? In quell’istante, un lampo
dei suoi occhi neri si trasformò in azzurro. Era quello che volevo, che volevo
davvero. La mia mente sembrava troppo lenta, come drogata dal quel flusso di
pensieri. Liam. Ma lì c’era Clancy. Clancy che mi aiutava, il mio amico, così
bello da farmi perdere il filo dei pensieri, Clancy a cui piacevo tantissimo…
Che era a sua volta un Arancione.
Spalancai gli occhi quando le sue mani scivolarono sul mio collo e le sue dita
ne strinsero leggermente la pelle. Tentai di ritrarmi, ma ebbi l’impressione che
avesse riempito le mie vene di cemento. Non potevo muovermi. Non potevo
nemmeno chiudere gli occhi.
Fermati, tentai di dire, ma quando la sua fronte si appoggiò alla mia, il dolore
che mi esplose dietro agli occhi fu tale da cancellare ogni cosa.
26

I frenetico bip del computer mi svegliò da un sonno senza sogni, strattonandomi


L

fino a farmi aprire gli occhi. Ero sdraiata al buio.


Il mio corpo era pesante e, anche se qualcuno mi aveva tolto il maglione, la
maglietta era appiccicata alla pelle da un sottile strato di sudore. Se fossi stata da
sola, me la sarei tolta, o almeno mi sarei sfilata i jeans per lasciar respirare il
corpo, ma decisi di non farlo. Ero ancora nella sua stanza e, se c’ero io, c’era
anche lui.
La luce era accesa sulla cassettiera di legno scuro, e sentivo le voci dei ragazzi
intorno al falò, di sotto. Già notte? Era pazzesco che il mio sangue potesse
scorrere gelido come l’inverno nello stesso momento in cui il mio cuore iniziava
a battere un ritmo spaventato.
Lo scricchiolio del vecchio materasso era coperto dalla tv.
Per un po’, non feci altro che rimanere ad ascoltare la voce baritonale del
presidente Gray che recitava il discorso serale. Le mie gambe sembravano essere
l’ultima parte del corpo a volersi svegliare.

…garantisco che il tasso di disoccupazione è sceso dal trenta al venti per


cento solo nell’anno passato. Vi ho dato la mia parola che avrei ottenuto
risultati che il falso governo non è riuscito a ottenere. Per quanto possano
desiderare di farvi credere di avere influenza a livello mondiale, a
malapena controllano il proprio braccio terroristico, questa cosiddetta
Lega dei Bambini…

La tv si spense con un sibilo di elettricità.


«Sei sveglia?»
«Sì», sussurrai. Avevo la gola dolorante e la lingua gonfia.
Il letto si abbassò quando Clancy si sedette accanto a me. Mi sforzai di
rimanere impassibile.
«Cos’è successo?» chiesi. Le voci di sotto aumentarono di volume,
intrappolandosi nelle mie orecchie.
«Sei svenuta», disse. «Non mi sono reso conto… Non avrei dovuto spingere
così tanto.»
Mi sollevai sui gomiti nel vano tentativo di allontanarmi dal suo tocco. Avevo
gli occhi fissi sulle sue labbra, sui denti bianchi che spuntavano al di sotto. Lo
avevo immaginato, o mi aveva…?
Mi si chiuse lo stomaco. «Hai scoperto qualcosa? Hai dimostrato la tua
teoria?»
Clancy si appoggiò all’indietro con un’espressione inscrutabile. «No.» Si alzò
di nuovo, e prese a passeggiare tra la finestra e la tenda bianca.
Intravidi il pavimento dall’altra parte, e non fui sorpresa di vedere che era
illuminato dalla luce bluastra del computer portatile acceso.
«No, vedi, continuo a ripensarci», disse Clancy. «Ho pensato che forse avevi
cancellato i loro ricordi intenzionalmente perché eri arrabbiata o scossa, ma non
sei andata fino in fondo cancellando del tutto la loro memoria, hai solo
cancellato te stessa. E lo stesso con quella ragazza, Samantha. Samantha Dahl,
diciassette anni, di Bethesda, Maryland. Genitori Ashley e Todd. Verde, memoria
fotografica…» La sua voce si spense. «Ho continuato a pensarci ma non faccio
che girare a vuoto, tentando di capire come fai, ma attraversare i tuoi ricordi non
mi dice nulla su ciò che ti passa per la testa. Non vedo la causa, solo l’effetto.»
Mi chiesi se si fosse reso conto che stava blaterando, o del fatto che mi ero
alzata dal letto, con il solo obiettivo di andarmene da quella stanza e
allontanarmi il più possibile da lui. A tratti, il dolore tornava a farsi sentire.
Cosa mi ha fatto? Mi portai una mano alla fronte. La testa mi doleva come
tutte le altre volte in cui lui ci era entrato, ma il dolore era più acuto. Non era
solo entrato a curiosare, mi aveva instillato un desiderio: il desiderio di baciarlo.
O no?
«È tardi», dissi, interrompendolo. «Devo… devo andare a cercare gli altri…»
Clancy mi voltò le spalle. «Cercare Liam Stewart, vorrai dire.»
«Sì, Lee», risposi, facendo lentamente qualche passo verso la porta.
«Dovevamo incontrarci. Sarà preoccupato.» La tenda bianca si impigliò tra i
capelli al mio passaggio.
Clancy scosse la testa. «Cosa sai di lui, Ruby? Lo conosci da quanto, da un
mese? Un mese e mezzo? Perché sprechi il tuo tempo con lui? È un Blu, e non
solo: ha la fedina penale sporca, già da prima del campo. Già da prima che
uccidesse tutti quei ragazzini. Centoquarantotto. Più della metà del loro campo!
Perciò puoi smetterla con queste scemenze e questo culto dell’eroe, perché non
se lo merita affatto. Tu hai troppo valore per perdere tempo con lui.»
Si voltò di scatto proprio quando avevo appena posato la mano sulla porta, e
la chiuse sbattendola.
«Che problemi hai?» gli urlai. «È un Blu, e allora? Non eri tu che continuavi a
dire che siamo tutti Neri e che dovremmo rispettarci a vicenda?»
Il sorriso che gli spuntò era bellissimo e altrettanto arrogante.
«Devi accettare il fatto che sei un’Arancione e che per questo resterai sempre
sola.» Nella voce di Clancy era tornata una certa misura di calma, ma le sue
narici fremettero quando vide che tentavo di nuovo di aprire la porta. Vi batté
contro entrambe le mani per impedirmi di andare via, torreggiando su di me.
«Ho visto quello che vuoi», disse. «E non sono i tuoi genitori. Non sono
nemmeno i tuoi amici. Quello che vuoi è stare con lui, come ieri nella baracca, o
in quell’auto in mezzo al bosco. ‘Non voglio perderti’, hai detto. È davvero così
importante?»
La rabbia mi ribollì nello stomaco, bruciandomi la gola. «Come ti permetti?
Hai detto che non avresti… hai promesso…»
Fece una risata che sembrava un verso animale. «Dio, come sei ingenua.
Almeno questo spiega come ha fatto quella donna della Lega a convincerti di
non essere un mostro.»
«Hai detto che mi avresti aiutato», sussurrai.
Lui alzò gli occhi al cielo. «D’accordo, sei pronta per la tua ultima lezione?
Ruby Elizabeth Daly, sei sola, e lo sarai per sempre. Se non fossi così stupida te
ne saresti già accorta ormai, ma visto che per te è troppo difficile da capire,
lascia che te lo spieghi io: non sarai mai in grado di controllare le tue abilità.
Non sarai mai in grado di evitare di essere risucchiata nella mente di qualcuno,
perché c’è una parte di te che non vuole imparare a controllare le tue abilità. No,
non se questo significa accettarle. Sei troppo immatura e debole di cuore per
usarle come dovresti. Sei terrorizzata da cosa ti farebbero diventare.»
Distolsi lo sguardo.
«Ruby, non lo capisci? Tu detesti ciò che sei, ma queste abilità ti sono state
donate per un motivo. Sia a te sia a me. Usarle è un nostro diritto: dobbiamo
usarle per rimanere in vantaggio, per tenere gli altri al loro posto.»
Afferrò con le dita il colletto sformato della mia maglietta e diede un piccolo
strattone.
«Smettila.» Ero fiera di quanto fosse ferma la mia voce.
Clancy si chinò verso di me e mi infilò un’immagine indistinta dietro agli
occhi chiusi: un’immagine di noi due appena prima che entrasse tra i miei
ricordi. Mi si annodò lo stomaco alla vista dei miei occhi spalancati per il
terrore, delle sue labbra premute sulle mie.
«Sono così felice di averti trovata», disse, con voce stranamente calma. «Tu
puoi aiutarmi. Pensavo di sapere tutto, ma tu…»
Alzai il gomito e lo colpii sotto il mento. Clancy arretrò, inciampando, con un
urlo di dolore, portandosi entrambe le mani al viso. Avevo mezzo secondo di
tempo per scappare e colsi l’occasione, girando la maniglia con tale forza da
farla scattare immediatamente.
«Ruby! Aspetta, non intendevo…»
In fondo alle scale comparve un viso. Lizzie. Vidi le sue labbra schiudersi per
la sorpresa, e i suoi numerosi orecchini tintinnarono quando la spinsi da parte per
passare.
«Solo un litigio», sentii dire debolmente a Clancy. «È tutto a posto, lasciala
andare.»
Sbucai all’esterno, senza fiato. I piedi mi trascinarono verso il falò, ma mi
costrinsi a fermarmi e ripensarci. C’erano tante persone ancora in giro, raccolte
intorno ai tavoli del cibo. Volevo trovare Liam e spiegargli come mai non mi
fossi presentata, dirgli cos’era successo, ma sapevo di essere troppo scossa.
Dovevo calmarmi, e non c’era modo di riuscire rimanendo lì. C’erano troppe
potenziali domande. Dovevo essere da sola.
Perciò, naturalmente, quando feci qualche passo indietro mi imbattei in Mike.
«Ehi, eccoti qui!» Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo, e una
bandana nera legata intorno alla testa. Gli sentivo addosso odore di gasolio, e
qualcos’altro di metallico. «Ruby? Tutto bene?»
Corsi via, oltrepassando l’ufficio, percorrendo la strada che portava alle
baracche. Alla fine trovai quello che mi sembrava il sentiero su cui avevamo
accompagnato Zu quando era partita, ma si rivelò non essere altro che un
vecchio sentiero secondario, coperto di sterpi e dannoso per la pelle nuda.
Pazienza, poteva andare bene. Non c’era nessuno intorno. Quello era l’unico
requisito che cercavo.
Proseguii fino a non vedere più la luce del falò, graffiandomi la T-shirt,
tentando di strapparla via dalla mia pelle. Aveva lo stesso odore della sua
camera. Sapeva di sempreverdi e di spezie e di cose vecchie, in decomposizione.
La sollevai sopra la testa e la lanciai più forte e più lontano che potevo, eppure
ancora non riuscii a liberarmi di quell’odore. Era ovunque: sulle mie mani, sui
jeans, sul reggiseno. Avrei dovuto correre dritta al lago, o anche solo alle docce.
Avrei dovuto provare a estirpare il suo veleno.
Calmati, pensai. Calmati! Ma non riuscivo a identificare di preciso cosa mi
stesse scorrendo nelle vene. Rabbia, di certo, perché mi aveva mentito, perché ci
ero cascata. Disgusto, per il modo in cui mi aveva toccata, e aveva invaso
persino i pori della mia pelle.
Ma anche qualcos’altro. Un dolore sordo dentro di me che si espandeva e si
attorcigliava, trasformandomi in pietra.
Liam apparve di fronte a me, eppure non mi ero mai sentita così sola.
«Ruby?» I suoi capelli erano di un pallido color argento in quella luce,
arricciati e arruffati come al solito. Non potevo nascondermi da lui. Non ne ero
mai stata in grado.
«Mike è venuto a cercarmi», disse, facendo un cauto passo verso di me. Aveva
le mani tese davanti a sé come per convincere un animale selvatico a lasciarsi
avvicinare. «Che ci fai qua fuori? Cosa succede?»
«Per favore vai via», lo implorai. «Ho bisogno di stare da sola.»
Continuò ad avanzare verso di me.
«Ti prego», gridai. «Va’ via!»
«Non me ne vado da nessuna parte finché non mi spieghi cosa sta
succedendo!» esclamò Liam. Mi guardò meglio e deglutì, muovendo la gola.
«Dov’eri stamattina? È successo qualcosa? Ciccio dice che sei sparita per tutto il
giorno e ora sei quaggiù e sei… così… ti ha fatto qualcosa?»
Distolsi lo sguardo. «Niente che non mi sia cercata.»
L’unica risposta di Liam fu di fare qualche passo indietro, per darmi spazio.
«Non ti credo affatto», disse, con calma. «Nemmeno per un secondo. Se vuoi
liberarti di me, devi fare di meglio.»
«Non ti voglio qui.»
Scosse la testa. «Questo non vuol dire che ti lascerò qui tutta sola. Prenditi
tutto il tempo che vuoi, tutto quello che ti serve, ma tu e io? Ce la vediamo
stasera. Ora», Liam si sfilò il maglione nero e me lo lanciò, «infilatelo, prima di
prenderti un raffreddore.»
Lo afferrai e me lo premetti al petto. Era ancora caldo.
Liam iniziò a passeggiare, con le mani sui fianchi. «Sono io? È a me che non
ne puoi parlare? Vuoi che vada a cercare Ciccio?»
Non riuscii a sforzarmi di rispondere.
«Ruby, mi stai spaventando a morte.»
«Bene.» Appallottolai la sua maglia e la lanciai nell’oscurità più forte che
potei.
Lui fece un sospiro tremante e si appoggiò con la mano all’albero più vicino.
«Bene? Cosa c’è di buono in questo?»
Non avevo davvero capito cosa Clancy avesse tentato di dirmi quella sera,
fino a quel momento, quando Liam alzò gli occhi e incontrò i miei. Il fruscio del
sangue nelle mie orecchie si trasformò in un ruggito. Strinsi forte gli occhi,
spingendomi i palmi delle mani sulla fronte.
«Non ce la faccio più», gridai. «Perché non mi lasci in pace e basta?»
«Perché tu non mi lasceresti mai.»
Trascinò i piedi nel sottobosco e si avvicinò di qualche passo. L’aria intorno a
me si scaldò, prendendo una carica che riconoscevo. Strinsi i denti, furibonda nei
suoi confronti per essersi avvicinato così tanto quando sapeva che non sarei
riuscita a gestirlo. Quando sapeva che avrei potuto fargli del male.
Alzò le mani per allontanare le mie che mi coprivano il viso, ma non avevo
intenzione di permettergli una gentilezza. Lo spinsi all’indietro, usando tutto il
peso del mio corpo. Liam si inciampò.
«Ruby…»
Lo spinsi ancora e ancora, ogni volta più forte, perché era l’unico modo in cui
riuscivo a dirgli ciò che desideravo dirgli così disperatamente. Vidi lampi di
ricordi patinati. Vidi tutti i suoi splendidi sogni. Fu solo quando lo spinsi con la
schiena contro un albero che mi accorsi di stare piangendo. Così da vicino, notai
un nuovo taglio sotto il suo occhio sinistro, e il livido che si stava formando
tutt’intorno.
Liam schiuse le labbra. Le sue mani non erano più di fronte a lui, ma sospese
vicino ai miei fianchi. «Ruby…»
Eliminai la poca distanza che era rimasta tra noi, facendo scivolare una mano
tra i suoi capelli morbidi e stringendo l’altra alla sua maglietta, sulla schiena.
Quando finalmente le mie labbra toccarono le sue, sentii qualcosa agitarsi nel
profondo di me. Non c’era niente al di fuori di lui, nemmeno il canto delle
cicale, nemmeno i corpi grigi degli alberi.
Il cuore mi martellava nel petto. Ancora, ancora, ancora: un battito costante. Il
suo corpo si rilassò sotto le mie mani, tremando al mio tocco. Respirare il suo
odore non mi bastava, volevo assorbirlo. Il cuoio, il fumo, la dolcezza. Sentii le
sue dita risalire sulle mie costole nude. Spostò il peso sulle gambe per attirarmi
più vicina.
Persi l’equilibrio sulla punta dei piedi; il mondo ondeggiava pericolosamente
sotto di me mentre le sue labbra percorrevano la mia guancia, il mento, fino a
dove il sangue mi pulsava nel collo. Sembrava così sicuro di sé, come se avesse
già tracciato quel percorso.
Non mi accorsi di essere scivolata, quando avvenne. Se anche me ne fossi
accorta, ero così assorta da lui che non potevo neanche immaginare di ritrarmi o
abbandonare la sua pelle calda o quel momento. Il suo tocco era leggero come
una piuma, e mi accarezzava la pelle con una sorta di riverenza, ma nell’istante
in cui le sue labbra tornarono sulle mie, bastò un solo pensiero a trascinarmi
fuori da quella nebbia dolce come il miele.
Il ricordo del viso di Clancy che si avvicinava per fare esattamente ciò che
Liam stava facendo in quel momento mi riempì la mente all’improvviso e si fece
strada verso di me finché non potei più ignorarlo. Finché non lo vidi ripetersi,
lucido e bruciante, come il ricordo di qualcun altro, e non il mio.
E poi mi resi conto che non ero l’unica a vederlo: lo vedeva anche Liam.
Come, come, come? Non era possibile, o sì? I ricordi venivano a me, non
viceversa.
Ma lo sentii irrigidirsi e poi allontanarsi. E capii, capii dall’espressione nei
suoi occhi, che lo aveva visto.
Sentii l’aria riempirmi il petto. «Oh mio Dio, mi dispiace, io non volevo.
Lui…»
Liam mi afferrò il polso e mi attirò a sé, prendendomi il viso tra le mani e
scostandomi i capelli. Mi chiesi chi dei due respirasse con più fatica. Mi
divincolai, vergognandomi per ciò che aveva visto e timorosa di quello che
avrebbe pensato di me.
Quando parlò, lo fece con voce misurata, sforzandosi di mantenere la calma.
«Cos’ha fatto?»
«Niente…»
«Non mentire», mi implorò, «ti prego, non mentirmi. L’ho sentito… tutto il
mio corpo, Dio, era come se mi avesse trasformato in pietra. Avevi paura, l’ho
sentito, avevi paura!»
Alzò le dita e le infilò tra i miei capelli, avvicinando di nuovo il viso al mio.
«Lui…» esordii, «mi ha chiesto di vedere un mio ricordo, e gliel’ho permesso,
ma quando ho provato ad allontanarmi… non sono stata in grado di uscirne, non
potevo muovermi, e poi ho perso i sensi. Non so cosa mi abbia fatto, ma mi ha
fatto male, mi ha fatto molto male.»
Liam si allontanò e mi posò le labbra sulla fronte. Sentii i muscoli delle sue
braccia contrarsi fino a tremare. «Vai alla baracca.» Non mi permise di
protestare. «Inizia a fare le valigie.»
«Lee…»
«Io vado a cercare Ciccio», disse. «E noi tre ce ne andiamo di qui. Stanotte.»
«Non possiamo», dissi. «Lo sai che non possiamo.» Ma lui stava già correndo
lungo il sentiero buio.
«Lee!»
Tornai a cercare il suo maglione e me lo infilai, ma nemmeno quello bastò a
tenere lontano il freddo mentre lo seguivo fuori dalla foresta, verso la baracca e
il falò.
Quando arrivai alla baracca, Ciccio era già lì, seduto a letto a leggere. Gli
bastò un solo sguardo nella mia direzione per chiudere di scatto il libro. «Che
diavolo è successo?»
«Ce ne andiamo», gli dissi. «Prendi le tue cose, non startene lì a guardarmi.
Muoviti!»
Saltò giù dal letto. «Stai bene? Che succede?»
Avevo appena finito di raccontargli quello che era accaduto con Clancy
quando Liam entrò di corsa dalla porta. Vedendoci insieme, fece un sospiro
tremante. «Mi sono preoccupato quando non ti ho trovato», disse a Ciccio.
«Siete pronti?»
Mi infilai una T-shirt larga e presi il giubbotto che Liam mi aveva lanciato.
Ciccio si allacciò le scarpe, chiuse di scatto la valigia, e non disse nemmeno una
parola di protesta quando spegnemmo le luci della baracca e ci dirigemmo
all’esterno nell’oscurità.
L’odore del fumo ci seguì lungo il sentiero principale ben più a lungo della
luce o delle voci. Sorpresi Ciccio a guardarsi alle spalle una sola volta; il lontano
bagliore arancione si rifletteva nelle lenti dei suoi occhiali. Sapevo che voleva
chiedere quali fossero i nostri piani, ma Liam ci zittì entrambi, e si avviò lungo
un sentiero che non avevo mai visto prima.
Era ben battuto, ma abbastanza stretto da costringerci a camminare in fila
indiana. Tenni gli occhi fissi sulle spalle di Liam finché tese la mano per
prendere la mia. Il sentiero divenne sempre più buio quanto più ci addentravamo
nelle folte fila di alberi ancora giovani.
E poi sbucammo all’esterno, e ci fu luce; così tanta che per un momento
dovetti coprirmi gli occhi con la mano. Sentii Liam irrigidirsi e poi fermarsi,
infine stringere la mia mano così forte da farmi male.
«Te l’avevo detto», sentii la voce di Hayes. «Te l’avevo detto che avrebbero
tentato di scappare da questa parte.»
«Sì, brillante intuizione.»
«Maledizione», imprecò Ciccio alle mie spalle, ma ero talmente scioccata che
non riuscii a far altro che allontanarmi da Liam e vedere Clancy, Hayes e un
gruppo di ragazzi della Guardia bloccare la nostra unica via di fuga.
27

