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Questo termine, coraggio, così inestricabilmente legato al cuore, al centro della nostra
persona, al motore che mantiene attiva la vita, è un termine che evoca e richiama
emozioni, pensieri, esperienze, sentimenti molto articolati, frammentari eppure legati da
una rete semantica di grandissima suggestione. Vorrei, qui, tracciare alcune bozze di
riflessione sul come il coraggio entra e sostanzia le attività cosiddette d’”aiuto”, con un
occhio particolare alla professione del counselor.
Sembrerebbe un assurdo, forse, che coraggio ci vuole mai per entrare in rapport con
l’altro, non è esattamente il mio primo obiettivo, la chiave d’ingresso affinché io possa
operare? Certo che sì, ma entrare in rapport con l’altro è un’azione impegnativa e a suo
modo rischiosa, significa domandarsi come e che cosa vogliamo portare con noi, e come
chiedere il permesso, senza piaggeria e senza arroganza, significa entrare in un mondo
sconosciuto e doverci restare, ospite di un forestiero, esposti all’ignoto.
Entrare in rapport con l’altro, come voglio entrare? A mani nude, portando i miei
strumenti (e quali scelgo, e come, dalla mia cassetta degli attrezzi oppure arrivo sotto il
peso e con le mani impegnate da tutta la mia moltitudine di arnesi?), lasciandoli a
portata di mano, vestito di tutto punto della mia professionalità, con l’abito casual che
portavo un attimo prima, con la tunica apparentemente inoffensiva del guru? E della mia
persona, delle mie emozioni, dei miei pensieri, pregiudizi, aspettative, fantasie e
curiosità? Delle esperienze che mi hanno ferito, della speranza che hanno saputo
accendere, del prurito di aprire il portone sull’ignoto? Dovrà, l’altro, appagare tutto
questo? Rivelarsi un gran bel caso, complesso al punto giusto affinché mi senta davvero
impegnato, capace di trovare una soluzione che mi lasci al sicuro?
Come è evidente, penso che nelle professioni d’aiuto, molto prima che occuparsi, con
occhio più o meno commosso, intenerito e amorevole, dell’altro da aiutare, sostenere,
confortare, (fors’anche, per i più temerari, “guarire”), sia bene occuparsi di sé, del
proprio benessere, dei propri obiettivi. Mettere a fuoco con precisione ciò che andremo
cercando nella relazione che stiamo per avviare, come ne potremo uscire contenti, con la
percezione che sì, è andata bene, occuparsi di arrivare all’appuntamento con l’altro con
la mente e il corpo liberi da fastidi, disturbi, sofferenze (se abbiamo un forte mal di
denti, se siamo in pena per una ferita recente, secondo voi quanta empatia possiamo
dedicare a chi ci parla di dissidi familiari o di scelta del lavoro?), sapendo, sperando e
cercando di trovare, nell’incontro, una felicità. Perché, in fondo, è questo che possiamo
offrire ed è su questo che abbiamo qualche possibilità di intervento, su di noi e sul nostro
modo di porgere si basa lo stile dell’incontro, è nostra la responsabilità del clima che
instaureremo, delle modalità del lavoro. E se noi abbiamo delle speranze, dei progetti e
delle aspettative, possiamo bussare alla porta dell’altro e chiedere di entrare: non perché
l’altro ha bisogno di noi ma perché a noi interessa avviare un incontro. E, avuto il
permesso, aggirarci in un mondo sconosciuto, volta volta tentando di catturarlo in
istantanee rassicuranti (sì, lo possiedo, questo l’ho vissuto anch’io, questo lo riconosco)
che confermino l’infinita uguaglianza di tutti noi esseri umani inscrivendo il frammento
suo in un archivio già noto e condiviso, oppure di restare attoniti, stupiti, incantati, senza
neppure tentare di dar forma nota alla meraviglia, appagandosi della fruizione affettiva
assai prima di occuparsi di catalogarla, gestirla, elaborarla. E muoversi, in questo mondo
ignoto, governato da regole sue e con una lingua propria, ospiti di uno sconosciuto che
non sa dove vuole condurci e nelle cui mani inconsapevoli è racchiuso il mistero: un po’
di coraggio, ci vuole!
