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Gli anni ‘50 e ‘60 – La nascita del concetto di sviluppo e le prime relative teorieLo sviluppo, nella sua accezione

moderna ed economica, ha invece un’origine chiara e ben definita e condivisa da gran parte degli autori: 20 Gennaio
19491. I quel giorno di vento e neve.il presidente Truman, nel suo consueto discorso al congresso, introduceva questo
concetto che sarebbe stato centrale nelle politiche dei decenni seguenti. La seconda guerra mondiale aveva lasciato
pesanti retaggi nelle coscienze dei cittadini dei paesi coinvolti. Le strutture economico/sociali, in cui versavano molti
paesi precedentemente colonie, erano infatti palesemente differenti da quelle dei paesi occidentali; modelli culturali,
strutture produttive e condizioni di vita, si presentavano distanti dai loro. una crescente porzione dell’opinione
pubblica internazionale cominciò a prendere conoscenza delle differenzi condizioni di vita e delle situazioni di criticità i
cui versava una gran parte della popolazione mondiale. Tutti questi paesi, vengono quindi inseriti in un'unica categoria
e, come indicano Sachs ed Esteva, “nasce bruscamente questo concetto cerniera che inghiottisce l’infinita diversità dei
modi di vita dell’emisfero sud in un’unica e sola categoria: il sottosviluppo”. Il termine sottosviluppo, che nel 1942 era
apparso in un articolo di W. Benson dedicato allo sviluppo economico mondiale, determina quindi una nuova
categoria geografica mondiale, parallela ed alternativa ad altre letture dello spazio globale. La struttura politica
globale non è più leggibile nella contrapposizione tra paesi colonizzati, autonomi, colonizzanti, ma viene analizzata
sotto un’unica chiave di lettura data proprio dal livello di sviluppo. La conoscenza di tali contesti ha costituito per le
popolazioni di molti paesi una presa di coscienza su realtà differenti dalla propria e sulle situazioni di indigenza in cui
versavano molte persone che le popolavano. L’emergere del problema dello sviluppo portava alla ribalta
internazionale delle realtà che la logica colonizzatrice aveva taciuto se non svilito e contribuito a creare. La
problematica di quello che successivamente verrà chiamato sviluppo e le condizioni dei paesi colonizzanti, non
avevano infatti alcun ruolo ed alcuna influenza nel dibattito pubblico ed accademico dell’epoca coloniale. Le relazioni
tra colonizzatori e colonizzati, non prevedeva la possibilità di valutare come di sottosviluppo le condizioni dei paesi
colonizzati. La retorica della colonizzazione, piuttosto che sulla dicotomia sviluppo/sottosviluppo, era maggiormente
basata sull’idea di arretratezza culturale. La scoperta di stili di vita differenti, aveva infatti dato avvio ad un processo
discorsivo che assegnava al paese colonizzatore un ruolo di civilizzatore. Il ruolo dei paesi colonizzatori, che si
autodefinivano civilizzatori, aveva spesso una valenza superiore, di portare appunto la civiltà a questi territori nei quali
era assente e sconosciuta.Il punto 4 del discorso di Truman (20 Gennaio 1949)In quarto luogo, dobbiamo lanciare un
nuovo programma che sia audace e che metta i vantaggi del nostro progresso scientifico e industriale al servizio del
miglioramento e della crescita delle regioni sottosviluppate. Più della metà delle persone di questo mondo vive in
condizioni prossime alla miseria. Il loro nutrimento è insoddisfacente. Sono vittime di malattie. La loro vita economica
è primitiva e stazionaria. La loro povertà costituisce un handicap e una minaccia, tanto per loro quanto per le regioni
più prospere. Per la prima volta nella storia l’umanità è in possesso delle conoscenze tecniche e pratiche in grado di
alleviare la sofferenza di queste persone. Gli Stati Uniti occupano tra le nazioni un posto preminente per quel che
riguarda lo sviluppo delle tecniche industriali e scientifiche. Le risorse materiali che possiamo permetterci di utilizzare
per l’assistenza ad altri popoli sono limitate. Ma le nostre conoscenze tecniche crescono incessantemente e sono
inesauribili. Io credo che noi dovremmo mettere a disposizione dei popoli pacifici i vantaggi della nostra riserva di
conoscenze tecniche al fine di aiutarli a realizzare la vita migliore alla quale essi aspirano. Il nostro scopo dovrebbe
essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a produrre, con i loro propri sforzi, più cibo, più vestiario, più
materiali da costruzione, più energia meccanica al fine di alleggerire il loro fardello. Noi invitiamo gli altri paesi a
mettere in comune le loro risorse tecnologiche in questa operazione. Il vecchio imperialismo lo sfruttamento al
servizio del profitto straniero – non ha niente a che vedere con le nostre intenzioni. Quel che prevediamo è un
programma di sviluppo basato sui concetti di un negoziato equo e democratico. Tutti i paesi, compreso il nostro,
profitteranno largamente di un programma costruttivo che permetterà di utilizzare meglio le risorse umane e naturali
del mondo. L’esperienza dimostra che il nostro commercio con gli altri paesi cresce con i loro progressi industriali ed
economici. Una maggiore produzione è la chiave della prosperità e della pace. Solo la democrazia può fornire la forza
vivificatrice che mobiliterà i popoli del mondo in vista di un’azione che permetterà loro di trionfare non solo sui loro
oppressori ma anche sui loro nemici di sempre: la fame, la miseria e la disperazione. La retorica della civilizzazione ha
con il tempo lasciato spazio ad approcci differenti La necessità di civilizzare i paesi colonizzati si stava mostrando per la
sua natura di avallo culturale per interessi economici di sfruttamento delle risorse e degli spazi. In tale contesto,
quindi, la variazione di paradigma culturale verso un’ottica di sviluppo costituisce un’occasione importante per i paesi
emergenti. Lo spostamento dialettico verso unanuova relazione con i paesi sottosviluppati, l’approccio più
democratico ed equo, vogliono rappresentare un ulteriore segno di rottura con l’approccio imperialista. I paesi
sviluppati, e gli Stati Uniti come capofila, non dichiarano alcun interesse proprio da perseguire, se non la necessità di
ridurre i divari per la creazione di un contesto economico che possa garantire la crescita di tutti i paesi, non hanno
alcuna missione superiore da compiere ma si pongono come supporto per la crescita di quei paesi che sono rimasti
arretrati, per l’eliminazione della povertà ed il miglioramento delle condizioni di vita dei loro cittadini. Nonostante la
conclamata volontà di creare, anche attraverso un differente approccio semantico nonché discorsivo, una frattura con
il passato coloniale, l’eredità culturale del periodo coloniale ha lasciato dei retaggi che hanno caratterizzato non solo
l’approccio successivo alle idee di sviluppo, ma l’intero panorama delle relazioni internazionali. Il principale elemento
di continuità con la logica coloniale risiede principalmente nelle relazioni con i paesi sottosviluppati e sul ruolo che
questi avrebbero dovuto avere all’interno dei loro processi di sviluppo. Analogamente alla logica imperialista,
l’approccio allo sviluppo nella sua fase iniziale, postula l’esistenza di un'unica possibile idea di sviluppo l’idea di
sviluppo che viene promossa, è la struttura economico/politico/sociale dei paesi occidentali. In questo percorso ideale
di sviluppo, del quale gli Stati Uniti costituiscono il riferimento principale, la possibilità per gli abitanti dei paesi
sottosviluppati di emanciparsi dalle proprie condizioni di indigenza,passa necessariamente ed unicamente attraverso il
raggiungimento dei modelli di vita e delle strutture produttive occidentali. La struttura sociale dei vari paesi, quindi,
non costituiva una peculiarità locale ed un equilibrio consolidato, ma soltanto lo stato di avanzamento lungo un
percorso definito. L’espressione sviluppo/sottosviluppo indica quindi contemporaneamente sia lo status in cui verte il
paese, sia l’idea che da questo status il paese possa evolvere raggiungendo una struttura economico/sociale
differente.
Le prime teorie per lo sviluppo: la dominanza dell’approccio economico politicopartire dagli anni ’50, infatti, molti
studi si sono focalizzati sul tema Il sottosviluppo, era individuato solo ed esclusivamente in termini di assenza di
ricchezza e di disponibilità economiche e materiali e, di conseguenza, lo sviluppo non poteva non coincidere con la
crescita economica. All’interno del discorso con il quale il presidente Truman dà avvio al periodo dello sviluppo,
accanto alla conclamazione del “problema”, ne appare evidente anche la soluzione. l’approccio allo sviluppo non
avrebbe potuto individuare soluzioni differenti da quelle di modernizzazione ed industrializzazione. Attraverso un
processo analogo a quello seguito dai paesi occidentali, i paesi sottosviluppati8 si sarebberopotuti evolvere, uscire
dalle loro situazioni di indigenza e di assenza di sviluppo, mettendo in atto dei processi di industrializzazione che,
autonomamente o tramite l’aiuto dei paesi sviluppati, avrebbe potuto generare una propria rivoluzione industriale.
L’idea dominante dello sviluppo era quindi del tutto associata a quella di crescita economica. Qualora un paese avesse
raggiunto i livelli economici che avevano portato i paesi sviluppati a tale livello di sviluppo, il percorso sarebbe dunque
stato completato. Il binomio crescita/sviluppo, si inserì in maniera radicale nel dibattito sullo sviluppo, creando un
percorso culturale che rese i due termini pressoché sinonimi nel lessico non solo propriodell’opinione pubblica. Come
evidenzia Escobar gli elementi cardine delle politiche per lo sviluppo messe in atto dai vari attori internazionali ad
esso preposti sono:1. accumulazione di capitale2. industrializzazione deliberata3. pianificazione dello sviluppo4. Aiuti
internazionali
Gli approcci modellistici allo sviluppo: il trionfo dell’economiaRiprendendo la distinzione fatta da Escobar12, è evidente
come un ruolo centrale nelle politiche di sviluppo lo abbiano svolto le teorie ed i modelli macro economici. L’assioma
sviluppo =crescita economica, l’idea che potesse esistere un modello universale di sviluppo e lo scarsointeresse per le
variabili spaziali e territoriali, portarono alla nascita di una serie di modellistiche che, teoricamente, avrebbero dovuto
porre fine ai problemi dello sviluppo. La conclamazione dei divari territoriali, la presenza di squilibri regionali, non
riuscivano infatti ad essere spiegate attraverso le teorie marginalistiche; allo stesso tempo, il pensiero keynesiano si
andava espandendo come pensiero dominante in ambito macroeconomico, sostituendosi in quel ruolo dagli approcci
marginalistici all’interno dell’approccio keynesiano, si sviluppassero una serie di modelli14 che sembravano, di volta in
volta, costituire la ricetta ideale per l’esportazione dello sviluppo. Molti di questi modelli,nascevano più dall’analisi
delle realtà occidentali che come studi volti alla predisposizione di strategie e percorsi di sviluppo per i contesti
socio7economici all’interno dei quali sarebbero stati applicati. La natura modellistica di questi approcci, la apparente
loro applicabilità in contesti differenti, costituisce,uno dei principali limiti nella realizzazione degli obiettivi che si
proponevano. Elemento comune a tutti questi approcci, infatti, era la scarsa attenzione e considerazione degli
elementi territoriali. Lo spazio in cui tali modelli venivano immaginati, infatti, è spesso considerato come uno spazio
isotropo ed isomorfo, privo di elementi (fisici, culturali, sociali) che lo caratterizzano e ne contraddistinguono
l’evoluzione vengono visti quindi come un modello riproducibile ed esportabile. Il principale modello sviluppato in
relazione ai paesi in via di sviluppo fu il modello di Harrod– Domar. I modelli messi in atto dai due economisti Evsey
Domar (1939) e Roy Harrod (1949), apparirono fin dalla loro pubblicazione “la panacea necessaria per salvare i PVS dai
loro problemi di una rallentata crescita”17. Il modello di Harrod-Domar, che di fatto si pone come una versione
dinamica del modello Keynesiano, pone al centro dell’analisi il risparmio. La conclusione del modello di Harrod può
infatti essere sintetizzata nella sua funzione ΔY/Y = s/v=ggNella quale:Y = RedditoΔY = Variazione del redditos =
propensione marginale al risparmiov = rapporto capitale/prodotto (utilizzo della capacità produttiva)gg = saggio di
crescita garantito esprime il fatto che, mantenendo una data (normale) utilizzazione di capacità produttiva, il sistema
economico cresce ad un tasso pari al rapporto tra la propensione media al risparmio e il rapporto capitale/prodotto”
Questo modello, che enfatizza il ruolo centrale dell’accumulazione di capitale tramite risparmio, è stato fin da subito
oggetto di critiche da parte di numerosi economisti. Tra le principali critiche mosse al modello c’è l’analisi di un solo
settore dell’economica e la considerazione del reddito come un aggregato unico.Tra le altre critiche mosse al modello
di Harrod e la sua valenza principalmente normativa. Tale modello, infatti, è maggiormente indicato per analizzare lo
stato del sistema economico in oggetto ma non sempre riesce ad individuare elementi correttivi e/o possibili
interventi che possano favorire percorsi di crescita. Successivamente al modello Harrod – Domar, un approccio
determinante alla formazione di un’economia dello sviluppo, venne dato da Lewis (1954). Analizzando una struttura
economica dualistica, con la presenza quindi di due ambiti produttivi (agricoltura ed industria) l’analisi di Lewis si
soffermò principalmente sulla cosiddetta disoccupazione nascosta20. Secondo il modello di Lewis, infatti, gli occupati
in agricoltura nei paesi in via di sviluppo hanno una produttività marginale pressoché nulla (data la loro numerosità in
relazione alla limitatezza delle possibilità agricole) e quindi, una riduzione dell’impiego di manodopera in agricoltura
ed il suo transito nel settore industriale (nascente), potrebbe portare il sistema economico verso una maggiore
efficienza. In una prima fase, questo spostamento potrebbe essere incentivato dalla differente produttività del lavoro
e dai più elevati alari nel settore manifatturiero. In piena applicazione dei principi di economia liberale, quindi, il
sistema economico porterebbe fisiologicamente entrambi i mercati all’equilibrio, aumentando la produttività e
l’efficienza dell’intera produzione nazionale. Il modello di Lewis. Proprio la presenza di un cospicuo numero di
lavoratori in ambito agricolo ha quindi costituito, in molti casi, una valutazione del livello di sviluppo di un paese
Il modello di Rostow e l’approccio stadiale allo sviluppo Tale teoria è, considerata spesso come l’emblema dell’ide a di
sviluppo come processo (sviluppo stadiale) e, in generale, dell’intero approccio allo sviluppo degli anni ‘50/’60. La
teoria del decollo economico di Rostow (1959) La teoria di Rostow sulla crescita si basa sulla determinazione di 5
stadi per la crescita stessa.1 Stadio – La società tradizionale Il primo stadio individuato dalla teoria di Rostow è
caratterizzato da uno scarso livello di produttività economica, da uno scarso ricorso all’utilizzo di tecnologie e
dall’assenza degli elementi tipici delle economie capitalistiche quali accumulazione e mercato. Elemento centrale del
sistema economico è quindi l’agricoltura per auto-sostenimento.2 Stadio – Le società pre-decollo I paesi che
raggiungono il secondo stadio sviluppano la consapevolezza della possibilità di crescita. In questa fase si assiste
all’abbandono della società tradizionale a favore di elementi differenti quali l’apertura al commercio, il superamento
dell’agricoltura di sussistenza, sviluppo di equilibri stato/nazionali 3 stadio – il decollo (take-off) In questa fase “le
vecchie remore e resistenze ad un deciso stadio di sviluppo sono definitivamente superate” e la società ha quindi
pienamente completato il suo percorso di sviluppo il paese è inserito pienamente all’interno dei processi di scambio
commerciale.La malnutrizione e fenomeni epidemici ed endemici sono decisamente limitati, l’agricoltura occupa una
percentuale scarsa della popolazione attiva orientata invece principalmente verso l’industria 4 stadio – La maturità La
stabilizzazione della struttura sociale che aveva caratterizzato il decollo porta, dopo circa una 60ina di anni, alla
maturazione della società stessa. Gli elementi che ne avevano permesso il passaggio dalla società tradizionale
diventano completamente assorbiti e caratterizzanti.5 stadio – il periodo del consumo di massa L’evoluzione piena
dello sviluppo. Questa fase può quindi essere individuata con l’esplosione del modello fordista di produzione con la
conseguente crescita dei salari e della produttività. Gli stati, i sistemi economici, nell’approccio di Rostow, si possono
quindi trovare a differenti stadi di sviluppo (take-off) in base al livello di avanzamento di talune loro caratteristiche
economiche. In particolar modo, all’interno dell’approccio di Rostow, un elemento fortemente caratterizzante il
passaggio da un sistema sottosviluppato ad uno sviluppato è individuabile proprio dalla migrazione dei lavoratori dal
settore agricolo a quello industriale, come indicato da Lewis, Solitamente, in tutti gli studi che tengano in
considerazione la presenza di settore agricolo ed industriale, l’evoluzione del paese transita necessariamente,
attraverso tre differenti stadi. La prima fase, caratteristica di quei paesi che ancora non hanno intrapreso la via dello
sviluppo, si caratterizza per la presenza pressoché assoluta di agricoltura, la produzione avviene quasi esclusivamente
per l’autosufficienza ed il paese stesso, senza aiuti che provengono dall’esterno, non sarebbe in grado di evolvere da
questa situazione. Il secondo stadio, invece, si caratterizza per la presenza, accanto al settore agricolo, di un settore
manifatturiero che, rispetto al settore agricolo, presenza un’elevata produttività. Proprio questa produttività permette
quindi al settore di innescare quel processo di accumulazione che, in prospettiva keynesiana, dovrebbe essere il
fondamento per l’emancipazione dal sottosviluppo. Il terzo stadio è invece caratterizzato dall’eliminazione delle
problematiche che, costituiscono l’ostacolo principale allo sviluppo e quindi differenziali di produttività che rendono
possibile la formazione delle sacche di disoccupazione nascostaL’approccio stadiale, sintetizzato dalla teoria di
Rostow, appariva quindi come possibilità di crescita per i paesi in via di sviluppo enfatizzando la possibilità di
perseguire una logica emulativa da parte dei paesi sottosviluppati per raggiungere le stesse condizioni di vita dei paesi
sviluppati. Nella teoria della modernizzazione, quindi “il take-off è possibile solo se si abbandonano i metodi produttivi
tradizionali e si orientano gli investimenti a favore della modernizzazione
La struttura industriale dei paesi sottosviluppati e le potenziali strategie industrialiIl secondo elemento considerato
essenziale per la crescita dei paesi sottosviluppati era la creazione di un processo industriale che, garantisse l’innesto
di circoli virtuosi di sviluppo. Secondo la teoria della convergenza, inoltre, il processo di sviluppo che i paesi allora
sottosviluppati avrebbero potuto/dovuto compiere si sarebbe svolto in un arco temporale minore; l’esperienza
accumulata dai paesi sviluppati, infatti, avrebbe permesso ai paesi non sviluppati di anticipare alcune fasi e quindi
compiere l’intero processo in tempi decisamente minori. Dal punto di vista industriale, uno degli approcci principali
che hanno guidato le politiche del periodo è individuato dalla Causazione Circolare Cumulativa, idea sviluppata nel
1959 da Gunnar Myrdal. Secondo tale approccio, i processi di accrescimento industriale, facendo leva sulla presenza di
esternalità positive quali le economie di agglomerazione e localizzazione, si sarebbero potuti sviluppare attraverso un
processo di arricchimento ciclico, che avrebbe generato un auto-sostentamento ed un auto-accrescimento del potere
attrattivo di un territorio. In altre parole, quindi, la presenza all’interno di un territorio di una base industriale,
sviluppa dei fenomeni di economie esterne che rendono maggiormente attrattivo quel territorio per le nuove
imprese. Myrdal evidenziava come l’attrazione possa essersi originata in determinati territori (e non in altri) a seguito
di un “accidente storico” che avrebbe allo stesso tempo potuto “nascere ugualmente bene o meglio” in altre località.
Gli approcci macroeconomici ed econometrici, muovendo dall’idea di spazio isotropo ed isomorfo, tendono a
sottovalutare il ruolo delle componenti territoriali all’interno del processo di crescita. Myrdal pone l’attenzione su
variabili locali rimette al centro del dibattito la creazione di un territorio attrattivo. Il fenomeno originario, infatti, può
parimenti essere una caratteristica intrinseca del territorio, quale ad esempio la presenza di una materia prima o
l’accesso al mare, ma anche un fenomeno occasionale e indeterminabile. Il luogo, quindi, diventa allo stesso tempo un
attore fondamentale perché potrebbe essere un elemento essenziale per la crescita e lo sviluppo, ma viene annullato
nella sua centralità qualora si ipotizzi che un qualsiasi evento di sviluppo potrebbe, in ogni caso, dare avvio ad un
processo di circolazione cumulativa. L’idea di una spinta iniziale per lo sviluppo trova ampia traccia in letteratura.
Riprendendo un proprio lavoro del 1943, ed integrandolo con il modello di Harrod– Domar, Rosentein – Rodan
sviluppa l’idea del big-push. Secondo tale approccio, per dare avvio ad un processo di crescita, sarebbe stata
necessaria la presenza di una forza originante che avrebbe potuto dare avvio ad un processo esteso di crescita. Questo
elemento scatenante, secondo il modello del big-push e in una prospettiva di economia Keynesiana come modello
economico dominante, veniva imputato ad un certo tasso di risparmio e di investimenti interni; la differenza tra i due,
quindi, si sarebbe dovuta colmare con il contributo dei prestiti esterni. Un elemento importante, all’interno del
modello, è il concetto di specializzazione produttiva. Le possibilità offerte ai paesi sottosviluppati in termini di prodotti
da produrre, infatti, muovono da due approcci totalmente differenti. Se, da un lato, la specializzazione produttiva era
indicata come elemento positivo, altri autori ne esprimono il carattere limitante ed individuano nella specializzazione
un limite per i paesi sottosviluppati nel loro processo di sviluppo. Questo tema, tuttavia, era considerato spesso
marginale all’interno del dibattito sullo sviluppo.La tesi espressa da Francois Perroux (1955), presentava decise
analogie con le idee di Myrdal ma ne declamava, in maniera più puntuale, le determinanti tecnico applicative. La
posizione di Perroux,è in molti tratti inclassificabile. Come evidenzia lo stesso è molto complesso inserire Perroux
all’interno di un filone di pensiero. il lavoro più noto e che accompagna il nome di Perroux all’interno dei dibattiti sullo
sviluppo, si associa all'idea di polo di sviluppo. Nel vuoto lasciato dall’idea di Myrdal (cosa dovesse dare avvio al
processo di Circolazione Cumulativa), Perroux individua il ruolo che avrebbero dovuto avere alcune industrie
(cosiddette motrici) come volano della crescita territoriale. La teoria dei poli di sviluppo, partendo dall’assunto che il
processo di aggregazione non è spazialmente equilibrato ma si concentra intorno a precise strutture, dette appunto
poli, individuava nella presenza di particolari industrie l’evento scatenante il processo di Myrdal. Un’applicazione
pedissequa ed acritica del modello di Perroux ha quindi portato alla facile ma,, errata interpretazione, che per dare
avvio ad un processo di sviluppo sarebbe stato sufficiente inserire un industria motrice che avrebbe portato
all’attrazione di manodopera specializzata, che, a sua volta, avrebbe dato avvio alla nascita dei mercati di beni primari
e secondari dando quindi avvio ad un processo di crescita. Questo approccio, si sarebbe dovuto declamare quindi in
maniera differenziata in linea con le differenti scale di azione. A scala locale sarebbe stata sufficiente la localizzazione
di una singola impresa a dare avvio al processo di crescita. A scala nazionale l’applicazione di questi principi ha portato
alla catalizzazione di risorse verso settori considerati “migliori” per i maggiori potenziali di crescita, In entrambi i casi,
tuttavia, gli interventi messi in atto a seguito della politica per poli, hanno mostrato più problematiche che vantaggi.
La mancanza di attenzione verso le potenzialità locali, il non considerare lo stimolo dei fattori culturali necessari alla
crescita ed alla creazione di unambiente consono e propizio per la crescita industriale, hanno portato alla mancanza
delle energie locali per una crescita equilibrata e diffusa. Questi interventi, alla lunga, hanno invece mostrato la
maggiore tendenza non ad “integrarsi con il territorio circostante, ma ad isolarsi da esso e ad integrarsi invece con reti
che agiscono a livello globale e che a questa scala scambiano beni materiali ed immateriali all’interno di strutture
produttive e finanziarie integrate”
L’aspetto commerciale: la sostituzione delle importazioni e la via autarchica allo sviluppoL’approccio allo sviluppo
perseguito nel periodo anni ‘50/’60 trova risposta principale nella strategia di sostituzione delle importazioni, che
spesso passa anche sotto il nome di approccio autarchico alla sviluppo. Tale approccio, era necessario che le imprese
nazionali emergenti venissero incentivate e protette. Dal punto di vista intellettuale, questo approccio venne
sostenuto e promosso dalla teoria di List sulla protezione dell’industria nascente. Analizzando la società ed il sistema
economico statunitense, in confronto con quello tedesco, List individuava come il differente percorso di crescita
potesse essere influenzato dal diverso approccio ai commerci internazionali. In particolar modo, individuava la
necessità, per la nascente economia tedesca, di ridurre le importazioni, sviluppare a livello nazionale
agricoltura/industria e servizi; solo quando l’industria locale fosse stata abbastanza stabile da poter sostenere il
confronto con quella inglese il paese si sarebbe potuto aprire al mercato internazionale l’approccio di List individuava
la possibilità di un’apertura al mercato internazionale come una fase successiva, alla quale, quindi, le imprese locali
avrebbero dovuto approcciare solo quando fossero state in grado di sostenere il confronto con quelle estere. Nel caso
contrario le imprese nascenti, decisamente meno competitive sia dal punto di vista tecnologico che
economico/produttivo, sarebbero state facilmente ed immediatamente private del proprio mercato di riferimento
dalle imprese estere, indubbiamente più evolute. un ruolo centrale sarebbe dovuto essere svolto dal governo centrale
che, con una politica di dazi sulle importazioni, avrebbe dovuto rendere competitivi i prodotti locali che, in presenza di
scarse barriere tariffarie, sarebbero stati meno convenienti di quelli d’importazione. La chiusura alle importazioni
avrebbe dovuto avere un effetto positivo anche sulla bilancia dei pagamenti riducendo la fuoriuscita di moneta locale,
permettendone così anche una maggiore stabilità finanziaria. Questo, ovviamente, necessitava di un maggior costo
sociale, in termini di economicità e livello tecnologico delle produzioni, che sarebbe stato sostenuto dalla collettività.
