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Due menzogne del nostro tempo

Il nostro tempo è sostenuto da due menzogne fondamentali sulla natura dell'uomo. La prima è
quella che lo vuole indipendente, libero, autonomo, privo di debiti simbolici con l'Altro da cui
proviene. Questa menzogna è la menzogna narcisistica che anima il culto individualistico della
propria immagine e che fonda, a sua volta, il fantasma della libertà e dell'autogenerazione, l'ideale
del farsi un nome da sé senza passare dall'Altro.
La seconda menzogna è quella che esalta il Nuovo come principio che orienta la vita del desiderio.
Essa sostiene che il bene, la salvezza, la soddisfazione risiedano in ciò che non si possiede ancora;
nel nuovo oggetto, nel nuovo partner, nella nuova sensazione. Ne deriva una versione solo
nichilistica del desiderio, impegnato a rincorrere affannosamente ciò che, in realtà, è destinato a
mancare sempre.
Queste due grandi menzogne del nostro tempo si intrecciano rafforzandosi l'una nell'altra. Farsi un
nome da sé senza passare dall'Altro - misconoscendo il debito simbolico che ci vincola a esso -
anima una versione solo perversa della libertà come poter fare tutto ciò che si vuole. La corsa
impazzita del desiderio da un oggetto all'altro sembra così assumere la natura di una vera e propria
allucinazione collettiva: il desiderio è calamitato verso il nuovo oggetto, la nuova sensazione, il
nuovo incontro, il nuovo amore. Il bene non è mai in quello che si ha, ma viene sempre rinviato in
quello che ancora non si possiede. Ed è proprio qui che la macchina del discorso del capitalista
trova il principio del suo funzionamento: non colmare i bisogni ma trasfigurarli in pseudodesideri
impossibili da soddisfare e che, proprio per questa impossibilità, appaiono perennemente
calamitati dalla sirena del Nuovo Oggetto. È la versione ipermoderna della macchina capitalista che
comporta l'assenza di cura per quello che si ha e la spinta compulsiva a raggiungere quello che ci
manca riducendo la mancanza a un vuoto che anela in modo acefalo al suo riempimento in realtà
sempre differito. La piena soddisfazione viene rinviata in un altrove che si rivela irraggiungibile. La
noia arriva allora sempre più rapidamente a parassitare i rapporti alimentando la spinta
insoddisfatta verso quello che non si ha.

da MASSIMO RECALCATI, Non è più come prima, Ed. Raffaello Cortina, 2014, pp. 25-26
Il mito di Narciso

