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Capitolo 3

RILASSAMENTO ANELASTICO NEI SOLIDI


CRISTALLINI

Introduzione

Un solido cristallino sottoposto a sollecitazione meccanica, ovvero sottoposto ad uno sforzo, si


porta verso il suo nuovo stato di equilibrio tramite un processo di deformazione.
Rispetto all’applicazione dello sforzo, la risposta di deformazione che porta al raggiungimento
dell’equilibrio avrà, in linea generale, una componente istantanea ed una ritardata. Nel primo caso si
parla di “risposta elastica”, nel secondo caso di “risposta anelastica”.
Il caso elastico e quello anelastico manifestano delle proprietà comuni.
Infatti in entrambi i casi:
1. lo sforzo e il nuovo stato di equilibrio del solido sono in corrispondenza biunivoca: ad ogni
sforzo corrisponde uno ed un solo stato di equilibrio, e viceversa;
2. la risposta di deformazione varia linearmente con lo sforzo: raddoppiando lo sforzo
raddoppia la deformazione.
Dalla biunivocità tra sforzo e stato di equilibrio discende la reversibilità totale del fenomeno qualora
venga rimossa la sollecitazione; dalla linearità discende l’applicabilità del principio di
sovrapposizione di Boltzmann, ovvero la possibilità di trattare sforzi applicati in tempi diversi come
se ciascuno contribuisse alla deformazione singolarmente.
Il comportamento elastico è descritto dalla legge di Hooke, dove le grandezze in gioco non avranno
dipendenza dal tempo in quanto istantanee (sebbene la risposta non sia realmente tale, ma si estenda
su tempi legati alla propagazione del suono).
Il comportamento anelastico è dovuto a processi di rilassamento interni non istantanei; sarà quindi
descritto da un modello che preveda la dipendenza temporale e la presenza di una variabile interna,
la quale sia funzione di sforzo e deformazione.

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Trattando reticoli cristallini in presenza di un certo tipo di difetti, può esssere opportuno identificare
la variabile interna con la deviazione che questi presentano dalla loro concentrazione d’equilibrio e
considerarne la diffusione intorno ai loro possibili siti.

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3.1 Anelasticità

Per trattare la teoria dell’anelasticità è opportuno partire dal modello che descrive il comportamento
di un solido elastico, nel quale lo sforzo σ e la deformazione ε sono legati tramite il modulo elastico
M dalla legge di Hooke:
σ = Mε (3.1)

Può essere utile la relazione inversa, dove l’inverso del modulo elastico viene detto cedevolezza J:

ε = Jσ (3.2)

Dimensionalmente: σ ha le dimensioni di una forza su superficie, ε è un allungamento relativo (∆l/l)


ed è adimensionale, M ha le dimensioni di un modulo elastico (forza su superficie, ovvero energia
su volume), J ha dimensioni inverse di M.
In generale σ e ε sono tensori di rango due, mentre M e J sono tensori di rango quattro; questo
implica che dalle equazioni precedenti si ottiene un sistema di equazioni lineari in cui ognuna
esprime una componente del tensore σ in funzione di tutte le componenti del tensore ε e viceversa
(come si vedrà nel paragrafo 3.5). Tuttavia se si considerano modi di deformazione semplici quali
sforzi di taglio, o deformazioni uniassiali, allora sia σ che ε possono essere considerati delle
grandezze scalari e M corrisponde al modulo di taglio, o al modulo di Young.
Una prima trattazione dell’anelasticità consiste nell’introdurre la dipendenza temporale nelle
equazioni precedenti; questo permette di considerare i meccanismi di rilassamento interno nelle loro
manifestazioni esterne, senza introdurre per il momento le variabili interne necessarie alla
descrizione del rilassamento a livello reticolare.

3.1.1 Funzione di risposta quasi statica

Si definisce quasi statico un esperimento in cui uno sforzo (oppure una deformazione) venga
applicato in modo costante per un certo intervallo di tempo. Un esperimento quasi statico può
essere:
• di creep se la deformazione ε (t ) viene misurata contemporaneamente all’applicazione
dello sforzo;

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• di after-effect se la deformazione ε (t ) viene misurata solo dopo il rilascio dello sforzo. (che
sia stato applicato per un tempo sufficientemente lungo).

CREEP: Si sottopone il solido al tempo iniziale ad uno sforzo costante σ ( t ) = σ0 . Per i tempi

successivi viene studiata la deformazione in funzione del tempo, ovvero ε ( t ) . Per la richiesta di

linearità, la funzione J ( t ) di seguito definita è indipendente da σ0 e viene detta funzione di creep.

Per: t > 0 :
ε (t )
J (t ) ≡ (3.3)
σ0

Essa esprime l’andamento della cedevolezza, che nel solido elastico ideale è costante, mentre nel
caso anelastico è funzione del tempo; inoltre caratterizza le proprietà di un solido per un certo modo
di deformazione ed una certa temperatura.
Il valore iniziale JU si dice cedevolezza non rilassata e misura la deformazione prima che inizi il
rilassamento; il valore di equilibrio JR si dice cedevolezza rilassata; infine la quantità δJ si dice
rilassamento della cedevolezza.

 JU ≡ J ( t = 0 )

 J R ≡ J (t = ∞) (3.4)

δJ ≡ ( J R − JU )

Applicare uno sforzo costante ad un materiale anelastico produce quindi una deformazione che
cresce dal valore istantaneo JU fino ad un valore di equilibrio JR. Questo è in relazione al fatto che la
risposta anelastica risulta costituita da due parti: una istantanea elastica ed una ritardata anelastica:

ε (t > 0) = ε el + ε anel (t ) = J (t )σ 0 (3.5)

Si riporta di seguito un esempio in cui si può vedere l’andamento della deformazione a sforzo
costante, con un contributo istantaneo elastico e uno ritardato anelastico, che cresce nel tempo fino
ad un valore di saturazione. Analogo comportamento si ha alla rimozione della sollecitazione.

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Se invece di uno sforzo si applica al tempo t = 0 una deformazione costante ε ( t ) = ε 0 si può

studiare lo sforzo in funzione del tempo, σ(t), per t > 0. In analogia al caso precedente, per la
richiesta di linearità, la funzione M(t) di seguito definita è indipendente da ε0 ed è detta funzione di
rilassamento dello sforzo.
Per t > 0 :
σ (t )
M (t ) ≡ (3.6)
ε0

Anche qui possiamo definire il valore iniziale MU come modulo non rilassato; il valore di equilibrio
MR come modulo rilassato e la quantità δM come rilassamento del modulo.

MU ≡ M (t = 0)

M R ≡ M (t = ∞ ) (3.7)

δM ≡ ( M U − M R )

Una deformazione costante applicata ad un materiale anelastico produce quindi uno sforzo che
decresce dal valore istantaneo MU ad un valore di equilibrio MR.

J(t)
M(t)

JR
MU

δM
δJ
JU
MR

JU
MR

0 t 0 t

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La risposta anelastica può essere espressa, anche in questo caso, tramite un contributo istantaneo
elastico ed uno ritardato anelastico:

σ ( t > 0 ) = σel + σanel ( t ) = M ( t ) ε 0 (3.8)

Per l’unicità del valore di equilibrio, il modulo rilassato (non rilassato) è il reciproco della
cedevolezza rilassata (non rilassata):
 1
M R = J
 R
 (3.9)
M = 1
 U JU

Questa simmetria non vale per il rilassamento del modulo δM e della cedevolezza δJ, i quali si
relazionano nel modo seguente :
1 1 δJ
δM = − = (3.10)
JU J R JU J R

Può essere conveniente introdurre la grandezza adimensionale ∆, detta intensità di rilassamento e


definita nel seguente modo:
δJ δM
∆≡ = (3.11)
JU M R

Utilizzando l’intensità di rilassamento ∆, si può porre:

 J R = JU (1 + ∆)
 (3.12)
 M U = M R (1 + ∆)

AFTER-EFFECT: Gli esperimenti di after-effect si hanno quando, a partire da una situazione di creep,
si rimuove istantaneamente lo sforzo (la deformazione), indipendentemente dal raggiungimento o
meno dell’equilibrio. Nel caso di un solido ideale completamente elastico si osserva che la
deformazione (lo sforzo) si annulla istantaneamente; nel caso anelastico, ancora una volta, si
osserva una diminuzione graduale nel tempo.

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3.1.2 Principio di sovrapposizione di Boltzmann

Dalla linearità del comportamento anelastico si può ottenere una generalizzazione al caso di più
sforzi applicati in istanti differenti, inoltre le funzioni di risposta introdotte finora descrivono tutte il
comportamento di un solido anelastico sotto determinate condizioni sperimentali, ma ciascuna di
esse è sufficiente a fornire una caratterizzazione delle proprietà anelastiche del materiale in esame.
Per verificarlo è utile analizzare il principio di sovrapposizione introdotto da Boltzmann nel 1876,
secondo il quale “se diversi sforzi sono applicati ad un materiale in tempi differenti, ciascuno di
essi contribuisce come se fosse l’unico in azione”. Supponendo quindi di applicare una serie di

sforzi {σ i }in=1 ai tempi {τ i }in=1 la deformazione si esprime come:

ε(t ) = ∑ i =1 σi J (t − τi )
n
(3.13)

ove σi ≠0 per t > τi.


Nel caso in cui si consideri uno sforzo che, invece di essere discreto, vari con continuità, allora la
(3.13) si trasforma nella seguente espressione integrale:

t d σ(τ)
ε(t ) = ∫ J (t − τ) dτ (3.14)
−∞ dτ

Con un cambio di variabile, si può ricollegare la (3.14) alla risposta istantanea JU.
Sia: ξ ≡ (t-τ)
∞ d σ(t − ξ)
ε(t ) = − ∫ J (ξ) dξ (3.15)
0 dξ

Integrando per parti e considerando che valgono le condizioni: σ(-∞)=0 e J(0)=JU, si ottiene:

∞ dJ (ξ)
ε(t ) = σ(t ) JU + ∫ σ(t − ξ) dξ (3.16)
0 dξ

Se la variabile indipendente è la deformazione invece dello sforzo, si ottengono espressioni del tutto
analoghe. Per l’applicazione di una serie discreta di deformazioni, la (3.8) si trasforma in:

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σ(t ) = ∑ i =1 εi M (t − τi )
n
(3.17)

Nel caso del continuo si ha:


t d ε ( τ)
σ(t ) = ∫ M (t − τ) dτ (3.18)
−∞ dτ

Con lo stesso cambio di variabile precedente e condizioni: ε(-∞)=0 e M(0)=MU, si ottiene:

∞ dM (ξ)
σ(t ) = ε(t ) M U + ∫ ε(t − ξ) dξ (3.19)
0 dξ

3.1.3 Funzione di risposta dinamica

Gli esperimenti quasi statici sono utili per studiare il comportamento del materiale su scale
temporali dell’ordine del secondo, o più. Per scale temporali più piccole, sono più appropriati gli
esperimenti cosiddetti dinamici, ovvero gli esperimenti in cui lo sforzo applicato dipende dal tempo
in modo periodico. In questo caso si determina il ritardo di fase ϕ della deformazione rispetto allo
sforzo. E’ opportuno l’utilizzo della notazione complessa, attraverso la quale lo sforzo si esprime
come:
σ(t ) = σ0eiωt (3.20)
ove:
σ0 ≡ampiezza dello sforzo
ω ≡ pulsazione ( ω= 2πf, f ≡ frequenza di vibrazione )
Per la linearità tra sforzo e deformazione, questa ha la stessa frequenza di σ(t), ma manifesta un
ritardo di fase ϕ:
εω (t ) = ε0 ei ( ωt −ϕ) (3.21)

