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Aspetti

fenomenologici nel pensiero di Marco De Natale


(di Antonio Grande, 2017)

Un libro di Marco De Natale è sempre una sfida intellettuale. Se poi, come nel suo ultimo lavoro1, il
tema riguarda nientemeno che una teoria dell’Ascolto musicale la posta si fa più ambiziosa: occorre
entrare nelle maglie della sua prosa e dei suoi ragionamenti e orientarsi nei tanti percorsi intrapresi.
Mi limiterò a raccogliere alcuni dei numerosi spunti presenti nel volume, per interloquire a distanza
con l’Autore su un tema che mi è caro. Ma andiamo con ordine.
Potrebbe stupire che un libro che parla di musica e di ascolto, scritto da uno dei padri degli studi
analitici italiani, non presenti nemmeno un esempio musicale. In realtà l’autore si pone da una
prospettiva particolare (come del resto nei suoi ultimi lavori, si veda La Musica come Gioco, 2008),
laddove la musica viene a nascere in quel luogo polimorfo che si intreccia con le nostre storie, i sensi
di vita, le molteplici relazioni con cui ci apriamo al Mondo. L’approccio di De Natale appare, sotto
questo aspetto, una genealogia: una lettura che indugia sui meccanismi plurali che hanno
determinato l’emergenza (più che l’origine) di un pensiero musicale o di una teoria. Ciò rimanda agli
interstizi della storia, alle sue pieghe, alla sua cronica opacità.
In tal senso occorre subito smarcarsi dalle terminologie consolidate: a cominciare dallo stesso
termine di “ascolto” che viene rideclinato in una nuova etichetta, l’Auditio. Non è solo un termine
dall’area di senso più estesa; si tratta piuttosto di una sorta di intreccio noi-Mondo – una “condizione
contattiva” la chiama l’Autore con una felice espressione (p. 43) - con forte prevalenza di quote
d’azione e di vissuto. Ciò che ascoltiamo si dà, prima di tutto, per quello che è, come evento, ed è
dunque un tutt’uno con un’azione, con un percorso di senso, con una gittata esistenziale. L’Auditio
ci consegna un’esperienza che non rimanda, ma esemplifica, in quanto i suoi materiali possono
vedersi come tratti di quelle stesse proprietà che esibiscono. Il termine incarna non solo un intreccio
spaziale, ma anche temporale (oltre che esistenziale), in quanto si articola come processo
diacronico, implicando un prima e un dopo. Da qui la proprietà cronosensitiva della mediazione
sonora, termine che l’Autore mutua dal filosofo Marcello La Matina2: ciò che ascoltiamo non pre-
esiste all’evento comunicativo, ma si costruisce con quello. Infine l’Auditio è anche acquisizione,
cioè un’impronta di Mondo che si lega a noi. Un incontro a due, naturalmente: come un’orma sulla
sabbia che riassume tanto il materiale di cui è fatta, quanto la sagoma dell’oggetto che vi si imprime.
Mi piace vedere in tutto ciò una conferma di quanto ho sempre colto anche in altri libri di De Natale:
una singolare vicinanza ad una certa visione fenomenologica. Ed è di questa che vorrei parlare.
Come quando si sofferma a discutere il concetto di risonanza, un termine che ci sembra scontato,
eppure capace di inquadrare un preciso paradigma epistemologico. Nel re-sonare è implicito un
percorso circolare, con l’effetto “d’un rispecchiamento, d’una retroazione” (87). Non può esserci
voce senza udito, né udito senza voce. Un’andata e un ritorno che istituiscono un comune spazio
entro cui acquistano senso suono e ascolto. É uno spazio relazionale, di chiara marca
fenomenologica. Come scrive Giovanni Piana, non ci è mai dato di essere in presenza del nostro
udire, in quella giusta “messa a distanza” che l’idea comune di ascolto richiede3. La qualità circolare
della risonanza mi ricorda alcune memorabili pagine di Merleau-Ponty dove il filosofo si interroga
su cosa sia l’illuminazione, per poi riflettere sul riflesso degli occhi. Cause e condizioni della visione
si intrecciano in un fenomeno unitario che sarebbe insensato separare. “Che cosa accade nel
momento in cui una certa macchia di luce è presa come illuminazione anziché contare per sé? Sono