Questo approccio, che nel breve periodo ebbe significativi esiti positivi in molti dei paesi nel quale venne applicato ed
in particolar modo in alcuni paesi sudamericani quale il Brasile,mostrò con il tempo alcuni sostanziali elementi di
criticità. In primo luogo, la necessità di acquisto sui mercati esteri di tecnologie e prodotti intermedi a medio/alto
contenuto tecnologico rendeva comunque necessario l’impiego di moneta estera). Allo stesso tempo, inoltre, la
dipendenza economica dalle esportazioni veniva ribaltata nella dipendenza tecnologica da parte dei paesi esteri.
L’assenza di una politica di scolarizzazione e sviluppo di capitale umano rendeva infatti necessario il ricorso al mercato
internazionale sia per l’approvvigionamento di nuovi elementi tecnologici (in molti casi costituiti anche da prodotti
ormai desueti per il mercato dei paesi sviluppati) sia di assistenza dei prodotti presenti in territorio. L’approccio di List
all’autarchica difesa dell’industria nascente, seppur coerente dal punto di vista metodologico/analitico, ha mostrato
nella sua applicazione decise problematiche, che, in molti casi, hanno contribuito paradossalmente al mantenimento e
all’esasperazione di quei divari che si prometteva invece di contribuire a risolvere. Un ulteriore approccio allo
sviluppo, chiaramente espressione della stessa matrice culturale e del paradigma dominante
modernizzazione/industrializzazione, che vedeva una delle principali cause del sottosviluppo la mancanza di
accumulazione di capitale, può essere individuato dal circolo vizioso della povertà, sviluppato nel 1953 da Nurske.
Secondo tale approccio, la povertà sarebbe il risultato “di una costellazione circolare di forze che tendono ad agire e
reagire le une sulle altre in modo tale da mantenere un paese povero nella povertà” (Nurske, 1953). Il sottosviluppo
delle nazioni interessate, nasce, secondo il modello di Nurske, da una carenza strutturale di capitale che, a sua volta,
ha origine dalla mancanza di risparmio da parte delle popolazioni. Gli abitanti di popolazioni sottosviluppate, quindi,
impiegano tutte le loro disponibilità nel soddisfacimento dei bisogni primari, non risparmiando e quindi non dando
avvio al processo di accumulazione che, costituisce l’elemento centrale per lo sviluppo. In tale contesto, quindi, anche
un eventuale aiuto esterno potrebbe essere inadeguato a porre rimedio allo stato di povertà, finanche al
peggioramento della situazione stessa. Un aiuto esterno, in termini monetari, aumenterebbe la spesa per beni e
servizi primari generandone quindi l’incremento dei prezzi. La dinamica inflativa, tuttavia, non si arresterebbe con la
fine del trasferimento e quindi, nel momento in cui l’aiuto esterno finisse, i cittadini si troverebbero in un mercato
alterato, non rappresentativo del sistema economico nazionale, e quindi si sarebbe generato un peggioramento delle
condizioni di vita. Allo stesso tempo, l’ineguale distribuzione degli aiuti, potrebbe portare a degli squilibri interni
maggiori e ad un peggioramento delle possibilità per quelle persone non beneficiate dagli aiuti stessi.
Gli approcci critici allo sviluppoLa scuola del CEPAL e la teoria della dipendenzaAccanto all’idea dominante di sviluppo,
nel corso degli anni ’60 si svolsero una serie di analisi delle cause del sottosviluppo che portarono a valutazioni
differenti. In particolar modo le analisi condotte dai membri del CEPAL35 (Commissione Economica per l’America
Latina), analizzando l’evoluzione storica del livello di sviluppo in America Latina, posero l’accent su come la criticità nei
termini di scambio tra il centro e la periferia economica fosse dovuta alla originaria specializzazione dei paesi periferici
nella produzione di beni primari. Questo approccio, individua nel periodo coloniale un momento centrale per
l’evoluzione dei paesi sottosviluppati. Questo periodo, costituisce un momento complesso, articolato e a volte
contraddittorio dell’evoluzione delle realtà colonizzate. Pur se spesso considerati all’unisono, i rapporti coloniali
furono tra loro molto differenti sia in termini di relazioni con i paesi colonizzati che nelle modalità di perpetrazione di
tale relazione. Tra gli aspetti che accomuna tutti i legami di colonizzazione, che costituiscono di fatto uno degli
elementi caratterizzanti è l’appropriazione delle risorse da parte della madrepatria e la specializzazione produttiva
coatta. L’appropriazione costante continuativa delle risorse da parte del paese colonizzante ha quindi, in molti casi,
portato all’abbassamento delle disponibilità di utilizzo locale. Allo stesso tempo, inoltre, i paesi colonizzati sono stati
plasmati, all’interno della loro struttura sociale e produttiva, dalla volontà di occidentalizzazione dei costumi e dei
modelli produttivi aduso e consumo dei paesi colonizzati. Utilizzando la volontà modernizzatrice come percorso per la
crescita dei paesi colonizzati, in molti casi si sono riprodotti dei modelli totalmente deterritorializzati e privi di ogni
legame storico e culturale con il territorio in cui si erano inseriti. Analogamente, in termini di prodotti, si che sarebbe
stata meno conveniente (tecnologicamente e/o economicamente) produrre in madrepatria.è sviluppata
esclusivamente una produzione. l’abbandono dei territori da parte dei paesi colonizzatori aveva lasciato un vuoto di
potere che ha dato vita, nella maggior parte dei casi, a lotte interne e/o a processi di tribalizzazione del sistema
politico che hanno contribuito drasticamente al peggioramento delle condizioni economico/sociali e di sviluppo dei
paesi interessati. In molti casi, infatti, questo processo portò alla formazione di elitè locali, spesso facenti riferimento
ai gruppi che erano in contatto economico con le ex-dominatrici, creando quindi una fortissima sperequazione
economica e sociale. Le prime teorie sullo sviluppo in sud America si svilupparono ancor prima dell’estensione, a
livello mondiale del dibattito tema dello sviluppo. Le cause del sottosviluppo, secondo questo approccio (e questo non
sempre venne ripreso dalle successive scuole che vi si rifanno) non nasce da un deficit di accumulazione di capitale
(come sostenuto da economisti di scuola neoclassica e Keynesiana) quanto piuttosto dal rapporto commerciale con gli
altri paesi. Come sottolineano Mellano e Zupi “la struttura dei PVS,è il frutto di come sono incorporati nelle dinamiche
dell’economia mondo; i PVS sono solo una fonte di materie prime e uno sbocco per i manufatti del Nord, il che
aggrava la struttura dualistica di un PVS, dove un nucleo territoriale ristretto – l’enclave – e una fascia ristretta di
popolazione – le elites – sono inserite nell’economia mondiale. Questa componente moderna ed avanzata
dell’economia, inserita nel circuito internazionale, convive nel medesimo sistema economico con una componente
tradizionale, debole, arretrata, stagnante, premoderna” La teoria del desarollo, che si sviluppò a partire dagli anni ’50,
non solo poneva quindi l’attenzione sul ruolo dei paesi colonizzatori nella situazione di sottosviluppo degli altri paesi,
ma sviluppa anche un approccio pessimistico al miglioramento delle relazioni e, quindi, delle condizioni di vita di
questi stessi paesi. Secondo tale approccio, infatti, lo sviluppo non era un processo nel quale tutti i paesi si sarebbero
inseriti, ma, piuttosto, con il passare del tempo, i divari di sviluppo si sarebbero potuti ampliare. In particolar modo,
l’idea liberista di apertura al mercato internazionale come fonte di vantaggio per tutti i paesi, veniva messa in
discussione poichè le ragioni di scambio sarebbero state sempre ineguali ed anzi, il sistema commerciale avrebbe
sempre più indebolito il potere contrattuale dei paesi in via di sviluppo (Prebisch e Singer). Gli assunti portanti del
desarollo porterebbero ad individuare nella chiusura alle importazioni, alla via autarchica allo sviluppo, uno dei
processi necessari per i paesi sottosviluppati per accrescere il loro potere contrattuale, le ragioni di scambio e, a
medio termine, ipotizzare un confronto con i paesi sviluppati.
La scuola della dependencia, che costituisce una radicalizzazione della teoria del desarollo e si sviluppa nel corso degli
anni ’60, pone invece l’enfasi su come sviluppo e sottosviluppo non siano due differenti fasi, ma solo due aspetti dello
stesso tema, due facce della stessa medaglia. Secondo questo approccio, quindi, lo sviluppo, in quanto tale, non
esisterebbe se non esistesse il sottosviluppo. si focalizza sull’aspetto materiale e delle risorse. Secondo tale approccio,
infatti, i benefici e le condizioni di vita dei paesi sviluppati non si sarebbero potuti raggiungere senza lo sfruttamento e
la deprivazione delle risorse degli altri paesi. Proprio all’interno delle teorie dependentiste, infatti, si sviluppano le
idee di
centro e periferia che, con i successivi lavori di Wallesteirn, costituirono una chiave di lettura spaziale delle relazioni
tra i differenti paesi. Secondo tale approccio, esistono territori particolarmente sviluppati, che ne costituiscono il
centro, e territori che invece rappresentano le periferie dello sviluppo. Il fulcro della teoria dependentista, elemento
quindi che la
contraddistingueva fortemente dalla scuola del desarollo, era infatti la presenza di meccanismi e processi egemonici
dei paesi centrali che, piuttosto che ridurre, ampliavano il divario tra paesi sviluppati e sottosviluppati.
modello della self- relianceL’idea di self reliance viene comunemente fatto risalire alla Dichiarazione di Arusha (1967)
attraverso la quale l’allora presidente Tanzaniano indicava quelli che sarebbero dovuti essere i passi attraverso i quali
il suo paese sarebbe dovuto uscire dallo stato di sottosviluppo in cui versava. All’interno della Dichiarazione di Arusha,
emerge come lo sviluppo non possa transitare unicamente per variabili monetarie che non sono presenti; l’arma del
denaro, quindi, è inadeguata per combattere la guerra alla povertà nei paesi sottosviluppati, essendo un’arma dei
paesi economica mente forti, che i paesi sottosviluppati non possiedono. Un ulteriore elemento di decisa rottura
perviene dal non considerare i bisogni oltre i primari. La concentrazione di ricchezza, infatti, ha da sempre costituto
l’aspetto più complesso dello sviluppo, sul quale sia le teorie che le analisi quantitative hanno trovato l’ostacolo
principale. la Dichiarazione di Arusha costituisce probabilmente il primo intervento autonomo di un paese
sottosviluppato alla ricerca di un proprio percorso di sviluppo.

Gli anni ’70: la nascita del Terzo Mondo e lo sviluppo sostenibileGli anni ’70, costituiscono un momento chiave per
l’idea di sviluppo e per le politiche ad esso collegate. Se, infatti, gli anni ’50-’60 avevano lasciato aperti molti dibattiti
sul tema e sulle strategie che permettessero la riduzione dei disequilibri, gli eventi del decennio successivo inseriscono
elementi di novità che alterano e rinvigoriscono il dibattito. Il dibattito dei decenni precedenti, come visto, era
abbastanza limitato alla di modelli econometrici ed alla individuazione di strategie che permettessero il
raggiungimento di certi parametri macroeconomici (es. PIL) Al tempo stesso, la crisi economica che si sviluppa in
concomitanza con gli shock petroliferi del 1973, mettono in discussione anche l’idea stesa di sviluppo (e crescita)
promossa e perseguita dai paesi occidentali, riportando in esse anche fenomeni di povertà. L’aspetto comune ai
precedenti approcci allo sviluppo era stato infatti dominato dalla (spesso tacita) convinzione che questo potesse esser
un processo solamente crescente. Allo stesso tempo non era stata fatta alcuna ipotesi circa la possibilità che le risorse
necessarie allo sviluppo dei vari paesi potessero esaurirsi. In gran parte dei lavori, erano spesso considerate come
esogene, assumendo quindi implicitamente che si potessero rinnovare e/o estendere senza continuità, invece, gli
accadimenti economici e le problematiche ambientali portarono alla necessità di, l’esauribilità delle risorse e la
necessità della loro gestione come variabili, spesso decisiveLe evoluzioni di molti paesi, l’originarsi di situazioni
“intermedie”, inoltre, cominciano a mettere in discussione la validità dell’approccio dicotomico
sviluppo/sottosviluppo. Lacrescita economica dei paesi produttori di petrolio e quella, deicosiddetti NIC (New
Industrialized Countries), costringe teorici ed attori politici a ridiscutere l’intera idea di sviluppo sino L’approccio allo
sviluppo, da un punto di vista intellettuale, vede quindi un cambio diametrale. Lo sviluppo, infatti, non è più la ricerca
di modelli econometrici da applicare, ma è un percorso complesso nel quale (con il quale) i vari attori si devono
necessariamente confrontare.Il terzo mondo diventa quindi non solo una classificazione dei paesi ma un luogo
immaginario, che si estendeva senza limitazioni e differenziazioni a tutti i paesi politicamente non allineati e/o
economicamente poveri. Un insieme eterogeneo di paesi, quindi, comincia ad essere rappresentato come un unico
contesto spaziale e sociale indistinto ed indistinguibile. L’utilizzo di questa terminologia che, porta anche ad un mutato
rapportarsi dei paesi cosiddetti sviluppati nei confronti degli altri, originando i cosiddetti approcci terzomondisti,
L’approccio terzomondista: dalla dichiarazione di Bandung ad una nuova geografia del sottosviluppoNel 1955 si
tenne a Bandung un incontro internazionale che, avrebbe segnato un nuovo corso all’interno delle geografie dello
sviluppo e dei dibattiti e politiche sul tema. Mentre gli equilibri post seconda guerra mondiale individuavano il
delinearsi di uno scenario di contrapposizione bipolare, che avrebbe caratterizzato i successivi periodi storici, una serie
di paesi, esprimevano la loro non appartenenza a nessuno dei due blocchi e palesavano la possibile nascita di una
sorta di associazione tra essi.I principali fautori di questo movimento, per la cui evoluzione e storia si rimanda ad
apposita letteratura, erano l’indiano Nerhu, l’ egiziano Nasser e lo jugoslavo Tito. A partecipare alla conferenza
vennero quindi invitati tutti paesi che, erano, nel lessico e nell’idea del periodo, individuabili come paesi in ritardo di
sviluppo. Alla conferenza di Bandung, invece, non furono presenti i paesi sudamericani che pure condividevano molte
delle problematiche con i paesi coinvolti. L’assenza di questi paesi, viene spesso motivata con l’influenza esercitata su
di essi dalla presenza degli Stati Uniti, questa conferenza ebbe un ruolo determinante anche all’interno del dibattito
sullo sviluppo, sia in termini attivi (azioni esercitate dai soggetti coinvolti) che in termini di dialettica ed immaginario
comune. per la prima volta, i paesi che provenivano dal dominio coloniale si presentavano in maniera unitaria,
evidenziando la consapevolezza che “esisteva una gran parte della popolazione terrestre dove i problemi avevano una
profondità diversa e questa parte di popolazione intendeva porre la propria presenza attiva sulla scena politica
mondiale”5.Evolvendo l’approccio della self-reliance, quindi, i paesi considerati sottosviluppati pretendevano di
conseguire una via autonoma allo sviluppo, cercando di rompere i legami di dipendenza e, in particolar modo, dando
vita ad un percorso per quanto possibile autonomo Rivendicando la propria indipendenza, i partecipanti alla
conferenza di Bandung ed ai successivi incontri, dimostravano di aver raggiunto un grado di sviluppo maggiore di
quello che veniva loro attribuito. A seguito della conferenza di Bandung, i paesi non allineati misero in atto anche una
serie di azioni che si formalizzarono nella Carta di Algeri (1967) che conteneva “una serie di rimostranze dei paesi non
allineati nei confronti dei paesi sviluppati”7 e nella spinta alla promozione di un documento ONU circa le
problematiche che riguardavano i problemi relativi alle materie prime ed allo sviluppo. Da tal proposta del 1973,
nacque la Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati (1974). Questo documento esprimeva, elementi innovativi
rispetto a quanto già visto in precedenza. Quello che emergeva dalla crisi, a seguito soprattutto delle politiche
dell’OPEC, il progetto del Nuovo Ordine Economico Internazionale mostrava una certa predisposizione verso le elitè
dominanti presenti nei paesi in via di sviluppo. Anticipando quanto sarebbe accaduto dopo pochi anni, quindi,
l’approccio al Nuovo Ordine Economico Internazionale creava una frattura territoriale all’interno dei paesi in via di
sviluppo, dissociando le elitè dalle altre componenti della comunità di riferimento ed integrandole maggiormente con i
circuiti economici internazionali. In questo modo, quindi, si rafforzava la presenza di quelle strutture duali che ancora
costituiscono una delle problematiche principali dei territori in via di sviluppo ed una delle maggiori cause di
disequilibrio. I progetti del Nuovo Ordine Economico Internazionale, tuttavia, solo marginalmente vennero applicati.
La crisi petrolifera (1973) portò infatti ad una decisa rimodulazione degli equilibri precedenti. Quello che emergeva
dalla crisi era, da un lato lo spostamento delle problematiche di sviluppo all’interno degli stessi paesi sviluppati e,
dall’altro, l’apparizione di realtà nuove rappresentate dai paesi possessori di petrolio, per i quali la disponibilità
monetaria ebbe un immediato incremento. Allo stesso tempo, i processi di accrescimento differenziato dei vari paesi,
portò al collasso del terzo mondo, inteso come associazione dei paesi non allineati, che rese impossibile ogni attività
ulteriore. La definizione Terzo Mondo venne utilizzata dal demografo francese Alfred Sauvy (1952) per enfatizzare, la
posizione dei paesi non allineati residuale al Primo Mondo (paesi capitalisti occidentali) ed al Secondo Mondo (Paesi
orbitanti nella sfera di influenza sovietica). L’utilizzo del termine,produsse però un’ accezione esclusivamente
“negativa”. Il terzo mondo divenne infatti immediatamente sinonimo di paese sottosviluppato. In questa accezione,
diventata di uso comune, era quindi celata l’idea che per uscire dal sottosviluppo si dovesse necessariamente aderire
ad uno dei modelli economici caratteristici dei primi due mondi (capitalismo di stampo statunitense o comunismo di
stampo sovietico)
La crisi economica e la crescita dei paesi produttori di petrolio: la crisi del binomio sviluppo = crescitaquella che
nella letteratura viene comunemente definita come la crisi petrolifera si è concretizzata, tra l’altro, nei cosiddetti
shock petroliferi del 1973 e del 1979. Questi fenomeni che, insieme alla riduzione del consumo di massa e alla nascita
di criticità nel modello produttivo fordista, contribuirono al ridimensionamento del paradigma keynesiano, ebbero
decise ripercussioni all’interno del dibattito sullo sviluppo. L’effetto più visibile della crisi petrolifera fu ovviamente la
crescita delle disponibilità finanziarie e della ricchezza complessiva delle popolazioni di questi paesi. infatti, il P.I.L. pro
capite, che all’epoca costituiva il principale – quando non unico – parametro di misura dello sviluppo (inteso
nell’accezione del periodo come crescita economica) crebbe in maniera rapida e decisa. Utilizzando i principali
parametri di misura dello sviluppo dell’epoca, questi paesi improvvisamente diventarono sviluppati. Questa crescita di
indicatori economici, tuttavia non si concretizzava in un miglioramento dei livelli di vita della popolazione residente e,
allo stesso tempo, non manifestava un percorso virtuoso di sviluppo. Le notevoli disparità interne, l’accentramento
delle risorse nelle mani di poche persone, resero visibili alcune criticità dei parametri fino ad allora utilizzati per
valutare e misurare lo sviluppo. Le cosiddette Tigri asiatiche (Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud e
Singapore),cominciarono a far registrare dei tassi di crescita del PIL pro capite, decisamente elevati.Questo processo,
che con intensità differenti continuerà fino a tutti gli anni ’90, ha avuto in questi paesi genesi e dinamiche
differenti.Contemporaneamente, gli effetti dei mutamenti in atto ebbero ripercussioni anche all’interno delle realtà
maggiormente sviluppate, dove si registrarono una serie di difficoltà economiche che, diedero avvio ad una costante
riduzione del welfare state e ad un diffuso peggioramento degli stili di vita. In particolar modo, come si vedrà nelle
parti successive, si svilupparono problematiche di povertà urbana, esclusione sociale e disequilibri regionali fino ad
allora poco presenti (o poco noti). Molte realtà sviluppate, quindi, presero contatto diretto con situazioni di
complessità che, invece, erano spesso associabili a altri territori ed altri contesti economici. La presenza di questi
elementi, la presa di coscienza che anche in contesti sviluppati potessero riproporsi situazioni di povertà e portarono
un nuovo elemento centrale all’interno del dibattito sullo sviluppo. Nel complesso, quindi, le due spinte
apparentemente opposte, portarono ad una necessaria presa di consapevolezza della necessità di nuovi strumenti
(statistici ed analitici) che misurassero e valutassero lo sviluppo. Lo sviluppo, infatti, era sino ad allora analizzato
esclusivamente a scala nazionale. I disequilibri territoriali, invece, mostrarono l’esigenza di associare una differente e
nuova scala di analisi, più locale, dello sviluppo stesso e di una valutazione più prossima alla popolazione.
Le risorse come elemento esauribile e lo sviluppo sostenibileL’idea dominante delle politiche economiche, e di
riflesso dello sviluppo fino agli anni ‘70, come visto, era che la crescita potesse essere costante, continua ed infinita. Le
principali teorie economiche, infatti, muovevano dal principio che le risorse potessero replicarsi ed estendersi senza
soluzione di continuità. Nelle teorie macroeconomiche, infatti, le uniche eccezioni rilevanti all’idea di uno sviluppo
costante e della crescita continua vennero messe in atto da Ricardo (che enfatizzava la possibilità dei rendimenti
decrescenti dell’agricoltura e da Malthus (secondo il quale poiché la popolazione sarebbe cresciuta in progressione
geometrica e le derrate alimentari solo in proporzione aritmetica –per via della necessità di sfruttare terreni sempre
meno fertili – ci sarebbe stata l’impossibilità di sopravvivenza).Tali critiche, tuttavia, vennero messe in discussione
fortemente . Tutte queste ipotesi, tuttavia, vennero messe in discussione dauna serie di eventi e studi che si
svilupparono a partire dagli anni ’70.Alcuni di questi studi, in particolar modo sulla disponibilità delle risorse
energetiche fossili, sisono dimostrati con il tempo non reali nel loro aspetto quantitativo, . Nel caso del petrolio, ad
esempio, i primi studi sulle possibilità di esaurimento dei giacimenti indicava l’impossibilità di utilizzo da alcuni
decenni;questo ha dato avvio, oltre che alla ricerca di nuovi giacimenti, anche allo sviluppo ditecnologie che
permettono l’estrazione e l’utilizzo delle parti meno pregiate dei giacimenti inizialmente non considerabili come
combustibile. Prescindendo dalla esattezza delle previsioni di consumo e disponibilità, e dalle conseguenze di tali
studi,lavoro è importante evidenziare come questo tipo di analisi abbia contribuito a creare una differente sensibilità
verso l’uso delle risorse che, in molti casi, si è trasformata in un mutato approccio allo sviluppo. La principale critica
alle possibilità di crescita costante del sistema economico venne messa in atto nel 1972 tramite un lavoro,
commissionato dal Club di Roma; alcuni ricercatori enfatizzarono come le risorse naturali fossero per la maggior parte
scarse, non in grado quindi di rinnovarsi con il ritmo di utilizzo attuale, il che avrebbe portato, probabilmente, alla loro
assenza nel futuro. Questo lavoro, individuava, come elemento portante, l’impossibilità di garantire una crescita
costante in futuro per l’intera popolazione mondiale. Attraverso delle previsioni statistiche, il rapporto individuava
come non si sarebbe potuto garantire l’estensione spaziale e temporale dei livelli di crescita, l’uso eccessivo di
prodotti chimici ed industriali, la presenza di attività ad elevato impatto ambientale nonché il verificarsi di numerosi
eventi catastrofici, aveva portato a nuovo vigore le attenzioni verso le relazioni uomo/natura. Accanto alla rinnovata
attenzione intellettuale per il tema ), l’attenzione per le tematiche ambientali diventa argomento di impegno sociale e
politico. I movimenti sociali ed intellettuali che si sono verificati alla fine degli anni ’60, infatti, proponevano una
rinnovata attenzione verso l’ambiente e la sua tutela, Alla luce di questa differente sensibilità, prendono origine i
primi movimenti ecologisti, nonché si assiste alla nascita dei primi partiti ambientalisti. A partire dagli anni ’70, infatti,
si cominciano a proporre sulla scena politica internazionale (in Italia nel 1985) dei partiti politici che fanno della tutela
dell’ambiente la loro tematica d’ispirazione e dominante. L’idea di sviluppo sostenibile trova un precursore nelle idee
di Burnet Macfarlane che, nel 1966, lanciò la prima idea di necessità di mantenimento delle possibilità per le
generazioni future di godere delle risorse future in quantità analoghe a quelle delle quali beneficiamo attualmente
Questo approccio , non riscontrò molto seguito in ambito scientifico. La limitatezza e l’esauribilità delle risorse non si
prospettava quindi solo come un elemento di criticità per i paesi in via di sviluppo ma costituiva un elemento centrale
anche per i paesi sviluppati. La crisi petroliera del 1973, che a seguito della guerra del Kippur portò ad una decisa
riduzione temporanea della disponibilità di petrolio, sembrava l’applicazione immediata degli scenari previsti dal
rapporto del Club di Roma, e, certamente, contribuì al rafforzamento dell’idea di scarsità delle risorse. Sempre nello
stesso anno (1972
La conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma,pone nuovamente l’accento sul mantenimento delle risorse e
dell’ambiente La Conferenza di Stoccolma costituisce un momento centrale del dibattito sullo sviluppo,
sull’ambientalismo e sulle relazioni tra paesi. in ambito scientifico ma anche in termini di impegno sociale, le
problematiche ambientali e di sviluppo erano già centrali da alcuni anni. L’appropriazione di queste tematiche ad un
livello sovrannazionale ed istituzionale, quindi, costituisce una sorta di conclamazione di un fenomeno esistente. La
tematica ambientale, quindi, assurge a partire dalla conferenza di Stoccolma ancor più che dal Rapporto del Club di
Roma – a questione internazionale e diventa quindi di dibattito collettivo ed impegno collettivo.La Conferenza di
Stoccolma un carattere più concettuale che normativo. Le originarie posizioni ambientaliste, infatti, portano spesso ad
una contrapposizione vigorosa tra sviluppo economico e mantenimento delle condizioni ambientali, la tutela
dell’ambiente è, tendenzialmente, in completa antitesi al processo industriale che, a sua volta, costituisce un
elemento da ridurre a tutela dell’ambiente stesso. La caratteristica, , è infatti la impossibilità di prevedere una
presenza congiunta di difesa e mantenimento delle condizioni ambientali e crescita economica, con una evidente
predilezione per la prima. In virtù della difesa ambientale, quindi, molto spesso l’idea che viene promossa è quella di
una sorta di immobilismo economico e sociale.L’idea di sviluppo sostenibile, invece, si basa su un concetto
maggiormente omnicomprensivo dello sviluppo nel quale, aspetto ambientale, economico e sociale dovrebbero
essere maggiormente integrati e, lo sviluppo può definirsi effettivamente sostenibile.Questo approccio, che per taluni
aspetti può anche essere considerato una sorta di compromesso tra necessità di mantenimento di taluni standard di
vita e sistemi economici con le istanze ambientaliste, determina quindi un differente approccio alle tematiche
esaminate. Latematica ambientale veniva inserita non solo come elemento da preservare, in antitesi quindi allo
sviluppo economico, ma come sua componente essenziale per permettere lo sviluppo. La “protezione ed il
miglioramento dell'ambiente è una questione di capitale importanza che riguarda il benessere dei popoli e lo sviluppo
economico del mondo intero” ma, allo stesso tempo “Lo sviluppo economico e sociale è indispensabile se si vuole
assicurare un ambiente propizio all'esistenza ed al lavoro dell'uomo e creare sulla Terra le condizioni necessarie al
miglioramento del tenore di vita”.. La tematica della sostenibilità, trova un altro momento fondamentale nella
pubblicazione del cosiddetto RapportoBruntland (1987). realizzato sotto l’egida delle Nazioni Unite, si pervenne ad un
rapporto sullo sviluppo sostenibile che, in un’analisi molto estesa ed omnicomprensiva, enfatizzava le varie
complessità di un integrato sviluppo economico e mantenimento delle condizioni ambientali.Quello che era lo spirito
dominante dell’idea di sviluppo, che derivava dal rapporto Bruntland era che Per sviluppo sostenibile si intende uno
sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i
propri bisogni.Partendo da questa impostazione, che nella sua immediatezza è di fatto diventata la frase
rappresentativa dell’intero concetto di sostenibilità l’idea di sviluppo sostenibile si è declinata in modalità differenti In
particolar modo, si sono sviluppati un approccio debole alla sostenibilità (weak sustainibility) ed uno forte (strong
sustainibility). La sostenibilità forte muove principalmente dall’idea di completa irriproducibilità delle risorse. Ogni
intervento, ogni azione, impegna quindi delle risorse, erodendo un ipotetico stock non ripristinabile e non rinnovabile.
