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Massimo Cacciari

Identit e alterit
Montebelluna 2 febbraio 2001

Vorrei cercare con voi di definire quali sono le condizioni in base alle quali noi possiamo parlare di
identit, in base alle quali noi possiamo cercare di definire la nostra identit, la nostra individualit.
Io partirei da qui, non tanto da considerazioni che possono essere di carattere sociale, politico etico,
considerazioni che mettono in dubbio lidea stessa di identit: sarebbe facile, ma forse anche una
scorciatoia, dire: ma, in fondo, cos lidentit?; come fa quel testo di Remotti, Contro lidentit,
che prima stato citato. Lidentit pura, in fondo, cosa vuol dire? Quando mai si vista, quando
mai si incontrata? Io credo che questo sia un modo semplicistico di affrontare il problema. Partirei
invece riflettendo su questo termine, identit: se noi riusciamo a scoprire, senza scorciatoie, senza
tentare di aggirare il problema, nellidentit le ragioni profonde ed essenziali del rapporto con
laltro, della relazione, e quindi nella identit la diversit, allora noi possiamo comprendere la
ragione fondamentale per cui anche - eventualmente - si possono stabilire rapporti, come quelli che
sono stati ricordati poco fa, con laltro. Altrimenti questi rapporti saranno sempre considerati come
occasionali, possono esserci ma anche non esserci, si possono dare ma anche non dare, si possono
accogliere ma anche rigettare.
Dobbiamo partire non da contro lidentit ma dallidentit e chiedersi, ed la prima domanda:
come possiamo affermare la nostra identit? Com possibile predicare di qualcosa la sua
individualit?. un principio della filosofia: il principio di identit: io sono io, A = A, cos si
predica - sembra - lidentit di qualcosa, la sua perfetta singolarit. Ma siamo sicuri che cos noi
affermiamo lidentit di quella cosa, lidentit di quellente? Quando affermo A=A, lA2 uguale
allA1? Assolutamente no. Basta riflettere un momento e si capisce che una conclusione erronea
quella che affermasse che A=A stabilisce una identit tra i due A. Non pu essere il secondo A
identico al primo, perch il secondo A deriva ovviamente da una operazione sul primo A. Io ho
predicato del secondo A che uguale al primo, ovvero ho portato ad uguaglianza il primo A col
secondo: in mezzo ai due A c una operazione, A=A. Ma una operazione non pu essere superflua
rispetto alla natura di ci su cui opera: essa necessariamente trasforma, come sanno gli epistemologi
ed i fisici contemporanei; che losservazione stessa trasformi lente osservato una grande
acquisizione epistemologica della fisica contemporanea, di cui i filosofi dovrebbero saperne molto
di pi, a mio modesto avviso. Non c nessuna operazione che possa lasciare intatto lente su cui si
esercita. La stessa affermazione A=A non unaffermazione che assicuri lidentit di A, perch
quellA viene riflesso, viene interpretato, vi una operazione, una interpretazione: io affermo che
questo A uguale a questaltro A, ma il secondo A appunto un altro A rispetto al primo, perch sul
primo A intervenuta una operazione che a priori non pu averlo lasciato inalterato. Cosa significa
questo? Che lidentit, laffermazione di una qualsiasi identit, non posso pensarla se non sempre
come un prodotto; poich non vi una identit originaria pura, io ho prodotto lidentit. A=A
significa che questo A si affermato, grazie a unoperazione di uguaglianza, in quanto non non A.
A=A: io ho preso, scusatemi la banalit dellimmagine, questo A, lho fatto passare attraverso ci
che A non , e ho stabilito che A=A.
Questa la produzione di identit di A: A in quanto non non A. Questo ente ha attraversato lo spazio
di ci che non A e si ritrovato alla fine come uguale a se stesso. Ha prodotto la sua identit, che
sempre il prodotto di un processo, di una mediazione, di una riflessione: non si pu dare nulla, per
parafrasare il detto di celebre filosofo, n in cielo, n in terra, n allinferno n nelliperuranio, che
sia im-mediatamente se stesso, perch per stabilire lidentit di quellente io devo procedere come
abbiamo visto: stabilire lidentit di quellente significa paragonarlo, porlo in relazione con tutto ci
che quellente non , e ritrovarlo alla fine di un processo. Lidentit sempre un prodotto.
E tutti noi dobbiamo produrre la nostra identit, altro che contro lidentit! Ma come facciamo a
produrre la nostra identit, la nostra distinzione, se non attraversando ci che noi non siamo, e cio

