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Focus

Quando aspettare è valore:


una riflessione etica sul tempo di attesa
Massimiliano Colucci Massimiliano Colucci è medico specialista
Chiara Bertoncello in Igiene e medicina preventiva e perfezio-
nato in Bioetica della sanità pubblica, e la-
vora nella Direzione sanitaria dell’Istituto
Oncologico Veneto di Padova.
Chiara Bertoncello è ricercatrice presso l’U-
1. Tempo di attesa, governance, valore niversità degli Studi di Padova e si occupa
di analisi dei bisogni, della domanda e
Il tempo che intercorre tra il momento in cui un as-
dell’offerta per l’implementazione delle stra-
sistito chiede una prestazione e il momento della sua tegie socio-sanitarie e la programmazione e
erogazione è chiamato “tempo di attesa”. A livello na- l’organizzazione delle attività assistenziali.
zionale, la sua gestione è ritenuta fondamentale fin
dal primo decreto sui LEA (2001), che introduceva alcune linee guida sulle priorità di acces-
so e sui tempi massimi: di fondo v’è la convinzione che un LEA sia davvero garantito solo se
la prestazione è tempestiva in rapporto al bisogno di salute. In seguito, un altro importante
provvedimento in tema è stato il Piano nazionale di governo delle liste di attesa (PNGLA,
l’ultimo dei quali riguarda il triennio 2010-2012).
Se si considera il concetto di governance, al suo interno si ritrovano le idee di “rendere
conto” e di “qualità e miglioramento”. Queste, a loro volta, implicano un destinatario ester-
no al sistema con cui il sistema stesso è chiamato a confrontarsi. Alla base di ogni “governo”,
quindi, c’è un approccio culturale in cui l’organizzazione sanitaria progetta l’assistenza in
relazione al paziente [1].
Ogni percorso, in realtà, andrebbe orientato alla persona, sia sul piano semantico (del
“significato” che assume nel sistema), sia sul piano teleologico (ovvero dei suoi “obiettivi”).
Difatti, ragionando in termini di “sanità basata sul valore” (value-based healthcare), a indiriz-
zare il processo assistenziale dovrebbe essere “ciò che conta per i pazienti” [2], considerando
l’intero percorso che questi svolgono.
L’etimologia della parola “valore” comporta però una duplicità [3]. Una cosa “vale” per
caratteristiche proprie, oggettive (ad esempio, il costo o l’efficacia di una prestazione), ma al
tempo stesso per effetto di una stima soggettiva, ovvero di una val-utazione che la persona fa
della cosa stessa, e che dipende da principi, scopi, e interpretazioni individuali. Per l’assistito,
“la qualità corrisponde in effetti a una percezione […] piuttosto che ad una proprietà intrinseca,
assoluta” [4]. A parità di valore oggettivo, quindi, due persone possono riconoscere a un’of-
ferta sanitaria un diverso valore complessivo, al punto che, a tale livello, si potranno generare
conflitti tra sistema e assistiti. Infatti il sistema ‒ tenuto a garantire il valore oggettivo, di sua
competenza ‒ spesso trascura di considerare la totalità del valore e di adottarla come criterio
organizzativo. Di conseguenza, le scelte di governo non ottengono, alla fine, un valore supe-
riore a quello consumato o prodotto attraverso i beni e servizi utilizzati [5].

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Quando aspettare è valore: una riflessione etica sul tempo di attesa

