Narrerò brevemente le vicende di tre personaggi risorgimentali, che furono rispettivamente
un nonno, un padre ed un figlio, tre aristocratici di cui si sono perse le tracce sul piano documentario ma che ebbero un importante ruolo politico. I fatti che narrerò sono prioritariamente immaginari, per cui prendeteli per quello che sono sul piano storico. D’altra parte è giusto riempire i buchi neri che talvolta ci impediscono una lettura più attenta della nostra storia comune. Il racconto storico, seppur breve, può colmare lacune che la storiografia non può coprire. Lorenzo, il primo personaggio, nato intorno ne 1767, vive in una cittadina toscana, sin da giovane fu educato in seminario perché la sua famiglia, di antico retaggio, aveva sempre fatto della fede motivo di crescita sia spirituale che culturale e sociale. Non si trattò però di una fede “bigotta”. La sua famiglia appartenne a quelle frange della Chiesa romana che da sempre hanno perseguito un cammino verso il dialogo, il confronto, anche con altre fedi religiose, che si sono poste a loro modo in discussione, pur nella consapevolezza che al primo posto c’erano i valori della fede Cattolica romana. Il secolo dei lumi pose Lorenzo nella condizione di farsi domande e darsi risposte. La situazione famigliare lo metteva al riparo da possibili stravolgimenti sia politici che personali. Tuttavia, una volta entrato nell’esercito e raggiunto il grado di Capitano, Lorenzo, che presto si sposò secondo tradizione di famiglia, assunto il ruolo di capofamiglia per la legge sul maggiorascato, prese su di sé tutto il carico storico che gli competeva. Non c’era spazio per divagazioni sul tema. L’hobby preferito del nostro, diremmo noi oggi, la musica. Molti suoi amici e familiari erano noti musicisti, dediti sia al melodramma che alla musica sacra, anche questa d’antico retaggio. Furono i richiami artistici a dirigerlo al San Carlo di Napoli dove fece, giovanissimo, amicizia con Gabriele Rossetti, il celebre Vate, allora direttore del San Carlo. Rossetti non era un direttore qualsiasi, ma un uomo nuovo in mezzo ad uomini nuovi, in un meridione carico di spinte verso la modernità. Nei numerosi viaggi a Venezia, dove anche la Fenice era luogo elettivo, piuttosto che a Roma e Firenze, Lorenzo ebbe modo di far conoscere al Rossetti il dottor Gaetan Polidori di Bientina, località limitrofa a quella di origine del nostro. Polidori per ben quattro anni era stato Segretario personale di Vittorio Alfieri. Si reincontreranno a Londra, il Vate e il dottor Polidori qualche anno dopo, e qui il celebre artista e letterato sposerà la figlia del medico, Francis. Ormai si era fatto protestante ed era l’ esule patriota che tutti conosciamo. Lorenzo no, rimase in Toscana a curare la propria famiglia ed i suoi affari. Ebbe ancor giovane due figli maschi: il maggiore, Cesare nacque nel 1806 mentre Bartolomeo un anno dopo. Erano quelli gli anni in cui anche la Toscana divenne patria dei Bonaparte. Chissà se la famiglia di antico retaggio di Lorenzo aveva conoscenze pregresse con i Bonaparte medievali. Probabilmente sì, visto che anche la dinastia corsa dei Bonaparte vantava un retaggio toscano in San Miniato piuttosto che in Lunigiana, luoghi spesso visitati dai familiari di Lorenzo. Erano in rapporti di parentela, i Bonaparte, con i Calandrini, i riformati che nel Cinquecento dovettero fuggire a Ginevra ma che mantennero con l’Italia e la Toscana un ruolo privilegiato. E Lorenzo mai disdegnò la frequentazione dei Calandrini, in particolare di Matilde, la celebre educatrice e pedagogista. Per tutelare il patrimonio e soprattutto avendo abbracciato le idee giacobine Lorenzo divenne a breve un amante di Elisa Baciocchi, la sorella del Bonaparte. Per la verità la sovrana ebbe numerosissimi amanti, non ultimi i due celebri musicisti genovesi Paganini. Sia