Music is present in the Indian culture since the Vedas. Besides the Sāmaveda,
we can find implicit or explicit references to musical elements in the Ṛgveda,
in the Atharvaveda and in the Upaniṣads, which are often connected to sig-
nificant numerical groupings (1). However, the application of mathematics
to music is not evident in the Indian mathematical and musical works, ex-
cept for the late Saṃgīta Ratnākara (2). Different is the situation in Chinese
and Arabic traditions, where we find the mathematics extensively applied to
musical instruments and notes (3). The paper ends with a reflection on the
cultural differences and the relations between Pythagorism and India (4).
* Giacomo Benedetti è autore del primo paragrafo di questo articolo e revisore dei para-
grafi successivi. Tito M. Tonietti è autore dei paragrafi 2–4.
1. La traduzione dei passi vedici è elaborata dall’autore sulla base dei testi originali e di
traduzioni autorevoli (come, per il Ṛgveda, quelle di Geldner 1951, Renou 1955–1969,
Gonda 1963, Sani 2000).
1. Quel sacrificio tessuto da ogni parte con fili, esteso con 101 opere
divine,2 [lo] tessono questi Padri che sono giunti; stanno assisi presso il
tessuto [e dicono]: “Tessi in avanti, tessi indietro!”
2. L’Uomo3 lo tesse, continua a filare, l’Uomo lo estende fino a que-
sta volta celeste.4 Questi [sono] i pioli.5 Si assisero sul seggio,6 fecero dei
Sāman le spole per tessere!
3. Qual’era la misura, quale il modello,7 quale la base? Il burro obla-
torio qual era, la cornice [del fuoco] qual era? Qual era il metro, quale il
2. I devakarmá sono i rituali stessi, cioè karma ‘opere’ rivolte ai deva ‘dèi’. Secondo
KauṣBr XVIII.10, ci sono 101 offerte anteriori e posteriori. Il numero 101 lo ritroviamo nella
tradizione come numero delle Śākhā, le branche dello Yajurveda, ovvero della raccolta più
specificamente dedicata agli atti rituali (Pandey 1987: 127). Cfr. anche ŚBr X.2.3.18, X.2.4.1 e
X.2.4.8, secondo cui Prajāpati (che è l’universo) costruisce il suo corpo in 101 parti, a cui cor-
rispondono 101 elementi, fisici (i mattoni) e verbali (le formule), del rituale dell’Agnicayana.
3. Il termine púṃs indica ‘il maschio’ e spesso ‘l’uomo maschio’. È paragonabile a púruṣa
‘l’Uomo primordiale e cosmico’ sacrificato in X.90 per dare origine all’universo, identificato
anche con Prajāpati ‘il signore delle creature’, dio demiurgico. Nel suo commentario a questa
strofa, Sāyaṇa identifica questa figura proprio con l’Ādipuruṣa ‘persona originaria’ Prajāpati.
4. Cfr. X.90.16, ultima strofa del Puruṣasūkta: yajñéna yajñám ayajanta devā́s tā́ni
dhármāṇi prathamā́ny āsan | té ha nā́kam mahimā́naḥ sacanta yátra pū́rve sādhyā́ḥ sánti
devā́ḥ || ‘Con il sacrificio al sacrificio [o il sacrificio] sacrificarono gli dèi; queste norme
furono le prime. Il firmamento queste potenze (o grandezze) raggiunsero, dove i primi, i
Sādhya si trovano, gli dèi’. Il termine sādhyá è probabilmente un epiteto di questi primi
dèi, forse col senso di ‘che devono essere propiziati’, ed è visto come una categoria di di-
vinità nella tradizione (Nir XII.41 ci dice che è la prima generazione di dèi), che secondo
ŚBr III.7.1.25 si trovano al di sopra del mondo degli dèi. A volte sono confusi con o sostituiti
dai Siddha, esseri semidivini dotati di poteri soprannaturali, che secondo Viṣṇupurāṇa
sono situati nel cielo a nord del Sole e a sud dei Sette Ṛṣi.
5. Secondo Monier-Williams (1899, s.v.), sono un tipo di pioli per appendere stoffa o pelli,
secondo Geldner (1951: III, 361), sono i pioli per fissare il telaio al suolo. Bergaigne (1895:
106), nota che questo verso si trova con varianti in AV X.7.43–44, dove i pioli servono a so-
stenere il cielo, come in ṚV VII.99.3. In AV X.7.42 si parla di sei pioli (le sei stagioni o le sei
direzioni) per il tessuto senza fine che fanno il giorno e la notte.
6. Il seggio sacrificale, nella metafora il sedile del tessitore. Il soggetto sono forse gli dèi
della strofa successiva.
7. Il termine pratimā́ indica in generale un’immagine, un simbolo, una rappresentazione,
anche una statua in testi post-vedici. E il verbo prati-mā- significa ‘imitare’. Si tratta chiara-
mente, nella metafora della tessitura, di un disegno da imitare o riprodurre per il nuovo tessuto.