Secondo tale approccio, quindi, è necessario ridurre al minimo i possibili impieghi di risorse, al fine soprattutto di
perseverarne la disponibilità sia per le future generazioni che per popolazioni di altri territori. La sostenibilità debole,
invece, pone le risorse come rinnovabili ma, tendenzialmente, con un ciclo di rinnovo molto più lungo del ciclo del loro
impiego. A dispetto dell’approccio “forte” la sostenibilità debole presuppone che non ci si debba precludere le
possibilità di utilizzo di risorse, ma ne andrebbe in ogni caso individuata e perseguita la sostituibilità con risorse
alternative oppure ridurle in modo da mantenerle all’interno del ciclo di rinnovabilità. L’approccio esteso alla
sostenibilità, inoltre, porta l’applicazione del principio di sostituibilità non solo ad uno degli ambiti esaminati; se, ad
esempio, fosse necessaria una riduzione del capitale ambientale, il principio di sostenibilità debole individua la
necessità di sostituirlo con risorse in ambito economico e sociale. Un’altra lettura importante , è il concetto di
sostenibilità intergenarzionale ed intragenrazionale. L’approccio promosso dal rapporto Bruntland, infatti, pone la
problematica del mantenimento delle risorse in una prospettiva principalmente temporale e quindi l’attuale
generazione dovrebbe preservare delle risorse (o la loro disponibilità) per le generazioni future (intergenerazionale).
Questa applicazione, tuttavia, ha subito molteplici critiche, in particolar modo dai rappresentanti dei paesi in via di
sviluppo.sarebbe necessario anteporre l’uso delle risorse e delle disponibilità per le generazioni future, prescindendo
dalla loro attuale distribuzione. La critica principale mossa , è che solo dopo aver raggiunto una certa equità
intergenerazionale sarebbe possibile mantenerla intragenerazionale dei paesi in via di sviluppo sorse la richiesta di
anteporre l’equità nella distribuzione e nell’utilizzo delle risorse sul loro mantenimento per le generazioni future.
Questa differente interpretazione del concetto di sostenibilità, comunque, ha caratterizzato e caratterizza molti dei
conflitti tra paesi emergenti e paesi di maggiore industrializzazione anche in tempi attuali. In particolar modo, di
fronte alla crescente pressione dai parte dei paesi sviluppati a limitare l’utilizzo delle risorse non rinnovabili e, quindi,
cambiare le modalità produttive, i paesi emergenti pongono l’attenzione sul loro diritto ad utilizzare, analogamente a
quanto fatto dai paesi attualmente sviluppati, le risorse non rinnovabili. è quindi il riflesso di quelle scelte ed attività
messe in atto da paesi industriali. Limitando l’uso delle risorse, quindi, di fatto si limita la possibilità di crescita di quei
paesi, legandola all’uso di tecnologie innovative non in loro possesso ed incrementando la dipendenza (tecnologica)
dai paesi sviluppati. Da parte di molti paesi i via di sviluppo, viene quindi rivendicato una sorta di “diritto ad inquinare”
e cioè non dover limitare il loro potenziale percorso di crescita per il mantenimento di condizioni ambientali
deteriorate dal processo di industrializzazione dei paesi attualmente sviluppati che si è basato proprio su un uso
smodato delle risorse.

Gli anni ’80: la svolta neoliberista, l’apertura alle esportazioni e le crisi del debitoQuesti approcci critici assumono
nel corso degli anni ’80 uno stadio embrionale, ristretti a piccoli ambiti intellettuali e solo dopo qualche anno,
riprendendo approcci culturali che contemporaneamente si diffondevano in altri campi La prospettiva sullo sviluppo si
trova quindi chiusa, costretta tra due spinte contrastanti ed opposte. Da un lato l’euforia per le possibilità di
emancipazione e eliminazione delle situazioni di indigenza che attanagliavano molte popolazioni, e, dall’altra, la
preoccupazione che in un contesto globale di scarsità di risorse queste possibilità potessero essere represse dal
peggioramento delle condizioni complessive. La retorica sullo sviluppo, a partire dal discorso di Truman del 1949,
aveva sempre enfatizzato la contrapposizione tra paesi sviluppati e paesi che non lo fossero. L’ipotesi che sviluppo e
sottosviluppo potessero convivere nello steso territorio, essere parte dello stesso spazio, non era invece contemplata.
La svolta neoliberistaCome ci ricorda David Harvey1, il biennio 1978 -1980 sarà ricordato come “un punto di svolta
rivoluzionaria nella storia sociale ed economica del mondo”2. Il biennio, che nasce con l’apertura della Cina al
commercio internazionale viene sancito dalla affermazione sulla scena internazionale di Ronald Regan e Margareth
Tatcher alla guida, rispettivamente, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. L’affermazione di questi due personaggi dal
passato e dall’approccio politico molto differente tra loro, costituisce un elemento centrale nelle dinamiche
economiche successive. Le politiche messe in atto nei due paesi, infatti, furono votate principalmente a
quell’approccio economico che passa sotto il nome di Neoliberismo e che muove dall’idea che “il benessere dell’uomo
può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una
struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio” Il neoliberismo
costituisce un processo sia economico che politico, dal punto di vista economico mira, principalmente, a5: 􀂾
liberalizzazione e deregolamentazione delle transazioni economiche sia entro che oltre i confini nazionali􀂾
liberalizzazione per promuovere la libera concorrenza􀂾 deregolamentazione per ridurre/eliminare le restrizioni legali e
diminuire il ruolo dello Stato􀂾 privatizzazione dello Stato proprietario di imprese e fornitore di servizi,􀂾 uso delle
deleghe di mercato nel residuo settore pubblico;􀂾 internazionalizzazione dei flussi finanziari e potenziamento della
mobilità dei capitali􀂾 diminuzione delle tasse dirette per aumentare la scelta del consumatore. La teoria neoliberista,
nasce intorno alla metà degli anni ’70 Intorno al centro dell’Università di Chicago e sotto l’egida dei due futuri premi
Nobel per l’economia (Hayek – 1974 e Milton Friedman 1976) si sviluppa quindi un differente approccio al sistema
economico nel quale il ruolo dello stato viene ridotto mentre lo scambio, l’economia di mercato, enfatizzati nel loro
funzione di volano per la crescita. L’approccio neoliberista ha portato a decisi cambiamenti all’interno dei sistemi
economici occidentali, in particolar modo quelli europei caratterizzati da una decisa presenza del settore pubblico
nell’economia e dalla presenza di elevati standard di tutele sociali. Il declassamento del ruolo dello stato che secondo
l’approccio neoliberista dovrebbe garantire la crescita di efficienza produttiva e quindi una crescita economica, incide
tuttavia sulla possibilità per il settore pubblico di svolgere un ruolo di tutela sociale e di redistribuzione sociale e
spaziale di disponibilità e prodotti. Questo, ha un effetto ciclico8, accentuando quindi i disequilibri e creando
fenomeni di esclusione sociale e territoriale9. In alcuni paesi sviluppati, quindi,l’applicazione pedissequa dei principi
neoliberisti può aver dato origine e/o contribuito a fenomeni di spoliazione di welfare state, L’approccio neoliberista,
ebbe un deciso ruolo nelle politiche dei paesi in via di sviluppo, delle relazioni con essi da parte degli organismi
sovrannazionali e dei paesi sviluppati, nonché sulla creazione di reti commerciali e produttive a scala globale.
All’interno dell’approccio neoliberista è possibile distinguere varia aspetti; l’applicazione delle politiche neoliberiste
nel contesto degli stati in via di sviluppo si basa principalmente sulla riduzione delle barriere commerciali, apertura ai
mercati internazionali, riduzione del ruolo dello stato in economia e della proprietà pubblica apertura ad investimenti
stranieri.A partire dalla fine degli anni ’70, ed in maniera incrementale nel corso degli anni ’80, le politiche di
sostituzione delle importazioni che avevano caratterizzato le vie autarchiche allo sviluppo, furono soppiantate da un
processo diametralmente opposto di promozione delle esportazioni.Le strategie di isolamento, che avevano
caratterizzato i precedenti approcci al commercio internazionale, non avevano, in molti casi, raggiunto gli obiettivi
auspicati. In molti casi, l’applicazione di queste politiche aveva drasticamente peggiorato le già fragili condizioni
macroeconomiche di questi paesi. Il crescente deficit della bilancia dei pagamenti, dovuto principalmente alla assenza
di componenti in uscita, l’elevato debito pubblico creato per il sovvenzionamento statale alle imprese nascenti che
non trovavano sufficienti mercati di sbocco e l’impossibilità di detenzione di moneta estera , costrinse molti paesi al
necessario cambio di strategia. La possibilità di beneficiare di maggiori investimenti diretti esteri (vedere dopo)
contribuì ulteriormente alla apertura dei mercati ed alla promozione di politiche di specializzazione produttiva che
mirassero alla esportazione. Il processo di apertura al commercio estero venne in gran parte favorito da politiche
indirette da parte del soggetto pubblico, che quindi ridusse quasi ovunque il suo ruolo attivo all’interno del processo
economico. Gli interventi principali messi in atto dai paesi in via di sviluppo che adottarono politiche di sostegno alle
esportazioni erano ridotti da un lato all’abbattimento tariffario ed alla eliminazione doganale e, dall’altro, il sostegno
indiretto alle produzioni che garantissero una maggiore specializzazione da parte dell’industria nazionale. Il processo
di abbattimento dei dazi doganali e di apertura agli scambi commerciali, può tuttavia concretizzarsi in una ulteriore
indebolimento dell’industria locale. L’equilibrio tra mercato esterno e mercato interno, infatti, costituisce in molti casi
l’elemento discriminante per il successo di una politica di apertura commerciale. La risposta di molti dei paesi in via di
sviluppo all’esigenza di attrarre investimenti diretti esteri e al contempo (teoricamente) proteggere la nascente
impresa locale, fu la creazione di zone speciali chiamate export processing zones o free trade zones. La creazione di
queste zone avviene attraverso la concessione di particolari benefici fiscali associati alla localizzazione industriale.
Attraverso la riduzione di carico fiscale si cerca infatti di attrarre in contesti territoriali in difficoltà, imprese che,
altrimenti, no avrebbero alcun altro vantaggio localizzativi. Questo approccio è stato ampiamente utilizzato anche in
Italia come possibile risposta alla cosiddetta questione meridionale e, in generale, agli squilibri tra nord e sud del
paese. Le imprese che si localizzano in questi territori, quindi, potrebbero beneficiare di alleggerimento dei dazi
doganali, sussidi alla produzione e tutta una serie di agevolazioni fiscali che ne permettano la competitività con il
mercato internazionale. Allo stesso tempo, invece, le industrie presenti nella restante parte del paese avrebbero
dovuto godere della protezione del mercato locale dal potenziale inserimento sul mercato stesso delle imprese estere.
Nella loro applicazione pratica, invece, queste zone ebbero esiti decisamente differenti. La creazione delle zone
economiche speciali ha, in gran parte dei casi, creato dei fenomeni di agglomerazione industriale che ha svuotato il
tessuto produttivo della restante parte del paese. L’accentramento di risorse pubbliche ha di fatto ridotto le possibilità
di estendere tali benefici al resto del paese dando vita a decisi squilibri interni al paese stesso. In molti casi, quindi,
questo ha portato all’emergere di economie duali all’interno dei paesi, con territori ad elevata industrializzazione che
scambiano in maniera pressoché esclusiva con il resto del mondo, e parti del paese maggiormente arretrate.
l’approccio neolibersita rafforza l’idea che lo sviluppo stesso possa essere garantito come effetto successivo e
derivante dalla crescita complessiva, secondo l’idea di trickle down (tecnicamente sgocciolamento). L’applicazione dei
principi neoliberisti, infatti, hanno come obiettivo principale l’attivazione di meccanismi di crescita della produzione
privilegiando l’efficienza, e muove dall’idea che un incremento di benessere per i ceti elevati possa generare ricadute
positive su tutto il sistema economico e quindi, per perseguire lo sviluppo sia auspicabile incrementare libero mercato
e libero scambio14. Allo stesso tempo, l’apertura agli scambi commerciali, incentivando la
monoproduzione(soprattutto di beni alimentari) ha creato una stringente dipendenza sia dalla produzione stessa che
dallo scambio con l’estero per gli altri beni primari. In molti casi, infatti, la presenza di bassi raccolti o la riduzione dei
mercati di sbocco di fatto ha esposto molti paesi all’instabilità. La produzione di un solo bene, inoltre, rende
necessario il ricorso ai mercati internazionali per gli altri beni, con un peggioramento della bilancia dei pagamenti. Non
di rado, la riduzione delle esportazioni si è tramutata in una crisi per l’intero sistema economico nazionale. La
monoproduzione, infatti, porta, sia per politiche di latifondo che per i maggiori rendimenti, a ridurre le possibilità di
produzioni differenziate e, di conseguenza, l’aautosufficienza alimentare per un paese.
La crisi del debito pubblico, Programmi di Aggiustamento Strutturale e il ruolo delle organizzazioni
sovrannazionaliNel corso degli anni ’80, proprio mentre in gran parte dei paesi del mondo si stava diffondendo
l’approccio neoliberista, molti paesi in via di sviluppo furono interessati da quella che in letteratura viene indicata
come la crisi del debito. La cosiddetta crisi del debito prende evidenza nel Messico 1982, La carenza di liquidità
costituisce, da sempre, uno dei principali problemi dei paesi in via di sviluppo. Nel corso degli anni ’70, molti paesi
necessitavano di ingenti risorse finanziarie, soprattutto per mettere in atto le politiche di infrastrutturazione primaria.
Il ricorso all’indebitamento, in assenza di un risparmio interno a cui attingere15, costituiva quindi la principale fonte di
approvvigionamento per questi paesi. Attraverso i finanziamenti, provenienti sia direttamente da altri stati che
tramite organizzazioni non governative e/o attori internazionali, un’ingente ed immediato flusso di denaro e risorse si
trovò nella disponibilità dei governi di questi paesi. Queste risorse, infatti, vennero gestite direttamente dai governi
dei paesi riceventi. Tale gestione, in molti casi, non venne indirizzata verso la risoluzione d problemi di svilup
ma,piuttosto, per interessi personali delle elitè al potere. Attraverso questo processo, quindi, molti governanti locali
poterono non solo disporre di ricchezze che contrastavano accentuando la percezione della povertà delle restanti
parti della popolazione e gli squilibri sociali interni) ma anche rafforzare grazie ad eserciti personali il mantenimento
delle loro posizioni. In molti casi, tali prestiti vennero concessi anche senza valutare appieno le possibilità di recupero;
fino ad allora, infatti, le ipotesi che uno stato si dichiarasse insolvente appariva irrealizzabile I paesi in via di sviluppo,
date queste situazioni, contrassero una notevole quantità di prestiti, soprattutto da banche d’affari; Nel corso degli
anni ’80, le condizioni di mercato mutarono rapidamente e questo mise in discussione molti dei precedenti equilibri. A
generare le difficoltà di sostenimento del debito, furono sia fattori interni ai paesi in via di sviluppo, che di mercato
internazionale. Il secondo shock petrolifero, che portò ad un immediato ed ingente incremento del prezzo del
petrolio, ebbe un effetto cumulativo su tutti gli altri comparti dell’economia reale. Anche s in un primo momento,
infatti, l’incremento dei prezzi non si diffuse ad altri prodotti, in breve tempo si estese anche agli altri beni primari.
Questo, ovviamente, portò ad un ridimensionamento della domanda di beni che, di conseguenza, generò una
riduzione dei prezzi delle materie prime. Naturalmente l’impatto non fu omogeneo per tutte le risorse e per tutti i
paesi, ma, indubbiamente ne furono interessati quasi tutti i paesi in via di sviluppo. La produzione di materie prime,
infatti, costituiva il principale commercio per molti di questi paesi. La riduzione del prezzo delle materie prime si
trasformò, per molti di questi paesi, anche in un peggioramento della bilancia dei pagamenti nonché in un
deprezzamento della propria moneta. Allo stesso tempo, l’incedere della crisi portò le banche ad alzare notevolmente
i tassi di interessi praticati.rese infatti impossibile per molti di questi paesi non solo detenere la moneta necessaria per
le importazioni di tecnologie e prodotti semilavorati, ma anche rispondere alle sempre più pressanti esigenze di
interessi sui debiti. Il processo di indebitamento, infatti, spesso si proietta in un percorso cumulativo dal quale, in
assenza di condizioni economico/produttive che permettano una effettiva emersione, è complesso uscire. la prima
risposta che i governi possono mettere in atto in presenza di debito pubblico elevato è infatti la riduzione delle spese
interne a carico del settore pubblico. Questo, nei paesi sviluppati ed ad economia consolidata, si trasforma, in pieno
approccio neoliberista, in una politica di dismissione delle imprese pubbliche, privatizzazione di molti servizi e
riduzione del welfare state. All’interno dei sistemi economici emergenti, nei paesi in via di sviluppo, la necessità di
mantenere il rispetto dei debiti contratti, ha invece dato vita ad una drastica riduzione delle possibilità di
trasferimento di risorse alle fasce povere della società, una pressoché totale eliminazione delle possibilità d accedere
ai mercati internazionali per beni non producibili in Loco Il problema del debito, tuttavia, non ebbe le stesse
dinamiche nei vari paesi che ne furono colpiti. A risentirne maggiormente, infatti, furono quei paesi ) che avevano
raggiunto già un certo livello di sviluppo. L’accumularsi del debito pubblico, che grava su molti dei paesi in via di
sviluppo è stata spesso individuata come una delle principali cause del procrastinarsi delle problematiche dello
sviluppo. Secondo tale approccio, infatti, gli interessi sul debito pubblico costituiscono un ostacolo alla crescita
economica dei paesi sottosviluppati ed una decisa riduzione delle proprie disponibilità finanziarie. Il problema della
solvibilità del debito origina, a dato luogo ad una serie di interventi e politiche volte alla cancellazione del debito dei
paesi altamente indebitati. Questi interventi più che una reale cancellazione del debito miravano ad una
rimodulazione dei termini dei debiti stessi nonché l’intervento della Banca Mondiale e nel Fondo Monetario
Internazionale17 nella loro gestione. Questi interventi assunsero la maggiore importanza in occasione dei quella che in
letteratura passa come la crisi del debito dei paesi in via di sviluppo degli anni ’80; come anticipato, questa crisi si
origina nel 1982 in Messico quando, la banca centrale messicana dichiara pubblicamente insolvenza, L’insolvenza del
Messico, come ogni altra azione finanziaria di crisi, generò un effetto a catena in gran parte dei paesi in via di sviluppo.
Rapidamente, infatti, l’insolvenza su gli interessi deidebiti corrisposti venne dichiarata dal Brasile e dall’Argentina. A
fronte dell’insolvenza messicana, infatti, mole banche sudamericane soprattutto, richiamarono i loro prestiti verso gli
altri paesi sudamericani. Il richiamo immediato di questi prestiti, invece, favorì l’aggravarsi di situazioni che, prese
singolarmente, non si sarebbero necessariamente rivelate analoghe al caso Messicano. A fronte della richiesta
immediata, infatti, i paesi coinvolti si trovarono di fronte all’impossibilità di pagare il proprio debito.quindi, il problema
del debito si espanse a molti paesi investendo in principal modo l’America Latina, Europa occidentale e questi paesi
africani che avevano già contratto dei debiti con soggetti privati. Pressoché immune da questo tipo di crisi fu il sud –
est asiatico che, viceversa, proprio nello stesso periodo fece registrare elevatissimi tassi di crescita che portarono
molti dei paesi ad essere delle potenze economiche mondiali. Il problema del debito divenne quindi un problema di
risorse e disponibilità liquide, per i paesi indebitati, e, allo stesso tempo, creò delle tensioni all’interno del sistema
finanziario internazionale che avrebbe potuto ripercuotersi violentemente alle economie dei paesi sviluppati. Per
porre rimedio a questo problema un ruolo centrale venne svolto dagli organismi sovrannazionali Banca Mondiale e
Fondo Monetario Internazionale. La Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale costituiscono dalla loro
fondazione un elemento centrale all’interno del processo di sviluppo. All’inizio della loro attività, questi organismi
avevano una natura ed una finalità differente. Alla luce degli accadimenti bellici, infatti, la Banca Mondiale avrebbe
dovuto svolgere un ruolo di assistenza e ricostruzione dei paesi coinvolti mentre il Fondo Monetario Internazionale
avrebbe dovuto svolgere principalmente un’attività di tutela delle relazioni monetarie e finanziarie. Con il passare
degli anni, tuttavia, le attività dei due organismi si avvicinarono sempre di più, portandoli di fatto a cooperare In
risposta alla crisi debitoria, lo strumento principale messo in atto dagli organismi di Bretton Woods, viene indicato
come Programma di Aggiustamento Strutturale (PAS). I programmi di aggiustamento strutturale costituiscono una
rinegoziazione dei prestiti contratti dai paesi in via di sviluppo direttamente con questi organismi Per poter accedere
alla rinegoziazione dei prestiti, , era necessario mettere in atto delle modifiche alla propria struttura interna, di chiaro
stampo neoliberista. Austerità di bilancio, svalutazione della moneta locale, contenimento dell’inflazione,
liberalizzazioni e privatizzazioni vennero quindi richieste a tutti i paesi coinvolti nelle difficoltà finanziarie. Allo stesso
tempo, l’applicazione di processi neoliberisti è richiesta, non solo dai paesi che realmente decidono (o necessitano) di
accedere ai prestiti delle organizzazioni, ma anche come garanzia che queste stesse organizzazioni rilasciano nei
confronti dei paesi che volessero accedere al credito di banche private e/o altri organismi internazionali, la
cancellazione tout court del debito pubblico viene criticata per il suo aspetto contraddittorio nei confronti dei paesi
fortemente indebitati e, in particolar modo, dei propri governanti. Secondo Eastery25 , l’ipotesi di cancellazione del
debito, potrebbe portare a richiesta di “nuovi prestiti da parte di governanti irresponsabili” Questi governati, si
sostiene, potrebbero beneficiare di un credito maggiore, sarebbero incentivati ad un uso personale delle disponibilità
e/o alla realizzazione di interventi di breve periodo per catturare la benevolenza dei propri cittadini, piuttosto che
interventi di più lungo termine e strutturali. La proposta degli organismi internazionali, quindi, è stata comunque
quella del mantenimento di processi di rinegoziazione del debito, condizionato ad interventi macroeconomici.

Lo sviluppo anni ’90: tra globalizzazione, partecipazione e nuove interpretazioniconcettualiGli approcci che
caratterizzano l’interpretazione teorica dello sviluppo negli anni ’90 nascono, dalla constatazione che le politiche e le
analisi fino ad allora messe in atto non avevano sortito, in linea con i propri obiettivi, risultati soddisfacenti. Per i paesi
in via di sviluppo questo fenomeno si era concretizzato principalmente nel cambiamento dalle politiche autarchiche
alla preferenza per le esportazioni e, dalla nascita delle export processing zones. L’evoluzione di tale approccio
interessa ancor più direttamente quelli che allora venivano definiti ancora paesi in via di sviluppo, si riconnette a quel
fenomeno complesso, articolato e talvolta contraddittorio indicato come globalizzazione.A partire dagli anni ’90,
l’obiettivo principale di molti studi sul tema comincia ad essere cosa debba intendersi persviluppo e quando una
regione, un territorio, una comunità possano considerarsi sviluppati.
