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Cf. Gs 1,11.13.15; 2,9.14; 5,6; 9,24; 18,3; 24,13.
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Si noti che la narrazione riproduce lo stesso schema del passaggio del mar Rosso. Nell’Esodo è Dio in persona
a guidare Israele: «Dio guidò il popolo ... il Signore marciava alla loro testa» (Es.13,18.21); qui è l’Arca
dell’Alleanza che si pone alla testa di Israele: «Portate l’arca dell’Alleanza e passate davanti al popolo» (Gs
3,6). Nell’Esodo il mare si divide in due e gli Israeliti passano all'asciutto, qui accade la stessa cosa con le acque
del Giordano.
In questa prospettiva è estremamente chiaro il racconto della conquista di Gerico (5,13-
6,27) - una delle più antiche città del mondo, abitata fin dall’VIII millennio a.C. a causa della
favorevolissima posizione in un’oasi nella valle del Giordano - che in realtà a quel tempo era
già abbandonata3 o, al più ancora abitata, ma ridotta ad un piccolo centro di scarsa
importanza. La conquista della città, più che un’azione di guerra, è infatti descritta come una
sorta di liturgia, in cui il vero vincitore è JHWH. Presso Gerico l’unico che abbia in mano
una spada sguainata è «il capo dell’esercito del Signore» (teofania raccontata in Gs 5,13-15)4.
Il crollo dei bastioni di Gerico è l’effetto di una solenne processione liturgica che si svolge,
per sette giorni, intorno alla città messa a fronte dell’arca dell’alleanza del Signore, al suono
di sette trombe di corno d’ariete («shofar»), mentre tutto il popolo custodisce un silenzio as-
soluto. Davanti alla manifestazione della presenza del Signore, qui significata dalla celebra-
zione liturgica, i suoi nemici vengono meno da soli o si autodistruggono. Solo dopo che le
mura di Gerico sono crollate, gli israeliti lanciano un grande grido di guerra, occupano la città
e sguainano le spade, non più per conquistarla, ma per eseguire il voto del suo sterminio (Gs
6,20-21).
Quando nel VIII e nel VII secolo Israele sarà privato della terra, questi racconti del libro di
Giosuè – che trovarono la loro forma in questo periodo – infusero al popolo coraggio e spe-
ranza.
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Gli archeologi che hanno trivellato i resti della città in lungo e in largo inclinano a ritenere che essa fosse già
stata distrutta da un pezzo al momento dell'arrivo degli Ebrei, forse durante le campagne dei Faraoni della XVIII
dinastia (quella di Tutmosi III il Conquistatore).
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Cf. Gen 3,24; 32,2-3; Es 23,2-24; Nm 22,22-35; Gdc 2,1-5; 6,11-24; 13,3-23; 1Cr 21,15-17; Dn 12,1; ecc.
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Cf. Ger 2,2c-3b; Os 2,16.18.20-25.
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cessiva fiducia nelle proprie forze che si alterna con la paura e con la coscienza della propria
fragilità, incostanza, scoraggiamenti, ritorni infantili ecc.
Tutto questo va tenuto presente da colui che legge il libro di Giosuè. Bisogna essere capaci
di contemplare e di ammirare un Dio che si rivela nella storia dell’adolescenza e della giovi-
nezza di un popolo, in un momento in cui questo passa dalla condizione nomadica e pa-
storizia a una condizione di insediamento agricolo, e per di più in un paese abitato da sette
popolazioni già insediate in esso: il cananeo, l’hittita, l’eveo, il perizzita, il gergeseo,
l’amorreo e il gebuseo (Gs 3,10). Si ripete, in certo modo, la sorpresa che dovette colpire A-
bramo al suo giungere alla Quercia di More, presso Sichem, provenendo da Carran: «Nel pa-
ese si trovavano allora i cananei» (Gen 12,4-6). Il paese-dono di Dio per Israele è occupato da
altri; il regalo che il Signore intende fare al suo popolo è già in mano ad altri popoli!
Per Abramo il problema non si era posto subito, perché egli, e anche Isacco e Giacobbe,
erano rimasti dei nomadi sulla terra di Canaan per tutta la loro esistenza. Il possesso di quel
paese rimaneva promesso in futuro alla loro discendenza: per i padri si trattava di un possesso
in speranza (cf. Gen 12.7-9). Con Giosuè, però, è arrivato il momento di fare i conti con la
realizzazione pratica di quella promessa. Come nella storia di Giacobbe, più Israele crede alla
promessa del Signore, più deve affrontare l’altro e risolvere il problema delle sue relazioni
con lui: la carità è il campo di applicazione immediata della fede. «Mai senza l’altro»!