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 77
8. Il nome praüga allude alla ‘parte anteriore delle stanghe del carro’, a cui si attaccano
i cavalli (cf. Gonda 1981: 3). Si tratta del secondo śastra o ‘inno recitato’ (non cantato), in
questo caso dallo Hotṛ, dopo il canto del primo Ājyastotra da parte dell’Udgatṛ durante
l’offerta mattutina di Soma nelle varie forme di sacrificio del Soma. Nella forma di base di
questo sacrificio, l’Agniṣṭoma, si utilizzano per esso le strofe (in tutto 21 in metro Gāyatrī)
degli inni ṚV I.2–3, che costituiscono il Mādhucchandasa Praüga. Nel sacrificio del cavallo,
nel giorno Ekaviṃśa, si aggiungeva anche la recitazione di un Bārhata Praüga, ovvero un
Praüga in metro Bṛhatī con sette serie di tre strofe o tṛca (vedi Eggeling 1882–1900: II, 325,
n. 2; e V, 379, n. 2). Per il puruṣamedha ‘sacrificio umano’ bisognava aggiungere il Praüga
del rituale mahāvrata, composto di strofe in metro Triṣṭubh (ŚŚS XVII.8.4-12, vedi Gonda
1981: 52–3). I Praüga del sacrificio del Soma di 12 giorni sono in metri diversi a seconda dei
giorni, in questa sequenza: Gāyatrī, Uṣṇiḥ, Anuṣṭubh, Bṛhatī, Atichandas, Triṣṭubh (Gonda
1981: 19–39; 55). Con l’eccezione dell’Atichandas, riscontriamo qui lo stesso ordine di me-
tri del nostro inno. Indipendentemente dai metri e dalle strofe scelte, si tratta comunque
di sette tṛca dedicate a sette divinità: Vāyu, Indra-Vāyu, Mitra-Varuṇa, gli Aśvin, Indra, i
Viśvedeva, Sarasvatī. La corrispondenza con le divinità del nostro inno è molto limitata
(Mitra-Varuṇa, Indra, i Viśvedeva), però è parallela la concezione di sette divinità, che in
AiBr III.3.1, nella spiegazione del Praüga, sono associate ai sette Prāṇa nella testa, ovvero gli
organi associati ai sensi e al respiro (occhi, orecchie, narici, bocca), vedi Gonda (1981: 56–7).
AiĀr I.1.3 invece riporta le diverse opinioni dei ritualisti riguardo a quale forma metrica
fosse meglio usare per il Praüga (Gonda 1981: 71).
9. Uktha ‘inno’, secondo Eggeling (1882–1900: II, 294, n. 2; 429, n. 1; III, XIV–XVI) è l’anti-
co nome dello śastra, nonostante che i lessicografi tardi (come Sāyaṇa) lo descrivano come
un tipo di Sāman o Stotra. In effetti, nella forma Ukthya di sacrificio del Soma, appartiene
ad entrambe le categorie, perché in essa, durante l’offerta di Soma della sera, dopo i due
Stotra e Śastra, si aggiungono tre Uktha-stotra e tre Uktha-śastra recitati dai tre Hotraka
(Eggeling 1882–1900: II, 325, n. 2).
10. Come in X.90.7, si tratta probabilmente qui del sacrificio primordiale del dio-demiur-
go, il púṃs ‘Uomo archetipico’ della strofa precedente. Altrimenti, si può anche interpreta-
re “sacrificarono al dio”, intendendo l’Uomo come destinatario del sacrificio.
11. La parola metro è maschile in italiano, ma i termini vedici che indicano le varie forme
metriche sono femminili e consentono così il dispiegarsi di una simbologia di unione tra
principio maschile costituito dai vari dèi e principio femminile costituito da tali forme
metriche.
78 riss 4, 2010 ∙ articoli
In questo conciso quadro del sacrificio originario, vediamo che ben due
strofe (le strofe 4 e 5) sono dedicate ai metri vedici (in ordine crescente per
numero di sillabe14) in associazione con le varie divinità, mostrando che
tali metri sono alla base stessa della cosmogonia.
Un riferimento esplicitamente musicale si trova nella menzione dei
Sāman, le strofe cantate recitate dal sacerdote Udgatṛ, come spole per tessere
il sacrificio primordiale. Eppure riferimenti specifici al sistema musicale non
sono facili da trovare. Il termine svara, che può significare ‘suono, accento
prosodico-musicale, vocale’, ed è usato nella trattatistica musicale per indi-
care le note, non appare usato in questo senso nel Ṛgveda; nella trattatistica
vedica, d’altronde, le note sono chiamate yama (cfr. i testi citati a pp. 80–81).
Potremmo vedere un riferimento alle note nell’espressione saptá vā́ṇīḥ, le
‘sette voci’, dove il termine vā́ṇī può avere, secondo Grassmann (1955: 1257),
autore del dizionario del Ṛgveda, il significato di “Gesang, Musik”, e nel rag-
gruppamento di sette può indicare “die sieben Tonweisen oder Liedformen”.
Secondo il commento di Sāyaṇa a ṚV I.164.24 — citato da Geldner (1951: i,
232) — si tratta però dei sette metri, e il contesto sembra a favore di quest’ul-
tima interpretazione. Infatti, dopo aver menzionato alcuni metri come il
12. L’uso di manye ‘penso, credo, ritengo’ sembra introdurre una sfumatura di soggetti-
vità, come se il poeta non fosse pienamente sicuro se la sua visione concerna la realtà o sia
una sua immaginazione, diversamente dal Ṛṣi di VIII.59, che confidava nel potere derivato
dall’ascesi.
13. In senso tecnico, āvṛ́t indica l’atto rituale senza parole e canto (cfr. ŚBr VI.2.1.39).
14. Ogni metro ha infatti quattro sillabe più del precedente, a partire dalla strofa Gāyatrī
che ne ha 24 (3 Pada di 8 sillabe) fino alla Jagatī che ne ha 48 (4 Pada di 12 sillabe): non a caso,
essendo la strofa più ampia, è associata con tutti gli Dèi. Cfr. KS XIV.4, dove abbiamo gli stessi
metri; ŚBr X.3.1.1, dove abbiamo invece il metro Paṅkti al posto del metro Virāj; ṚgPr XVI.1–2.
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 79
15. Geldner (1951: I, 228) invita al confronto di ṚV VIII.59.3–4, dove troviamo le sette voci
e le sette sorelle.
16. Si veda Howard (1977: 29–38). Fox-Strangways (1914) propose la teoria dell’origine della
scala sāmavedica da un tetracordo, visto che i nomi delle note che riportano i numeri cardina-
li (prathama-dvitīya-tṛtīya-caturtha) sono assegnati in ogni trattato alle note fa – mi – re – do.