Globalizzazione, delocalizzazione produttiva e nuovi paradigmi allo sviluppo economicoNel corso degli anni ’90
emerge, nella sua complessità, quel processo di cambiamento del paradigma tecnologico/economico/culturale che
aveva guidato i decenni precedenti che, in via generale, passa sotto il nome di globalizzazione Un ruolo centrale viene
infatti svolto anche dallo sviluppo delle tecnologie, dal miglioramento delle condizioni di trasporto e della logistica che
rendono maggiormente accessibili taluni territori e permettono una maggiore connettività. Allo stesso tempo, quasi
universalmente, si assiste alla perdita di centralità dello stato/nazione a vantaggio di attori sovrannazionali e non
istituzionali, nasce nel 1995 il World Trade Organization (WTO); questo organismo, assume molteplici funzioni e
ambiti di attività, ha come funzione istituzionale l’essere un terreno negoziale per le dispute commerciali tra i vari
paesi
Dal post-fordismo alle imprese multinazionali: un differente modello produttivo e le sue implicazioni spazialiMolti degli
elementi portati e centrali dell’intero sistema di produzione fordista iniziarono ad essere messi in crisi dalle pressioni
derivanti dal mercato esterno e dalle complessità e difficoltà di mantenere degli standard di produzione. L’evoluzione
commerciale, aveva indebolito la possibilità di collocazione commerciale di prodotti ad elevata standardizzazione,
tipici del sistema produttivo fordista. Allo stesso tempo la riduzione del ciclo di vita del prodotto, aveva reso
necessaria l’introduzione di una maggiore componente dell’aspetto tecnologico ed innovativo sulle altre componenti
produttive. L’innovazione torna quindi ad assumere un ruolo centrale all’interno del processo produttivo, diventando
quindi elemento spesso decisivo all’interno della competitività aziendale e produttiva. L’esigenza di una continua
innovazione e di introduzione di continue modifiche all’interno dei prodotti, rendeva quindi il modello produttivo
fordista inadatto
I l ciclo di vita del prodotto e divisione internazionale del lavoroLa teoria del ciclo di vita del prodotto, introdotta nel
1966 da Vernon, costituisce un processo analitico in grado di evidenziare le differenti fasi del processo evolutivo di un
prodotto, dalla sua innovazione ed introduzione sul mercato, fino alla sua standardizzazione e massificazione
produttiva. In chiave tecnologica, questo approccio permette quindi di associare le varie fasi di evoluzione della
produzione ed il ruolo che, può venire svolto dalla innovazione. Allo stesso tempo, una sua lettura in chiave geografica
permette di definire come queste varie fasi possano essere volte in contesti territoriali differenti, Ogni fase, come per
estensione può essere associato ad ogni processo produttivo, necessità di risorse differenti (ricerca, manodopera
qualificata, materie prime, lavoro generico ecc.) disponibile in maniera disomogenea alle differenti scale. Per ogni
fase, sarà ottimale per l’impresa una localizzazione nei territori in cui tali fattori produttivi siano maggiormente
disponibili e con costi minori. Secondo l’approccio di Vernon, l’evoluzione del prodotto si articola in tre distinte fasi:
l’innovazione, la maturità e la standardizzazione.Fase 1 - la fase dell’innovazione: questa fase è caratterizzata da un
elevato grado di sviluppo tecnologico, il prodotto viene realizzato in piccole quantità. Elemento produttivo
fondamentale in questa fase è la presenza di lavoratori altamente specializzati nonché la prossimità di centri di ricerca
ed università ad elevato grado di innovazione. Il mercato è rappresentato principalmente da un mercato urbano, in
grado di assorbire le basse quantità prodotte, vendute a costi tendenzialmente elevati Fase 2 – Fase della maturità: il
prodotto, ormai evoluto, deve essere introdotto su mercati più ampi; il mercato diventa tendenzialmente
oligopolistico o concorrenziale essendosi ormai ridotti i vantaggi monopolistici legati all’innovazione e alla unicità del
prodotto, è quindi necessario estendersi a mercati esteri, La localizzazione, in queste fasi, deve necessariamente
tenere conto delle due esigenze di minimizzare i costi di produzione (con prossimità al bacino di provenienza delle
materie prime) ma anche quelle di distribuzione (maggiore prossimità al mercato)Fase 3 - Fase della
standardizzazione: il prodotto è ormai completamente standardizzato e, quindi, non è necessario fare riferimento a
manodopera qualificata. I volumi produttivi sono molto elevati e quindi, è conveniente localizzarsi più in prossimità ai
mercati di sbocco. Il ciclo di vita individuato da Vernon, raggiunta la fase di standardizzazione, prevede che l’impresa
metta in atto dei meccanismi di innovazione che permettano quindi di generare un prodotto differente,
dell’innovazione continua , porta alla necessità di introdurre sul mercato, in tempi relativamente brevi, dei prodotti
differenziati dai precedenti. Questo processo, in chiave internazionale, può evidenziare un ruolo specifico per i paesi
in via di sviluppo. Le fasi innovative tendono ad essere svolte soprattutto nei paesi sviluppati, ed in particolar modo in
quelle loro regioni con maggiore grado di innovazione. Viceversa, attraverso un processo di investimenti diretti esteri,
le fasi di maturità (parzialmente) e di standardizzazione (soprattutto) vengono destinate ai paesi in via di sviluppo.
Questa articolazione spaziale, definita come Divisione Internazionale del Lavoro, è necessaria anche per comprendere
alcune dinamiche produttive ed industriali presenti all’interno dei paesi in via di sviluppo; in particolar modo,
“l’industrializzazione” che ha interessato alcune di queste realtà non dovrebbe essere confusa con lo sviluppo degli
stessi territori. Allo stesso tempo, l’incremento delle possibilità di commercio internazionale, originate dal
miglioramento delle condizioni di trasporto e logistica nonché dalla ormai universale riduzione delle barriere doganali,
offriva alle imprese la possibilità di sviluppare una differente spazialità, ma, allo stesso tempo, creava i presupposti per
un confronto più aperto a competitor internazionali. Dal punto di vista interno, invece, l’impresa di tipo fordista,
altamente integrata, presentava una rigidità ed una meccanicizzazione dei processi poco rispondente ad una
collettività ed un modo di vita molto più flessibili e dinamici. Nel complesso, quindi, l’idea imprenditoriale di tipo
fordista si presentava troppo rigida per il contesto in rapida evoluzione.Quello che emerse dalla crisi dell’impresa
fordista furono modi alternativi di approcciare all’idea imprenditoriale La risposta produttiva alla crisi del fordismo,
quindi, mosse in due direzioni apparentemente antitetiche: la riscoperta della dimensione locale e l’apertura a scala
sovrannazionale. Lo sviluppo delle economie locali portò alla riscoperta della specializzazione e della cosiddetta
produzione flessibile. L’esistenza di economie esterne di agglomerazione, di vantaggi non monetarizzabili per le
imprese derivanti dalla localizzazione in specifiche aree produttive, era già stata individuata nel corso degli anni ’20 da
Marshall Secondo tale approccio, un’impresa può avere dei vantaggi produttivi/commerciali a seguito della sua
localizzazione. Tali vantaggi possono derivare dalla presenza nello stesso territorio di imprese analoghe e/o afferenti
allo stesso settore e processo produttivo (economie di agglomerazione) oppure possono derivare dalla presenza di
imprese operanti in altri settori (economie di urbanizzazione). Nel primo caso (economie di localizzazione) i vantaggi
si concretizzano nella presenza di un bacino di lavoro specializzato (labour pool), dalla possibilità di interazione e
scambi di conoscenza con le altre imprese e, più in generale, con la creazione di un clima industriale positivo. La
presenza nello stesso territorio di imprese operanti nello stesso settore, anche in presenza di nessuno scambio
produttivo e/o collaborazione diretta, può anche concretizzarsi nella riconoscibilità del luogo e della produzione,
creando una sorta di pubblicità indiretta ed indiretta garanzia di qualità derivante solo dall’essere localizzato in alcuni
territori11. La presenza di questi fattori, quindi, evidenzia come la presenza di imprese afferenti allo stesso settore in
un territorio, in un clima di competizione-collaborazione, non costituisca un fattore di negatività per le singole
imprese, ma anzi ne incrementa la qualità e la riconoscibilità. I vantaggi derivanti dall’urbanizzazione si concretizzano
invece nella riduzione di costi di trasporto, nella maggiore accessibilità alle risorse energetiche, alla presenza di
infrastrutture dedicate all’impresa ed un bacino di potenziali clienti molto elevato. L’approccio locale e la
creazione/autogenerazione di distretti industriali e cluster tecnologici, si espande rapidamente anche all’interno dei
paesi in via di sviluppo. La creazione di questi cluster, vengono spesso promossi come emblema e metafora della
crescita di questi territori. Proprio all’interno dei paesi in via di sviluppo, inoltre, la presenza di tali distretti che
spiccano con il territorio circostante, evidenziano alcune contraddizioni e l’emergere di una nuova lettura dello spazio,
della geografia delle relazioni e della prossimità. Da un lato, questo tipo di dinamiche riporta al centro le componenti
territoriali e, in particolar modo, la centralità del territorio, come enfatizzato da numerosi autori tra i quali si ricorda
ad esempio Scott14, la centralità degli spazi economici locali genera una nuova geografia nella quale attori centrali
sono le regioni e le città, i luoghi. Lo sviluppo viene quindi ad essere esaminato ad una differente scala, diventando un
tema da delinearsi a scala locale e non più (o non solo) a scala nazionale. Con l’attenzione allo sviluppo locale come
modello di sviluppo, invece, lo sviluppo si localizza e, allo stesso tempo, settorializza. La scala di analisi deve
necessariamente modificarsi, espressioni come “paese in via di sviluppo” o “paese sottosviluppato”, per non parlare di
concetti vaghi ed indistinguibili, come Terzo Mondo, diventano inadatti per spiegare le dinamiche di crescita e di
sviluppo. La variazione dei modelli produttivi, infatti, sposta la competizione dagli stati alle regioni, ai territori. La
Silicon Valley, la Route66 ma anche il distretto di Bangalore (India) diventano i parametri di riferimento. Quello che
emerge, a seguito dell’analisi regionale è che parlare, analizzare e predisporre piani di sviluppo a scala nazionale
potrebbe diventare sterile, ambiguo e fuorviante. La facilità di collegamento, internazionale creano una nuova
spazialità, dove la prossimità geografica non è più sinonimo di vicinanza spaziale. Lo sviluppo delle comunicazioni, la
facilità degli spostamenti e, in generale, tutti quei fenomeni che contraddistinguono il concetto di globalizzazione, non
rappresentano tuttavia la scomparsa delle caratteristiche geografiche la fine della geografia. Quello che emerge è la
necessità di riconcettualizzare lo spazio geografico, in una prospettiva di prossimità (economica, sociale, culturale); la
presenza di elementi comuni (culturali, politici, economici) diventa quindi un fattore discriminante e selettivo
“all’interno di spazi economici macro-regionali integrati Questo processo, tuttavia, solo marginalmente costituisce un
abbattimento del ruolo dello stato-nazione. L’introduzione massiccia e capillare delle dinamiche neoliberiste, che
privano lo stato della sua centralità come attore economico diretto, e l’emergere delle regioni come centri
economico/produttivi sembra infatti spogliare l’istituzione statale di ogni sua funzione. Indubbiamente questi
fenomeni contribuiscono a ridurre il peso dello stato ma, restano allo stato centrale dei ruoli di gestore delle politiche
interne, delle relazioni commerciali ed industriali che ne fanno essere ancora un elemento centrale. L’idea di sviluppo
che nasce a partire dagli anni ’90, riduce la centralità degli elementi quantitativi (es. capitale) ma enfatizza come, un
territorio debba avere un elevato grado di innovazione tecnologica e creare i presupposti per un’attrattività di capitale
umano. I territori, quindi, per mantenersi ad un sufficiente grado di sviluppo, non possono più fare affidamento a
rendite di posizione, ma devono mantenere elevati standard innovativi, mantenersi e quanto più possibile spostare in
avanti la frontiera tecnologica, per non essere limiti dalla presenza di competitor. La seconda evoluzione del
paradigma produttivo post-fordista è connessa alla localizzazione industriale e quindi la presenza di imprese
multinazionali e/o transnazionali. Il processo di delocalizzazione produttiva e commerciale, infatti, dà luogo a queste
forme industriali ricadenti nel più generale concetto di internazionalizzazione che spesso, vengono equiparate ma che
presentano delle differenze sostanziali. Un’impresa multinazionale, infatti, pur mantenendo una solida integrazione
verticale, delocalizza le proprie funzioni ed attività in altri luoghi; viceversa, il concetto di transnazionale è più adatto a
spiegare le dinamiche produttive di imprese che, svolgendo la loro attività in parziale autonomia e spazialmente
distribuite a scala globale, partecipano alla formazione di un unico prodotto. All’interno delle dinamiche di sviluppo e
delle relazioni tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati, l’aspetto principale delle dinamiche relazionali è dato
proprio dalle imprese multinazionali. Queste imprese, tramite quelle operazioni economico/finanziarie che passano
sotto il concetto di Investimenti Diretti Esteri (IDE) acquisiscono o creano elementi produttivi in paesi differenti. Le
motivazioni che portano un’impresa a delocalizzare la produzione in altri contesti geografici possono essere molteplici
e differenti e non necessariamente riconducibili al minore costo del lavoro. In generale, i vantaggi della
delocalizzazione possono essere definiti in termini di costoo di mercato.I fattori di costo, che portano quindi le
imprese a beneficiare di taluni differenziali di costo, si riconducono principalmente al salario, che costituisce l’aspetto
maggiormente enfatizzato anche dalla retorica anti-globalizzazione, ma possono interessare anche il trasporto delle
materie prime, nonché il costo per il mantenimento di standard lavorativi ed ambientali. In termini di costo del lavoro,
la presenza di alti livelli di disoccupazione, l’assenza di tutele sindacali le condizioni di indigenza in cui verte una
cospicua parte della popolazione e la presenza di un numero elevato di persone in una fascia di età giovane,
permettono alle imprese che delocalizzano fasi della loro produzione di beneficiare di differenze salariali spesso molto
elevate. Allo stesso tempo, tuttavia, l’assenza dei limiti ambientali, porta molte imprese a delocalizzare le produzioni a
maggior impatto proprio nei paesi in cui le condizioni poste sono minori.I benefici di mercato, invece, sono quei
benefici che l’impresa, delocalizzandosi, sfrutta in termini di prossimità ad un potenziale mercato di sbocco. Questo
tipo di delocalizzazione, spesso minimizzata dal dibattito pubblico sull’internazionalizzazione produttiva, assume
invece importanza fondamentale per tutte quelle imprese che, nella prospettiva di ampliare il proprio mercato, si
inseriscono produttivamente in un contesto territoriale, cercando quindi da un lato di poter ottimizzare e perfezionare
la propria produzione in linea con le esigenze locali e, dall’altro, di poter aggirare eventuali dazi o barriere tariffarie
all’entrata muovendosi, di fatto, come impresa produttrice locale. , la delocalizzazione viene indicata dai suoi
sostenitori come un vantaggio per i paesi in via di sviluppo proprio per l’esportazione di tecnologie, disponibilità
economiche e conoscenza. Seguendo questa interpretazione, infatti, la popolazione locale avrebbe dei benefici
derivanti da occupazione, creazione di infrastrutture e di un tessuto imprenditoriale che potrebbe essere facilmente
riconvertito ad imprenditoria locale e di conoscenza specializzata che potrebbe essere dare vita a fenomeni di spin-off
che daranno vita alla crescita futura, gli effetti positivi della presenza in un paese in via di sviluppo di Investimenti
Diretti provenienti da paesi sviluppati si riconduce principalmente ai meccanismi di esportazione della tecnologia, la
possibilità per un territorio di ospitare delle imprese a (anche se relativo) elevato livello tecnologico può
indubbiamente dare vita a meccanismi di propagazione. Le teorie dello sviluppo, in molti casi, avevano enfatizzato il
ruolo dell’innovazione postulando anche che proprio il catch-up tecnologico avrebbe permesso a paesi in via di
sviluppo di emulare il processo di produzione dei paesi sviluppati. La possibilità di creazione di imprese collegate a
quella estera che ne riprendano la tecnologia (spill-over) o la possibilità di che persone impiegate nell’impresa
straniera possano, con le competenze acquisite, creare imprese locali (spin-off) necessitano tuttavia di un contesto in
cui sia possibile la creazione di capitale umano e la sua evoluzione. Tra gli effetti negativi solitamente imputabili alla
presenza di IDE, si è soliti ricordare l’impatto sul sistema ambientale. Essendo libere da costrizioni spaziali, le imprese
multinazionali possono decidere di localizzarsi in quei territori a maggiore produttività e, in linea di massima, possono
preferire un uso intensivo del territorio, in una prospettiva spesso di brevissimo periodo, non avendo necessità ed
interesse alla mantenimento e/o riproduzione dell’ecosistema. In molti casi, nonostante la crescita dell’occupazione (e
di riflesso le condizioni di lavoro) siano l’aspetto che maggiormente si associa alle multinazionali, il contributo i termini
di occupazione è ridotto quantitativamente ed altamente localizzato geograficamente. In termini macroeconomici,
inoltre, la presenza di imprese internazionali in una prima fase genera un vantaggio in termini di bilancia di pagamenti
che, al momento del loro consolidamento, origina una dinamica opposta legata principalmente al re-impatrio dei
profitti. I benefici, sia in termini tecnologici che di elargizione delle risorse, viene spesso limitato a territori ristretti
creando quindi delle economie duali nei paesi in via di sviluppo; la presenza di questi differenti livelli di sviluppo e la
contemporanea indisponibilità di risorse, porta ad una polarizzazione della crescita ed alla impossibilità, di realizzare
interventi integrati per tutto il paese.
Lo sviluppo come libertà: l’approccio di Amartya Sen ed il concetto di capabilitiesl’oggetto di analisi erano state
soprattutto la determinazione delle cause del sottosviluppo e gli eventuali rimedi. Nel primo caso, soprattutto i lavori
che provenivano dal CEPAL e dalle scuole di sua derivazione, avevano portato ad affiancare a motivazioni naturali di
puro stampo deterministico (il clima, l’impossibilità presunta di praticare agricoltura, i primi 30 anni di dibattito sullo
sviluppo avevano portato alla formazione di un numero pressoché infinito di teorie ed interventi di volta in volta
risolutivi che avrebbero dovuto porre fine alle situazioni di difficoltà. Allo stesso tempo, ingenti quantità di risorse
venivano indirizzate alla riduzione degli effetti del sottosviluppo ed un crescente numero di persone si poneva come
obiettivo delle proprie azioni soddisfare l’urgenza di problemi quali la sotto alimentazione, la mortalità infantile e le
altre conseguenze del sottosviluppo. L’elemento meno presente in questo processo era però una riflessione su cosa si
dovesse intendere per sviluppo e, di conseguenza, come questo potesse essere individuato e, nel caso, misurato.
l’idea dominante legata allo sviluppo era che, attraverso la concezione di trickle down, una crescita della ricchezza
nazionale (P.I.L.) avrebbe indubbiamente generato un miglioramento delle condizioni di vita per le popolazioni
interessate e, in qualche modo, la risoluzione (o riduzione) delle problematiche in oggetto. Nel 1990, la Banca
mondiale introduce un Indice di Sviluppo Umano che sostituisce il P.I.L. come esclusivo indice di sviluppo. Il concetto
di sviluppo viene quindi a dissociarsi, dall’aspetto della crescita economica e dalla sola natura monetaria. con la teoria
dei Basic Needs questa idea di sviluppo metteva l’uomo, con i suoi bisogni, al centro del dibattit. I parametri per
individuare lo sviluppo, non sono soltanto le disponibilità monetarie ed economiche, ma anche la disponibilità di quei
beni essenziali (quali quelli alimentari, domestici e sanitari) per ogni essere umano. L’aspetto più innovativo che deriva
da tale approccio, inoltre, non è solo la necessità di soddisfare i bisogni primari della popolazione, quanto piuttosto,
anche se solo accennato, come il soddisfacimento dei bisogni della popolazione e la sua ricchezza media non
necessariamente coincidessero. A tal proposito, associato concettualmente alla teoria dei basic needs, nacquero
alcuni indicatori (come ad esempio la percentuale di persone che vivono sotto la soglia di povertà fissata a circa un
dollaro al giorno) che si ponevano proprio l’obiettivo di quantificare, la povertà delle popolazioni. Verso la fine degli
anni ’90, Sen pubblica Development as Freedom, un testo divulgativo, sintesi di ricerche estese lungo decenni, che
rappresenta una sorta di manifesto per una nuova e differente idea di sviluppo
Lo sviluppo come libertàLo sviluppo può essere visto come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli
esseri umani. Questa concezione, si contrappone ad altre visioni più ristrette dello sviluppo, come quelle che lo
identificano con la crescita del prodotto nazionale lordo (PNL) o con l'aumento dei redditi individuali, o con
l'industrializzazione, o con il progresso tecnologico, la crescita del PNL o dei redditi individuali può essere un
importantissimo mezzo per espandere le libertà di cui godono i membri della società: ma queste libertà dipendono
anche da altri fattori, come gli assetti sociali ed economici o i diritti politici e civili Lo sviluppo richiede che siano
eliminate le principali fonti di illibertà: la miseria come la tirannia, l'angustia delle prospettive economiche come la
deprivazione sociale sistematica, la disattenzione verso i servizi pubblici come l'intolleranza o l'autoritarismo di uno
stato repressivo Qualche volta la mancanza di libertà sostanziali è diretta- mente legata alla povertà materiale, che
sottrae a molti la libertà di placare la fame, nutrirsi a sufficienza, procurarsi medicine per malattie curabili, vestirsi
decentemente, abitare in un alloggio decoroso, avere a disposizione acqua pulita o godere di assistenza sanitaria. In
altri casi l'illibertà è strettamente connessa alla mancanza di servizi pubblici e interventi sociali, per esempio
all'assenza di programmi epidemiologici, o di una vera e propria organizzazione sanitaria o scolastica, o di istituzioni
capaci di mantenere la pace e l'ordine a livello locale. L’approccio allo sviluppo promosso da Sen costituisce una
frattura con l’ideale dominante del periodo, e muove da una sua definizione diametralmente opposta a quella che si
era, evidenziata. Lo sviluppo, secondo Sen, non è il raggiungimento o il possesso di taluni beni o la possibilità di
soddisfare i propri bisogni quanto piuttosto un “processo integrato di espressione delle libertà sostanziali
interconnesse una con l’altra” Le varie sfaccettature che lo sviluppo aveva, ed in qualche modo avrebbe, associate di
volta in volta nella letteratura (crescita, ambiente, diritti civili ecc.) come rappresentative dello sviluppo stesso
assumono quindi per Sen la funzione esclusiva di mezzi per raggiungerlo. La libertà di sopravvivere a lungo, di godere
di diritti civili e politici, la presenza di infrastrutture economiche, le libertà sociali, le garanzie di trasparenza e le
sicurezze sono quindi per Sen delle libertà funzionali al raggiungimento dello sviluppo stesso. Anche la ricchezza, non
può essere vista come un fine in se ma come un mezzo utile per il soddisfacimento di altre libertà. In opposizione ad
approcci più radicali, quindi, Sen non contrappone le singole classificazioni che la letteratura aveva offerto di sviluppo,
a crearne una sorta di ordinalità, ma introduce l’idea di uno sviluppo integrato nel quale tutti gli elementi partecipino
al rafforzamento individuale che permetta il raggiungimento di quelle libertà ed abilità – definite nel complesso
capabilities20 – che portino l’individuo all’autodeterminazione dei propri bisogni.quante siano le sue possibilità,
opportunità, capabilities appunto che ha di raggiungere determinati livelli di soddisfazione a dare una misura del suo
sviluppo Il soddisfacimento dei bisogni primari, tuttavia, costituisce una sorta di pre-requisito sostanziale affinchè
l’uomo possa mettere in atto e manifestare le proprie potenzialità e libertà ma non ne rappresentano un elemento
sufficiente. Sen porta un ulteriore elemento di analisi. Lo sviluppo, nella sua impostazione, non si presenta infatti solo
localizzato in definiti territori (stati e/o regioni). L’esempio riportato da Sen fa riferimento alle comunità nere degli
abitati degli Stati Uniti in relazione a delle popolazioni di cosiddetti paesi in via di sviluppo. Confrontando alcuni
elementi caratteristici la formazione dello sviluppo, come speranza di vita alla nascita, con il livello del reddito
disponibile, Sen dimostra come non sempre esista una correlazione positiva tra queste due grandezze. In questo
modo, Sen, enfatizza come, le comunità nere statunitensi godano di libertà minori di quelle che, con un livello di
reddito minore, hanno gli abitati di molte regioni solitamente definite in via di sviluppo. Attraverso questo esempio,
quindi, si vuole enfatizzare sia che “questo cambiamento di prospettiva è importante anche perché ci da una visione
diversa– della povertà non solo non solo nei paesi in via di sviluppo ma anche nelle società opulente”. Questo, tra
l’altro, contribuisce ulteriormente a ridurre l’idea determinista che il sottosviluppo fosse solo derivante da condizioni
ambientali e territoriali,
Lo sviluppo partecipato ed i progetti partecipativi degli attori internazionaliAccanto e parallelamente ai lavori di Sen,
si introduce al tema dello sviluppo un approccio che contribuisce a mutare l’idea di sviluppo stesso, a creare una
differente sensibilità sul tema, L’approccio partecipativo alle politiche di sviluppo nasce nella metà degli anni ’70, ma
assume il suo apice all’interno dell’ambiente non esclusivamente accademico, solo negli anni’90, in particolar modo a
seguito dei lavori di Chambers. L’idea portante di tale approccio è che la possibilità di determinare un proprio
percorso di sviluppo e la contemporanea possibilità di costituire gli attori principali dello sviluppo stesso costituivano
non solo un percorso ideale per il raggiungimento dello sviluppo, ma quanto piuttosto una delle sue molteplici
(principali) componenti. Nel corso degli anni ’90, danno origine anche a numerosi studi votati all’idea di multi-level
governance. L’idea di governance, nella sua accezione originaria, si sarebbe dovuta differenziare da quella di
govenrnment, implicando quindi sia un incremento del numero e della composizione degli attori chiamati a gestire le
tematiche collettive che una differente gestione del processo decisionale. Alla base del concetto di governance
c’èl’idea di governare senza governo. La decisione, quindi, non si sarebbe dovuta originare più dall’alto (top –down)
