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Terza lezione

Collegandomi a tutto ciò che ho spiegato la volta scorsa riguardo al modo in cui vanno intesi i
concetti di cultura e identità culturale nel mondo globale in cui viviamo, cercherò oggi di collegare
quei temi ad un discorso relativo all’uso che, nella società di massa, viene fatto delle tradizioni
popolari locali, di quei tratti culturali che in passato potevano essere considerati come sistema
culturale delle classi subalterne contadine ma che, attualmente, con le modificazioni profonde della
nostra società, assumono nuovi significati, nuove funzioni, nuovi usi.
Ho già messo in evidenza come una delle preoccupazioni fondamentali dell’antropologia culturale
sia stata, soprattutto negli anni ’70, quella di uno studio delle particolarità culturali volto alla
conservazione e alla valorizzazione di esse contro l’omologazione, l’appiattimento imposto dalla
cultura di massa. F. Dei fa riferimento ad un convegno tenutosi a San Casciano Val di Pesa, in
Toscana, nel 1984. Da quell’esperienza e da tante altre che, nello stesso periodo, avevano luogo in
altri contesti territoriali locali in Italia, in Europa in generale, emergeva un panorama di persone e di
istituzioni impegnate in ricerche sulle tradizioni popolari, animate da un’esigenza che aveva una
spinta “dal basso”, che proveniva dalle comunità locali, da un desiderio di riscoperta delle proprie
radici culturali, del rapporto con la natura, di capacità artigianali che andavano scomparendo in un
mondo sempre più automatizzato, del passato in generale. Un’esigenza che veniva raccolta dagli
studiosi, anche a livello universitario, i quali si impegnavano in queste ricerche con obiettivi di
carattere educativo rivolti alle popolazioni locali (cfr. Dei 2002: 30). In quegli anni fiorivano musei
di tradizioni popolari, raccolte di documenti orali, spettacoli; vi era una comunità di intenti che
legava studiosi, amministrazioni locali e gli stessi portatori della cultura folklorica che si cercava di
recuperare, di salvare dall’oblio.
Oggi il clima culturale è molto cambiato, il tema dell’educazione delle masse è completamente
scomparso dagli obiettivi degli Enti locali, degli Assessorati alla cultura e questi ultimi sono sempre
abbinati agli Assessorati al turismo. Questo determina conseguenze di vasta portata su quello che è
l’uso pubblico della cultura popolare, essa da oggetto di studio, di riflessione, da strumento di
resistenza culturale, diviene risorsa da sfruttare in relazione ad un suo ritorno turistico. In
quest’ottica non sarà più tutto il complesso di una cultura tradizionale locale, la sua logica interna, il
suo funzionamento, le relazioni esistenti tra tutti i suoi aspetti che interesserà valorizzare, ma
saranno soltanto gli aspetti vendibili al turista. F. Dei accenna al tema dei musei di tradizioni
popolari, oggi molto diffusi sul territorio italiano, sono tantissime le piccole comunità che hanno un
museo della civiltà contadina. Il museo è divenuto la forma privilegiata di conservazione e
valorizzazione del folklore, l’unica forse che consente di coniugare il livello della ricerca
approfondita con il consumo turistico, in quanto permette di trasformare una cultura diffusa sul
territorio in qualcosa di catturabile dallo sguardo che è la modalità percettiva per eccellenza del
turista. Il problema, in questa situazione, è che la nostra stessa percezione del territorio e della
cultura alla quale apparteniamo si plasma sullo sguardo turistico (cfr. Dei 2002: 33), e il turismo di
massa, come la diffusione dei media, come le migrazioni internazionali, è un altro fattore che ha
cambiato la nostra prospettiva sul mondo, è strettamente legato allo sviluppo di quella dimensione
culturale, sociale, economica globale in cui viviamo. Ecco quindi che ritorniamo al discorso
sull’identità culturale che si plasma in rapporto all’alterità, in rapporto a ciò che è altro da sé. F. Dei
parla dell’identità culturale toscana affermando che essa si è definita, si è formata sulla base degli
sguardi ammirati dei turisti stranieri. Preoccupazione principale degli amministratori locali di quella