Queste avrebbero formato una scala simile all’antico gāndhāra grāma. Faddegon (1951)
ipotizzò invece una originaria scala pentatonica, trasformata solo nel periodo post-vedi-
co. Śeṣagiri Śāstrī (Śeṣagiri Śāstrī e Raṅgācārya 1901–1905: 76–78), così identificò la scala
sāmavedica: fa – mi♭ – re – do – la – si♭ – sol, con un vakratva ‘inversione’ tra il Dhaivata ‘la’ e il
Niṣādha ‘si’, attestata dalla Nāradīya Śikṣā (I.5.1–2). Egli osservò tuttavia che la sesta e settima
nota (si e sol) si trovano raramente, e che la melodia del Sāmaveda è uniforme e può essere
identificata con il Rāga Ābhogi, che ha solo cinque note. Questo è classificato nel sistema car-
natico come jānya rāga, ovvero un ‘Rāga derivato’, in questo caso dal Rāga Kharaharapriya,
che presenta una scala di sette note identica a quella proposta da Śeṣagiri Śāstrī.
80 riss 4, 2010 ∙ articoli
17. Cfr. l’edizione di Max Müller (CCLXXI–CCLXXIV), dove il filologo tedesco così inter-
preta il terzo Pada: “In diesen drei Stellen ist ein Yama ohne einen andern Yama nicht zu
unterscheiden”, benché anantara non significhi ‘senza un altro’ ma ‘senza intervallo, conti-
nuo, contiguo’. Potrebbe significare che sono distinte solo le sette note che hanno un inter-
vallo definito le une rispetto alle altre, mentre i suoni intermedi tra queste (senza intervallo
definito) non sono distinti come note. Il commentatore Uvaṭa spiega: Anantare yame viśeṣo
na śakyate darśayitum ity arthaḥ. A proposito del quarto Pada, questa invece è la glossa:
Ye te sapta svarāḥ, ṣaḍja-ṛṣabha-gāndhāra-madhyama-pañcama-dhaivata-niṣadāḥ svarā
iti gāndharvavede samāmnātāḥ, tathā sāmasu kruṣṭa-prathama-dvitīya-tṛtīya-caturtha-
mandra-atisvāryā iti, te yamā nāma veditavyāḥ. Ciò significa che le note della scala “pro-
fana” del Gāndharvaveda corrispondono a quelle, dette yama, del canto sāmavedico, che
hanno nomi diversi. Poi si aggiunge, per spiegare l’ultima alternativa: Athavā svarebhyaḥ
pṛthagbhūtā anye yamāḥ svareṣu vartante. Eteṣām mṛdutvam tīkṣṇatvam ceti veditavyam.
Ovvero, la differenza tra svara e yama starebbe nella diversa altezza delle note, indicata dai
sostantivi astratti mṛdutva ‘mollezza’ e tīkṣṇatva ‘asprezza, acutezza’, che corrispondono
ai termini komala ‘morbido, bemolle’ e tīvra ‘acuto, diesis’ della terminologia della musica
classica indiana. Cfr. Howard (1977: 31–35), dove si cita la Nāradīya Śikṣā I.5.1–2, che in-
dica le corrispondenze tra le singole note della scala sāmavedica e di quella del flauto (yaḥ
sāmagānāṃ prathamaḥ sa veṇor madhyamaḥ svaraḥ, ecc.).
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 81
Un indizio del fatto che tali tre gamme potessero essere note sin dall’epoca
vedica si può trovare inoltre nel fatto che siano usate anche nel più sem-
plice degli strumenti, il flauto. Sono associate al petto, alla gola e al capo
(Taittirīya Prātiśākhya XXIII.10–11;18 Nāradīya Śikṣā I.719) e un’allusione
al canto in queste tre diverse ‘posizioni’ è probabilmente già presente in
Pañcaviṃśa Brāhmaṇa VII.1.7.20
Possiamo quindi supporre che esse fossero note già in età rigvedica e
che rappresentassero la totalità dei suoni utilizzabili nel canto sacro e nel-
la musica sacra. La vacca è simbolo naturale della dea Parola nella cultura
vedica, e i “nomi” possono essere appunto quelli delle note musicali, che
potrebbero essere stati presenti già nelle prime classificazioni. Bisogna an-
che tenere conto del fatto che il “nome”, nel linguaggio e nella mentalità del
Ṛgveda, indica un’essenza, e sta per la cosa stessa. Parlare di nomi signifi-
ca parlare delle suddivisioni ontologiche della Parola, che è anche canto.
Queste suddivisioni sono però note solo al saggio e trasmesse come segreti,
come continua la strofa appena citata (VII.87.4cd):
Vidvā́n padásya gúhyā ná vocad yugā́ya vípra úparāya śikṣan | ‘Colui che
conosce la traccia [della Parola] esponga [quei nomi] come [si fa con i] se-
greti, desiderando essere utile l’ispirato alla generazione successiva’.
18. Urasi mandraṃ kaṇṭhe madhyamam̆ ˙ śirasi tāram. Mandrādiṣu triṣu sthāneṣu sapta-
sapta yamāḥ. ‘Nel petto il [registro] grave, nella gola il medio, nel capo l’acuto. Nei tre regi-
stri che cominciano dal grave [vi sono] sette toni ciascuno’.
19. Uraḥ kanthaḥ śiraś caiva sthānāni trīṇi vāṅmaye ‘Il petto, la gola e il capo [sono] inve-
ro i tre registri nel modo di emettere la voce’ (citato in Howard 1951: 32).
20. Mandram ivāgra ādadītātha tārataram atha tāratamaṃ tad ebhyo lokebhyo ’gāsīt
‘Dovrebbe cominciare in tono basso, poi più acuto, poi nel tono più acuto. Così egli canta
in vista di questi [tre] mondi’. Cfr. Caland (1931: 133).