ma sarebbe dovuta essere il frutto di un processo di crescita dal basso (bottom-up). Secondo tale approccio, quindi, le
decisioni possono essere più aderenti alle esigenze della comunità, in un certo senso quindi “migliori” quando i
soggetti interessati siano non solamente coinvolti all’interno del processo di decisione, ma ne siano i principali
promotori ed attori; Il concetto di governance assume, successivamente, la connotazione di multi-level governance. Il
concetto di multi –level riconduce immediatamente ad un concetto proprio della geografia e, nello specifico, il
concetto di scala. Secondo tale impostazione, infatti, un ruolo centrale nel processo decisionale sarebbe dovuto essere
svolto dagli attori operanti alle scale locali, più prossime quindi alla scala di azione del progetto stesso. Questo
approccio, enfatizza il ruolo degli attori locali nei processi decisionali, anche lo sviluppo locale si è tramutato
nell’ennesima apparente panacea. L’approccio localistico, infatti, ha rapidamente soverchiato ed annullato la
centralità della scala nazionale, associando alla “positività” dei valori che portava una sorta di universalità; qualsiasi
intervento agisse, o avesse agito, a scala locale, si sarebbe infatti immediatamente ipotizzato essere “positivo”. A
sostenere ed avallare l’approccio partecipativo, inoltre, c’è anche un differente approccio alla responsabilità da parte
delle comunità locali. Le politiche in atto nei decenni precedenti avena perseguito principalmente un filone
assistenzialista, secondo il quale le comunità appartenenti ai paesi in via di sviluppo avrebbero dovuto beneficiare
degli aiuti dei paesi sviluppati senza esserne coinvolti ne dal punto di vista deliberativo, ne, tantomeno, dal punto di
vista della gestione e della responsabilità. Molti dei progetti venivano infatti calati sul territorio da attori esterni. In
questo modo, quindi, anche i governanti locali (spesso autoritari e dittatoriali) potevano delegittimare questi
interventi, rimandando la responsabilità agli attori internazionali e non veder minata la loro immagine (nel caso di
fallimento del progetto stesso). Accanto all’idea di partecipazione, inoltre, si rafforza anche il concetto stesso di
democrazia. nelle varie parti tematiche, infatti, l’assenza di governi democratici, o per meglio dire la presenza di forme
di governo assolutiste e dittatoriali, è stata (ed in molti casi continua ad essere) uno dei principali aspetti del
sottosviluppo di comunità e territori. La possibilità di essere coinvolti, partecipare appunto, alle sorti proprie e della
propria comunità costituisce quindi un elemento centrale ed essenziale all’interno dello sviluppo e delle sue
manifestazioni. L’approccio partecipativo, non si presenta immune da elementi di criticità si pone infatti come un
concetto dal punto di vista etico/morale di grandeapertura, ma che presenta dei decisi limiti, sia dal punto di vista
concettuale che attuativo. Un primo limite viene ad essere individuato nella selezione delle comunità e, quindi, dei
progetti. contestuale impossibilità di sostenere contemporaneamente tutti i progetti, porta alla necessità della
selezione dei progetti da finanziare e realizzare. Nella loro impostazione teorica le comunità possono essere
individuate sia a livello territoriale, come gruppo di persone che vivono in una stessa località, sia come gruppo di
individui che condividono le stesse necessità e le stesse possibilità, lasciando quindi spazio con questa classificazione
volontariamente generica ad un vasto orizzonte di gruppi tra loro molto diversi L’approccio partecipativo, inoltre,
porta ad una complessa definizione di comunità. Molto spesso le comunità sono viste come un contesto omogeneo
ma questo, nella realtà, non accade nei paesi sviluppati e tanto meno in quelli in via di sviluppo all’interno dei quali le
differenze sociali, economiche, sessuali, razziali ed etniche sono molto profonde; in molti dei progetti, però,
“l’eterogeneità viene dissolta all’interno di una vaga nozione di comunità” Connesso al problema di definizione delle
comunità di riferimento e della sua eterogeneità, c’è la possibilità di individuazione degli attori locali con i quali
interagire. All’interno delle comunità, infatti, è complesso determinare chi siano i principali attori rappresentativi e,
tra, spesso gli attori internazionali tendono comunque a preferire (o in alcuni casi a doversi relazionare) il
coinvolgimento degli attori più visibili “spesso uomini, leggermente meglio educati, più avvezzi ad avere contatti con le
agenzie di sviluppo degli altri”32 mentre per loro stessa natura invece i meno forti, i più emarginati tendono ad essere
spesso meno visibili. L’approccio partecipativo quindi non sempre, non necessariamente, si trasforma in un
rafforzamento delle categorie più deboli alla base dell’equilibrio sociale interno;
Gli anni 2000: dalla fine dello sviluppo al post-sviluppo Il dibattito sulla globalizzazione e la dicotomia Nord/Sud
L’emergere della globalizzazione come tema dominante delle relazioni economiche internazionali ha portato, verso la
fine degli anni ’90, da un lato alla riduzione del dibattito sullo sviluppo ), e, per antitesi, alla crescita di movimenti che
hanno riportato al centro gli aspetti concettuali più radicali dello sviluppo stesso. La globalizzazione è, come detto, un
fenomeno sociale/economico/politico che ha caratterizzato, e per certi versi monopolizzato, il dibattito non solo
accademico del periodo a cavallo tra la fine del ‘900 e i primi anni 2000. Gran parte dei lavori del periodo in esame
furono volti ad analizzare gli effetti della globalizzazione, anche, talvolta, non definendo compiutamente la sua portata
e le sue origini e la sua genesi. Il dibattito si è quindi focalizzato sulla individuazione di alcuni aspetti e alcune
particolarità del fenomeno, talvolta accentuandone la portata (tralasciando come questo fenomeno non sia esploso
improvvisamente dal nulla, ) oppure limitandone l’espressione solo ad alcuni aspett sottovalutandone quindi la
dimensione complessiva e trasversale. Un intenso periodo di manifestazioni ed opposizioni, che si potrebbero far
coincidere con il periodo che intercorre tra le manifestazioni di Seattle del 1999 e gli accadimenti legati al G8 di
Genova del 2001, hanno messo al centro del dibattito pubblico il tema della globalizzazione e del ruolo delle
organizzazioni soprannazionali nel tessuto economico internazionale e, di conseguenza, il ruolo all’interno dello
sviluppo dei paesi in via di sviluppo. . Questi movimenti, hanno portato alla luce una sorta di contraddizione,
stimolando numerosi studiosi a confrontarsi sul tema del perché “una forza come la globalizzazione che ha portato
tanti vantaggi si è trasformata in un tema così controverso” Allo stesso tempo, però, questi fenomeni hanno portato
ad una sorta di appiattimento del dibattito eliminando delle possibile aree di confronto e relegandolo nella semplice
dicotomia pro/contro. Se da un alto si enfatizzava infatti come il processo di globalizzazione, di internazionalizzazione,
di ampliamento dei commerci e la delocalizzazione produttiva avessero contribuito a sostenere la crescita di molti
paesi dall’altra si stigmatizzavano i “costi sociali” di tali processi, gli aspetti connessi alla libertà individuale e collettiva
e, seppur con le dovute e profonde differenze, analogamente a quanto era avvenuto anche nel corso degli anni
‘60/’70 alcune tematiche connesse all’imperialismo Il dibattito sulla globalizzazione ha portato, sempre in termini di
sviluppo, anche ad una sua differente geografia; quello che emerge dal dibattito sulla globalizzazione, infatti, è anche
una differente categorizzazione spaziale che, con il tempo diventerà definitiva dello sviluppo. Dopo il sottosviluppo, il
terzo mondo, l’idea di sviluppo viene quindi associata e schematizzata al binomio nord/sud. L’espressione Sud del
mondo ha origini ben più antiche del periodo in cui trova la sua massima conclamazione; nel 1980, infatti, William
Brandt in un rapporto per le nazioni unite, utilizzò questa classificazione, esercitando una sorta di divisione del pianeta
seguendo la direttrice dei paralleli, con l’eccezione dell’Oceania Tale classificazione avrebbe dovuto soppiantare, ,
l’espressione Terzo Mondo all’interno del dibattito sullo sviluppo, superandone la concezione politica, dandone una
prospettiva più “positiva”. , infatti, l’espressione Terzo Mondo si era, con il tempo, riempita di connotati negativi,
divenendo metafora di povertà. Con l’espressione Sud del mondo, invece, si cerca di dare una differente connotazione
a tali realtà, non solo come individuazione di paesi sottosviluppati, ma associando ad essi la presenza di elementi
culturali, storici, sociali propri. Allo stesso tempo, sempre attraverso questa espressione, si cerca di ridimensionare le
gerarchie Nord e Sud; queste due partizioni, infatti, non dovrebbero essere poste in legame ordinale ma si dovrebbero
concretizzare per profonde differenze, ma per analoga dignità senza presupporre la dominanza del Nord sul Sud. Le
esperienze e l’utilizzo comune, come traspare anche dal lessico quotidiano, non hanno rispettato molte di queste
intenzioni; il concetto di Sud del Mondo, infatti, si è spesso trasformato in una visione ancor più edulcorata di quelli
che erano i paesi sottosviluppati, In termini geografici questa classificazione pone però alcune criticità. Analogamente
a quanto avvenuto con l’uso pressoché indistinto dell’espressione Terzo Mondo, infatti, inserire all’interno di un'unica
espressione realtà eterogenee ed ampie come quelle esaminate porta a “l’annullamento delle discontinuità tra
territori, , l’utilizzo di questa espressione (Sud del Mondo) porta nuovamente alla centralità non solo della scala
nazionale ma, addirittura, ipotizza la nascita di una regione sovrastatale. Proprio l’affermarsi di tale dicotomie, in
apparente contrasto, costituisce una risultanza del fenomeno di perdita di centralità dello stato nazione, che, a sua
volta, costituisce uno dei momenti centrali del fenomeno della globalizzazione; All’interno del confronto dialettico sul
tema della globalizzazione, diventa centrale quindi il confronto tra scale anche enfatizzando , la possibilità di auto
sostentamento e il connubio tra le varie scale6, che non sempre però costituisce processo utile a risolvere i contrasti e
strategia vincente. In risposa a questa problematica, superando la sua originaria definizione in termini spaziali, la
dicotomia Nord/Sud del mondo comincia ad essere letta in una prospettiva differente, più attenta alla multiscalarità
del fenomeno, espressa dai concetti di Sud Globale e Nord Globale; come espresso anche da Rossi “nello scenario
della globalizzazione e dell’estensione della contesa per l’egemonia nell’economia mondiale a nuovi paesi e nuove
forze economiche e sociali, si fa sempre più labile la distinzione tra Sud e Nord del mondo, tra mondo avanzato e
mondo “arretrato”. I processi di innovazione economica, territoriale, organizzativa possono verificarsi parimenti nei
paesi del Nord come in quelli del Sud del mondo. D’altro canto, appare inutile ricercare le disuguaglianze e i “ritardi”
soltanto nelle periferie geografiche del pianeta, in quanto sono ben presenti anche negli spazi centrali del capitalismo
globale. Di qui l’importanza delle immagini del “Sud globale” e del “Nord globale” nei discorsi contemporanei sulle
geografie della globalizzazione.” La necessità di ripensare il Nord ed il Sud in una prospettiva più dinamica ed in una
scala differente, porta anche alla discussione circa degli elementi centrali del dibattito geografico come il centro-
periferia; tale classificazione, deve essere quindi riletta alla luce della multipolarità dei sistemi economici e sociali, alla
impossibilità di definire un centro unico e stabile, ed alla necessità di individuarle le differenti centralità in base alla
scala di analisi e alle grandezze in esame. Questo ripensamento del modello centro-periferia, porta, tra l’altro, anche
all’affermarsi di studi circa la cosiddetta New Economic Geography (Krugman); in particolar modo Krugman
ripropone, , la teoria centro-periferia, indicando, in particolar modo, che due territori potrebbero endogeneamente
diventare differenziati in un “core”industrializzato e una “periperhy” agricola; questo articolo, che costituisce un
momento centrale anche per lo studio dell’economia regionale, non altera quindi l’idea di centro-periferia ma ne dà
una visione molto differente e, in particolar modo, richiama fortemente il ruolo delle spinte endogene.
Approcci critici allo sviluppo e post-sviluppo La cosiddetta geografia critica costituisce un approccio che si origina
soprattutto in ambito anglosassone che sposta lo studio della geografia verso una prospettiva differente da quella
tradizionale. L’approccio critico presuppone e si basa infatti su un superamento dell’approccio meramente descrittivo.
Attraverso tale approccio, quindi, si espandono le categorie geografiche anche ad altri aspetti, Allo stesso tempo si
ampliano le fonti; La geopolitica critica, , è una “rilettura post-strutturalista della geopolitica” che muove
principalmente dalla “decostruzione degli assunti di base” e dal rifiuto di accettare l’idea di “realtà evidente”15
all’interno delle narrative e dei discorsi dominanti. l’ approccio critico alla geopolitica evolve in una prospettiva post-
strutturalista e mira a “sovvertire le pratiche discorsive della politica convenzionale, ponendo in evidenza tutti i silenzi
e tutte le costruzioni culturali che vengono di solito date per scontate e sui quali quelle pratiche si basano” La
geografia, in tale prospettiva ha quindi una connotazione performantiva. I luoghi, gli spazi, non sono quindi definibili
aprioristicamente e presenti nella “realtà”, ma sono il portato di pratiche discorsive, di una sequenza di immaginari di
varia natura, che genera la loro creazione e maturazione nel lessico comune e nel comune sentire; ; il prefisso “post”
rimanda agli approcci postmoderni e post-strutturalisti già ampiamente diffusi, ad ambiti artistici ed architettonici e
poi derivato in molte delle scienze sociali. Gli approcci critici, quindi, pongono al centro del dibattito il concetto stesso
di sviluppo evidenziandone alcuni aspetti quali la centralità degli elementi culturali occidentali, degli aspetti economici
ma anche la presenza e gli effetti delle dinamiche assistenzialiste che da sempre erano state associate allo sviluppo e,
non ultimo, il ruolo che hanno avuto gli attori locali (soprattutto governi). Il principale elemento di critica mossa da
parte di alcuni autori, enfatizza e si centra sul concetto stesso di sviluppo e della su natura discorsiva.
Lo sviluppo nella visione di Sachs Gli ultimi cinquant’anni possono essere definiti l'era dello sviluppo, ma questo
periodo sta per finire. . Esattamente come un faro che guida i marinai verso la costa, lo «sviluppo» è stata /"idea che
ha orientato le nazioni emergenti nel loro viaggio attraverso la storia del dopoguerra. I paesi del Sud, , hanno posto lo
sviluppo in cima alle loro aspirazioni, Il faro dello sviluppo è stato innalzato subito dopo la seconda guerra mondiale.
Dopo il crollo delle potenze coloniali europee, gli Stati Uniti si sono trovati tra le mani la possibilità di dare dimensioni
planetarie alla missione che i loro padri fondatori gli avevano lasciato in eredità, ». Lanciarono così l'idea di sviluppo
appellandosi a tutte le nazioni perché seguissero le loro orme. Da allora è questo lo stampo da cui escono fuori le
relazioni tra Nord e Sud: Oggi questo faro mostra le sue crepe e sta cominciando a crollare. Negli anni sono andate
accumulandosi pile e pile di rapporti tecnici che mostravano come lo sviluppo non funzionasse, mentre una montagna
di documenti politici andavano smascherando la sua iniquità. La nostra proposta è di chiamare «era dello sviluppo»
quel particolare periodo storico che ha inizio il 20 gennaio 1949 quando Harry S. Truman, per la prima volta, dichiarò
nel suo discorso inaugurale l'emisfero Sud «area sottosviluppata». In primo luogo, era una cosa del tutto naturale per
Truman che gli Stati Uniti, assieme alle altre nazioni industrializzate, si trovassero al vertice della scala evolutiva. Oggi,
questa premessa di superiorità è stata completamente e definitivamente spazzata via dalla crisi ecologica. Gli Stati
Uniti possono ancora sentirsi i primi nella corsa con gli altri paesi, ma è una corsa che conduce al baratro. Per più di un
secolo, la tecnologia ha assunto su di sé la promessa della redenzione della condizione umana dal sudore, dalla fatica
e dalle lacrime, ma oggi, questa promessa non fosse altro che un volo della fantasia è una sorta di segreto di
Pulcinella. Dopo tutto, nonostante in pochi riescano ancora a godere dei frutti dell’industrializzazione, consumiamo in
un anno ciò che la natura ha impiegato un milione di anni per accumulare. ; la terra viene scavata e sfregiata in
permanenza, mentre dal cielo vengono giù, come una pioggerella continua, sostanze dannose ed al cielo, a loro volta,
ne salgono altre. Se tutti i paesi seguissero «con successo» l’esempio di quelli industrializzati, occorrerebbero altri
cinque o sei pianeti da usare come miniere o come discariche per i rifiuti. E chiaro perciò che le nazioni avanzate non
rappresentano dei modelli, quanto piuttosto, alla fin fine, delle aberrazioni nel corso della storia. In secondo luogo,
Truman lanciò l’idea dello sviluppo per dare una visione rassicurante di un mondo dove naturalmente gli Stati Uniti
avevano il primo posto. La crescente influenza dell’Unione Sovietica, il primo paese che si era industrializzato al di
fuori del modello capitalista, lo costrinse a concepire una visione che attirasse la lealtà dei paesi decolonizzati nella
sua lotta contro il comunismo. Per oltre quarant’anni lo sviluppo ha rappresentato un’arma nella competizione tra
sistemi politici . Nel mondo policentrico, la categoria di «Terzo Mondo», una categoria inventata dai francesi agli inizi
degli anni Cinquanta per dare un nome al campo di battaglia che separava le due superpotenze, è destinata alla
rottamazione nei cantieri della storia. In terzo luogo, lo sviluppo ha mutato il volto della Terra, ma non nel modo in cui
si pensava. Il progetto di Truman appare ai nostri occhi uno strafalcione di proporzioni planetarie. Nel 1960 i paesi del
Nord erano venti volte più ricchi di quelli del Sud, mentre nel 1986 lo erano di quarantasei volte ? La maggior parte dei
paesi del Sud ha spinto l'acceleratore, ma il Nord li ha distanziati di gran lunga, e per una semplice ragione: in questo
genere di corsa, i paesi ricchi si muoveranno sempre più velocemente degli altri, perché si sono adattati ad un degrado
continuo di ciò che vanno proponendo, ossia la tecnologia più avanzata. In quarto luogo, sorge il sospetto che lo
sviluppo sia un'impresa concepita male sin dagli inizi, e invero non c'è da temere tanto che fallisca, quanto che invece
abbia successo. Un altro aspetto altamente presente negli approcci critici allo sviluppo e nella prospettiva
postsviluppo, tanto da poterne essere definito aspetto centrale, è che lo sviluppo stesso sia stata una “invenzione”
dell’occidente L’idea portante, è quindi che la dicotomia sviluppo/sottosviluppo sia il riflesso non già della
conclamazione di stati di fatto, quanto piuttosto un’invenzione del modello culturale dominante. La dichiarazione del
presidente Truman dal quale come evidenziato in precedenti parti del lavoro, discendono i vari approcci allo sviluppo,
costituisce quindi il momento in cui lo sviluppo stesso è stato inventato tempo all’interno di tali analisi, un ruolo
centrale viene assegnato alle geografie immaginarie riprese da Said ; le idee di sviluppo, non sono il frutto di
valutazioni e condizioni “oggettive” ma il riflesso della lettura che, da una prospettiva occidentale e “sviluppato”
veniva dato ai paesi che non condividevano modelli sociali e modalità di attività. . Come enfatizzato da Rist ”) ed a
seguire da numerosi autori che afferiscono all’approccio post-sviluppo, l’idea stesa di sviluppo promossa e proposta ai
paesi in via di sviluppo era intrisa di elementi occidentali. L’essere sottosviluppato, in molti casi, si declinava con il non
aderire a modelli produttivi, economici e culturali occidentali. All’interno del dibattito critico sullo sviluppo, viene
enfatizzato anche la prerogativa esclusivamente economicistica dello sviluppo stesso, che si declinava nella completa
supremazia delle variabili economiche su quelle social Come evidenziato anche in altre parti del lavoro, infatti, lo
sviluppo è stato lungamente definito e valutato in termini macroeconomici ed il raggiungimento (o il mancato
raggiungimento) di tali valori rappresentava la condizione necessaria dello sviluppo. Di mero stampo macroeconomico
erano anche gli strumenti utilizzabili per il perseguimento dello sviluppo. La critica allo sviluppo, tuttavia, non può
tuttavia essere semplicemente catalogata come critica al sistema produttivo occidentale . Le analisi svolte non hanno
infatti interessato solo l’egemonia dei paesi occidentali sui paesi in via di sviluppo, ma ha spesso stigmatizzato anche il
ruolo degli attori locali, in particolar modo dei governanti locali. Le élite di potere dei paesi in via di sviluppo sono
infatti in molti casi individuati come gli attori fondamentali del perdurare delle condizioni di difficoltà in cui versano le
popolazioni. Molti dei governanti di tali paesi, in particolar modo nel corso degli ani ’60, hanno infatti cavalcato lo
stato di sottosviluppo associato ai propri paesi per declinare le proprie responsabilità e, allo stesso tempo, mantenere
ed accrescere il proprio potere ed il proprio benessere personale. Lo stato di sottosviluppo, ed il diffondersi delle
teorie della dipendenza, hanno infatti permesso a molti uomini di potere, assurti a tale ruolo spesso a seguito del
processo di indipendenza/decolonizzazione, di perseguire una retorica vittimistica che imputava la nascita ed il
perdurare di oggettive condizioni di indigenza della popolazione (speranza di vita alla nascita molto bassa, elevata
mortalità infantile, scarsità alimentare, diffusione di malattie infettive ed endemiche, presenza di elevata conflittualità
Tra gli argomenti di critica alle politiche di sviluppo, molti autori sottolineano anche l’approccio assistenzialista messo
in atto da molti paesi sviluppati nei confronti dei paesi in via di sviluppo questo approccio “caritatevole” portava insito
un mantenimento di superiorità dei cittadini dei paesi sviluppati che, tramite questi interventi, si ponevano come
possibili (unici) risolutori delle popolazioni che erano in difficoltà. Questo tipo di approccio ha dato avvio e slancio, a
partire dagli anni ’70 all’emergere di numerose associazioni non governative che, su differenti scale, si interessavano
di sviluppo e dei problemi connessi allo sviluppo stesso. All’interno di questo ambito, accanto ad organizzazioni che si
occupano di progetti partecipati, sono presenti anche organizzazioni internazionali che veicolano un cospicuo flusso di
risorse e, in molti casi, costituiscono gli attori principali dello sviluppo, sostituendosi anche ad attori istituzionali.
Questo tipo di approccio, sulla cui bontà non sono sollevabili dubbi, può tuttavia innescare degli effetti perversi allo
sviluppo che, in modo del tutto involontario e inconsapevole, potrebbero aver ridotto le possibilità di sviluppo che
invece si impegnavano a promuovere. Questo tipo di interventi, in alcuni casi, potrebbe anche avere, fermo restando
le ottime intenzioni, degli effetti distorsivi sul sistema economico e sociale in cui sono inseriti. Tali interventi, per loro
natura, sono infatti necessariamente limitati temporalmente e spazialmente. La presenza di interventi localizzati,
quindi, genera dei fenomeni di elevata attrazione per l’intero territorio, generando flussi migratori verso tali regioni,
attratti solo dalla presenza di tali disponibilità. Allo stesso tempo, la politica degli aiuti, sia attraverso progetti specifici
che attraverso finanziamento esteso, produce il perdurare di dinamiche assistenzialiste che potrebbero ridurre la
nascita e l’incremento di percorsi endogeni ed autonomi di sviluppo. Oltre alla deresponasibilizzazione degli attori
locali, inoltre, il cospicuo intervento delle associazioni non governative potrebbe creare dei fenomeni di
deresponsabilizzazione e delega di competenze da parte dei soggetti istituzionali. uno dei filoni del postsviluppo, sono
quindi riconducibili i lavori che prendono spunto da Karl Polany e Marcel Mauss. Il lavoro di Polany, , enfatizza
principalmente le criticità del mercato e, conseguentemente, di quello che ne dovrebbe costituire l’attore principale e
quindi l’homo economicus. Il simbolismo del dono, di Marcel Mauss, è invece ripresa dalla scuola anti-utilitarista che
ha dato vita al M.A.U.S.S. (Mouvement Anti – Utilitariste dans les Scienze Social)35. Questi contributi si inseriscono
all’interno del dibattito sullo sviluppo, estendendosi all’intero contesto economico dominante, la centralità dell’ homo
economicus, . Tali approcci , si pongono quindi l’obiettivo di discutere non più le strategie da perseguire per una
crescita economica, ma piuttosto cercano di dare vita ad un nuovo paradigma economico, che superi le logiche e le
dinamiche proprie dell’approccio dominante. Di deciso impatto sull’opinione pubblica sono proprio i lavori di Latouche
sulla decrescita; , Latouche promuove l’idea e la necessità di modelli culturali prima che produttivi differenti; secondo
Latouche è quindi necessario “concepire e volere una società in cui i valori economici cessano di essere centrali (o
unici), in cui l’economia viene rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo”37.
Il modello della decrescita non va confusa con la crescita negativa dei parametri economici (e tra questi il PIL) ma
come un modello alternativo, basato su parametri, grandezze differenti. fino ad ipotizzare l’idea di una cultura basata
sul sistema economico. . Secondo Latouche, quindi, sarebbe necessario ripensare l’intero sistema culturale e di
priorità, ridefinendo i bisogni e modificando i processi produttivi e di distribuzione

La misura dello sviluppo ed alcuni tra i principali indici utilizzati All’interno di un’analisi sull’evoluzione del concetto
di sviluppo e sulle sue molteplici interpretazioni, un ruolo centrale viene svolto dall’aspetto quantitativo. In base ai
differenti parametri che possono essere utilizzati, infatti, i vari paesi, ed i vari territori potrebbero essere/non essere
ricompresi all’interno dei “paesi in via di sviluppo” o, più in generale, essere individuati quali sviluppati o non
sviluppati. Questa appartenenza/non appartenenza genera degli effetti pratici, come l’inserimento all’interno di
politiche e di interventi di sviluppo, ma anche una differente percezione del differente grado di sviluppo dei vari
territori è quindi possibile individuare non solamente se un paese sia o meno sviluppato, ma anche che un certo stato
(o territorio) sia più sviluppato di un altro. Una fase molto delicata dell’utilizzo degli indici di sviluppo è la loro
selezione ed individuazione E’, quindi, necessario evidenziare come definire in assoluto un indice per lo sviluppo e,
ancor più, come la sola valutazione numerica del fenomeno, con associazione di valori a territori, non possa essere
sufficiente a descrivere lo stato di sviluppo/sottosviluppo di un territorio e possa portare a risultanze speso fuorvianti.