P un momento, nessuno si mosse.


ER

Mi resi conto che l’area in cui ci trovavamo era illuminata da fari e lanterne.
L’avevo già vista una volta, sullo schermo del computer di Clancy. Era lì che,
giorni prima, i tracciatori avevano tentato di infilarsi oltre la recinzione di filo
spinato del campo, e che Hayes si era «occupato» di loro. Proprio come
sembrava che avrebbe fatto con noi in quel momento.
I ragazzi di fronte a noi si trovavano proprio dove il sentiero si univa al filo
argentato che segnava il confine di East River. Clancy era al centro, e pareva
infinitamente più controllato di quanto fosse apparso poche ore prima.
«Penso che dovremmo fare una chiacchierata», disse, con voce accomodante.
«Sembra che stia per succedere qualcosa di pericoloso.»
«Ce ne stiamo andando», disse Liam, trattenendo a malapena la rabbia nella
voce. «E non vogliamo guai.»
«Non potete andarvene.» Hayes si spinse di fronte al gruppo, svettando a
fianco di Clancy come un cannone pronto a essere puntato. «Ci sono delle
regole, qui, e voi non vi siete ancora guadagnati la vostra parte.»
Le parole gli erano appena uscite di bocca quando sentimmo il suono di passi
e voci che si avvicinavano calpestando il sottobosco rinsecchito sull’altro
sentiero, più ampio, alle loro spalle. Olivia comparve per prima, seguita da Mike
e quattro degli altri ragazzi con cui Liam aveva lavorato nel mese passato. La
loro reazione fu uguale alla nostra: prima si ritrassero dalla luce abbagliante, poi
si bloccarono per lo shock.
«Cosa sta succedendo?» chiese Olivia, aggirando la fila di figure in nero fino
a mettersi di fronte a Clancy. «Perché non mi hai chiamata alla radio?»
«Hayes e io abbiamo tutto sotto controllo.» Clancy si mise a braccia conserte.
«Dovreste tornare ai vostri posti.»
«Prima dimmi cosa sta succedendo…» Si voltò di scatto verso di noi, vedendo
i nostri bagagli. «Ve ne state andando?»
«Lee», disse Mike, facendo due più due nello stesso momento. «Che stai
facendo?»
«Sembra che Liam Stewart stia organizzando un’altra evasione», disse Clancy.
«O almeno ci stava provando. A quanto pare avrà lo stesso successo della volta
precedente.»
«Vai al diavolo», mi intromisi, afferrando il braccio di Liam prima che si
lanciasse su Clancy. Tremava per la rabbia, ma eravamo in minoranza: non lo
vedeva?
«Ruby», disse Clancy a bassa voce, con tutta la familiarità del ragazzo che
avevo considerato un amico. «Andiamo, non possiamo almeno parlarne?»
Sì, mi sussurrò una voce all’orecchio. Non sarebbe la cosa migliore? La rabbia
attorcigliata nel mio petto cominciò a dipanarsi, prima lentamente e poi con una
strana fretta. Staccai le dita da Liam. All’improvviso, sembrava davvero la scelta
migliore… l’unica scelta. Ero stata così arrabbiata e spaventata, prima, ma
questo era Clancy.
Era Clancy.
Feci un passo verso di lui, verso quel sorriso. Potevo… potevo perdonarlo,
no? Sarebbe stato facile. Tutto era più facile, con Clancy. I miei piedi si mossero
di propria volontà, come se sapessero esattamente dove avevo bisogno di andare.
Dove dovevo andare.
Ma Liam non me lo permise, e nemmeno Ciccio.
Sentii le mani di quest’ultimo afferrare il mio zaino. Nell’istante in cui Liam
si mise davanti a me, Clancy scomparve alla mia vista, e non ricordai più perché
mi era sembrato così importante andare da lui e permettere che mi
riaccompagnasse al campo.
«Smettila!» strillò Liam. «Qualsiasi cosa tu le stia facendo, smettila!»
«Non sta…» disse Mike, guardando il suo amico e Olivia. La vidi appena
oltre la spalla di Liam, con un’espressione truce sul viso. Alle loro spalle, gli
altri membri del turno di guardia di Liam erano confusi, incerti su dove posare lo
sguardo.
«Non sto facendo nulla», disse Clancy, con un velo di ghiaccio nella voce.
«Sei tu che sei geloso del rapporto che c’è tra noi.» I ragazzi intorno a lui
iniziarono ad annuire in accordo, con volti stranamente privi di espressione. «Sei
tu che stai tentando di infrangere le regole, qui», continuò. «Perché è una regola,
non è vero, Liv? Se volete andarvene, dovete chiedere a me, giusto?»
Olivia esitò, ma poi annuì.
Liam abbassò il braccio davanti a me, lentamente. Sembrò chinare la testa
verso Clancy, come in ascolto di parole che noi non potevamo sentire. Percepii,
più che vedere, la tensione abbandonargli le spalle. Fece un passo indietro e poi
un altro per allontanarsi da me, portando una mano alla fronte. «Scusa… è
solo… non intendevo…»
«Sei felice qui, non è vero?» chiese Clancy con dolcezza. «Non c’è motivo
per cui tu non possa tornare a sentirti così. Ci sono delle regole, qui. Ora le
conosci, e non le infrangerai più. Non è così?»
«No», disse Liam con voce roca. Mi fissava, ma i suoi occhi avevano uno
sguardo lattiginoso che riconobbi al volo.
E così fece Ciccio, a quanto pare. Strinse gli occhi e li fissò su Clancy come
lame affilate e furibonde.
«Lascia che ti spieghi cosa penso delle tue regole del cazzo», disse, con voce
che grondava veleno. Si fece strada a spintoni e superò Liam. «Te ne stai seduto
nella tua stanza e fingi di volere il bene di tutti, ma non fai un briciolo di lavoro.
Non riesco a capire se sei solo un merdosetto viziato, o se sei troppo preoccupato
di sporcarti quelle manine da principessa, ma fa schifo, tu fai schifo, cazzo, e di
certo non prendi in giro me.»
Clancy gli rivolse uno sguardo carico di tutta la sua forza gelida, ma Ciccio
proseguì, impavido. «Dici sempre che siamo tutti uguali, come se fossimo un
grande arcobaleno felice e pacifico e stronzate varie, ma tu per primo non ci hai
mai creduto, vero? Non permetti a nessuno di contattare i genitori, e non te ne
frega niente dei ragazzi che sono ancora intrappolati nei campi che tuo padre ha
creato. Non hai nemmeno fatto finta di ascoltare quando la Guardia te ne ha
parlato. Quello che voglio sapere ora è: perché non possiamo andarcene?» Fece
un altro passo avanti, interrompendo Clancy prima ancora che potesse iniziare a
ribattere. «Che senso ha questo posto, se non quello di farti compiacere del tuo
potere e permetterti di giocare con i sentimenti della gente? Io so cos’hai fatto a
Ruby.»
Gli altri rimasero in silenzio, ma più Ciccio parlava e più i loro occhi
riprendevano vita; Mike, in particolare, si scrollò di dosso l’influenza di Clancy
con uno sguardo come se stesse per vomitare. Gli occhi degli altri ragazzi si
mossero di qua e di là, nervosi e incerti.
Clancy era rimasto perfettamente immobile per tutta la tirata di Ciccio, ma una
volta che ebbe finito, si avvicinò come se volesse sussurrargli un segreto. Solo
che quando parlò, lo fece con voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti.
«Ho giocato con ben altro che i suoi sentimenti.» Spostò gli occhi sul viso di
Liam. «Non è così, Stewart?»
La violenta ondata di rossore che coprì il viso e il collo di Liam bastò a farmi
capire esattamente quale immagine Clancy gli avesse spinto nella mente.
«No!» urlai, ma era troppo tardi.
Ciò che accadde dopo fu così veloce che la metà dei presenti dovette esserselo
perso. Liam alzò il pugno, pronto a scagliarlo sulla faccia compiaciuta di Clancy,
ma non arrivò oltre la propria spalla. Ogni parte di lui – ogni muscolo, ogni
giuntura, ogni tendine – divenne rigida come se avesse ricevuto una forte scossa
elettrica. Si bloccò, e un attimo dopo cadde a terra, e Hayes lo prese a pugni in
faccia.
«Smettila!» supplicai, liberandomi dalla presa di Ciccio. Sapevo cosa gli
aveva fatto Clancy, e perché non riusciva ad alzare nemmeno una mano a
proteggersi il viso. Vidi uno schizzo di sangue colpire il terreno e fu più di
quanto potessi sopportare.
Fu più di quanto tutti noi potessimo sopportare.
«Clance», sentii dire a Olivia, «basta così. Hai dato la tua lezione. Hayes, così
lo ammazzi!»
Ancora e ancora e ancora, su ogni superficie di pelle che riusciva a trovare,
Hayes continuò ad affondare i pugni su Liam, come se potesse trasmettergli la
propria furia. I colpi non si fermarono finché Clancy gli mise una mano sulla
spalla, e anche a quel punto Hayes si tolse la soddisfazione di assestare un
ultimo pugno sul viso. Sollevò Liam per la maglietta, e quando Clancy gli fece
un cenno con la testa, lo sbatté a terra e si alzò, lasciandolo insanguinato ed
esangue, a faccia in giù nella terra.
Appena i due furono scomparsi alla vista, Ciccio e io scattammo in avanti,
spingendo via il cerchio di ragazzi che si erano radunati intorno a lui.
Riuscimmo a fare forse due passi prima che Mike ci impedisse di avanzare.
«Non fatelo», disse. «Peggiorereste solo le cose.»
«Cosa gli faranno?» chiese Ciccio.
«Tornate alla vostra baracca», ci disse. «Ci occuperemo noi di lui.»
«No», replicai. «Non ce ne andiamo senza di lui.»
Mike si voltò verso di me. «Non so che diavolo gli hai detto o gli hai fatto
pensare, ma Lee era contento qui. Questo era esattamente ciò di cui aveva
bisogno, e tu hai rovinato tutto…»
«Non ti permettere», scattò Ciccio. «Non ti permettere di dare la colpa a lei di
tutto questo. Sei talmente abbagliato da Slip Kid che non vedi nemmeno quello
che ti succede sotto il naso!»
Mike scoprì i denti. «Guarda che a Caledonia ti sopportavamo perché ce lo
aveva chiesto Liam, ma qui non siamo tenuti a farlo.»
«Chi se ne frega», disse Ciccio. «Pensi davvero che mi importi? L’unica cosa
che mi importa è quello che succederà a Lee… sai, il tizio che ha rischiato tutto
per farci evadere?» Le sue parole ebbero l’effetto desiderato. Mike impallidì
nell’oscurità. «Puoi tenerti il tuo stupido Slip Kid, ma non credere che ti
lasceremo tenere Lee.»
Ci lanciammo di nuovo in avanti, facendoci strada a forza per raggiungerlo.
Due braccia si avvolsero intorno al mio petto, altre due intorno alle gambe e, per
quanto gridassimo e ci dimenassimo, i ragazzi ci trascinarono comunque lontano
da Liam.

