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Maria Cristina Koch Candela 20131 Milano, via Grossich, 16 02 2367781; mcristina@mckoch.fastwebnet.

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dopo tanti modelli terapeutici

Curare la vita con la vita

Oltre

Milano, ottobre 2009

Curare la vita con la vita

Curare la vita con la vita ......................................................................1 Introduzione ...................................................................................4 Piccolo avviso ai naviganti ................................................................6 Il setting.......................................................................................11 Lo spazio pi privato ..................................................................12 Il setting relazionale...................................................................13 Chiamarsi per nome ...................................................................14 Il pagamento.............................................................................16 La durata ..................................................................................17 I fatti degli altri .............................................................................19 Questione di cornici....................................................................20 Uno, nessuno e centomila ...........................................................22 Un frattale per identit ...............................................................23 Cattedrali..................................................................................26 Uno splendido addio ...................................................................28 Una rete per pensare .....................................................................31 Le stecche del ventaglio..............................................................31 Una rete per navigare.................................................................33 Altrove nel tempo ......................................................................36 Ideologie a confronto .................................................................38 Dallaccumulo del sapere a sapienze che trasmigrano .....................39 Il moto permanente.................................................................42 Cercando la convenienza ............................................................44 Trasmigrare fra i nodi.................................................................46 Un maghrebino al semaforo ........................................................47 Vincoli ..........................................................................................49 Bipolarismo ...............................................................................51 I piedi nel piatto ........................................................................53 Il corpo e la mente.....................................................................62 Annabella e lo stornello ..............................................................64 Il corpo come Atlantide...............................................................66 Il corpo come consulente ............................................................68 Il linguaggio degli organi.............................................................71 Assieme per dare un nome..........................................................73 Dalla diagnosi alla significazione ..................................................76 Flash............................................................................................80 Alla stazione di Trento ................................................................81 Bustine tonde per il the ..............................................................84

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Come mi vesto oggi? ..................................................................86 Comprare un bambino? ..............................................................89 Elogio dellapparenza..................................................................93 Figli e figliastri...........................................................................97 Foglie derba ........................................................................... 101 Forzati del cambiamento........................................................... 105 I confetti, tu li mastichi? ........................................................... 109 Il lutto del sintomo................................................................... 112 Il presente nasce dal futuro....................................................... 116 Intimit e verginit .................................................................. 119 La clinica e le donne................................................................. 122 La curva a tocchettini ............................................................... 126 Alle madri di maschi................................................................. 128 Lei o lui?................................................................................. 134 La lingua mochena ................................................................... 138 Magie ..................................................................................... 141 Prendere gli stivali ad un morto ................................................. 143 Razzista anchio ....................................................................... 146 Regina della casa? ................................................................... 150 Storia di una sonda spaziale ...................................................... 153 Strisce pedonali e sellini di bicicletta........................................... 157 Sudafrica e Ruanda tracciano la strada ....................................... 160 Un polpo in Sardegna ............................................................... 163 Incontri ...................................................................................... 165 Nota breve.............................................................................. 166 Lambiguit del colesterolo ........................................................ 168 Gli occhi del sarcofago.............................................................. 196 Un volpino per Sergio ............................................................... 212 Una biciclettata per Giulietta ..................................................... 235

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Introduzione
Con questo nuovo libro vorrei raccontare di qualche idea e di qualche strumento tecnico che mi son trovata a considerare utili nel mio mestiere. E vorrei raccontare affinch se ne possa avviare una discussione critica, affinch altri colleghi, se vogliono, ne testino lutilit e li correggano e li integrino in una sorta di ricerca aperta, in cui il pensiero e la tecnica della psicoterapia moderna appartenga a chiunque operi. un pensare collettivo che circola, a me sembra di averne intercettato alcuni aspetti e di questi riferisco qui. Per cui, buon lavoro a chiunque vorr maneggiarli assieme a me. Nel corso di pi di trentanni, come un po fanno tutti, ho studiato sui libri, sono andata a vedere colleghi pi esperti e prestigiosi, ho tentato contagi e contaminazioni fra discipline diverse; e anche, per come ho potuto, sono andata a visitare altre culture, altri punti dosservazione. Non so se si possa parlare di un percorso, sicuramente di un gran girovagare sotto il benedetto segno della serendipit, in cui ho incontrato maestri generosi, tecnicalit precise, slarghi di vedute e improvvisi mutamenti di senso. E un gran divertimento nello sperimentare e in accostamenti improbabili di logiche e linguaggi differenti che andavano a formare costellazioni inedite capaci di movimento e di capovolgimenti talvolta di grande efficacia. Mi piace andare a conoscere e studiare almeno un approccio nuovo ogni anno; mi piace andare a bottega un giorno dalla PNL, un altro da una sciamana maori, e poi la struttura del narrare come la forma del pensare femminile, il problema del consenso articolato con la possibilit di verificare quanto ha compreso linterlocutore dal mio dire, laffascinante attesa della risposta che d senso alla domanda, il viaggio fra il formarsi dei pregiudizi e la magica ironia della cultura ebraica e la struttura sociale allinterno dellharem. Viaggi, excursus, puntate pi o meno veloci che poi mi riportavo a casa come strumenti di lavoro, da usare talvolta come avvertimenti talaltra come forzature di uno schema ripetitivo ma anche per introdurre un diverso respiro nellandamento relazionale. Norbert Wiener, quando doveva riflettere, si poneva davanti a una tenda agitata dal vento o di fronte a un ruscello, diceva che cos manteneva il cervello indeterminato, non specializzato, in modo che potessero entrarvi informazioni nuove ed evocare risposte impensate. Mi parsa unimmagine suggestiva e bellissima.