Sempre per la linearità, il rapporto ε0/σ0 è indipendente da σ0. Inoltre per un materiale elastico
ideale il ritardo di fase sarebbe nullo. Nel caso anelastico invece si ha ϕ ≠ 0 e il rapporto ε/σ è una

grandezza complessa, detta appunto cedevolezza complessa J*(ω):

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ε
J * (ω) ≡ =| J (ω) | e − iϕ( ω) (3.22)
σ

Il modulo è detto cedevolezza dinamica assoluta e vale:


ε0
J * ( ω) = (3.23)
σ0
Se si introducono:
ε1≡ ampiezza della componente di ε(t) in fase con lo sforzo
ε2≡ ampiezza della componente di ε(t) sfasata di π\2 rispetto allo sforzo
allora si può riscrivere la (3.21) nel modo seguente:

εω (t ) = (ε1 − iε 2 )eiωt (3.24)

Dividendo tutto per lo sforzo σ(t) si ottiene la cedevolezza nelle sue componenti reale J1(ω) ed
immaginaria J2(ω):
( ε1 - iε 2 )eiωt
J (ω) =
*
≡ J1 (ω) − iJ 2 (ω) (3.25)
σ0 eiωt

J1(ω)=ε1/σ0 viene detta cedevolezza immagazzinata mentre J2(ω)=ε2/σ0 viene detta cedevolezza
dissipata perchè legate all’energia immagazzinata e dissipata in un ciclo di vibrazioni. Dalle
proprietà generali della notazione vettoriale nel piano complesso si ricavano le ulteriori relazioni:

J * (ω) = [ J1 (ω)] + [ J 2 (ω)]


2 2 2
(3.26)

J 2 (ω)
tg ϕ(ω) = (3.27)
J1 (ω)

Se, invece, si parte dalla deformazione e si considera lo sforzo come grandezza sfasata, si può
definire il modulo complesso M*(ω), che è l’ inverso della cedevolezza complessa J*(ω):

σ
M * (ω) ≡ = M * (ω) eiϕ( ω) (3.28)
ε

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Sempre in analogia al caso precedente, M*(ω) è detto modulo dinamico assoluto e vale la
relazione di reciprocità:
−1 σ0
M * (ω) = J * (ω) = (3.29)
ε0

Si può inoltre esprimere il modulo complesso tramite la parte reale e quella immaginaria:

M * ( ω ) = M 1 (ω) − iM 2 (ω) (3.30)

Per le quali valgono le relazioni:

M * (ω) = [ M 1 (ω)] + [ M 2 (ω) ]


2 2 2
(3.31)

M 2 ( ω)
tg ϕ ( ω) = (3.32)
M 1 ( ω)

Si riportano di seguito le relazioni di fase nel piano complesso delle grandezze introdotte:

Dalla relazione con la tangente segue che il rapporto tra parte reale ed immaginaria della
J 2 (ω) M 2 (ω)
cedevolezza è uguale al rapporto tra parte reale ed immaginaria del modulo: = .
J1 (ω) M 1 (ω)
Sfruttando questa informazione nell’espressione relativa al modulo quadrato si osserva che
J 22 2 J
2
(omettendo per brevità la dipendenza dalla frequenza ω): M = M (1 + 2 ) = M 1 2 . Se si inverte
2
1
2

J1 J1

la relazione, è possibile esprimere la parte reale della cedevolezza in funzione di quella del modulo:
M 12 J 2 M 12
J =
1
2
= 4 ; si osserva così che in generale J1 ed M1 non sono reciproci, infatti:
M2 M

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M1 1
J1 = = . Essi lo diventano solamente nell’approssimazione ϕ2 <<1, qualora
M 2
M 1 (1 + tg 2ϕ)

diventino trascurabili le correzioni del secondo ordine. Discorso analogo vale per le parti
immaginarie J2 e M2.

3.2 Coefficiente di dissipazione di energia elastica

Le componenti immaginaria e reale della cedevolezza sono state precedentemente definite


“cedevolezza dissipata” e “cedevolezza immagazzinata”. Si può capire il motivo di questa
definizione a partire dalla considerazione che, se si presenta un ritardo di fase ϕ tra deformazione e
sforzo [ovvero, riprendendo le formule precedenti, se si ha: ε(t)=ε0 cos(ωt-ϕ) e σ(t)=σ0 cos(ωt)],
allora c’è un assorbimento di energia elastica da parte del solido. Una misura di questo
assorbimento è data dal coefficiente di dissipazione di energia elastica Q-1, definito tramite il
rapporto tra l’energia dissipata in un ciclo ∆W e il massimo dell’energia immagazzinata W,
relativamente all’unità di volume. Q-1 è una grandezza adimensionale, indipendente sia dal volume
del solido che dall’ampiezza dello sforzo applicato ed è precisamente definito come:

1 ∆W
Q −1 = (3.33)
2π W

L’energia dissipata in un ciclo ∆W è pari al lavoro effettuato dal campo di sforzi interni in un ciclo
(per unità di volume) e può essere espresso come:

2π 2π
∆W = ∫ σd ε = ∫ σ0 cos ( ωt ) d ε 0 cos ( ωt − ϕ )  = σ0 ε0 ∫ cos ( ωt )  − sin ( ωt − ϕ ) d ( ωt ) =
0 0

(3.34)
= σ0 ε0 ∫ cos ( ωt ) cos ( ωt ) sin ( ϕ ) − sin ( ωt ) cos ( ϕ )  d ( ωt ) = πσ0ε 0 sin ( ϕ )
0

Il massimo dell’energia immagazzinata W è invece pari al lavoro effettuato dalla componente della
deformazione in fase con lo sforzo (per unità di volume), indicata con ε ' ed esprimibile nel
seguente modo:

ε' ≡ cos ( ϕ ) cos ( ωt ) (3.35)

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Si ottiene:
π π
W = ∫ σd ε ' = −ε0 σ0 cos ( ϕ ) ∫ cos ( ωt ) sin ( ωt ) d ( ωt ) =
π2 π2
(3.36)
1 π 1
= − ε0 σ0 cos ( ϕ ) ∫ sin ( 2ωt ) d ( ωt ) = ε0 σ0 cos ( ϕ )
2 π 2 2

Ricordando che per le (3.23) e (3.29) si aveva:J*(ω)=ε0/σ0 e M*(ω)=σ0/ ε0, allora si possono
riscrivere le espressioni precedenti come segue:

∆W = πε0 σ0 sin ( ϕ ) = πσ02 J 2 = πε 02 M 2 (3.37)

1 1 1
W= ε0 σ0 cos ( ϕ ) = σ02 J1 = ε 02 M 1 (3.38)
2 2 2

Usando questi risultati nella (3.33) e ricordando le precedenti (3.27) e (3.32) si ottiene l’espressione
seguente per il coefficiente di dissipazione di energia elastica:

M 2 J2
Q −1 = = = tg ϕ (3.39)
M 1 J1

L’espressione del coefficiente di dissipazione dell’energia elastica potrebbe anche essere ottenuto a
partire da una delle funzioni di risposta J1, o M1 (oppure J2 o M2) trovando poi la seconda tramite
l’utilizzo delle relazioni di Kramers-Krönig.

3.3 Anelasticità e difetti reticolari puntiformi

Si parla di difetti reticolari ogni qual volta intervenga un’ imperfezione a rompere la simmetria del
reticolo ideale. Queste imperfezioni possono essere di diversa natura e dimensionalità. Si hanno

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difetti di volume (ad esempio delle irregolarità nell’impaccamento delle specie atomiche); di
superficie (ad esempio delle irregolarità sulle superfici di bordo); di linea (ad esempio disclinazioni,
dislocazioni). Nel seguito saranno però presi in considerazione principalmente i difetti di tipo
puntiforme, che sono le irregolarità più semplici che possono presentarsi nei cristalli e che spesso
sono presenti anche all’equilibrio termodinamico. Si elencano di seguito alcuni dei comuni difetti
puntiformi per un solido cristallino:

• Vacanza: è l’assenza di uno degli elementi che formano il reticolo ed è in pratica un sito
reticolare vuoto.
• Impurezza sostituzionale: è la presenza di un certo elemento in un sito reticolare che nella
simmetria iniziale era occupato da un elemento di natura diversa.
• Impurezza interstiziale: è la presenza di un elemento (che può essere dello stesso tipo degli
elementi reticolari, o meno) in posizione interstiziale rispetto alla geometria del reticolo.

Quando questi difetti intervengono all’interno di un solido ionico (dove il reticolo è dato dalla
compresenza dei due sottoreticoli anionico e cationico) essi vanno a modificare anche gli equilibri
di carica, quindi l’introduzione di un difetto su uno dei due sottoreticoli influenza anche l’altro. Per
il mantenimento della neutralità di carica, nei reticoli ionici i difetti sono considerati in coppia.
I difetti puntiformi assumono peso nella descrizione del comportamento anelastico di un solido
quando essi sono responsabili di un dipolo elastico. In questo caso, infatti, essi sono anisotropi dal
punto di vista dell’elasticità perché possiedono un asse di deformazione preferenziale, che può
essere spazialmente riorientato applicando un campo di sollecitazioni esterne. Sono le dinamiche di
riorientamento che inducono nel solido il rilassamento di tipo anelastico.

Esempi di difetti reticolari

I difetti reticolari introducono deformazioni del reticolo che possono essere complicate localmente
per cui si preferisce studiare lo stato macroscopico del campione dovuto alle componenti a lungo
raggio di tali deformazioni. Questa componente a lungo raggio è detta dipolo elastico.

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Per la descrizione delle variazioni locali nelle posizioni dei difetti, sarà opportuno l’utilizzo di una
variabile locale (detta anche “variabile interna”); per la descrizione del dipolo elastico occorreranno
delle considerazioni preliminari sulle simmetrie dei cristalli; la lunghezza di rilassamento sarà
affrontata tramite considerazioni termodinamiche e il tempo di rilassamento tramite considerazioni
di tipo cinetico.