con Niccolò che col fratello, di cui le cronache narrano che il marito, il Principe Felice, fosse particolarmente geloso, mantenne contatti serrati. Anche Lorenzo a suo modo faceva parte della cerchia dei musicisti, ed è molto probabile che l’amicizia e l’intimità dei due si poggiassero su queste basi comuni. Poco importava se Elisa non privilegiava affatto la fede ed i valori cattolici, tanto cari a Lorenzo ed ai suoi familiari. I tempi erano cambiati, la stessa fede veniva vissuta in modo diverso rispetto al passato. Autentica spesso, ma con venature laiche ed anche profane. Lorenzo rimase molto legato alla sua famiglia nonostante la relazione, mentre le vicende politiche incalzavano. Re Gioacchino a Napoli non si mostrava reticente a tradire l’Imperatore. Tutti i Napoleonidi, una volta che Napoleone I° iniziò a vacillare, cercarono di mettersi al riparo. Ingrati sul piano umano, lungimiranti su quello storico. Lorenzo era in combutta con Torino e con casa Savoia. Aveva in Toscana come cugini dei conti Lazzari, come lui di antico retaggio, che avevano combattuto con Castruccio Castracani nella battaglia di Altopascio del 1325. Erano questi Lazzari a loro volta cugini dei conti Lazzari a Torino? Probabile. Ad ogni modo Lorenzo decise di far naturalizzare un patriota suo amico in Piemonte, con la complicità del Principe di Carignano, il futuro sovrano Carlo Alberto di Savoia, allora giovanissimo e giacobino, e del suo amico d’infanzia il conte Fabrizio Lazzari. Il padre di Carlo Alberto, Principe di Carignano, era stato in comunione con Vittorio Alfieri, e dunque con il dottor Gaetano Polidori cui ho fatto cenno. Viceversa Fabrizio Lazzari era nipote del più importante generale dell’esercito napoleonico di stanza a Torino, Alessandro Rege de Gifflenga. Cosa stava succedendo? Le varie dinastie si preparavano a ritornare sui vecchi troni, secondo quanto si prospettava a Vienna. Napoleone I° si trovava in esilio all’isola d’Elba, ed ancora si stavano studiando misure per tenerlo al suo posto. Egli, al contrario, preparava la sua fuga. Il 1° gennaio 1815, inizio del nuovo e cruciale anno, per perorare la sua causa personale e familiare Lorenzo chiese all’amico Ranieri Zucchelli, che da religioso viveva a Pisa ed aveva un ruolo in Duomo di assoluto rispetto, vicinissimo per giunta agli ambienti canoviani, di sostenerlo nelle sue manovre. - Stai tranquillo, Ranieri, il buon pastore d’Amico è non solo amico mio ma del conte Lazzari. Lui potrà sostenerci ed il conte Lazzari non si tirerà indietro! - . Questo il contenuto di una sua lettera inviata all’amico Ranieri da Empoli in quella fatidica data del 1° gennaio. Ranieri era stato suo compagno di studi in seminario e probabilmente la cosa andò in porto. Perché non avrebbe dovuto? Era attesa come imminente la fuga di Napoleone? Credo di sì, seppur non se ne conoscessero i particolari. Forse si pensava che l’ex Imperatore volesse preparare con assoluta accuratezza il suo piano di fuga. La cosa, viceversa, si rivelò più facile del previsto. Un amico di Lorenzo era e fu un agente al servizio dell’ex sovrano di Napoli Gioacchino Murat. Re Gioacchino cercò di riprendere contatti con Napoleone ma allo stesso tempo aveva anche sperato nella possibilità che il Congresso di Vienna gli lasciasse il trono. Poco lungimirante, re Gioacchino, che Napoleone, una volta a Parigi, non volle più ascoltare. Molto lungimirante l’amico di Lorenzo, l’agente Y. Quest’ultimo aveva grande dimestichezza con la nomenclatura inglese d’ impronta whig di stanza a Firenze, in particolare con Lord Holland, che poi seguirà a Londra, una volta caduta definitivamente la possibilità di re Gioacchino di ergersi a re d’Italia, nel 1815. E Lorenzo? Mantenne in vita i forti legami con i napoleonidi, a partire dal Principe di Canino, Luciano Bonaparte, e con tutti