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Ma adesso basta introdurre (giustificare?), inizio a raccontare e, come dice il guardiano del faro, vado in mare aperto con rotta incerta.

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Piccolo avviso ai naviganti


Il libro composto da tre parti: i primi capitoli in cui espongo le tre operazioni fondamentali di cui mi interessa qui trattare: occuparsi degli altri, costruire una rete per pensare, considerare i vincoli attraverso e grazie ai quali possiamo pensare. Poi, i flash, brevissime istantanee di pensieri suscitati dagli accadimenti della giornata, da una scenetta intravista, da unemozione vissuta. Sono bozzetti che suscitano pensieri, correggono e suggeriscono tecniche da utilizzare nellambito terapeutico. E, infine, in appendice, ci son gli incontri, trascrizioni commentate di alcune vicende significative che ho spartito con i miei interlocutori. Brevemente, sedute di terapia. Ho immaginato, infatti, questo lavoro come un ipertesto che sta al lettore smontare e rimontare a suo piacere, come in un gioco di figura/sfondo tridimensionale, in cui ci che credo di pensare dovrebbe trovarsi riflesso nella quotidianit degli incontri terapeutici, innervato e suggerito da quello che il mondo esterno mostra e offre nel dispiegarsi delle giornate. Questo, per me, il senso semplice dellidea di curare la vita con la vita. Il dolore dellesistenza, il disagio mentale, psichico, la sofferenza in ogni sua forma, ci turbano e ci coinvolgono, ondeggiamo faticosamente fra lorrore del rifiuto e la pietas, il desiderio di darne sollievo. Nel tempo abbiamo tentato di imbrigliarla, questa sofferenza psichica, con la pi netta delle soluzioni: dandole un nome, anzi, tanti nomi, affastellando dettagli sempre pi minuti del dipinto che la vuole definire per inquadrarla, appunto, rinchiuderla in una cornice certa: la diagnosi. Una cornice spessa che non cattura noi, i sani, la possiamo tenere a una distanza giusta, possiamo immaginare soluzioni. La distanza che ne prendiamo, allora, non pi una fuga ma unazione etica, scientifica, distacco indispensabile per inquadrarla, darle un nome, noi la studiamo per inventare i modi di curarla, di guarirla, questa sofferenza che ci minaccia. Per disinnescarla, capovolgerla, evitarla, eluderla, affondarla. In questa straordinaria coltivazione della ricerca della cura, infiniti sono stati gli approcci utilizzati, articolate fino allincredibile le tecniche messe a punto. Una ricerca inesausta che ha impegnato decenni e decenni, su cui tuttora ci affatichiamo in tanti. Un