E ora che siamo dentro, sta a noi frenare il moto abituale del riallineare un oggetto
poggiato malamente, chiudere un’anta abbandonata, sta a noi trattenere il gesto di
raddrizzare un colletto spiegazzato, di aprire delle finestre impolverate. L’esperienza del
nostro mondo ci ha abituato a porre rimedio con mille, minuti gesti del quotidiano, a
rimettere un ordine consolante nel nostro panorama. E il nostro animo aperto all’incontro
conserva queste abitudini che ripristinano ordine e conoscibilità, attenuano i fastidi,
custodiscono la sopravvivenza e il passo sicuro nell’esistenza. Ma in questo mondo altro,
quale e come e quando vanno attivati questi nostri gesti, ne abbiamo il permesso, è
opportuno praticarli, non è forse un nostro tentativo di esimerci dalla contemplazione del
non ancora (o diversamente) ordinato? O, forse, è esattamente per questo scopo che
siamo lì, per raddrizzare il vaso rovesciato, aiutare a raccogliere l’acqua in terra,
rassicurare che il mondo non finisce per questo?
Sono pensieri, interrogativi, questioni estremamente impegnativi, che richiedono un
cuore grande e saldo per tollerare quello che ci sembra un caos, per non arricciare il
naso dove ci sembra davvero sia stato fatto un gran pasticcio, per non contrastare un
progetto che ci sembra elusivo e inconcludente, per non marchiare della violenza di una
diagnosi un atteggiamento che ci sconcerta, ci spiazza.
Ma un sussulto di coraggio ci serve anche per poterci fidare dell’altro, nel consegnare la
sua sicurezza nelle sue mani, nel chiedergli di custodire al meglio la sua persona. In
questo davvero sovrapponibili a tante esperienze da genitori o da maestri, facciamo
fatica a lasciar andare, ad aprire la porta di casa, desiderosi quanto titubanti di guardarlo
mentre se ne va, interrogando in un ultimo attimo il movimento delle spalle per
scrutarne ancora un poco quella interiorità che si è richiusa. Soprattutto quando ancora
pensiamo e sappiamo di poter aiutare, quando non abbiamo le mani vuote, soprattutto
allora è difficile lasciar andare, soprattutto allora. Fidarsi dell’altro è un’esperienza
straordinaria ma ogni volta il cuore manca almeno un battito.
Se queste professioni d’aiuto sono, come si dice, basate sul rapporto interpersonale, se il
nostro strumento fondamentale è davvero la nostra stessa persona, tanto maggiormente
va sottolineata l’ineliminabile responsabilità personale dell’operatore nella sua proposta
professionale: ciò che pensa, come pensa, il suo assetto teorico, la sua metodologia, la
sua tecnologia di relazione, il suo modo di costruire la relazione, le sue aspettative, la
sua capacità di consolarsi di fronte allo scacco, il suo sapersi prendere cura di sé. Di
tutto questo, e molto altro ancora, il professionista è responsabile, ne deve saper
rispondere. E nessuna scuola, teoria, comunità accademica potrà essere invocata come
scusante, proprietario o garante, più o meno inconsapevolmente, del singolo gesto
professionale o dell’intero stile dell’attività. Voglio dire, in pratica, che aver studiato
attraverso un metodo, un impianto teorico specialistico, magari di grandissimo livello
qualitativo, aver scelto dei maestri, aver verificato il proprio modo di fare con
l’esperienza dei più anziani, non elimina affatto la responsabilità diretta e personale di
ciò che si va facendo nelle relazioni d’aiuto. Questo comporta, ancora, un’altra forma di
coraggio: rischiare di persona, sfidare il mondo accademico quando ci sembra non
risponda correttamente a esigenze importanti, poter fare a meno di un consenso e una
condivisione mentre si avvia una sperimentazione, assaporare la solitudine di una
ricerca. Senza, per questo, potersi aureolare di martirio o necessariamente doversi
proporre come novelli fondatori o salvatori del mondo. Ma, in fondo, è ciò che possiamo
offrire, nel nostro lavoro: l’addestramento a saper e voler fare della propria esistenza un
manufatto pregiato e consapevole, lontano da illusioni di magnifiche sorti e progressive
quanto dalla banalizzazione voluta per la quale i dettagli sono così poco importanti
mentre il mondo va in fiamme!
Il coraggio di vivere