3.4.1 Rilassamento anelastico e variabili interne

Si consideri un solido avente una certa densità di difetti mobili: in assenza di sollecitazioni esterne
essi saranno in un certo stato di equilibrio corrispondente al minimo di energia libera. Quando si
applica una sollecitazione esterna, i difetti tenderanno ad arrangiarsi su di una nuova configurazione
di equilibrio. Questo processo porta ad una deformazione anelastica, associata alla migrazione dei
difetti da una posizione all’altra. Lo spostamento che ne consegue può essere descritto attraverso
l’utilizzo di una variabile interna ξ. All’interno dell’approssimazione lineare, si può descrivere la
deformazione anelastica εa come direttamente proporzionale alla variabile interna attraverso un
certo coefficiente χ, il quale quindi descrive l’accoppiamento tra la deformazione macroscopica e
la deviazione microscopica dall’equilibrio. Si può quindi porre:

ε a = χξ (3.40)

La deformazione totale dovrà tener conto anche della deformazione elastica, per cui considerando
che la variabile macroscopica indipendente sia lo sforzo, i due contributi si possono esprimere
come:
ε ( σ, ξ ) = εel + ε anel = JU σ + χξ (3.41)

Senza perdere di generalità, si può porre uguale a zero il valore di equilibrio ξ della variabile interna

in assenza di sollecitazioni, ovvero ξ (σ = 0) = 0 . Per una generica sollecitazione σ, l’unicità del


valore di equilibrio porta alla realzione seguente:

ξ ( σ ) = µσ (3.42)

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dove il coefficiente di proporzionalità µ dipenderà da diversi fattori, quali il tipo di stress applicato
e la temperatura. Considerando sempre l’approssimazione lineare, la variazione della variabile
interna è descrivibile con un’equazione differenziale del primo ordine tramite il suo discostamento
dalla posizione di equilibrio.
dξ 1
= − (ξ − ξ ) (3.43)
dt τ

con soluzione:

(
ξ(σ) = ξ 1 − e − t τ ) (3.44)

In questa espressione, la costante di proporzionalità τ deve essere dimensionalmente un tempo ed in


particolare sarà il tempo impiegato dal sistema per raggiungere il nuovo stato di equilibrio.
E’ possibile definire anche il rilassamento della cedevolezza considerando la (3.41) all’equilibrio,
da cui:

ε ( σ, ξ ) − JU σ = χξ (3.45)

J R σ − JU σ = χξ (3.46)

ξ
δJ = χ = χµ (3.47)
σ

Nel caso in cui non si abbia un sola variabile interna, è possibile generalizzare questa trattazione
mantenendo le stesse ipotesi di cui sopra. Se si hanno n variabili interne accoppiate alle variabili
meccaniche, supponendo che per ogni p sia: ξ p (σ = 0) = 0 con p = {1,2,...n} , le equazioni (3.41) e

(3.42) diventano:

( )
ε σ, {ξ p } = JU σ + ∑ p =1 χ p ξ
n

p
(3.48)

ξ p = µ pσ (3.49)

Per generalizzare la derivata nella (3.43), bisogna considerare che quando tutte le variabili sono
fuori dell’equilibrio, ciascuna ξp subisce variazioni con una velocità che dipende anche dalla
deviazione dall’equilibrio delle altre variabili. Per cui, indicando i rispettivi coefficienti con la

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lettera ω, si avrebbe un insieme di n equazioni differenziali lineari del primo ordine accoppiate in n
incognite:
d
ξ p = −∑ q =1 ω pq ( ξq _ ξq )
n
(3.50)
dt

In realtà, come riportato in [1], nel 1949 fu dimostrato da J. Meixner con considerazioni di tipo
termodinamico che è sempre possibile individuare una trasformazione lineare, la quale trasformi

{ } { }
l’insieme di variabili accoppiate ξ p in un insieme di variabili disaccoppiate ξ p' , anche dette

“variabili interne normali”. Le variabili normali saranno date da una combinazione lineare delle
prime, con opportuni coefficienti:

ξ'p = ∑ q =1 B pq ξ q
n
(3.51)

Utilizzando le variabili interne normali, si può generalizzare la (3.43) nel seguente modo:

d ' 1 '
dt
ξp = −
τp
(
ξ p − ξ 'p ) (3.52)

Analogamente al caso precedente, quest’ultima equazione in condizioni di sforzo costante ha


soluzione:

(
ξ'p = ξ 'p 1 − e
−t τ p
) (3.53)

Essa viene detta “rilassamento del modo normale” e si può notare come ogni variabile normale
rilassi in modo indipendente dalle altre.

3.4.2 Proprietà anelastiche dei difetti reticolari

La presenza di difetti reticolari porta nel reticolo cristallino delle deformazioni che possono essere
di diversa natura. Per esempio, una vacanza atomica, a livello locale, può comportare una più o
meno marcata espansione del reticolo, ma può comportare anche un diverso arrangiamento nei
legami atomici. Negli esperimenti di anelasticità considerati, quello che interessa maggiormente è il
comportamento del campione a livello macroscopico. Questo è dovuto alla somma, relativamente ai

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diversi difetti presenti, delle componenti a lungo raggio delle deformazioni e diventa quindi
importante avere una stima di tipo quantitativo sulla presenza delle irregolarità. Supponendo che i
difetti seguano una distribuzione uniforme nel campione (ovvero supponendo l’isotropia del solido),
è possibile esprimere la concentrazione dei difetti nei vari stati accessibili al sistema tramite la
distribuzione di Boltzmann. Considerando la concentrazione di difetti nel generico stato α si può
scrivere:
e−βEα
cα = cnα = c (3.54)
∑ α e−βEα

dove cα è la concentrazione dei difetti di tipo α, c è quella totale dei diversi difetti, nα è la
distribuzione di difetti nello stato α, Eα è l’energia dello stato α, e con l’usuale notazione
−1
β = ( k BT ) ; k B = 1,38 ⋅10−23 JK −1 è la costante di Boltzmann, T è la temperatura.

Quando viene applicato uno sforzo σ , l’energia Eα del generico stato α subisce una variazione e la

distribuzione nα si modificherà di conseguenza: la nuova configurazione d’equilibrio si associa ad


un ripopolamento degli stati. Il tempo necessario perché esso si verifichi è il tempo di rilassamento
τ , che dipende dal tempo medio che ogni difetto impiega per raggiungere il nuovo stato
d’equilibrio.

3.4.3 Simmetrie

Quando si tratta un solido cristallino, la prima simmetria che va considerata è la simmetria del
cristallo perfetto. Essa è definita attraverso l’insieme delle operazioni di simmetria che portano
l’arrangiamento atomico iniziale in se stesso: questo insieme è il cosiddetto gruppo spaziale. Le
operazioni di simmetria che definiscono un gruppo spaziale possono essere: traslazioni, rotazioni,
riflessioni, inversioni e opportune combinazioni, come rototraslazioni e riflessioni con scorrimento.
Il totale dei gruppi spaziali possibili è di 230, ma se la base del reticolo in considerazione ha una
simmetria sferica, le operazioni compatibili con essa riducono la rosa di appartenenza a soli 14
possibili gruppi di simmetria (si sta in questo caso parlando dei reticoli di Bravais).
Nel seguito ci si restringerà al caso in cui lo sforzo applicato sul reticolo sia omogeneo e la
concentrazione dei difetti sia sufficientemente bassa perché lo spostamento di un difetto dal suo sito
a quello del difetto successivo non abbia effetti sull’energia libera del cristallo. In questo caso le
traslazioni diventano ininfluenti e si può operare una ulteriore restrizione, perché è possibile tenere

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in considerazione solamente il tipo di sito su cui il difetto si trova senza preoccuparsi della sua
esatta localizzazione nel cristallo. Dall’ insieme delle operazioni di simmetria che definiscono il
gruppo spaziale, ci si può quindi ridurre al gruppo puntuale GX che è l’insieme delle operazioni di
simmetria non traslazionali che lasciano fisso un punto. I gruppi puntuali per i reticoli cristallini che
hanno invarianza traslazionale sono un totale di 32, ciascuno appartenente ad uno dei sette possibili
sistemi cristallini: triclino, monoclino, ortorombico, tetragonale, trigonale, esagonale, cubico. Il
numero di operazioni di simmetria che definiscono il gruppo G, si chiama ordine e viene indicato
con la lettera h.

Quando il cristallo contiene un difetto, la seconda simmetria che va considerata è quella del difetto,
che può essere semplice, o composto; la sola condizione richiesta è che abbia un arrangiamento
atomico ben definito. Per determinarne la simmetria, il primo passo è di analizzare il difetto
ignorando gli atomi del reticolo di base. In linea generale, a seconda del punto che viene mantenuto
fisso, si trovano simmetrie differenti. Il gruppo puntuale del difetto, indicato con GD, si ottiene
scegliendo come punto di riferimento quello per cui la simmetria del difetto risulta massima. Questo
punto sarà detto sito del difetto (che non è detto coincida con il sito su cui il difetto è allocato, anche
perché va ricordato che il difetto può essere esteso). Una volta stabilita la simmetria del difetto
isolato, il secondo passo è stabilire quale sia la simmetria del suo sito all’interno del reticolo
iniziale. In generale, un qualunque punto interno ad un reticolo non ha necessariamente una
simmetria definita. Nel caso in cui la abbia, esso viene detto “sito speciale”: l’insieme delle
operazioni di tale simmetria verrà indicato con GS e sarà un sottogruppo della simmetria definita in
assenza di difetti, ovvero il suo gruppo di simmetria è sempre un sottogruppo di Gx : G X ⊃ G S .

18
Infine, quello che si vuole stabilire è la simmetria del difetto rispetto agli atomi di base, ovvero il
gruppo puntuale che sarà indicato con Gd. Esso sarà di fatto dato dalle operazioni di simmetria
comuni al difetto di per se’ e al punto nel cristallo perfetto, ovvero: G d = G D ∩ G S .
In particolare, se il difetto non è puntiforme, la sua simmetria Gd sarà minore di quella del sito Gs
G S ⊃ G d , mentre coinciderà con essa nel caso contrario. Quindi il gruppo del difetto nel cristallo Gd
è a sua volta un sottogruppo di Gx (l’introduzione di un difetto non può certamente aumentare la
simmetria del cristallo perfetto).
Se consideriamo il rapporto tra l’ordine del gruppo puntuale del cristallo in assenza di difetto hx e
l’ordine del gruppo puntuale del difetto nel cristallo hd, le considerazioni precedenti implicano che
per il difetto esistano delle orientazioni distinte tra loro, le quali però sono indistinguibili ai fini
della simmetria del cristallo. Il loro numero nd si ottiene dal rapporto:

hx
nd = (3.55)
hd

3.4.4 Tensore di dipolo elastico

L’inserimento di un difetto puntiforme all’interno del reticolo crtisallino produce una deformazione
locale dovuta al riassestamento degli atomi per riportarsi su di un minimo energetico. La
componente a lungo raggio della deformazione è detta dipolo elastico e viene indicata con la lettera
λ.

Il dipolo elastico, che descrive l’interazione tra il difetto e il campo di sollecitazioni applicato, è un
tensore di rango due, una cui caratterizzazione si ricava a partire dalla seguente relazione [1]:

εijan = εijd − ε0ij = ∑ pd λ ijpC p


n
(3.56)

19
ove:

ε ijan : componente anelastica del tensore di deformazione

ε ijd : componente del tensore di deformazione con il difetto

ε ij0 : componente del tensore di deformazione in assenza del difetto

λijp : componente del tensore di dipolo elastico

Cp: frazione molare dei difetti con orientazione p


nd: numero delle orientazioni equivalenti per il difetto p
Per quanto riguarda la frazione molare di difetti Cp, si può notare che essa è data dal rapporto tra il
numero Np dei difetti con orientazione p ed il numero N0 di molecole per unità di volume; questo
permette di esprimere la concentrazione tramite il covolume v0 (v0=1/N0).