regione è diventata la stabilità di quello scenario visto da fuori, creare l’immagine da cartolina senza
troppo occuparsi di ciò che realmente accade nell’immaginario di quelle persone che, di fatto,
vivono dentro quella cartolina. Quale è il rischio in una simile situazione? Il rischio è che l’identità
culturale toscana, sottratta al suo divenire storico, ai processi di mutamento che inevitabilmente
avvengono nella realtà, si è trasformata in un’icona, in una scenografia ormai talmente sfruttata dai
mass media, dalla pubblicità, tanto da diventare immagine abusata che, prima o poi, dal momento
che è diventata oggetto di consumo, qualcosa da vendere, sarà appunto completamente consumata e
gettata via (cfr. Dei 2002: 34). Un altro rischio che forse non riguarda la cultura locale toscana, ma
può riguardare altre situazioni è che, come dicevamo la volta scorsa, la fossilizzazione dell’identità
culturale intorno ad alcuni fattori, ad alcuni dati specifici, che possono essere le presunte origini
pagane, agresti o medievali di feste popolari, sagre, riti ecc. porta alla creazioni di autenticità
culturali fittizie e, in alcuni casi, all’emergere di pericolosi particolarismi. Certamente in Italia, per
specifiche cause storiche, c’è una percezione dell’identità culturale regionale o locale che spesso è
più forte rispetto al senso di identità nazionale e questo si basa, come dicevo, su una realtà storica e
antropologica concreta. Parlare quindi di particolarità culturali, nel contesto italiano, ha senso dal
punto di vista scientifico. Tuttavia troppo spesso, ormai, si sente parlare di “identità locale” in
discorsi dove sembra assumere il senso “identità etnica”, discorsi che partecipano della stessa
ambiguità etica e politica di quelli che partendo dall’elogio della propria differenza, della propria
particolarità culturale, arrivano al rifiuto delle differenze altrui. Questo accade quando si privilegia
la conservazione di un certo dato culturale e intorno ad esso si costituisce l’immagine di un’identità
stabile nel tempo a scapito di una visione interattiva e dialogica del rapporto che le diverse culture
hanno tra loro. Ho già spiegato come l’identità sia da intendersi non come essenza, ma come
processo in continua evoluzione e perché se ne parli tanto nella società attuale: il problema della
propria identità, il conflitto tra identità e alterità, da sempre presente in tutte le culture umane, oggi
è in atto in modo particolare, dal momento che gli altri sono diventati improvvisamente troppo
vicini. A livello locale, nell’ambito di quelle comunità che fino agli anni ’60-’70 gli antropologi
italiani che si occupavano di folklore definivano “comunità rurali”, comunità in cui la dimensione
culturale tradizionale prevaleva su quella moderna, oggi le tradizioni locali diventano uno dei fattori
intorno ai quali si costituisce l’identità collettiva. Come però, in antropologia, negli ultimi anni si è
aperto un dibattito che ha portato a ridefinire i concetti di cultura e di identità, altrettanto dobbiamo
sottoporre a critica il concetto di tradizione. Cosa intendiamo quando parliamo di tradizione? Che
cosa è la tradizione? Dal momento che cerchiamo di comprendere scientificamente il mondo in cui
viviamo, anche le categorie che utilizziamo per spiegare certi fenomeni devono essere definite
scientificamente. Ho già spiegato come l’interesse degli studiosi per il folklore, per le tradizioni
popolari, sia nato in Europa tra il 1700 e 1800. Nel periodo in cui la cultura europea diviene
consapevole della propria modernità, si scopre il pre-moderno, il tradizionale, qualcosa che non fa
parte della cultura moderna. L’Europa moderna scopre, cioè, il proprio opposto, l’altro da sé,
un’alterità interna a se stessa. In quel periodo storico l’Illuminismo settecentesco o il positivismo
dell’800 ritenevano che tutte le società, attraverso le tappe del progresso scientifico e tecnologico,
sarebbero entrate nella dimensione culturale moderna, caratterizzata dal pensiero razionale,
progresso, ordine, identificazione in uno Stato nazionale che avrebbe conciliato il bene pubblico
con quello privato. Tutto ciò che era pre-moderno, le culture folkloriche europee, le culture