Ciccio e io sedemmo sul letto di Liam senza parlare e senza muoverci, senza
fare altro che fissare la porta della baracca. Dalla finestra, vedemmo visi curiosi
di osservatori e di guardie, tutti intenti a capire cosa fosse accaduto. Il
coprifuoco era passato da tempo, ma nessuno di noi sarebbe stato in grado di
dormire. A giudicare dalle due figure in nero che stavano in piedi davanti alla
nostra porta, non sembrava nemmeno che potessimo andarcene. Non certo dopo
il nostro tentativo di fuga fallito, e assolutamente non dopo la pioggia di insulti
che Ciccio aveva rovesciato su Clancy.
«Dove hai imparato a parlare così?» chiesi, ma lui si limitò ad alzare le spalle.
«Ho pensato a cosa avrebbe detto Lee e ho preso spunto.» Ciccio si sfregò la
testa. «Davvero gli ho detto che ha le manine da principessa?»
Feci una risata strozzata. «Sì, e non solo.»
I secondi trascorrevano molto più lenti dei miei pensieri.
«Perché non ha avuto effetto su di te?» mi domandai a voce alta. «Ci ha
provato con te, non è vero?»
«Ci ha provato, di certo l’ho sentito. Ma non poteva sapere…» Ciccio si batté
un dito sulla fronte. «Trappola d’acciaio. Non entra né esce niente.»
Ebbi la fuggevole sensazione che le sue parole potessero essere vere, e che
potessero anche spiegare come mai la sua era l’unica testa in cui non ero mai
scivolata, ma sentii un forte rumore di passi sul sentiero e tutto il resto mi passò
di mente.
Olivia e un altro ragazzo entrarono inciampando, sostenendo Liam per le
braccia. Il suo viso era rivolto verso il basso, e aveva del fango incrostato tra i
capelli. Circa un’ora dopo che lo avevamo lasciato, aveva iniziato a piovere.
«Lee», diceva Ciccio, tentando di risvegliarlo. «Lee, mi senti?»
Li aiutammo a stenderlo sul futon. La baracca era così buia che non vidi la
portata delle sue ferite finché Olivia posò la torcia sul pavimento accanto a lui.
«Oh mio Dio», mormorai.
Liam si voltò verso di me e per la prima volta mi resi conto che in effetti era
sveglio, solo che aveva gli occhi talmente gonfi da sembrare chiusi.
Feci cadere la mano sul suo braccio, che sporgeva oltre il futon, e glielo portai
sul petto. Il respiro gli attraversava le labbra a fatica, facendolo ansimare. Aveva
uno spesso strato di sangue rappreso intorno al naso e alla bocca, fino al mento.
Solo la luce del giorno avrebbe rivelato il resto dei lividi.
«Ha bisogno di disinfettante», disse Ciccio. «Bende, qualcosa…»
«Se voi due venite con me», replicò Olivia, «vi porto al magazzino. Non ci
sarà nessuno in giro a disturbarci.»
«Non lo lascio da solo», dissi, ancora accovacciata sulle ginocchia accanto a
Liam.
«Va bene.» Sentii a malapena la mano di Ciccio sulla mia spalla, al suo
passaggio.
La porta scorrevole si aprì e si chiuse scricchiolando alle nostre spalle;
aspettai di sentire i passi dell’altro ragazzo allontanarsi dietro di loro prima di
tornare a guardare il viso di Liam. Con dita leggere come piume gli accarezzai il
viso, più dolcemente che potei. Quando gli sfiorai il naso, fece un respiro
sibilante, ma non si ritrasse finché gli toccai il labbro gonfio.
Non credo di aver mai pianto tanto come in quel mese. Non ero mai stata
come le altre ragazze nella mia baracca a Thurmond, che piangevano ogni notte,
e poi di nuovo ogni mattina quando si rendevano conto che l’incubo era reale.
Non piangevo tanto nemmeno da bambina. Ma non c’era modo di trattenersi,
ora.
«Sono… bello come penso?» Parlava biascicando, come se fosse intontito.
Provai a fargli aprire la bocca per controllare che ci fossero ancora tutti i denti,
ma aveva la mascella ancora troppo indolenzita per lasciarmela toccare. Mi
chinai a posare le labbra dove avevo passato le mani.
«Non farlo», mi disse, aprendo a malapena un occhio. «Non farlo se non lo
vuoi davvero.»
«Non avresti dovuto attaccarlo.»
«Dovevo, invece», borbottò.
«Lo ammazzo», dissi, sentendo la rabbia montarmi dentro. «Lo ammazzo.»
Liam tornò a ridacchiare. «Ah… eccola. Ecco Ruby.»
«Ti tirerò fuori di qui», promisi. «Te e Ciccio. Parlerò con Clancy, io…»
«No», disse. «Smettila. Peggiorerà solo le cose.»
«Come potrebbero mai peggiorare ancora? Ho mandato all’aria tutti i tuoi
piani. Ho rovinato tutto.»
«Dio.» Liam scosse la testa, torcendo la bocca in una specie di sorriso. «Lo
sapevi… che mi rendi così felice che a volte mi dimentico di respirare? Ti
guardo, e il petto mi si stringe così tanto… e l’unico pensiero che ho in testa è
quanto abbia voglia di avvicinarmi e baciarti.» Fece un respiro tremante. «Perciò
non parlare di tirarmi fuori di qui perché non me ne vado a meno che anche tu
sia parte del pacchetto.»
«Non posso venire con te», dissi. «Non voglio esporti a questo pericolo.»
«Sciocchezze», ribatté. «Non ci può essere niente di peggio che essere
separati.»
«Tu non capisci…»
«E allora aiutami a capire», rispose Liam. «Ruby, dammi una buona ragione
per cui non possiamo stare insieme, e io te ne darò cento per cui invece
possiamo. Possiamo andare ovunque tu voglia. Io non sono come i tuoi genitori.
Non ti abbandonerò e non ti manderò via, mai e poi mai.»
«Non mi hanno abbandonato. Quello che gli è successo è stato colpa mia.» Il
segreto mi era scivolato via come un lungo sospiro, e non so chi dei due fosse
più sorpreso da quella ammissione.
Liam rimase in silenzio, aspettando che continuassi. Pensai allora che quello
sarebbe stato il momento in cui davvero lo avrei perso per sempre. E non
riuscivo a pensare ad altro se non a quanto avrei voluto baciarlo un’ultima volta
prima che cominciasse ad aver paura di ciò che ero.
Appoggiai la testa accanto alla sua, sul cuscino. Sussurrando, perché non
avevo il coraggio di parlare a voce più alta, gli raccontai di quando ero andata a
letto la sera prima del mio decimo compleanno, e di quando mi ero svegliata
pregustando i tradizionali pancake. Del fatto che mi avevano chiusa nel garage
come una sorta di animale selvatico. E quando ebbi terminato il racconto, gli
dissi di Sam. Di come ero stata per lei ciò che Ciccio era per lui, finché non fui
più nulla.
Quando ebbi finito, la gola mi bruciava. Liam si voltò verso di me. Non ci
separava nemmeno un respiro.
«Mai», disse, dopo un poco. «Mai, mai, mai. Non ti dimenticherò mai.»
«Non avrai scelta», replicai. «Clancy dice che non sarò mai in grado di
controllarlo.»
«Beh, io penso che non capisca un bel niente», disse Liam. «Ascolta, quello
che ho visto nel bosco, quando tu…»
«Quando ti ho baciato.»
«Giusto. Quello… è successo davvero, non è così? Quello che lui – quello
stronzo – ti ha fatto. Ti è successo veramente. Ti ha tenuta ferma, congelata,
come ha fatto con me.»
Sì, ma in parte anche no. Perché un pezzo di me, per quanto minuscolo, lo
aveva desiderato. Oppure, era stato lui a farmelo credere, a giocare con le mie
emozioni con un solo tocco?
Annuii, alla fine, con le budella che ancora si attorcigliavano per il disgusto al
pensiero della sua pelle sulla mia.
«Vieni qui», disse Liam dolcemente. Sentii il tocco leggero delle sue dita
scorrermi in cima alla testa, soffici come piume, e scendere a coprirmi la
guancia. Quando sollevai il viso, mi incontrò a metà strada e mi baciò. Feci
attenzione a non toccargli la faccia, ma solo la spalla e il braccio. Quando si
ritrasse, quasi lo seguii, cercando le sue labbra.
«Tu vuoi stare con me, giusto?» sussurrò. «E allora resta con me. Troveremo
un modo. Se non altro, mi fido di te. Puoi guardarmi nella testa e non vedrai
altro.»
Il suo respiro tiepido si sparse sulla mia guancia come un altro bacio.
«Mike ha capito. Troverà un modo per farci uscire di nascosto, e poi io, te, e
Ciccio ce la daremo a gambe. Troveremo il padre di Jack, troveremo un modo
per riunire Ciccio ai suoi genitori, e poi parleremo di cosa fare dopo.»
Mi sporsi verso di lui e gli diedi un bacio sulla fronte. «Davvero non mi odi?»
sussurrai. «Non hai paura, nemmeno un po’?»
Il suo volto tumefatto si contorse in quello che interpretai come un sorriso.
«Sono terrorizzato da te, ma per un motivo completamente diverso.»
«Sono un mostro, sai. Uno di quelli pericolosi.»
«No, non lo sei», mi garantì. «Sei una di noi.»
28