Np
Cp = = v0 N p (3.57)
No

Rispetto alla precedente relazione (3.52), le componenti del tensore di dipolo elastico λ saranno
ricavabili come:
∂εijan
λ = p
ij (3.58)
∂C p

La quantità λijp descrive la componente ij della deformazione relativa alla concentrazione di difetti

con stessa orientazione p. Poichè il tensore λ rappresenta la deformazione di un reticolo cristallino,


esso deve essere simmetrico e quindi può essere caratterizzato tramite un ellissoide di deformazione
con tre assi mutualmente perpendicolari. Quando il tensore λ viene espresso nelle coordinate degli
assi principali, esso è diagonale:

 λ1 0 0
 
λ =  0 λ2 0 (3.59)
0 0 λ 3 

e gli autovalori λ1, λ2, λ3, sono indipendenti dalla orientazione p (infatti tutte le nd orientazioni del
difetto sono energeticamente equivalenti e se gli ellissoidi possono avere orientazione differente tra
di loro, gli autovalori sono gli stessi.). Noti gli autovalori, le componenti del tensore di sforzo si
ottengono come:

20
λ ijp = ∑ k =1 γ ikp γ kjp λ k
3
(3.60)

dove i valori γ ikp sono i coseni direttori tra l’asse cristallografico imo e l’asse kmo del dipolo elastico
con orientamento p. In generale non c’è una relazione semplice tra gli assi del cristallo e gli assi
principali del tensore λ. Tuttavia, se il difetto presenta una simmetria, l’ellissoide di deformazione
deve riflettere la simmetria del difetto che rappresenta. Questa condizione fa sì che l’orientamento
degli assi principali giaccia lungo gli assi di simmetria del difetto e che, in alcuni casi, il numero di
autovalori indipendenti possa diminuire da due a tre. Quindi la forma del tensore è completamente
determinata dalla simmetria del difetto: più di una orientazione può dar luogo allo stesso tensore di
deformazione. L’esempio più comune è quello di due difetti la cui orientazione differisca di 180°: il
tensore ha un’inversione di simmetria che il difetto non ha. In generale si può dimostrare che
grandezze descritte da un tensore simmetrico di secondo rango sono descritte dallo stesso tensore se
appartengono allo stesso dei sette possibili sistemi cristallini. Il gruppo di simmetria del tensore λ è
il gruppo con la simmetria maggiore appartenente allo stesso sistema di Gd, ed è ancora un
sottogruppo di Gx che viene indicato con Gt ( Gd ⊆ Gt e hd ≤ ht ).

Il numero nt di tensori λ indipendenti, ovvero il numero di possibili configurazioni dello sforzo


intorno al difetto è: nt=hx/ht. Esso e’ un numero intero, piochè la simmetria del dipolo è un
sottogruppo della simmetria del cristallo. Essendo la simmetria del tensore maggiore o uguale a
quella del difetto, allora risulta che nt < nd.
Quando l’applicazione di uno sforzo esterno porta alcune orientazioni inizialmente equivalenti a
non esserlo più, allora c’è una ridistribuzione delle popolazioni Cp, si hanno diverse deformazioni e
si manifesta il comportamento anelastico. Se tutte le orientazioni dessero luogo alla stessa
deformazione, esse rimarrebbero equivalenti anche in seguito all’applicazione dello sforzo e il
cristallo non presenterebbe rilassamento. Il criterio perchè si abbia rilassamento è quindi che nt>1
(se fosse nt=1, allora tutti i difetti si comporterebbero nello stesso modo del campo di sollecitazione
applicato). Il valore nt è anche il massimo numero di livelli energetici ai quali l’applicazione della
sollecitazione può dare luogo.

3.4.5 Interazione tra dipolo elastico e sforzo esterno

Dopo l’introduzione del concetto di dipolo elastico, si vuole analizzare la sua interazione con lo
sforzo esterno. In particolare si vuole vedere come esso interviene nella definizione dell’intensità di

21
rilassamento ∆ e della deformazione ε. Una volta ottenuta l’equazione della deformazione, sarà
possibile esprimere l’equazione del solido anelastico standard.
Nella descrizione della deformazione ε e dello sforzo σ, ci si può servire di un adeguato sistema di
coordinate normali [2] nel quale essi siano dei vettori relazionati da una matrice puramente
diagonale (che può essere il modulo elastico M, o la cedevolezza J). In questo contesto ci si
restringe al caso unidimensionale dove queste quantità siano dei semplici scalari. Riprendendo la
definizione data in precedenza per l’intensità di rilassamento ∆ (3.11):

∂J 1 ∂ε an
∆= = (3.61)
JU JU ∂σ

Dalla espressione della deformazione attraverso il dipolo elastico (3.56) si ricava che:

∂ε an ∂c ∂c ∂Eβ
= ∑ αd=1 λ ( α ) α = ∑ αd=1 ∑ βd=1 λ ( α ) α
n n n
(3.62)
∂σ ∂σ ∂Eβ ∂σ

La derivata dell’energia rispetto allo sforzo può essere ricavata da considerazioni di tipo
termodinamico a partire dalla forma differenziale dell’energia libera di Gibbs. Per unità di volume,
il differenziale dell’energia libera di Gibbs è il seguente:

1
∑α
nd
dg = − sdT − ε an dσ + =1
Eα dcα (3.63)
v0

dove, usando le usuali notazioni: g è l’energia libera di Gibbs per unità di volume, s è l’entropia per
unità di volume, T è la temperatura.
∂g (α ) ∂ε an
Considerandone la derivata, risulta che: ε an
=− . Ricordando che per la (3.58): λ = ,
∂σ ∂cα
allora si può esprimere tale componente del dipolo elastico in funzione dell’energia di attivazione
del difetto Eα, passando attraverso l’energia libera di Gibbs. Ricomponendo le diverse informazioni,
risulta quindi che:
∂ε an ∂  ∂g  ∂2 g 1 ∂Eα
λ( α ) = =−   = − =− (3.64)
∂cα ∂cα  ∂σ  ∂σ∂cα v0 ∂σ

Questo consente di riscrivere la (3.62) nel seguente modo:

22
∂ε an ∂c ∂Eβ ∂c
= ∑ αd=1 ∑ βd=1 λ ( α ) α = −v0 ∑ αd=1 ∑ βd=1 λ ( α )λ ( β ) α
n n n n
(3.65)
∂σ ∂Eβ ∂σ ∂Eβ

Occorre ora stabilire come cambia la concentrazione dei difetti di un certo tipo al variare
dell’energia relativa a difetti di tipo diverso. Nel limite di bassa concentrazione, ovvero potendo
assumere trascurabile la probabilità che più di un difetto occupi lo stesso sito, si assume che la
distribuzione di probabilità dei difetti sia alla Boltzmann, ovvero che il peso statistico wα di una
certa configurazione avente energia Eα sia:

wα = e− β Eα (3.66)

−1
Dove come in precedenza β = ( k BT ) . Considerando che una certa configurazione può avere

molteplicità mα diversa da uno e che sommando le concentrazioni di singolo difetto bisogna


ottenere la concentrazione totale c dei difetti (per mole), allora segue che:

mα wα e − β Eα
cα = c ≡ cmα (3.67)
∑β
nd − β Eβ
Z mβ e

E’ ora possibile analizzare la derivata della (3.67) al fine di utilizzarla nella (3.65). Con pochi
passaggi che in questa sede vengono omessi, si ottiene [6]:

∂cα c 
= β cα  γ − δαγ  (3.68)
∂Eγ  c 

Da questo segue l’espressione cercata per la variazione della componente anelastica della
deformazione al variare dello stress:

∂ε an 1  cβ  1
∑α ∑ β ∑α ∑ β α cα cβ ( λ α )
nd nd nd 2
= −v0 λ ( α )λ ( β )cα  − δαβ  = v0 ( )
− λ( β ) (3.69)
∂σ β =1 =1
 c  cβ =1 <

Riprendendo la (3.61) e utilizzando la (3.69), si ottiene l’espressione seguente per l’intensità di


rilassamento anelastico:

23
∂J 1 ∂ε an 1
∑α ∑ β α cα cβ ( λ α )
nd 2
∆= = = v0 ( )
− λ( β ) (3.70)
JU JU ∂σ JU cβ =1 <

Si può notare che per dipoli uguali non c’è una ridistribuzione della popolazione dei livelli: a questa
eventualità resta associata una risposta di tipo puramente elastico (istantanea) e quindi l’intensità
del rilassamento anelastico (ritardata) è nulla. Si può notare, inoltre, come la risposta anelastica
macroscopica sia data dalla somma delle risposte anelastiche di tutti gli accoppiamenti di stati
(differenti) per ogni difetto.
Si vuole ora considerare il caso più elementare di un singolo difetto che possa presentarsi in due soli
stati. Ponendo:

λ (1) + λ ( 2) λ ( 2) − λ (1)
≡λ ≡ ∆λ
2 2

c1 + c2 ≡ c c2 − c1 ≡ ∆c

l’equazione (3.56) può essere riscritta come:

ε an = c1λ (1) + c2 λ ( 2) = cλ + ∆c∆λ (3.71)

Dei due termini a destra dell’ultima eguaglianza, il primo resta costante, mentre l’altro offre
informazioni riguardo alla variazione della deformazione. Infatti, quando viene applicato uno sforzo
sul reticolo, la concentrazione totale dei difetti c resta invariata, ma la ridistribuzione della
popolazione dei livelli comporta una variazione delle popolazioni relative e dunque di ∆c. Questo
può essere infatti espresso in funzione della differenza di energia tra i due livelli E ≡ E2 − E1 .

24
Ne deriva la seguente espressione:

 e − β E2 e − β E1   E
∆c = c2 − c1 = c  − β E1 − β E2 − − β E1 − β E2  = −c tanh  β  (3.72)
e +e e +e   2

Al fine di ottenere l’intensità del rilassamento ∆, omettendo il termine costante della (3.71), si vuole
sviluppare la quantità:
∂ε an ∂ ∂∆c ∂E
= ( ∆c∆λ ) = ∆λ (3.73)
∂σ ∂σ ∂E ∂σ

dove si è considerato che, oltre alla presenza di c costante, gli autovalori λ1 e λ2 non dipendono
dallo sforzo σ. Riprendendo la formula precedente, si ha che:

∂ ∂   E  c  E
∆c = −c  tanh  β   = − β sec h 2  β  (3.74)
∂E ∂E   2  2  2

Per quanto riguarda l’energia, si vede dalla (3.64) che arrestandosi ad uno sviluppo al primo ordine,
si può scrivere:
Eα ( σ ) = Eα ( 0 ) − v0λ (α )σ (3.75)

adeguando la notazione al caso in considerazione, si può porre: E( σ )≡ E2 ( σ ) − E1( σ ) , da cui:

( 2 1
)
E( σ ) = [ E2 ( 0 ) − E1( 0 )] − v0σ λ ( ) − λ ( ) ≡ E( 0 ) − v0σ∆λ (3.76)


E( σ ) = −v0 ∆λ (3.77)
∂σ

Riportando questi risultati nelle (3.73) e (3.74)si arriva alla seguente espressione:

∂ε an cv  E
= β 0 sec h 2  β  ∆λ 2 (3.78)
∂σ 2  2

dalla quale si ottiene l’espressione per l’intensità di rilassamento:

25
1 ∂ε an cv  E
∆= = β 0 sec h 2  β  ∆λ 2 (3.79)
JU ∂σ 2 JU  2

3.4.6 Equazione del solido anelastico standard

Considerando i fenomeni di diffusione è possibile arrivare all’equazione del solido anelastico


standard. Riprendendo il caso precedente di un solo difetto che abbia due possibili orientazioni, al
passaggio dalla orientazione 1 alla 2 sia associata la frequenza ν21, mentre per al passaggio inverso
sia associata la frequenza ν12. Siano detti: “n1” e “n2” i numeri di occupazione dei due stati, allora si
hanno le seguenti relazioni:
n1 + n2 = 1 (3.80)

n1 = −ν 21n1 + ν 12 n2
(3.81)
n2 = −ν 12 n2 +ν 21n1

Poichè all’equilibrio entrambe le equazioni (3.81) sono nulle, si può scrivere che :