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quindi se non ponendoci in relazione, riflettendoci con ci che non siamo? A non non A. Per
produrre, per conquistare - se volete - la nostra identit noi dobbiamo lavorare in relazione,
mediandoci costantemente con ci che noi non siamo, riconoscendo ci che noi non siamo per
poterci conoscere. Non c nessuna identit nostra prima di questa fatica, prima di questo lavoro.
Noi ci produciamo individui, non nasciamo individui.
il primo gradino di questo esercizio: proviamo a riflettere sul principio di identit, a svolgerlo in
questo senso, in un senso che ci invita a pensare il principio di identit come a un processo in cui
quellA entra necessariamente in relazione con ci che non . Ci significa il rovesciamento di
unottica, diciamo cos, vulgata, cio dellopinione corrente secondo la quale A=A
immediatamente il pre-supposto; noi tendiamo a pre-supporre la nostra identit, e poi
eventualmente accade che ci sia la relazione di A con altro da s: io sono io, e poi mi accade forse
di conoscere altro da me. Invece, se noi seguiamo il ragionamento precedentemente esposto, niente
pi falso, perch io non posso sapere nulla di me, non posso in alcun modo produrre la mia
identit prima di essere entrato in relazione con ci che non sono. Questa impostazione,
chiaramente, rigetta il senso comune (io sono io e poi vediamo che cosa mi capita nel rapporto con
laltro).
A me pare che alle origini del nostro pensiero vi sia stato chi ha reagito, che alle origini si trovino
gli antidoti pi efficaci per reagire alla succitata volgare tendenza che pre-suppone lidentit (che
non vede lidentit come il compimento di un nostro lavoro, di un entrare in relazione, di un entrare
in rapporto, di un riconoscerci in ci che non siamo) - mi pare, dicevo, che alle origini del pensiero
vi siano le tracce di questa concezione dellidentit: in fondo, che cosa significa il logos eracliteo
che va ascoltato (per quello che si pu evincere dai frammenti di questo pensiero cos originario)
per sfuggire allidioma dellidites, a quella vacua presunzione dellindividuo che non ha prodotto
la propria identit, ma che crede di avere una lingua sua tutta particolare, un pensiero suo tutto
particolare, e che invece non riflette, non sveglio, dorme, non ascolta la parola, non ascolta il
linguaggio comune, non ascolta ci che cum, xynn, communis? Cos questo appello eracliteo
allascolto? Il verbo che ritorna frequentemente nei frammenti di Eraclito akouein, ascoltare, cio
lidentit vera si produce nellascolto, presupponendo qualcosa che lidites non , lindividuo non
: la vera identit si produce attraverso lascolto di qualcosa che non gi implicito nella nostra,
appunto, idiota individualit. La nostra identit si costruisce nel confronto e nellascolto con una
dimensione che altra rispetto al nostro idioma privato: e finch restiamo nellambito del nostro
idioma privato siamo come dormienti, che non ascoltano il cum, poich la nostra identit si
determina soltanto nel cum, che questa dimensione dellascolto: quando ascolto io sono ci che
ascolto.
Una dialettica - per usare un termine forse qui fuorviante - analoga ritorna nei grandi dialoghi
platonici, laddove si affronta il tema identit e diversit, laddove Platone ci fa capire come il
diverso non che il non essere dellidentico: non posso definire lidentit senza questo intrinseco
immanente riferimento a ci che il suo non essere, cio il diverso. Come posso definire la natura
dellente se non come una natura relazionale, come posso definire una identit se come il non essere
del diverso e come posso definire la diversit se non attraverso il riferimento al suo non essere che
lidentico? Identit e diversit si relazionano, si rapportano, non possono essere astrattamente
separate. Questa unacquisizione fondamentale del nostro pensiero, poi forse non sempre
sufficientemente approfondita e meditata: lidea dellente come vitale identit degli opposti. Questa
vita dellintero, e non morta, chiusa, soffocata identit. E/o viceversa: identit che rimanda a un
rapporto che non tale, di astratta separatezza, identit che si crede astrattamente separata dalla
diversit. La diversit immanente nellidentit: lidentit appunto il non essere della diversit e
viceversa: e quindi in ogni ente si costituisce questa vivente relazione. Il conoscersi significa porsi
come relazione di identit e diversit.
Forse il discorso sembra astratto: proviamo a concretizzarlo secondo una prospettiva che lo rende
secondo me assolutamente chiaro, che rende chiara cio questa impossibilit di concepire qualsiasi
identit se non come in-relazione con altro. Questa prospettiva quella del nostro linguaggio, di

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qualsiasi forma di espressione, di qualsiasi forma del comunicare. Noi non possiamo pensare se non
linguisticamente: logos parola complessa e significa ragione, pensiero, parola, linguaggio. Non si
danno idee pure che poi si traducono in espressioni linguistiche, in qualunque forma di espressione.
Pensiero e linguaggio sono inseparabili: cosa significa questo in relazione col nostro problema e
perch questa idea rende chiaro il ragionamento? Perch qualunque forma di espressione pre-esiste
sempre allesistenza della mia idea: noi ideiamo; cogito ergo loquor; se parlo, nel momento in cui
parlo, sono parlato, la lingua parla in me, la lingua di per s definisce una communitas, una cultura,
direbbero gli antropologi: non pu mai essere un idioma, non pu risolversi in idioma nel senso pi
letterale e riduttivo del termine. Quando io penso, parlo, quando parlo, nel contempo parlo e sono
parlato, la mia individualit, la mia identit di parlante immediatamente in relazione con una
comunit: non che io prima parli e poi entri in relazione con una comunit di parlanti: io sono in
relazione nel momento in cui faccio un segno qualsiasi. Se cos, quando io penso-parlo, io
siamo. Non: io sono e poi entro in relazione; la relazione mi costituisce in quanto parlante. Non
vi nessun rimando ulteriore; quando parlo, la mia identit una pluralit di parlanti e di epoche
parlanti, per cos dire. La pluralit come legge di questo mondo; non una pluralit che escluda
lidentit, non una identit contro la pluralit, che una scorciatoia, una fasullaggine anche
teoreticamente. Una identit che pluralit: il mio cogito, il mio cogito-loquor si riconosce come
pluralit.
Un colloquio noi siamo, diceva Hlderlin, e questa dimensione del colloquio assumeva per lui un
timbro divino: in questo colloquio abita il nostro divino, abita il fatto che non siamo in-dividui, che
non siamo identit chiuse, che costruiamo qualcosa di pi. Cos accade per ogni lingua,
naturalmente, che ci costituisce come comunit; anchessa una pluralit, anche il suo demone non
consiste in astratte separatezze ma nel modo in cui ciascuna di esse vive ed interpreta le proprie
relazioni con gli altri; insomma, per dirla in sintesi, nessuna identit im-mune. Non possibile
pensare lidentit in modo, diciamo, immunitario. Lidentit stessa, quella identit che noi
dobbiamo cercare perch dobbiamo, appunto, conoscere noi stessi, il paradossale impegno a cui
siamo chiamati, chiamata almeno la nostra cultura e la nostra civilt. Noi interroganti diceva
Agostino cos che interroghiamo? Interroghiamo questo, sostanzialmente: conoscere noi stessi,
perch noi siamo impegnati nella ricerca della nostra identit. indubbio che dobbiamo cercare di
trovare, di definire, di pensare la nostra identit. Ma tradiremmo questo impegno se pensassimo la
nostra identit in modo im-munitario. Trovare la nostra identit non significa separarci, e non per
ragioni buonistiche, etiche ecc., ma per ragioni fondamentali, teoretiche: cercare la nostra identit
significa volerla produrre attraverso-nel linguaggio, nella-in comunit. Communitas lopposto di
immunitas. Non si costruisce comunit volendo essere immuni dal contagio. Una identit concepita
e pensata come scoperta della propria individua immunit (vale a dire: ecco, ora so la mia identit
e sono immune) la distruzione dellidentit, poich raggiungo lidentit soltanto attraverso quel
percorso, producendomela attraverso il rapporto e la relazione intrinseca con laltro, con la
diversit. Se la concepisco invece come qualcosa che mi difende e mi tutela dal rapporto, non potr
mai produrre la mia identit e avverr che sar parlato, parlato dalle opinioni, dai sogni, dagli
incubi che circolano nel mio ambiente, dalle diverse lingue, dai diversi idiomi, dalle diverse idiozie.
Il tentativo di costruire in modo immunitario la mia identit, lungi dal condurmi alla costruzione
della mia identit, mi porter alla catastrofe, anche psichica. E ci per ragioni fondamentali, che
possiamo seguire attraverso un ragionamento. Non si costruisce in-sieme perch devo stare in-sieme
a qualcun altro ma perch appunto io cogito, parlo e sono parlato, sono io ora, e non dopo, e non
devo uscire da me per essere in-sieme, io sono in-sieme. Cogito ergo sumus, questo il punto; non:
sono, e poi - eticamente, politicamente, come unappendice del mio ragionamento - faccio politica,
ecc.
Ci significa che risiede in noi una societas interiore, che la nostra identit si costruisce
internamente in s, immanentemente come relazione con laltro da s. Noi siamo una relazione e
quindi in noi abitano e parlano altri e queste voci in noi - come tra noi - possono fra-intendersi,
male-intendersi, possono polemizzare, entrare in conflitto, perch nulla assicura i giochi in questa

