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Peggio ancora, un aumento della valuta americana danneggerebbe i Paesi che hanno il debito denominato
in dollari, perch farebbe crescere i loro costi proprio nel momento in cui linnalzamento di barriere
commerciali da parte americana provocherebbe un calo degli introiti derivanti dallexport.
Questi collegamenti economici giustificano i timori, ma i pericoli provengono anche da un altro fattore: la
marcia indietro sulla globalizzazione probabilmente far salire linflazione e avr un impatto sugli
investimenti e i tassi di cambio. In particolare, un passaggio a politiche pi protezionistiche non solo
potrebbe pesare sui flussi finanziari globali (secondo lIstituto della finanza internazionale, in questo
contesto economico i flussi di capitali verso i mercati emergenti per la prima volta dal 1988 dovrebbero
diventare negativi), ma anche accrescere il rischio di default o come minimo di ristrutturazioni del debito.
Negli ultimi anni, gli effetti deflazionistici hanno giocato un ruolo da protagonista nelleconomia mondiale,
alimentati dal basso livello della domanda aggregata, dallaccumulo di debito e dallinvecchiamento della
popolazione. Appena sei mesi fa, in conseguenza di tutto questo, cera grande preoccupazione per il fatto
che oltre 13mila miliardi di dollari di debito sovrano, soprattutto nellEurozona e in Giappone, davano
rendimenti negativi.
Tuttavia, il rafforzamento del mercato del lavoro negli Stati Uniti (evidenziato dalla bassa disoccupazione), il
lieve incremento dei prezzi delle materie prime e lo sfilacciamento della globalizzazione in direzione di un
maggiore isolazionismo stanno spostando i timori nella direzione opposta, verso uno scenario inflattivo.
I banchieri centrali delle maggiori economie industrializzate, Stati Uniti inclusi, davano segno di vedere con
favore una risalita dellinflazione e di essere pronti ad accettare i relativi aumenti dei prezzi, nella speranza
di mettere in moto la ripresa e garantire il ritorno a una crescita economica solida dopo la crisi finanziaria.
Inoltre, le autorit monetarie lanciavano disperati appelli per un maggiore attivismo della politica di
bilancio (sotto forma di progetti infrastrutturali su larga scala, come quelli proposti da Trump) per stimolare
la crescita economica.
Gli effetti di queste politiche di bilancio sarebbero senza dubbio inflazionistici, e per giunta gli aumenti dei
prezzi potrebbero contribuire a inflazionare il debito pubblico statunitense, svalutando e riducendo in
termini reali il fardello debitorio. Il debito Usa complessivo (compreso quello privato, i prestiti universitari,
le rate dellauto e cos via) ammonta a oltre il 330% del prodotto interno lordo.
In ogni caso, ora che stanno emergendo i primi segnali di inflazione, il tono di certe dichiarazioni allinterno
della Fed sembra essere cambiato, e la Banca centrale Usa appare smaniosa di sbarrare la strada
allaumento dei prezzi con una serie di ritocchi al rialzo preventivi dei tassi per complessivi 75 punti base nel
2017. Per dirla in altri termini, la Federal Reserve non intenzionata ad accettare un Pil nominale del 3-4%,
se questo dovesse portarsi dietro una crescita dei prezzi superiore allobbiettivo del 2 per cento.
Storicamente, ci vogliono circa 450 punti base per rallentare uneconomia in surriscaldamento, e nel giro di
un anno da un cambiamento di questa portata inizia una recessione. Considerando che il punto pi basso
del tasso di interesse negli Stati Uniti stato del -3%, dopo 75 punti base di aumenti il tasso sui fondi
federali sar intorno all1,5%, con una variazione complessiva del 4,5% e dunque un rischio maggiore di
avviare la crescita Usa su una perigliosa traiettoria di rallentamento e verso una recessione entro la fine del
2018.
Peggio ancora: una traiettoria di aumenti dei tassi implica che leconomia non avr mai n abbastanza
inflazione n abbastanza crescita da intaccare significativamente il fardello del debito. E questo rende pi
probabile che i debitori scelgano di puntare a una ristrutturazione del debito e forse perfino a un default