C tornò qualche minuto dopo che Liam era caduto in un sonno irrequieto. Si
ICCIO

agitò di nuovo quando iniziammo a pulire i tagli e le ferite sul suo viso, e mi
prese la mano al primo tocco bruciante del disinfettante. Quando sentii che
iniziava ad allentare la presa, e vidi che tornava a chiudere le palpebre,
finalmente buttai fuori il respiro che avevo trattenuto.
«Sopravvivrà», disse Ciccio, vedendo la mia espressione. Stava ritirando il
resto delle provviste nel mio zaino. «Avrà un mal di testa terribile domani
mattina ma sopravvivrà.»
Dormimmo a turno, o almeno fingemmo di farlo. Il mio corpo pulsava per
l’energia accumulata, e sentivo Ciccio borbottare tra sé, come se cercasse un
senso in quanto accaduto.
Poi giunse il rumore di piedi contro i gradini di cemento della baracca, e allora
smettemmo anche di fingere.
«Lizzie…» sentii dire a uno dei ragazzi fuori dalla porta. «Sei…»
Lizzie li fece da parte, spalancando la porta con tale forza da farla rimbalzare
contro la parete. Liam si svegliò di soprassalto, più confuso e disorientato di
prima.
«Ruby!» Lizzie si rivolse direttamente a me, con viso cereo. I suoi capelli si
erano impigliati nei numerosi piercing, ma fu il sangue che aveva sulle mani a
farmi impallidire.
«Si tratta di Clancy», esclamò, afferrandomi le braccia. «È caduto… di punto
in bianco e ha iniziato a tremare come un pazzo e a sanguinare, e non sapevo
cosa fare, ma lui mi ha detto di cercare te perché tu avresti saputo cosa stava
succedendo. Ruby, ti prego, ti prego aiutami!»
Fissai le sue mani, il sangue ancora fresco.
«È un trucco», gracchiò Liam dal suo giaciglio. «Ruby, non osare…»
«Se sta davvero male, dovrei andare io», disse Ciccio a Lizzie.
«Ruby!» strillò lei, come se non potesse credere che fossi ancora lì ferma.
«C’era tanto sangue… Ruby, ti prego, ti prego, devi aiutarlo!»
Credeva davvero che fossi così stupida? O pensava semplicemente che la sua
influenza fosse tanto estesa, che mi sarei scordata di ciò che aveva fatto a Liam e
mi sarei precipitata al suo capezzale? Scossi la testa, mentre la rabbia mi
scorreva sulla pelle. Troppo immatura e debole di cuore per usare le mie abilità,
giusto? Beh, gliel’avrei fatta vedere.
Liam si mise a sedere. «Lo conosci», diceva. «Non farlo, non…»
«Fammi vedere dov’è», dissi, coprendo le proteste di Ciccio. Mi voltai verso
di lui. «Devi restare con Liam, capito?» Devi prenderti cura di lui, perché io non
posso. «Mi occupo io di tutto.»
Avrei trovato io il modo di farci scappare. Non Mike, non un improvviso
colpo di fortuna: lo avrei fatto io, e vedere il viso di Clancy perdere espressione
sotto la mia influenza sarebbe valso lo sforzo di penetrare nella sua mente. Non
mi aveva forse insegnato tutto quello che mi serviva per riuscirci?
«Ruby…» sentii dire a Liam, ma afferrai il braccio di Lizzie e la guidai
all’esterno, oltre i ragazzi confusi, oltre le baracche. La temperatura era scesa di
diversi gradi.
Grosse lacrime solcavano il viso di Lizzie. «È nel magazzino… stavamo
parlando di…»
«Va tutto bene», le dissi, impacciata, posandole una mano sulla schiena.
Attraversammo di corsa il giardino e salimmo i gradini sul retro dell’ufficio.
Faticò a inserire la chiave nella serratura, e la incastrò. Dovetti aprire la porta
con un calcio; Lizzie era troppo andata per fare altro che correre dentro. La sala
e la cucina erano deserte. L’intero edificio odorava di aglio e salsa di pomodoro.
Dovevano essere tutti intenti a preparare la cena.
Tutti tranne Clancy, che se ne stava al centro del magazzino, appoggiato a uno
scaffale pieno di scatole di maccheroni.
Lizzie corse nell’angolo in fondo a destra e cadde in ginocchio. Annaspò con
le mani sul pavimento, ma le sue dita tremanti non stringevano altro che l’aria.
«Clancy», gridò. «Clancy, mi senti? C’è qui Ruby ora. Ruby, vieni qui!»
Sentii un violento nodo allo stomaco, e mi sorpresi di quanto mi rattristasse
vedere confermati i miei peggiori sospetti.
Perché dev’essere così? pensai, guardandolo. Perché?
«Sei venuta, sei venuta davvero», disse Clancy con voce annoiata, piatta.
Sembrava che recitasse un copione. «Grazie, Ruby. Apprezzo il tuo aiuto nel
momento del bisogno.»
«Perché stai lì impalata?» frignò Lizzie. «Aiutalo!»
«Tu sei malato», dissi, scuotendo la testa. Clancy venne verso di me, ma io mi
spostai sul lato opposto della stanza, dove Lizzie aveva abbassato il viso fin
quasi al pavimento. «Smettila, sono qui, non c’è motivo di continuare a
torturarla.»
«Non la sto torturando», disse Clancy. «Sto solo giocando un po’.» E poi,
come per dimostrarlo, ringhiò: «Lizzie, chiudi il becco!»
Lizzie si bloccò a metà respiro. Un rivolo di sangue le scese dal labbro, dove
lo aveva morsicato. Le presi le mani e le voltai verso l’alto. Il sangue era suo,
usciva da due tagli netti sui palmi.
«Che vuoi?» chiesi, voltandomi di scatto. «Ti ho detto tutto, e quello che non
ho detto lo hai visto comunque!»
Fu solo in quel momento che mi resi conto di cosa Clancy avesse addosso.
Pantaloni neri eleganti e ben stirati, una camicia bianca immacolata e una
cravatta rossa, che gli scivolava sullo stomaco proprio come la goccia di sangue
sul mento di Lizzie.
«Ti voglio solo trattenere qui per un po’», disse. «Poi possiamo andarcene.»
«E dove andremmo, di preciso?» Tenevo gli occhi fissi sullo scaffale dietro di
lui, pieno di cucchiai di metallo e ciotole.
«Ovunque tu voglia», disse. «Non è questo che ti ha promesso quel Blu?»
Mi sforzai di rimanere calma, ma il modo in cui sputò fuori quella parola –
Blu – irritò i miei nervi già scossi. Non so se Lizzie si fosse resa conto del mio
cambiamento d’umore, ma Clancy sicuramente sì. Sorrideva, quel perfetto
sorriso Gray, lo stesso che mi aveva seguita ovunque nei confini di Thurmond.
Bene, pensai, che mi consideri pure indifesa. Che pensi pure che non sia una
vera minaccia, fino a quando si troverà steso a terra incapace di ricordarsi
persino il proprio nome.
«Hai un’offerta migliore?» chiesi.
«E se così fosse?»
«Faccio fatica a crederlo», dissi, avvicinandomi, per distrarlo, «considerato
che ti importa così poco di me. Se la situazione fosse capovolta, non saresti
venuto di corsa, non è vero?»
Alzò le spalle. «Sarei venuto. Ma camminando con calma.»
«Per favore, lascia andare Lizzie», dissi. Mi spaventava vederla comportarsi
come una bambina piccola. Cos’era, nell’essere Arancioni, che trasformava le
persone in mostri?
«Perché? Se resta, non ti verrà in mente di provare cose strane, perché
rischieresti di farle del male, o peggio.» Lo disse con tale leggerezza che pensai
stesse scherzando.
«Come puoi esserne certo?» Sperai che la mia voce suonasse più forte di
come la sentivo in gola. «Non la conosco poi così bene.»
«Ho visto i tuoi ricordi. Sei quello che gli psicologi chiamano ‘troppo
empatica’. Non faresti nulla che possa fare del male agli altri; non di proposito,
almeno.»
Lo disse con totale sicurezza, il che rese dolcissimo lo shock sul suo viso
quando mi gettai su di lui. Per una volta, non aveva previsto la mia reazione, non
mi aveva trascinata dove voleva. Lo colpii sul viso e lo sentii grugnire quando le
mie unghie affondarono nella sua guancia.
La connessione fu istantanea e potente. Sembrava che almeno una parte di
quanto Clancy aveva detto fosse vera, dopotutto. Dovevo desiderare di utilizzare
le mie abilità. Dovevo desiderare di controllarle. E Dio mio, in quel momento lo
desideravo. Volevo fargli a pezzi il cervello.
Le immagini che salirono a galla dalle acque scure e vorticose della sua mente
erano completamente diverse da quelle che avevo visto in precedenza. Al posto
della luce brillante e dei contorni precisi, controllati, c’erano schizzi fatti con una
sorta di carboncino acquoso. Sfocati, indistinti. Vidi facce gonfie e distorte salire
dalla superficie fangosa. La sua mente era diventata flaccida; avevo
l’impressione di poter allungare entrambe le mani e plasmarlo come volevo.
«Lasciala andare», dissi, stringendo la presa sulla sua gola. Lanciai nella sua
mente l’immagine di Lizzie che veniva mandata via, e un attimo dopo Clancy
mormorò: «Lizzie, vai… fuori».
Lei scattò verso la porta, e sentii un brivido di emozione lungo la schiena.
Clancy tremava sotto le mie mani, ma lo tenni stretto.
«Ora», dissi, «ora lascia andare anche noi.»
Ma mentre stavo ancora pronunciando quelle parole sentii di aver perso il filo.
Strinsi più forte, affondando le dita nella sua pelle. Non ancora, implorai in
silenzio, non ancora, devo… devo…
Con la stessa velocità con cui ero entrata venni sbattuta fuori, e quella
maledetta tenda bianca cadde tra noi. Tentai di attaccarla di nuovo, ma Clancy
mi afferrò il polso e sentii ogni muscolo nel mio corpo trasformarsi in pietra.
«Bel tentativo.» Clancy mi fece cadere a terra come una tavola e mi scavalcò
per andarsi a controllare il graffio sul viso nel riflesso di una pentola. «Non mi
hai nemmeno fatto sanguinare.»
Non riuscivo neanche a muovere la mascella per rispondergli a tono.
«Sono contento di vedere che hai messo a frutto alcune delle mie lezioni»,
ringhiò Clancy, passandosi una mano tra i capelli spettinati. Si voltò nuovamente
verso gli scaffali, nascondendo il viso, ma vidi le sue mani stringersi ai fianchi,
stropicciando la stoffa dei pantaloni. Non ero riuscita a rovinarlo, ma l’avevo
scosso. «Mi piace vedere che i miei studenti si applicano, ma non pensare che
qualche settimana di pratica possa sortire lo stesso effetto di anni e anni di
allenamento.»
Mi concentrai sul tentativo di spezzare il blocco mentale che aveva lanciato su
di me. Iniziai dalle dita dei piedi, immaginando di muoverle una a una. E…
niente.
Forse io ero in grado di cancellare i ricordi delle persone, ma lui poteva
trasformarle in pietra.
L’urlo giunse un secondo dopo che ebbi sentito il primo motore rombante. Un
vento innaturale agitò gli alberi all’esterno. Vidi Clancy rabbrividire alle grida
stridule delle sirene, ma si raddrizzò come spinto da una forza interiore. Aveva il
viso acceso di impazienza, e fu quello a spaventarmi più di tutto.
«Ci siamo, allora», disse, spolverandosi la giacca. «Finalmente sono arrivati.»
Non riuscivo nemmeno a chiudere gli occhi. L’aria li bruciava, e poi l’aria
stessa sembrò prendere fuoco. L’odore rivelatore del fumo entrò dalle finestre
aperte. Spari, altre urla, altri combattimenti. Immaginai di muovermi, di alzarmi
in piedi e correre verso la porta, verso gli altri, verso la libertà, ma non ottenni
altro che di battere le palpebre. Però era già qualcosa. Potevo sfruttarlo.
«Stai tranquilla», mi disse Clancy tornando a sedersi accanto a me. Con un
piede iniziò a battere un ritmo contro lo sgabello. «Non lascerò che ti accada
nulla di male.»
Il sangue mi rombava nelle orecchie. Le urla che provenivano da fuori non
avevano nulla di umano; sembravano animali a cui veniva strappata la pelle di
dosso. Era il suono del dolore, e del terrore, e della disperazione. Il lamento
metallico che filtrava attraverso le pareti saliva di tonalità e di intensità a ogni
minuto che passava.
I conigli hanno bisogno di dignità e, soprattutto, di rassegnazione al loro
destino.
Percepii, più che sentire, i passi che rimbombavano nel corridoio. Non capivo
quante persone ci fossero. Tutti si muovevano perfettamente a tempo. La porta
del magazzino si aprì in un’esplosione di fumo e di calore.
Non ero mai stata così grata di niente nella mia vita come lo fui di vedere il
viso di Clancy quando le FSP piombarono nella stanza. L’aspettativa cedette il
passo a una vacua incomprensione e poi a una rabbia pura, concentrata.
Qualsiasi cosa Clancy si aspettasse, non era certo due soldati delle Forze
Speciali Psi. Non ebbe nemmeno bisogno di toccarli. «Zitti!» sibilò, alzando una
mano nella loro direzione. «Fuori di qui! Dite al vostro superiore che qui dentro
non c’era nessuno!»
L’uomo davanti a lui, il corpo nascosto da strati di stoffa e armatura, appoggiò
una mano guantata al ricevitore nell’orecchio e disse, con voce monotona:
«L’edificio è vuoto». Il segnale che rivolse agli altri due fu un semplice gesto
meccanico. Mentre uscivano di corsa dalla stanza, mi accorsi che il fumo
proveniva da loro. Erano loro ad aver appiccato il fuoco.
«Maledizione… maledizione!» Clancy scuoteva la testa. Alzò un pugno in
aria e colpì lo scaffale vicino, ma il rumore dell’impatto fu coperto dalle raffiche
di spari all’esterno. «Dove sono i miei Rossi? Perché non ha mandato loro?»
Si portò le nocche ferite alle labbra e le succhiò, passeggiando su e giù per la
piccola stanza. Aveva il fiato corto, che sembrava riflettere il rapido flusso dei
suoi pensieri.
I miei Rossi. I suoi: il modo in cui ne parlava non mi lasciava alcun dubbio sul
significato delle sue parole. Il progetto Jamboree, il programma di suo padre.
No, pensai, non di suo padre.
Finalmente vedevo davanti a me i frammenti della visione d’insieme. Quando
mi aveva spiegato il programma per la prima volta, non lo conoscevo così bene e
non avevo visto ciò di cui era capace: non abbastanza da mettere insieme gli
indizi che mi aveva accidentalmente consegnato.
Non c’era proprio nessuno al mondo che fosse immune alle sue abilità,
nemmeno il presidente Gray.
Clancy stava ancora camminando su e giù per la stanza come una pantera in
gabbia, con i muscoli della schiena che guizzavano a ogni raffica di colpi. Poi si
fermò, alzando lo sguardo verso le finestre e il fumo che vi si avvolgeva contro.
«Chi te lo ha detto, bastardo?» domandò, con voce così bassa che non ero
nemmeno sicura che lo avesse pronunciato davvero. «Chi di loro si è sottratto
alla mia influenza abbastanza da capirlo? Sono stato cauto. Così maledettamente
cauto…»
Girò sui tacchi e tornò verso di me, e vidi la verità incisa sul suo viso. La
stessa mano che sanguinava per i tagli recenti aveva guidato suo padre, i suoi
consiglieri, e chiunque fosse necessario convincere a prendere in considerazione
il Progetto Jamboree. Non aveva detto che, prima che suo padre si accorgesse
della sua influenza, Clancy aveva avuto abbastanza spazio di manovra da
assicurarsi che il programma procedesse senza intoppi e che i ragazzini
venissero trattati bene?
Chiaramente, avrebbe potuto fare molto di più. Se aveva tenuto in pugno tutto
East River, chi poteva dire che non controllasse anche un piccolo esercito di
Rossi?
Clancy doveva avermi letto negli occhi che avevo capito, perché fece una
risata bassa, priva di allegria. «A volte mi dimentico, sai, che non è uno stupido.
Anche dopo che si è finalmente accorto che lo stavo manipolando, non ha mai
capito che il Progetto Jamboree veniva da me. Me ne sono assicurato dopo
essere scappato; sono persino andato via da East River di tanto in tanto, per
controllare che la mia influenza fosse ancora intatta. Ho fatto trapelare la
posizione di East River esattamente nello stesso momento in cui il loro
programma di addestramento si concludeva.»
Si strinse una mano a pugno tra i capelli, e qualcosa si incrinò nella sua voce
quando parlò di nuovo. «Crescendo, lo idolatravo, ma quando ho visto cos’era
veramente, cosa era disposto a fare, persino a suo figlio…» La sua voce si
strozzò leggermente. «Chi è stato? Chi gliel’ha detto? Come poteva sapere di
dover mandare le FSP? Dovrei avere il controllo dei miei Rossi in questo
momento, e dovremmo essere tutti in marcia su New York per abbatterlo…»
All’improvviso Clancy si chinò, afferrandomi per la maglietta e sollevandomi
di peso. Mi scosse, così violentemente che quasi mi morsicai la lingua, ma non
disse neanche una parola. Gli spari e le urla all’esterno non toccavano i suoi
lineamenti di pietra, né i suoi pensieri. Il fumo iniziò a strisciare sul pavimento,
rotolando, gonfiandosi, afferrando ogni cosa sul suo cammino. Senza preavviso,
le mani di Clancy lasciarono la mia maglietta e mi risalirono sulle spalle in una
carezza da amante; le sue dita si strinsero intorno al mio collo e fui certa, così
maledettamente certa, che nella sua furia mi avrebbe o baciata o uccisa.
Altri passi, più leggeri di prima, ma non meno insistenti.
Clancy alzò lo sguardo, innervosito.
Non vidi ciò che accadde dopo, solo le conseguenze. Clancy volò contro gli
scaffali, così forte che la sua testa fece crack quando venne a contatto con il
muro. Il suo corpo trascinò a terra con sé le mensole cariche di pasta e farina, e
atterrò in un mucchietto disordinato sul pavimento.
Il viso capovolto di Ciccio comparve sopra il mio. Aveva gli occhiali rigati e
piegati e il viso e la maglia macchiati di fuliggine, ma non sembrava ferito.
«Ruby! Ruby, mi senti? Dobbiamo scappare.» Perché sembrava così calmo?
Gli spari mi echeggiavano nelle orecchie, un flusso interminabile di scoppi ed
esplosioni. «Riesci a muoverti?»
Ero ancora troppo rigida per fare altro che scuotere la testa.
Ciccio strinse i denti e mi infilò le mani sotto le ascelle, accertandosi di avere
una buona presa. «Tieni duro, ti tiro fuori di qui. Muoviti appena riesci.»
Fuori dal riparo dell’ufficio, non c’era modo di sfuggire al rumore. Il mio
cuore riprese vita con un sobbalzo, e mi batteva contro le costole. L’aria era
satura di gas lacrimogeno e fumo. C’erano fiamme ovunque: a terra, sugli alberi,
sui tetti delle baracche. Il mio viso e il petto sembravano in fiamme a loro volta.
Il vento portò le fiamme così vicine a noi che Ciccio dovette coprirmi i jeans
perché non prendessero fuoco. Grugnì, e capii che stava faticando ad avanzare
sotto il mio peso. Volevo dirgli di lasciarmi, di prendere le lettere nel giubbotto
di Liam e scappare.
Liam. Dov’è Liam?
Attraverso la cenere vorticante vidi le fila di uniformi nere che scortavano i
ragazzi dal campo giù per il sentiero che portava alle baracche. Vidi una ragazza
buttata fuori dalla propria baracca e gettata a terra, e poi sollevata per i capelli.
Due ragazzi che riconobbi dalla squadra di sicurezza alzarono le pistole contro i
Rossi, che le soffiarono via in una nube di fuoco.
«Fermi dove siete!»
Rimasi senza fiato quando Ciccio mi fece cadere a terra per lanciare contro un
albero il soldato che aveva parlato. Quando mi strinse di nuovo le braccia al
petto, ci muovemmo più velocemente di prima. E poi cademmo, incespicando
giù per la collina. Ciccio emise un verso sorpreso mentre rotolavamo,
raccogliendo foglie secche e braci. Sbattei la mano contro un albero, ma non
riuscii a vedere dove stessimo andando. Il fumo mi accecava.
Mi fermai, lentamente, alla base della collina, con il viso affondato nella riva
melmosa. Le mie mani e le gambe stavano riprendendo vita convulsamente.
Sentii delle mani sul retro del mio giubbotto. Ciccio mi trascinò sulla schiena,
tossendo violentemente.
Stiamo per morire. Stiamo per morire. Stiamo per morire.
I conigli devono accettare il loro destino, i conigli hanno bisogno di dignità e
soprattutto della rassegnazione al loro destino, il loro destino, il loro destino…
L’acqua era gelida e mi inghiottì in un sorso solo. Lo shock mi strinse le
membra, svegliandole come con uno schiaffo. Lottai contro l’acqua, agitando le
braccia per raggiungere la superficie. Il cielo mi aspettava, tinto di arancione, e
finalmente riemersi nella notte, tossendo acqua e aria avvelenata.
Ciccio mi ritrovò; con una mano era aggrappato a un palo di legno mentre
tendeva l’altra verso di me. L’attracco, pensai, il nostro attracco. Scalciai per
avvicinarmi a lui e lasciai che mi trascinasse al riparo sotto le vecchie assi di
legno. Gli elicotteri che volavano sopra di noi agitavano la superficie del lago
creando un vortice di onde. Riuscivo a malapena a tenere la testa fuori
dall’acqua gelida, ma ero abbastanza all’erta da vedere i fari che dall’alto
danzavano sulla superficie dell’acqua.
Tenni un braccio intorno alle spalle di Ciccio e usai la mano libera per
aggrapparmi ai supporti dell’attracco, coperti di alghe viscide. Ciccio fece lo
stesso, e attese che il rumore di stivali e pistole fosse scemato prima di
sussurrare: «Oh mio Dio».
Lo avvicinai a me e lo abbracciai con tutta la forza che i miei muscoli fiacchi
mi permettevano. Non osavamo parlare, ma sentii che scuoteva la testa. Sapeva
cosa intendessi dire, e io sapevo cosa lui volesse chiedere, e nessuno di noi riuscì
a tirare fuori neanche una parola strozzata in mezzo al fumo e alle urla.
29

