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L’OCCHIO VIVENTE

L’eroe di Corneille chiama a testimone l’universo: si riconosce in esso e vuole essere esposto agli
occhi dei popoli e dei tempi; intende far vedere le sue decisioni e il suo sforzo interiore.
Se si sacrifica, privandosi di essere amato o se fa dono della propria vita, non rinuncia mai a mostrarsi
nell’atto del sacrificio, riconquista così nello sguardo attonito dell’universo un’esistenza trasfigurata
dalla gloria.
Per l’eroe di C. rivelarsi significa dare fondamento alla propria grandezza, essere visto vuol dire
essere riconosciuto come il vero sovrano.
In C. l’azione è fondamento di verità e l’eroe conferma il suo diritto a regnare “sulla scena”.
Nelle tragedie di C. il fine dell’individuo concorda con l’interesse della comunità, la cui esistenza e
fortuna dipendono dallo splendore dell’eroe.

L’energia dell’eroe accresce con la forza degli sguardi ammirati. L’eroe sa di esser visto senza
deformazioni e diminuzioni.
Gli sguardi degli altri lo accettano e lo approvano nella sua interezza.
Il parere e la soggettività degli altri non rendono la verità problematica perché i malintesi in C.
saranno sempre dissipati.
L’io eroico riceve dal parere degli altri la conferma che se no fosse stato visto gli sarebbe mancata.
L’io esiste nella sua interezza solo in quanto apparente.

Quello di Racine è uno sguardo a cui manca non l’intensità ma la pienezza.


L’eroe di Racine non può né approvare se stesso né esser riconosciuto dai propri rivali dai quali
spesso si sottrae allo sguardo perchè si sente condannato in anticipo.
Dietro ciò che si vede, in Racine, si nasconde ciò che si intravede si percepisce che c’è altro senza
però scorgerlo con chiarezza.
È questa “prospettiva d’ombra” dà impressione di verità e dà carattere “profondo” ai personaggi di
R. ;
sono personaggi che si sottraggono ai nostri sguardi pur offrendoci lo spettacolo del loro destino.

Nel teatro francese classico e in particolare in quello di R i gesti tendono a scomparire a favore del
linguaggio e degli sguardi.
I personaggi non si affollano né combattono sulla scena ma parlano e si vedono. Le scene sono
occasioni per vedersi. Gli sguardi che si scambiano tra loro agiscono come un abbraccio e una ferita
e dicono tutto ciò che avrebbero detto i gesti, solo che lo fanno in modo più profondo infatti
commuovono, turbano gli animi.
La volontà stilistica (che fa del linguaggio un discorso poetico) innalza tutta la mimica e la gestualità
al livello dello sguardo.
L’atto di vedere ha in sé tutti i gesti che la volontà stilistica aveva soppresso.

Il palcoscenico quasi spoglio è consegnato allo spazio e questo vuoto sembra esistere solo per essere
attraversato dagli sguardi. I personaggi sono distanti tra loro e stabiliscono un contatto con lo
sguardo.
Come i gesti fisici si smaterializzano e si fanno sguardo, così gli sguardi si appesantiscono caricandosi
dei valori corporei.
Non è un chiaro sguardo che conosce, ma uno sguardo che brama e soffre.
Nei testi di R il verbo “vedere” ha una frequenza molto alta; vuol dire sì sapere e conoscere e allora
implica una visione intellettuale delle verità umane e divine, ma in altri casi significa uno slancio
affettivo senza controllo, l’atto di bramosia che si nutre della presenza dell’essere desiderato.
In R il verbo vedere contiene un’oscillazione semantica tra turbamento e chiarezza tra conoscenza
e smarrimento.
Il verbo vedere guida l’occhio del lettore nella relazione di guardi dei personaggi; dietro ai discorsi
si crea uno spazio particolare –non più sulla scena- che esiste solo attraverso la vista.
La parola sembra esistere solo per accompagnare e prolungare le intenzioni dello sguardo.
I personaggi si definiscono solo nel movimento che li porta a vedere o a non vedere e questo
movimento non avviene solo nello spazio ma anche nel tempo: Andromaca in Astianatte rivede
Ettore in un passato che ritorna presente. Questo significa che la parola sa far esistere presenze
umane attraverso il silenzio e lo spazio.