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produzione dellidentit. Non una commedia con lhappy end assicurata, mai. Anzi, non
commedia quella tra me e laltro, un dramma, perch laltro me, e il vero dramma quello che si
svolge in me, in quellessere parlato nel momento in cui parlo, in quellessere una societ in me ben
prima di abitare una societ con altri. Gli altri li ospito io e costoro si contraddicono, polemizzano
ed entrano in conflitto quotidianamente; questa contraddizione interiore nella societas interiore che
io sono inscindibilmente connessa col nostro pensare e parlare. Occorre concepire dunque
lidentit non solo come produzione ma anche come un ospitare diversit costitutive in noi, noi che
siamo anzitutto gli ospiti di altre persone, gli ospiti degli altri che abitano in noi. Avete mai
avvertito questo? Che noi siamo luoghi dove abitano altri che noi ospitiamo e che non sempre
pacifica convivenza? attraverso questo che noi faticosamente produciamo la nostra identit, che
la forma che riusciamo a dare a questi altri che ospitiamo: pu accadere che riusciamo a stabilire un
colloquio tra questi altri, ma pu anche accadere che questo colloquio catastrofizzi: cosaltro
linsania se non il fallimento del colloquio nella societ in interiore? Tutti noi abbiamo una societ
in interiore che pu catastrofizzare: la nostra identit lhospes di queste diversit. Queste diversit
si contraddicono e fraintendono, come avviene tra noi; ci che avviene tra noi la proiezione di ci
che avviene in noi, continuamente. Se in noi costruiamo una societas, riusciremo a costruire una
societas tra noi. Ma se in noi questo confliggere lo avvertiamo unicamente come pena e sofferenza,
se non riusciamo a dare una forma a questo contraddirsi dei diversi e dei distinti in noi,
impensabile di dare una forma alle nostre relazioni. Se ci avvertiamo come individui idioti a cui pu
magari accadere di avere relazioni con altri, se non ci concepiamo come quellospite di distinti e
diversi, come volete che possiamo creare una communitas? Sarebbe una contraddizione
Questo il dramma di fronte a cui siamo. Lhospes, la lingua stessa ce lo dice, pu trasformarsi in
ogni momento in hostis: originariamente hostis-hospes erano la stessa parola, che si sono
differenziate successivamente. Io, hospes, posso trasformarmi in nemico-hostis degli ospiti, e
avvertirli come nemici: allora si apre quella contraddizione cui non posso dar forma, allora il
contraddirsi catastrofizza in violenza muta: questo pericolo sempre aperto, non possiamo
concepirci immuni da questo rischio, che immanente nel processo di costruzione della nostra
identit. Se non riusciremo ad essere consapevoli del nostro esser-con-laltro-in-noi, della nostra
societ in interiore, laltro ci apparir come hostis e noi quindi ci sentiremo invasi da nemici,
insicuri, inquieti, appunto, bisognosi di tutela e protezione da noi stessi. Quando si avverte in s
limpotenza di comporre il contrasto senza far venir meno la distinzione delle sue voci, quando
lindividuo, alla ricerca di una propria identit che risolva la molteplicit e la pluralit, tende a
ridurre queste voci a una sola, non sopportando la pluralit delle voci che ospita, esplode la
catastrofe. questa febbre alla reductio ad unum che determina la malattia, che si trasforma e si
proietta fuori di noi: lindividuo cercher anche nella societ esteriore lunit, la reductio ad unum,
vorr che ci sia una lingua, la sua, un idioma, il suo, una razza, la sua, proiezione esterna immediata
dellincapacit di comporre la contraddizione, senza far venir meno i distinti. Questo individuo
avvertir la pluralit non come legge del mondo ma come sofferenza, come causa della sua pena e
cercher in tutti i modi di eliminarla. Bisogna saper riconoscere questi altri che ci abitano, questa
diversit attraverso cui-in cui soltanto possibile costruire lidentit.
Nella nostra cultura, nel senso pi ampio del termine, questa problematica affiora e ri-affiora; nel
moderno e nel contemporaneo sembra che tale dimensione del pensare sia scomparsa o quasi:
eppure questa prospettiva vicina a noi, quella cio di concepire la nostra identit come un hospes
di distinti, anche di stranieri. Infatti, quante sono le voci che abitano in me che io non capisco, che
non riesco a capire, che mi sembrano barbare? Eppure anche quelle devo comporre nella forma
della mia identit, anche queste zone dombra, questi cuori di tenebra; si potrebbe interpretare
anche certa cultura analitica contemporanea come il tentativo di bonificare, di fare unit, tuttavia
ingenuo, deterministico, riduttivistico; invece la zona dombra, il cuore di tenebra va composto -
non risolto o negato - con la altre voci: pur rischiando di non comprenderle. Lidea che io rimango
sostanzialmente straniero a me stesso nel mio sforzo di conoscermi e costruire la mia identit
lunica pensabile. Quanta area di estraneit rimane in me