Il credente scopre che se è Dio che fa tutto (tutto è grazia operante!), tutto resta da fare al-
la libera corrispondenza dell’uomo, sempre sostenuta dalla grazia cooperante di Dio. Tutto
dipende dalla libertà di Dio, persino il conseguente mettersi in moto della libertà dell’uomo.
Dio non opera per primo, alla sua maniera, senza che io operi per secondo, alla mia maniera.
Sotto la guida di Giosuè, Israele non ha difficoltà a prendere coscienza che il dono che il Si-
gnore gli fa, egli se lo deve conquistare. Il libro di Giosuè ci mostra come una tale presa di
coscienza avrebbe assunto la forma di una strategia per intraprendere una violenta «guerra
santa» di conquista. Basti ricordare l’invio degli esploratori a Gerico (Gs 2) e la battaglia
davanti alla città ingaggiata dai suoi abitanti contro gli invasori (Gs 24,11), l’imboscata di Ai
(Gs 8), la marcia notturna per sferrare l’attacco a Gabaon di primo mattino (Gs 10,9).
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L’accordo con la tetrapoli gabaonita (cf. Gs 9) avrebbe contribuito ad allargare la zona di
influenza di Israele. I Cananei avrebbero superato ben presto il loro stato di disorientamento e
si sarebbero coalizzate contro gli invasori. Fu perciò necessario che Giosuè debellasse a
Gabaon una coalizione di re cananei del meridione (cf. Gs 10); poi, a Merom, un’altra di re
settentrionali (cf. Gs 11).
Per Henstschel, invece, la prospettiva della conquista della terra è molto più pacifica.
Secondo lui, da quanto risulta dalle conoscenze, Israele si sarebbe formato nel XII sec. a.C.
come una “società mista”, i cui membri non provenivano in prevalenza dall’esterno, ma erano
già prima nel paese, in parte come seminomadi negli spazi liberi tra le città stato, in parte
però anche come “Cananei” che accettano il nuovo sistema sociale. In quell’epoca c’era una
decadenza culturale dei regni cittadini cananei, anzi perfino la distruzione di singole città; ma
questo non fu opera di Israele. Israele è piuttosto sorto come conseguenza di questa
decadenza, che è strettamente legata alla fine dell’egemonia egiziana su questo territorio,
appunto in questo tempo7.
In ogni caso è chiaro che la descrizione della conquista nel libro di Giosué risponde
essenzialmente alla finalità teologica che abbiamo sopra indicato.
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apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. Ma se non vuol far
pace con te e vorrà la guerra, allora la assedierai. Quando il Signore te l’avrà data nelle tue mani,
ne colpirai a fil di spada tutti i maschi» (Dt 20,10-14): il resto sarà bottino di guerra.
Invece nelle città
«dei popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma
li voterai allo sterminio… perché essi non v’insegnino a commettere tutti gli abomini che fanno
per i loro dèi e voi non pecchiate contro il Signore, vostro Dio» (Dt 20,16-18).
Così in Nm 21,1-3 viene raccontato lo sterminio del re Arad con il suo popolo.
Inizialmente il re di Arad sembra aver la meglio su Israele: «attaccò battaglia contro Israele e
fece alcuni prigionieri». Poi Israele fa un voto e dice al Signore: se tu ci dai nelle mani il re
Cananeo, noi voteremo allo sterminio.
Davanti a questi dati c’è davvero da chiedersi se lo sterminio sia stato veramente voluto da
JHWH o non sia l’espressione della cultura bellica del tempo ed attribuite «in buona fede»
dalla coscienza religiosa di Israele a YHWH8. Non dimentichiamoci infatti che lo sterminio
era una cosa normale dato che i popoli della stessa area geografica facevano altrettanto (come
ad es. i Moabiti e gli Aramei - popoli di razza e cultura semitica più vicini a Israele -; come
pure gli egiziani, gli assiri e i babilonesi).