Lo sviluppo, infatti, non solo è un aspetto complesso non riconducibile ad un unico ambito, quanto piuttosto basato
proprio sulla presenza congiunta di numerosi elementi,
Il Prodotto Interno Lordo e Prodotto nazionale lordo Il primo, e principale indice di sviluppo, è stato il Prodotto
Interno Lordo (PIL). Questo metodo contabile, ideato nel secondo dopoguerra, si pone l’obiettivo di dare una misura
sintetica delle grandezze prodotte dal sistema economico nel corso di un anno. La misurazione del PIL o PNL, che
caratterizza la contabilità nazionale, comincia a divenire pratica diffusa, dopo alcuni tentativi di natura accademica e
privata degli inizi del 1900, a partire dalla seconda guerra mondiale, assurgendo in breve tempo al ruolo di principale
misura delle dinamiche economiche di un paese. Il Prodotto Intero Lordo, rappresenta l’aggregato in un dato periodo
(solitamente un anno) del risultato finale delle attività di produzione residenti in un paese; il Prodotto Nazionale
Lordo, invece, esprime i risultati economici conseguiti dai fattori produttivi residenti in un paese. A differenziare i due
aggregati, quindi, è la differente valutazione delle attività svolte da persone fuori dal proprio contesto territoriale di
residenza. Mentre nel PIL, ad esempio, sono calcolate le attività svolte da cittadini non residenti in Italia ma che si
sono realizzate in Italia, nel calcolo del PNL tali attività non vengono conteggiate; viceversa fanno parte del PNL, ma
non del PIL, le attività di soggetti residenti in Italia anche se non esercitate sul territorio nazionale. Nel corso del
tempo, tuttavia, questo tipo di contabilizzazione ha evidenziato delle difficoltà sia di calcolo che di valenza come
rappresentazione sintetica del sistema economico La prima limitazione del PIL, in termini di rappresentatività, è la sua
possibilità di incamerare nel conteggio le economie informali ed illegali. Nel calcolo del PIL, infatti, è possibile tenere in
considerazione tutte quelle attività che vengano contabilizzate e, quindi, svolte previa corresponsione di salario e che
transitino per un meccanismo di mercato. Le attività svolte autonomamente e/o a titolo gratuito, come anche quelle
svolte illegalmente, vengono quindi escluse da tale conteggio. Valutare l’incidenza di queste componenti all’interno
del sistema economico è, per loro stessa natura, complesso ed ottenibile solo attraverso stime Se, , il calcolo del PIL
sottostima le reali condizioni economiche, la diversa incidenza delle componenti non monetizzate e non contabilizzate
nei diversi sistemi economici porta a sottostimare maggiormente i sistemi economici meno sviluppati. , più complessa
risulta essere l’analisi delle componenti che, secondo gli ordinamenti, sono da considerarsi illegali. Queste, infatti, non
solo non fanno parte del PIL e, quindi, portano alla sua sottostima ma, ad esempio la presenza di lavoro nero,
corruzione nonché di un elevato volume di traffici illegali, costituiscono, come evidenziato anche da Sen, uno degli
aspetti principali del sottosviluppo. Il PIL costituisce una valutazione contabile ed analitica, che, necessariamente, non
può tenere conto della natura delle grandezze economiche prese in considerazione. Attività inquinanti, deleterie per
la salute ed il vivere civile e comune, costituiscono quindi delle attività incluse nel calcolo del PIL analogamente ad
altre attività quali l’istruzione o la cura della salute; come ricorda lo stesso Memoli, inoltre, questo può produrre dei
paradossi come la contestuale contabilizzazione all’interno del PIL, sia di un’attività inquinante (o in generale deleteria
per la salute) che dei rimedi messi in atto per ridurne gli effetti sulla popolazione. Un aspetto emblematico della
tematica, e particolarmente importante all’interno dei paesi in via di sviluppo, è dato dalle spese per gli armamenti e,
in generale, le spese militari. Queste spese costituiscono (ed a lungo hanno costituito) una delle maggiori voci presenti
all’interno del PIL di molti paesi in particolar modo in via di sviluppo e, proprio la ingente spesa in armamenti, spesso
utilizzati solo per conflitti interni tra differenti gruppi di potere, è spesso considerato, come si vedrà successivamente,
una delle possibili e principali cause antropiche al sottosviluppo. Queste spese, tuttavia, per una sorta di paradosso,
contribuiscono a sovrastimare la ricchezza e, lo sviluppo di tali paes
Dal PIL pro capite alla curva di Lorentz e l’indice di Gini La prima variazione nel calcolo del PIL, per tenere conto della
dimensione del paese e della popolazione, è stata il PIL pro capite. Questo indice, ottenuto rapportando il PIL
complessivo al numero di abitanti residenti, offre una stima media del PIL teoricamente associabile ad ogni cittadino.
L’utilizzo di questo indice nasce dalla esigenza di confrontare degli universi differenti, come ad esempio due stati con
una popolazione molto differente tra loro. Analogamente a tutte le grandezze medie, però, il PIL pro capite perde di
significatività in presenza di universi non omogenei al loro interno. L’utilizzo del solo PIL, o del PIL pro capite, venne
messo in discussione, , a partire dalla metà degli anni ’70. Le evidenze che provenivano, soprattutto da molti paesi
produttori di petrolio, mostravano come il PIL pro capite fosse del tutto inadatto a spiegare delle situazioni complesse
nelle quali la distribuzione del reddito tra le varie persone componenti la popolazione fosse molto elevata. Allo stesso
tempo, l’emergere di decise situazioni di povertà urbana e di bidonvilles in molti paesi emergenti rafforza l’evidenza
che il PIL non possa essere inteso come un indice effettivamente significativo in presenza di aggregati molto
eterogenei e in valutazione ad una scala come quella nazionale. , la presenza pressoché contemporanea di fenomeni
di elevata disparità del reddito e delle disponibilità, che nel caso urbano manifestano forse l’aspetto più visibile , non
costituisce più una prerogativa esclusiva dei paesi in via di sviluppo. la presenza di queste disparita porta alla
maggiore attrattività delle zone urbane con incremento dei fenomeni di povertà urbane. La condivisione degli spazi, la
prossimità spaziale tra persone con condizioni di vita altamente differenti da origine anche ad una differente (
percezione della marginalità di chi, pur condividendone spazi, non ha medesimo accesso a determinate possibilità
Negli anni 70 si iniziano a evidenziare problemi di concentrazione, i paesi poroduttori di petrolio avevano un PIL
elevatissimo ma una ricchezza molto concentrta che quindi andava a ricadere su poche persone e quindi vengono
fuori gli indici di concentrazione e distribuzione(già presenti prima ma che diventano importanti in tale periodo) Dal
punto di vista analitico e statistico, la distribuzione può essere studiata e misurata attraverso la curva di Lorenz e
l’indice di Gini. Questi indici statistici permettono di misurare il grado di equidistribuzione di un carattere quantitativo
trasferibile all’interno di un collettivo. La Curva (o diagramma di Lorenz) è una rappresentazione grafica che evidenzia
la differenza tra la distribuzione teorica di un fenomeno (A), basato sulla equidistribuzione del fenomeno tra i membri
della collettività, e la sua distribuzione reale (B). L’area compresa tra le due curve (area di concentrazione), misura
quindi il grado di sperequazione del fenomeno e può essere uguale a 0 (fenomeno perfettamente equidistribuito e
curve coincidenti) fino ad un massimo individuato dall’area del triangolo definito dalla curva teoria (A); in questo caso,
quindi, si è in presenza di una totale concentrazione del reddito in una sola famiglia (persona). L’indice di Gini, invece,
costituisce uno strumento di calcolo della distribuzione di un carattere quantitativo trasferibile e si basa su un
confronto tra le frequenze cumulate di una grandezza e l’equivalente teorico in presenza di un’equidistribuzione. Tale
indice, può variare tra 0 (fenomeno completamente equidistribuito) e 1 in caso di massima concentrazione.
Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statisticoitaliano Corrado Gini], è una misura della diseguaglianza di una
distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione
del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una
distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la
situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una
distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove
una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo.
Le soglie di povertà: il dollaro al giorno come misura del sottosviluppo Le grandezze finora esaminate sono delle
grandezze di carattere collettivo e/o medio . Per valutare questo fenomeno, i principali attori internazionali iniziarono
a predisporre una misura delle persone che, per stato, vive al di sotto di un certo reddito, fissato attualmente a due
livelli (1,25 e 2,00 dollari per parità di potere d’acquisto – su base 2005 – al giorno). Questa soglia, teoricamente,
individua quindi il numero di persone che all’interno di un paese non gode delle disponibilità economiche sufficienti al
soddisfacimento di bisogni primari. Questo indice porta tuttavia con se molti dei limiti analitici ) di tenere conto delle
dinamiche non monetarie, particolarmente diffuse soprattutto in questa parte della popolazione.
Dal PIL all’Indice di Sviluppo Umano (ISU) Gli indici di sviluppo, , sono rappresentativi e sintomatici dell’idea di
sviluppo principale. Gli indicatori ed indici esaminati finora , fanno emergere l’assoluta preponderanza dell’aspetto
economico (monetario) dello sviluppo. , per alcuni decenni l’idea di sviluppo era, tacitamente o palesemente,
accomunata alla disponibilità monetaria. , gli anni ’90 portano ad una concezione dello sviluppo più esteso, che
travalicasse il solo aspetto economico ma sia comprensivo anche di aspetti sociali e sanitari. Questo mutato approccio
allo sviluppo porta con sé ed è sostenuto dall’utilizzo dell’Indice di Sviluppo Umano (ISU) o Human Development
Index (HDI) Questo indice, creato nei primi anni ’90, ha cominciato ad essere utilizzato nel 1993 dall’UNDP (United
Nations Develoment Programme), diventando in breve tempo uno dei principali indici di misura dello sviluppo stesso.
L’indice di sviluppo umano costituisce una sintesi di tre aspetti considerati essenziali per definire uno sviluppo
complessivo ed è “frutto dell’esigenza di sintetizzare attraverso quantità quelle che in realtà sono qualità dello
sviluppo” Nel calcolo dell’ISU, infatti, vengono sintetizzati aspetti che attengono la disponibilità monetaria (tramite il
PIL reale pro capite), l’istruzione (attraverso una sintesi di alfabetizzatone degli adulti e livello di scolarizzazione) e le
condizioni sanitarie e di vita (con la speranza di vita alla nascita). Questi indici sintetici vengono quindi ad essere
aggregati in un indice complesso attraverso una media aritmetica dei tre indici stessi. La speranza di vita alla nascita
Attraverso tale misura, è quindi possibile dare una stima aggregata di molteplici aspetti della vita umana poiché esso
è, inevitabilmente, il riflesso delle condizioni di salute e della possibilità di cure, dell’alimentazione, della presenza di
cause di mortalità quali guerre o eventi naturali. Il tasso di alfabetizzazione, misurato nel calcolo dell’ISU sia come
livello di istruzione di base (tasso di iscrizione lorda) che come indice di alfabetizzazione degli adulti, rappresenta il
livello di scolarizzazione della popolazione adulta nonché una misura delle possibilità di crescita di istruzione della
popolazione. L’importanza del livello di istruzione , solo nel corso degli anni ’70, tuttavia, è assurto a elemento
fondamentale ed autonomo dello sviluppo. ”. A partire dagli anni ’60, invece, accanto alla necessità di condizioni
infrastrutturali, venne enfatizzata l’importanza del capitale umano nella crescita; la presenza di lavoratori istruiti (e
sani) costituisce un elemento essenziale al funzionamento delle attività produttive. Richiamando l’idea già evidenziata
da Schumpeter (1934), sul ruolo dell’innovazione, l’attenzione venne spostata dall’aspetto quantitativo del lavoro alla
sua valenza qualitativa; per garantire una crescita economica. Nel corso degli anni ’80, , il capitale umano passava da
ruolo accessorio alla crescita ma diventava esso stesso un modo per stimolare l’innovazione e, conseguentemente, la
crescita. L’importanza del capitale umano, ricordano ancora i due autori, è da riferirsi anche ai lavori di Lucas, grazie ai
quali veniva messo in evidenza come i differenziali di sviluppo tra paesi fossero riconducibili non solo alla differente
dotazione di capitale ma anche, e soprattutto, al differente livello di formazione umana. Il capitale umano, dovrebbe
essere molto più flessibile e trasferibile di quello infrastrutturale e può quindi creare importanti elementi di esternalità
positiva sul sistema economico.Proprio la presenza di questi elementi umani, sono alla base anche della nascita delle
dinamiche distrettuali che, a partire dagli anni ’90, vennero riscoperti come modalità di sviluppo. quindi, l’istruzione
viene inserita, all’interno di un unico indice , la necessità di fare riferimento a tre grandezze conferma, che tra di esse
non necessariamente deve essere presente una correlazione. Qualora, infatti, fosse possibile ipotizzare e verificare
una sostanziale correlazione tra alcune delle tre variabili, l’indice perderebbe necessariamente la sua valenza e la sua
rappresentatività dal punto di vista statistico. quindi, l’utilizzo di tutte e tre le variabili presuppone e rafforza l’idea
che questi aspetti siano tra loro indipendenti e, rompendo quindi con le precedenti formulazioni si evidenzia come
non necessariamente la presenza di un elevato reddito generi necessariamente una maggiore speranza di vita alla
nascita e/o un maggiore livello di istruzione. Come tutti gli indici sintetici, tuttavia, anche l’Indice di Sviluppo Umano,
presenta le sue limitazioni. infatti, le grandezze considerate sono medie per collettivi molto numerosi e differenziati al
loro interno. Una valutazione su scala nazionale, quindi, potrebbe non evidenziare le distorsioni interne che, invece,
potrebbero essere analizzate attraverso applicazioni dell’indice stesso su comunità più ridotte . Allo stesso tempo,
essendo l’indice sintetico di variabili tra loro differenti la sua lettura assoluta potrebbe essere influenzata dalla
preponderanza di una delle componenti che nasconderebbe l’assenza delle altre componenti. . Sulla scia dell’ISU si
sono sviluppati una moltitudine di indicatori si possono evidenziare gli Indici di Povertà Umana (IPU -1 ed IPU – 2)
nonché indici tematici quali, ad esempio, quelli relativi al genere: Indice di Sviluppo di Genere (ISG) e la Misura
dell’Empowerment di Genere (MEG). Indice di Povertà Umana per i paesi in via di sviluppo (IPU - I) – Questo indice
riprende l’approccio concettuale dell’indice di sviluppo umano ma, per i tre ambiti di analisi utilizza indicatori
differenti. Nello specifico vengono tenuti in considerazione: _ la probabilità di non superare i 40 anni di età (per
misurare la possibilità di sopravvivenza) _ il tasso di analfabetismo degli adulti (per misurare il livello di istruzione) _
un indice sintetico di percentuale della popolazione che non usa fonti idriche migliorate e della percentuale di bambini
sottopeso rispetto all’età Indice di Povertà Umana per i paesi sviluppati (IPU - I) – nel calcolo di questo indice vengono
utilizzati: _ la probabilità di non superare i 60 anni di età (per misurare la possibilità di sopravvivenza) _ un indice
sintetico di percentuale di adulti privi di abilità funzionali di lettura e scrittura e di percentuale di persone che vivono
al di sotto della soglia di povertà _ tasso di disoccupazione di lungo periodo Indice di sviluppo di genere: indice che
tiene in considerazione in maniera distinta aspetti di genere; nella costruzione in vari indicatori vengono prima
calcolati differenziandoli per genere, successivamente, viene utilizzata per il calcolo dell’indice finale. Gli indici
semplici utilizzati ISG è centrato sulla partecipazione femminile all’interno delle attività del paese e si costituisce sulla
integrazione di: _ Quote femminili e maschili di seggi parlamentari _ Una sintesi di quote femminili e maschili nelle
professioni di legislatori, alti funzionari e dirigenti e di quote femminili e maschili tra i professionisti e i tecnici _
Reddito da lavoro stimato femminile e maschile sono: _ Aspettativa di vita alla nascita (di uomini e donne) _ Un indice
che tiene conto del tasso di alfabetizzazione (di uomini e donne) e tasso complessivo di scolarità lordo _ Reddito da
lavoro stimato La misura di Empowerment di Genere (MEG)
Le dinamiche della popolazione e le relazioni con lo sviluppo La distribuzione della popolazione, è oggetto di studio
di specifici ambiti scientifici, quali la demografia, ed è ampiamente analizzata e studiata attraverso specifici indici e
modelli. Tramite l’utilizzo di tali indici è quindi possibile pervenire a delle informazioni relative alle dinamiche
quantitative della popolazione che sono alla base di successive analisi di tipo qualitativo. Attraverso degli specifici
modelli, quali ad esempio quello di transizione demografica o la piramide delle età, è infatti possibile avere indicazioni
circa il riflesso delle condizioni sociali, sanitarie, alimentari di un determinato territorio
Le dinamiche demografiche, i principali indici di misura e le differenti distribuzioni della popolazione Lo studio della
popolazione ha , catalizzato molte ricerche curiosità essendo la conoscenza della propria numerosità e della propria
distribuzione alla base di ogni valutazione anche di carattere politico, economico e sociale. Il tema, divenne centrale
nel dibattito internazionale a partire dalla fine del 1800, quando, anche grazie al lavoro di T.R. Malthus, . Secondo lo
studioso inglese, poiché le risorse disponibili crescevano seguendo una progressione aritmetica mentre la popolazione
cresceva con una progressione geometrica (molto più rapida di quella aritmetica), in breve tempo non ci sarebbero
potute essere risorse disponibili per l’intera popolazione. La crescita di domanda avrebbe inoltre portato alla necessità
di utilizzare dei terreni meno fertili e con delle rese minori, Il lavoro di Malthus che ha contribuito decisamente ad
inserire, all’interno del dibattito non solo scientifico, la limitatezza delle risorse e la necessità d valutare la crescita
della popolazione come fattore determinante. . Il contesto di osservazione di Malthus era rappresentato
principalmente dall’Inghilterra di fine XVIII sec., un territorio che stava vivendo la sua prima rivoluzione industriale
L’incremento della popolazione con ritmi mai raggiunti in precedenza, sulla quale non è possibile avere dei dati
numerici certi, era una caratteristica comune, in quella fase storica, a tutta l’Europa, tanto che, come ricorda Ricciarda
Simoncelli “si stima che l’Europa contasse nel 1600 appena 95 milioni La rivoluzione industriale, in termini
demografici, costituisce quindi un momento centrale per le dinamiche mondiali, essendo l’inizio di un periodo di
crescita complessivo che non si è ancora arrestato.
Come evidenziato dal grafico in cui viene tracciata una evoluzione tendenziale della popolazione mondiale, i due
eventi che maggiormente hanno inciso sulla dinamica della popolazione sono stati proprio l’introduzione
dell’agricoltura, e la rivoluzione industriale.è importante evidenziare la rapidità della crescita della popolazione nel
periodo industriale. Di particolare interesse, inoltre, è l’andamento della popolazione nel corso degli anni recenti,
infatti, la popolazione mondiale sta crescendo con dei tassi molto elevati anche negli anni che si stanno vivendo.un
aspetto di particolare interesse è la distribuzione spaziale del fenomenoè ipotizzabile che in passato la popolazione
mondiale fosse cresciuta con una maggiore sincronia. Analizzando l’incremento della popolazione totale (rapportando
la popolazione dell’anno 2010 a quella del 1950) è infatti possibile evidenziare come questo fenomeno non sia affatto
omogeneo. risulta evidente come la crescita demografica complessiva sia stata trainata, in maniera significativa, da
gran parte dei paesi africani, dell’America Meridionale e dell’Asia (in particolar modo sud-orientale). In molti di questi
paesi, infatti, la popolazione residente si è, nel corso del periodo esaminato, addirittura triplicata. A fronte di questa
crescita decisa, la popolazione dei paesi di prima industrializzazionesia cresciuta in maniera molto limitata, spinta, dai
flussi migratori in ingresso.
La popolazione presente in un territorio in un dato periodo è influenzata sia da fattori naturali (natalità e mortalità)
che da fattori antropici connessi al movimento della popolazione stessa. Se si ipotizza la popolazione in un dato
periodo (es. un certo anno) P0, la popolazione presente il periodo successivo P1 è individuabile come: P1 = P0 + (N-M)
+ (I-E) Dove: N = nati nel periodo in esame M = morti nel periodo I = Immigrati E = emigrati Per ogni popolazione è
quindi possibile determinare la variazione naturale (N-M) e il saldo migratorio (I-E). A differenza del periodo 1950-
1955, caratterizzato da una diversificata ma diffusa presenza di tassi di crescita positivi, il periodo 2005-2010 mostra la
presenza di profonde differenze tra i vari stati. A fronte di un elevato numero di paesi nei quali la popolazione
residente ha, un andamento positivo, è presente un cospicuo numero di paesi in cui lo stesso tasso assume valori
negativi per i quali l’aumento (in termini assoluti) di popolazione è sostenuto solo dai flussi migratori in entrata.
Accanto agli indici finora analizzati, l’andamento della popolazione può essere letto anche attraverso numerosi
modelli, tra i quali, il principale, è costituito dal modello di transizione demografica.
Il modello di Transizione Demografica si basa sul confronto tra il tasso di natalità (nati vivi su 1000 abitanti) e il tasso di
mortalità (morti su 1000 abitanti) ed individua, in base alle loro relazioni, tre principali fasi, denominate regimi. _ Il
regime antico si caratterizza per un elevato livello di entrambi i tassi che, in termini assoluti, genera una variazione
minima della popolazione assoluta.è lo stadio che precede il periodo di Transizione stesso. È caratterizzato da tassi di
mortalità molto elevati (40/50 ‰), che non sono solo legati a specifiche situazioni avverse (guerre,carestie, epidemie),
ma soprattutto a problemi più strutturali(malnutrizione, mancanza di igiene, di assistenza medica, ecc).Nelle società
tradizionali il tasso di natalità è molto elevato, come conseguenza della mortalità infantile, per garantire la
sopravvivenza di una soddisfacente quantità di discendenti, visti più come braccia utili al lavoro, che come figli. Poiché
entrambi i tassi di natalità e di mortalità sono elevati, la crescita della popolazione totale è molto bassa o pari allo
zero.
_ Il regime di transizione, divisibile in due fasi, nel quale il tasso di mortalità decresce rapidamente mentre il tasso di
natalità permane elevato (in una prima fase) per poi decrescere con un ritmo più lento di quello del tasso di mortalità;
in termini assoluti, quindi, questa fase genera una crescita decisa della popolazione. Stadio di transizione:
-Prima fase :Migliorano le condizioni di vita (miglioramento delle tecniche agricole, progresso della medicina,
alfabetizzazione,vaccini, migliori condizioni igienico sanitarie) perciò la mortalità sia abbassa e la durata della vita
aumenta. Allo stesso tempo la natalità resta alta. Il risultato è un forte incremento demografico. L'Europa visse questa
fase nel XIX secolo, quando dai 146 milioni di abitanti del 1800 passò ai 295 milioni del 1900. I paesi dell'Asia
occidentale dell'Africa subsahariana e parte di quelli dell'America latina la stanno attraversando oggi.
-Seconda fase: Il tasso di mortalità continua a diminuire ma diminuisce anche la natalità(circa 2%annuo), a causa delle
variazione della situazione sociale (maggior costo per l’educazione dei figli, diffusione dei metodi contraccettivi,
inserimento della donna nel mercato del lavoro che causa il ritardo delle nascite) Si ha così, un RALLENTAMENTO
della crescita demografica L'Europa attraversò e superò questa fase intorno agli anni Sessanta del Novecento, l'India e
la Cina si trovano oggi in questa situazione, alcuni PAESI LATINO-AMERICANI, del SUD-EST ASIATICO e tutti quelli del,
MAGHREB.
_ Il regime moderno si caratterizza per un basso livello di entrambi i tassi e quindi di una sostanziale stabilità della
popolazione presente. Nel terzo, mortalità e natalità proseguono nella decrescita: il tasso di fecondità scende sotto la
soglia dei 2 figli per coppia; il tasso di crescita della popolazione si aggira tra lo 0,5 e l'1,5%. Quasi tutti i paesi
sviluppati dell'Europa, del Nord America, dell'Asia orientale (Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan), Australia,
Russia stanno attraversando oggi questa fase.