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Riconoscermi straniero in questa fatica dovrebbe essere la prospettiva a noi pi prossima: le nostre
religioni nascono con un padre, Abramo, che si definisce e definisce la terra che abita non come io
sono io che in qualche modo ci che afferma, molto ironicamente, secondo me, soltanto il
Padreterno si definisce dicevo - pellegrino e residente (proikos, da cui i nostri parroci): cio
uno che risiede nella terra non come cittadino armato di tutti i diritti politici, civili, ecc. ma come
meteco, avrebbero detto i greci. Uno che risiede in modo instabile e pellegrino; e non lAbramo in
viaggio, lAbramo che giunto. Tutta la tradizione rabbinica e cristiano-evangelica lo testimonia:
la mia identit non potr mai possedere un luogo suo proprio, non potr mai concepirmi secondo
quello schema identitario puro A=A. Dovr sempre procedere alla ricerca della mia identit e nel
frattempo peregrinare e risiedere in vari luoghi senza mai poter dire di quel luogo: mio: nessuna
terra mia.
Questa la quintessenza delle nostre tradizioni religiose: labbiamo completamente dimenticato?
Dovrebbe essere carne e sangue della nostra civilt sapere che noi siamo proikoi, che la nostra
casa, oikos, una casa che ospita tante voci e tante contraddizioni, una casa aperta allo straniero
perch straniero Abramo, anche nella terra dove finalmente giunto. impossibile riascoltare
quelle voci? Quellindividuo, quella nuova specie, che citazione nietzscheana, ha reso
impossibile riascoltare queste voci? Il mio, badate, non un appello a una astratta xenofilia, cio
amiamo lo straniero, ecc., poich cos non si va da nessuna parte: non chiedo di amare lo
straniero, chiedo di amarci, chiedo di custodire e riconoscere tutti gli stranieri che siamo, chiedo di
non pretendere di bonificarci riducendoci ad uno, ad un idioma universale e morto. Non chiedo una
xenofilia, chiedo una xenosophia, una conoscenza dello straniero, perch soltanto conoscendo la
relazione identit-diversit potremo anche costruire una communitas. Chiedo di uscire dalle
scorciatoie eticistiche, buonistiche, chiamatele come volete, e cercare invece di addentrarci per
una strada molto pi rigorosa ed esigente, che lunica attraverso la quale possiamo cercare di
costruire la nostra identit: non so se la troveremo, perch la nostra natura quella che gi Agostino
conosceva, la natura dellinterrogazione; e aggiungeva: non amo i cuori di quelli che dicono ho
trovato; amo il cuore di quelli che dicono cerco Dio, non lho trovato e tuttavia continuo a
cercarlo. La nostra identit occorre cercarla, occorre costruirla, ma se seriamente cercheremo di
costruirla scopriremo che la costruiamo in noi con tutti gli stranieri che siamo, cercando di
comporre queste dissonanti voci, di non naufragare nella ricerca di astratte identit, di astratte unit,
negando quella che Hannah Arendt diceva essere la legge del mondo, la legge della pluralit.
Grazie.

DIBATTITO

Luigi Vero Tarca. Come al solito, il professor Cacciari ha messo a fuoco in maniera mirabile il
punto fondamentale, proprio perch credo che questo sia ci su cui si debba riflettere. Il punto
questo: si tratta di vedere lidentit come qualcosa di diverso dalla negazione della differenza:
pretendere di arroccarsi su unidentit che nega la differenza assurdo. Se noi diciamo che A
identico a s e non diverso da s, per poter dire che A identico a s dobbiamo porlo come diverso
da s. Vorrei che la mia non suonasse come una obiezione a Cacciari e per un motivo sostanziale
che chiarir. Che cosa ci autorizza a dire che A identico a A non identico a s, perch il secondo A
diverso dal primo? Vorrei invitarvi a riflettere su questo tema, che mi ossessiona, per dir cos, da
un po di tempo, e cio: quello che noi dimostriamo con questo ragionamento hegeliano che A, per
essere identico ad A, deve essere diverso da A. Che cosa ci autorizza ad identificare la diversit con
la negazione? Questa la mia domanda teorica, e non cosa di poco conto: lo stesso passo
compiuto da Platone nel dialogo che tu citavi prima indirettamente, cio nel Sofista, quando cio
Platone fa i conti con Parmenide e dimostra contro Parmenide che c il non essere, sostenendo che
il movimento diverso dallessere, quindi non non essere, quindi il non essere c. Secondo me
questo il punto fondamentale: che cosa ci autorizza a dire che il movimento, essendo diverso
dallessere, non essere, non essere? La questione ha poi implicazioni pratiche, perch se noi

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assumiamo automaticamente che la diversit inevitabilmente opposizione e cio contraddizione,
allora quando, giustamente, dobbiamo riconoscere che lidentit si produce, che sempre
variazione, sembra che dobbiamo arrivare a concludere, inevitabilmente, che non ci sar altro
destino, per quel noi che io sono, che quello del conflitto e della contraddizione. Chiudo qui: di
fronte a chi ti obbiettasse: ma allora tu ci stai predicando un destino di pura contraddizione, di una
contraddizione rispetto alla quale non per principio possibile alcuna salvezza, cosa risponderesti?

Pipino. La mia identit non potr possedere un luogo proprio, nessuna terra mia, stato detto: ma
allora, luomo non potr mai avere una patria in quanto siamo soltanto pellegrini e residenti?