A le gambe semicongelate quando finalmente trovammo il coraggio di


VEVO

muoverci. Da qualche tempo ormai c’era silenzio; da quando il sole aveva


iniziato a scaldare il cielo. Gli elicotteri erano stati i primi a scomparire, poi il
rumore degli spari. Tra noi c’erano solo respiri e paure sussurrate su quanto
poteva essere accaduto agli altri… a Liam.
«Non lo so», disse Ciccio. «Ci siamo separati. Potrebbe essere ovunque.»
Erano due ore che volevo uscire dall’acqua, ma continuavamo a sentire il
rumore di alberi abbattuti e i resti scoppiettanti della terribile tempesta di fuoco.
Avevo i muscoli talmente irrigiditi che mi ci volle il triplo del tempo a risalire
sul molo, rispetto a quanto ci avrei messo di solito. Ciccio si accasciò accanto a
me, rabbrividendo nella brezza gelida che si accaniva sui nostri vestiti fradici.
Strisciando, risalimmo lungo il sentiero, rimanendo bassi sul terreno fino a
essere sicuri, sicuri al cento per cento, di essere gli ultimi rimasti.
La maggior parte delle baracche era scomparsa… mucchi di legno
carbonizzato e pietra. Alcune rimanevano in piedi, bruciate e vuote, o senza il
tetto. La cenere cadeva intorno a noi come neve, raccogliendosi tra i capelli e
appiccicandosi ai nostri vestiti bagnati.
«Dovremmo andare all’ufficio», dissi. «Stare al coperto. Possiamo radunare
delle provviste e poi provare a uscire e cercare Lee.»
I piedi di Ciccio rallentarono accanto a me e, per la prima volta, vidi quanto
fossero arrossati i suoi occhi. «Ruby…»
«Non dirlo», lo misi in guardia, con voce tagliente. Non era un’opzione.
«No.»
Non volevo pensare a Lee. Non volevo pensare a Zu o agli altri ragazzi che
erano andati via dal campo. Dovevamo continuare a muoverci. Se mi fossi
fermata, sapevo che non sarei più stata in grado di ripartire.
Le stanze sul davanti erano vuote. Gli scatoloni e le casse erano stati portati
via. Costrinsi Ciccio a camminare dietro di me quando mi infilai nel magazzino,
ma era vuoto anch’esso.
«Forse lo hanno preso», disse Ciccio, sfregandosi la testa.
Feci una smorfia. «Quando mai siamo stati così fortunati?»
Di sopra, la camera da letto era intonsa. Prima di andare via, Clancy si era
rifatto il letto, aveva ritirato le pile di fogli e di scatole, e a quanto pareva aveva
persino spolverato. Scostai la tenda bianca con un gesto secco, riunendo le due
parti della stanza, mentre Ciccio giocherellava con la tv, premendo più volte il
pulsante di accensione.
«Hanno tolto la corrente», disse. «Scommettiamo che hanno anche chiuso
l’acqua?»
Crollai sulla sedia di Clancy e premetti il viso sul legno scuro della scrivania.
Ciccio tentò di sfilarmi il giubbotto fradicio di Liam, ma non glielo permisi.
«Grazie per essere venuto a cercarmi», dissi, chiudendo gli occhi.
«Scema», disse Ciccio, con affetto. Mi diede una pacca sulla schiena. «Ti
metti sempre nei guai.»
Non mi mossi, e sentii le sue mani fermarsi sulla mia schiena. «Ruby?»
«Perché lo ha fatto?» sussurrai. Ogni cosa in quella stanza mi ricordava
Clancy, dall’odore al modo in cui aveva sistemato i libri in base al colore sullo
scaffale. «Li ha gettati tutti in pasto ai lupi…»
Ciccio si accovacciò accanto a me, e le sue ginocchia scricchiolarono come
quelle di un vecchio. Non allontanò mai la mano dal mio braccio, ma sembrava
faticare a trovare le parole.
«Lungi da me anche solo provare a districare il gomitolo infernale della sua
mente», disse, con cautela. «Ma penso che gli piacesse, semplicemente, avere il
controllo. Manipolare le persone lo faceva sentire potente, perché sapeva che
fuori di qui anche lui sarebbe stato vulnerabile quanto noi. Ci sono persone così,
lo sai? Le menti più oscure tendono a nascondersi dietro i volti più improbabili.
Giocare al leader gli veniva bene, ma non era come… non era come Lee, o Jack.
Non voleva aiutare i ragazzi perché credeva che tutti si meritassero di sentirsi
forti e di sapersi proteggere. Clancy pensava sempre e solo a se stesso. Non
sarebbe mai saltato davanti a un’altra persona per proteggerla e… non avrebbe
mai preso un proiettile al posto suo.»
A quelle parole, mi raddrizzai. «Credevo che a Jack avessero sparato mentre
tentava di fuggire.»
Ciccio scosse la testa. «Gli hanno sparato mentre provava a proteggermi, e mi
proteggeva perché…» Fece un respiro profondo. «Perché non credeva che fossi
in grado di proteggermi da solo. Non si rendeva conto di quanto mi avesse
insegnato.»
«Mi dispiace così tanto», dissi, sentendo le lacrime pungermi gli occhi. «Per
tutto.»
«Anche a me», rispose dopo un minuto, e non avevo bisogno di guardarlo per
sapere che stava piangendo anche lui.

Il computer portatile era riposto nel primo cassetto della scrivania, con un
biglietto giallo fosforescente appiccicato sopra.
Ruby,
ho mentito, prima. Sarei venuto di corsa.
CG

«Ciccio!» lo chiamai, facendogli cenno di avvicinarsi. Il segnale di accensione


suonò dolcemente, come piccole campane.
«Lo ha lasciato qui?» chiese Ciccio, tamburellando le dita sul tavolo. «C’è
ancora la carta wireless?»
C’era, ma Clancy si era premurato di cancellare tutto il resto. Rimaneva
soltanto l’icona del browser internet, al centro dello schermo.
«Perché l’orologio nell’angolo dice ‘quindici’?» domandò Ciccio, sedendosi
sulla sedia. Mi sporsi a vedere il numero che indicava. La batteria rimanente.
Avevamo solo quindici minuti.
«Che stronzo», borbottai.
Ciccio scosse la testa. «Meglio che niente. Finché la connessione tiene,
possiamo usarlo per cercare una via di uscita. Possiamo persino cercare il nuovo
indirizzo del padre di Jack.»
«E postare il messaggio per i tuoi genitori», dissi, sentendo una fragile ondata
di felicità pervadermi.
«Va bene così, preferisco usare questi… quattordici minuti per trovare il padre
di Jack», disse. «Potrei persino riuscire a chiamarlo se il computer ha un
microfono.»
Non osava chiamare i propri genitori.
«Seriamente», dissi, «ti ci vorranno due secondi a postare il messaggio. Te lo
ricordi?»
«Abbastanza da farlo funzionare.»
Camminai avanti e indietro, irrequieta, ascoltando il rumore delle sue dita
sulla tastiera, respirando l’aria stantia della stanza. I piedi mi trascinarono
accanto al letto di Clancy, dove finalmente mi fermai, lasciando che la rabbia che
provavo nei suoi confronti travolgesse persino la mia ansia.
La finestra era coperta di fuliggine e cigolò quando provai a spalancarla. Ma
valse la pena combattere per la corrente di aria fresca che inondò la stanza; mi
chinai in avanti, appoggiando le braccia sul davanzale. Il campo si stendeva
davanti a me con mucchi di cenere e terra bruciata, ma era fin troppo facile
immaginare i gruppi di ragazzi in piedi in attesa di ricevere la propria porzione
di cibo intorno al falò. Quando chiusi gli occhi, sentii le risate e la radio
galleggiare in alto verso di me, il sapore piccante del chili e il fumo di legna
nell’aria. Vidi Liam, di sotto; e la luce del fuoco trasformava i suoi capelli in oro
puro mentre chinava la testa per fare conversazione con gli altri.
E quando aprii gli occhi, non lo stavo più immaginando.
Corsi fuori dalla stanza, ignorando la voce di Ciccio che mi inseguiva.
Inciampai per le scale, volai attraverso l’ingresso e oltre la porta che a malapena
si teneva sui cardini.
Si trovava poco più in là sul sentiero, in direzione delle baracche, e a fatica
tentava di aggirare il labirinto di alberi caduti e edifici crollati. Zoppicava tra le
rovine, con il viso ferito contorto per il dolore e la paura.
«Lee!» Il nome uscì da me come un’esplosione. Liam fece cadere il pezzo di
legno carbonizzato che teneva in mano e si arrampicò a fatica sopra il tronco di
un albero, facendosi strada alla cieca tra i rami e le foglie. Mi vide, credendoci e
non credendoci allo stesso tempo. «Oh mio Dio!» Gli gettai le braccia al collo, e
rischiammo di cadere entrambi.
«Grazie», sussurrava. «Grazie, grazie…»
E poi mi baciò il viso, ogni centimetro che riuscì a trovare, asciugandomi le
lacrime e la fuliggine, ripetendo il mio nome.

* * *

Liam non era l’unico a essere fuggito, ma era stato l’unico a tornare.
Ci raccontò la sua notte mentre sedevamo nell’ufficio di Clancy, mangiando il
cibo rimasto nel magazzino. Ciccio teneva il portatile vicino a sé e controllava
costantemente l’arrivo di un messaggio di risposta dai suoi genitori, o
ricontrollava l’indirizzo che aveva trovato per il padre di Jack.
Quando la battaglia era iniziata, era stata una sorpresa tale che la maggior
parte dei ragazzi della Guardia non arrivò dal perimetro alle baracche abbastanza
in fretta da fare la differenza. Quelli che non erano di turno si erano precipitati
alla nostra baracca e lo avevano costretto – «Portandomi di peso, a dire la
verità», disse Liam con amarezza – a scappare, correndo lungo uno dei sentieri
nascosti che erano stati tracciati apposta per quello scopo. Avevano continuato
fino al mattino, senza fermarsi prima di aver raggiunto il tratto di autostrada su
cui eravamo stati raccolti noi.
«Ci sarà stata al massimo una ventina di noi», disse, stringendomi la mano.
«Tutti in pessimo stato. Liv e Mike hanno trovato una macchina e hanno caricato
i più gravi per cercare un ospedale, ma…»
«Cosa ne è stato degli altri?» chiesi.
«Se ne sono andati.» Liam si sfregò gli occhi. La pelle tutt’intorno era ancora
livida.
«E tu perché non sei andato con loro?» domandò Ciccio. «Che diavolo di
problemi hai, a voler tornare qui sapendo che potevano esserci ancora FSP in
giro?»
Per tutta risposta, Liam sbuffò. «Pensi che mi importasse anche solo
vagamente, quando c’era una possibilità che voi foste ancora qui?»
Non avevamo tempo da perdere; tutti e tre conoscevamo le FSP abbastanza
bene da sapere che c’era una possibilità che tornassero indietro a cercare
eventuali sopravvissuti. Liam e Ciccio si misero immediatamente al lavoro nel
magazzino, valutando quanto cibo potessimo portare con noi. Provai a rendermi
utile a mia volta, ma la mia attenzione tornava sempre al piano di sopra, alla
scrivania di Clancy.
Cedetti finalmente alla mia irrequietezza e lasciai entrambi alla loro
discussione sul cibo in scatola. Tornai di sopra, tastando la tasca interna del
giubbotto di Liam per assicurarmi che le lettere di Jack e di Ciccio fossero
ancora lì.
Rimanevano due minuti nella batteria del computer. L’icona di accensione
lampeggiava, segnalando che le riserve scarseggiavano. Lo schermo si scurì e
l’illuminazione della tastiera si spense. Scrissi più veloce che potevo, cercando
online una Ruby Ann Daly, Virginia Beach.
Nessun risultato.
Provai di nuovo, solo con il nome. Comparve un risultato, ma a Salem. Non ci
abitavo da quasi dieci anni, ma riconobbi l’indirizzo dei miei genitori al primo
sguardo.
Un minuto e quindici secondi. Trovai nella cronologia web il sito di cui Ciccio
aveva parlato, che permetteva di fare chiamate, e inserii il numero di telefono.
Perdevo due secondi a ogni squillo.
Credo che in quel momento non volessi tanto parlare con lei quanto piuttosto
sentirla parlare. Andare da lei non era più possibile ormai. C’erano cose più
importanti di cui occuparmi. Ma avevo bisogno di sapere che era ancora là fuori,
che c’era ancora una persona al mondo che si ricordava di me.
Ci fu un clic. Il cuore mi balzò in gola, e le mie dita strinsero il bordo della
scrivania.
La voce di mia madre.
«Salve, questa è la residenza di Jacob, Susan e Ruby Daly…»
Non so perché mi misi a piangere in quel momento. Forse perché ero sfinita.
Forse ero stanca di quanto ogni cosa fosse diventata difficile. Ero felice che loro
tre fossero insieme, che la mamma e il papà avessero aggiustato la loro famiglia
e avessero sostituito una Ruby con un’altra. La cosa di cui mi ero convinta
sempre di più negli ultimi giorni era quanto fosse importante prenderci cura gli
uni degli altri e rimanere uniti. E loro si stavano prendendo cura gli uni degli
altri. Bene.
Bene.
Ma ciò significava che non potevo chiudere gli occhi e fingere, anche solo per
pochi minuti, di essere ancora la Ruby che abitava a Millwood Drive.
30