etnologiche extra-europee, apparivano come residui del passato. Il nostro senso comune, il nostro
linguaggio quotidiano, quello che utilizziamo nelle conversazioni della vita di tutti i giorni è ancora
profondamente influenzato da quella visione. Quando parliamo di tradizione, di tradizionale,
intendiamo sempre qualcosa che ha uno stretto legame con un passato, spesso anche molto remoto,
e che si mantiene identica nel tempo, che resiste immutata a dispetto di tutte le modificazioni che
avvengono nella realtà circostante. Quanto ciò sia, di fatto, poco vero appare evidente a chiunque
studi fenomeni tradizionali attraverso il metodo antropologico, attraverso la ricerca sul campo,
osservando e partecipando ad essi, intervistando gli attori sociali, le persone che vivono quei
fenomeni. Innanzi tutto, attraverso la ricerca sul campo, si esce da quella concezione illuministica o
positivista del cammino della modernità che procede come fenomeno compatto e si sostituisce,
prima o poi, alle culture preesistenti. Come dicevo tutti siamo più o meno immersi in questa
visione, della quale possiamo avere un’immagine positiva o negativa, cioè possiamo vedere in
questo entrare a far parte della modernità un progresso per i popoli che lo vivono, o un regresso in
quanto comporta un abbandono di caratteristiche culturali. Nella realtà della ricerca sul campo
appare però evidente come la modernità proceda in modo diverso da quello indicato dai filosofi e
dai sociologi del passato. Per questo parliamo di società post-moderna per indicare quella in cui
oggi viviamo, una società in cui tradizione e modernità non rappresentano due fasi temporali o due
sfere culturali distinte, una anteriore e una posteriore, ma due dimensioni compresenti, che
convivono e si influenzano l’una con l’altra. Per questo affermavo che, oggi, non possiamo più
intendere la tradizione come insieme di fatti che derivano direttamente dal passato. C’è un legame
molto stretto della tradizione con la modernità, la modernità modella la tradizione nel senso che ciò
che viene trasmesso di tutto l’insieme di una cultura tradizionale sono solo quegli elementi che
continuano a svolgere una funzione nella società attuale. Spesso si tratta di elementi che addirittura,
rispetto al passato, cambiano significato e funzione sociale perché nulla che non abbia una funzione
anche nell’attualità viene trasmesso. Tutto ciò che perde significato e funzione decade, viene
abbandonato. Oppure viene rifunzionalizzato. Quindi si può arrivare ad affermare che non è il
passato che crea il presente, ma il presente che crea il passato, che del passato sceglie alcuni tratti e
non altri, che li trasforma in base alle esigenze attuali, che su di essi crea un’identità culturale. La
tradizione comunemente intesa non esiste, è un invenzione culturale, così come invenzione,
processo dinamico continuo è l’identità. Capisco che ciò che vado dicendo possa mettere in crisi
alcune vostre certezze, che vi possa dispiacere abbandonare la visione delle tradizioni popolari
come autenticità, legame diretto e indissolubile con il passato, immagino che forse è stato un
interesse in questo senso che vi ha portato a scegliere di seguire una materia che si chiama Storia
delle tradizioni popolari e che magari ora vi troviate di fronte a qualcosa di diverso dalle vostre
aspettative. Questo non lo penso perché vi considero sciocchi, ma perché io stessa ho faticato ad
uscire dal senso comune relativo a ciò che è tradizione. Come testo d’esame vi ho proposto il mio
libro sul pellegrinaggio di San Vivenzio e l’ho messo in programma dopo diverse incertezze proprio
perché quel testo la cui pubblicazione risale ormai a dieci anni fa era la mia tesi di laurea, la mia
prima ricerca sul campo e io stessa, a quel tempo, non ero ancora completamente uscita dalla
concezione tradizionale della tradizione. Rileggendolo oggi, vorrei scrivere in modo diverso alcune
parti, dare maggior risalto agli aspetti di cui vi ho parlato. Dopo vari ripensamenti ho deciso di
inserirlo nel programma d’esame come esempio di ricerca sul campo di tipo antropologico, ossia
come esempio concreto di come si svolge il lavoro dell’antropologo.