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patrimonio imponente di pensiero e di studio, con contrapposizioni un giorno aspre che trovano pacificazione nel tempo di poi e lacerazioni improvvise e dolorose che frantumano unidea, la riflettono in cento specchi, ne fanno nuove edizioni, e ancora e ancora. Ma tutte, tutte, mi sembra, le diverse terre di questo mondo hanno a fondamento della loro scienza un proprio pensiero sullesistenza, un modo di riguardare alla vita da cui discendono le soluzioni tecniche e le teorie raffinate. Perch non si pu pensare, parlare, vivere e studiare se non partendo da un punto di vista. Talvolta, e a me per esempio piace molto, in vista di un obiettivo, lo sguardo ben radicato nel futuro. Cos, in un gioco di rimbalzo, ci che si dice del disagio mentale, della malattia, della sofferenza psichica, dei modi per curarla, per sconfiggerla, per guarirla (!), la descrizione che se ne fa, la struttura dellintervento riflettono, in realt, il pensiero di chi guarda e dice. E, principalmente, lidea del benessere cui si dovrebbe condurre il portatore del malessere. Ma ci dimentichiamo di ricordare il punto di vista da cui si preso lavvio: questo viene tralasciato in una immaginata lettura obiettiva della sindrome, del sintomo, del quadro clinico. Accade, cos, che laltro, il cosiddetto paziente, quello la cui sofferenza inizialmente vorremmo alleviare, si trasforma in una protesi del suo disagio: definito attraverso la definizione del suo male, viene ricollocato con attenzione nella casella che lo attende. Non pi Giovanni, Anna, Maria, Edoardo, operaio, maestra, architetto, medico ma fobico, depresso, maniacale, caratteriale. Potenza del nome che crea lidentit e lo assegna con fermezza. E della matrice sostanziale da cui scaturisce tutto questo accurato inquadramento, del punto davvio squisitamente culturale, del modo di pensare la vita e lesistenza di chi guarda e definisce, non si ha pi memoria, (forse non se ne ha mai avuta), ma esattamente questo che cuce di senso lintervento terapeutico, richiudendolo in s. Perch in ogni incontro terapeutico, forse, semplicemente, in ogni incontro umano, convergono i pensieri sullesistenza delluno e dellaltro per, assieme, farne un nuovo, diverso manufatto. importante, allora, che chi si pone in ascolto dellaltro sappia e dica qual il punto di vista da cui prende lavvio, come si svolge il suo stile di ragionamento, quali le tecniche che possiede e come il metterle in atto obbedisce e si compone con la sua filosofia dellesistenza. Una trasparenza di pensiero e di intervento che non si arroga la palma delleccellenza ma pianamente rende conto di ci

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che fa, di come lo fa, dello scopo verso cui si muove, dei criteri di verifica del suo lavoro. Perch nellincontro terapeutico la responsabilit inesorabilmente personale. Ecco il senso di questo mio scritto: rendere conto nel dettaglio di come lavoro, cercare di raccontarlo per conoscerlo anchio meglio e usarlo con maggiore competenza. La mia idea che fare terapia un modo di costruire le nostre differenti identit, fra vincoli e libert di ciascuno. Il sapere riscoperto unesperienza, calda e vitale, profondamente immersa nel quotidiano, quel quotidiano che d contorni alla nostra esistenza, che ci caratterizza e ci definisce. il nostro stesso abitare il mondo che ci ingabbia e ci libera, nel nostro modo di costruire il pensiero e la vita che va ospitato il disagio, accolta la sofferenza. E, visto che ci sono, tanto vale dichiarare i miei pregiudizi pi abituali: non mi dedico a decifrare la patologia, non amo linquadramento diagnostico; mi interessa, invece, cogliere le risorse non utilizzate, spesso non conosciute, dellaltro, cercarle assieme e poi ristare incantata a osservare luso che ne vien fatto, spesso per prosciugare a suo modo lambito patologico; mi interessa allargare lambito della salute della persona, ho bisogno della sua sanit, dellidentit con cui si aggira quotidianamente nel mondo, per poterlo incontrare; sto attenta a usare sempre un linguaggio italiano, non di gergo clinico: se una persona mi si dichiara paranoica e vuole imporre le sue regole sul mio operare, la chiamo prepotente, se una persona mi esibisce la sua comprovata depressione, le dico che penso ci sia un dolore da attraversare da cui si tenuta lontana per timore di non farcela; la persona, o le persone, con cui lavoro sono i miei migliori consulenti, i miei esperti supervisori. Ho la massima fiducia e stima nella loro saggezza, mi lascio guidare dai loro movimenti, mi arresto ai loro divieti, svolto dove mi sembra volgano lo sguardo; il mio interesse riuscire a sintonizzarmi sulla teoria del mondo e di se stesso che ha la persona con cui lavoro, non