1
Marco De Natale, Per una teoria dell’Ascolto musicale. Tra soglie vegetative e immaginario
eccentrico, Mimesis, 2015.
2
M. La Matina, Cronosensitività, Una teoria per lo studio filosofico dei linguaggi, Carocci, 2014.
3
“La mia voce è caratterizzata da un modo peculiare di restare inavvertita, di non essere mai alla mia
presenza”, G. Piana, Filosofia della Musica, Guerini 1991, (ed. digit.) p. 77.
stati necessari secoli di pittura prima che si vedesse sull’occhio quel riflesso senza il quale esso
rimane spento e cieco come nei quadri dei primitivi”.4 Quel riflesso - che in fondo è visto solo “con
la coda dell’occhio”, ma la cui assenza “priva della vita e dell’espressione sia gli oggetti che i volti” -
è proprio la marca di un legame indissolubile tra io e Mondo. Verrebbe da chiedersi quale sia
l’equivalente musicale dell’illuminazione. La risposta più immediata potrebbe tirare in causa il
colore o la luminosità del suono, tutti aspetti che la teoria musicale ha sempre considerato qualità
secondarie, rispetto a quelle dure, come l’altezza o le durate. E quindi, già solo per questo, relegate
ad una soglia di importanza minore. Ma in un’accezione più estesa farei rientrare anche il riverbero
che effettivamente introduce quella quota di circolarità indispensabile ad assegnare un profilo
‘esistenziale’ all’esperienza sonora.
Il concetto di riverbero - che l’odierna tecnologia digitale tende a farci vedere come uno dei tanti
parametri del suono - può aprirci ad altre riflessioni su come i nostri edifici teorici siano intrisi di pre-
comprensioni che orientano inevitabilmente le nostre modalità percettive. É necessaria allora
un’elaborazione teorica consapevole, anche nei suoi risvolti pedagogico-didattici, che si faccia carico
di reintegrare gli oggetti di cui si occupa entro una cornice di esperienze vissute. Vorrei segnalare,
in tal senso, l’interessante e nuovo contributo che proviene dal modello della cosiddetta Enazione,
che si è recentemente rivolto anche alla musica, e dove registriamo i contributi di un giovane
studioso italiano, Andrea Schiavio. Si tratta di un modello in cui azione e percezione sono
strettamente unificati e quest’ultima non è pensabile senza il ruolo del corpo conoscente.
L’Enattivismo richiede che il mondo esperito sia determinato da una cooperazione dinamica tra
fisiologia, organizzazione senso-motoria e l’ambiente, qualcosa in cui si è sempre situati. Ne segue
che l’obbiettivo non è quello, caro ai cognitivisti tradizionali, di un soggetto teso a risolvere di volta
in volta dei problemi (problem solving) quanto piuttosto di costruire un senso. Questo implica una
continua e dinamica rimodulazione tra i vari agenti in gioco, che si dis-pongono reciprocamente. In
sede di didattica musicale ciò ha delle importanti conseguenze: siamo abituati a porre domande ad
un testo musicale che consideriamo come la realizzazione di una struttura ingegneristica.5 Le
domande che un tale modello implica sono dunque del tipo: come viene progettata questa
Transizione sonatistica? con quali mezzi torniamo verso un centro tonale dopo la divagazione dello
Sviluppo? ecc. Ciò induce inevitabilmente nell’analista e nell’ascoltatore una posizione “da fuori”,
che misura i pesi e le strategie con cui il meccanismo è costruito. Tutti fattori sicuramente
interessanti, ma altra cosa è accostarsi alla musica per cogliervi un senso o, meglio ancora, per
istituirne uno. Infatti un senso non è già presente nel pezzo e - secondo un’immagine cara a
Schenker - custodito quasi gelosamente nel suo interno, al punto che il compito dell’ascoltatore e
dell’analista sarebbe quello di portarlo alla luce. Al contrario, il senso del pezzo va “costruito”,
venendo cioè a co-nascere insieme a chi ne fa esperienza, e in ciò è frutto di una reciprocità, di
un’interazione e negoziazione continue. Alcuni recenti indirizzi delle scienze cognitive parlano in tal
senso di partecipatory sense-making6.
A ben vedere ciò che fa la differenza, nel nostro rapporto con la musica, prende necessariamente le
mosse dalla collocazione in cui ci poniamo nei confronti del fenomeno sonoro. Più precisamente:
che posizione occupiamo in quel contesto? Siamo degli osservatori di qualcosa che è fuori di noi, o
degli attori di un gioco in cui siamo noi stessi coinvolti? Solo in questa sede si gioca effettivamente
l’integrazione fra azione, percezione, pensiero immaginativo. A questo proposito toccherò un altro