−ν 21n1 +ν 12 n2 = 0 = −ν 12 n2 + ν 21n1 (3.82)

dove la barra orizzontale indica il valore d’equilibrio. Utilizzando le relazioni (3.80) e (3.82), si
ottiene un’espressione dei numeri di occupazione all’equilibrio in funzione delle frequenze:

ν 12
n1 =
ν 12 +ν 21
(3.83)
ν 21
n2 =
ν 12 +ν 21

Questi valori sono naturalmente coerenti con il principio del bilancio dettagliato e si può vedere che
dalle eguaglianze (3.83) deriva anche che:

n1 ν 12
= = eβ E (3.84)
n2 ν 21

26
E’ possibile riscrivere la variazione della differenza tra le due popolazioni in termini dei valori di
equilibrio. Se si analizza la variazione della quantità n ≡ n2 − n1 dalle (3.81) si ha che:

n ≡ n2 − n1 = 2ν 21n2 − 2ν 12 n1 (3.85)

ovvero, utilizzando la (3.80) e le (3.83):

n = −(ν 21 + ν 12 )[( n2 − n1 ) − ( n2 − n1 )] ≡ −(ν 21 + ν 12 ) ( n − n ) (3.86)

E’ utile ora introdurre il tempo di rilassamento, ovvero il tempo impiegato dal difetto per cambiare
stato. In generale un solido anelastico standard è caratterizzato da due tempi di rilassamento
differenti a seconda che si applichi uno sforzo o una deformazione; bisognerebbe quindi distinguere
i due casi a cui competono rispettivamente τσ e τε. All’atto pratico, per piccole dissipazioni la loro
differenza è trascurabile ed è possibile considerare un tempo di rilassamento unico τ [1]. Questo
consente di riscrivere la (3.86) in forma più compatta:

n = −
(n − n ) (3.87)
τ

Questo risultato può essere utilizzato nell’ espressione della deformazione. Ricordando le relazioni

ε = ε el + ε anel ε an = ∆c∆λ


(3.2), (3.5) e (3.71) si possono riassumere i seguenti risultati:  ,  el .
ε = J σ ε = JU σ
Notando che:
• la variazione di concentrazione dei difetti ∆c può essere espressa come: ∆c = c( n2 − n1 ) ≡ cn

• all’equilibrio valgono le seguenti relazioni: ε eq = J Rσ e ∆ceq = c( n2 − n1 ) ≡ cn


si ottiene:
J Rσ = JU σ + cn ∆λ (3.88)
da cui:
( J R − JU )σ δJ
n= = σ ≡ µσ (3.89)
c∆λ c∆λ

Se si deriva la deformazione, si ha:

27
n−n
ε = JU σ + cn∆λ = JU σ − c∆λ (3.90)
τ

Tenendo ancora presenti le relazioni (3.71) e (3.89) si ottiene l’equazione cercata:

ε J
ε + = JU σ + R σ (3.91)
τ τ

Questa è l’equazione del solido anelastico standard che con ragionamenti analoghi può essere
espressa in termini del modulo di rilassamento M, piuttosto che della cedevolezza J, ottenendo:

σ ε
σ + = M U ε + M R (3.92)
τ τ

Ambedue sono equazioni differenziali lineari a tre parametri: JU, (MU), JR, (MR), τ. Si può verificare
che questo è il numero minimo di parametri necessari per descrivere contemporaneamente la
risposta elastica e anelastica del sistema; alla stessa equazione si arriva tramite il modello
meccanico di Maxwell-Voight in cui il sistema è schematizzato utilizzando diverse possibili
combinazioni di due molle e un ammortizzatore [1,4].

3.4.7 Proprietà dinamiche

Si prende ora in considerazione il caso in cui la sollecitazione applicata sia di tipo periodico, in
particolare di tipo oscillante. Le funzioni di risposta saranno anch’esse dipendenti dal tempo,
ovvero si avranno le cosiddette “funzioni di risposta dinamiche”. Concentrandosi sull’applicazione
di uno sforzo σ, si studierà la deformazione ε del sistema tramite la funzione di risposta
cedevolezza J. Tutte queste grandezze saranno esaminate nella loro formulazione complessa.
Riportando quanto già visto nel paragrafo (3.1.3), si ha:
• per lo sforzo,(3.20):
σ ( t ) = σ 0 eiωt

• per la deformazione, (3.21) e (3.24):

28
ε ω ( t ) = ε 0ei( ωt −ϕ )

ε ω ( t ) = ( ε1 − iε 2 )eiωt

• per la cedevolezza, (3.22) e (3.25):

ε ε
J*(ω ) ≡ =| J( ω )| e −iφ ( ω ) = 0 e −iφ ( ω )
σ σ0

( ε 1 - iε 2 )eiωt
J*(ω ) = ≡ J1( ω ) − iJ 2 ( ω )
σ 0eiωt

Per quanto riguarda il numero di occupazione, il suo andamento nel tempo può essere anch’esso
espresso in forma complessa come:
n( t ) = n0ei( ωt −ϑ ) (3.93)

Attraverso l’uso delle (3.87) e (3.89) si vede che vale la seguente relazione:

iωτ n0 e− iθ = − n0 e− iθ + µσ 0
(3.94)
µσ 0
⇒ n0 e− iθ =
1 + iωτ

Evidenziando la parte reale ed immaginaria della precedente formula, è possibile studiare il


comportamento del processo di rilassamento.

 1 ωτ 
n ≡ n0e −iθ = µσ 0  − i  (3.95)
 1 + (ωτ )2 1 + (ωτ )2 
 

Se ωτ <<1, il sistema è completamente rilassato e segue l’equilibrio istantaneo: n  n( σ 0 ) . In

questo caso si è nel limite quasi-statico.


Se ωτ >>1, la risposta del sistema è troppo lenta rispetto alla sollecitazione: non si ha una risposta
anelastica e n  0 = n( σ = 0 ) .
Quando ωτ  1 , interviene in modo non trascurabile la parte puramente immaginaria di n, che
descrive la dissipazione.

29
Posto questo, è possibile analizzare la forma assunta dalla parte reale e dalla parte immaginaria
della cedevolezza J e del modulo M in funzione di ωτ.
Per quanto riguarda la cedevolezza J:

ε 0 −iθ c∆λ c∆λ 2δ J σ0


J1( ω ) − iJ 2 ( ω ) = e = JU + n0e −iθ = JU +
σ0 2σ 0 2σ 0 c∆λ (1 + iωτ )
(3.96)
δJ
J1( ω ) − iJ 2 ( ω ) = JU +
(1 + iωτ )
Separando i due contributi si ottengono le equazioni note come “equazioni di Debye”, dal nome di
P. Debye che per primo le derivò facendone uso nella descrizione del rilassamento dielettrico:

 δJ
 J1 ( ω ) = J U +
1 + (ωτ )
2

 (3.97)
 J ( ω ) = δ J ωτ
 2 1 + (ωτ )
2

ωτ
Rispetto all’andamento di J2(ω), si può notare che una funzione del tipo: è detta “picco
1 + ( ωτ )2
di Debye” e tipicamente si grafica in funzione di log(ωτ). Essa è simmetrica rispetto ωτ=1, dove
presenta il massimo. Considerando la larghezza del picco a mezza altezza si ha: ∆(log ωτ )=1,144 ,
che corrisponde ad una variazione di ωτ poco superiore ad una decade.
1
Rispetto all’andamento di J1(ω), si può notare che anche la funzione del tipo: viene
1 + ( ωτ )2
tipicamente graficata in funzione di log(ωτ), ma nel relativo intervallo corrispondente all’ampiezza
del picco di Debye, la funzione decresce, passando da ¾ ad ¼ del suo valore massimo, e vale
∆(log ωτ )=0,477. Ovvero, essa presenta un intervallo di variazione più stretto rispetto al picco di
Debye.
Asintoticamente, per basse frequenze, (ovvero ωτ<<1) e per alte frequenze, (ovvero ωτ>>1), le
funzioni J1(ω) e J2(ω) mostrano i seguenti comportamenti asintotici:

 J1 ( ω ) → J R
ωτ  1 ⇒ 
 J 2( ω ) → 0
(3.98)
 J ( ω ) → JU
ωτ  1 ⇒  1
 J 2( ω ) → 0

30
Un analogo discorso può essere fatto a partire dalla deformazione ed eseguendo l’analisi del modulo
M, fino ad ottenere le due funzioni dinamiche M1(ω) e M2(ω) che hanno la seguente espressione:

 δM
 M 1( ω ) = M U −
1 + (ωτ )
2

 (3.99)
M ( ω ) = δ M ωτ
 2
1 + (ωτ )
2

Si può notare che gli andamenti delle due funzioni sono speculari tra di loro, come viene riportato di
seguito.

3.4.8 Dissipazione

La misura delle funzioni di risposta descritte nella sezione precedente risulta in realtà più
difficoltosa rispetto ad una misura della dissipazione di energia elastica, precedentemente introdotta
ed indicata come Q-1. Essa si lega alle funzioni di risposta dinamica attraverso la relazione (3.39),
J2 M 2
ovvero: Q −1 = tan (ϕ ) = =
J1 M 1
Utilizzando i risultati ottenuti per la parte reale ed immaginaria della cedevolezza, si può riscrivere:

ωτ
Q −1 = δ J (3.100)
JU 1 + (ωτ )  + δ J
2

 

Ricordando che per la (3.12) si ha: JR =JU (∆+ 1) , allora l’espressione precedente si può riscrivere
con pochi passaggi come:

31
ωτ
Q −1 = tan (ϕ ) = ∆ (3.101)
( 1 + ∆ ) + ( ωτ )2

Il tempo di decadimento τ può essere rapportato alla media geometrica dei tempi di decadimento τε
e τσ, ovvero τ ottenendo l’espressione seguente [1]:

τ = τ (1 + ∆ )
12
(3.102)

Sostituendo.

ωτ (1 + ∆ )
12
−1 ∆ ωτ
Q =∆ = (3.103)
( 1 + ∆ ) + ( 1 + ∆ )( ωτ ) (1 + ∆ ) 1 + ( ωτ )
2 12 2

Nel limite in cui δJ<<JU, ovvero ∆<<1, si ha che τ ∼ τ e la (3.103) assume la forma:

ωτ
Q −1 = ∆ (3.104)
1 + ( ωτ )2

Questa è ancora una funzione di tipo picco di Debye che presenta un massimo per ωτ=1. E’ facile
vedere che:
−1 ∆
QMAX = Q −1( ωτ = 1 )  (3.105)
2

Lo stesso risultato si ottiene considerando la dissipazione di energia elastica come funzione della
parte reale ed immaginaria del modulo, M1(ω) e M2(ω).
Dai risultati ottenuti finora si può concludere che:
• l’intensità di rilassamento ∆ si può ricavare misurando l’altezza del picco
• il tempo medio di rilassamento τ si può ricavare misurando la frequenza a cui si presenta
massimo del picco

32
3.4.9 Proprietà dinamiche in funzione della temperatura

Una difficoltà nello studio della dissipazione può essere rappresentata dal fatto che per tracciare
sperimentalmente tutto un picco di Debye bisogna essere in grado di variare ωτ per almeno due
decadi. Un primo metodo prevede di tenere costante τ e variare la frequenza, ma non sempre
variando i parametri inerziali del sistema si riesce a coprire tutto l’intervallo e può essere necessario
disporre di molteplici campioni vibranti su modi differenti.
Un metodo più efficace per coprire un ampio intervallo in ωτ consiste nel variare il tempo di
rilassamento τ agendo sulla temperatura. La legge che regola questo fenomeno è la legge di
Arrhenius, valida fino a quando il rilassamento è dovuto a salti classici di barriere di potenziale.
Ponendo:
E=energia di attivazione del processo di rilassamento
kB=costante di Boltzmann
τ0=tempo di rilassamento per temperatura T infinita
la legge di Arrhenius si esprime come:
E

τ = τ 0e k BT
(3.106)

Sostituendo quest’espressione all’interno della (3.104) si ottiene una dipendenza dalla temperatura.
In particolare il picco di Debye può essere graficato in funzione dell’inverso della temperatura
ottenendo lo stesso andamento precedentemente ottenuto graficando in funzione di log(ωτ), a meno
della traslazione di una quantità costante pari a log(ωτ0). Questo è verificabile direttamente facendo
il logaritmo della equazione (3.106) che sia stata precedentemente moltiplicata per ω.