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di interpretarla secondo eventuali teorie: pi ecologico e pi funzionale; la conoscenza delle varie teorie che sono state visitate nella formazione di un terapeuta un utile patrimonio di risorse, un buon esercizio imparare a conoscerle per apprendere come si costruisce una teoria e come se ne testa la tenuta e lefficienza: mi serve quando incontro la teoria del mondo dellaltro; non mi occupo della verit, neanche per contestarla, non cerco di appurare come stanno le cose effettivamente, cerco di cogliere il suo modo di pensare il mondo, di connettere pensieri, emozioni, progetti in uno stile personalissimo, cerco di intercettare il ritmo e la musica di fondo che, come una firma, lo caratterizza e, quando ci riesco, entro a tempo nella sua danza; considero e rileggo il cosiddetto sintomo come una metafora creativa costruita per uno scopo che potremo identificare e inseguire assieme: oggi d dolore, possiamo cercare di ottenerlo investendo altre risorse, magari perch no?, alzando il tiro, pretendendo di pi; nella ricerca dellaltro, mi sento libera di intervistare gli organi del corpo, mettere a confronto le diverse e molteplici persone che ciascuno ospita e che nel loro gioco mutevole ne delineano la personalit, modificare il setting, qualunque azione o movimento che mi permetta di incontrarlo e di scambiare fra noi per dar vita a unesperienza; non mi ritrovo nella consueta definizione di percorso terapeutico: ogni incontro a s, ogni seduta una prima seduta da aprire con emozione e concludere con lattenzione che dedicheremmo se fosse anche lultima; non cerco il famoso cambiamento, non mi riguarda, appartiene allaltro il pi pieno e libero diritto di far ci che vuole del lavoro comune; non voglio sapere a tutti i costi, evito di incappare nei segreti faticosi da confidare, a meno che mi sia dichiarato il desiderio di condividerli. Nella complessit della persona umana c un richiamo, una sostanziale risonanza fra tutte le sue diverse strutture: fisica, mentale, logica, psichica, linguistica, relazionale. Mi attesto, dunque, sul livello che in

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quel momento mi appare come il pi protettivo di unintimit che non mi piace violare, il pi agevole da maneggiare assieme, quello che promette un lavoro di miglior soddisfazione, confidando che lecologia propria della persona sapr far circolare linformazione importante, il significato decisivo ai livelli che maggiormente possono usufruirne. A suo modo, con il suo linguaggio, con i suoi tempi. Che non devo condividere necessariamente; questo mestiere mi piace moltissimo, lo affronto con gioia e curiosit, la sera sento con piacere la stanchezza che narra lintensit degli incontri, dove girata tutta la ruota delle emozioni, dove ho provato lo stupore per il coraggio e la dignit, dove ho potuto assistere a impensabili soluzioni di uscita da un groviglio, dove abbiamo ancora una volta raccontato assieme leterna storia di questo vivere umano cos privo di senso, insoddisfacente, un nulla nellinfinito che, pure, in ogni attimo acquista peso e significato, che si modella nelle nostre mani, che sprigiona sussulti stupefacenti e incantate contemplazioni, generoso e crudele, in cui ci data la meravigliosa risorsa della condivisione, del consolarsi assieme della fatica e sperimentare, e sorridere e ridere, e soffrire e sperare. Oggi per oggi, domani si vedr.

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Il setting
E per raccontare il mio modo di lavorare, cominciamo proprio dallambiente che ho scelto. Il luogo fisico importante, condiziona e caratterizza gli eventi. Nel mio studio c uno spazio abbastanza grande per ospitare gli incontri di gruppo, di coppia, di famiglia (e anche gli appuntamenti con le persone dentro di noi ma di questo parleremo pi in l). Un cerchio di dieci poltroncine, tutte uguali, una parete con un piccolo specchio unidirezionale e il microfono per ascoltare, ambedue bene in vista affinch si dichiarino da subito come strumenti possibili di lavoro, secondo lovvio principio che ci che non pu essere detto non va neppure operato. Questo non tanto per me solo un principio etico quanto un confine di sicurezza: se mi trovo ad aver qualcosa da nascondere non ho la libert di pensare e di lavorare che mi occorre, devo impegnare una parte di energie per evitare di farmi scoprire, il mio passo inciampa confuso. Le poltroncine le ho volute tutte uguali per garantire a tutti un maggior grado di libert, dove sedersi ogni volta, vicino a chi, pi lontano dalla porta dingresso o invece pi accosto, pronti a sfilarsi dallincontro. Mi siedo, in genere, in modo da avere la possibilit di interloquire comodamente con tutti i presenti; se occorre, le poltroncine possono essere facilmente spostate. E dietro lo specchio pu andare chi lo desidera, magari anche soltanto per distaccarsi un poco, per vedere che cosa succede a guardare dal di fuori. L c una piccola segreteria con i miei armamentari, il computer, il fax, il blocco per scrivere, la mia agenda, i miei dischi. Se lavoro con dei colleghi, usiamo un citofono per parlarci da dietro lo specchio ma anche dallinterno della seduta. La comunicazione viene riferita ai presenti, uninformazione da maneggiare assieme, pu anche richiedere ulteriori spiegazioni o essere lasciata cadere se non cattura linteresse. Uso questa stanza pi grande anche come sala dattesa. Il mio studio ha due porte, una per entrare e una per uscire affinch sia evitato lincontro fra le persone e sia garantita la privatezza a ciascuno. Fra un colloquio e laltro cerco di avere almeno dieci minuti per concludere dentro di me lincontro appena finito, fare una telefonata, prepararmi tutta nuova al prossimo. Tutti quelli che hanno studiato leffetto campo sanno bene a cosa mi riferisco.