Sudentessa. Mi chiedo che cosa ci autorizza ad identificare qualcosa, dal momento che lo
interpreto, e interpretandolo lo modifico; quindi, quando accade che io posso porre relazioni, dal
momento che tutto ci deriva da una mia interpretazione? Spero di essere stata chiara

Cacciari. Partiamo dalla domanda pi semplice per poi addentrarci via via. Lesperienza di Abramo
dimostra che il termine proikos non significa una indifferenza nei confronti del luogo: egli si
definisce pellegrino e residente in terra di Israele: qui c un grande dibattito nel contemporaneo
intorno allo stesso sionismo. I pi grandi filosofi dellebraismo contemporaneo si sono sempre
mantenuti in una posizione di grande cautela e dubbio nei confronti del sionismo e della formazione
dello stato di Israele proprio per questo fondamentale motivo, perch veniva meno la paroikia; in
qualche modo un dramma escatologico quello che si consuma in Israele, perch per altre correnti, in
particolare sionistiche, la formazione dello stato di Israele era quello che invece per lebraismo
ortodosso rappresentava la promessa escatologica, cio la realizzazione del regno del Messia.
Soltanto in una prospettiva escatologica concepibile per la tradizione ortodossa, rabbinica ecc.
lassumere una vera radice nella stessa terra promessa; prima la tua radice sempre errante.
Soltanto in una prospettiva escatologica ci si rende conto fino in fondo della differenza. Ma questo
non significa che Abramo non fosse nella sua terra: proprio perch la mia terra accade che io sono
proikos, proprio perch attribuisco a questa terra un valore addirittura escatologico so di non
poterla possedere; proprio questo suo enorme valore la fa qualcosa di diverso da me, in qualche
modo qualcosa di sacro. Se noi ragioniamo sul concetto di patria, che un termine che non mi
piace per niente (la madre dov? E nazione mi piace ancora meno), meglio, sul concetto di terra
che un termine femminile e mi piace di pi la mia terra, la mia lingua, ecc. (come il caso di
Israele), proprio perch sono mie, sono sacre, diverse, distinte, non potr mai possederle, non potr
mai farne un possesso. Lungi dal mettere in discussione unidea di patria, tale prospettiva lunica
che permette di fondarla propriamente, facendomi sentire la relazione con la terra e la lingua come
qualcosa che non potr mai ridurre a me.
Io ho citato Platone per spiegare, in modo estremamente succinto, come appunto di diversit e
distinzione si debba trattare e non, come osservava Tarca, un custodire e conservare la
contraddizione (poich essendo il movimento diverso dallessere, esso non essere, e pertanto il
tenere insieme tutto ci comporterebbe appunto la vittoria della contraddizione). Non cos. Si
tratta di diversit e distinzioni che debbono essere tenute come distinzioni assolute. Insomma, che
cos che rende necessaria la relazione? Infatti, se la relazione avviene tra posizioni e dimensioni
che alla fine concepisco come superabili, quella relazione contingente, non necessaria, e io la
penso come non impossibilitata a venir meno. Allora, per essere necessaria, la relazione deve
avvenire tra distinti, non si tratta di una opposizione assoluta ma di una distinzione assoluta: non,
come dicono i tedeschi, di una Trennung, ma di una Scheidung. Perch necessaria: perch
soltanto nella relazione con quellaltro che io posso cercare di costruire la mia identit: cio io mi
identifico soltanto attraverso quella relazione, che mi necessaria, relazione con quel distinto che
non viene meno allorch io sono uscito a disegnare la mia identit, perch essa composizione di
queste distinzioni. Ma altres: quelle sono distinzioni di cui io posso assicurarmi? Come pretendere
di assicurarmi che quelle distinzioni rimangano le distinzioni di quella relazione? Questo il punto.

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Come posso pretendere di mantenerle come ospiti nellambito della costruzione della mia identit?
qui che quella distinzione pu diventare contraddizione: come posso a priori essere certo che la
distinzione, come dicevo, non catastrofizzi in separazione, che lhospes non diventi hostis? Vi una
diversit, una distinzione, ma essa va pensata come una distinzione non relativa, non contingente,
essa non pu essere una relatio adventitia, perch una relatio adventitia una relazione che io per
forza svilupper verso lunit, verso una identit immunitaria, come dicevo prima. Io sono in
rapporto con laltro e quel rapporto mi necessario per definire la mia identit. Se si vuole, anche
una logica trinitaria: nello stesso tempo per anche diversa da una logica trinitaria, perch l vi la
distinzione non adventitia, che permane e si assicura come distinzione. Nel mio discorso, che non
teologico-trinitario, questa relazione, concepita come non adventitia, nel contempo una relazione
che pu catastrofizzare, che sta in un ambito di possibilit tra le quali esiste la possibilit del venir
meno della distinzione, non assicurata. chiaro comunque che sono temi su cui (stra)ragionarci
ancora a lungo

Docente. Io non sono molto esperto di filosofia nonch di terminologia filosofica. Provo ad
interpretare alcune asserzioni espresse in un linguaggio che non il mio, e vediamo se ci azzecco e
poi provo a fare delle considerazioni rispetto a queste asserzioni. Lidentit si definisce non tanto in
termini di uguaglianza quanto in termini di verifica di disuguaglianza: allora, questa prospettiva,
che condivido in pieno, provo a trasporla nella nostra realt sociale: per esempio io riscontro che in
situazioni di identit debole (culturale, politica, economica, ecc.) il ruolo del diverso diventa
essenziale per la definizione della propria identit: quindi il cogliere la diversit la disuguaglianza
da - diventa funzionale a descrivere e recepire la propria identit; quindi ecco il tema che mi
piacerebbe sviluppare diventa funzionale al piacere [] nel momento in cui io conosco il diverso,
esso diventa uguale ad A e allora non svolge pi la funzione di mantenere la mia identit. Prendendo
spunto dalla situazione attuale: mi sembra di cogliere una volont da parte di alcuni gruppi, da parte
di alcuni individui, di cogliere e di voler mantenere questa diversit, anche forzandola, proprio per
mantenere e costruire la propria identit. Ripeto: cos che dovrebbe sollecitare queste persone a
scoprire il diverso e a conoscerlo, visto che poi non serve pi, proprio nel senso di perdita nel senso
di identit costruita con questa diversit funzionale?