Tiresia dava ineccepibili responsi alla gente che lo consultava. La prima a saggiare la veridicità delle
sue parole fu la ninfa Liriope, che aveva partorito un bambino che già appena nato meritava di
essere amato, e lo aveva chiamato Narciso. Interrogato se Narciso sarebbe giunto a vedere una
lunga vecchiaia, l'indovino aveva risposto: "Se non conoscerà se stesso". Per un pezzo quella
predizione sembrò vuota, ma poi fu confermata dal modo come finirono le cose.
E infatti molti giovani, molte fanciulle lo desiderarono; ma quella tenera bellezza era di una
superbia così ostinata che nessun giovane, nessuna fanciulla mai lo toccò.
Un giorno, mentre spaventava i cervi per spingerli nelle reti, lo vide una ninfa dotata di una voce
sonora, che non sapeva tacere quando uno parlava, ma neppure sapeva parlare come prima: Eco
che rimanda i suoni. Ora, quando vide Narciso vagare per solitarie campagne, Eco se ne infiammò, e
ne seguì di nascosto le orme. E quanto più lo seguiva, tanto più, per l'accorciarsi della distanza, si
scaldava, come lo zolfo vivo e tenace spalmato in cima a una fiaccola divampa se si accosta al fuoco.
Oh quante volte avrebbe voluto abbordarlo con dolci parole a rivolgergli tenere preghiere! Ma la
sua natura si oppone, non le permette di cominciare. Riesce a farsi avanti per gettargli le braccia al
collo, ma lui fugge, e nel fuggire: «Giù le mani, non mi abbracciare! - esclama. - Preferisco morire
piuttosto che darmi a te!»
Così Narciso aveva deluso costei, così tanti altri. Finché un giorno uno, disprezzato, levò le mani al
cielo e disse: “Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!" E la dea della giustizia
assentì a quella giusta preghiera.
C'era una fonte senza un filo di fango, dalle acque argentate e trasparenti, a cui mai si erano
accostati pastori o caprette portate al pascolo sui monti o altro bestiame, che mai era stata agitata
da un uccello o da un animale selvatico o da un ramo caduto da un albero. Qui il fanciullo, spossato
dalle fatiche della caccia e dalla calura, si getta bocconi, attratto dalla bellezza del posto e dalla
fonte, ma mentre cerca di sedare la sete, un'altra sete gli cresce: mentre beve, invaghitosi della
forma che vede riflessa, spera in una amore che non ha corpo, crede che sia un corpo quella che è
un'ombra. Attonito fissa se stesso e senza riuscire a staccare lo sguardo rimane immobile come una
statua scolpita in marmo di Paro. Disteso a terra contempla le due stelle che sono i suoi occhi, e i
capelli degni di Bacco, degni anche di Apollo, e le guance impuberi e il collo d'avorio e la gemma
della bocca e il rosa suffuso del candore di neve, e ammira tutto ciò che fa di lui un essere
meraviglioso. Desidera, senza saperlo, se stesso; elogia, ma è lui l'elogiato, e mentre brama, si
brama, e insieme accende e arde.
Quante volte non dà vani baci alla fonte ingannatrice! Quante volte non tuffa nell'acqua le braccia
per gettarle attorno al collo che vede, ma nell'acqua non si afferra! Non sa che sia quel che vede,
ma quel che vede lo infiamma, e proprio l'errore che inganna gli occhi glieli riempie di cupidigia.
Ingenuo, che stai a cercar di afferrare un'immagine fugace? Quello che brami non esiste; quello che
ami, se ti volti, lo fai svanire. Questa che scorgi è l'ombra, il riflesso della tua figura. Non ha nulla di
suo quest'immagine; con te è venuta e con te rimane; con te se ne andrebbe - se tu riuscissi ad
andartene!
Né desiderio di cibo, né desiderio di riposo riesce invece a staccarlo da lì. Buttato sull'erba ombrata
fissa con lo sguardo mai sazio la forma ingannevole e si strugge attraverso i propri occhi. Finché ad
un certo punto capì e disse: «Ma questo sono io! La mia immagine non m'inganna più! Brucio
d'amore per me stesso, suscito e subisco la fiamma! Che devo fare? Farmi chiedere, oppure
chiedere io? Ma poi, chiedere che? Quel che bramo l'ho in me: ricchezza che equivale a povertà. Oh
potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama, vorrei che la cosa amata fosse
più distante. E ormai questa sofferenza mi toglie le forze e non mi resta più molto da vivere, mi
spengo nella prima giovinezza. E la morte non mi è gravosa, poiché con la morte finirà questa pena;
ma vorrei che l'altro, l'amato, vivesse di più. Ora invece morremo congiuntamente, spirando, due,
un'anima sola.»
Così dice, e delirando torna a ricontemplare la figura, e con le lacrime turba lo specchio d'acqua,
che s'increspa; e la forma si offusca. Vedendola svanire: «Dove ti ritiri? - esclama. - Rimani, non
abbandonare, crudele, me che ti amo! Se toccarti non posso, mi sia permesso guardarti e nutrire
così la mia disgraziata passione!»
A quella vista (l'acqua è tornata limpida) non resiste più. E come cera bionda a una leggera fiamma,
come brina mattutina al tepore del sole, così, sfinito dall'amore si strugge e un fuoco occulto a poco
a poco lo consuma. Reclinò il capo stanco sull'erba verde. La morte buia chiuse quegli occhi che
ancora ammiravano la forma del loro padrone. Anche dopo, quando fu accolto nella sede infernale,
continuava a contemplarsi nell'acqua dello Stige. Levarono lamenti le Nàiadi sue sorelle; si
tagliarono i capelli e li offrirono al fratello. Levarono lamenti le Driadi. Ed Eco risonando si unì a quel
coro di dolore. E già preparavano il rogo, e le fiaccole da agitare, e il feretro: il corpo era scomparso.
Al posto del corpo trovarono un fiore: giallo nel mezzo, e tutt'intorno petali bianchi.

Liberamente tratto da “Ovidio, Metamorfosi, libro III, vv. 339 sgg., traduzione P. Bernardini
Marzolla, Ed. Einaudi”
Il mito di Re Mida