Per ciò che riguarda il mio modo di leggere le tradizioni popolari in dieci anni qualcosa è cambiato,
ma non è cambiato solo in me, è cambiato nell’antropologia in generale, è cambiata la società in cui
i fenomeni tradizionali operano. Essi vanno sempre intesi in rapporto con l’attualità, anche quando
questo mette in dubbio sicurezze acquisite. Su questo aspetto dello studio antropologico considero
fondamentale ciò che scriveva Ernesto De Martino già nel 1960, grandissimo demologo italiano che
si è occupato della cultura tradizionale del meridione d’Italia, del tarantismo, del lamento funebre,
delle pratiche magiche popolari. Chi ha frequentato il primo modulo ha avuto modo di vedere il
documentario sulle sue ricerche, documentario che avrei voluto riproporre anche in questo corso
ma, non essendo riuscita ad ottenere l’aula con il videoregistratore, non potrò farlo. Chi ha visto
quel documentario ha ben presente quanto uno studio scientifico di certi fenomeni culturali porti
lontano da una visione idillica, nostalgica, del folklore. De Martino è molto chiaro nel denunciare la
drammatica condizione di subalternità sociale, economica, culturale delle classi contadine del sud
d’Italia. E’ da quella condizione di subalternità che hanno origine certi fenomeni culturali. Noi oggi
possiamo appassionarci o divertirci all’ascolto di certe musiche tradizionali, a guardare o eseguire
certe danze popolari come la tarantella. Ma se leggiamo il testo di De Martino La terra del rimorso
(1961), il suo studio sul fenomeno del tarantismo, comprendiamo come, negli anni in cui lui
scriveva, nel periodo in cui conduceva le sue ricerche etnografiche, per le tarantate, per chi
insomma viveva quel fenomeno, non fosse certo per divertimento che si danzava la tarantella. Con
questo non voglio dire che la tarantella autentica è quella del passato e che quella attuale è una
mistificazione, nemmeno voglio dire che quella attuale ha un legame diretto con quella passata. Ciò
che vorrei far capire è che bisogna uscire dall’ottica di cosa sia autentico e cosa non lo è: i due
fenomeni, la tarantella attuale e quella di una volta, hanno indubbiamente dei legami, sono in
rapporto l’uno con l’altro ma, al tempo stesso, sono due oggetti distinti, perché diversi sono i
significati, la funzione culturale, diverso è l’uso che ne fa la società che li mette in atto. Non entrerò
oggi nel discorso sul tarantismo, perché probabilmente il tema verrà trattato la prossima settimana
durante l’incontro con i regista Cannizzaro, che mostrerà dei documentari sulle musiche e danze del
Salento. Vi invito invece a partecipare a questo incontro tenendo presente ciò che ho detto oggi
riguardo alla necessità di sottoporre a critica il nostro concetto di tradizione. E voglio leggervi ciò
che De Martino scriveva a proposito della ricerca etnografica: “L’umanesimo etnografico è in un
certo senso la via difficile dell’umanesimo moderno che, mediante l’incontro sul terreno con
umanità viventi, si espone deliberatamente all’oltraggio delle memorie culturali più care: chi non
sopporta questo oltraggio e non è capace di convertirlo in esame di coscienza, non è adatto alla
ricerca etnologica”. Questo De Martino lo scriveva nel 1960, parlava di “oltraggio delle memorie
culturali più care”, parlava di “esame di coscienza” molto tempo prima che l’antropologia iniziasse
a rivedere criticamente i concetti di identità e tradizione. Arrivare oggi alla consapevolezza che non
è il passato che crea la tradizione, ma è il presente che rimodella il passato in base alle sue esigenze
può essere un oltraggio alla nostra memoria culturale, ma è un oltraggio necessario ad una
comprensione critica della realtà in cui viviamo.

OK
Nel capitolo Tradizione e modernità Fabio Dei affronta da diverse angolazioni il problema del
rapporto tra folklore e società moderna; centrali nella sua argomentazione sono le questioni relative
alla cultura di massa che caratterizza la contemporaneità. Negli anni Settanta gli studiosi che si
interessavano di folklore vedevano in questa espressione culturale la contrapposizione estetica,
morale e politica al dilagare della cultura di massa, dell’industria culturale, definita come l’opposto
della vera cultura popolare, come qualcosa che non è prodotto dal popolo per il popolo, ma è
prodotto dalle classi dominanti al fine di mantenere le classi popolari nella loro condizione di
subalternità. Una produzione culturale artificiosa, banale e conformista, creata con lo scopo
specifico di annullare la coscienza di classe, un oppio che rende accettabile la repressione (cfr. Dei
2002: 63).
Il disgusto del mondo intellettuale di allora nei confronti della cultura di massa nasceva dalla
sociologia critica degli anni Sessanta e Settanta, dalle posizioni della Scuola di Francoforte, di
Roland Barthes, di alcune correnti americane che compresero l’importanza che l’industria culturale
andava assumendo nelle società a capitalismo avanzato e sottoposero ad analisi scientifica e critiche
le sue produzioni: programmi televisivi e radiofonici, un certo tipo di riveste popolari e di
produzione cinematografica, la pubblicità, tutto veniva preso in esame come sintomo della
modernità. Per Adorno ed Horkheimer (Scuola di Francoforte) questo tipo di prodotti sono l’antitesi
alla vera cultura, strumento di adattamento forzato per soggetti sempre più repressi, mutilati delle
loro facoltà intellettuali. La cultura di massa si andava diffondendo proprio in quegli anni e oggi
dilaga ovunque, anche al di fuori della società occidentale che l’ha creata. Le analisi elaborate
intorno ad essa sono un aspetto molto importante della storia del nostro pensiero, fanno parte del
corredo culturale delle contestazioni del Sessantotto, rappresentano la coscienza critica della società
occidentale. Il loro approccio, tuttavia, è parziale: si concentrano esclusivamente sul contenuto dei
prodotti dell’industria culturale e non si interessano invece della loro fruizione, cioè di come e da
chi essi vengono consumati, né delle pratiche sociali che si sviluppano intorno a questo consumo.