Conte. Mi domandavo: quello che lei chiede al cittadino oggi , secondo me, uno sforzo notevole,
uno sforzo di appropriarsi della propria e delle altrui culture, uno sforzo di comprendere lalterit in
maniera profonda e complessa. Tutto questo quando i sistemi di riferimento attorno sono in gran
parte identificabile con un ridurre ad uno, con un applicare un senso unico alle cose: sistema di
riferimento il sistema economico. Tutto questo ci condiziona pesantemente. Lei ottimista sul
fatto che un cittadino medio possa appropriarsi della propria identit per capire laltrui identit,
appropriarsi della propria cultura per capire le altrui culture? Trovo ragionevole quello che propone
ma mi chiedo quanto possa essere applicabile oggi.

Pipino. Far una domanda sulla filosofia in genere, forse fuori tema. A mio modesto parere la
filosofia non deve essere solo una antologia del pensiero filosofico nelle varie epoche storiche: la
conoscenza e lutilizzo delle idee e dei ragionamenti filosofici deve poterci aiutare a comprendere
meglio la realt in cui viviamo. possibile, a suo autorevole parere, questo positivo utilizzo del
pensiero filosofico?

Cacciari. Io penso che proprio perch viviamo in un periodo in cui sembra affermarsi un pensiero
unico si moltiplichino le vane ricerche di una identit immunitaria, che lidentit pi debole del
mondo, anzi non identit, per le ragioni che ho esposto e che non vale la pena ripetere. Credo che
non si reagisca a questa prospettiva predicando la fine dellidentit, il melting pot, lembrassons-
nous, ecc. Questa una prospettiva non fondata teoreticamente e impraticabile politicamente. Io
ritengo che lo sforzo da fare (che ha conseguenze pratiche, proprio nel senso antico della parola

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prassi, conduzione della vita politica, governo delle cose pubbliche, ecc.) sia quello di invitare a
costruire veramente la propria identit, perch se noi ci mettiamo in questo percorso - conosci te
stesso - allora scopriamo la societas in interiore, la distinzione e la dissonanza, allora cerchiamo di
comporre e colligere (logos, la stessa radice) queste diversit, che rimangono tali, e che forse
possiamo sentire come una armonia di corde contrastanti, di timbri contrastanti, che fanno una
persona, che compongono la personalit di una lingua e di un popolo e che costituiscono la
personalit di una terra. questa lunica prospettiva che pu mantenere questa pluralit in termini
non puramente disseminativi: perch se noi decliniamo la pluralit in modo disseminativo,
rizomatico, ecc., comera di moda in un certo pensiero qualche anno fa e anche oggi parzialmente,
allora noi non faremmo altro che coltivare lhumus delle identit immunitarie, poich la reazione a
questa idea puramente disseminativa e rizomatica di pluralit sar il moltiplicarsi di tentativi vani e
autocontraddittor di costruire identit immunitarie, identit senza communitas.
Penso infatti che anche la discussione di questa sera, pur complessa, che ha messo in campo una
serie di questioni che meriterebbero approfondimenti anche in sede specialistica, dimostri un fatto
che per me chiarissimo, assolutamente indubitabile: che impensabile nella nostra tradizione un
pensiero vero, lastratta accademia, ma si tratta sempre del pensare, della filosofia come esercizio
del pensiero, come pratica del pensiero. Nella nostra tradizione la filosofia assolutamente
compenetrata di elementi politici: non vi la filosofia pura e poi la filosofia politica, la filosofia del
diritto, ecc. La filosofia questo appello incessante a ritornare alla cosa, e anche a quella cosa che
la res publica. E come la filosofia appello a ritornare alla cosa senza pre-supposto, senza pre-
giudizio, cos appello a ritornare alla res publica. Essa non un capitolo, non una specialit
della filosofia, la filosofia politica anche nei suoi termini originari; non il caso di citare
lassoluta indistricabilit di dimensione filosofica e politica allinizio della nostra tradizione
filosofica, perch nota a tutti. Cos, per, in questo stesso modo, la filosofia non riflessione pura
e semplice della dimensione pratica, perch nel ritornare alla cosa mette costantemente in
discussione, interroga la politeia, la costituzione della res publica. Inevitabilmente in una
posizione di critica, nel senso letterale del termine, senza enfasi, nei confronti della opinione
riguardante la cosa pubblica. Questo non Socrate, questo appartiene a tutta la tradizione filosofica
occidentale. un elemento che la caratterizza rispetto ad altre tradizioni: non lo ritroviamo
assolutamente nelle tradizioni filosofiche induiste, ad esempio, lo ritroviamo invece in una grande
corrente della tradizione filosofica cinese, Confucio ecc., ma allora l siamo in una dimensione
diversa. Non vi la polis, e la filosofia fa tuttuno con la polis: Socrate esce una volta nella vita
dalle porte di Atene. Non concepibile una filosofia idillica, agreste, una filosofia in Arcadia: la
filosofia nellagor, nei conflitti, nella discussione franca: la parresa filosofica, il parlare
franco, critico, il parlare che rischia costantemente di dividere, di distinguere, di far nascere
conflitto. Vi una dimensione prassistica che inestricabilmente connessa allo stesso linguaggio
filosofico. Un grande filosofo contemporaneo, Heidegger, ha dedicato memorabili corsi di lezioni,
ancor prima di diventare famoso, a questa dimensione prassistica del linguaggio filosofico,
lavorando sui termini chiave della filosofia: su cosa significa verit, logos, ecc. e mostrandone le
origini, non in senso cronologico, ma nel senso dellaita, della causa, della fonte originaria nella
vita della communitas, nelle prassi che vi si intrecciano; e nello stesso tempo questo filosofo, che ha
un linguaggio inestricabilmente collegato alla dimensione pratica, costantemente anche in una
situazione di grande difficolt con la polis, perch non ne accetta le opinioni, perch non pu pre-
supporle, non pu accogliere i pre-giudizi e la nostra citt anche fatta di pre-giudizi, di opinioni, di
tradizioni non discusse. Dunque, questo strano essere, che non pu vivere se non nella citt perch
un filosofo in Arcadia, come detto, assolutamente inconcepibile costantemente in una
posizione di crisi nei confronti della citt, ma in un modo disincantato, sobrio, freddo, se volete:
deve riconoscere che la citt fatta di tradizioni, opinioni, costumi, che vi un ethos nella citt, che
la citt soggiorna su cose che eredita in modo acritico. Quindi questa figura da un lato non pu che
vivere nella citt e dallaltro, come diceva Platone di Socrate, topos: non ha posto che nella citt
e nel contempo sembra non aver posto da nessuna parte. questo il suo destino, ironico, certo, sul

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quale non c nessun monumento da erigere, un destino che va trattato con ironia, con giusta
leggerezza, di-vertente.