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Lo spazio pi privato Se lavoro con una persona in individuale, invece, oltrepassiamo la stanza pi grande ed entriamo in una molto pi piccola. La utilizzo per gli incontri vis vis, due poltroncine anchesse uguali fra di loro, oppure usiamo il lettino. Preferisco mettere a disposizione del mio interlocutore un vero e proprio letto: ho provato vari tipi di poltrone e di lettini ma sono arrivata alla conclusione che un letto offre la massima libert di movimento e di collocarsi come pi si desidera, il corpo riposa, si aggroviglia, si gira, si ridistende a seconda dei momenti, sono veramente molte le posizioni possibili. Per me, invece, uso da tempo una chaise longue, quella mitica di Le Corbusier, che trovo bellissima e che avevo anche provato a utilizzare per il mio interlocutore ma a mio giudizio impone una scelta di posizioni troppo limitata. Mi piace distendermi anchio assieme allaltro, sono pi concentrata e la mia voce arriva alla stessa altezza del suo capo. Anche per questo dettaglio, non tanto una questione ideologica di annullare o negare la differenza dei ruoli (delle gerarchie di potere preferisco non fare uso neppure concettualmente, il grande Bateson diceva che ci sono metafore descrittive pi pericolose di altre e quella sul potere fra le peggiori proprio perch cos apparentemente semplice ed esaustiva) ma che ho verificato come muta lascolto a seconda della posizione fra i due, lessere con la testa alla stessa altezza permette un fluire molto morbido del conversare. Del lettino, poi, non farei un tema troppo sacrale: ha dei vantaggi perch svincola dal galateo cortese cui obbliga il guardarsi direttamente (come si fa a restare in silenzio molto a lungo se io sono l in attesa, tutta pronta a raccogliere le perle del suo dire?), permette una forte alterazione del tempo e un aggirarsi fra i propri pensieri pi agile e spregiudicato. Talvolta mi si chiede di sospenderlo per quel giorno o, viceversa, di poterlo usare per inseguire pi liberamente una catena di pensieri: decidiamo assieme, uno strumento a disposizione. Uso il registratore: ogni mio interlocutore ha la sua cassetta personale su cui incido i colloqui che facciamo. Evidentemente ne chiedo il permesso a ciascuno spiegando che talvolta capita di agganciare forma e contenuto della conversazione con una bella articolazione e che, talvolta, invece, mi capita di concludere la seduta con lidea di non aver capito poi molto di quel che passato fra di noi. Sono queste le registrazioni che sbobino per studiarle e

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migliorare la tecnica del colloquio. accaduto, molto raramente, che fosse il mio interlocutore stesso a prendere in consegna la cassetta per trascriverla: si trattato di casi in cui ritenevo opportuno che la persona potesse ritornare ad ascoltare ci che ci eravamo detti, in un suo contesto pi privato, senza di me. Mi portavano, poi, la trascrizione e spesso mi restituivano la grande emozione di quanto era importante ci che avevano ascoltato, di comera diversa la loro voce, di come ci hanno continuato a pensare su. Ma tendenzialmente non consegno le cassette: ho provato pi di una volta nel corso degli anni anche a riascoltarle assieme ma mi sembra che non dia grandi esiti rispetto al costo di una inevitabile violazione di pudore e di intimit. Il setting relazionale Il contesto fisico e ambientale lho voluto cos per facilitare il contesto di relazione con laltro. E laltro il mio consulente, il mio primo supervisore. A seconda delle sue reazioni, di ci che dice, di ci che tace, dellandamento del suo respiro, delle emozioni che manifesta, dei pensieri che sussurra, a seconda di come cambia il tono della sua voce, la postura del suo corpo, lo sbalordimento, la curiosit, la contrapposizione, tutto questo e mille altri segnali sono per me gli indicatori fondamentali di come muovermi. Per tacere, per suggerire, per proporre, per accompagnare, per deviare, per inserire un mio pensiero, per interrogare, per ascoltare serenamente. Senza memoria e senza desiderio, sono al seguito del suo passo per entrare nel suo mondo. Con il suo permesso. Per poterlo seguire, occorre che mi senta a mio agio, libera di osare e di astenermi, senza impacci fisici ma anche sciolta dalle preoccupazioni di ci che gli accade, di ci che far, di ci che vorr rischiare o trattenersi dallo sperimentare. Posso lavorare bene solamente se resto totalmente responsabile di ci che faccio, penso, provo, dico o taccio tanto quanto resta allaltro la piena responsabilit di ci che fa, pensa, prova, dice o tace. Assieme, ci occupiamo del suo mondo, assieme ci prendiamo cura della sua fatica e della sua pena, assieme cerchiamo risorse inesplorate e possibilit innovative, assieme restiamo sotto scacco e sopportiamo limpotenza dello star dentro tollerando assieme di non vedere uscita. Non intendo curare, probabilmente non saprei farlo, prendermi cura s. Con il suo permesso. Assieme allaltro.