Si deve poi ricordare che nel mondo semitico ogni popolo aveva la propria divinità, la
quale combatteva contro i nemici del suo popolo, cosicché la vittoria era attribuita al favore
della divinità e la sconfitta al suo sdegno per le mancanze cultuali o di altro genere. Tanto è
vero che, quando un popolo veniva sconfitto, se esso veniva distrutto erano distrutti anche i
simboli e le statue dei suoi dèi, e quando un popolo veniva condotto in schiavitù, anche i suoi
dèi seguivano la stessa sorte. Sono proprio le eccezioni che mostrano che cosa importi ai
narratori del libro di Giosué: la prostituta Raab, che professa la sua fede nel Dio di Israele (Gs
2,9-11), la quale ha protetto gli esploratori israeliti e li ha aiutati a fuggire (Gs 2,3-7.15.16),
può continuare a vivere a Gerico (6,22.23.25). Altrettanto accade ai Gabaoniti che hanno
udito della fama di JHWH e hanno creduto (9,9s; 24s). Appartenenti all’antica popolazione,
loro che non vogliono traviare gli Israeliti ai loro dèi, non rappresentano alcun pericolo, e
vengono risparmiati.
In questa vicenda biblica della conquista bisogna saper leggere bene l’incrocio e
l’interdipendenza tra fede, morale e cultura. Lo si è già osservato a proposito dei patriarchi:
la fede tende ad influire sulla cultura e la morale, ma lo fa solo progressivamente, segnando
storicamente il passo, e obbedendo a tutti i condizionamenti dell’evoluzione della coscienza
di un popolo che vive in mezzo ad altri popoli in una determinata area geografica.
Un popolo religioso - anche se sia veramente «il popolo di Dio», come lo è Israele o la
Chiesa cristiana - è guidato finalmente, come ogni essere umano, dalla propria soggettività e
dalla propria coscienza. In uno stadio ancora primitivo e indifferenziato della coscienza
collettiva - come avviene in un tempo di adolescenza, di crescita e di ricerca della propria
strada, di espansione e di dinamismo creativo, di auto-affermazione e realizzazione di sé - si è
indotti a ritenere che i nostri avversari siano pure gli avversari del nostro Dio; e questo tanto
più se, come al tempo della conquista di Canaan, la guerra contro le nazioni idolatre venga
identificata come una «guerra del Signore» contro i loro falsi dèi. Avviene, allora, che la vera
fede nutra e moltiplichi l’aggressività di un popolo che, «in buona fede», confonderà le
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Un cosa simile è avvenuta nella Chiesa nel medioevo. E’ stato il Signore a volere le spdeizioni crociate della
«cristianità» contro i musulmani in Terra Santa («Dio lo vuole!», fu il grido di risposta delle folle al papa
Urbano II che bandiva la prima crociata!), o il popolo cristiano, la Chiesa, e molti «santi» in essa, hanno creduto
«in tutta buona fede» che Dio lo volesse, e gli hanno attribuito tale volontà? In realtà, il Signore può mai volere
davvero delle «guerre sante»? E’ questa oggi una questione ridiventata attuale nella contesa fra una parte
dell’islam e l’occidente.
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proprie passioni e i propri costumi di crudeltà guerresca (o di «cavalleria», come al tempo
delle crociate) con le passioni e i costumi del proprio Dio: «Dio lo vuole!».
Rendendo conto, poi, della propria storia nei suoi libri santi - così come fa una persona nel
proprio «diario spirituale» - il popolo credente presenterà il Signore come l’autore e il
soggetto primo di ciò che esso ha vissuto e operato. E, ancora «in buona fede», si dirà «Dio lo
ha voluto!», anche se la volontà del Signore era forse tutt’altra.
Quando, però, Dio, per gratuita elezione, si sia veramente «legato» a un popolo
determinato, si dovrà dire che la storia d’Israele (o la storia della Chiesa) è anche la storia
della presenza e dell’operazione sacramentale di Dio nella storia umana, che abbraccia pure
gli errori, le miserie e le deficienze, e persino i peccati di quel popolo (e di quella Chiesa),
senza minimamente intenderli, volerli, giustificarli o assolverli automaticamente. Il Signore,
come un buon papà e una buona mamma, accompagna il suo popolo (e la sua Chiesa) attra-
verso tutti i gradini della loro crescita spirituale, e la sua ispirazione non abbandona mai i loro
libri santi. Quando il popolo avrà gradualmente affinato la propria sensibilità morale,
diventerà capace di discernere le proprie responsabilità da quelle del Signore paziente, e farà
le debite autocritiche e confessioni, come hanno fatto i profeti, quando hanno ripensato a
Giacobbe, «il Soppiantatore».
Come si è già detto più volte, l’evoluzione morale e culturale (che viene dal basso),
tendente a sintonizzarsi con la fede, è ben più lenta e progressiva della fede stessa (che viene
dall’alto).