2. Valore per l’organizzazione, valore per l’assistito


La questione non è però solo etica. Il governo del sistema è “sempre meno un problema di
definizione di modelli, di progettazione di strutture organizzative più adeguate; e sempre più
un problema di gestione di processi organizzativi” [5]. Tale gestione, o governance, implica la
necessità di far partecipare al processo decisionale tutti i portatori d’interesse: e tra questi, la
priorità va a chi chiede di accedere al sistema. È su questa singola persona che va “centrata”
l’assistenza, perché sia davvero di qualità [6]: in caso contrario, si verifica quell’anomalia in
cui la salute finisce per essere imposta all’assistito, in quanto viene a coincidere con ciò che il
sistema crede l’assistito voglia o sia meglio per lui. È evidente come tale prospettiva, piuttosto
diffusa, comporti in realtà per l’offerta sanitaria una perdita di efficacia, sicurezza e tempesti-
vità (tutti elementi che, come è noto, concorrono a definire l’appropriatezza).
Applicando tale ragionamento proprio al “tempo”, si possono distinguere innanzitutto
quattro dimensioni:
• prestazione: tempo in cui l’assistito è attivamente coinvolto nella risposta alla sua do-
manda di salute;
• ritardo: tempo prodotto dall’inefficienza di un processo o modello organizzativo;
• attesa: tempo necessario per accedere alla prestazione, in cui l’assistito è inattivo;
• permanenza: tempo in cui l’assistito rimane nel sistema, per completare un percorso
assistenziale. È dato dalla somma dei precedenti.
Quello di massimo valore per l’assistito è ovviamente il tempo di prestazione: possiede
infatti significato in ordine alla domanda di salute, nella misura in cui è speso per corrispon-
dere ad essa. Il ritardo è invece tempo “privo di valore”, sia perché rappresenta un’impropria
dilazione nel soddisfare la domanda, sia in quanto tempo sottratto all’esistere personale, non
spendibile in un processo significativo.
La valutazione dell’offerta sanitaria, dal versante soggettivo, si basa inoltre sul rapporto
tra la percezione e le aspettative dell’assistito, il quale soprattutto “si aspetterà ciò che conosce”
[4]. Al momento della prenotazione, ad esempio, viene comunicato il tempo della prestazio-
ne (la visita, o l’esame, “durano” tot minuti). Ma anche il tempo di attesa è noto a priori (la
visita, o l’esame, saranno erogati tra tot giorni). Su tale informazione l’assistito può fondare
parte dell’aspettativa, e quindi essa rappresenta un mezzo di massimizzazione del valore.
L’attesa programmata è infatti tempo a cui il paziente è in grado di dare significato, finaliz-
zandolo come parte della risposta alla propria domanda.

3. Un esempio: la chemioterapia
Tale discorso vale anche nei percorsi assistenziali complessi, come la somministrazione am-
bulatoriale della chemioterapia endovenosa. In generale, il percorso si snoda su tre fasi prin-
cipali: l’esecuzione di esami ematochimici; la visita con lo specialista oncologo (che in base al
risultato degli esami, conferma o rinvia la terapia); la somministrazione della chemioterapia
stessa.
In un percorso che si conclude nell’arco della giornata, l’assistito sa a quale orario presen-
tarsi nella struttura per il prelievo, e quando gli sono state prenotate la visita e la postazione
per la somministrazione. Sa anche che le tre fasi vanno collocate in sequenza, e distanziate tra

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Massimiliano Colucci, Chiara Bertoncello