Questi studi presuppongo che gli individui, di fronte allo strapotere comunicativo della cultura di
massa, siano sempre recettori totalmente passivi, condannati a subire passivamente quell’influenza
egemonica, funzionale al dominio capitalista. Un presupposto che ha contribuito a generare la crisi
della demologia alla fine degli anni Settanta, quando cioè la cultura delle classi subalterne è
diventata quasi interamente cultura di massa. Con la diffusione capillare della televisione
scomparivano le forme tradizionali di socialità, di trasmissione culturale, di un’autonoma
produzione culturale dal basso. Diventava quindi impossibile continuare a parlare del folklore come
forma di resistenza, di opposizione a quella egemonia. (cfr. Dei 2002: 64-65).
Cambiando però il presupposto che è alla base delle osservazioni sul funzionamento dell’industria
culturale, quello cioè della ricezione passiva del messaggio, è possibile aprire inediti ambiti di
ricerca per la demologia. Se spostiamo l’attenzione dal momento della produzione culturale di
massa, che come dicevamo è egemonico, messo in atto dalle classi dominanti per un popolo che
deve restare classe subalterna e, invece del momento della produzione, prendiamo in esame quello
del consumo possiamo rileggere la teoria di Gramsci sui rapporti tra classi sociali e cultura sul piano
delle diverse modalità di ricezione e di risposta ai prodotti omologati dei mass-media (cfr. Dei 2002:
74).
Collegandomi a queste osservazioni, ribadisco quindi la necessità, propria dell’indagine
antropologica, di verificare, confermare o correggere qualsiasi elaborazione teorica attraverso la
ricerca etnografica. Praticando la ricerca sul campo appare certamente evidente, da una parte,
l’enorme diffusione dei messaggi della cultura di massa anche nelle aree più periferiche, dall’altra
tuttavia, si percepisce come non vi sia in realtà quella totale ricezione passiva, quella totale
omologazione ipotizzata dai teorici del funzionamento dell’industria culturale. Ognuno reagisce ai
messaggi che riceve in modo diverso a secondo della cultura di partenza, della propria identità
culturale. Valori culturali appresi nel gruppo d’origine e valori culturali imposti dall’alto creano
combinazioni diverse, proprio perché, come già affermato, l’identità culturale è un processo
continuo che, in particolare, è caratterizzato dall’incessante tentativo di creare un ordine coerente
tra ciò che è appreso dall’infanzia e ciò che si aggiunge dopo. Questi ultimi fattori non possono
annullare quelli precedenti, si combineranno con essi dando luogo ad identità individuali e collettive
inedite, impreviste e imprevedibili.
Generalizzando, possiamo affermare che l’attenzione al momento della fruizione e alle pratiche del
consumo della cultura di massa caratterizza la scuola di Birmingham e i cultural studies britannici
che, partendo anche essi dall’interpretazione di Gramsci, risolvevano in modo diverso, rispetto alla
tradizione italiana, il problema del rapporto tra differenze di classe sociale e differenze culturali.
Essi appunto, nel definire ciò che è popolare, spostano l’attenzione dal momento della produzione a
quello del consumo della cultura, dall’analisi contenutistica dei prodotti dell’industria culturale
all’analisi delle pratiche sociali che hanno a che fare con la loro fruizione. E’ quindi nelle concrete
pratiche sociali del consumo che passano e si definiscono le dinamiche tra egemonico e subalterno.