21. Cfr. Renou (1955–1969: I, 10), dove si afferma: “C’est la Vache en effet qui détient les
noms. Son «pas caché» 4.5, 3, autrement dit son «nom secret» 5.3, 3, est l’arcane par excel-
lence, dont le poète cherche la révélation. C’est par ce détour que padá «pas, trace de pas» a
82 riss 4, 2010 ∙ articoli
Tríḥ saptá yád gúhyāni tvé ít padā́vidan níhitā yajñíyāsaḥ | tébhī rakṣante
amṛ́taṃ ‘Tre volte sette tracce [parole] segrete trovarono in te riposte i
venerabili, con esse custodiscono l’immortalità’.
Il riferimento alla madre può far pensare alla Terra (cfr. ṚV X.54.3), per
la quale il Naighaṇṭuka dà 21 nomi, come abbiamo detto sopra. In un al-
tro passo (ṚV IV.2.15) la madre è Uṣas, l’Aurora; tuttavia, come osserva
Geldner,23 la madre è qui la dhenú ‘vacca da latte’, menzionata prima. In
ṚV Viii.100.11c troviamo l’espressione: ū́rjaṃ dúhānā dhenúr vā́g ‘la Parola,
vacca che dona vigore [come latte dal suo seno]’. Possiamo quindi ipotizza-
re che la vacca sia anche qui simbolo della Parola e che i tre volte sette nomi
siano le divisioni della sua espressione musicale, le note del canto sacro. In
pris dans l’usage banal le sens de «mot»: les «pas» que trouvent les êtres prédestinés sont à
la fois les traces du dieu et le symbole que comporte le langage poétique.”
22. Renou (1955–1969: XIII, 2) così traduce: “Ces (seigneurs) évoquèrent pour la première
fois le nom de la vache-laitière”, intendendo prathamáṃ come avverbio. Diversamente,
Geldner (1951: I, 415) traduce “Sie erinnerten sich an den ersten Namen der Kuh”, inten-
dendo quindi non una prima apparizione del nome, ma un ricordo, che permette di chia-
mare le vacche nascoste per nome, cosicché esse rispondono (Geldner 1951: I, 415, n. 16a).
23. Geldner (1951: I, 415, n. 16a), dove riafferma anche la sua interpretazione dei nomi
segreti: “Die Geheimnamen der Kuh sind skaldischer Ausdruck für die Dichtersprache
des ṚV”.
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 83
Da questo passo appare chiaro il referente reale della metafora della traccia
della vacca proveniente dal contesto pastorale e traslato sul piano della cre-
azione poetica e musicale. Il dio del fuoco sacrificale, che essendo un’entità
luminosa ha come carattere la sapienza e che è l’oblatore degli Dèi, scopre il
canto sacro e lo rivela al devoto in attesa di ispirazione.
Altri dèi, i Marut, dèi dei venti e della tempesta, figli della vacca Pṛśni,
forse metafora della nube, sono detti rébhāḥ ‘cantori’ e sono contati in nu-
mero di tre volte sette, forse identificandoli con la totalità dei suoni. Un’altra
allusione interessante proviene da AV I.1, inno al signore della Parola,
Vācaspati, che invoca il potere dei “tre volte sette che si aggirano prendendo
ogni forma”, descrizione che si adatta bene ai Marut.
Un’altra divinità che è connessa con la musica è Soma, la bevanda sacra
offerta agli dèi, perché il canto sāmavedico opera esclusivamente nel sacri-
ficio del Soma. Probabilmente per questo motivo un suo epiteto nel Ṛgveda
(IX.85.4, IX.96.18) è sahásraṇītha, che potrebbe significare ‘dai mille canti
o modi musicali’;24 lo stesso epiteto è riferito in ṚV X.154.5 ai Kavi ‘poeti-
veggenti’ che ormai trapassati “custodiscono il Sole”.
24. Infatti il termine neutro nīthá secondo Monier-Williams (1899: 565), significa “a
mode in music, musical mode or air, song, hymn” nel Ṛgveda. Il termine appare in un
inno ad Agni (ṚV IV.3.16) connesso con le “parole nascoste” (etā́ víśvā […] nīthā́ny agne
niṇyā́ vácām̆
˙ si […] áśam̆
˙ siṣam). In Aitareya Brāhmaṇa II.38.9 troviamo la formula somo
viśvavin nīthāni neṣad ‘l’onnisciente Soma conduca i canti’. Esiste poi l’epiteto nīthā-víd
(nītha-v° nel Prātiśākhya), tradotto da Monier-Williams (1899, s.v.) “knowing musical
modes, skilled in sacred song”, e che troviamo in ṚV. III.12.5 riferito ai nīthāvído jaritā́raḥ
‘cantori’.
84 riss 4, 2010 ∙ articoli
Da quanto è stato fin qui illustrato si può affermare che negli inni del
Ṛgveda, testi di preghiera destinati al rito, i riferimenti specificamente mu-
sicali sono rari ed enigmatici. Il centro dell’interesse è la Vāc ‘Parola’, che
è indistintamente linguaggio, poesia e canto, e la cui unità non è la nota
musicale, ma la sillaba. La sillaba, in quanto costruisce il verso, è porta-
trice non solo di valore fonetico ma anche numerico, costituendo così una
struttura dotata di efficacia magica perché inserita nell’ordine cosmico, che
è intessuto di suoni e di numeri. Altri poteri attribuiti al linguaggio sono
quello insito nel Nome degli dèi e delle altre entità, nonché quello della pre-
ghiera e la capacità di esprimere le intuizioni dei poeti-veggenti. A tutto ciò,
la musica aggiunge probabilmente un potere ulteriore, che è però presente
nei Sāman, e non negli inni recitati.
