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Jocelyn Benoist
Leghissa, Milano, Bompiani, 2001, p. 74 (Hua XII, p. 31): «si deve in generale
distinguere tra il fenomeno in quanto tale e ciò che per noi significa e per cui lo
utilizziamo, e, in conformità a ciò, anche tra la descrizione psicologica di un fenomeno
e l’indicazione del suo significato».
dell’aritmetica, senza usare la parola, ha definito il livello di analisi
specifico della fenomenologia.
Che questo livello (in cui certamente si può porre anche la
questione di una «genealogia dei concetti» nel senso di Riemann,
secondo una problematica cara a Giuseppe Longo) non fosse visibile dal
punto di vista di Frege, relegato alla mera delucidazione logica dei
concetti stessi, una cosa. Che ci sia o meno lo spazio per un’analisi
del gener un’altra, ed in fondo l’intera questione della
fenomenologia. C’ o no uno spazio per la fenomenologia — nel senso di
un suo spazio specifico? La questione, ci sembra, ha attraversato tutto il
XX secolo, e non soltanto le filosofie d’ispirazione fenomenologica in
senso stretto.
Ma invece di riaprire ancora una volta tale questione
metafilosofica nello spazio limitato che ci oncesso, il che
significherebbe fare l’apologia di un testo che oggi in fondo non ne ha, o
non ne ha più, bisogno, preferiremo affrontare una difficoltà che il testo
sembra inevitabilmente sollevare, per mostrare come esso possa essere
tutt’ora fonte d’ispirazione filosofica per quanto riguarda problemi
filosofici definiti. Il valore di un’opera filosofica consiste soprattutto nei
problemi che mette in luce, piuttosto che nelle soluzioni che crede di
proporre.
Nella Filosofia dell’aritmetica c’ un passaggio davvero molto
difficile, tanto difficile quanto strategico.
Dopo una lunga prima parte che propone una teoria della
costruzione del numero «nel senso proprio del termine», tale cio che
possa darsi intuitivamente, e secondo questa stessa intuizione, con un
ritorno riflessivo e astrattivo sugli atti della coscienza, Husserl giunge al
risultato sorprendente secondo cui questa costruzione, che a suo parere
dischiude il senso del numero, vale soltanto fino al numero 7 o al 12 (a
seconda dei testi), e non di utilità alcun a al di là di questi primi stadi
della numerazione. La prima fondazione del numero nel corso del testo,
intuitiva, sembra dunque votata all’insuccesso.
Spingiamoci oltre: anche nel caso di tutti i primi numerali,
bisogna comunque dissociare il loro significato intuitivo di numerazione
di una quantità, secondo cui possono darsi, dal loro statuto aritmetico,
che consiste essenzialmente nel fatto di prestarsi a delle operazioni.
Questo carattere operazionale del numero quale se ne occupa
l’aritmetica non una proprietà di tutti i primi gradini della serie degli
interi, ma una proprietà generale del numero, che reinveste i primi stadi
della costruzione e gli attribuisce esattamente lo stesso valore degli
stadi superiori. Come tali, «i numeri in ambito aritmetico non sono delle
entità astratte» (p. 223; Hua XII, p. 181), il che significa,
fondamentalmente, che contrariamente ai risultati del processo
astrattivo non sono ricavati da alcuna «intuizione».
Il problema fondamentale della seconda parte della Filosofia
dell’aritmetica dunque il passaggio al simbolico, il solo in grado di
rendere conto della vera natura del numero come realtà operazionale, e
definita esclusivamente da quelle operazioni che si possono fare su di
essa.
Il problema posto nei termini brentaniani del passaggio dalla
sfera delle «rappresentazioni proprie» (cio intuitive, nel senso di
intuitive ci ciò di cui esse sono rappresentazioni) a quella delle
«rappresentazioni improprie», attraverso cui l’oggetto viene certamente
rappresentato, ma senza essere esso stesso «dato» all’intuizione o, in
ogni caso, non in quanto dato3.
È un problema di legittimità. Se il concetto di molteplicità
(Vielheit), che in Husserl alla base di quello di numero (nella misura in
cui quest’ultimo risponde alla domanda «quanto?», Wieviel?),
tato
ottenuto a partire da costruzioni «proprie» (eigentlich), nell’intuizione,
come trasferirlo (e trasferire al tempo stesso il concetto di numero,
mantenendone l’impiego omogeneo) sul terreno dell’uso delle
rappresentazioni improprie? In che misura si può parlare di quantità,
cio riferirsi a essa, in un senso improprio?
È a questo punto che interviene nell’analisi un anello
argomentativo decisivo, ma estremamente imbarazzante. Infatti, in
questo contesto che Husserl introduce la nozione di Gestalt, sotto il
nome di «momento figurale» (figurales Moment). Quest’invenzione
esattamente contemporanea a quella di Ehrenfels nel suo famoso
articolo Über Gestaltqualitäten, ed riferita anche, nell’uno e nell’altro,
al medesimo testo di Mach, nell’Analisi delle sensazioni.