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Spesso usano lintercalare: se devo essere sincero, se devo dire la verit Aggiungo seria (ma spero non troppo pedante) la mia postilla: non tenuto a dire nulla che non desideri dirmi, nulla che non desideri che io venga a sapere. Per quel che mi riguarda, le persone che mi cita e che impariamo a conoscere assieme, potrebbero anche non esistere in realt, mi basta che esistano per laltro nella nostra relazione. Tengo molto, e lo dico fin da subito alle persone con cui mi trovo a lavorare, al mio segreto professionale: avverto che non parler neanche della loro esistenza con me, tanto meno dei loro fatti privati, con chiunque: genitori, medici invianti, mogli e mariti, amici preoccupati. Anzi, per essere pi chiara, non ne parler se non alla loro presenza. Chiunque lavora con me pu propormi di incontrare qualcuno del suo mondo: valuteremo assieme lopportunit della sua richiesta, ne sonderemo il significato e le conseguenze, quel che ci attendiamo da questo incontro. Se dovessimo decidere, e talvolta accade, di invitare qualcuno a incontrarci, io resto comunque vincolata al segreto per quanto ci siamo detti prima dellincontro. Laltro, ovviamente, libero di dire ci che vuole. Ci si ragiona assieme, testiamo le convenienze, quasi sempre preferiamo lipotesi del riserbo. Spesso risulta difficile conservare il silenzio di fronte a telefonate preoccupate di madri lontane o di medici o colleghi che, avendo inviato la persona, pensano di doverne conoscere gli sviluppi, spesso mi sento sbilanciata dal rigore verso la rigidit ma a tuttoggi penso che risulti uno dei confini indispensabili alla mia possibilit di lavorare. Chiamarsi per nome Unaltra richiesta che pongo poterli chiamare con il nome proprio o con quello che preferiscono. In genere quando ne chiedo il permesso, mi rivolgono uno sguardo sorpreso ma, mi sembrerebbe, piacevolmente. S, certo, mi rispondono, spesso i pi giovani accentuano: mi dia pure del tu. Ma declino lofferta: mi trovo meglio a usare il lei. accaduto anche, mi ricordo un ragazzo con un ciuffo chiaro, la faccetta che voleva sembrare impunita e che trasudava tenerezza, accaduto anche che laltro mi desse del tu: non era un problema mio, il permesso che chiedo di rivolgermi con il lei, come vuole rivolgersi a me laltro, beh, riguarda lui. Ho continuato a chiamarlo Fabio anche se spesso cadevo in trappola e

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inciampavo nel tu: era cos giovane e mi faceva le confidenze! Ma cercavo di riprendermi, con un sorriso che gli attribuiva il punto. Lui non rilevava, andava avanti a parlare, lo sguardo un po lontano, la mano impaziente che tormentava i pantaloni, poi alluscita, improvvisamente allungava il volto per ricevere una carezza e se ne andava, il capo alto, le spalle ben diritte. Chiedo di poter usare il nome proprio soprattutto per evitare le complicazioni formali, dottore, signora, professoressa, avvocato mi ingombrano i movimenti (in particolare con le situazioni familiari, ciascuno viene individuato con il suo nome, non per il ruolo che occupa in famiglia o nella societ, tutte ugualmente persone con cui conversare). Ma mi ingombra anche luso del tu. Preferisco il lei e spesso, nei momenti di formazione, qualcuno si impunta, c stato pure uno che una volta ha tirato in ballo la Rivoluzione Francese! Ma, spiego la mia posizione, usare il lei non vuol dire mantenere una distanza fissa e allontanarsi dallintimit. Nel campo del lei si pu avanzare fin quasi a stringersi in un abbraccio daffetto e poi ritrarsi prima di sostare indiscreti nellintimit dellaltro, si possono evocare i registri del rispetto, dellindagine appassionata, del commento, della profonda partecipazione, della presenza silenziosa ma non per questo meno complice. Mi ha sempre disturbato luso del tu, usato senza chiedere il permesso (penso ai cosiddetti tossicodipendenti per esempio) e che trovo irrispettoso proprio nella disparit di trattamento. Gli allievi in formazione, mi sembra, devono imparare a usare tutte le sfumature possibili che il lei consente in una relazione fra persone. Dal tu, invece, non si pu tornare indietro, se ci si accorge (e quante volte accade!) di essersi lasciati troppo affascinare dal desiderio di aderire (catturare?) allaltro, con il lei pi agevole risistemarsi al proprio posto, il tu estremamente pi scivoloso. O, almeno, a me sembra cos. Analogamente alla mia richiesta, chiunque delle persone con cui lavoro pu rivolgersi a me come meglio crede, usare il mio nome, chiamarmi dottoressa, coniare un nomignolo o un soprannome privato. frequente che in situazioni emotive differenti scelgano una o laltra soluzione e anche questo un particolare dellarazzo che andiamo tessendo assieme. Spesso si fa occasione di intimit, di un'affettivit sorridente, di una complicit seria che non vorrei seriosa.