Un giorno dei contadini della Frigia avevano catturato Sileno, maestro di Bacco, barcollante per gli
anni e per il vino, e lo avevano condotto da re Mida, il quale, riconosciuto il vecchio amico e
compagno di culto, subito lo aveva ospitato e aveva indetto in suo onore una gran festa di dieci
giorni e dieci notti di fila. L'undicesimo giorno il re si recò raggiante nelle campagne della Lidia e
riconsegnò Sileno al suo giovane allievo. Bacco, felice di aver ritrovato colui che lo aveva allevato,
invitò Mida a scegliere un premio. Facoltà lusinghiera, ma pericolosa, perché Mida non se ne
avvalse saggiamente e disse: «Fai che tutto quello che tocco col mio corpo si converta in fulvo oro».
Bacco esaudì il desiderio e si sdebitò con quel dono che presto si sarebbe rivelato dannoso; in cuor
suo, si rammaricò che non avesse chiesto qualcosa di meglio.
II re Mida se ne andò via tutto felice e contento — ignaro —, e cominciò a toccare questo e quello,
per vedere se Bacco era stato di parola. E, a stento credendo ai propri occhi, tirò verso di sé una
frasca verdeggiante che pendeva da un leccio assai basso, e la frasca diventò d'oro. Raccolse da
terra un sasso, e anche il sasso impallidì in oro. Tocca ancora una zolla: a quel magico tocco la zolla
diventa una gran pepita; coglie aride spighe di grano: un raccolto d'oro; stringe un pomo spiccato
da un albero: diresti che gliel'hanno donato le ninfe Espèridi; se per caso accosta le dita a un alto
stipite, Io stipite si vede splendere. Perfino quando si lava le mani in limpida acqua, l'acqua, quando
scorre via dalle mani, si trasforma in pioggia d’oro. Non sta più in sé dall'emozione, figurandosi già
d'oro ogni cosa.
Mentre così tripudia, i servitori apparecchiano la tavola e imbandiscono pile di vivande, non senza
pane tostato. Ma ora, come tocca i doni di Cèrere, i doni di Cèrere s'induriscono; se con avido dente
cerca di lacerare una pietanza, una lamina fulva, appena accosta il dente, ricopre la pietanza;
mischia ad acqua pura il vino di Bacco, suo benefattore: gli vedi galleggiare in bocca liquido oro.
Sbigottito per quella singolare sciagura, miserabile in mezzo alla ricchezza, non ne può più di tutti
quei tesori e detesta ciò che poco prima aveva sognato. La più grande abbondanza non può sedargli
la fame, arida sete gli brucia la gola, e, come si merita, è ossessionato e torturato dall'oro. E allora
levando al cielo le mani e le braccia tutte splendenti esclama: «Perdonami, padre Bacco, ho
peccato, ma abbi pietà, ti scongiuro, e liberami da questa rovinosa fortuna!»
Gli dèi sanno essere miti. Poiché riconosce di aver peccato, Bacco lo rende com'era prima, ritirando
il dono concesso soltanto per mantener la promessa. E gli dice: «Perché tu non rimanga invischiato
nell'oro che imprudentemente hai desiderato, vai al fiume vicino alla grande Sardi e cammina in
senso contrario alla corrente, su per il monte, finché arriverai alla sorgente, e lì metti il capo sotto il
fiotto, dove scorre più copioso, e lava insieme il corpo e la colpa».
Il re ubbidì e si mise sotto il getto. Il potere di trasformare in oro le cose colorò la corrente e passò
dal corpo umano al fiume. E ancor oggi le rive, assorbito il germe di quell'antica vena, brillano
fredde e pallide con le loro zolle impregnate d'oro.
Ed ora, odiando la ricchezza, re Mida viveva in campagna e tra i boschi, onorando Pan la cui dimora
consueta sono le grotte montane. Ma era sempre grossolano di mente, e per il cervello gli
passavano ancora idee stolte che, come già una volta, gli avrebbero procurato dei guai.
E infatti. Pan, un giorno che modulava sulla zampogna di canne cerate un leggero motivo e si
vantava con le tenere ninfe della sua bravura, osò disprezzare i canti di Apollo in confronto ai
propri, e venne a misurarsi in un'impari gara.
Rivolto al dio delle greggi disse: «Il giudice è pronto: si cominci pure». E Pan si mise a soffiare
nell'agreste zampogna, incantando Mida, che per caso era li, col suo barbarico canto.
Quando Pan ebbe finito, Apollo sollecitò le corde della cetra con tal bravura, che il giudice,
affascinato da tanta dolcezza, dichiarò che Pan con la sua zampogna era battuto.
Il verdetto del sacro monte fu approvato da tutti; eppure Mida, lui solo, lo biasimò e lo definì
ingiusto. Il dio di Delo non sopportò che quelle stolte orecchie conservassero forma di orecchie
umane, e così gliele allungò e ricoprì di grigio pelame, e le rese mobili alla base, in modo da poter
essere agitate. Tutto il resto rimase di uomo: Mida fu punito solo in quella parte del corpo, e si
ritrovò con orecchie di asinello.
Non sapendo come fare per nascondere quella vergogna, egli provò a calcarsi sulle tempie una
mitria purpurea. Ma il servitore che era solito tagliargli con una lama i capelli, quando erano troppo
lunghi, vide, e smanioso di spifferare la notizia, non osando rivelare la deformità che aveva
scoperto, ma neppure riuscendo a star zitto, si appartò e scavato un buco per terra ci mormorò
dentro, a bassa voce, che razza di orecchie aveva visto al padrone. Poi seppellì il segreto svelato,
ributtandoci sopra la terra, e ritappato il buco se ne andò alla chetichella. Ma ecco che in quel
punto cominciò a spuntare una fitta macchia di tremule canne, la quale quando, trascorso un anno,
fu tutta in rigoglio, tradì il seminatore: e infatti agitata lievemente dal vento riferiva le parole
sepolte, svergognando il re per le sue orecchie.

Liberamente tratto da “Ovidio, Metamorfosi, libro XI, vv. 85 sgg., traduzione P. Bernardini Marzolla,
Ed. Einaudi”

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