E1
log( ωτ ) = log( ωτ 0 ) +   (3.107)
 k T

Da questa relazione si può derivare l’energia di attivazione, notando che il massimo cade in
corrispondenza di ωτ=1. Ne consegue che:

E 1
log( ωτ = 1 ) = 0 = log( ωτ 0 ) +   (3.108)
 k  Tmax

33
1
Questa può essere considerata come una relazione lineare tra log(ωτ0) e . Registrando la
Tmax

temperatura di picco per frequenze di risonanza differenti, si ottiene l’energia di attivazione come
coefficiente lineare della retta risultante.
−1
Un’ultima connessione può essere fatta tra il valore di picco Qmax della dissipazione dell’energia

elastica e la variazione in frequenza ∆f. Così come nell’oscillatore armonico ω ∝ k (dove

k=costante elastica), nel caso in esame f ∝ M = J −1 . Dai limiti asintotici considerati nella
sezione 3.4.7, si può stimare che:

 f ( ωτ >> 1 ) ∝ JU−1 2
 −1
(3.109)
 f ( ωτ << 1 ) ∝ ( JU + δ J )
2

Ricordando che vale il caso di dissipazioni molto basse, per cui ∆<<1 e δJ<<JU ≅J, allora la
variazione in frequenza può essere scritta come:

δJ
∆f ≡ f ( ωτ >> 1 ) − f ( ωτ >> 1 ) = (3.110)
2J 2 3

δJ
Poichè per la (3.11) = ∆ , allora si ottiene la relazione che lega l’ampiezza del picco di
JU
dissipazione elastica con la variazione in frequenza che deve essere ad esso correlato. Infatti:

∆f δJ 12 1 δ J ∆ −1
 23
JU = =  Qmax (3.111)
f 2 JU 2 JU 2

3.5 Descrizione tensoriale e costanti elastiche

Per l’analisi della relazione intercorrente tra sforzo σ e deformazione ε bisogna tener presente che è
possibile dimostrare [3] che queste grandezze sono dei tensori di secondo rango. Per la loro
descrizione si usa una notazione a due indici (σij, εij): essa è necessaria per la esprimere la legge di
trasformazione da un certo sistema di riferimento ad un altro ed è in realtà legata alla definizione
stessa di tensore. Infatti, in linea generale [3], si definisce tensore di rango due T una quantità fisica

34
che in un certo sistema di assi coordinati ( O, xi ) sia definita attraverso nove componenti Tij le quali

rispetto ad un nuovo sistema ( O ' , xi, ) si trasformino secondo le leggi seguenti:

Tij' = aik a jlTkl (3.112)

Tij = aki aijTkl' (3.113)

 
Questo permette anche di dire che , se due vettori P, q sono collegati da nove quantità Tij secondo
la realzione (3.114), allora le quantità Tij sono le componenti di un tensore del secondo rango.

Pi = Tij q j (3.114)

Un tensore del secondo rango può essere simmetrico oppure antisimmetrico a seconda che valgano,
rispettivamente, le seguenti condizioni:

Tij = T ji
 (3.115)
Tij = −T ji

Le proprietà di simmetria e antisimmetria sono invariati rispetto alla scelta degli assi di riferimento
e si può inoltre dimostrare che ogni tensore di rango due può essere decomposto nella somma di
altri due tensori, che siano uno simmetrico e uno antisimmetrico.

1 1
Tij =
2
( Tij + T ji ) + (Tij − T ji ) ≡ Sij + Aij
2
(3.116)
 Sij = S ji

 Aij = − Aji

Una proprietà interessante dei tensori simmetrici è la possibilità di trovare sempre un opportuno
sistema di riferimento nel quale assumano una forma diagonale: quando questo avviene, si dice che
il tensore è riferito ai suoi assi principali; le componenti diagonali che ne risultano sono dette
componenti principali e possono essere scritte con un solo indice.

35
 S11 0 0   S1 0 0 
0 S22 0  →  0 S2 0  (3.117)

 0 0 S33   0 0 S s 3 

Inoltre, ogni tensore del secondo rango può essere rappresentato geometricamente, tramite
l’equazione di una quadrica. Questo tipo di equazione [3] ha infatti nove coefficienti indipendenti
che possono ridursi sensibilmente in diversi casi: la prima riduzione si osserva nel caso di un
tensore simmetrico, dove le componenti si riducono da nove a sei; una riduzione ulteriore si ha
individuando il sistema di riferimento degli assi principali, nel qual caso la quadrica assume quella
che viene indicata come forma canonica, che presenta solo tre coefficienti indipendenti e che viene
riportata di seguito:

S1 x12 + S 2 x22 + S3 x32 = 1 (3.118)

Il vantaggio della forma canonica consiste nello scindere le sei informazioni necessarie alla
determinazione del sistema in tre coefficienti e tre coseni direttori, invece che in sei coefficienti.
Per quanto riguarda il comportamento di un cristallo sul quale sia applicato uno sforzo σ con
conseguente deformazione ε, si può tener presente inizialmente il solo caso elastico, e la risposta del
cristallo sarà descritta tramite le costanti elastiche. Esse, dovendo descrivere il nesso tra i due
suddetti tensori, necessitano di quattro indici per restare ben determinate e sono le componenti di un
tensore di quarto rango. Per casi particolari, quali deformazioni uniassiali oppure sforzi di puro
taglio, gli indici possono essere ridotti ad uno solo e quindi sia lo sforzo che la deformazione sono
considerabili degli scalari (le corrispondenti costanti corrispondono al modulo di taglio e al modulo
di Young).

3.5.1 Tensori di sforzo e di deformazione

Considerando un elemento di volume cubico unitario, con le facce ortogonali agli assi coordinati
( O, i , j , k ) si indicano con la notazione a due indici σij le componenti dello sforzo nelle direzioni

parallele agli assi coordinati, ove l’indice i specifica che lo sforzo è esercitato sulla faccia
ortogonale all’asse i e il secondo indice j indica che è invece parallelo all’asse j. Le forze agenti su
ogni faccia risultano quindi scomposte in un totale di tre componenti per ciascun asse coordinato. I

36
coefficienti con indice uguale descrivono le componenti che agiscono ortogonalmente alle facce e
sono detti sforzi normali. Quelli con indice diverso, descrivono le componenti che agiscono
parallelamente alle facce e sono detti sforzi di taglio. Delle diciotto componenti risultanti, in realtà
solo sei risultano indipendenti: è infatti possibile dimostrare che le componenti di taglio dello sforzo

sono uguali, ovvero che per i≠j si ha σij = σ ji . Se si indicano inoltre: con P ≡ ( P1 , P2 , P3 ) lo sforzo

nell’intorno di un punto (ovvero la forza per unità di superficie rispetto ad una certa orientazione

esercitata nell’intorno di un punto assegnato);e con n ≡ ( n1 , n2 , n3 ) la normale alla superficie nel

punto si può dimostrare [3] che valgono le formule di Cauchy:

Pi = σij n j (3.119)

Questo implica che le componenti dello sforzo sono le componenti di un tensore del secondo rango,
il quale risulta anche simmetrico e può quindi essere espresso in forma diagonale nel sistema di assi
principali:

σ 11 σ 12 σ 13  σ 1 0 0 
σ  →  0 σ 2 0 
 12 σ 22 σ 23   (3.120)
σ 13 σ 23 σ 33   0 0 σ 3 

Si può notare che quando il tensore degli sforzi è riferito ai suoi assi principali, le direzioni degli
sforzi coincidono con quelle degli assi e quindi si è in assenza di sforzi di taglio.

Per descrivere il tensore di deformazione occorre prendere in considerazione cosa accade della
distanza tra due punti in un solido, dopo che questo abbia subito una sollecitazione.

37
 
Indicando con PQ la distanza iniziale tra i punti P e Q, con P ' Q ' la distanza tra di essi dopo che

ciascuno si sia portato rispettivamente nella posizione P ' e Q ' a causa della sollecitazione, si può

verificare che P ' Q ' può essere espresso mediante la somma di due soli vettori che saranno di
 
seguito indicati come: dx ≡ ( dx1 , dx2 , dx3 ) e du ≡ ( du1 , du2 , du3 ) .

  


P ' Q ' = dx + du (3.121)

Tra di essi la relazione (usando la notazione di Einstein sugli indici muti), con (i,j)={1, 2, 3}

∂ui
dui = dx j (3.122)
∂x j

Se si rinomina:
∂ui
eij ≡ (3.123)
∂x j

si vede dalla (3.122) che le quantità eij sono le componenti di un tensore del secondo rango, indicato
come tensore degli spostamenti e il quale relaziona la variazione in seguito a deformazione della
distanza tra due punti alla distanza iniziale; in particolare, le componenti diagonali con i=j
descrivono le deformazioni per unità di lunghezza di segmenti inizialmente orientati lungo gli assi
di riferimento, mentre le componenti eij con i≠j descrivono la rotazione intorno all’asse k di un
elemento lineare inizialmente parallelo a j che ruoti verso l’asse i, (ovvero e12 descrive la rotazione
verso x1 di un elemento parallelo a x2 intorno all’asse x3).
In realtà il tensore appena esaminato non può essere utilizzato come misura delle deformazioni
subite dal solido in quanto negli spostamenti sono comprese anche le rotazioni rigide e questo
implica che il tensore e sia diverso da zero anche per rotazioni pure. Riscrivendo il tensore degli
spostamenti come somma di una parte simmetrica ε e di una antisimmetrica ω, si dimostra che la
prima descrive le deformazioni, mentre la seconda descrive appunto le pure rotazioni rigide.

eij = εij + ωij (3.124)

Il tensore ε è chiamato tensore delle deformazioni e resta definito mediante il tensore degli
spostamenti nel seguente modo:
38
 1 1 
 e11 ( e12 + e21 ) ( e13 + e31 ) 
ε11 ε 21 ε 31   2 2

ε   1 1
( e23 + e32 )
 12 ε 22 ε 32  ≡ ( e12 + e21 )
2
e22
2 
(3.125)
ε13 ε 23 ε 33   
 1 ( e13 + e31 ) 1 ( e23 + e32 ) e33 
 2 2 

Anche in questo caso le tre componenti sulla diagonale descrivono le deformazioni tensili, mentre
le tre fuori della diagonale sono le deformazioni di taglio. Come in precedenza, le componenti
indipendenti sono un totale di sei.
Per la loro simmetria, i tensori delle deformazioni e dello sforzo possono essere espressi oltre che
nella notazione tensoriale a due indici anche in notazione matriciale (notazione di Voight).