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Il pagamento Un altro aspetto, riconosciuto da tutti come importante ma che viene spesso percepito come inamovibile dall'ambito decisionale del terapeuta, quello del pagamento. Anche su questo dettaglio nel corso degli anni sono arrivata a definire una soluzione che mi appare funzionale, agevole perch permette di accostare diversi lati della relazione fra me e l'altro. La prima seduta, il primo incontro non lo faccio pagare: l'altro venuto a incontrarmi al buio, inviato da qualche collega, dal suo medico di fiducia, da voci raccolte in giro. Ho una segreteria telefonica in studio dove offro la possibilit di lasciarmi un messaggio oppure di sentirci direttamente il luned fra le 13 e le 14. La segreteria sempre inserita, la ascolto fra un incontro e l'altro, penso che sia meglio non interrompere il colloquio in corso e dunque il telefono non squilla neppure. Mi molto importante che la persona con cui lavoro sappia che quel tempo totalmente a sua disposizione ed importante anche per me, mi lascia un grado maggiore di libert in tutti i sensi. Dunque, mi ha chiamato per telefono, ci siamo accordati per incontrarci, per la prima volta cerco di non far passare troppo tempo, magari forzando un poco i reciproci vincoli ma senza troppa fatica. Ma quando ci vediamo in faccia, quando ci guardiamo per la prima volta, la persona in una posizione di netto svantaggio: viene in casa mia, spesso stanca di far fatica, ancora pi spesso sta compiendo un passo che ha rimandato e che non ama compiere, sa di doversi esporre portando le sue cose pi preziose a qualcuno di cui non ha nessuna informazione: che viso ho, che et, di che scuola sono, come lavoro, se risulter simpatica o supponente, se allineer le sue informazioni per trarne un giudizio drammatico e mille altre domande che urgono sulle labbra ma che pensa di non poter formulare. Dunque, come dico semplicemente, mi sembra giusto che si possa venire prima a vedere senza altri oneri, un po' come si entra in un negozio nuovo per dare un'occhiata. E' evidente che dovremo sceglierci l'un l'altro ma preferisco che si possa uscire dal primo incontro con ancora tutte le carte decisionali in mano, ivi compresa, ovviamente, quella di non tornare mai pi, di disdire per telefono l'eventuale nuovo appuntamento, di cercare, magari assieme, una persona pi adeguata di me. Posso dedicare anche un incontro, se lo riteniamo opportuno, allo spazio di domande, curiosit, informazioni di ogni

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tipo: non l'altro a dover essere discreto, sono io che debbo saper come rispondere nel contesto del mio studio. Solo dopo che ci siamo rivisti perch abbiamo deciso che ci andava bene, possiamo valutare assieme quanto deve essere il pagamento giusto del mio tempo e del mio lavoro. Anche in questo caso, l'onere di aprire il tema mio, dichiaro la cifra che abitualmente prendo per ciascun incontro e chiedo quale gli sembri adeguata. Adeguata non per me, questo un mio ambito, ma adeguata nel senso che sia sufficiente a che possa entrare a testa alta e sentire pienamente suo il tempo, il luogo, il lavoro ma senza che questo debba comportare uno sbilanciamento troppo forte del suo vivere quotidiano. Il discorso che ne facciamo, (talvolta in pi tempi), il modo come trattiamo l'argomento annoda e definisce il tipo di relazione, scandisce il peso che il nostro lavoro andr ad assumere. Rilascio sempre fattura, se non serve che la gettino pure via, cosa farne ambito loro, farla ambito mio. La durata E, per finire, quante volte, per quanto tempo. Mi chiedono quanto tempo servir, rispondo sinceramente che non lo so, posso solo accennare dei parametri generalissimi che in genere conoscono gi. Sul quante volte, invece, nuovamente occasione di accordo. Tratteggio brevemente le diverse possibilit: due, tre volte la settimana permettono lo strutturarsi di un linguaggio fra di noi, un conversare che riconosciamo e che usiamo facilmente, dettagli, amici, amanti e colleghi entrano a popolare l'universo condiviso, si sa che ci si vedr fra poco dunque quel giorno l si pu anche parlare in modo meno "importante", e anche tacere, riposarsi con i propri pensieri. Gli incontri acquistano un carattere meno sacrale, pi quotidiano e maneggevole. Vedersi pi di rado caratterizza il nostro incontro come perno dell'intera settimana (o dei quindici giorni), arrivano con gi in testa una sorta di ordine del giorno (che regolarmente disattendiamo, ovviamente), pi facile giungervi in cerca di risposte con qualche tratto di definitivit ma ci che ci diciamo pu essere rimasticato, riascoltato e rigirato in testa per pi giorni. S, come accade se si chiede alla Pizia, si fa un viaggio, si ascoltano le risposte, si ritorna via ma in realt il vero lavoro d'interpretazione lo fa il pellegrino. Questa soluzione caratterizza, appunto, come maggiormente impegnativo (e terapeutico) il tempo che intercorre