4
Maurice Marleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani 2005 (1945), p. 405.
5
James Hepokosky e Warren Darcy assimilano la Sonata ad un’impresa ingegneristica, come la
costruzione di un ponte. Elements of Sonata Theory: Norms, Types, and Deformations in the Late-
Eighteenth-Century Sonata, Oxford University Press, 2006, p. 15.
6
Fuchs T., De Jaegher H. (2009), “Enactive Intersubjectivity: Participatory sense-making and mutual
incorporation”, Phenomenology and the Cognitive Sciences, 8-4.
punto del libro di De Natale su cui vorrei estendere una personale riflessione. Mi riferisco al breve
riferimento dell’Autore alla figura di David Lewin (p. 163), come rappresentante di un approccio
fenomenologico della teoria musicale.
La figura del teorico americano (1933-2003) si inserisce in modi non sempre trasparenti nell’attuale
dibattito teorico, per la complessa molteplicità del suo pensiero. Da un lato abbiamo un
matematico, che ha lasciato alcune delle più eleganti formalizzazioni del linguaggio musicale e,
proprio per questo, quanto di più lontano potrebbe pensarsi rispetto a posizioni fenomenologiche.
Dall’altra un pensatore che si è interrogato sulla natura del nostro approccio verso i processi
musicali. Più in dettaglio, egli ha colto nell’analisi musicale convenzionale un'impostazione che ha
definito di tipo “cartesiano”, basata cioè su una tendenza a immaginare uno spazio di note “fuori di
noi”. A questa egli affianca un differente approccio in cui la relazione tra due oggetti sonori -
poniamo s e t - viene inquadrata con la seguente domanda: “se io sono ad s e voglio andare a t, che
particolare gesto dovrei eseguire per arrivarvi”7? Insomma: invece di pensare un intervallo come
una distanza, su un piano misurativo, egli legge quella distanza nella forma di una possibile azione
da intraprendere necessaria per coprirla, e definisce questo approccio un atteggiamento
trasformazionale. Un tale termine ha una precisa accezione matematica, riferendosi a gruppi di
trasformazioni intesi come famiglie di funzioni che agiscono sopra famiglie di oggetti. In pratica, per
fare un semplice esempio, invece di vedere il movimento da un accordo A ad un accordo B come
una distanza, possiamo ipotizzare che l’accordo A sia oggetto di una trasformazione x a seguito della
quale diventa B. Con una metafora, che riprendo da Ramon Satyendra, possiamo immaginare le
trasformazioni matematiche che agiscono sugli oggetti alla stessa stregua delle azioni che i verbi
esercitano sui sostantivi a cui si applicano.8 Aldilà di un apparente formalismo, emerge chiaramente
da questo approccio l’idea di voler tenere uniti i concetti di percezione e di azione; entrambi vivono
uno spazio che potremmo definire situazionale, dove particolari gesti intenzionano dei movimenti
che producono dei cambi di stato.
Su questi temi Lewin è noto per aver rideclinato alcuni concetti del teorico tedesco H. Riemann
dando l’avvio a quell’indirizzo che ha preso il nome di teoria neo-riemanniana. Questo approccio
tende a concentrarsi non sulla realtà (fisica o simbolica) dei singoli oggetti musicali - siano essi
accordi, figure ritmiche o altro - quanto sulle trasformazioni che avvengono tra di essi. Piuttosto che
etichettare un oggetto, inteso rigidamente, una trasformazione incorpora un’azione specifica, da
intendersi come un gesto intenzionale. Le famose etichette di matrice neo-riemanniana (la L, la R e
la P, ma ce ne sono molte altre), come le ha pensate Lewin, sono altrettanti gesti con cui un accordo
guarda ad un altro accordo. Con l’espressione formale DoM(R)=Lam si intende che DoM si pone,
rispetto a Lam, come può farlo in quanto R. Così R diventa, nella nostra metafora, non solo il nome
di quella trasformazione, ma anche quel particolare “modo di guardare” a Lam, come solo R può
dar modo di farlo. Dietro quella lettura si nasconde una densità di senso, una sorta di determinabile
x, e dunque l’idea che si è attuata una selezione parziale di qualcosa di più grande che potrebbe
legarsi a quell’oggetto specifico (il Lam), che tuttavia non si dà per intero dato il contesto particolare
in cui lo troviamo. Lewin elabora quindi dei grafi che descrivono le diverse prospettive con cui il
pezzo procede attraverso azioni indipendenti, ciascuna incarnando un particolare gesto
intenzionale9.