La consistenza tra fede e costumi, però, non sarà totale e perfetta fin dal principio (proba-
bilmente non lo sarà mai completamente!). È del tutto anacronistico, e inintelligente, giudica-
re la cultura e la morale di Giosuè e di Israele, durante la conquista, con gli standard
dell’insegnamento dei profeti, o addirittura con quelli evangelici. Molto più importante sarà
comprendere che e come la fede, quando viene donata da Dio, si incarna subito in una situa-
zione storico-culturale.
4. La figura di Giosuè
Giosuè (nome che significa «JHWH è salvezza/aiuto») è il condottiero che deve condurre
gli Israeliti nella terra (Dt 3,17.23), perché JHWH cammina davanti a loro (Dt 31,8) e com-
batte per essi (Dt 3,22).
Prima e piuttosto che suggerire stratagemmi guerreschi, che toccherà a Giosuè inventare, il
Signore gli mette nelle mani un’arma invincibile di conquista: il libro della Torah prescritta
da Mosè:
«Sii coraggioso e forte, poiché tu dovrai mettere questo popolo in possesso della terra che ho giu-
rato ai loro padri di dare loro Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire secondo tutta la
Torah che ti ha prescritta Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, perché tu
abbia successo in qualunque tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa Torah,
ma meditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; poiché allora tu
porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo. Non ti ho io comandato: Sii forte e coraggio-
so? Non temere dunque e non spaventarti, perché è con le il Signore tuo Dio, dovunque tu vada»
(Gs 1,6-9).
Giosuè non deve dunque temere, perché JHWH sarà con lui, come lo era stato con Mosè
(cf. Gs 1,5; Dt 31,8).
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la nostra libertà è un dono di Dio, e che il suo senso, e dunque la sua condizione di sanità, è
quella di condurci a coincidere liberamente e volentieri con la libera volontà di Dio su di
noi, che è sempre volontà di salvezza e di felicità:
«perché i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri
di dare loro, siano numerosi come i giorni dei cieli sopra la terra» (Dt 11,21).
Attraverso il rapporto con la terra e con i suoi beni, il popolo di Dio è condotto a crescere
e a educarsi nella creazione e a costruirsi nella storia. La creazione e la salvezza sono inizia-
tive di Dio solo, ma si realizzano in noi attraverso la costruzione di noi stessi come uomini e
come donne, partners dell’alleanza con Dio (suo popolo, sposa, figli; ecc.). Noi oggi non
siamo soltanto il prodotto dell’atto creativo iniziale di Dio e dell’elezione che è all’origine
della nostra storia di alleanza con lui, ma siamo anche il risultato della nostra cooperazione
(positiva o negativa) alla creazione e della nostra risposta (fedele o infedele) all’alleanza.
Siamo come Dio ci ha fatti, ma pure come noi ci siamo fatti. Lo diciamo anche nel lin-
guaggio corrente: «E’ diventato un uomo!», «Si è fatta donna!». L’essere uomo o donna è un
dato iniziale di creazione amorosa aperto a un fascio di diverse possibilità e opportunità, che
è affidato a ciascuno, perché ne realizzi alcune piuttosto che altre o prima di altre, secondo
determinate opzioni che storicamente si offrono alla libertà di ciascuno.
Ciascuno di noi rappresenta quella porzione di creazione che il Creatore storicamente con-
fida alla nostra personale libertà, perché facendo buon uso di questa, noi la conduciamo al
conseguimento del fine ultimo: la beata comunione con lui, in Cristo (figlio/a nel Figlio) e
con tutti in lui (cf. 1Gv 1,3). Ciascuno di noi, finalmente, è quella «promessa terra-dono», che
il Signore ci invita a «conquistare» e «coltivare», prima di tutto creandoci e poi proponendoci
la sua salvifica alleanza sponsale.
Essere per diventare: è questa la nostra vocazione, assegnataci fin dalla creazione. Essa è
interamente affidata alla nostra iniziativa e responsabilità personale e non può essere ceduta a
nessun altro. Bisogna dire pure che nessuno ci potrà davvero impedire di portare a compi-
mento questa nostra vocazione - nonostante tutte le circostanze apparentemente avverse - fin-
ché rimaniamo nell’obbedienza filiale al Creatore («Rimanete in me», dice Gesù: Gv 15,4-
10.16).