i circuiti democratici, persino d’impronta mazziniana. La dinastia Lorenese, che riprese in Toscana il suo posto, non poteva certamente, visto l’antico retaggio di Lorenzo e le comuni questioni, negargli l’immunità. E Lorenzo, per parte sua, continuò a tramare con i circuiti d’impronta moderata e non solo, in modo indistinto. I patrioti si recavano in Corsica, terra dei Bonaparte, dove anche Paolo Fabrizi da Modena, ormai mazziniano e carbonaro, prese a recarsi. Alcuni cugini di Lorenzo avevano rapporti di parentela con i fratelli Fabrizi. La situazione si fece dunque incandescente. Il figlio di Lorenzo, Cesare, divenne anche lui un acceso mazziniano. Si sposò giovanissimo e divenne padre di Giuseppe a soli venti anni, nel 1826. Si arruolò nelle fila degli “Amici del Popolo” di Domenico Guerrazzi e finì nel 1849 nella Firenze rivoluzionaria. Il padre Lorenzo, felice delle scelte del figlio, che erano in linea col suo pensiero politico, gli raccomandava però prudenza. Era necessario stare nelle fila democratiche, scopo prioritario dovevano restare però il bene della famiglia e della Nazione. Ma quale Nazione? Una Nazione geografica non politica, di stampo neoguelfo, soprattutto federativo. Se poi qualche sovrano della Penisola avesse trovato il modo di unificare quelle forze comuni, era certamente il benvenuto. Ma la pregiudiziale repubblicana d’impronta mazziniana rappresentava agli occhi di Lorenzo in particolare una velleità irraggiungibile, poco credibile. Questo non pensava Cesare, che credeva fermamente in tale possibilità. Dovette però fare i conti con le sue origini. I compagni d’avventura non si fidavano di lui. Egli per giunta era piuttosto veemente e pressato dal padre Lorenzo. Finì per commettere un atto sconsiderato che lo allontanò non solo dalla politica, ma da ogni velleità civile. Si salvò dalla prigione grazie all’antico retaggio ed alla consapevolezza delle autorità che accusare Cesare avrebbe significato mettere in gioco l’intera storia nazionale ed internazionale, tanto era il peso delle origini del nostro protagonista. Così ci si affrettò ad abbuiare la scena, a celare il celabile;. Cesare fu sempre perseguitato dal suo passato. Lorenzo morì nel 1854, circondato dai numerosi nipoti e da un futuro ancora incerto, pieno di incognite. Molto la famiglia spese per sostenere Giuseppe, figlio maggiore di Cesare, che aveva espresso la volontà di divenire pittore. Fu perciò inviato a studiare a Firenze, alla scuola di Giuseppe Bezzuoli. Ebbe come compagni di studi i grandi Giovanni Fattori e Telemaco Signorini. Anche Giuseppe era particolarmente dotato, ma non spregiudicato sul piano artistico come alcuni compagni. Vessato anche lui dai figli avuti in giovane età e da una condizione famigliare che si faceva ogni giorno più pesante, grazie anche alle questioni che investivano il padre Cesare. Non ebbe perciò il nostro una carriera spianata. Nonostante questo Giuseppe divenne piuttosto celebre, vinse un premio nazionale. I suoi quadri e le sue sculture erano particolarmente apprezzate in ogni dove, dentro e fuori la penisola. Aveva un particolare legame con Gino Capponi, il grande statista fiorentino, moderato ma allo stesso tempo aperto alle istanze della modernità. Condivideva con lui l’antico retaggio, i cavalierati medievali. Entrambi si interessavano di scavi archeologici. Ed infatti intorno al 1860 a Castelnuovo Garfagnana alcuni scavi riportarono alla luce scheletri appartenuti a cavalieri medievali che non rientravano nel cavalierato di Giuseppe, ma in quello del Capponi. I due condivisero queste ricerche. I Capponi avevano infatti tenuto nel Medioevo il Cavalierato del Tau come Gran Maestri. Non così gli avi di Giuseppe, che si rifacevano ad altra tradizione .Giuseppe in quel periodo dovette trasferirsi a Firenze per motivi professionali, nonostante