Allusioni più chiare ad una teoria musicale si trovano in testi più tardi,
come l’Atharvaveda. Nell’inno al Residuo del Sacrificio (AV XI.7) si trova
infatti un elenco di elementi della Parola Sacra (str. 5):
Ṛ́k sā́ma yáyur úcchiṣṭa udgītháḥ prástutam stutám | hiṅkārá úcchiṣṭe svá
raḥ sā́mno meḍíś ca tán máyi || ‘La strofa [Ṛk], la strofa cantata [Sāman] e
la formula sacrificale [Yajus] [sono] nel Residuo, il canto [dell’Udgatṛ], il
preludio [del Prastotṛ], la laude, il suono Hiṃ [è] nel Residuo, la nota [o
l’accento] e il mormorio della strofa cantata, ciò è in me’.
Il termine svara sembra qui piuttosto usato nel senso di ‘accento’, ovvero
variazione della voce nella recitazione invece che posizione della voce nel
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 85
Il testo della Chāndogya Upaniṣad dice poi che la strofa, la strofa cantata e
il canto sono la Parola, il soffio vitale e la sillaba Oṃ, che unisce in sé Parola
e soffio vitale, le due potenze cosmiche complementari. Questa unione per-
mette di appagare tutti i desideri. Il canto sacro, infatti, non è una forma di
intrattenimento, ma un mezzo per realizzare i propri desideri, una sorta di
preghiera potenziata. Secondo ChUp I.3.8–12, il recitante raggiunge il proprio
fine quando si ricorre al Sāman, alla strofa rigvedica, al Ṛṣi che ne è l’autore,
alla divinità che ne è l’oggetto, al metro poetico relativo, a una specifica forma
di canto (stoma), e alla direzione appropriata verso la quale si vuole cantare
l’inno. Quindi, concentrandosi su se stessi, si deve cantare l’inno meditando
sul proprio desiderio senza distrarsi. In questo modo, assicura l’Upaniṣad,
c’è speranza che il desiderio si realizzi. È implicito che tale successo è dovuto
al fatto che una precisa esecuzione rituale, poetica e musicale si inserisce
nell’ordine cosmico di cui i Veda sono considerati la perfetta manifestazione.
25. Secondo un altro passo (ChUp I.8), il Sāman proviene dalla nota o dallo svara ‘suono’,
e il suono proviene dal prāṇa ‘soffio vitale’. L’identificazione dello svara col prāṇa si trova
già affermata e ripetuta in PBr VII.1.10; VII.3.28; XVII.12.2; XXIV.11.9.
86 riss 4, 2010 ∙ articoli
26. Altri riferimenti si trovano in Bṛhad Āraṇyaka Upaniṣad II.4.7–9, dove all’interno di
un’argomentazione filosofica vengono menzionati il dundubhi ‘tamburo’, lo śaṅkha ‘con-
chiglia’ e la vīṇā ‘liuto’ come esempi della natura del suono.
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 87
27. Si allude qui ad un gioco di parole tra il verbo sámavindanta ‘ottenevano’ (dalla radice
saṃ-vid-) e la vedi, per cui questa viene interpretata come connessa etimologicamente alla
radice vind- ‘trovare, ottenere’.
88 riss 4, 2010 ∙ articoli
tria indiana più antica. Talvolta potremmo leggerci persino alcune semplici
dimostrazioni, come è nel caso del calcolo dell’area a forma di trapezio del-
la Mahāvedi, di cui viene spiegata la procedura:
33. Perinu (1981: 19, n. 21). “Gli inni sono frammentati in mantra, e spesso i mantra ri-
chiamano l’attenzione soltanto perché contengono una certa parola, un certo morfema,
una certa sillaba, indipendentemente dal senso generale della frase. […] Disarticolati, di-
spersi, i mantra citati dai Brāhmaṇa formano una collezione di elementi divisibili e mobili
molto più di un continuum testuale che trarrebbe il suo significato dal concatenamento
delle parole e delle frasi” (Malamoud 1994: 298).
34. Accanto allo ātodya ‘musica strumentale’, Pingree (2001a: 703). Nel mito sul rito del
Soma, lo strumento a corda serviva agli dèi soltanto per far ritornare a loro la Parola scam-
biata coi gandharva (vedi oltre) per ottenere la pianta sacrificale. Ma appare un inganno,
uno strumento usato solo perché il sacrificio con l’offerta del Soma si basa sulla Parola dei
Veda, cfr. Malamoud (1994: 181–182).
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 91
35. La notazione kaṭapayādi prende il nome dalle lettere con cui ha inizio: k, ṭ, p, y. Si veda
Hayashi (2001: 783).
36. L’ultimo periodo di 432.000 anni, detto kaliyuga, si ritroverebbe anche nei miti babilo-
nesi (Pingree 2001b: 720). Il gioco con i primi quattro numeri 1, 2, 3, 4, i quali danno la som-
ma di 10, potrebbe aver colpito l’immaginazione tanto dei babilonesi, che dei greci e degli
indiani. Ma dovremmo constatare come culture diverse arrivassero a conseguenze diverse.
92 riss 4, 2010 ∙ articoli
to con particolare precisione. “Esistono sette svara ‘note’, tre grāma ‘gam-
me’, ventuno mūrchana ‘scale modali’, quarantanove tāna ‘basi dei modi’,
tre mātrā ‘unità di tempo’, tre laya ‘tempi’. Ci sono tre sthāna ‘registri’, tre
yati ‘pause’, sei hāsya ‘modi di sorridere’, nove rasa ‘emozioni’, trentasei
varṇa ‘colori, modi’ e sei volte sette bhāṣā ‘stili di canto’” (Daniélou & Bhatt
1959: 47). “Tutto quello che in questo mondo appartiene alla lingua, sia-
no la parola o i [suoni] artificiali [degli strumenti], ha per materia le sette
note […] La nota Ṣaḍja ‘nata dai sei’ ha il colore [rosso] del petalo del loto.