è possibile evidenziare come molti stati stiano attualmente vivendo la fase evoluta del regime moderno; in molti di
essi, come ad esempio il caso italiano, il tasso di mortalità è maggiore di quello di natalità e, di conseguenza, si è in
presenza di una riduzione della popolazione . Molti dei paesi comunemente definiti quali in via di sviluppo, invece,
sono attualmente all’interno della fase di transizione e, mediamente, sono caratterizzati da un decremento del tasso
di natalità non ancora completamente bilanciato da un’analoga riduzione del tasso di mortalità; la presenza di queste
discrepanze tra i due tassi porta quindi alla crescita della popolazione La mortalità, sia infantile che in età adulta, può
essere limitata dalla presenza di una maggiore disponibilità e qualità alimentare, dalla presenza di cure mediche,
dall’assenza di conflitti ma anche dal miglioramento delle condizioni di lavoro della popolazione e dalla assenza di
conflitti. A contribuire alla riduzione della tasso di natalità, invece, sono principalmente dei fattori di natura culturale e
sociale. La sintesi di questi elementi, evidenzia come nel regime antico la presenza di un’elevata natalità si associ
all’elevata mortalità. Nella prima fase della transizione, invece, il tasso di mortalità inizia a decrescere anche
rapidamente grazie, soprattutto, al miglioramento dell’alimentazione e delle cure sanitarie; questa fase, , è ancor più
evidente attualmente in territori nei quali l’intervento di attori internazionali, esogeni al sistema, attraverso politiche
sanitarie e nutrizionali, porta ad un rapidissimo miglioramento delle condizioni di vita e, quindi, riduzione del tasso di
mortalità. Viceversa, data la sua naturastrutturale e culturale, il tasso di natalità non risente nel breve periodo di
spinte esogene e, in ogni caso, si riduce molto più lentamente. Un ulteriore schema centrale nello studio della
popolazione è la piramide delle età. La piramide delle età si concretizza in una rappresentazione delle popolazioni,
strutturate per anni ) divisi in base al genere. Attraverso la piramide delle età, quindi, è possibile effettuare una
descrizione sintetica ed intuitiva della struttura delle popolazioni. All’interno delle tipologie di piramidi dell’età, è
possibile definire tre strutture tipiche: _ Triangolare: caratterizzata dalla elevata presenza di persone con età bassa
rispetto alla popolazione e dalla scarsità di persone di età elevata. Questo tipo di struttura è tipico delle società
giovani, caratterizzate dalla elevata natalità ma, al contempo, dalla presenza di numerosi elementi di mortalità che
portano ad un basso numero di persone che raggiungono l’anzianità _ A campana: caratterizzata dalla preponderanza
di persone nelle fasce centrali (età adulte). Questa struttura è spesso rappresentativa di territori in un periodo di
transizione, solitamente connesso con l’industrializzazione, che genera una riduzione della mortalità in età infantile e
adulta e, allo stesso tempo, una lieve riduzione delle nascite _ A botte: caratterizzata da un restringimento della parte
bassa (bassa natalità) a fronte di una crescita delle persone in età adulta e di anziani. Questa struttura è tipica delle
società demograficamente mature in cui il processo di transizione è completato, le condizioni alimentari e sanitarie
permettono un allungamento della vita media e, allo stesso tempo, è presente un ridotto numero di nascite. La
piramide delle età,, può essere letta sia in termini spaziali, che in termini temporali, La piramide delle età e il modello
di transizione demografica vengono spesso associati anche al grado di sviluppo di un territorio. Tendenzialmente,
quindi, il regime antico e di transizione e, analogamente, una struttura a campana della piramide delle età vengono
associate ai paesi in via di sviluppo mentre i paesi sviluppati si trovano all’interno del regime moderno e , hanno una
piramide per le età a campana o a botte.. Il miglioramento delle condizioni sanitarie e di alimentazione, , contribuisce
alla riduzione del tasso di mortalità, dando l’avvio al processo di transizione demografica Allo stesso tempo, gli stili di
vita e le strutture familiari e sociali dei paesi attualmente industrializzati generano la riduzione della natalità
Altri indici importanti nello studio della popolazione sono quelli volti a fornire delle informazioni circa la struttura
interna della popolazione. In particolar modo possono essere presi in esame l’indice di vecchiaia e di dipendenza, sia
aggregato che diviso in giovanile e di anzianità. L’indice di vecchiaia è ottenuto rapportando la popolazione di età
superiore ai 65 anni con la popolazione inferiore i 14 anni. Esso misura l’incidenza della popolazione in età avanzata in
relazione alla popolazione giovane. Questo indice, misurato in termini percentuali, assume valori inferiori a 100 nel
caso di popolazioni giovani, caratterizzati quindi da una maggiore incidenza di persone al di sotto di 14 anni mentre,
viceversa, assume valori maggiori nel caso di maggiore anzianità della popolazione. La presenza di un elevato grado di
anzianità della popolazione, indica evidentemente come la popolazione residente sarà, destinata ad una fisiologica
riduzione, All’indicatore di vecchiaia può essere direttamente collegato l’indice di dipendenza teorico. Questo
indicatore, calcolato rapportando alla popolazione in età lavorativa (tra i 14 ed i 65 anni10), alla popolazione non in
età lavorativa, offre una, immagine del “peso” delle fasce non attive sulla popolazione lavorativa. valori inferiori a
100 indicano quindi una maggiore presenza di potenziali lavoratori rispetto a persone considerate in età non
lavorativa mentre valori superiori sono indicativi di una maggiore incidenza, di persone considerate fuori dall’età
lavorativa. L’obiettivo di questo indice è la valutazione della presenza, di persone in età lavorativa che costituiscono, ,
la base , è tuttavia molto sensibile ai flussi migratori, in particolar modo in uscita. , infatti, all’interno di una
popolazione sono proprio le persone in età lavorativa quelle che maggiormente emigrano, con delle profonde
ripercussioni in termini di possibilità di crescita del territorio; L’indice di dipendenza teorico può essere scisso, al suo
interno, in due componenti “dipendenti”. E’ quindi possibile definire l’indice di dipendenza teorico giovanile
(rapportando il numero di ragazzi sotto i 15 anni con il numero delle persone in età lavorativa) e quello degli anziani
(ottenuto rapportando il numero di persone al di sopra dei 65 anni con quello delle persone in età lavorativa). Un altro
aspetto centrale all’interno dello studio delle relazioni tra uomo e ambiente è rappresentato dalla possibilità di
utilizzo dello spazio e Dell’intera superficie terrestre, infatti, non tutti i territori sono abitabili e non tutti sono abitabili
(ed abitati) con la stessa intensità . Le parti di superficie terrestre che possono essere stabilmente abitate dall’uomo
ed essere sede delle sue attività sociali vengono definite ecumene mentre vengono definite anecumene quelle
porzioni di superficie terrestre che non sono abitabili stabilmente dall’uomo; con l’espressione subecumene vengono
invece definite tutte quelle zone che sono abitate dall’uomo in maniera saltuaria e limitata nel tempo, a seguito di
specifiche attività quali quelle di ricerca e/o militari, numerosi territori stanno subendo un processo di
desertificazione che si concretizza in un degrado delle condizioni ambientali e dovuta in molti casi ad un suo uso
intensivo e/o distorto (es. incendi) All’interno delle ecumene, tuttavia, la popolazione non si distribuisce in maniera
omogenea , sono presenti territori in cui la popolazione presente è minima e dispone, teoricamente, di un elevato
spazio disponibile. Questo fenomeno può essere indicato dal concetto di densità abitativa. La densità abitativa, che si
misura rapportando il numero degli abitanti per l’estensione di un territorio, dà una misura della concentrazione della
popolazione in determinati territori; Per una maggiore definizione delle possibilità offerte alla popolazione, in termini
di spazio, è quindi necessario fare riferimento all’indice di densità funzionale, nel cui calcolo la popolazione residente
viene rapportata alla superficie realmente abitabile;
Le dinamiche demografiche e lo sviluppo Il principale collegamento tra dinamiche della popolazione e sviluppo è da
sempre transitato per le risorse e, in primo luogo, quelle alimentari , proprio l’interrogativo circa la possibilità di poter
disporre di alimenti sufficienti, a fronte di una intensa crescita demografica, è probabilmente stato alla base dei primi
studi moderni circa le dinamiche della popolazione. Con il tempo, anche a seguito della parziale smentita – nei fatti –
di tali teorie, il dibattito si è spostato con analoghe modalità, sul tema delle risorse non solo alimentari ma anche
energetiche . La contemporanea presenza di elevati livelli di crescita e di profonde e diffuse condizioni di
malnutrizione, epidemie e difficoltà sanitarie, posero molti di questi paesi di fronte all’interrogativo se la crescita
demografica fosse, , sostenibile o potesse generare un’aggravarsi della situazione. La presenza di elevati tassi di
natalità, , è in molti casi non solo il riflesso di condizioni sociali ma anche, a scala ridotta, una risposta alle situazioni di
difficoltà e di indigenza. In molti casi, infatti, le situazioni di sottosviluppo si associavano ad una struttura economica di
tipo familiare, basata sull’autosostentamento delle singole comunità, . Nel corso della conferenza di Bucarest, alcuni
sostenevano che la crescita demografica potesse essere considerata come una possibilità per l’uscita dei paesi in via di
sviluppo dalla loro condizione, attraverso la creazione di meccanismi che avrebbero trasformato le economie
considerate arretrate; contemporaneamente, altri indicavano lo sviluppo indifferente a tali tematiche. Le politiche di
contenimento delle nascite, che iniziavano ad essere messe in atto in alcuni paesi, venivano invece individuate da
molti come una politica di neo-imperialismo. Le politiche di contenimento delle nascite sono state, a partire dagli anni
’70, una costante in molti paesi in via di sviluppo. Oltre alla Cina, la cui politica del figlio unico ha rappresentato e
tuttora rappresenta, sia per le dimensioni del fenomeno che per la radicalità degli interventi, il caso emblematico,
molti paesi in via di sviluppo hanno messo in atto differenti strategie di contenimento delle nascite. Questo fenomeno
di contenimento delle nascite si associa in molti casi alla selettività delle nascite, praticata da molte famiglie. La
preferenza per il figlio maschio, dettata spesso da motivazioni di natura pratica quale ad esempio la possibilità di
provvedere più rapidamente al proprio mantenimento o al mantenimento della propria famiglia, portò in molti casi
all’uccisione o all’abbandono, da parte di molte famiglie, delle primogenite. Nonostante il differente approccio alle
politiche di contenimento delle nascite, il dibattito circa le relazioni tra popolazione e sviluppo non ebbe segni di
rottura, permanendo la contrapposizione tra le due teorie che “sembrano ripercorrere l’una un principio maltusiano (i
troppi figli fanno crescere la povertà) e l’altra un principio marxista (la povertà fa crescere il numero dei figli), ma
nessuna delle due può essere presa come valida in assoluto”

I movimenti della popolazione il movimento delle persone, quindi, contribuisce a definire, in maniera spesso
determinante, il numero di persone che vivono e costituiscono i singoli territori. Tali dinamiche sono, connesse alla
presenza di squilibri demografici ma, ridurre la dinamica migratoria esclusivamente alla differente popolazione
potrebbe portare ad una limitata, ed in tal caso errata, lettura del fenomeno. . Dalle prime migrazioni, volte alla
ricerca di spazi abitabili, si è infatti pervenuti alle migrazioni per popolamento Il tema delle migrazioni può quindi
riconnettersi in maniera decisa al concetto di sviluppo. L’abbandono volontario del proprio territorio d’origine si
associa necessariamente alla volontà di migliorare la propria condizione di vita; , è necessario chiedersi se quello
stesso territorio possa fornire alla propria popolazione adeguati mezzi di sussistenza o idonee condizioni di vita. La
presenza di migrazioni, quindi, potrebbe essere ricondotta alla assenza, in un determinato territorio, di un
soddisfacente grado di sviluppo. . Le migrazioni, possono avvenire anche per l’assenza, in un determinato territorio,
di altre forme di sviluppo, come la presenza di condizioni di sicurezza, di libertà sociali e politiche, ma anche
riconnettersi alla possibilità di esprimere le proprie potenzialità umane e professionali. , la migrazione può essere
riconducibile alla presenza di push factors e pull factors; secondo tale classificazione, ripresa anche da Ventriglia2
possono essere presenti delle forze di spinta (push factors) e forze di attrazione (pull factors). I push factors sono delle
caratteristiche proprie del paese di origine, tendenzialmente riconducibili a forme di mancato sviluppo, mentre tra i
pull factors sono riconducibili le capacità attrattive di un territorio. La interrelazione tra questi due elementi, porta
quindi alla definizione e nascita dei flussi migratori. , le motivazioni che hanno portato gli uomini a spostarsi sono stati,
, molteplici, passando dalle necessità di adattamento proprie delle epoche primordiali, alle invasioni e le conquiste
militari, fino alle colonizzazioni e alle cosiddette libere migrazioni, caratterizzate dalla volontà individuale di un
miglioramento delle condizioni di vita. . In tempi moderni, l’esempio principale di migrazioni è probabilmente dato dal
popolamento dell’America che ha interessato, gran parte delle popolazioni europee In tempi più recenti, anche per
una maggiore facilità di spostamento, il flusso di persone assume una dinamica molto più complessa ed articolata che
ne rende meno intelligibile origini e destinazioni. A dispetto anche delle più intuitive osservazioni, infatti, gran parte
dei flussi non si sviluppa lungo la direttrice “sud” – “nord” ma, sempre più frequenti sono gli spostamenti sudsud e
nord-nord (o in generale all’interno della stessa regione). Un aspetto significativo , è dato anche dal livello culturale
dei migranti; all’interno dell’eterogeneo coacervo di esperienze e professionalità, infatti, è sempre maggiore il peso di
emigranti in possesso di elevate professionalità e di importanti titoli di studio.
I flussi migratori un processo complesso: le principali direttrici e le componenti geografiche ; i due flussi, in entrata
ed uscita, spesso convivono, con direttrici, motivazioni e dimensioni differenti, Ogni fenomeno, infatti, può avere delle
dinamiche differenti, e talvolta opposte . I flussi migratori , evidenziando quindi gli spostamenti che avvengono tra
differenti stati. Nonostante il concetto di migrazione sia abbastanza intuitivo, anche da parte degli organismi
internazionali non sono presenti delle definizioni univoche e comunemente accettate. All’interno delle varie forme di
spostamento delle persone, la prima distinzione va effettuata tra movimenti volontari e spostamenti coatti o forzosi
La gran parte degli spostamenti dalla propria terra natia, sono dettati da esigenze (lavoro, migliorare le proprie
condizioni di vita, allontanarsi da territori in conflitto o da persecuzioni ecc.) che, in una lettura ampia, non
potrebbero essere considerati volontari ma indotti. In questa classificazione, con spostamenti involontari, si fa invece
riferimento a quegli spostamenti coatti o costretti direttamente (talvolta anche con modalità violente). Sempre
all’interno dei movimenti coatti ) possono ricordare gli spostamenti di popolazione per ripopolamento o per
occupazione di territori; in questa casistica si possono annoverare i decisi incentivi messi in atto dal governo cinese
verso la popolazione per calorosamente invitarla5 a spostarsi nel nord – ovest del paese e, alternativamente, in Tibet
al fine di ridurre le turbolenze della popolazione cinese Uiguri nello Xinjiang o per incrementare il numero di abitanti
cinesi nel Tibet al fine di ridurvi l’incidenza (anche politica) della popolazione natia. . Le migrazioni vanno circoscritte
agli spostamenti per motivi di lavoro e quindi vanno differenziate dall’asilo politico, dal turismo o lo studio. Questa
distinzione, , si presenta molto complessa L’asilo politico è uno diritto stabilito in via universale dalla Convenzione di
Ginevra (1951 e si applica a tutti i cittadini che, al di fuori dei confini del proprio paese, non possono rientrarvi perché
potrebbero essere oggetto di persecuzioni o violenze, . Analogamente il diritto può essere esteso ai cittadini di paesi
attualmente in conflitto (in particolar modo conflitti interni) per i quali la permanenza nel paese di origine potrebbe
essere causa di pericolo. La permanenza per studio o per turismo costituisce un’ulteriore fattispecie che si differenzia
dallo status di migrante. A differenza dell’asilo politico, che nasce da situazioni oggettive e dalla presenza di
comprovabili situazioni di pericolosità e che da origine ad un particolare status cui si assegnano specifici diritti, nel
caso di studio o soggiorno turistico sono le motivazioni a differenziare queste casistiche dall’effettivo migrare. La
differenza, in questo caso, si riconduce più che alla durata della permanenza, al fatto che ) si parta da motivazioni
differenti . In molti casi, infatti, la possibilità di accesso costituisce uno dei principali vincoli al movimento di persone e
alla loro permanenza sul territorio di un altro stato; In termini spaziali, il primo aspetto da evidenziare è l’elevata
frammentazione dei flussi e l’elevata variabilità dei paesi di origine e destinazione. A scala globale, infatti, diventa
molto complesso definire in maniera dicotomica tra paesi (o regioni) di emigrazione e regioni /paesi di immigrazione.
infatti, accanto ai canonici flussi sud-nord,una crescente importanza e numerosità hanno i flussi che si volgono
all’interno delle stesse regioni, All’interno dei flussi migratori, quindi, è possibile definire, spostamenti da territori non
industrializzati a paesi industrializzati cui si affianca una crescente quantità di persone la cui destinazione finale non è
un paese industrializzatoma un territorio più prossimo, in cui comunque è possibile avere un miglioramento (anche se
lieve) delle proprie condizioni di vita. Allo stesso tempo, l’osservazione dei flussi di persone per motivi di lavoro
evidenzia anche la nascita di nuove centralità, come ad esempio gli stati mediorientali o del Golfo Persico. Questo è
espressione sia di un flusso migratorio di lavoratori altamente specializzati, impiegati in particolar modo negli
stabilimenti petroliferi, ma anche da un cospicuo numero di lavoratori non qualificati. In ambito di migrazioni
cosiddette sud-sud, un altro esempio può essere individuato, nei lavoratori stagionali che dall’Africa centroccidentale
si spostano nelle regioni costiere del Golfo di Guinea, soprattutto per la coltivazione delle piantagioni. In costante
crescita, inoltre, sono le migrazioni dai paesi industrializzati verso altri territori industrializzati, non solo per quanto
riguarda le professioni più remunerate. Questa elevata
diversificazione rende notevolmente più complesso definire il fenomeno
Un altro aspetto centrale nelle dinamiche migratorie è la molteplicità delle direttrici. , le migrazioni si sono
sviluppate tradizionalmente su talune direttrici principali (nel caso italiano gli Stati Uniti, la Germania, il Belgio ed il
Sud America hanno attratto la parte principale dell’intera collettività in uscita). Un ulteriore aspetto dei flussi migratori
internazionali è la crescita di migrazioni di transito. Come evidenziato anche da studi specifici, le destinazioni di arrivo
dei migranti sempre meno costituiscono una destinazione finale e, in molti casi, la stessa destinazione finale non è
definibile o, allo stesso tempo mutevole. . La presenza di un numero crescente di migranti in transito, in primo luogo,
rende complessa la determinazione, all’interno di ogni singolo paese, della effettiva tendenza alla migrazione della
popolazione residente. In molti casi, infatti, un elevato flusso migratorio in uscita potrebbe essere il riflesso, più che di
una dinamica di uscita della popolazione dal paese, del ruolo che, spesso per la presenza di specifici elementi
geografici, il paese svolge nel flusso complessivo di migranti di una macroregione. Questo aspetto è tipico dei paesi
costieri, come ad esempio il Marocco dove oltre la metà delle persone fermate per migrazioni illegali provenivano da
paesi dell’Africa Sud-sahariana . Un secondo aspetto, invece, attiene alla complessità della gestione dei flussi migratori
in transito e, in particolar modo, alla loro governance ed alla scala a cui questa debba manifestarsi. Nel caso
mauritiano, questo paese si trova ad avere un’elevata attrattività indotta, derivante solo dalla facilità13 di rotta verso
l’Europa, e, soprattutto in presenza di elevate barriere all’ingresso dell’altro paese si trovi a dover gestire un numero
di persone molto elevato in un contesto di difficoltà
L’attenzione posta sui percorsi dei migranti, riporta ad un concetto centrale all’interno della geografia: il concetto di
frontiera. . La definizione e la concettualizzazione della frontiera, in termini geografici, costituisce un aspetto molto
complesso e di difficile determinazione Come indicato anche da Dell’Agnese , il concetto di frontiera viene spesso
accomunato e confuso con quello di confine ma questi, in ambito geografico, assumono un significato profondamente
differente. Il confine, in termini spaziali, è costituito esclusivamente da una “linea” mente la frontiera fa riferimento
ad un territorio, ad una fascia che si estende intorno ad un confine; la frontiera, quindi, ha a differenza del confine le
proprietà tipiche dei luoghi, può essere caratterizzata da connotazioni geografiche e ad essa possono essere
riconducibili popolazioni, culture, identità, economie e tutti altri elementi propri dell’attività umana. Allo stesso
tempo, il confine attiene principalmente, ed in particolar modo dall’affermarsi dello stato moderno e dalla definizione
di confini non naturali, alla spazializzazione del potere, definendo nelle varie accezioni la porzione di spazio sulla quale
uno stato (o alle differenti scale e nelle differenti configurazioni altri soggetti) esercitano la propria autorità e
sovranità Le zone di frontiera costituiscono quindi un territorio caratterizzato da una propria identità, differente e
differenziabile da altri territori del medesimo stato, . La presenza del confine caratterizza il territorio cui si inserisce
sia esternamente, dandogli appunto una propria identità differenziata da quelli ad esso limitrofi, e crea delle
specifiche dinamiche interne. ). La presenza di confini stringenti, spesso genera una intensificarsi delle attività illegali
In ottica di movimenti di persone, la presenza di limitazioni stringenti in molti casi riducono solo in minima parte i
flussi mentre ne altera decisamente la natura, modificando lo status delle persone ( da immigrato regolare a
clandestino e porta alla nascita o al rafforzarsi di organizzazioni criminali. La vicinanza spaziale ha da sempre costituito
uno degli aspetti centrali all’interno dei flussi migratori. Qualora le situazioni lo permettano, infatti, i cittadini tendono
a muoversi verso paesi limitrofi, che gli permettano una maggiore raggiungibilità, costi inferiori e, eventualmente, una
maggiore possibilità di rientro. . Il miglioramento delle condizioni di trasporto, infatti, ha portato alla facile assunzione
che lo spazio fosse diventato una variabile meno importante nelle dinamiche dei movimenti delle popolazioni . In
termini di popolazione e di migrazioni, infatti, se la vicinanza fisica ha ridotto la sua centralità è decisamente
accresciuto il ruolo di componenti culturali. In molti casi la prossimità culturale, la condivisione di lingua, costituisce
infatti uno dei principali motivi di selezione delle destinazioni. Accanto alle dinamiche spaziali, un altro elemento
centrale è la struttura interna dei flussi migratori. All’interno dei circa 214 milioni di persone che attualmente vivono
in un paese differente a quello di nascita18, una parte crescente e prossima alla metà è costituita da donne. Questa
non costituisce una novità assoluta, Questo fenomeno, che in via semplificata potrebbe essere associato al
ricongiungimento familiare dei migranti può rappresentare una caratteristica dell’attuale flusso migratorio in atto e
segnare un momento decisivo per le future evoluzioni. In particolar modo, uno dei principali effetti sui paesi di origine
è da riconnettere al fatto che ad allontanarsi siano le componenti più attive della popolazione; Un'altra caratteristica
propria delle migrazioni, è l’età dei migranti.I paesi di antica industrializzazione, che nel corso degli ultimi decenni
sono state costantemente meta di migrazioni, infatti, tendono ad avere un’età media delle persone non nate nello
stesso paese in cui risiedono, tendenzialmente più elevata rispetto a quanto registrato da altri paesi. Di tutt’altra
struttura sono invece le distribuzioni per età dei residenti non nativi che attualmente vivono in paesi di recente
industrializzazione o non industrializzati, come ad esempio molte realtà africane. Questo fenomeno potrebbe essere
riconducibile ad almeno due aspetti tra loro differenziabili. In primo luogo, ad incidere su tale distribuzione per età,
potrebbe essere il tempo di permanenza nel paese ospitante. . Molti dei paesi, , potrebbero esser infatti solo paesi di
transito e, quindi, le persone che li vivono senza esservi nati sono tendenzialmente giovani; Una seconda componente
potrebbe invece derivare dalla formazione dei migranti stessi, il grado di formazione dei migranti. Mentre
tradizionalmente, e ancora spesso nell’immaginario collettivo, l’idea del migrante è associata ad una persona con
basse o limitate professionalità (low-skilled) indicato per lo svolgimento di lavori manuali, all’interno della popolazione
migrante è attualmente crescente il numero di persone con un elevato titolo di studio (laurea) e discrete
professionalità (medium-skilled o hight-skiled). un basso livello di istruzione può essere considerata una delle forme di
sottosviluppo . Per ridurre questa mancanza strutturale in molti paesi, nel corso degli anni gli attori istituzionali e gli
organismi non governativi hanno messo in atto una serie di interventi, in molti paesi, per ridurre l’abbandono
scolastico dei giovani sia per aumentarne la cultura che per creare valide alternative a processi di sfruttamento
giovanile per lavoro o nei conflitti (bambini soldato).
Gli effetti delle migrazioni sullo sviluppo Lo sviluppo, può essere tendenzialmente interpretato come uno dei
principali elementi che porta alle migrazioni. Una persona, e conseguentemente una comunità, abbandona il proprio
paese di nascita con l’aspirazione di migliorare le proprie condizioni di vita, nell’immediato o nel medio termine .
L’assenza delle condizioni minime per la sussistenza, la possibilità di un lavoro stabile e dignitoso, la possibilità di
veder riconosciute le proprie libertà e le proprie potenzialità, costituiscono solo alcuni dei possibili motivi che portano
una persona ad abbandonare la propria terra d’origine per spostarsi (definitivamente o temporaneamente) in un altro
territorio. La migrazione in uscita, , interessa principalmente persone di giovane età o, in generale, persone in età
lavorativa. Allo stesso tempo, a migrare, tendono ad essere le persone con maggiore grado di istruzione e
preparazione. Nel complesso, la presenza di questi fattori, genera una drastica riduzione delle potenzialità del paese,
con conseguente riduzione delle possibilità di crescita e di sviluppo. L’effetto (negativo) di questo fenomeno, tuttavia,
potrebbe essere ridotto o trasformato in positività nel momento in cui queste persone rientrassero, con il connesso
carico di esperienze e professionalità, da trasferire all’interno del proprio territorio originario. Un altro aspetto
determinante connesso allo sviluppo ed alle sue relazioni con i processi migratori, è il tema delle rimesse. Con rimessa
si intende il flusso di denaro di rientro che il migrante fa pervenire alla propria famiglia nel proprio paese di origine Va
tuttavia segnalato come l’ammontare delle rimesse sia di certo sottostimato soprattutto per la presenza di flussi
articolati fuori dai percorsi monetari tracciabili . In molti casi, infatti, le risorse che vengono re-inviate presso i territori
di origine vengono impiegate soprattutto in consumo. . Questo, che secondo le teorie economiche dovrebbe generare
una crescita della produzione nazionale, Allo stesso tempo, la crescita indotta da trasferimenti esterni, non è
indicativa di uno sviluppo significativo del territorio; come evidenziato anche in precedenti parti del lavoro, infatti, la
dipendenza (in questo caso associata ai propri concittadini all’estero) non può essere indicativa di un reale e completo
sviluppo del paese. Connesso alle rimesse, inoltre, sono presenti problematiche circa la loro gestione. I canali
attraverso i quali queste rimesse circolano, infatti, sono molteplici e non sempre palesi. Accano ad una circolazione
formale che, proprio per la dimensione del fenomeno, è in costante crescita sia all’interno di circuiti bancari che di
apposite compagnie di money tranfer, esistono una molteplicità di canali informali che possono passare da
intermediari non autorizzati (ma riconosciuti dalla comunità) fino anche a percorsi specifici ). Questo, , genera una
sottovalutazione del fenomeno Un tema di deciso interesse geografico è l’identità e la connessa integrazione dei
migranti o delle loro comunità. , è riferito alla condivisione degli spazi tra comunità portatrici di elementi culturali
differenti e al loro incontro. Le modalità con cui una comunità vive uno spazio, lo caratterizza e lo particolareggia, Il
tema dell’identità assume ovviamente un carattere ed una dimensione particolare in presenza di movimenti di
persone, sia a seguito di possesso violento (colonialismo e post colonialismo) che turistico , infatti, le persone che si
spostano in un altro contesto territoriale tendono a mettere in atto dei processi aggregativi che portano alla nascita di
comunità. In particolar modo, un aspetto complesso e sensibile è il concetto di integrazione. L’integrazione, tende a
configurarsi come un’edulcorata manifestazione di confronto tra culture autoctone e portati culturali propri dei paesi
originari; in molti casi, quindi, l’integrazione tende ad assumere le connotazioni di uno scontro tra differenti sistemi
culturali. Le esperienze, a volte anche tragiche, di convivenza tra le differenti comunità Nel corso degli ultimi anni, il
concetto di integrazione si è associato a quello di multiculturalismo. Secondo tale impostazione, le varie comunità che
vivono gli stessi luoghi dovrebbero convivere, mantenendo la propria identità, gli stessi spazi, senza necessità di
mutamento della propria cultura, Le esperienze, a volte anche tragiche, di convivenza tra le differenti comunità non
sempre hanno confermato la presenza effettiva di positive applicazioni di tali modelli.

L’urbanizzazione e lo spazio urbano all’interno delle teorie dello sviluppo A partire dal 2009, per la prima volta oltre
metà della popolazione vive in ambito urbano. , è importante evidenziare come l’accentramento della popolazione in
ambito urbano sia in costante crescita. . Pur mantenendo le loro peculiarità e caratteristiche principali, quali la
concentrazione della popolazione e delle attività, le città stanno vivendo una decisa (seppur spesso silenziosa) fase di
rinnovamento ed evoluzione. A questo cambiamento, tuttavia, non sempre si affianca una centralità all’interno delle
discipline accademiche o, più in generale, l’attenzione degli studiosi; Allo stesso tempo, le città costituiscono l’aspetto
dell’uso dello spazio in cui, probabilmente, sono avventi i principali cambiamenti caratteristici degli ultimi anni, tanto
da diventarne non solamente parte, ma anche momento rappresentativo, Le città stesse hanno infatti modificato il
loro ruolo e la loro connotazione, sia a seguito della fine del paradigma fordista che alla luce del costantemente citato
fenomeno della globalizzazione. questi due momenti storici hanno segnato una radicale evoluzione delle funzioni
delle città, del loro ruolo all’interno dei sistemi economici e sociali che muovono alla differenti scale nonché alla loro
immagine. , la città assurge ad ambito di analisi per le tematiche di sviluppo ed emblema di molte delle problematiche
. La città, infatti, si caratterizza per la presenza di numerosi momenti di contrasto ed elementi di contraddittorietà al
suo interno, per la presenza di fenomeni di marginalità e povertà urbana che, , ne configurano in maniera
diametralmente opposta i luoghi.