Stuart Hall, già all’inizio degli anni ’70, sottolineava come ci fosse una fondamentale asimmetria tra
i processi di codificazione dei messaggi dell’industria culturale da parte di chi li produce e la
decodificazione di essi da parte di chi li consuma (cfr Dei 2002: 77). Ciò che viene messo nel
messaggio non coincide necessariamente con ciò che ne viene estratto. E’ l’appartenenza a
determinati gruppi sociali, la condivisione di un certo quadro di riferimenti culturali che produce
una lettura preferita. Nell’ambito dei cultural studies verranno quindi attuati specifici programmi di
ricerca empirica su quelle “subculture” che influenzano la produzione del significato da parte dei
consumatori e per “subcultura” possiamo intendere un quadro di riferimenti culturali, appresi nel
gruppo sociale di appartenenza, diversi da quelli della cultura ufficiale. Da queste osservazioni
deriva che, nella realtà sociale e antropologica, esistono modalità eterodosse ed antagoniste di
consumo da parte di gruppi sociali subalterni rispetto al blocco di potere (cfr. Dei 2002: 78).
Nelle società a capitalismo avanzato sono ormai estremamente ridotti gli ambiti autonomi di
produzione di merci o di prodotti culturali; nelle società tradizionali, al contrario, tutto ciò che
veniva consumato era prodotto in proprio dal nucleo familiare. Il lavoro agricolo e l’allevamento di
piccoli animali domestici forniva il cibo; anche la biancheria della casa contadina derivava dal
lavoro dei campi, si coltivavano infatti canapa e lino che, attraverso complesse operazioni di
trasformazione della materia prima, divenivano filato e tessuto. Erano tutte operazioni svolte dal
gruppo familiare, che era quindi completamente autosufficiente per quanto riguardava produzione e
consumo. Pochissime erano le merci che venivano acquistate e, comunque, non si trattava quasi mai
di prodotti finiti, si potevano acquistare stoffe per cucire in casa abiti o lana per realizzare maglie.
Un sistema economico radicalmente diverso da quello attuale in cui, invece, tutti siamo
esclusivamente consumatori, salvo rarissime eccezioni nessuno riesce, infatti, a produrre tutto ciò
che necessita alla vita quotidiana.
Siamo quindi immersi in flusso di prodotti materiali e culturali che, tuttavia, non può essere
considerato come il fronte compatto di un’unica cultura che annulla tutte le altre. Esso andrà invece
letto, secondo quanto afferma John Fiske, come una materia prima che viene acquisita in modo
diverso secondo l’appartenenza sociale e culturale (cfr. Dei 2002: 79). Indagando quindi i contesti
locali, i microprocessi che, nella quotidianità, caratterizzano la fruizione di questi prodotti, si apre
un campo di ricerca nuovo per la demologia: lo studio e la descrizione delle pratiche sociali del
consumo.
Fiske afferma anche che: “il fatto che le persone non producano e non facciano circolare da sole le
proprie merci, non significa che la cultura popolare non esiste, la creatività della cultura popolare
oggi consiste non tanto nella produzione di merci, quanto nell’uso produttivo delle merci industriali.
La cultura della vita quotidiana consiste nell’uso creativo e discriminante delle risorse che il
capitalismo mette a disposizione” (cfr. Dei 2002: 80).
Trovo particolarmente interessante questa affermazione di John Fiske e ad essa posso ricondurre
alcuni fenomeni che io stessa ho osservato. Durante la ricerca svolta per la tesi di dottorato (vedi
pag…), nel corso di un’intervista ad un’anziana emigrata di ritorno, ho raccolto questa
testimonianza in cui si fa esplicito riferimento ad un tipo di consumo culturalmente orientato: “ho
messo da parte, non è che lui [il marito] portava lo stipendio e io andavo a comprare la pelliccia.