Studentessa. Se io produco la mia identit confrontandomi con laltro al mio interno, quindi
ospitando laltro, non riuscir mai a raggiungere una identit stabile, perch durante tutta la mia vita
sar sempre in confronto con altri, sia dentro che fuori di me. Quindi sar destinata a non trovare
mai una identit definitiva e ad essere in un viaggio continuo o vi sar un momento in cui trover
questa identit?

De Bortoli: Le questioni affrontate questa sera appartengono a un campo nel quale da tempo ho
messo mano anchio. Provo quindi a fare la parte altra. In una intervista di diversi anni fa il
sociologo tedesco Niklas Luhmann osservava che tutte le questioni relative allidentit individuale,
e potremmo anche aggiungere quella etnica, regionale, ecc., esprimono lo sforzo dellindividuo, a
suo dire disperato, di sfuggire alla presa del sistema. Tradotta oggi, potremmo metterla cos: tutti gli
sforzi di costruzione di identit regionali, nel senso almeno che ho attribuito al libro di Remotti
Contro lidentit, che non voleva dire assolutamente eliminiamo lidentit, tutti questi movimenti
autonomistici di difesa delle piccole patrie, sono delle risposte che qualcuno ritiene sacrosante,
necessarie - alla globalizzazione, al tentativo di riduzione ad unum, come stato detto. Ma non nei
termini di voler conservare la molteplicit ma nei termini di volerla eliminare. Allora ed anche
una considerazione fra me e me se non ho capito male: quel tentativo di eliminazione del
polemos, del conflitto, interno alla stessa individualit che mi rimanda a una presunta nozione di
armonia, di identit che sia assenza di conflitto, quella che genera le difficolt maggiori, come
stato osservato, al cittadino medio, che non ce la fa a sopportare un grado cos alto di elaborazione
identitaria. Daltra parte il conosci te stesso si porta dietro la domanda, che Cacciari stesso
implicitamente ha posto: come fare a conoscersi se doppio anche il pi saggio e capace degli
umani, almeno doppio, se non multiplo? Allora, questo voler ricondurre tutto alla eliminazione del
polemos, alla ricerca di un confine delimitato, questa la hybris, la tracotanza dellindividuo, anche
nella sua dimensione meno teoreticamente provata, pi ordinaria e quotidiana, quando si
presuppone una nozione di identit come eliminazione del polemos.

Studente. Io vorrei fare la stessa domanda che ha posto il professor De Bortoli ma in termini
diversi: se presupposto, per lo meno teorico, dello stato moderno leliminazione del conflitto, tutto
sommato nello stato di diritto, ogni volta che c una obiezione da fare, ogni volta che c un
interesse da difendere, sempre nei confronti dello stato, si utilizzano spazi che lo stato stesso lascia,
che lascia alla parola, allazione, ecc. Quello che chiedo dunque : lo stato (e non uso le parole
patria e nazione) una di quelle forme di identit immunitaria di cui lei ha parlato prima, oppure
unaltra cosa? Questo alla luce di quello che sta succedendo adesso, di fronte al fatto che si
estremizzi linteresse privato nei confronti dellinteresse pubblico e di fronte ad altri eventi di cui i
giornali parlano frequentemente, ecc. Grazie.

Cacciari. Io penso che lidentit stabile, che una perfetta identit, sia una idea che pu aver senso in
una dimensione puramente teologico-escatologica. Giudicare e risolvere i nostri conflitti, le nostre
dissonanze, le nostre contraddizioni, in modo che ne esca da questo giudizio ci che veramente
siamo, questa una idea escatologica. La Gerusalemme celeste non una luce in-distinta,
composta di tutti noi finalmente, perfettamente distinti. straordinaria questa idea teologica, perch
la perfetta distinzione - noi che rinasciamo secondo il nostro vero volto e il nostro vero volto si fa
assolutamente trasparente della nostra anima e della nostra essenza noi che siamo perfettamente
distinti, in-confondibili luno con laltro, ebbene, questa idea di perfetta distinzione fa tuttuno con
lidea di una perfetta communitas, dove ci in-tendiamo perfettamente senza pi fra-intenderci, anzi,
come dice Dante, senza pi nemmeno bisogno di parlare, perch ci trasmettiamo le idee, im-
mediatamente, nel momento stesso che le pensiamo. Escatologicamente, ci che interessante di

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questa idea, che pu sviluppare ci che abbiamo detto, che la perfetta distinzione, la quale
sembrerebbe, secondo lopinione vulgata, rendere ognuno perfettamente separato dallaltro, la
perfetta identit, il raggiungimento della compiuta identit io veramente sono io coincide con
la formazione della perfetta communitas. certamente unidea escatologica: qui produco identit,
procedo nel conosci te stesso, che un paradosso, un imperativo ironico; e allorch qui intendo
davvero aver conosciuto me stesso, aver compiuto questa ricerca, ricado nellhybris. Io sono il re: io
sono il fedele, mi caratterizzo, mi identifico come colui che rispetta quella tim divina, quel dio e
nessun altro; mi presento come colui che ha fatto pulizia nella sua anima ed fedele soltanto a quel
dio ed voce soltanto di quella dimensione, esprime soltanto quella voce: a quel punto hybris,
peccato ed catastrofe della stessa identit. Attenzione: il conoscere se stessi massimamente
pericoloso, un ex-periri, una strada pericolosa, perch devi conoscere te stesso e nello stesso
capire anche che quella perfetta identit non raggiungibile: in te vuoi che coincidano soggetto e
oggetto, ergo tu, soggetto, vuoi essere nel contempo oggetto. Il grande cardinale Cusano diceva:
sappi che le tue sono congetture, un approssimarsi a questo infinito che lidentit di soggetto e
oggetto, e aggiungeva: ma guarda quali miracoli in questo approssimarsi allinfinito possono
accadere, di quali grandi eventi capace la tua mente nellapprossimarsi allinfinito. Lorigine della
nostra stessa matematica moderna e contemporanea essenzialmente questo.