Ora, la question molto semplice: che ci fa qui la Gestalt? È vero
che Husserl ci ha prevenuti, già nella prefazione del libro: «mi sono
impegnato in analisi assai dettagliate, come se in gioco vi fosse stata
una sorta di “metafisica del calcolo”, laddove l’analisi […] lasciava
prevedere un guadagno per la psicologia o per la logica.» (p. 48; Hua XII,
p.6). Certo, l’abbozzo di una psicologia della Gestalt non un risultato
trascurabile, e meritava una deviazione. Ma rimane la questione: che
cos’ che, nella Filosofia dell’aritmetica, e più precisamente nel
problema del «passaggio» (Übergang) che menzioneremo fra poco (quello
dalla molteplicità intuitiva alla molteplicità simbolica), poteva motivare
una tale deviazione, o perlomeno dare il pretesto per un’invenzione del
genere?
Evidentemente, le Gestalten qui considerate da Husserl sono
Gestalten «quantitative», percezioni globali e intuitive di quantità finite, e
relativamente limitate, afferrate come interi. Dunque il ragionamento
sembra il seguente: dato che posso percepire «un filare di alberi», «uno
stormo di piccioni» (esempi di Gestalten), qui bisognerà riconoscere una
forma di comprensione impropria della quantità. In effetti, in casi del
genere certamente non produco ciascun termine nell’intuizione per
enumerarlo, così da costruire la quantità in questione nel senso di una
con il numero.
significati del numero, ha forse a che fare con la quantità, ma c erto non
vero che qui probabilmente siamo riportati ai limiti
della domanda di partenza attraverso cui Husserl, all’inizio della
Filosofia dell’aritmetica, voleva misurare cos’ un numero: cio quella
del «quanto?». «Uno stormo»
una possibile risposta alla domanda:
«quanti piccioni ci sono?». Ma non un numero, e non detto che abbia
qualcosa a che vedere con un numero.
Certo la possibilità di una relazione «simbolica» con la quantità al
livello stesso della percezione sensibil
interessante; ma sarà mai
sufficiente a rendere conto del fatto che possa esserci una relazione
puramente simbolica — cio qualcosa di pi del tutto percettivo — con
una tale quantità? Sicuramente quando calcolo percepisco dei segni, e
la mia capacità di fare o perazioni si basa su questa percezione. Ma
questa non ha niente a che vedere, nel suo contenuto, con ciò che qui
dovrebbe essere simbolizzato (la quantità). D’altra parte, se nella
«Gestalt quantitativa» la quantità non si presenta chiaramente,
analiticamente, nell’intuizione globalizzante ch
al suo posto (la
simbolizza, come quantità analiticamente determinata), e se questo
che produce l’effetto di Gestalt, in un certo senso essa tuttavia c’è, sotto
forma di relazioni date che possono essere attualizzate attraverso
un’analisi della suddetta percezione. Dei fenomeni di segnicità
immanenti all’intuizione, anche propriamente intuitivi, non potranno mai
equivalere a un vero e proprio passaggio al simbolico, che al contrario si
opera attraverso l’evacuazione di ogni intuizione dalla cosa stessa.
Questa non sembra un’obiezione decisiva alla costruzione
husserliana, perché Husserl stesso, nella Filosofia dell’aritmetica,
convinto che ci sia una rottura e una differenza di natura fra
simbolizzazione percettiva (gestaltica) e semiotica4. Allora, però, si pone
inevitabilmente la questione di come mantenere al concetto di
«molteplicità» ( Vielheit) quel senso univoco cui il passaggio alla
simbolizzazione intuitiva doveva appunto permettere, per transizione
per così dire, di ottenere un uso che potesse valere anche per un
impiego puramente simbolico, calcolatorio. Il fatto che possa esserci un
certo senso intuitivo e puramente simbolizzante della molteplicità non
garantisce alcunché riguardo la relazione fra un ruolo puramente
simbolico, calcolatorio, del molteplice e il suo senso originario, intuitivo.
Poiché da una simbolizzazione all’altra c’ qualcosa di pi che un
cambiamento di scala. C’ un cambiamento di stile puro e semplice, e il
fatto che l’una mantenga una certa forma di riferimento, o di
traducibilità in termini di costruzione «propria», dato che in fondo
rimane sullo stesso terreno, per quanto riguarda l’altra non garantisce
niente. Il fatto che c’ o ci può essere una forma di improprietà (cio di
segnicità) nella stessa rappresentazione propria non assicura in alcun
modo la correlazione della sfera delle rappresentazioni improprie in
generale e di quella delle rappresentazioni proprie, e, attraverso ciò, la
referenzialità delle prime — ch
appunto la questione fondamentale
della Filosofia dell’aritmetica. A questo livello, restava completamente da
chiarire il concetto di numero che corrisponde a tale uso — calcolatorio