O più tardi, quando eravamo solo noi tre di nuovo sulla strada, finalmente
RE

avemmo la possibilità di raccontare a Liam nei dettagli cosa fosse successo la


notte precedente.
«Grazie a Dio, Ciccio ti ha trovata», disse Liam. «Lo conoscevi meglio di tutti
noi, eppure ci sei andata lo stesso.»
«Pensavo davvero di poterlo controllare», dissi, poggiando la fronte sul
finestrino fresco. «Sono un’idiota.»
«Sì, lo sei», concordò Ciccio. «Ma sei la nostra idiota, perciò vedi di fare più
attenzione la prossima volta.»
«Sottoscrivo», disse Liam, intrecciando le dita alle mie sul bracciolo.
Avevamo trovato un’auto abbandonata lungo una strada laterale a pochi
chilometri di distanza da East River, e l’avevamo scelta solo perché aveva
ancora un quarto del serbatoio pieno. Guidarla non era affatto come guidare
Betty. Le lunghe gambe di Ciccio mi puntavano nello schienale, e c’era odore di
cibo cinese stantio. Comunque, funzionava. Con il tempo, sarebbe diventata
nostra.
«Eccone un’altra», disse Ciccio, battendo le dita sul finestrino.
Aprii gli occhi e torsi il collo all’indietro, cogliendo al volo il palo bianco. In
cima c’era una scatola bianca, e sopra a quella un’antenna. Telecamere ovunque.
«Forse dovremmo uscire dall’autostrada», suggerì Liam.
«No!» esclamò Ciccio. «Abbiamo visto solo due auto da quando siamo entrati
sulla 64, e ci metteremo il doppio del tempo ad arrivare ad Annandale se
usciamo di nuovo. In ogni caso staranno cercando Betty, non questa.»
Liam e io ci scambiammo uno sguardo. «Ripetimi cosa diceva il messaggio di
tua madre.»
«Diceva di prenotare un tavolo al ristorante di mia zia e aspettarli in cucina»,
rispose Ciccio. «L’ho fatto da East River, quindi non dovremmo avere problemi
a incontrarli stasera. Mia zia potrebbe persino darci da mangiare.»
«Accompagniamo prima te, allora», disse Liam.
«No», rispose Ciccio. «Voglio consegnare la lettera di Jack.»
«Ciccio…»
«Non chiamarmi Ciccio con quel tono», scattò. «Sono in debito con Jack.
Voglio farlo io.»
L’indirizzo del padre di Jack era un motel della catena Days Inn, lontano dai
quartieri residenziali tentacolari di Annandale. Liam ipotizzò che fosse stato
convertito in abitazioni temporanee per gli impresari impegnati nella
ricostruzione di Washington, ma non ci fu modo di provare la sua teoria finché
fummo affiancati, nel parcheggio, da un vecchio autobus scassato da cui scesero
una decina di uomini impolverati, che stringevano tra le mani giacchette
fosforescenti ed elmetti anti-infortunio.
«Stanza uno-zero-tre», disse Liam, sporgendosi oltre il volante. Strizzò
l’occhio sano. «Il tizio con la camicia rossa. Sì, è lui; Jack gli assomigliava un
sacco.»
L’uomo era basso e squadrato, con baffi grigi e un naso largo.
Ciccio si sporse in mezzo a noi e mi tolse di mano la lettera spiegazzata.
«Rallenta, Turbo», disse Liam, chiudendo la sicura sulle portiere. «Non
abbiamo nemmeno controllato che non sia sorvegliato.»
«Siamo qui fuori da quasi un’ora; tu vedi qualcuno? Le altre auto nel
parcheggio sono vuote. Abbiamo tenuto un profilo basso, come volevi tu, e ha
funzionato.» Si sporse di nuovo e tolse la sicura manualmente.
Liam lo fissò per un attimo, poi lasciò perdere. «D’accordo; ma fai attenzione,
va bene?»
Lo osservammo attraversare il parcheggio di corsa, guardandosi intorno.
Accertandosi che non ci fosse davvero nessuno a sorvegliare la stanza 103. Si
voltò a guardarci da sopra la spalla con un’espressione che diceva: Ve l’avevo
detto.
«Bene», disse Liam. «Grazie tante.»
Mi avvicinai e gli accarezzai una spalla. «Lo sai che ti mancherà.»
«È pazzesco, non è vero?» disse, con una risatina. «Cosa farò senza Ciccio a
spiegarmi quanto è pericoloso aprire il cibo in lattina dalla parte sbagliata?»
Liam attese che Ciccio avesse alzato la mano per bussare prima di slacciarsi la
cintura e chinarsi verso di me per darmi un bacio leggero.
«E questo per cos’era?» chiesi, ridendo.
«Per farti concentrare sul futuro», disse. «Dopo aver portato Ciccio a casa,
dobbiamo capire come trovare Zu e gli altri prima delle FSP.»
«E se…»
La porta della stanza 103 si socchiuse, facendo comparire il viso del signor
Fields, stanco e sospettoso. Ciccio sollevò la lettera spiegazzata e la tese verso di
lui. Avrei voluto che si girasse un po’ di lato per vedere cosa stava dicendo.
Il viso dell’uomo si tinse di cremisi, così scuro da coordinarsi alla camicia da
lavoro che indossava. Urlò qualcosa in tono così alto da far affacciare i vicini
alla finestra, scostando le tende.
«Sta andando male», disse Liam, aprendo la portiera. «Sapevo che avrei
dovuto fargli fare una prova con me, prima.»
L’uomo sbatté la porta in faccia a Ciccio, solo per spalancarla di nuovo. Vidi
un lampo argentato, vidi Ciccio alzare le mani e fare un passo indietro.
Lo sparo lacerò il tramonto e, quando riuscii a urlare, Ciccio era già caduto a
terra.

Corremmo verso la stanza, gridando il suo nome. Tutti gli abitanti del
complesso ormai erano all’esterno; la maggior parte uomini, alcune donne. I loro
volti erano macchie mostruose.
Il padre di Jack alzò la pistola tremante verso di noi, ma Liam lo spinse
all’indietro dentro la camera e chiuse la porta con un gesto agile della mano.
Scivolai con le ginocchia sull’asfalto sbriciolato, accasciandomi accanto a
Ciccio.
Aveva gli occhi aperti, fissi su di me, e batteva le palpebre. Era vivo.
Tentò di dirmi qualcosa, ma non riuscivo a sentire a causa delle urla
provenienti dalla stanza 103. «Fottuti mostri! Andatevene di qui, maledetti
mostri!»
Sangue rosso acceso gorgogliava appena sotto la spalla destra di Ciccio,
allargandosi sulla maglia come centinaia di viscide dita. Non riuscii a fare nulla,
sul momento. Non mi sembrava vero. Liam che si tuffava per afferrare la pistola
dell’uomo, puntandola verso le stanze 104 e 105, non poteva essere reale.
«Va tutto bene», disse qualcuno alle nostre spalle. Liam si voltò di scatto, con
il dito sul grilletto e il viso impietrito. L’uomo alzò le mani, reggendo un piccolo
telefono. «Sto solo chiamando il 911, va tutto bene; faremo arrivare i soccorsi.»
«Non farli chiamare», esclamò Ciccio. «Non lasciare che mi prendano.» Le
parole gli si strozzarono in gola. «Devo andare a casa.»
Liam si guardò alle spalle. «Afferragli le gambe, Ruby.»
«Non spostatelo», disse l’uomo della 104. «Non bisogna spostarlo!»
Il padre di Jack apparve di nuovo alle nostre spalle, ma l’uomo con il cellulare
lo spinse nella stanza e gli chiuse la porta alle spalle con un calcio.
«Afferralo», disse Liam, infilandosi la pistola nella cintura dei jeans.
Feci scivolare le braccia sotto quelle di Ciccio, sollevandolo nello stesso modo
in cui lui aveva sollevato me. Uno degli uomini presenti fece un passo avanti,
forse per fermarci, forse per aiutarci.
«Non toccatelo!» gridai. Indietreggiarono, poco convinti.
Ciccio si premette le mani sulla ferita, gli occhi spalancati e fissi. Liam gli
sollevò le braccia e insieme lo trasportammo. Gli uomini ci chiamarono, dicendo
che l’ambulanza sarebbe arrivata di lì a poco. L’ambulanza, insieme alle FSP. I
soldati non lo avrebbero salvato, certo che no. Avrebbero di gran lunga preferito
vedere un mostro morire.
«Non lasciate che mi prendano», riuscì a dire Ciccio. «Tienimi le gambe più
basse del torace, Lee, non alzarle così tanto, non per le ferite al petto, non riesco
a respirare…»
Non erano le chiacchiere che mi trafiggevano il cuore con schegge di paura,
ma l’infinita scia di sangue che filtrava tra le sue mani. Tremava, ma non
piangeva. «Non lasciate che mi prendano…»
Mi arrampicai per prima sul sedile posteriore, tirando Ciccio dietro di me. Il
suo sangue mi aveva impregnato il davanti della camicia, e mi bruciava sulla
pelle.
«Continua… a premerci sopra», mi disse Ciccio. «Più forte… Ruby, più forte.
Adesso provo a… trattenerlo con…»
Le sue abilità, forse. Il sangue sembrò rallentare un po’ quando tornò a coprire
la ferita con la sua mano. Ma quanto poteva durare? Le mie mani coprivano la
sua, tremando a tal punto che forse facevano più danno che beneficio.
«Oh mio Dio, non chiudere gli occhi… parlami, continua a parlarmi, dimmi
cosa fare!» esclamai.
L’auto stridette uscendo dal parcheggio. Liam affondò l’acceleratore più che
poté, battendo i palmi delle mani sul volante. «Merda, merda, merda!»
«Portatemi a casa», supplicò Ciccio. «Ruby, digli di portarmi a casa.»
«Andrà… andrà tutto bene», gli dissi, chinandomi affinché potesse guardarmi
negli occhi.
«Mio padre…»
«No… Lee, ospedale!» Non riuscivo nemmeno a formulare frasi compiute, e
Ciccio nemmeno, non più. Fece un verso come se si stesse strozzando con la sua
stessa lingua.
Quando comparvero le prime immagini, erano tinte dello stesso rosso brillante
del suo sangue. Un uomo seduto su una grossa poltrona, immerso nella lettura.
Una donna bellissima dall’altra parte di un tavolo da cucina. Un ricamo a punto
croce. L’insegna di un pronto soccorso. Il nero ai margini del mio campo visivo
stava aumentando. Qualcuno aveva preso un coltello e me lo aveva piantato
dritto nel cervello.
«Alexandria è a mezz’ora da qui», gridò Liam, voltandosi a parlarci da sopra
la spalla. «Non ti porto fin laggiù!»
«Fairfax Hospital», sibilò Ciccio. «Mio papà… dite di chiamare mio papà…»
«Dov’è?» chiese Liam in tono deciso. Guardò verso di me, ma nemmeno io ne
avevo idea. Mi venne in mente in quel momento che rischiavamo di girare in
tondo così a lungo che Ciccio sarebbe morto. Sarebbe morto dissanguato proprio
lì, sulle mie ginocchia. Dopo tutto quello che avevamo passato.
Liam fece inversione così bruscamente che quasi sbalzò via dal sedile sia
Ciccio sia me. Mi morsi la lingua nel tentativo di non urlare ancora.
«Continua a parlargli!» disse Liam. «Ciccio… Charles!»
Non so quando e dove avesse perso gli occhiali. Aveva gli occhi cerchiati di
rosso, fissi sul mio viso. Sostenni il suo sguardo più che potei, ma stava tentando
di darmi qualcosa. Ciccio alzò la mano da dove l’aveva abbandonata sulla
pancia.
La lettera di Jack. I bordi zuppi di sangue rosso e appiccicoso, ma ancora
aperta.
In attesa di essere letta.
La calligrafia era minuta e compatta. Ogni lettera aveva un alone intorno, per
tutto il tempo che aveva trascorso immersa insieme a noi nel lago, e alcune erano
scomparse del tutto.

Caro papà,
quando mi hai mandato a scuola quella mattina, pensavo che mi volessi
bene. Ma ora ti vedo per ciò che sei veramente. Mi hai chiamato mostro,
scherzo della natura. Ma sei tu che mi hai cresciuto.

«Digli di leggere…» Ciccio si leccò le labbra. Dovetti chinarmi su di lui per


sentire la sua voce al di sopra del vento all’esterno. «Di’ a Liam di leggere la mia
lettera. L’ho scritta… era per lui.»
«Charles», dissi.
«Promettimelo…» Avevo qualcosa incastrato in gola che mi rendeva
impossibile parlare. Annuii. Il sangue tornò a scorrere sotto le nostre mani più
forte di prima.
«Dove si trova?» Liam gridava. «Ciccio, dov’è l’ospedale? Devi dirmi dove si
trova!»
L’auto iniziò a vibrare e poi a ululare, con un suono più simile a una belva che
a una macchina. Liam centrò una buca nella strada con tale violenza da far
volare via il cofano, insieme a una nuvola di fumo grigio-blu. Riuscimmo a
proseguire per qualche metro, ma poi l’auto si fermò, sconfitta.
«Posso aggiustarla», giurò Liam, con voce rotta. «Posso aggiustarla, ma tu…
fallo continuare a parlare, okay? Posso aggiustarla. Sul serio.»
Aspettai di sentire la portiera sbattere alle sue spalle prima di chiudere gli
occhi. Ciccio era così pallido e immobile che nessuno scossone o urlo lo avrebbe
riportato indietro. Sentii il suo sangue filtrarmi tra le mani, scarlatto sotto il cielo
plumbeo, e pensai a ciò che aveva detto la notte in cui Zu ci aveva lasciati: È
finita. È tutto finito.
Lo era davvero. La calma innaturale che si posò su di me ne era la conferma.
Per tutto il tempo avevo lottato. Avevo iniziato a lottare nel momento in cui
avevo lasciato Thurmond, ribellandomi alle restrizioni che tutti volevano
impormi, scalciando e graffiando per proteggermi dall’inevitabile. Ma ero stanca
ormai. Così stanca. Non potevo negare ciò che una parte di me aveva saputo sin
dal momento in cui le FSP avevano distrutto il mio mondo in un incendio. Ciò
che una parte di me aveva sempre saputo.
Cosa aveva detto la signorina Finch, tanti anni prima? Che non si tornava
indietro, non c’erano seconde opportunità. Che quando qualcuno se ne andava,
se ne andava per sempre. Che i fiori morti non sbocciavano più, e non
crescevano più. Ciccio, da morto, non avrebbe sorriso, non avrebbe sputato
sentenze sconnesse, non avrebbe fatto il muso, non avrebbe riso. Ciccio da
morto era inimmaginabile.
Infilai la mano nella tasca del giubbotto di Liam e premetti il pulsante
d’emergenza. Trascorsero venti secondi, ciascuno apparentemente più lungo del
precedente. Poi fece una piccola vibrazione, un cenno di assenso, e lo lasciai.
All’esterno, Liam sbatteva metallo su metallo, sempre più indifeso e
arrabbiato a ogni secondo che passava. Volevo richiamarlo vicino a noi, perché
rimanesse accanto a Ciccio, visto che ero sicura che fosse arrivato il momento.
Ero sicura che sarebbe morto tra le mie braccia, meno di ventiquattr’ore dopo
avermi salvata. E non potevo fare altro che tenerlo stretto a me.
«Non morire», sussurrai. «Non puoi morire. Devi studiare matematica, e
andare alle partite di football e al ballo di fine anno e fare domanda per il college
e non puoi assolutamente morire. Non puoi… non puoi…»
Mi distaccai del tutto. Un torpore familiare mi pervase. Mi resi vagamente
conto che Liam stava urlando qualcosa all’esterno. Strinsi le braccia intorno al
petto di Ciccio. Udii dei piedi battere sull’asfalto, fuori; non sentivo altro odore
che quello del sangue e del fumo. Non udivo nient’altro che il battito del mio
cuore.
In quel momento la portiera davanti a me si spalancò e comparve il viso di
Cate.
Fu a quel punto che mi sciolsi in lacrime.
«Oh, Ruby», disse lei, angosciata. «Ruby.»
«Per favore, aiutalo», singhiozzai. «Ti prego!»
Due paia di mani sbucarono nell’abitacolo e mi tirarono fuori. Avevo ancora
le braccia strette intorno a Ciccio. Non riuscivo a muovere le mani. C’era tanto
sangue. Scalciai e mi dimenai contro chiunque tentasse di separarci.
«Ruby, tesoro», disse Cate, d’un tratto accanto a me. «Ruby, devi lasciarlo
andare ora.»
Avevo fatto un errore. Quello era un errore. Non avrei mai dovuto chiamarli.
Un rumore terribile riempì l’aria, e solo quando Liam arrivò a trattenermi,
cingendomi le spalle con le sue braccia, mi resi conto di aver urlato per tutto il
tempo.
Tre auto circondavano il nostro rottame fumante. Tutti SUV.
«Se lo aiutate, verremo con voi», sentii Liam dire a Cate. «Verremo con voi.
Faremo tutto quello che volete.»
«No», urlai. «No!»
Liam mi teneva ferma, ma sentivo il tremito nelle sue braccia. Li guardammo
caricare il corpo immobile di Ciccio nel retro di uno dei SUV, e la portiera si era
appena richiusa quanto partì a tutta velocità sull’autostrada. Il sangue di Ciccio
era ancora caldo sulla mia pelle, si raffreddava ogni secondo di più, e mi faceva
venire voglia di strisciare via lontano.
«Ti prego», disse Liam con voce rotta. «Calmati. Devi calmarti. Ci sono io.
Sono qui.»
Avvertii una puntura sulla nuca; quasi impercettibile, più rapida di un respiro.
All’improvviso, sentii i muscoli rilassarsi. Fui trascinata in avanti sulle gambe
molli, mentre l’immagine del SUV bianco più vicino appariva e scompariva,
sfocata. Lee? avrei voluto dire, ma avevo la lingua troppo pesante. Mi infilarono
un cappuccio nero sulla testa, e fui sollevata in alto, sempre più in alto, come
faceva mio padre quando ero bambina. Quando pensavo di poter crescere e
imparare a volare.
Poi venne l’oscurità totale.
31