Mia cognata si è fatta due o tre pellicce, sai lei era di Roma, io invece che venivo dal paese mi
bastava un collo di pelliccia, non mi ci voleva la pelliccia intera (…). I miei cognati facevano la
vita da romani (…) giornalmente mangiavano meglio di noi. Noi più alla paesana. La carne tutti i
giorni non la prendevo proprio. Loro facevano proprio una vita diversa, perché i fratelli di mio
marito hanno sposato tutte donne di Roma e sono diventati romani. Poi gli piaceva divertirsi,
andavano in vacanza al mare. Io in vacanza tornavo a casa” . Questa donna di 80 anni, nel
racconto della sua esperienza di emigrazione, insisteva particolarmente sul suo “essere di paese”
come giustificazione di un particolare stile di vita, legato ad un’identità culturale che indirizza
l’esistenza anche per ciò che riguarda le spese per le vacanze o l’acquisto di certi capi
d’abbigliamento o di certi alimenti e non di altri. Più in generale, tutta l’impostazione del suo
discorso lasciava emergere come questa identità culturale fosse percepita come qualcosa che
impediva l’omologazione in un'uniformità di pensiero e pratica, come espressione della propria
particolarità. Ma, come già affermato nel precedente capitolo a proposito del processo di
costruzione dell’identità, la stessa consapevolezza della diversità nasce, come si può notare nel
discorso di questa donna, dal confronto, dalla contrapposizione tra culture differenti o tra i portatori
di culture particolari. Nel suo racconto, il discorso si conclude, infatti, con una serie di affermazioni
in cui appare evidente il confronto continuo con l’ambiente urbano in cui è vissuta, ma a cui si sente
estranea. Questa estraneità, questa differenza viene da lei giustificata con l’adesione a valori appresi
nel luogo d’origine, valori che la rendono invece parte (insieme alla sua famiglia) della comunità di
origine con la quale, nonostante il percorso di vita diverso, condivide un’identità culturale e, anche
in questa seconda affermazione, il suo discorso torna sul tema del consumo: “io penso che mia
madre mi ha insegnato bene, come ha fatto lei ho fatto io, anche se io ho avuto più possibilità. Lei
ha lavorato tanto, sempre, quando ha avuto la pensione le sembravano soldi trovati, piovuti dal
cielo. Certo, io alle mie figlie non avrò fatto la pelliccia o altri lussi, ma le ho fatte studiare fino a
quando hanno voluto, non le ho fatte rimanere indietro, rispetto al paese”.
Questa testimonianza, raccolta in un concreto contesto sociale ed antropologico, ci rimanda alle
osservazioni di John Fiske sulla creatività della cultura popolare che oggi non consiste più nella
produzione autonoma di merci o fatti culturali, quanto nell’uso produttivo delle merci industriali.
Siamo quindi tutti consumatori di prodotti industriali, ma ci sono modi diversi di consumare. Nel
caso che ho proposto si intravede ad esempio la tendenza a produrre soprattutto un risparmio
economico da utilizzare per un altro tipo di consumo, sempre culturalmente indirizzato, guidato
dalla cultura di riferimento, ossia l’investimento del denaro guadagnato durante l’emigrazione nella
costruzione di una casa nel paese di origine “non li ho buttati mai i soldi, avevamo un gruzzolo.
Prima abbiamo comprato la terra e poi costruito il rustico”.
Limitarsi a considerare soltanto i macro-processi della produzione di massa, con il loro carattere
globalizzante, omologante, egemonico, ci offre quindi una prospettiva solo parziale. L’altro versante
a cui dobbiamo guardare è quello dei micro-processi di “resistenza popolare” (così si esprime Fiske)
che pluralizzano i significati e sfuggono o resistono al disciplinamento (cf. Dei 2002: 80). La
subalternità, in questa prospettiva, non si definisce solo in termini di classe sociale ma attraverso
una rete complessa di identità, di appartenenze culturali che comprendono lo status sociale, la
condizione economica e lavorativa, il sesso, l’età, l’origine etnica. Anche la presenza, nella nostra
società, di immigrati stranieri con un’appartenenza culturale diversa dalla nostra crea nuove forme
di subalternità che vanno oltre l’opposizione gramsciana tra classi dominanti borghesi e classi
dominate contadine (cfr. Dei 2002: 81). Stuart Hall parla quindi di “gente contro il blocco di potere”
come della contraddizione intorno a cui si polarizza, oggi, il terreno della cultura popolare e John
Fiske fa propria questa prospettiva osservando come la vita culturale nelle società complesse tardo-
industriali sia percorsa da una tensione continua tra le istanze di controllo e di disciplina promosse
dal blocco di potere e incorporate dai prodotti dell’industria culturale e le micro-resistenze opposte
nell’ambito del consumo e della quotidianità dalla gente, dai gruppi subalterni che non possono
però essere identificati rigidamente, ma si definiscono volta per volta in quella rete di differenze
irriducibili che persistono nelle società complesse nonostante le strategie globalizzanti e omologanti
del tardo capitalismo, differenze che anzi prosperano e si alimentano per mezzo della stessa materia
prima prodotta dall’industria culturale.
La prospettiva dei cultural studies britannici consente di ampliare verso la modernità lo studio della
cultura popolare, partendo dalle stesse basi gramsciane del dibattito italiano e suggerendo lo
sviluppo di una etnografia della quotidianità, indispensabile per affrontare il problema delle identità
culturali nelle società complesse (cfr.Dei 2002: 81-82).