Ṛṣabha ‘toro’ è verdegialla come il pappagallo. Gāndhāra ‘regione del Nord-
Ovest’ è dorata. Madhyama ‘mediana’ ha il colore del gelsomino. Pañcama
‘quinta’ è nera. Dhaivata ‘armoniosa’ è giallo vivo e Niṣāda ‘che sta in basso’
è multicolore”. Esse vengono descritte secondo il percorso nel corpo uma-
no che le genera dall’ombelico su su fino alla testa. Sono messe in relazione
alle caste, agli animali, alle divinità, ai Veda (Daniélou & Bhatt 1959: 51–73).
Le note sono raggruppate in mūrchana ‘scale modali’ e descritte se-
condo le circostanze loro adatte. Stesso criterio veniva seguito per i tāna
‘basi dei modi’. Il Sāmaveda veniva cantato nel tāna brāhma, per l’amore
si adoperava il tāna geha ‘dimora’ (Daniélou & Bhatt 1959: 121 e 125). Come
le sillabe, le note hanno una durata hrasva ‘breve’, dīrgha ‘lunga’ o pluta
‘prolungata’, misurata in mātrā ‘tempo di un batter d’occhio’. Si definivano
le emozioni relative, dallo śṛṅgāra ‘amore’ allo śānta ‘pace’. I sei diversi tipi
di hāsya ‘riso’ servono per accattivare l’ascoltatore (Daniélou & Bhatt 1959:
147–149). I varṇa ‘modi’, infine, sono classificati in maschili, femminili e
generati, con l’elenco dei loro effetti: saurī ‘del sole’, l’ottavo modo femmi-
nile rende felici gli ascoltatori; draviḍī ‘della gente del Sud’, il quarto modo
generato, porta fortuna, e così via (Daniélou & Bhatt 1959: 185 e 189).
Tra tutti questi particolari, non si trova neanche accennato il problema
di come fissare con precisione relativa l’altezza delle note. “Le sillabe posso-
no venir [pronunciate] in tre sthāna ‘registri’: di petto, di gola e di testa. Le
persone che conoscono le Scritture dicono che li si chiama le tre spremiture
[offerte del soma al mattino, mezzogiorno e sera]” (Daniélou & Bhatt 1959:
139). Purtroppo, proprio in questo punto il testo appare mutilo ed è com-
pletato dai commentatori seguendo trattati di fonetica o libri sulla musica
molto posteriori.
Nel Saṃgītaratnākara ‘Miniera di gemme per la musica’ (1.3.7) infatti
si legge il passo seguente: “Nella pratica però [gli sthāna] sono [divisi] in
tre parti: nel cuore [l’ottava] considerata mandra ‘grave’, nella gola quella
madhya ‘mediana’, nella testa quella tāra ‘acuta’, [ognuna] doppia in senso
ascendente” (Daniélou & Bhatt 1959: 138–139). Ma il trattato è molto più tar-
do, essendo stato composto da Śārṅgadeva (tra il IX ed il XIII sec.) e com-
94 riss 4, 2010 ∙ articoli
37. Nāṭyaśāstra 28, 29, 30, 33. Ma neanche in questo, nonostante l’opinione di uno studio-
so come Alain Daniélou, ci riuscirebbe trovare qualche parentela con le concezioni musi-
cali greche prevalenti, come vedremo presto (Daniélou & Bhatt 1959: viii).
38. Satyanarayana (2005: 184). L’epiteto in questione può voler dire anche ‘senza paura’.
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 95
con daṇḍa e corde di misure simili, accordando in modo simile le ultime nel
ṣaḍja grāma. Poi una delle vīṇā deve venir accordata nel madhyama grāma,
abbassando pa di una śruti. La stessa vīṇā, aggiungendone una al pa, sarà
accordata nel ṣaḍja grāma. Questo è il significato del calare di una śruti”
(Nāṭyaśāstra 28.23; 28.27–28). “Le note del vaṃśa ‘flauto’ dovranno venir per-
fezionate e stabilite con l’aiuto della vīṇā e della voce umana […] L’unisono
della voce umana, della vīṇā e del flauto è apprezzato in modo particolare”
(Nāṭyaśāstra 30.11–13). “Il suono è aereo [ovvero, sta nell’aria] ed è di due
specie, una dotata di svara ‘nota musicale’ e l’altra di abhidhāna ‘significato
semantico’ […] sette svara sono stati proclamati sulla vīṇā come sulle corde
vocali umane. Gli stessi si producono negli ātodya ‘strumenti’. Le note che
vengono dal corpo umano sono trasmesse alla vīṇā di legno, poi ai puṣkara
‘tamburi’ ed infine ai ghana ‘cimbali, campane, gong’” (Nāṭyaśāstra 33.29–35).
Anche nel Nāṭyaśāstra i tre sthāna ‘registri in altezza’ venivano collocati
nell’uras ‘petto’, nel kaṇṭha ‘gola’ e nello śiras ‘testa’ (Nāṭyaśāstra 19.38–40).
Dunque, per accordare uno strumento come la vīṇā, si teneva conto della
loro lunghezza ma agendo sulla loro tensione. Il musicista, guidato dagli
organi di senso, aggiungeva e toglieva śruti, che sono gli intervalli “udibili”.
La voce umana resta il riferimento fondamentale, mentre tutto viene fatto
risalire a Brahmā, Śiva e ai Veda (Nāṭyaśāstra, cap. 1). Le proporzioni nu-
meriche mancano del tutto.