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una conseguenza diretta della sua vittoria su Satana. Gesù è ormai capace di sconfiggere tutte
le forze del male perché ha sconfitto il principe delle tenebre. Una conferma di questa visione
della missione di Gesù la troviamo quando egli, agli inviati di Giovanni Battista che gli
chiedono se è davvero il messia atteso, risponde parlando dei miracoli compiuti come prova
che il regno dei cieli è arrivato (cf. Mt 11,5-6). Una seconda conferma troviamo nella
discussione di Gesù con i farisei a proposito di Beelzebul (Mt 12,22-32), in particolare
quando Gesù asserisce: «Ma se io scaccio i demoni in virtù dello Spirito di Dio, vuol dire che
realmente è giunto a voi il regno di Dio».
- C’è poi l’insegnamento di Gesù. Il parallelismo continua. Giosuè, infatti, non è solo un
gran guerriero. Si dimentica spesso che Giosuè viene dipinto anche come un fedele seguace
della legge di Mosé (Gs 1,7-8), che egli proclama questa legge davanti al popolo intero,
uomini, donne, bambini e perfino emigrati (8,30-35) e che esorta a osservarla fedelmente
(22,5; 23,6). Gli ultimi capitoli del libro di Giosuè (22-24) insistono molto su questa fedeltà
di Giosuè alla legge di Mosè. Il successo della conquista è dovuto prorio all’osservanza di
questa legge. L’unica disfatta d’Israele, per contro, è spiegata in Gs 7 come conseguenza di
un’infedeltà ad essa.
Anche Gesù – come Giosuè – proclama la legge: il lungo discorso del monte, svoltosi
davanti alle folle (cfr. Mt 5,1), sembra richiamare l’immagine di Giosuè. Così Gesù invita ad
osservare fedelmente la legge che egli è venuto a portare a compimento:
«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per
dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerò neppure
un iota o un segno della legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di
questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo
nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel
regno dei cieli» (Mt 5,17-19).
Le cosiddette «antitesi» (Mt 5,20-47) non sono altro che un esempio su alcuni punti
concreti (rispetto per la vita altrui, riconciliazione con il fratello, adulterio, divorzio,
spergiuro, amore per il prossimo) nei quali Gesù porta a compimento la legge perché
possiamo osservarla come “figli”.
Come per Giosuè, la causa del successo folgorante della campagna militare non è la
superiorirà dell’esercito d’Israele o l’utilizzo di una strategia militare, così per il discepolo di
Gesù l’entrata in possesso della «terra promessa» si gioca intorno all’ascolto e alla fedeltà
della Parola.
- Infine uno dei compiti essenziali di Giosuè, dopo la conquista, è la distribuzione della
terra alle diverse tribù e famiglie d’Israele (Gs 13-21). A questa ripartizione della terra nel
libro di Giosuè corrisponde, nel vangelo di Matteo, il discorso delle beatitudini. La prima, la
terza e decima beatitudine alludono chiaramente al dono della terra: «Beati i poveri in
spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati i
perseguitati a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3.5). Era difficile
essere più chiari sull’intento di queste affermazioni di Gesù. E’ arrivato il momento di dare il
Regno che Gesù ha appena conquistato a coloro ai quali è destinato: i «poveri in spirito», i
«miti» (Sal 37,11) e i «perseguitati per la giustizia». Le beatitudini definiscono, in altre
parole, quale sia il «vero Israele» che può ereditare la terra e al quale Gesù dà il «regno» in
possesso.
8
nell’annuncio di una lotta corpo a corpo:
«Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di
Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia, infatti, non è contro le creature
fatte di sangue e di carne, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo
di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura
di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le
prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e
avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano
lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche
l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente
con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseve-
ranza e pregando per tutti i santi» (Ef 6,10-18).
Con tale armatura i credenti possono resistere nel «giorno malvagio», al combattimento fi-
nale dei tempi escatologici, e rimanere ben saldi dopo essersi preparati per i combattimenti
che li attendono. Ciò che è in palio in questa lotta non è l’avere, il potere, l’apparire, ma
l’essere (l’armatura va indossata): si tratta della propria identità (cf. Gen 3,21). È questa la
vera, ultima lotta per ciascun essere umano e per l’intera umanità; la lotta «esorcistica», sen-
za quartiere non contro «i cattivi», ma contro lo spirito mondano del male; non contro la car-
ne e il sangue, ma contro le potenze malefiche10, nelle quali il mistero dell’iniquità - il mali-
gno, Satana - è all’opera nel cosmo (cf. 2Ts 2,7-12). Per una simile lotta le armi umane sono
inutili, e anzi controproducenti, mentre quelle vincenti sono solamente le «armi del Signore».
10
Cf. Ef 1,20-21; 2,2; 3,10; 4,27; 5,16.