3.5.2 Legge di Hooke in forma tensoriale

Tenendo conto della forma tensoriale dello sforzo e della deformazione, la legge di Hooke
unidimensionale (3.1), (3.2) deve essere generalizzata considerando che ogni componente di
ciascun tensore può essere espressa come combinazione lineare di tutte le componenti dell’altro.
Adottando ancora una volta la notazione di Einstein sugli indici ripetuti, si possono scrivere le
seguenti relazioni
ε ij = sijklσ kl (3.126)

ovvero:
σ ij = cijkl ε kl (3.127)

In questa notazione i coefficienti sijkl sono costanti elastiche di cedevolezza, mentre le cijkl sono
costanti elastiche di rigidità ed è possibile dimostrare [3] che esse soddisfano i criteri di definizione
dei tensori del quarto rango. In generale, un tensore del quarto rango, che è identificato tramite l’uso
di quattro indici, possiede 34 =81 componenti; nello specifico a causa della simmetria dei tensori σij
e εij risulta una invarianza dei coefficienti per permutazione degli indici sia della prima coppia, che
della seconda, ovvero per lo scambio di “i” con “j” e di “k” con “l”.
Quindi:

39
 sijkl = s jikl
 (3.128)
 sijkl = sijlk
E analogamente per cijkl.
In questo modo il numero di elementi tensoriali indipendenti si riduce da ottantuno a trentasei∗.
Per la simmetria dei tensori delle deformazioni e dello sforzo si può abbandonare la notazione
tensoriale a due indici, per utilizzare una notazione matriciale ad un solo indice, altrimenti nota
come notazione di Voight la quale prevede di associare ad ogni coefficiente un indice come viene
indicato di seguito:

 i =1 i =6 ←i = 5 
 
 i =6 i = 2 ↑i = 4  (3.129)
↑ ←↑i =3 
 i = 5 ←i = 4

Sulla diagonale si mantengono le stesse costanti con una semplice modifica dell’indice che da
doppio diventa singolo. Per quanto riguarda invece i termini fuori della diagonale:
• per i coefficienti dello sforzo è previsto che l’indice sia semplicemente rinominato nel modo
seguente {(σ 23 → σ 4 ) ,(σ 31 → σ 5 ) ,(σ 12 → σ 6 )}

• per i coefficienti della deformazione è invece prevista sia una modifica dell’indice in modo
assolutamente analogo al precedente, sia che la moltiplicazione per un fattore ½, da cui si
 1   1   1 
ottiene che:  ε 23 → ε 4  , ε 31 → ε 5  , ε12 → ε 6   .
 2   2   2 
Applicando questo stesso criterio di sostituzione degli indici alle costanti elastiche di rigidità, si può
verificare che la notazione matriciale ad un solo indice permette di riscrivere in modo più compatto
la legge di Hooke, che assume la forma seguente, con gli indici che scorrono da uno a sei,
(i,j)={1,2,..,6}:

σ i = cijε j (3.130)

Per quanto riguarda invece le costanti di cedevolezza, bisogna che esse siano anche moltiplicate per
un opportuno coefficiente numerico, secondo lo schema che segue:


Si hanno: tre coefficienti con (i=j)=(k=l) che non ammettono permutazioni , sei con (i=j)≠(k=l), nove con (i=j)≠(k≠l) o
viceversa che ammettono una permutazione, diciotto con (i≠j)≠(k≠l) che ammettono due permutazioni.

40
sijkl = smn ( m, n ) = {1, 2,3}

sijkl =
1
smn m = {1, 2,3} m = {4,5, 6}
2  ∨ 
n = {4,5, 6} n = {1, 2,3}

sijkl =
1
smn ( m, n ) = {4,5, 6}
4

Se si ripsettano le trasformazioni precedenti, allora risulta valida anche anche la seconda equazione
per la legge di Hooke:

ε i = sijσ j (3.131)

In questo modo i tensori di sforzo e di deformazione formano delle matrici tre per tre ed i trentasei
coefficienti formano delle matrici sei per sei. E’ così possibile relazionare le costanti elastiche ai
moduli della cedevolezza tramite una inversione di matrici.
I valori sulla diagonale possono essere ricondotti a grandezze note: le costanti sii per i={1,2,3}
rappresentano il reciproco del modulo di Young nella direzione i e le sii per i={4,5,6} rappresentano
il reciproco del modulo di taglio per le direzioni corrispondenti. Per le costanti cii vale un analogo
discorso, anche se va sottolineato che nei rispettivi casi non si hanno ne’ il modulo di Young ne’ il
modulo di taglio perchè cii ≠ sii−1 .
Per quanto riguarda i valori fuori della diagonale delle costanti elastiche, si può procedere ad
un’ulteriore semplificazione a partire da alcune considerazioni energetiche. Se si applica un campo
tensoriale di sforzi ad un solido elastico, il lavoro elementare per unità di volume può essere scritto
nella seguente forma dove gli indici (i,j)={1,2,...,6}:

δ L = σ i d ε i = cijε j d ε i (3.132)

Se si considera di applicare una deformazione in condizioni di adiabaticità e reversibilità, la (3.132)


è pari alla variazione dell’energia interna, scambiata di segno dU = −δL . Essendo l’energia una
funzione di stato, essa avrà un differenziale esatto, per cui le derivate incrociate saranno uguali:

∂  ∂U  ∂  ∂U 
−  =−   (3.133)
∂ε j  ∂εi  ∂εi  ∂ε j 

Questo implica che per i coefficienti elastici valga la seguente proprietà:

41
cij = c ji (3.134)

per cui i coefficienti indipendenti si riducono ulteriormente da trentasei a ventuno.


Un discorso analogo può essere fatto per i coefficienti sij.

3.6 Transizioni di fase

Quando un materiale subisce una transizione di fase, possono manifestarsi variazioni nella struttura
cristallina, oppure delle variazioni nello stato di ordine (come delle trasformazioni ferromagnetiche
con ordine di tipo magnetico, delle transizioni ferroelettriche con ordine di tipo dipolare, delle
transizioni ordine-disordine a livello atomico).
La spettroscopia anelastica è estremamente sensibile al riarrangiamento degli atomi nei materiali
solidi, e la misura del modulo risulta particolarmente adeguata per lo studio delle trasformazioni di
fase, poiché permette di rivelare la formazione di fasi diverse anche in concentrazioni molto basse.
Da un punto di vista teorico è possibile usare approcci differenti alla descrizione della transizione di
fase, a seconda del livello di approssimazione desiderato: il primo obiettivo è comunque una teoria
fenomenologica basata su assunzioni generali che consenta di osservare l’universalità al punto
critico e che permetta di descrivere il sistema vicino alla temperatura critica. Poiché in un sistema
termodinamico, la condizione di equilibrio a temperatura T e pressione p determinate, è
caratterizzata da un minimo per l’energia libera, uno dei possibili approcci è la teoria di campo
medio [5], che consiste nell’esprimere l’energia libera tramite all’utilizzo di opportune variabili che
descrivano lo stato interno del sistema in prossimità dell’equilibrio. Limitandosi per semplicità a
considerarne una sola, che sarà indicata con la lettera ξ, se ne può studiare l’andamento come
funzione della temperatura. In particolare, nella teoria di Landau l’energia libera di Gibbs viene
espressa tramite uno sviluppo in serie di potenze di ξ di cui si assume l’analiticità. In
corrispondenza di una transizione di fase essa manifesta delle discontinuità nelle derivate
mantenendosi però sempre continua. Lo stesso andamento della variabile d’ordine è seguito dall’
entalpia h e dal volume v.
Le transizioni di fase che ricorrono più frequentemente si possono dividere in due tipi a seconda che
la funzione ξ(T) presenti una discontinuità alla temperatura critica, nel qual caso si ha una
transizione di fase del primo ordine, oppure che alla temperatura critica sia continua, ma con

42
derivata discontinua, nel qual caso si ha una transizione del secondo ordine. Questo secondo tipo di
transizione è comunemente noto come transizione di tipo lambda: il nome è dovuto alla tipica forma
della cuspide presentata dal calore specifico, dato dalla derivata dell’entalpia per unità di volume
dh
che per una transizione del primo ordine presenta una discontinuità semplice.
dT

3.6.1.1 Transizioni al primo ordine

Una transizione di fase al primo ordine si associa alla coesistenza nel sistema di fasi differenti in
prossimità della temperatura critica T0. L’applicazione di uno stress in una situazione simile può
comportare una modifica nel grado di trasformazione del sistema dando luogo a fenomeni di
dissipazione con conseguenti effetti anomali sulle funzioni di risposta e quindi sui moduli. Inoltre le
transizioni al primo ordine sono legate ad evoluzioni del sistema tramite meccanismi di nucleazione
e crescita: questo rende difficile una analisi quantitativa in funzione della temperatura di grandezze
quali il modulo elastico e la dissipazione, a causa del manifestarsi di fenomeni di isteresi intorno
alla temperatura critica.
Assumendo che il sistema sia caratterizzato da un parametro d’ordine scalare, per le transizioni al
primo ordine, la teoria di campo medio [4] prevede per l’energia libera di Gibbs uno sviluppo fino
alla sesta potenza della variabile interna ξ intorno al valore ξ≅0, corrispondente alla seguente
espressione,

1 1 1 1
g (σ ,ξ ,T ) = g ( 0,0,T ) − JU σ 2 − χσξ − βξ 2 + γξ 4 + kξ 6 (3.135)
2 2 4 6

 ∂g 
Considerando la condizione di equilibrio, che richiede che l’affinità A sia nulla, A = −   = 0
 ∂ξ σ ,T
e assumendo che il coefficiente del secondo ordine β sia una funzione della temperatura, ovvero che
β ≡ a (T − TC ) , si arriva alla definizione del valore di equilibrio per la variabile interna. In
particolare verranno considerati i valori relativi ad una condizione di stress nullo. Chiamando
ξeq (σ = 0 ) ≡ ξ0 , si dimostra che esistono tre diversi valori di ξ0 per i quali l’energia di Gibbs
assume un minimo. Essi si associano a condizioni di temperatura differenti e descrivono la stabilità
delle diverse fasi, al variare delle quali si assiste ad una modifica della funzione di energia. Si

43
supponga per semplicità la descrizione di due sole fasi, e si definiscano i seguenti valori di
temperatura:

TC

 3 γ2
Teq = TC + (3.136)
 16 kα
 1 γ2
 h
T = T +
 4 kα
C

In questa descrizione, Teq è la temperatura alla quale si trovano in equilibrio le due fasi e
corrisponde al caso in cui la funzione di Gibbs presenta tutti minimi aventi stesso valore, fig. [??];
TC è la temperatura limite associata alla metastabilità della fase di alta temperatura e corrisponde al
caso in cui il minimo centrale della funzione di Gibbs scompare durante il raffreddamento; al
contrario, Th è la temperatura limite associata alla metastabilità della fase di bassa temperatura e
corrisponde al caso in cui i minimi laterali della funzione di Gibbs scompaiono durante il
riscaldamento.