Dal Nāṭyaśāstra al Saṃgītaratnākara è comunque testimoniata l’arte di
scomporre lo sthāna in ventidue śruti. Ma solo quando lo si identifichi con
l’ottava greco-occidentale, le śruti possono diventare quarti di tono. Questi,
tuttavia, non trovano spazio nella cultura greca pitagorica ortodossa. Soltanto
la scuola ad essa rivale di Aristosseno teorizzava i quarti di tono e lo face-
va utilizzando nella pratica della musica l’orecchio invece delle proporzioni
numeriche (Tonietti, in stampa: §1.5). Ammessa dunque per ipotesi, ma non
concessa né nel merito né nel nostro stile storico, “une parenté certaine avec
les théories musicales de la Grèce” come crede Alain Daniélou (Daniélou &
Bhatt 1959: v), tale parentela poteva eventualmente esserci stata soltanto con i
musicisti alla Aristosseno, che furono messi da parte, non certo con i pitago-
rici. Per arrivare ai quarti di tono attraverso i numeri, i teorici europei della
musica avrebbero dovuto imparare a contare ben al di là di quattro, fino a
sette, aspettando fino al XVIII secolo, con Leonhard Euler (1707–1783).39
Lo studio dei testi ci ha portato a comprendere quanto la musica degli
indiani fosse lontana in origine dalle teorie matematiche greche (cfr. Perinu
40. A.N. Sanyal: “il concetto di ottava […] non può essere accettato per la musica classica
indiana […] Né le tradizioni antiche, né la pratica moderna [lo] recano” (citato da Perinu
1981: 40, n. 16). Altrimenti avrebbero scritto aṣṭaka ‘gli otto’.
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 97
mente che vorrebbero tenersela. Ma gli dèi si chiedono come potrebbe cele-
brarsi un rito senza i mantra. Allora essi per riprendersela la seducono can-
tando al suono della vīṇā, creata apposta (Malamoud 1994: 181–182).41 Nel
ricorrente dualismo, la musica veniva tirata talvolta verso l’alto come nel
canto dei Veda, talaltra verso il basso come strumento di seduzione. La ben
nascosta o probabilmente assente teoria matematica della musica in India
trova anche corrispondenza nella storia di tale ambiguità. Come infatti
avrebbe potuto vivere in quel mondo spaccato in due? Non schierarsi da
una parte o dall’altra significava condannarsi all’invisibilità o all’assenza?
Questa concezione della musica sembra seguire le orecchie e non i nu-
meri, sfuggendo persino a quelli contati dai brahmani nel momento in cui
si assegnano i nomi. Appare in bilico tra cielo e terra, ma preferisce scen-
dere giù tra gli esseri viventi. Elaborate dai musicisti e non dai gaṇaka, in
India abbiamo trovato prevalere teorie della musica che assomigliano a
quella di Aristosseno. In Europa, bisognerà aspettare Jean Le Rond d’Alem-
bert (1717–1783) nel secolo XVIII per trovare qualche matematico che per
essa preferisse fidarsi delle proprie orecchie (Tonietti 2002).
Il ruolo indispensabile assegnato nella musica indiana ai molti tipi di
tamburi non ha eguali in Europa. Il mito della loro invenzione viene rac-
contato nel Nāṭyaśāstra 33.4–13 nel modo seguente:
Grazie alla velocità della raffica di vento, suoni chiari vennero prodotti sui
gruppi delle foglie di loto dalle colonne d’acqua che cadevano. Udendo il
suono che nasceva dalle colonne d’acqua precipitanti giù, [Svāti] lo con-
siderò un avvenimento misterioso e quindi lo osservò con attenzione.
Ritornò nell’eremitaggio con la conoscenza piena di suoni alti, medi e bassi
prodotti sulle foglie di loto come maestosamente profondi, dolci e deliziosi.
Il mito greco circa l’invenzione dei rapporti per la musica fa invece riferi-
mento a Pitagora che classificava i suoni secondo la grandezza dei martelli
uditi nell’officina di un fabbro (Tonietti, in stampa: §1.1).
Śārṅgadeva registrava il biforcarsi della tradizione indiana per il
canto tra la musica “hindustana” del Nord e quella “carnatica” del Sud
(Satyanarayana 2005: 202; Perinu 1981: 9). Erano allora arrivati gli stranieri
dal Medio Oriente con le loro diversità culturali.
41. Gāndharva era anche un tipo di matrimonio d’amore così definito: “Unione volonta-
ria di una fanciulla e del suo amante, ha per causa il desiderio e per fine il piacere sessuale”
(Malamoud 1994: 172).
98 riss 4, 2010 ∙ articoli
Nel cinese Qian Hanshu ‘Libri degli Han anteriori’ (I sec.), sezione Lülizhi
‘Annali delle canne e del calendario’, leggiamo la seguente procedura per
intonare le lülü ‘canne’ (Qian Hanshu 21A.963–964):42
Tian zhishu shi yuyi, zhongyu ershiyouwu. Qiyi jizhi yisan, gu zhiyi de-
san, you ershiwufen zhiliu, fan ershiwu zhi, zhongtian zhishu, deba shiyi,
yi tiandi wu weizhi he zhong yushizhe chengzhi, wei babai yishi fen, ying
litong, qianwubai sanshijiu suizhi zhangshu ‘I numeri del cielo comincia-
no da 1, tutti insieme essi valgono 25.43 Poni 1 per ottenere 3;44 scrivi 25, il
numero dell’intero cielo, per ciascun 3. Ed ancora poni 6, ottenendo 81.45
Prendi 5, il numero del cielo e della terra;46 aggiungicelo per ottenere 10.
Moltiplica tutto per 10; questo fa 810 fen.47 Il calendario considera i tong,
il numero degli zhang in 1539 anni’.
42. Traduzione di Tito Tonietti (2003: 238–239). Cfr. Needham, Wang & Robinson (1962:
212); Robinson (1980: 71–72).
43. 1 + 3 + 5 + 7 + 9 = 25. I numeri vengono dallo Yijing ‘Classico dei mutamenti’; Needham &
Wang (1959: 56).
44. Circonferenza lunga 3 di diametro lungo 1; [π] = 3.
45. 3 × 25 + 6 = 81.
46. 3 + 2 = 5.