L’evoluzione del concetto di città ; l’idea di città ) è presente soprattutto all’interno dei sistemi sociali occidentali, e
ne rappresenta un aspetto centrale e caratteristico. Molto più complesso, invece, è definirla. Il concetto di città trova
le sue origini all’interno della cultura greca, , infatti, la polis costituisce il fulcro delle attività politiche, istituzionali e
commerciali2. Tale prospettiva porta ad una lettura degli spazi urbani differente a quella dei precedenti periodi storici,
tra i quali possono essere menzionati gli aggregati urbani tipici della Mesopotamia e delle coeve civiltà asiatiche, nei
quali erano già presenti da lungo tempo aggregati di popolazione. La città viene infatti ad essere letta non solo, e non
esclusivamente, come un addensamento di popolazione ma viene a definirsi e a costituire la sua importanza
soprattutto per l’aspetto funzionale. La città ha quindi assunto, urbanistiche e delle peculiarità proprie delle varie
epoche, ma ha mantenuto come centrale e caratterizzante l’aspetto funzionale . L’intenso e costante insieme delle
relazioni che si sviluppano in ambito urbano, in particolar modo in epoca tardo medievale e su riproposizione di
modelli propri della struttura romana, modifica l’idea di città, incrementando le interrelazioni dell’ambito urbano con
il territorio limitrofo. , la crescita urbana è stata connessa al processo di industrializzazione. L’attrattività delle
nascenti imprese su un numero crescente di lavoratori ha portato ad un processo aggregativo a catena, trainato dalla
formazione industriale, cui si sono affiancati nuclei abitativi destinati alla popolazione occupata. Questo processo di
formazione urbana porta con se una specifica distribuzione dei centri urbani nonché una loro differente struttura
interna e base concettuale. La localizzazione industriale, tipica delle prime rivoluzioni industriali, è infatti trainata
principalmente dalla presenza delle materie prime, in particolar modo risorse minerarie e dall’accesso al mare;
l’emergere di tali elementi quali aspetto portante dello sviluppo industriale porta quindi alla nascita di nuove città ed
alla formazione di nuove centralità urbane. La disposizione spaziale delle città, assume quindi una struttura
totalmente differente da quella precedente, emergono nuove centralità urbane spesso prive di una consolidata
tradizione e storia urbana, Questo processo trova la sua massima espressione nell’Inghilterra della prima rivoluzione
industriale. I principali centri urbani attualmente visibili, con la sola eccezione di Londra , si trovano in quella fase a
vivere una crescita dimensionale e funzionale rapida e decisa. Centri come Manchester, Liverpool, Nwcastle Upon-
Tyne, solo per fare qualche esempio, da piccoli borghi assurgono quindi a centri per la nascente industria inglese,
favoriti dalla presenza di bacini carboniferi e porti, e poli di attrazione per la popolazione. Come si è visto nelle sezioni
precedenti, questa fase di industrializzazione è stata caratterizzata anche per una decisa crescita delle popolazione
che contribuisce alla crescita della popolazione urbana. Thunen pubblicava uno dei primi studi, in epoca moderna,
sull’utilizzo degli spazi; in particolar modo, tale studio si concentrava sull’analisi degli spazi extraurbani a finalità
agricole. Pressoché coevo (1865) è il lavoro di W. Roscher che iniziava a porre l’attenzione sui fattori determinanti la
scelta delle localizzazioni industriali; questo lavoro, che potrebbe essere individuato come un precursore degli studi
sulla localizzazione industriale, cominciava a definire quali potessero essere le motivazioni che spingessero ad una
specifica localizzazione industriale. . Weber pubblicava che costituisce probabilmente uno dei principali riferimenti in
termini di localizzazione industriale; introducendo il fattore distanza, ed il ruolo del costo trasportazionale (ripreso da
W. Launhardt) all’interno del processo selettivo delle località di insediamento Quello che può essere definito come
uno dei principali lavori in termini di localizzazione urbana di W. Christaller, viene ad essere pubblicato invece solo nel
1933. Questo studio, focalizzato sul processo di crescita urbana, è volto quindi a determinare se la localizzazione dei
centri urbani derivi da un processo razionale, che travalica quindi i fattori adattivi e la causalità, e quali siano i fattori
determinanti a tale insediamento. Lo studio di Christaller (approfondito nella scheda 1) pone quindi l’enfasi
principalmente su quello che è un aspetto peculiare delle città, la presenza di servizi, assurgendo con il tempo ad
essere utilizzato/utilizzabile anche come studio della distribuzione del settore terziario. Il Modello di Christaller Il
modello di Christaller, pubblicato nel 1933, mira ad analizzare la distribuzione spaziale dei centri urbani. L’assunto
principale è che le città possono essere individuate in relazione ai servizi offerti, essendo la città stessa il luogo di
fornitura dei principali e più avanzati elementi del settore terziario. Christaller esercita la sua schematizazione
prendendo in considerazione uno spazio isotropo ed isomorfo, nel quale la popolazione si distribuisce con la stessa
densità, è libera di muoversi in tutte le direzioni senza quindi ostacoli di natura fisica agli spostamenti. Allo stesso
tempo, Christaller ipotizza la presenza di consumatori razionali, che scelgano il loro fornitore di servizio solo ed
esclusivamente in base al costo del servizio stesso; Secondo il modello, il consumatore si muoverà nello spazio,
acquistando i servizi ad esso necessari dove il costo complessivo sia minore; per costo complessivo va quindi intesa la
somma del costo reale del servizio e il costo di trasporto. Poiché gli altri costi sono, dal punto di vista
economico/produttivo, incomprimibili ed immodificabili, l’aspetto principale del modello è il costo del trasporto.
Secondo tale principio, il numero dei consumatori diminuisce al crescere della distanza poiché, allontanandoci
dall’impresa fornitrice, ci sarà un numero sempre minore di consumatori che reputeranno conveniente spostarsi per
acquistare quel prodotto. E’ quindi possibile, per Losch e Christaller, individuare delle aree di mercato delle imprese di
servizi, date dalla superficie compresa all’interno della circonferenza con raggio C1 – Z1. Al di fuori di tale distanza,
quindi, per i consumatori non sarà più conveniente raggiungere il luogo di produzione poiché i costi di trasporto
renderebbero troppo elevato il costo complessivo. Questa distanza, denominata portata, varia ovviamente in
relazione al bene in esame. Un secondo aspetto spaziale è il concetto di soglia. Per soglia si intende la superficie
minima che l’impresa deve coprire, in termini di soggetti che acquistano il bene per poter coprire i suoi costi di
produzione. Per poter garantire la sopravvivenza dell’impresa, quindi, la soglia dovrà essere necessariamente
ricompresa dalla portata. All’interno della distribuzione spaziale delle imprese, dando per assunto i concetti di sogli a
portata, le imprese tenderanno a distribuirsi in modo tale da non lasciare alcuno spazio non coperto o, in altre parole,
nessun consumatore privo del servizio. Le aree di mercato, secondo l’impostazione di Losch, non avranno quindi una
struttura circolare (il che genererebbe superfici escluse e/o aree di sovrapposizione ma esagonale, ottenute dalla
suddivisione delle aree di sovrapposizione. Secondo tale approccio, quindi, ogni impresa avrà come clienti quelli
presenti nell’esagono, più la metà di quelli che risiedono nei territori di contatto tra esagoni, ed un terzo di quelli
presenti nei vertici. All’interno di questa analisi, tuttavia, Christaller inserisce un ulteriore elemento di studio, dato
dalla priorità dei servizi. Secondo l’autore, infatti, è possibile discriminare i serivizi in base al loro rango (importanza).
Esisteranno quindi: servizi comuni - gli utenti accedono con costanza quasi giornaliera, che avranno elevata diffusione
e minore portata servizi medi – gli utenti vi accedono con una frequenza minore, ma comunque in maniera costante;
la loro portata sarà maggiore di quella dei servizi comuni e la loro diffusione più rara servizi rari – gli utenti sono
specifici e vi accedono solo saltuariamente, sono presenti solo in pochi centri ed hanno una portata molto elevata Le
città, quindi, si caratterizzeranno per la presenza di servizi di rango elevato, di altissima rarità, e fungeranno da centro
per una costellazione di esagoni. All’interno dell’analisi sull’evoluzione del concetto di città e degli aspetti dell’ambito
urbano, il modello di Christaller ) presenta elementi di centralità e d’importanza. In primo luogo, , la pubblicazione di
questo e di altri lavori in quel dato periodo storico sottolineano la preponderanza dell’aspetto urbano sia in termini
funzionali, sia in termini scientifici Un secondo aspetto centrale nelle analisi condotte sull’ambito urbano che, in
qualche modo, possono essere ricondotte allo studio di Christaller, è l’importanza dei servizi. La città, sin dalla sua
origine, è stata distinguibile per la presenza di funzioni e servizi di rango superiore. L’importanza delle città, secondo
lo studio di Christaller e nelle varie riproposizioni e derivazioni in molti degli approcci successivi, viene invece ad
essere imputata non sul numero degli abitanti ma sulla qualità dei servizi offerti: tanto più rari sono i servizi offerti,
tanto maggiore è il rango della città. Un terzo importante aspetto evidenziato è l’ordinabilità dei centri. Lo studio di
Christaller si pone infatti non solo su una prospettiva locale di analisi della formazione di un singolo centro urbano, ma
su una scala minore (regionale, nazionale o nelle letture che se ne potrebbero dare anche globale), enfatizzando come
i singoli centri convivano all’interno di una rete di città, e definendo, ancor prima dei parametri e degli aspetti che
permettano la loro ordinabilità, la possibilità di pervenire ad una classificazione delle città per importanza.
La città moderna, viene quindi a formarsi nel secondo dopoguerra, riportando in prospettiva spaziale ed urbana le
dinamiche e gli approcci di tipo fordista. La formazione della città in questa precisa fase storica, risente anche della
azione distruttiva delle forme e dinamiche precedenti operata dal secondo conflitto mondiale che, con l’uso intensivo
del bombardamento aereo porta il conflitto in profondità, superando quindi lo scontro di frontiera, trasformando le
città in principale oggetto e sede di conflitto14. In particolar modo in Europa, infatti, questo porta alla scomparsa delle
strutture urbane precedenti e, all’interno della sua drammaticità, offre la possibilità di ripensare e pianificare la città.
Un altro aspetto centrale all’interno della pianificazione della città moderna è dato dalla relazione tra momento di
pianificazione che avviene in ambito spaziale, e reale funzionamento della città, guidato soprattutto da spinte
geografiche. Come suggerisce Minca16, la città moderna è dominata dalla ragione cartografica che travalica la
dimensione geografica. La città viene ad essere oggetto di studio e di pianificazione in termini spaziali, prescindendo
dalle componenti territoriali ed il pianificatore se ne pone all’esterno, non la vive e neppure ne percepisce identità e
personalità dei luoghi, ma la pensa in uno spazio indefinito e vuoto di ogni altra componente umana. La pianificazione
urbana diventa quindi idealizzata, astratta dalle componenti reali, perfetta nella sua concezione teorica ma, nella sua
realizzazione, può portare alla nascita di problematiche. Un aspetto caratterizzante la città nel periodo post-bellico è
la preponderanza della funzionalità; . La città moderna, viene quindi ripensata in prospettiva funzionale, in linea con il
dominante approccio fordista, razionale, priva d’ogni elemento accessorio e decorativo La fine del paradigma fordista,
che storicamente potrebbe essere posizionato a cavallo degli anni ’70 ed ’80, non poteva non avere dei riflessi, anche
decisi sulla struttura urbana e sul modo di pensare (o ripensare) gli spazi urbani, creando quella che viene ad essere
comunemente definita come la città post-moderna. La riduzione, o in molti casi l’annullamento, delle strutture
industriali ha portato le città ad essere svuotate del principale riferimento produttivo e di uno dei principali volani
economici. Per molte città, , è stato quindi necessario sviluppare una nuova forma ed una nuova modalità produttiva
che fungesse sia da propulsore per la crescita economica, ma anche per ammortizzatore sociale delle possibili tensioni
tra gli abitanti. Parallelamente ai processi di rinnovamento che hanno interessato molti paesi, anche le città si sono
dovute re-inventare dal punto di vista produttivo ed economico, cercando, come si vedrà meglio successivamente, un
proprio percorso di crescita. Città storicamente industriali hanno dovuto quindi ricreare una propria identità
Emblematico di questa evoluzione può essere la trasformazione del vecchio centro industriale di Liverpool in una città
della musica e dello spettacolo, in particolar modo legato al mito dei Beatles. Proprio l’aspetto culturale è stato, e
continua ad esser, una delle principali destinazioni e mutazioni delle città contemporanee. Questo ha dato vita ad un
“tendenza alla “culturalizzazione” dei processi di sviluppo urbano, particolarmente rilevante nelle città che hanno
attraversato una fase di declino strutturale dagli anni Settanta in avanti: la formazione di una base vitale di attività
culturali e industrie “creative” costituisce, , uno stimolo efficace al risveglio economico e sociale delle società afflitte
dalla crisi dei settori economici tradizionali e in particolare dell’industria manifatturiera”20 . Molte delle città sono
quindi diventate centro di eventi, manifestazioni strutturali Il ripensamento post-moderno degli spazi urbani, secondo
l’analisi di Minca21, può essere quindi ricondotto a tre elementi centrali: l’heritage preservation, la revitalization e
l’urban design. Gli spazi urbani, secondo questo approccio, vengono quindi ad essere ripresi dalla propria cultura
(spesso riprendendo proprio gli elementi che erano stati nascosti o coperti dalla architettura moderna) cercando di
riprendere la propria identità e la propria storia. Allo stesso tempo, l’utilizzo degli spazi e dei luoghi
dell’industrializzazione costituisce un momento simbolico di rottura con il precedente periodo, attraverso la
conversione a finalità culturali degli spazi industriali Un altro aspetto portante dell’utilizzo degli spazi urbani che,
come ricorda Harvey, costituisce l’aspetto iniziale dell’applicazione dell’approccio post-moderno alla città, è la
frammentazione e la sovrapposizione di stili, . L’approccio post-moderno alla città, abbandona quindi il funzionalismo
proprio del periodo modernista per indirizzarsi verso un uso dello spazio più effimero, senza una precisa propria
specificità all’interno degli scopi sociali per cui viene creato. Lo spazio viene ad essere visto non per i suoi fini
funzionali ma per il suo senso estetico, cercando di superare la monotonia dei paesaggi per proiettarsi verso un
panorama differenziato. Un altro momento centrale nell’evoluzione degli spazi urbani è connesso a quel complesso ed
articolato processo solitamente indicato come globalizzazione. Gli elementi principali di questa influenza sono
individuabili nella crescente centralità delle città quali nodi dei flussi globali e, di conseguenza, della loro crescente
importanza in relazione ad altri livelli amministrativi nella crescita di competitività urbana e nel processo di
rigenerazione urbana, in particolar modo per quanto attiene all’aspetto di comunicazione. Questi tre elementi,
ovviamente, non possono e non devono essere analizzati separatamente ma, anzi, solo la loro lettura
contemporanea/sequenziale, permette di delineare al meglio il processo evolutivo delle città. , un aspetto centrale del
processo di globalizzazione è la creazione, a scala globale, di interconnessioni e flussi di beni e (soprattutto) servizi. .
Le città, nella loro dinamica competitiva cominciano quindi a fronteggiarsi sulla produzione di servizi, in particolar
modo informatici, costatando in questo ambito l’emergere anche di realtà minori dimensionalmente quali ad esempio
i cluster tecnologici. Il principale terreno di competitività, tuttavia, diventa la attrattività sia di servi finanziari che
turistici. Proprio in questi termini, quindi, la città tende a rimodellarsi, creando nuove attrattive (soprattutto culturali)
e dando una nuova immagine di se. . Queste dinamiche hanno anche una loro lettura spaziale, in ambito urbano, che
può essere associata al concetto di gentrification; con gentrification si indente una rigenerazione degli spazi urbani
che, come sottolinea Minca Interi quartieri storici e decadenti, abitati speso dalle classi più povere ed emarginate,
sono stati rapidamente trasformati in salotti urbani, in ambienti selezionati e prestigiosi che ospitano ristoranti,
boutique, gallerie d’arte, caffè, residenze di lusso, locali alla moda, cioè in piccole ma redditizie enclave del consumo
per la service class e la creative class
Urbanizzazione e crescita urbana La crescita urbana ha caratterizzato, , il periodo della rivoluzione industriale,
portando alla nascita ed alla formazione delle principali città paesi industrializzati. Il processo di urbanizzazione29
della popolazione, tuttavia, non si è limitato a tale periodo storico ma, anche se con dinamiche differenti, è tuttora in
atto in gran parte dei paesi mondiali. La crescente urbanizzazione della popolazione, tuttavia, non assume
caratteristiche analoghe in tutti i contesti spaziali. La popolazione urbanizzata che risiede nel cosiddetto Nord del
mondo, e che nel complesso supera i ¾ della popolazione che vive quei territori, tende infatti a distribuirsi su centri
urbani di piccole e medie dimensioni. In particolare, come sottolineano Rossi e Sommella30, oltre la metà della
popolazione urbana di questi territori tende a vivere in centri con una popolazione compresa tra i 10.000 e i 50.000
abitanti, mentre solo un quarto vive in centri con popolazione superiore a 250.000 abitanti. Dinamica diametralmente
opposta è invece vissuta dai paesi in via di sviluppo per i quali la popolazione urbana tende a concentrarsi in pochi
centri, spesso solo nella capitale. Le esperienze di molti paesi, sia in America Latina che in Asia e, più recentemente in
Africa, evidenziano infatti il ruolo catalizzatore delle città principali che, tendono ad attirare una quota crescente di
popolazione (effetto di primacy) . Se nel corso della prima parte del secolo scorso le città maggiormente popolose
erano distribuite nei paesi sviluppati, nel corso degli anni aumenta, e nelle previsioni continuerà ad aumentare, il
numero delle città maggiormente popolose che si localizzano nei paesi in via di sviluppo.
Le principali strutture urbane Le principali classificazioni prodotte dalla letteratura sono metropoli, megapoli,
megalopoli e conurbazioni Il termine metropoli costituisce la prima classificazione urbana di carattere distintivo.
Attraverso tale termine, solitamente utilizzato per indicare i vari capoluoghi, si voleva distinguere la città principale
dalle restanti città. Il termine ha una natura principalmente funzionale essendo, come indicato da Scarpelli31, “la città
da cui provengono le funzioni di grado più elevato” L’espressione megapoli , , indica una città di elevate dimensioni.
Rispetto al concetto di metropoli, esclusivamente focalizzato sull’aspetto funzionale, l’espressione megapoli ha una
valenza principalmente centrata sull’aspetto dimensionale; solitamente le megapoli non possono avere un
popolazione inferiore ad un milione di abitanti. Una particolare struttura urbana è data dalla conurbazione. Con
l’espressione conurbazione si può intendere un insieme di città di differenti dimensioni che, attraverso un processo di
popolamento degli spazi intermedi, ha portato alla creazione di un unico tessuto urbano, indistinguibile sia per
spazialità che dal punto di vista funzionale. Le città hanno una importanza differente in base alle funzioni svolte al
loro interno, ai servizi che sono in grado di offrire ed alla polazione che le vive. In particolar modo, all’interno delle
scale gerarchiche di ambito urbano, la letteratura ha evidenziato il ruolo svolto dalle cosiddette città globali34. Le città
globali (New York, Tokio, Londra) si caratterizzano per la presenza di numerosi servizi, in particolar modo quelli relativi
al settore quaternario ed in particolar modo alle attività finanziarie, in Le tre città globali, ad esempio, ospitano le
principale borse mondiali e, , riescono a permettere un ciclo di apertura dei mercati finanziari completo, senza
soluzione di continuità nella giornata . A questi città globali fanno quindi riferimento centri di ordine inferiore,
operanti a scala macroregionale, come ad esempio, nel caso europeo, Milano, Zurigo, Francoforte, Parigi. Questi
centri, che comunque presentano servizi di rango elevato, hanno una portata minore sia in termini di aree di influenza
che di servizi offerti. Queste indicazioni evidenziano come il numero di abitanti non costituisca una variabile centrale
per le città. Molti dei centri urbani di recente crescita, nonostante la loro elevata popolazione, non riescono infatti a
fornire i servizi di rango elevato che permettano loro di assurge, in questo tipo di classificazione, a centralità.
Urbanizzazione, marginalità urbana e sviluppo La crescita urbana è stata a lungo a associata , all’idea di sviluppo. .
Come ricordano Rossi e Sommella35, però, i vantaggi abitativi, le possibilità di una vita migliore e la presenza di servizi
migliori per la popolazione non sono sempre ed in ogni contesto spaziale associabili al vivere urbano ed alle città con
elevate dimensioni. , il vantaggio comparativo delle città sui piccoli centri persiste solo nell’Africa Sub-sahariana
mentre in moltissime realtà, anche di paesi considerati in via di sviluppo, la qualità della vita nei centri di piccole
dimensioni si è accresciuta, superando quella dei centri urbani. Nonostante non esita più una relazione diretta tra lo
sviluppo economico e la quantità di popolazione inurbata , le città, soprattutto nei paesi in via di sviluppo o del sud del
mondo, continuano a rivestire un ruolo di catalizzatore e a mantenere la loro attrattività. Un elemento centrale delle
città, in particolar modo delle città di medie e grandi dimensioni, è la presenza di diffusi fenomeni di marginalità e
povertà urbana37, evidenziate dalla presenza diffusa di persone che vivono in strada, senza abitazione e con difficoltà
alimentari in molti casi sopperite da di supporto. Questo fenomeno, può assumere delle forme e delle strutture
spaziali specifiche nei vari contesti. Tradizionalmente, infatti, i fenomeni di marginalità venivano a localizzarsi in
determinante e specifiche parti della città. , si venivano quindi a creare degli aggregati ben distinguibili dalla restante
parte della città, caratterizzati da qualità della vita minima e diffusa fatiscenza.. , la fine del periodo industriale e
l’abbandono di spazi produttivi al centro delle città ha portato all’insediamento di popolazione proprio in questi spazi
che, diventavano più facilmente abitabili. Il processo di competitività urbana, come visto in precedenza, ha portato
però molte città a modificare la propria immagine, proprio attraverso la riqualificazione di molte aree. A seguito delle
spinte esercitate soprattutto dalle elité intellettuali, quindi, molti spazi centrali sono stati riconvertiti ad altri usi; tali
processi di riqualificazione, tuttavia, hanno interessato soprattutto (o solo) l’aspetto urbanistico, riproponendo e
delocalizzando le problematiche di marginalità.
Bidonvilles e insediamenti informali: paradigma urbano del XXI secolo? Le bidonvilles designano forme diverse di
insediamenti urbani, precari e insalubri, spesso edificati con materiali di recupero, che nascono dall’occupazione
abusiva di siti inadatti all'edificazione o facilmente inondabili (pendìi scoscesi, cave, discariche, acquitrini). Emblema
dell’urbanizzazione non pianificata e informale, il fenomeno delle bidonvilles è stato stigmatizzato come patologia
delle città del xx secolo. Diffusi in particolare nelle città dei paesi poveri, tali insediamenti condividono, di là delle
diverse tipologie morfologiche, simili problematiche sociali, economiche e urbanistiche, e valgono nel senso comune
da equivalente di periferie degradate, di sobborghi squallidi, di borgate, Le bidonvilles esistevano in realtà prima che
apparissero sotto questo nome. Del resto, non vi è dubbio che è con la Rivoluzione industriale, verso la fine
dell’Ottocento, che le baraccopoli si diffondono nelle città europee, per poi caratterizzare la crisi edilizia che segue il
secondo conflitto mondiale. L’impiego di un termine sintetico come bidonville (o slum nel contesto anglofono) ha il
vantaggio per gli studiosi e gli operatori delle politiche di contemplare contesti geografici e modi di costruzione diversi
fra loro, ma che conservano proprie denominazioni locali: le favelas di Rio de Janeiro, le invagdes di Salvador de Bahia,
i ge- cekondu (letteralmente, costruito di notte) di Ankara, i bastees di Calcutta, gli eski- nita di Manila, i ranchitos di
Caracas, le ciudades perdidas di Città del Messico, i mussequés di Luanda, gli ash-shamsa (ovvero, quelli che vivono
sotto il sole) di Khartoum, le townships di Johannesburg (da cui il noto quartiere di SOWETO: South West townships), i
kébé di Nouakchott, i barrios piratas o tugurios di Bogotá. . Bidonville era infatti il nome di un quartiere sorto a
Casablanca, nel corso degli anni 1920, sul sito di un accampamento fatto con baracche erette da immigrati di origine
rurale che utilizzarono i materiali di scarto Questa parola avrà «successo» e diverrà ben presto un nome generico. .
Le bidonvilles diventano di fatto una vera e propria tipologia dell’urbanizzazione, una categoria denominativa di una
parte della città che in molti casi le amministrazioni coloniali hanno avuto un ruolo decisivo, in quanto le bidonvilles
sono state di volta in volta spostate, riorganizzate, separate in blocchi per ragioni di igiene e di sicurezza. Tali
operazioni hanno prodotto esempi di bidonvilles municipali o private, dove gli abitanti pagano un vero e proprio affitto
per il terreno o le baracche. Dagli anni 1950, il termine bidonville sarà adottato in Francia, dove un’inchiesta del
Ministero degli Interni identifica ufficialmente con questo nome un centinaio di siti soprattutto nella regione parigina
(Nanterre, La Coumeuve) o in città come Marsiglia, Lione, Tolosa. Poi il termine diventa progressivamente di uso
universale e viene adottato in diverse lingue. Dagli anni Cinquanta, il dibattito sulla funzione sociale delle bidonvilles
comincia ad animare discussioni, facendo emergere due posizioni principali: da una parte gli insediamenti precari sono
considerati come luoghi della marginalità sociale, . Dall’altra parte, alcuni autori hanno segnalato che troppo spesso le
analisi sulle bidonvilles si sono affrettate a qualificare le popolazioni che vi risiedono come marginali. Alcune inchieste
hanno persino dimostrato che anche i ricchi possono abitare in bidonvilles, sebbene in alcuni casi esse siano provviste
di servizi (scuole, acqua, luce, fogne, trasporti). Le problematiche di sviluppo in ambito urbano, tuttavia, non si
esauriscono nella presenza di condizioni d crescente indigenza e povertà urbana. Riprendendo un approccio
contemporaneo allo sviluppo, ed in particolar modo l’approccio di Sen in cui lo sviluppo viene letto in termini di
possibilità (capabilities), risulta evidente come un’ampia parte della popolazione presenti difficoltà ad accedere allo
stesso livello di possibilità, vivendo in maniera marginale la dimensione urbana. All’interno di un ambito urbano,
quindi, sono presenti differenti forme di marginalità e quindi di differente livello di sviluppo, che dalla povertà
possono estendersi alla assenza di inclusione nelle principali attività quali la partecipazione attiva alle decisioni sociali,
la condivisione di responsabilità politiche, ma anche l’inserimento all’interno dei fenomeni culturali, sportivi ecc. Un
terzo elemento centrale all’interno delle relazioni tra sviluppo ed ambito urbano è data dalla sua visione relativa. La
contrapposizione di differenti possibilità in un contesto spaziale ristretto porta alla presenza di contrapposizioni
costanti. La minore possibilità di partecipazione alle attività sociali, la minore disponibilità di risorse, costituiscono
quindi, anche se non in termini oggettivi, una diversa di percezione per una crescente parte della popolazione, del
proprio status: pur in possesso di elevate disponibilità (ad esempio in confronto ad altri territori), quindi, una parte
crescente di popolazione soffre di situazioni assimilabili al minore sviluppo solo dalla sua conclamazione in termini
relativi.

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