la famiglia non potesse seguirlo, perché numerosa e desiderosa di mantenersi in loco. Si separò a fatica dagli affetti più cari. Il suo lavoro lo portava lontano. Come poter conciliare le questioni politiche, sempre impellenti, con una professione così impegnativa? Fu costretto a chiedere all’amico Telemaco Signorini di piazzargli alcune opere, perché sempre costante era il bisogno di denaro. Le fortune famigliari si andavano via via assottigliando. Una condizione di stress lo portò ancor giovane al decesso, avvenuto nel 1884. Lasciò all’attivo molti figli ed una fulgida carriera interrotta. Suo padre Cesare morì nel 1901, alla ricerca di una propria identità personale. Anche grazie al figlio,e forse proprio per questo. Era stato infatti Giuseppe così carico d’arte ed allo stesso tempo con quelle idealità moderate, rigurgito famigliare, che tanto pesavano nei ricordi personali al padre Cesare. Situazioni, quelle personali e generali, al limite del paradosso. Dove era finita Firenze? Dove era finita la natia Toscana? Dopo la brevissima parentesi in cui Firenze fu proclamata capitale d’Italia, di fatto nel dimenticatoio. Roma era stata spodestata dalle forze sabaude, quella Roma che comunque per la Toscana papalina aveva sempre rappresentato, nel bene e nel male, un punto di riferimento. E adesso? Si doveva ancora mediare, salvare il salvabile, cercare di ricucire strappi e lacerazioni a volte inconciliabili tra passato e presente. I nipoti poi non ascoltavano gli accorati appelli del nonno Cesare, il patriarca. Scrisse infatti all’amico di sempre, Tommaso Corsi, chiedendogli aiuto. Il Corsi, con un ruolo importante nella Società Nazionale, prodigo di suggerimenti e consigli verso l’amico Cesare. I suoi consigli e suggerimenti evidentemente non bastarono. Il nipote Roberto aveva intrapreso la carriera ecclesiastica, ad alti livelli, perché era uno studioso di fama. Si recò anche a Roma per proseguire i suoi studi ma qui, ormai trentaseienne ed appagato dalla vocazione abbracciata e dagli studi intrapresi, conobbe una giovane donna romana, di famiglia piccolo borghese, composta da tipografi e pubblicisti d’ambito papalino. Roberto volle sposarla comunque, nonostante l’opposizione del nonno. Cesare allora prese una decisione drastica: o lei o la famiglia. Roberto scelse la moglie ed i figli nati dal matrimonio, con tutte le conseguenze del caso. Cesare morì nel 1901 con molti rimorsi ma circondato anche dagli affetti più cari. Continuò infatti a mantenere serrati contatti sia con i cugini dei Principi Baciocchi, i Cattaneo di Corsica, celebri patrioti, sia con Carlo Matteucci, lo scienziato e con Riccardo Felici, amico e collaboratore del Matteucci, che lo sostituì in Pisa in qualità di Rettore dell’Università. Lo scienziato Riccardo Felici si diceva fosse il figlio naturale di Ugo Foscolo e della celebre Isabella Roncioni di Pisa, la Teresa delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis, così come anche una recente biografia suggerisce. Un mondo, quello di Cesare, ormai denso di nubi, di passato, ma anche d’importanti ricordi e suggestioni. Ognuno fece la vita che a suo modo desiderò. Ogni membro della famiglia seguì le sue passioni, in un crescendo di trasformazioni politiche e sociali. E le donne? Non compaiono mai, salvo la Sovrana Elisa, perché le donne avevano poca voce in capitolo, in realtà. Queste erano essenzialmente mogli, madri, votate ad un loro ruolo secondario. Non così quando restavano vedove, senza il capo famiglia. Allora dovevano intervenire, mettersi in gioco in prima persona, così come accadde alla volitiva cugina di Cesare, Assunta. Lei fu sempre in prima fila con ruoli molto variegati,non ultime le relazioni intessute con Cambrai Digny, sindaco di Firenze ai tempi dell’Unità nazionale. Decisamente tutti personaggi in cerca di autore.