47. Un fen vale circa un terzo di centimetro.
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 99
Huangzhong zhi shiye. […] cizhiyi, qi shier lü[lü] zhi zhoujing. ‘Questo
[810] dunque è il solido della Huangzhong. […] Ciò significa costruire il
diametro per la circonferenza delle 12 lülü’.
Huangzhong significa ‘campana gialla’. È il nome della prima nota che viene
emessa dalla prima lülü. Fin da questi tempi antichi, le 12 lülü erano quelle
canne con le quali la cultura cinese sceglieva il suo modello standard per
accordare tutti gli altri strumenti musicali. Nell’etica confuciana, domi-
nante all’epoca dell’impero Han, gli strumenti musicali venivano conside-
rati importanti, particolarmente per i riti imperiali.
81 era anche il numero il quale forniva il legame tra la prima nota della
prima canna ed il calendario, basato sui moti periodici del sole e della luna.
Infatti, il testo stabiliva che ogni 81 zhang si completasse un tong: 19 × 81
anni = 1539 anni. Erano questi gli intervalli di risonanza nei quali i periodi
del sole e della luna si incontravano, approssimativamente (Needham &
Wang 1959: 406).
Meng Kang commentava di nuovo lo stesso passo:
Lü kongjing sanfen, can tianzhishu ye; wei jiufen, zhongtian zhishuye ‘3 fen
è il diametro per l’apertura della canna; si riferisce anche al numero del
cielo; la circonferenza vale 9 fen; è il numero dell’intero cielo’.
solo la lunghezza, tuttavia nella pagina dello Hanshu appena citata, per ge-
nerare le tre differenti note veniva mutato persino il diametro. Bisognerebbe
notare che il diametro seguiva lo stesso rapporto della lunghezza. Questi
letterati si erano inventati una regola matematica la quale si accordava bene
con le orecchie. Se la Huangzhong è lunga 90 fen e aperta 9 fen, per ottenere
la Linzhong non basta accorciarne solo la lunghezza di 2:3, quindi a 60 fen;
altrimenti l’altezza ne risulterebbe meno acuta di quanto richiesto dall’o-
recchio per tale nota (la quinta europea). La buona intonazione richiede
che anche il diametro ne debba venir diminuito di 2:3 fino a 6 fen. La stessa
regola generava la Dazu, aumentando da 6 ad 8 nel rapporto 4:3, sia in lun-
ghezza sia in diametro.
Per gli storici dovrebbe essere interessante che, a mia conoscenza,
nessun’altra cultura avesse inventato un modo simile di accordare gli stru-
menti centrato sulle canne. Inoltre, nessun’altra cultura si era procurata
una procedura matematica la quale funzionasse altrettanto bene anche con
le canne (Tonietti 2003; Tonietti, in stampa: §5.7. Cfr. Palisca 1961).
Per secoli in Occidente, di fatto, si stabiliva una teoria della musica or-
todossa la quale favoriva le corde. Dai tempi delle sette note pitagoriche ad
Euclide e fino a Claudio Tolomeo, la matematica corrente dei rapporti 2:1,
3:2, 4:3 non si conciliava bene né con l’intonare canne, né con la tensione
delle corde. Quindi, questi studiosi avevano messo da parte il problema,
focalizzando la loro teoria sulla lunghezza delle corde. In generale, costoro
licenziavano le canne come se fossero imperfette, terrene ed intrattabili, ri-
spetto a quella corda ideale, celeste, astratta, ad una sola dimensione detta
“monocordo” (Ptolemaeus 1682: 33–34; Tonietti, in stampa: cap. 1).
Questo tipo di teoria greca veniva ancora seguita come la visione or-
todossa prevalente anche nella cultura araba. Nella Dār al-Islām ‘Dimora
dell’Islam’, fra gli altri, Al-Fārābī (circa 872–950), ed Ibn Sīnā (Avicenna,
975–1037) scrivevano molte pagine nella teoria della musica. Il secondo le
lasciava nel Kitāb al-Shifāʾ ‘Libro per guarire [dagli errori]’, il primo nel
Kitāb al-Mūsīqā al-Kabīr ‘Grande libro della musica’.48
Come ben noto, gli studiosi arabi49 leggevano volentieri i libri greci, li
traducevano in arabo e prendevano da essi molte nozioni di matematica,
48. Questa parte è stata elaborata con l’aiuto di Michele Barontini, suonatore di ud ‘liu-
to’ e studioso di musica araba. Un’edizione francese di questi libri musicali è quella di
D’Erlanger (1930–1935).
49. Di fronte ad altri modi possibili, preferisco indicarli con l’aggettivo “arabo / i”, perché
scrivevano tutti in lingua araba; anche se molti provenivano dalla Persia (ad esempio Ibn
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 101
Sina) e dall’Asia centrale. Talvolta, neanche professavano una religione islamica ortodossa,
ammesso che esista.
50. La successioni di numeri sono “geometriche”. Vuol dire che un numero si ottiene dal
precedente moltiplicando per un rapporto. Ad esempio nella prima successione da 56 si
ottiene 64 moltiplicando per 8:7 e così via secondo i rapporti indicati. Lo stesso vale per la
successione seguente pitagorica, seguendo la stessa regola con numeri e rapporti diversi.
102 riss 4, 2010 ∙ articoli
4. NOTE CONCLUSIVE
Tipicamente cinese era temperare canne coi numeri anche nel diametro
e non solo in lunghezza. L’europeo Vincenzo Galilei (1520–1591) padre
del più famoso Galileo faceva qualcosa di simile, ma soltanto molto più
tardi, nel secolo XVI (Galilei 1581; Galilei 1589). I valori cinesi scaturivano
da un orientamento mondano; venivano guidati dal qi, da bisogni pratici,
da una lingua comune condivisa dai letterati ed usata per ogni soggetto
Benedetti, Tonietti ∙ Sulle teorie indiane della musica 103
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