La creatività della cultura popolare, oltre che nell’uso creativo e discriminante dei prodotti
industriali, può anche essere osservata nel modo in cui viene utilizzato e consumato il tempo libero.
Un interessante ambito di ricerca è quello dell’impiego del tempo libero nella ripresa, nel recupero
consapevole di tecniche manuali tradizionali, che non possono essere considerate lavori in senso
moderno perché, nella nostra società, non producono reddito: piccoli lavori di falegnameria, attività
artigianali femminili come il ricamo e il lavoro a maglia, la coltivazione di orti o giardini. Nelle
zone extraurbane, in quelle aree in cui l’agricoltura era, un tempo, l’attività economica principale
molti impiegati, dopo l’orario di lavoro, si dedicano alla coltivazione di piccoli oliveti o vigneti.
Molta antropologia contemporanea considera queste attività come caricature del vero lavoro
tradizionale che, al contrario di quello moderno automatizzato, impegnava in modo equilibrato le
varie facoltà umane (occhio, mano, mente). Si tratterebbe quindi di pratiche sostitutive in una realtà
che non dà spazio a certi bisogni naturali degli esseri umani.
Eppure si potrebbe vedere in esse dei modi di valorizzazione culturale del lavoro, al di là della sua
stretta razionalità economica (cfr.Dei 2002: 92). Rappresenterebbero quindi una produzione di beni
materiali con un valore non economico ma culturale, pertanto estranea ed oppositiva alle logiche
della cultura di massa. Anche in questo aspetto si manifesterebbe l’autonomia creativa della cultura
popolare, in una forma di consumo antagonista ed eterodossa non solo di prodotti industriali, ma
anche del tempo libero. Si tratta di attività che, per un verso, possono essere viste come resistenza di
tratti tradizionali, tuttavia appare evidente il loro cambiamento di significato nella situazione
attuale, c’è quindi il legame con il passato, ma è presente, in modo molto marcato, il legame con la
modernità che ha trasformato questi elementi tradizionali in qualcosa di nuovo. Nelle piccole
comunità che vivevano di agricoltura, dagli anni ’60, con la fine del ruolo economico primario della
terra, che era mezzo, ma anche luogo di produzione, si è innescato il fenomeno dell’emigrazione e
del pendolarismo. Oggi, in queste stesse comunità che non vivono più di agricoltura ma di redditi
derivanti dal settore terziario, sembrano realizzarsi delle sintesi tra vecchio e nuovo: la terra torna
ad essere un valore di riferimento, ma non è più un’attività primaria, è un attività part-time. È un
valore quindi che non ha ormai ragione di essere sul piano economico e rientra nella sfera del
simbolico. L’antropologia mette tuttavia in evidenza come, per la specie umana, concreto e
simbolico abbiano la stessa rilevanza culturale, in quanto l’uno si trasforma immediatamente
nell’altro e viceversa.

Per concludere, ribadisco il senso che, oggi, dobbiamo dare al concetto di tradizione. Essa va
studiata nel rapporto attuale con la società complessa in cui continua ad operare, se non siamo in
grado di leggere questo rapporto la tradizione, il folklore, diviene soltanto residuo del passato
destinato a scomparire. Ma è la realtà stessa in cui viviamo che ci mostra invece il contrario, cioè la
convivenza di tradizione e modernità nella società post-moderna, le loro influenze reciproche. Il
demologo si occuperà quindi sia degli aspetti passati, delle origini di fatti culturali classificabili
come tradizionali, sia del loro senso attuale. E si occuperà anche del nascere di nuove tradizioni, di
quei processi sociali che danno vita a ciò che, nel nostro campo disciplinare, si definisce neo-
folklore: una serie di fenomeni che, in passato, i folkloristi escludevano dai propri interessi di studio
proprio perché nuovi, non radicati nella storia di una comunità. Fenomeni come le sagre di paese, la
diffusione attraverso i mass media di tratti della cultura popolare, il revival. Realtà diffuse, per certi
aspetti generate dalla cultura di massa che trasforma tutto in prodotto di consumo, per altri versi
però nate da esigenze locali di rappresentazione della propria identità, nate da processi locali di
rielaborazione del proprio passato al fine di proiettare verso l’esterno l’immagine di una comunità
(cfr. Dei 2002: 87). Sono tutti aspetti da prendere in considerazione ed analizzare, spiegare
scientificamente, sempre con la ricerca sul campo, indagando cioè le motivazioni reali dei soggetti
coinvolti nei fenomeni. E’ sempre il contatto diretto con la realtà che ci può dare una visione chiara
di essa.

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