F l’acqua fredda a svegliarmi, più della voce morbida della donna. «Va tutto
U

bene», mi diceva. «Ruby, vedrai che starai bene.» Non so chi credesse di
imbrogliare con la sua recita sdolcinata, ma di certo non me.
L’odore di rosmarino era tornato, e mi riempiva il naso di un ricordo che
sembrava allo stesso tempo antico e nuovo. Ma quale dei due?
Quando sentii la sua mano premere sulla mia, mi costrinsi ad aprire gli occhi,
battendo più volte le palpebre alla luce del sole. Il viso di Cate appariva e spariva
davanti a me. Si alzò e attraversò la stanza, chiudendo le tende sottili. Questo
migliorò in parte le cose, ma avevo ancora difficoltà a fissare lo sguardo su un
qualunque oggetto. Rimbalzava su superfici accese e luminose. Una cassettiera
bianca, carta da parati lilla, una sveglia lampeggiante, uno specchio sulla parete
opposta e, dentro, il riflesso di noi.
«È tutto reale?» sussurrai.
Cate era seduta sul bordo del mio letto, esattamente come aveva fatto a
Thurmond, solo che non sorrideva. Dietro di lei, Martin, con addosso pantaloni
mimetici e stivali, era appoggiato alla parete. Mi sembrava una persona
completamente diversa. Non lo avevo nemmeno riconosciuto, al primo sguardo.
Il suo viso era smagrito e gli occhi sembravano affondare ancora di più nella
testa. Qualcuno era stato così stupido da mettergli in mano un’arma da fuoco.
«Siamo in una casa-rifugio appena fuori dal Maryland», disse.
«Lee?»
«Anche lui è qui al sicuro.»
Non al sicuro, pensai; mai al sicuro, con te.
Sentii montarmi fin nelle ossa il desiderio di scappare; ormai era un istinto. Lo
sfinimento e il dolore mi avevano portato via ogni altra sensazione. Percorsi la
stanza con gli occhi: due finestre, l’unica via di uscita oltre alla porta. Avrei
potuto rompere il vetro. Far arretrare Cate sfiorandole appena la mente, trovare
Liam e fuggire con lui prima che qualcuno se ne accorgesse. Avrebbe potuto
funzionare.
«Non provarci neanche», disse Cate, seguendo il mio sguardo. Estrasse un
piccolo oggetto argentato dalla tasca posteriore dei jeans e me lo porse,
voltandolo verso l’alto a rivelare la superficie ruvida di un altoparlante. «Anche
se riuscissi a oltrepassare me, ognuno degli agenti di sotto ha uno di questi. A
giudicare dal tuo ultimo incontro con il Controllo della Calma, non sarai molto
utile a Liam quando lo cattureranno e lo giustizieranno per la tua
insubordinazione.»
Mi scostai con uno scatto. «Non lo farebbero…» Ma vidi nei suoi occhi che
diceva la verità. Lo avrebbero fatto eccome. Avevano rischiato il tutto per tutto
tirandomi fuori da Thurmond. Avevano combattuto con i tracciatori per
riprendermi. Avevo già visto nella mente di Rob che, a prescindere dalla
missione che dichiaravano di avere, non si facevano tanti problemi a far fuori dei
ragazzi se serviva ad acciuffare quelli che volevano loro.
«Come puoi anche solo pensarci?» sibilò Martin. «Sai quanto tempo ha
sprecato a cercarti?»
Cate lo zittì con un gesto. Quando si chinò di nuovo su di me, notai degli
schizzi di sangue sulla sua camicia.
Scuro. Secco.
Misi a fuoco i miei ricordi con chiarezza dolorosa. «Ciccio… cos’è successo a
Ciccio?»
Cate abbassò lo sguardo sulle mani, e qualcosa dentro di me si contrasse.
«Onestamente», disse, «non ne sono sicura. Non siamo riusciti a contattare il
gruppo di agenti che lo ha preso in custodia, ma so che sono arrivati
all’ospedale.» Fece per prendermi la mano, ma non glielo permisi. Il solo
pensiero mi dava il voltastomaco. «È al sicuro. Faranno in modo che qualcuno si
prenda cura di lui.»
«Non lo sai con certezza», dissi. «Lo hai detto tu stessa.»
«Però credo che sia così.»
Stavo per dirle che quello che credeva non valeva un fico secco, quando
aggiunse: «Ti sto cercando da un mese. Sono rimasta in quest’area nella
speranza che prima o poi saresti sbucata, ma Ruby, dov’eri? Dove sei stata? Hai
un aspetto…»
«East River», risposi.
Cate fece un respiro strozzato. Allora anche la Lega aveva saputo cos’era
successo.
«Oh, perfetto», disse Martin, staccandosi dalla parete. Fece scivolare la
tracolla del fucile sopra la spalla e si diresse verso di me. «Seduta lì a far niente,
per settimane? Ovvio. Io invece ho fatto la differenza. Sono stato parte di
qualcosa.»
Fece per toccarmi la gamba, ma gli afferrai il polso e lo strinsi forte. Volevo
vedere con i miei occhi quello che aveva passato: l’addestramento, gli istruttori
che urlavano. Mi agganciai al ricordo più forte e lo aprii nella mia mente. Volevo
vedere il nostro futuro.
Il ricordo di Martin gorgogliò cupo come pece incandescente, agitandosi e
prendendo forma fino a farmi trovare dove si era trovato lui. Il pacco che era
stato pesante tra le sue mani in quel momento era tra le mie. Ne sentii il peso, ma
i miei occhi erano fissi sui numeri del display dell’ascensore: 11, 12, 13…
Un campanello suonò a ogni piano, fino al 17.
Sbirciai la ragazza accanto a me, che indossava un tailleur con la gonna e
aveva uno strato di trucco abbastanza spesso da farla apparire di diversi anni più
grande. Stringeva al fianco la borsa di pelle come uno scudo: solo quando mollò
la presa, mi accorsi di quanto le tremassero le mani.
Indossavo un’uniforme della FedEx; mi vedevo attraverso gli occhi di Martin,
riflesso nelle porte argentate dell’ascensore che si aprivano.
Ci trovavamo in un edificio che ospitava degli uffici. Fuori era buio, ma
c’erano ancora uomini e donne al lavoro, con gli occhi incollati agli schermi dei
computer. Non mi fermai, però, e nemmeno la ragazza accanto a me. Aveva
iniziato a sudare, persino sul viso, abbastanza da farle colare il trucco; a quella
vista, provai un lampo di irritazione.
L’ufficio più grande si trovava nell’angolo in fondo a destra, ed era lì che ero
diretto. La ragazza trattenne a malapena un sospiro di sollievo quando la lasciai
accanto al distributore d’acqua. Era solo un rinforzo; la missione era mia.
La porta dell’ufficio era chiusa, ma vedevo la sagoma di una persona
attraverso il vetro opaco. È ancora qui. E anche, per fortuna, la sua assistente.
Mi sembrò confusa alla vista del pacco, ma dovetti solo sfiorarle il dorso della
mano. I suoi occhi divennero vacui, sfocati; capii di averla in pugno.
La donna anziana si alzò dalla sedia e si voltò verso la porta dell’ufficio.
Lasciai il pacco sulla sua scrivania.
Senza quel peso, corsi indietro nel labirinto di postazioni di lavoro,
incrociando lo sguardo della ragazza accanto al distributore d’acqua. Quando
indicai con la testa l’ascensore, mi seguì, spostando lo sguardo da quello al resto
dell’ufficio, mordendosi il labbro.
Non fece nulla di stupido finché fummo fuori, comunque.
Corsi giù per gli scalini, diretto verso il furgone FedEx in attesa e verso
l’uomo dai capelli scuri che era al volante. Avevo quasi raggiunto la portiera
quando mi accorsi che la ragazza non era più dietro di me. Era immobile, come
di ghiaccio, in cima ai gradini di marmo, con gli occhi spalancati e pallida come
la pietra sotto i suoi piedi.
Stava per tornare di corsa dentro all’edificio per dare l’allarme sull’esplosivo,
per avvisarli. Debole.
Le parole mi penetrarono la mente, limpide come se vi fossero state scolpite:
Scappa e muori. Tradisci la Lega e muori.
Presi la pistola da sotto il sedile e mi sporsi fuori dal finestrino. Ma non ebbi
l’occasione di sparare. Di sopra, al diciassettesimo piano, un’esplosione lanciò
una pioggia di frammenti di vetro e cemento, e la ragazza scomparve sotto al
loro peso.
La mano di Martin rimase accanto a me, e lui smise di muoversi. Ecco cosa
significa essere uno di loro, pensai. Ecco in cosa ci trasformeranno. Ero scivolata
nella sua mente per confermare i miei sospetti, ma persino io fui sorpresa di
quanto fosse stato facile.
Settimane addietro, quando eravamo appena evasi, non ero stata in grado di
respingerlo, invece ormai bastava che mi sfiorasse la mano e potevo schiacciarlo
sotto il mio potere. Con un solo tocco.
Clancy mi aveva addestrata bene.
Guardai di nuovo Martin, sentendo una strana pena nei suoi confronti. Non
per quello che stavo per fare, o per il modo in cui stavo per usarlo, ma perché
credeva di sapere cosa significasse essere potenti e avere il controllo. Credeva
davvero di essere ancora più forte di me.
Posai un dito sul dorso della sua mano, solo uno. «Come ti chiami?»
La sua reazione fu impagabile. Sulle sue guance non rimase traccia di colore,
e le sue labbra iniziarono a tremare, nel tentativo di formulare una parola, di
ripescare un ricordo che non esisteva più.
«Da dove vieni?»
Ormai vedevo il panico nei suoi occhi. Ma non avevo ancora finito.
«Sai dove ti trovi ora?»
Mi sentii quasi in colpa – quasi – quando vidi i suoi occhi umidi. Ma mi
ricordai di quanto mi avesse fatta sentire indifesa e spaventata, e rimpiansi di
non aver fatto di più. Un piano si stava già formando in fondo alla mia mente, ed
era così terribile che non lo riconoscevo come mio.
«Io non…» Inciampò nelle parole. «Non…»
«Allora forse dovresti andartene», dissi in tono freddo.
Dovetti spingere appena in avanti l’immagine della sua fuga. Scappò di corsa
dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle. Fuggendo dal mostro spaventoso.
Cate lo guardò andare via, con un’espressione indecifrabile sul viso.
«Impressionante.»
«Ho pensato che gli avrebbe fatto bene cambiare un po’ atteggiamento», dissi.
Mantenni una voce piatta e fredda, proprio come pensavo che lei la volesse.
Avevo visto abbastanza da conoscere ormai il livello di ferocia che quelle
persone richiedevano, e avevo bisogno che mi volessero. «Dato che sembra che
passeremo molto tempo insieme, d’ora in poi.»
Cate chinò la testa e i suoi capelli biondissimi le scivolarono sulle spalle, ma
non lo negò. Eravamo intrappolati lì. Aveva accettato la proposta di Liam.
«Immagino che non sia stata mai davvero una scelta», continuai. «Prima o poi
avresti dovuto portarmi qui.»
«Sei una risorsa di grande valore per la resistenza.» Cate alzò una mano verso
di me, ma la fece cadere prima di toccarmi il viso. Era una donna intelligente.
Sapeva cosa ero in grado di fare. «Speravo che saresti riuscita a vederlo, al
momento giusto.»
«E che ne sarà di Lee?»
«È un rischio per la sicurezza ora che ha visto questa casa-rifugio e gli agenti
che ci sono qui. È più al sicuro con noi, Ruby. Il presidente lo vuole morto. Sono
certa che lo capirà anche lui… prima o poi.»
Le mie mani torsero ancora una volta le lenzuola sbiadite. Un’arma. Liam era
un’arma. Liam, che non riusciva neanche a perdere la pazienza senza sentirsi in
colpa. Si era battuto tanto per sfuggire a quella violenza, e io lo avevo
riconsegnato ai suoi aguzzini. Gli avrebbero messo le mani addosso e lo
avrebbero plasmato come volevano, e ne sarebbe uscito solo diventando la stessa
creatura oscura che si era sforzato di evitare di diventare.
Respiravo a fatica ormai, anche se dentro di me ero calma come le acque del
lago di East River. Finalmente, tutti i pezzi andarono al proprio posto, e capii
cosa dovevo fare.
«D’accordo», dissi. «Resterò e non combatterò contro di voi e non vi
manipolerò. Ma se volete che faccia come dite… se volete usare le mie abilità, o
farmi degli esami, c’è una condizione: dovete lasciar andare Lee.»
«Ruby», replicò Cate, scuotendo la testa. «È troppo pericoloso, per tutte le
persone coinvolte.»
«È un Blu. Non avete bisogno di lui. Non sarà mai un combattente, non come
vorreste voi.»
E se resta qui, lo ucciderete.
Ucciderete tutto ciò di buono che c’è in lui.
«Posso fare tanto, ora», le dissi, «ma non ne vedrete neanche una briciola
finché non lo lascerete andare. Finché non mi avrete giurato di non inseguirlo.»
Cate mi osservò per un momento, premendosi una mano sulla bocca. Vedevo
l’indecisione sul suo viso. Avevo usato Martin per mostrarle esattamente cosa
potessi offrire alla Lega, e lui, a quanto pareva, aveva già dimostrato loro quanto
valore potesse avere un Arancione. Quelli, però, non erano i termini che Cate
avrebbe scelto.
«D’accordo», disse alla fine. «D’accordo. Può andarsene.»
«Come faccio a sapere che manterrai la promessa?»
Lei si alzò e si mise di nuovo la mano in tasca. L’aggeggio argentato per il
Controllo della Calma, l’unica cosa che mi teneva fuori dalla sua mente, era
ancora caldo quando me lo premette nel palmo della mano. Strinsi le dita intorno
alle sue.
«Giuro su Dio», scandii, quando Cate alzò gli occhi nei miei. «Se rinneghi la
tua parola, ti farò a pezzi. E non mi fermerò, non prima di aver distrutto la tua
vita e la vita di ogni singola persona in questa organizzazione. Credimi, tu forse
non manterrai sempre le tue promesse, ma io sì.»
Cate annuì una volta, e nei suoi occhi c’era qualcosa che sembrava orgoglio.
«Capito», disse, ed era vero.