Cacciari: non basta indicare queste diversit, la nostra identit qui si determina nella misura in
cui

Ascoltatrice nella ricerca

Cacciari. No, non soltanto nella ricerca: noi dobbiamo riuscire a dar forma a queste diversit,
queste diversit devono formare una communitas, se non formano una communitas La tracotanza
consiste per lappunto nel credere di aver compiuto litinerario allidentit. la quintessenza del
peccato, dellhybris cui si faceva riferimento.
Lo stato Lo stato, questo termine con cui traduciamo tutto, politeia, civitas, res publica Nel
termine stesso, stato, che torna in tutte le lingue europee contemporanee, non a caso, cosa risuona?
Il conflitto, la contraddizione stata risolta, stata e dunque stato. Qui c una grande svolta
epocale: lepoca delle contraddizioni, lepoca dei conflitti stata e dunque questo stato. Perch
questo pensiero possa funzionare, perch questo possa suonare come un nuovo inizio, lo stato deve
essere composto da in-dividui che iniziano con lo stato, che non si portano dentro lo stato le
diversit, le contraddizioni, i conflitti che li avevano caratterizzati. un nuovo inizio, una nuova
epoca che si apre, in cui due sono i protagonisti fondamentali: lin-dividuo e lo stato. In mezzo non
ci devono essere corpi perch lindividuo deve essere organizzato in forma meramente statuale,
deve educarsi allo stato, non possono esserci configurazioni autonome dellindividuo rispetto al
nomos statuale. Questa la dottrina fondamentale dello stato moderno e contemporaneo. Allora
evidente che questo individuo si compie riconoscendo la propria identit come quella di un
individuo che si educa allo stato. Allora questo individuo compie la propria identit nellambito di
questa dottrina, perch il bourgeois che si fa citoyen riconosce la sua identit nellessere cittadino
dello stato, nellappartenere al corpo dello stato. cos che la dottrina dello stato moderno
riconosce e risarcisce il bisogno di identit. Non pu esservi identit vera se non appunto nel nomos
statuale; ma ecco allora la contraddizione fondamentale, che gi dopo la Rivoluzione francese, che
invera questa dottrina, tutti i grandi teorici del liberalismo moderno - ma successivamente e da un
altro punto di vista anche Marx denunciano: cio che lo stato moderno deve riconoscere
lindividuo come originario con s (si parte insieme, prima non cera: si pensi al frontespizio del
Leviathan di Hobbes: individuo e sovranit territorialmente determinata sono tuttuno) e che
lindividuo alla fine ri-conosce se stesso soltanto risolvendosi nel corpo statuale. Ma qui c una

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dissimmetria, una vera contraddizione, foriera di tutto lo sviluppo dello stato moderno e
contemporaneo, in tutti i suoi paradossi e in tutti i suoi mostri. Ma una contraddizione originaria,
che ancora una volta deve essere filosoficamente pensata, perch tutta la nostra storia, la nostra
tecnica, la nostra economia pu essere pensata soltanto filosoficamente. Tale contraddizione
originaria esplode dopo la Rivoluzione: il Terrore per Hegel un passaggio necessario per stabilire
queste identit statuali, ma Hegel stesso riconosce la debolezza di questa soluzione perch essa non
risarcisce un elemento fondamentale, che era implicito nella promessa dello stato moderno: quello
della soddisfazione: occorre che non solo lindividuo si identifichi ma anche che sia soddisfatto di
questa identit: e come pu essere soddisfatto di questa identit attraverso il Terrore? Ecco che
allora si rilancia la domanda di soddisfazione e questa domanda pu andare in direzioni
completamente diverse, ma riparte da l. La soluzione: c la ricerca liberale ma insieme,
inestricabilmente connessa, anche la ricerca rivoluzionaria-marxiana. Cosaltro il processo
rivoluzionario in Marx se non il riaffermarsi di un bisogno di soddisfazione? Che la soluzione
statuale non in grado di garantire, meglio, che non pu pensare di poterla garantire. Si apre qui
tutta la questione e la storia dello stato moderno. Noi, anche stasera, ci muoviamo lungo questa
traccia, ovviamente, quella di cercare di ripensare una comunit, anche se il termine pu essere
foriero di diecimila equivoci, e me ne rendo conto perfettamente: pu dare adito ad idee
organicistiche lontanissime dalle mie, perch appunto questa ricerca di identit non pu compiersi
politicamente nella ricerca di un assetto statualistico; lidea stessa di stato che ormai non pu pi
reggere di fronte a questa ricerca di produzione di identit. Questa interrogazione non pu risolversi
allinterno di sistemi compiuti e lo stato per sua natura indicava questo. E il Weltstaat ancora di pi:
siamo usciti dallidea di stato o continuiamo a riprodurre tale idea in contesti sempre pi grandi,
superiori? Come concepiamo lUnione Europea? Nei termini che qui abbiamo discusso o di nuovo
nei termini secondo cui noi europei dovremmo ritrovare la nostra identit come cittadini dello Stato
Europa? E poi come cittadini dello Stato Mondo? Se ragioniamo ancora in questi termini non
soddisferemo la domanda di identit. E quindi questa ricerca di identit riesploder nei termini che
qualcuno di voi ha ricordato, municipalistici, separatistici, localistici, egoistici, cio di nuovo
deludendo lattesa di una autentica identit, dentro un circolo vizioso: da questo circolo vizioso,
da queste aporie di tutta la modernit che bisogna sforzarci di pensare di uscire. Anche se parliamo
di post-moderno, in realt siamo ben dentro queste contraddizioni: continuiamo a concepire gli
organismi sovranazionali, lEuropa, ecc. secondo unottica statualistica, ci piaccia o no, e questo
riprodurr tutti i mostri della storia dello stato, tutte le sua aporie e contraddizioni. Il mio invito
quello di addentrarci a pensare fino in fondo queste aporie, questi problemi, quello di affrontarli, di
prenderli per le corna, e vedere come fuoriuscire da questa storia del moderno e del contemporaneo,
prima di essere cacciati a calci.

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