7
David Lewin, Generalized Musical Intervals and Transformations, Oxford U.P., 1987, pag. 159.
D’ora in avanti GMIT.
8
Ramon Satyendra, “An Informal Introduction to Some Formal Concepts from Lewin's
Transformational Theory”, Journal of Music Theory, 2004, 48-1, p. 101
9
Pensiamo al grafo delle trasformazioni all’inizio del 2° Movimento della Sonata op. 57 di
Beethoven. Cfr. GMIT cit., p. 213.
Nell’articolo “Music Theory, Phenomenology and Modes of Perception” del 1986, Lewin affronta in
modo specifico una posizione di tipo fenomenologico, nell’idea che la musica si fa e non solo si
percepisce. In tal senso la teoria della musica deve occuparsi di specifiche azioni musicali,
diventando attiva, creativa, finanche poetica. Prendendo spunto da un passo del Morgengruß di
Schubert, Lewin discute una varietà di percezioni che possono generarsi da un certo contesto,
sostenendo come quest’ultimo si colleghi ad un altro, e dalla loro interazione si generano altri
possibili sensi, e così via. Ciò che noi cogliamo, di volta in volta, è l’esito di un vedere per profili, per
prospettive; dunque solo una sfumatura di qualcosa di più grande (un’Abschattung direbbe
Husserl), e il senso che ne risulta è proprio la mediazione tra il percetto e il referente.
In questa prospettiva, come si diceva, l’analisi musicale diventa qualcosa di creativo. Non più la
disciplina che punta a “spiegare” la musica o a cogliere il lato “giusto” del suo apparire quanto lo
strumento di riflessione che apre nuovi scenari e nuovi oggetti, che spinge a costruire dei contesti
capaci, a loro volta, di assegnare nuovi sensi. Lewin si mostra sempre orientato a sviluppare, con
nuove sollecitazioni analitiche, le nostre capacità di ascolto. Un celebre esempio è in un suo studio
su Stockhausen10, che ci invita ad un percorso di ear-training per cogliere le trasformazioni presenti
in quel contesto musicale.
L’analisi diventa così quell’esercizio di costruzione di scenari che ci rimanda al concetto di “vedere
come” discusso da Wittgenstein nelle sue Ricerche Filosofiche. Nel “vedere come” cogliamo
l’integrazione tra un percepire e un pensare. In un attimo, in un balenare dello sguardo, ci appare
una relazione, una somiglianza, il consolidarsi di una forma. Pensiamo ad esempio a come sia
possibile imparare ad ascoltare una cadenza frigia come tale, e non come cadenza sospesa,
situazione ben nota in certi corali bachiani di origine modale. Oppure, nel caso della tonalità
romantica, a quando Chopin ci propone degli accordi che un ascolto tradizionale leggerebbe come
dominanti di qualcosa; ma poi quel senso viene come risucchiato fino a scomparire, venendo invece
ad emergere (un “balenare” dell’aspetto, direbbe Wittgenstein) la sua qualità indipendente. Penso
al ruolo polivoco del Do Magg. nella 3a Ballata. Quanto di memoria o di pre-comprensione gioca
nella costituzione di questo senso? A metà strada tra pensiero e percezione, tra memoria e
cognizione, l’analisi può guidarci a sviluppare nuovi mondi e nuovi scenari. Dal suo canto l’ascolto si
fa traccia di tutte quelle condizioni che rendono possibile le singole “selezioni” di materiale
musicale, come una corrente che percorre un campo dinamico di forze capace dei più svariati
scorrimenti.


10
Musical Form and Transformation, Yale, 1993, p. 42.

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