* * *

Liam era stato sistemato in una camera al lato opposto del corridoio, dipinta di
azzurro chiaro, tipo quello che si vede di solito solo prima dell’alba, forse. Un
tempo doveva essere stata la stanza dei bambini. C’erano nuvole dipinte sul
soffitto, e i pochi mobili rimasti erano troppo piccoli per un adulto di media
corporatura.
Liam era seduto sul lettino, dandomi le spalle. Appena entrai e chiusi la porta,
pensai che stesse guardando fuori dalla finestra. Avvicinandomi, però, vidi che
fissava il foglio stropicciato che teneva in mano.
Il letto si inclinò quando ci strisciai sopra, abbracciando il petto di Liam da
dietro. Premetti la guancia sulla sua, lasciando che le mie mani vagassero fino a
trovare il battito costante del suo cuore.
Lui chiuse gli occhi, appoggiandosi a me.
«Cosa stai guardando?» sussurrai.
Mi passò il foglio senza dire una parola, e mi spostai per sedermi accanto a
lui. La lettera di Jack Field.
«Avevi ragione», disse dopo un poco. «Avevi proprio ragione. Avremmo
dovuto leggerla. Avremmo dovuto sapere che non ne valeva la pena.»
Fu il suo tono funereo, piatto, intriso di dolore, che mi fece appallottolare la
lettera e scagliarla dall’altra parte della stanza. Liam si limitò a scuotere la testa,
posandosi una mano sugli occhi. Annaspai nella tasca del suo giubbotto, dove
avevo infilato la lettera di Ciccio giorni addietro. Liam mi guardò tirarla fuori e
si accasciò accanto a me.
«Mi ha detto di non averla scritta per loro», dissi. «L’ha scritta per te. Voleva
che fossi tu a leggerla.»
«Non voglio.»
«Sì che vuoi, invece. Perché quando te ne andrai da qui, vorrai avere qualcosa
da dire quando lo rivedrai.»
«Ruby.» In quel momento sembrava arrabbiato. Scostò il braccio che teneva
intorno alle mie spalle e si alzò. «Pensi davvero che se sopravvive ci
permetteranno di vederlo? Pensi che ci lasceranno rimanere insieme? Questa
gente non lavora così. Controlleranno ogni nostro movimento, persino chi
incontriamo e cosa mangiamo. Credimi, sarà davvero un gran colpo di fortuna se
riusciamo anche solo a scoprire se è ancora vivo, figuriamoci se l’hanno portato
qui per addestrarlo.»
Liam fece il giro della stanza una, due, tre volte, e mi sembrò che fosse
passata un’ora prima di trovare il coraggio di aprire la lettera di Ciccio da sola.
La stanza rimase silenziosa a lungo.
«Cosa dice?» chiese Liam, alla fine.
Era vuota. Sul foglio non c’era nulla scritto, tranne il nome dei genitori di
Ciccio e il loro indirizzo. Non c’era mai stato niente. Neanche una goccia di
inchiostro.
«Non capisco…» dissi, passandogliela. Non poteva essere. Forse aveva perso
la lettera originale, oppure l’aveva tenuta lui… Quando alzai di nuovo lo
sguardo, Liam stava piangendo. Una mano stringeva la lettera nel pugno, e
l’altra copriva gli occhi. Mi resi conto di conoscere già la risposta.
Ciccio non aveva scritto niente perché non pensava di averne bisogno.
Pensava di poter dire di persona ai suoi genitori tutto ciò che voleva. Credeva
che sarebbe riuscito a tornare a casa.
Le ginocchia di Liam cedettero, e si sedette di nuovo sul letto. Si chinò fino ad
appoggiare la fronte alla mia spalla, e io lo abbracciai. Ti ha creduto davvero,
avrei voluto dirgli. Per tutto il tempo, ti ha creduto.
Mi sentii vecchia in quel momento. Come se non avessi avuto sedici anni, né
sessanta e nemmeno cento, ma mille. Più vecchia, ma non fragile. Mi sentii
come una di quelle querce che crescono lungo l’autostrada che fiancheggia la
Shenandoah Valley, con radici profonde e un cuore forte.
Se ne può andare, pensai, può tornarsene a casa.
Lo tenni stretto a me a lungo. Volevo memorizzare il modo in cui i suoi capelli
si arricciavano sulle punte, la cicatrice all’angolo della sua bocca. Non avevo
mai percepito quanto il tempo potesse ferire come in quel momento. Perché
sembrava sempre o congelarsi o correre a velocità vertiginosa?
«La cosa pazzesca è che avevo tutti questi piani in mente», sussurrò Liam.
«Quello che avremmo fatto. Tutti i posti in cui ti avrei portata. Avrei davvero
voluto presentarti a Harry.» La finestra lasciava filtrare la luce pomeridiana.
Sentii la sua mano scorrere lungo il mio braccio. «Andrà tutto bene», continuò.
«Solo non possiamo lasciare che ci separino.»
«Non lo faranno», mormorai. «Stavo pensando… so che sembrerà
terribilmente sdolcinato, ma… se c’è qualcosa di buono in tutto questo, è che ci
siamo incontrati. Rifarei tutto di nuovo…» Le lacrime mi facevano bruciare gli
occhi. «Rifarei tutto, se significasse arrivare a incontrare te.»
«Lo pensi davvero?» Liam si raddrizzò e mi posò le labbra sui capelli.
«Perché, francamente, per come la vedo io, tu e io? Inevitabile. Immaginiamo
pure di non essere finiti in quei maledetti campi… No, ascolta. Adesso ti
racconto la fantastica storia di noi due.»
Si schiarì la voce e si voltò verso di me.
«Dunque, è estate e tu sei a Salem, a patire un altro luglio caldo e noioso, e
lavori part-time in una gelateria. Naturalmente, non ti rendi affatto conto che
tutti i ragazzi del tuo liceo che vengono in negozio ogni giorno sono più
interessati a te che ai trentuno gusti di gelato. Tu sei concentrata sulla scuola e
sulle decine di club a cui appartieni, perché vuoi entrare in una buona università
e salvare il mondo. E, proprio quando penserai che preferiresti morire piuttosto
che fare un altro test standardizzato, tuo padre ti chiederà se vuoi andare a
trovare tua nonna a Virginia Beach.»
«Ah sì?» Poggiai la fronte sul suo petto. «E tu?»
«Io?» Mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Io sono a Wilmington, a patire un’altra estate calda e noiosa, e a lavorare per
l’ultima volta nell’officina di Harry prima di partire per qualche università
prestigiosa dove, vorrei aggiungere, il mio compagno di stanza sarà un saputello
dal cuore d’oro di nome Charles Carrington Meriwether IV… Ma non fa parte di
questa storia, non ancora.» Mi strinse il fianco, e sentivo le sue dita tremare,
anche se aveva la voce ferma. «Per festeggiare, mia mamma decide di portarci
tutti a Virginia Beach per una settimana. Siamo arrivati da un giorno solo quando
comincio a intravedere questa ragazza dai capelli scuri in giro per la città, con il
naso immerso in un libro e la musica a palla nelle cuffie. Ma, per quanto mi
impegni, non riesco mai a parlarle.
«Poi, con l’aiuto del nostro amico Destino, nel nostro ultimo giorno di
spiaggia la vedo. Vedo te. Sono nel mezzo di una partita di pallavolo con Harry,
ma sembra che tutti gli altri siano scomparsi. Stai venendo verso di me, con degli
enormi occhiali da sole e un vestito verde chiaro, e non so come ma so che si
abbina ai tuoi occhi. E, proprio in quel momento, dato che, diciamolo, sono
praticamente un dio dell’Olimpo quando si tratta di sport, riesco a sbatterti la
palla dritta in faccia.»
«Ahi», ridacchiai. «Sembra doloroso.»
«Beh, penso che tu possa immaginare la mia reazione. Mi offro di
accompagnarti alla postazione dei bagnini, ma tu mi incenerisci con lo sguardo
al solo suggerimento. Alla fine, grazie al mio brillante fascino e alla mia
intelligenza – e anche perché sono talmente patetico che ti faccio pena – mi
concedi di comprarti un gelato. E poi inizi a raccontarmi che a Salem lavori in
una gelateria, e che sei frustrata dal fatto di dover aspettare altri due anni prima
di andare al college. E in qualche modo, non so come, riesco a farmi dare la tua
email o l’indirizzo del tuo profilo online o forse, se sono proprio fortunato, il tuo
numero di telefono. E poi parliamo. Io vado al college e tu torni a Salem, ma ci
parliamo in continuazione, di tutto, e a volte facciamo quella cosa stupida di
quando non hai più niente da dire e rimani ad ascoltare il respiro dell’altro finché
uno dei due si addormenta…»
«…e Ciccio ti prende in giro», aggiunsi.
«Oh, senza remore», concordò Liam. «E tuo padre mi odia perché pensa che
stia corrompendo la sua bellissima, dolce figliola, ma comunque mi permette di
venire a trovarti di tanto in tanto. A quel punto, tu mi racconti che stai dando
ripetizioni a una bimba di nome Suzume, che vive in una città vicina…»
«…ed è la bimba più fantastica di tutto il pianeta», riuscii a tirare fuori.
«Esatto. Vuoi provare tu con il finale?»
A quel punto, non potei più trattenermi. Mi portai le mani al viso, premendomi
le dita sugli occhi.
Dovevo farlo in quel momento, altrimenti non sarei più stata in grado. Non
potevamo nasconderci lì per sempre. Avrebbero potuto cambiare idea da un
momento all’altro, con la stessa velocità di prima, e non lasciarlo più andare via.
Mi raddrizzai e mi asciugai le lacrime, stringendo i denti. Liam si tirò su e si
sedette al mio fianco sul bordo del letto, con uno sguardo preoccupato. Per un
attimo, temetti che sapesse ciò che stavo per fare.
Piegò la testa da un lato, e un sorrisetto gli increspò le labbra. Ricambiai il
sorriso, ma dentro di me stavo andando in pezzi. «Cosa?»
Quando ci avevano portati nei campi, ci avevano tolto tutto. I nostri amici e le
nostre famiglie, i nostri vestiti, il nostro futuro. L’unica cosa che avevamo potuto
tenere per noi erano i nostri ricordi, e stavo per sottrargli anche quelli.
«Chiudi gli occhi», sussurrai. «Voglio finire la storia.»
Sentii il formicolio in fondo alla mente e lasciai che si trasformasse in un
ruggito. E, quando lo baciai, quando le mie labbra premettero sulle sue un’ultima
volta, scivolare nella sua mente fu facile come lo era stato prenderlo per mano.
Avvertii il suo tentativo di ritrarsi, lo sentii chiamare il mio nome con voce
allarmata, ma non lo lasciai sfuggire. Mi cancellai dalla sua mente, pezzo dopo
pezzo, ricordo dopo ricordo, finché non rimase niente di Ruby ad appesantirlo o
a tenerlo legato al mio fianco.
Fu una strana sensazione di disfacimento, che non avevo mai provato prima, o
forse solo che non avevo mai riconosciuto fino a quel momento.
Mi venne in mente che Ciccio avrebbe potuto essere un problema, ed ebbi un
secondo netto per prendere una decisione. Se era vivo – e doveva esserlo, per me
non c’era alternativa – la Lega lo avrebbe catturato. Ma se Liam lo avesse
saputo, sarebbe tornato indietro per trovare il modo di liberarlo, e il patto non
sarebbe valso più a niente.
Mi sarei presa cura io di Ciccio. Lo avrei aiutato a sfuggire alla Lega. Non
c’era motivo per cui Liam non dovesse pensare che il suo amico fosse tornato
sano e salvo a casa dai genitori; nessun motivo per cui dovesse distrarsi dal
tornare a casa lui stesso. Era un aggiustamento semplice, una toppa veloce su un
ricordo terribile…
E poi rimasi senz’aria e senza più tempo. La porta alle mie spalle si aprì e mi
allontanai da Liam. Lui rimase rigido come una tavola, con le mani sulle
ginocchia, gli occhi chiusi stretti stretti. Cate spostò lo sguardo da lui a me. Mi
alzai e mi misi al suo fianco.
Un attimo dopo, gli occhi blu di Liam si aprirono e mi videro. Solo che non
videro Ruby.
«Cos’è successo?» chiese, guardando prima Cate e poi me.
Alzò una mano e si toccò il viso, che era ancora livido e gonfio.
«Hai avuto un incidente d’auto», dissi. «La Lega è venuta a prenderti.»
Cate si irrigidì accanto a me; con la coda dell’occhio vidi sul suo viso una
improvvisa espressione di comprensione.
«La Lega…» ripeté Liam, stringendo gli occhi.
«Sì, ma se ti senti bene, te ne puoi andare», disse Cate, quando si fu ripresa.
«Tuo fratello ci ha chiesto di darti dei soldi per il biglietto dell’autobus.»
«Ci scommetto», borbottò lui, cercando le scarpe. «Come mai non mi ricordo
l’incidente?»
Non so se Cate si rendesse conto di quanto fosse visibile lo shock sul suo viso.
Alzò una mano verso la mia spalla – se per sostenere se stessa o me, non sono
sicura – ma mi allontanai di un passo.
«La testa ti fa sempre male?» domandai con voce strozzata. Avevo ancora
addosso il suo giubbotto: non riuscivo a decidermi a toglierlo. «Hai preso una
bella botta.»
«Un po’», ammise. Non mi piaceva il modo in cui mi guardava, con la fronte
aggrottata per la concentrazione. «E la Lega è disposta a lasciarmi andare?»
Cate annuì e gli lanciò una busta. Liam gliela rilanciò indietro. «Non voglio i
vostri soldi.»
«Ci sono anche le istruzioni per contattare i tuoi genitori», disse Cate.
«Non la voglio. Non mi serve.»
«Cosa dovrei dire a Cole?»
Liam si alzò sulle gambe malferme. «Digli di tornare a casa, poi possiamo
parlare.» Si voltò verso di me. «E tu invece? Sei davvero una di loro? Avrei detto
che avessi più sale in zucca.»
Senza replicare, presi la busta da Cate. Quando la misi in mano a Liam, non
me la rilanciò indietro. «Sarà meglio che tu vada.»
«Non ho intenzione di ringraziarvi», ci disse. «Non ho chiesto il vostro aiuto.»
Cate lo condusse in corridoio. «Non ce n’era bisogno, e non ce ne sarà mai.»
Liam si incamminò lungo le scale.
«Ehi…» lo chiamai. Lui si fermò e si voltò a guardarmi. «Fai attenzione.»
I suoi occhi blu si spostarono avanti e indietro tra Cate e me.
«Anche tu, tesoro.»
Dalla finestra che dava sulla strada lo guardai andarsene, seguendo la sua
figura familiare proseguire all’esterno e chiudersi la porta alle spalle. Nessuna
auto, nessuno da tenere d’occhio, nessuno da aiutare. Era completamente libero.
E sembrava felice. Sicuro di sé, almeno. I suoi piedi riconobbero
istintivamente la direzione di casa. Non c’era più nulla a impedirgli di arrivarci.
Liam oltrepassò lo steccato bianco che circondava la casa e salì sul
marciapiede. Si tirò su il cappuccio della felpa e guardò da una parte e dall’altra
prima di attraversare la strada di corsa.
Lo osservai diventare sempre più piccolo a ogni passo.
Tutto il mondo sarà tuo nemico, Principe dai Mille Nemici, pensai, e chi
t’acchiapperà, t’ammazzerà.
Però prima dovranno pigliarti, principe bravo a scavare e veloce nella corsa,
d’udito fine e tutti i sensi all’erta.
Sii astuto e inventa stratagemmi, e il tuo popolo non verrà mai distrutto.
Cate si avvicinò dietro di me e mi accarezzò i capelli.
«Sarai felice con noi», disse. «Mi prenderò io cura di te.»
Chiusi le tende sottili, facendo scivolare le dita sulla superficie setosa. La
osservai per un momento, alla ricerca del segnale che avrebbe rivelato la sua
bugia. Mi chiesi se pensasse ancora a me come alla ragazza che aveva portato
fuori da Thurmond, che aveva pianto quando aveva visto le stelle per la prima
volta.
Perché non sapeva che c’erano due versioni di me; spezzata a metà tra tutto
ciò che avevo sempre desiderato e tutto ciò che in quel momento avrei dovuto
diventare. Una di quelle, la parte più dura e più rabbiosa, sarebbe rimasta con
quei mostri e lentamente si sarebbe piegata a prendere la loro forma. Ma c’era
un’altra Ruby, segreta. Era sottile come un soffio d’aria, e aveva lottato a lungo
per poter esistere. Era quella che Liam portava con sé, senza saperlo. Quella che
sarebbe rimasta nella sua tasca, a sussurrare parole di incoraggiamento, a
ripetergli che era nato per inseguire la luce.
Per la prima volta da mesi, sentii la voce di Sam sussurrarmi nell’orecchio:
Non avere paura. Non darlo a vedere.
Voltai le spalle alla finestra e non mi guardai indietro.
Ringraziamenti

C dice la canzone: «Me la cavo con un aiutino da parte degli amici», e questo
OME

decisamente si addice al mio caso.


I miei ringraziamenti alla mia famiglia, ovviamente, per tutta una vita di
amore e di sostegno. Siete la mia ispirazione quotidiana.
A Merrilee Heifetz, la mia fantastica agente, che ha lavorato incessantemente
a questo progetto ed è stata dietro le quinte in modo favoloso fin dal principio.
Allo stesso modo, devo ringraziare Genevieve GagneHawes per il suo feedback
iniziale, che ha aiutato a dare alla storia la forma che ha oggi.
A tutta la squadra di Hyperion, specialmente la mia editor, Emily Meehan. Sia
lei sia Laura Schreiber si sono prese straordinariamente cura di questa storia, e
non c’è giorno che non mi fermi a pensare a quanto sono stata fortunata a
lavorare con talenti del genere.
Ai miei primi lettori, in particolare Sarah J. Maas, che ha riso e pianto nei
momenti giusti, e Carlin Hauck, che mi ha aiutato a sostenere l’immaginazione
con la scienza vera e propria.
A tutta la squadra di RHCB, per l’incrollabile sostegno, interesse e
comprensione.
In conclusione, non ci sono parole adeguate per esprimere quanto sia grata ad
Anna Jarzab per aver amato questa storia quanto me. È una benedizione averti
come sostenitrice, e soprattutto è un privilegio poterti chiamare amica.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad
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La citazione da La collina dei conigli è tratta da: Richard Adams, La collina dei conigli, Rizzoli, Milano 1975, traduzione di Pier Francesco Paolini.

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Darkest Minds
di Alexandra Bracken
© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo originale The Darkest Minds
Copyright © 2012 by Alexandra Bracken
Pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788893427067

© COPERTINA || PER GENTILE CONCESSIONE DI 20TH CENTURY FOX. «THE DARKEST MINDS» FILM ARTWORK © 2018. TWENTIETH CENTURY FOX FILM CORPORATION.
TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI. | ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: SABRINA VENETO

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