La poesia di R non è iconica: lo sguardo non è rivolto agli oggetti, non esplora il mondo.
In R l’atto di veder si indirizza sempre a un’essenza. Non c’è descrizione di un volto di un aspetto
fisico perché lo sguardo ha superato questa materialità e si è indirizzato verso l’essenza dell’essere.
L’essenza del mondo si è ridotta alla coppia elementare giorno/notte, luce/ombra.
La notte porta orrore mentre il giorno ha di diritto la purezza.
La luce e l’ombra non solo rendono possibile o impossibile la visione ma sono anche uno sguardo o
un accecamento trascendente: Fedra prova vergogna di fronte al giorno e al sole che la illumina per
condannarla, sa di appartenere alla notte sguardo oscuro che emana il mondo infernale.
(Nelle tragedie di R è costante il tema dello sguardo ricambiato. In uno scambio di sguardi, in
genere, è presente un terzo personaggio che vede.)

Ad esempio:
Andromaca non da dimenticato gli occhi di Pirro scintillanti nel bagliore dell’incendio di Troia.
Questo sguardo notturno è riferito a un avvenimento situato prima dell’azione rappresentata.
È il momento dal quale scaturisce la fatalità e i personaggi di R ne sono consapevoli sanno che tutto
è cominciato con l’incontro nella notte.
Il loro destino è stato determinato perché hanno visto quegli occhi e non si sono più separati dalla
loro immagine.

Certamente anche la retorica amorosa sottolinea che la passione nasce dal primo colpo d’occhio.
Essere innamorato significa essere prigioniero di uno sguardo.
R potenzia e accresce il potere dello sguardo: farlo nascere nella notte, illuminarlo con delle torce,
circondarlo di armi e d’incendi significa legare lo sguardo a potenze nefaste. Anche quando la scena
non avviene bella notte, l’atto di vedere mantiene una potenza sacra o sacrilega.
Per la sua stessa violenza l’atto di vedere produce la notte, e la scena non ha più bisogno di un
paesaggio notturno: la notte nasce dentro il personaggio tragico.

Per R lo sguardo è destinato a restare inappagato. L’atto di vedere mira a raggiungere l’essenza
profonda, ma questa essenza può essere solo intravista non la si può raggiungere e possedere.
L’eroe non solo vede gli altri senza poterli raggiungere ma pur vedendosi non può raggiungere
neanche se stesso.
Fedra vede se stessa senza potersi raggiungere, conosce il proprio turbamento ma non riesce a
penetrarlo “Che vedo?”.
In R l’amore e l’odio si esprimono attraverso una forma interrogativa: i personaggi si affrontano
interrogandosi perché questo è il loro modo di cercarsi e di ferirsi.
La crudeltà nel teatro di R trova la sua arma nell’interrogazione: i personaggi si sottopongono alla
tortura dell’interrogazione.
Lo sguardo-tortura ha una duplice intenzione:
-cogliere la verità
-possedere amorosamente.
Questa duplice intenzione si trasforma in un solo atto quello di fare del male.
L’amante divenendo carnefice (lacrime sono una confessione del dolore se la vittima non si
abbandona all’amore si abbandona almeno alla sofferenza) prova piacere ad agire su uno sguardo
che non gli sfuggirà più e attraverso cui non sarà più ignorato.
Infatti il destino dello sguardo -tortura e cercare di impossessarsi degli esseri, penetrare fino alla
fonte delle lacrime ma per esser escluso. E così il dolore più acuto tocca al carnefice.
Infatti lo sguardo del carnefice è sì efficace ma la sua crudeltà è il segno della sua sconfitta poiché
non potrà accedere all’interiorità essenziale che desiderava

I personaggi di R sono consapevoli che nella loro violenza c’è la fragilità che li porta a perdere ciò
che desiderano di più
L’atto di vedere con il suo significato di possesso è mosso da questa fragilità (non poter accedere
all’interiorità dell’essere amato).
Essere visto significa scoprirsi colpevole negli occhi degli altri: mentre si attende lo sguardo
affettuoso il personaggio scopre la propria colpevolezza; c’è l’ infelicità di essere visto nella colpa
anziché la felicità di essere guardato.
Per accentuarne la colpa R fa intervenire un altro sguardo a piombo che proviene dall’alto o da più
lontano.
La colpevolezza dei personaggi si materializza sotto lo sguardo di questo supremo testimone.
Tutti gli sguardi scambiati dagli eroi sono spiati da un “testimone in alto”- collettività, Sole, Dio- che
li disapprova e condanna.
L’uomo di R è esposto alla collera del Giudice e questa collera comporta a volte la sentenza di morte.
Sia chi guarda che chi è guardato sono contraddistinti da debolezza e colpa. Il solo sguardo senza
debolezza è quello del giudice trascendente.

Questa poetica dello sguardo ha avuto origine dall’incontro della tragedia greca col pensiero
giansenista: Il tragico cristiano della colpa si salda col tragico antico dell’errore.
Il dio persecutore del teatro di Euripide si confonde col Dio di cui l’uomo non può incontrare lo
sguardo senza sentirsi peccatore.

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