loro. Ad esempio, se la visita è prenotata alle 9.00, all’assistito potrà essere chiesto di presen-
tarsi alle 8.15 per il prelievo. I 45 minuti servono per effettuare accettazione, preparazione
di etichette e provette, ingresso e riconoscimento nell’ambulatorio, esecuzione del prelievo,
trasporto e processazione del campione. L’assistito è consapevole che, a fronte dei 5 minuti
scarsi in cui il sangue finisce nella provetta (tempo di prestazione), i restanti 40 minuti di
“attesa”, in cui rimarrà seduto su una poltrona davanti alla porta chiusa dell’ambulatorio,
sono tempo necessario all’organizzazione per produrre una diagnosi, e attivare la fase succes-
siva della visita. Il “tempo tecnico” del processo è quindi finalizzato: l’attesa è significativa,
il paziente “sa” che serve al suo percorso. Invece, l’attesa ignota e imprevista, costituita dai
ritardi, rappresenta un tempo sprecato, perché afinalistico: il paziente riesce a dare senso,
ovvero valore, fino a quei 40 minuti; se accede all’ambulatorio dopo 50 minuti, i 10 minuti
in più non hanno giustificazione, e come tali verranno percepiti come assurdi e “rubati”.
Sul piano etico, il sistema è quindi innanzitutto tenuto a mantenere costante l’attesa, ov-
vero a non aumentarla accumulando ritardi. La riduzione è pure auspicabile, ma è ammessa
finché segue una logica di efficienza, in cui siano garantite al tempo stesso la qualità e la
sicurezza della prestazione. In altre parole, non sempre la riduzione dell’attesa è eticamente
(e organizzativamente) sostenibile.
L’organizzazione potrebbe infatti essere tentata di ridurre l’attesa, convinta di fare il bene
del paziente, puntando sul semplice riposizionamento delle prenotazioni. Per riprendere
l’esempio della chemioterapia, se prenoto il prelievo 15 minuti (invece di 45) prima della
visita, e la postazione per la somministrazione 15 minuti (invece di 45) dopo la fine della
visita, in apparenza ho fatto guadagnare un’ora al paziente (immagine utile a fini di marke-
ting…). In realtà, ho “tagliato” dei tempi necessari (e quindi “di valore”) al processo, legati
alla diagnosi di laboratorio e alla preparazione del farmaco.
Quali saranno le conseguenze? Se l’assistito accede alla visita prima che il referto di labo-
ratorio sia pronto, lo specialista non potrà prendere la decisione: lo farà uscire, e lo richia-
merà quando i risultati sono pronti. Nel frattempo visiterà un altro assistito, frammentando
il processo e producendo ulteriori inefficienze e rischi di errore. Il ritardi si ripercuoteranno
a valle sul percorso individuale, ma condizioneranno anche il percorso degli altri assistiti di
quella giornata. Se l’assistito accede alla postazione prima che la sua terapia sia pronta, la
occuperà inutilmente, sottraendo il posto a qualcuno che potrebbe già iniziare la sommi-
nistrazione; se per rimediare si operasse uno scambio, costringeremmo l’assistito a un’attesa
non programmata, ma provocata dalla disorganizzazione.
Oltre a quella del “taglio” dei tempi di prenotazione, un’altra logica inaccettabile di ridu-
zione del tempo d’attesa è quella che mira ad ampliare l’offerta aumentando i “posti” dispo-
nibili per la prenotazione, ad esempio mediante l’overbooking (si prenotano più assistiti di
quelli previsti nell’agenda) o riducendo il tempo dedicato alla prestazione (a parità di orario
di agenda, più è breve la prestazione, più se ne posso prenotare). È evidente come queste
soluzioni, non perseguendo un strategia di efficienza, siano patologiche sul piano temporale:
anche se in apparenza si garantisce a un maggior numero di pazienti un minore tempo di
attesa nell’accesso alla prestazione, di fatto li si sottopone agli inevitabili ritardi che si produr-
ranno nel percorso disfunzionale. Il sistema, quindi, passa dal garantire un’attesa valorizzabile
all’imporre un’attesa svalutata.

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4. Conclusioni
Concludendo, un criterio etico per il governo dei tempi di attesa potrebbe essere quello di
massimizzare la significazione del fattore tempo per il paziente – la sua esperienza di per-
manenza in un percorso assistenziale come esperienza di tempo finalizzato alla salute. Se
l’organizzazione sanitaria crea tale opportunità, l’esperienza di malattia diventa un’occasione
di produzione di valore. In quest’ottica, la riduzione dei ritardi, ovvero delle inefficienze, è il
primo e più evidente obiettivo da perseguire.
Tuttavia, appare eticamente sostenibile anche il tempo d’attesa di per sé, e perfino un
allungamento dello stesso, con conseguente protrarsi della permanenza dell’assistito nel si-
stema, fintantoché tale attesa è giustificata dal processo, dalla sua qualità e dalla sua sicurezza,
ovvero finché è funzionale al percorso, in quel dato contesto organizzativo. Un qualsiasi
cambiamento dei tempi d’attesa, che non sia accompagnato da un consensuale e sostenibile
cambiamento del modello organizzativo, produce infatti solo perdite di valore.
Infine, è bene ricordare un altro, ben più noto elemento che giustifica l’attesa, cioè l’ap-
propriatezza dell’offerta di salute. Appropriatezza che deve però essere sempre “relazionata”:
non solo, cioè, posta in relazione al bisogno del singolo assistito; ma correlata all’attesa degli
altri assistiti, per cui una maggiore attesa trova giustificazione in una minore priorità del
bisogno. E anche questo è un valore.

Bibliografia

[1] Wright J, Hill P. La governance clinica. Milano: McGraw-Hill; 2005.


[2] Porter ME. What is value in health care? N Engl J Med. 2010; 363(26): 2477–80.
[3] Colucci M. Valore: recuperarne la dimensione etico-personale, in ambito sanitario. Etica per le profes-
sioni 2014; 16 (1): 103-109.
[4] Ugolini M. Un approccio di service management per la gestione del reparto ospedaliero. Milano: Giuffé
editore; 2004.
[5] Bergamaschi M. Creazione del valore e organizzazione in sanità. Milano: McGraw-Hill; 2009.
[6] Institute of Medicine - Committee on quality health care in America. Crossing the quality chasm: A
new health system for the twenty-first century. Washington: National Academy Press; 2001.

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