i valori di equilibrio saranno:

• per T>TC
ξ0 = 0 (3.137)

• per T<Th

44
γ  
12
 4kα 
ξ = − 1 + 1 − 2 (T − TC ) 
2
 (3.138)
γ
0
2k    

Per una temperature:


• inferiore a TC, c’è stabilità della fase di bassa T.
• compresa tra TC e Teq, la fase di alta T è metastabile e quella di bassa stabile
• compresa tra Teq e Th, la fase di bassa T è metastabile e quella di alta T è stabile.
• maggiore di Th, la sola fase stabile è quella di alta T.
Per le transizioni del primo ordine, sono quindi possibili due ipotesi: esse possono presentarsi con
una isteresi termica, ovvero presentare la transizione dalla fase di alta T a quella di bassa T a
temperatura T=TC, ma presentare la transizione inversa a temperatura T=Th; oppure possono
presentarsi senza isteresi termica, ovvero transire dall’una all’altra fase alla temperatura intermedia
T=Teq.
Conoscendo le condizioni per l’equilibrio termodinamico delle diverse fasi, è possibile fare delle
considerazioni riguardo alle grandezze di interesse per lo studio dell’anelasticità. Si supponga di
avere come temperatura di transizione la temperatura Th e di applicare uno stress finito in
condizioni di bassa temperatura, T<Th.
Ricordando che:
• la deformazione è la variabile coniugata dello sforzo e che quindi si lega all’energia
 ∂g 
mediante la relazione: ε = −  
 ∂σ ξ ,T

ξ
• il rilassamento della cedevolezza si può esprimere come (3.47) δJ = χ = χµ
σ
è possibile dimostrare [4] che per il rilassamento della cedevolezza valgono diverse espressioni a
seconda che si raggiunga la temperatura critica dalle alte, o dalle basse temperature, per cui si
ottengono le seguenti relazioni:
per T<Th:
χ2
δJ = (3.139)
 4ka 
1
2   4ka  2 
1

(γ 2
k )  2 (Th − T )  1 +  2 (Th − T )  
γ   
γ  

per T>Th:
χ2
δJ = (3.140)
γ2
a (T − Th )
4k
45
Questo mostra che il rilassamento della cedevolezza presenta una discontinuità in prossimità della
temperatura Th come si vede considerandone i limiti destro e sinistro:

 4k χ 2
δ J 
T →Th+

 γ2 (3.141)
δ J  →∞
 T →Th−

Allo stesso modo, assumendo che per piccoli valori dell’affinità A ci sia una proporzionalità diretta
tra questa e la velocità con cui la variabile interna raggiunge l’equilibrio, ovvero: ξ = MA , è
possibile dimostrare che anche il tempo di rilassamento mostra una discontinuità in prossimità della
temperatura di cui sopra. In particolare questo si ripercuote anche sul coefficiente di dissipazione
ωτ δJ ωτ
dell’energia elastica Q-1. Riprendendo la (3.104), ovvero: Q −1 = ∆ = si
1 + ( ωτ )2
JU 1 + ( ωτ )2
trovano le seguenti espressioni [4]:
per T<Th
M ωχ 2
Q −1 = 2
(3.142)
   4ka  2 
1
2  4ka
JU ( M 2γ 4 k )  2 (Th − T )  1 +  2 (Th − T )   + ω 2
γ    γ  

per T>Th
1
Q −1 = 2
(3.143)
γ 2 
M 2  a (T − Th )  + ω 2
 4k 

Il limite verso Th provenendo dalle basse temperature coincide con il valore massimo della
dissipazione e per T=Th si manifesta anche in questo caso una discontinuità:

 −1 χ 2M 1
 Q  + →
T →Th
JU γ4
 M2 2
+ ω2
 16 k (3.144)
 −1 χ 2M
Q −1 
T →Th−
→ Q =
JU ω
MAX


46
3.6.1.2 Trasformazioni martensitiche

Un altro genere di trasformazioni di fase del primo ordine sono le trasformazioni martensitiche, che
intervengono nei materiali a stato solido. In generale, per i materiali a stato solido sono possibili
trasformazioni di tipo diffusivo, o di tipo displasivo. In quelle di tipo diffusivo la nuova fase si
forma a causa del movimento degli atomi su un raggio sufficientemente ampio da modificare la
composizione chimica delle speci iniziali; in quelle di tipo displasivo la nuova fase si forma
attraverso un movimento più localizzato degli atomi che si riarrangiano in una geometria cristallina
più stabile rispetto alla precedente. La progressione delle trasformazioni di tipo diffusivo dipende in
generale sia dalla temperatura che dal tempo, quella delle trasformazioni di tipo displasivo dipende
in generale solo dalla temperatura. Le trasformazioni Martensitiche, evidenziate per la prima volta
alla fine del 1800 dal metallurgo tedesco A. Martens esaminando una lega di acciaio, sono di tipo
displasivo e si manifestano in seguito al raffreddamento da alte temperature di materiali che si
trovano nella fase detta Austenitica, dove la differenza tra le due è appunto una modifica della cella
elementare del reticolo, in una certa misura del suo volume, e anche un cambiamento della
geometria osservabile a livello macroscopico.
Per quanto riguarda la risposta anelastica dei materiali soggetti a questo tipo di trasformazioni, si
può notare che il coefficiente di dissipazione dell’energia elastica Q-1 presenta un massimo in
corrispondenza della temperatura di transizione: l’ampiezza di questo massimo dipende dalla
velocità di raffreddamento (o riscaldamento) e dall’inverso della frequenza. Inoltre una componente
dipende anche dall’ampiezza della deformazione, con un andamento che può essere descritto dalla
seguente relazione:

T
Q −1 = α + Q −1 (T , ε ) (3.145)
f

dove α=costante, f=frequenza, Ṫ=variazione della temperatura nel tempo.


Questo tipo di trasformazioni rientra tra quelle che presentano un effetto di isteresi termica e
manifestano un brusco calo della frequenza, che tende a zero, in corrispondenza della temperatura
alla quale il Q-1 presenta il massimo.

3.6.2 Transizioni al secondo ordine

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Esempi di transizioni al secondo ordine sono le transizioni ordine-disordine in composti binari,
oppure le transioni ferromagnete-antiferromagnete nei ssitemi magnetici, oppure le transizioni
metallo-superconduttore; esse coinvolgono generalmente delle modifiche nella simmetria del
sistema, ma senza modifiche del volume ne’ presenza di calore latente. Nella teoria di Landau,
sempre avendo assunto che il sistema sia caratterizzato da un parametro d’ordine scalare; per le
transizioni al secondo ordine ci si può arrestare alla quarta potenza intorno al valore ξ≅0 nello
sviluppo della funzione di Gibbs che può quindi essere espressa come:

1 1 1
g = g( σ ,ξ ,T )  g( 0 , 0 ,T ) − JU σ 2 − χσξ + βξ 3 + γξ 4 (3.146)
2 2 4

dove oltre alle grandezze introdotte in precedenza si hanno i coefficienti γ e β per i quali valgono le
condizioni: γ > 0 , β ≡ a( T − TC ) , a > 0 . Considerando le condizioni di equilibrio per l’affinità A,
in assenza di sollecitazione è possibile trovare il relativo valore del parametro d’ordine [4], ovvero
alle diverse soluzioni che seguono:
per T < TC
1
a 2
ξ0 =  (T − TC ) (3.147)
γ 
per T > TC

ξ0 = 0 (3.148)

che evidenziano come in prossimità della temperatura critica il parametro d’ordine presenti una
discontinuità.
Se si introduce una sollecitazione piccola, σ≠0, è possibile studiare l’anelasticità del sistema
soggetto alla trasformazione di fase. Con considerazioni analoghe a quanto fatto in precedenza,
riguardo alle condizioni di equilibrio per la sollecitazione applicata e la relazione tra deformazione
ed energia libera, è possibile [4] ottenere l’espressione seguente per il rilassamento della
cedevolezza:

χ ( ξ − ξ0 )
δJ = (3.149)
σ

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Poichè essa è data in funzione del parametro d’ordine ξ0 che è discontinuo, presenta a sua volta una
discontinuità in prossimità della temperatura critica TC. Infatti sostituendo le espressioni (3.147) e
(3.148) si ottiene:
per T < TC

χ2
δJ = (3.150)
2a(TC − T )

per T>TC
χ2
δJ = (3.151)
a (T − TC )

Si può notare come il rilassamento della cedevolezza diverga all’approssimarsi della temperatura
critica, sia che si raggiunga dall’alto, sia che si raggiunga dal basso.

δ J 
T →TC+
→∞
 (3.152)
δ J 
T →TC−
→∞

Assumendo di essere non troppo lontani dalla configurazione di equilibrio, e di poter considerare
che la variazione del parametro d’ordine vari linearmente con l’affinità:

ξ = LA (3.153)

dove L è un parametro che varia molto lentamente intorno alla temperatura critica, è possibile
ottenere le seguenti espressioni per il tempo di rilassamento:

τ −1 = 2aL (TC − T ) ←→ T < TC


 −1 (3.154)
τ = aL (T − TC ) ← → T > TC

Per il tempo di rilassamento si ha un risultato analogo a quello del rilassamento della cedevolezza.
Anch’esso presenta un comportamento divergente in prossimità della temperatura critica,
indipendentemente che si raggiunga da alte, o basse temperature.

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Per quanto riguarda il coefficiente di dissipazione di energia elastica, riprendendo i risultati validi
per il solido anelastico standard, essa può essere scritto in funzione del rilassamento della
cedevolezza e del tempo di rilassamento nel seguente modo:
ωτ
Q −1 = δ J (3.155)
J R + JU ω 2τ 2

Anch’ esso presenta un massimo in prossimità della temperatura critica. Infatti, poichè presso la
temperatura critica il tempo di rilassamento diverge, nella precedente equazione è possibile
trascurare il primo termine del denominatore, T ≈ TC ⇒ JU ω 2τ 2  J R , per cui il coefficiente di
dissipazione di energia elastica assume il seguente andamento:

−1 δJ χ 2L
Q ≅ = (3.156)
JU ωτ JU ω

Va tuttavia notato che questa descrizione non è ottimale, in quanto nelle comuni condizioni
sperimentali la richiesta legata alla derivazione della funzione di Gibbs che stress e temperatura
restino costanti non è generalmente soddisfatta (eccetuato che negli esperimenti di creep).
Più frequentemente le condizioni sperimentali sono coerenti, fino a valori molto prossimi alla
temperatura critica, con il limite in cui ωτ  1 . Questo implica che l’equazione (3.138) si possa
approssimare non con la (3.139), ma con la seguente:

δ J ωτ
Q −1 ≅ (3.157)
JR

Il coefficiente di dissipazione di energia elastica, per temperature sufficientemente lontane dalla


temperatura critica TC, dove comunque si ha l’andamento divergente, mostra dunque un andamento
del tipo:
1
Q −1 ∝ 2
(3.158)
T − TC

che resta valido sia per temperature superiori alla temperatura critica, sia per temperature inferiori.
Va sottolineato come questo andamento sia in contrasto con quello del comune solido anelastico
standard con una frequenza di rilassamento termicamente attivata, dove ωτ  1 vale per le basse
temperature e ωτ  1 per le alte. Inoltre, a differenza dell’altro caso, anche la temperatura di picco,
ovvero la temperatura critica, resta invariata indipendentemente dalla frequenza di risonanza.

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