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fra un incontro e l'altro e garantisce un grado superiore di verifica ecologica: ci che resta, ci che serve la persona stessa che lo va decidendo, dopo un vaglio privato senza la mia presenza. C' meno accompagnamento, una maggiore responsabilit diretta. E' scontato che in qualunque momento possiamo ridiscuterne i termini, decidere di raddensare gli incontri o di diluirli: lo valutiamo fra di noi. Cos, mettiamo insieme le diverse variabili, l'urgenza della richiesta, il piacere di un rapporto pi da presso, il desiderio di una distanza protettiva, la questione del denaro, la reciproca empatia, l'interesse del lavorare in s e allora, ecco, cominciamo, con un po' di emozione, un filo d'ansia ma incrociando mentalmente le dita.

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I fatti degli altri


Qualche anno fa, in Inghilterra, avviarono uno studio conoscitivo per migliorare la qualit dellassistenza sanitaria; un aspetto riguardava la permanenza dei pazienti in ospedale. Beh, ci si accorse che, con la stessa diagnosi e cure equivalenti, alcuni pazienti richiedevano una permanenza insospettabilmente pi breve degli altri. Pragmatici e curiosi, i ricercatori andarono a cercare le variabili: famiglia collaborante, ambiente pi salubre? Non cerano differenze significative, e neanche per le patologie pregresse o il vigore del sistema immunitario. I ricercatori erano tenaci, volevano sapere, volevano capire e continuarono a sondare variabili sempre pi minute o impensate. Fino a che, inopinatamente, ne identificarono una, questa s costante per tutti i pazienti che guarivano pi in fretta: occupavano certi letti. E allora? Il fatto era che questi letti erano vicini a un grande atrio da cui era ben visibile il viavai dellintero ospedale. Le ambulanze che entravano veloci, lavvicendarsi dei medici, laffaccendarsi dei parenti, il passo esitante di chi veniva dimesso, lo scambio dei saluti e delle consegne, le porte girevoli che assorbivano e restituivano persone diverse a ogni rotazione silenziosa. Come dire, stupirono i ricercatori, che guarivano pi in fretta le persone che avevano modo di praticare lattivit preferita dagli essere umani: losservare gli altri. Io credo che anche nellingresso del nuovo secolo e millennio questa rimanga la nostra attivit preferita e credo proprio che resti la sorgente per tutti noi che ne abbiamo fatto un lavoro: occuparsi dei fatti degli altri, farsi e fare domande, poter sapere che cosa succede, tentare delle proposte, verificare che cosa se ne fa, saggiare somiglianze e differenze, sperimentare contagi di pensieri e di avventure, ritrovarsi soli a pensare laltro e custodirlo dentro di s, sentirsene invasi e desiderare di liberarsene, tornare incessantemente a cercarlo. Lo penso come un prendersi cura, molti di noi lhanno chiamato curare, qualcuno parla perfino di guarire. Ma, nelle sue varie accezioni e infinite sfumature di dettagli, nei nomi che si sono accavallati a distinguere o a segnalare condivisioni, pi genericamente quel tipo di rapporto che socialmente identifichiamo come terapia. Ambito assai battuto e dibattuto, conosco qualche pista che ne stata tracciata ma tant, direbbe Manzoni, sembra che, come resta

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la nostra attivit preferita osservare gli esseri umani e occuparsi dei fatti loro, cos, analogamente, ci resta indispensabile interloquire con gli altri per sapere meglio che cosa pensiamo. Narrare le nostre storie, raccontare i nostri pensieri per poterli conoscere. E condividere. Lobiettivo di chi narra vedere un suo pensiero prender forma di storia, avvolgersi in una linea conchiusa, appoggiarsi sullaltro e da lui essere rimaneggiato, modellato con ditate decise o timidi tocchi esitanti, stretto fra i palmi o dilatato fra le dita stese. per quello che ci si narra, affinch un altro umano, magari anche pi duno, lavorino a loro modo la storia e il pensiero, ciascuno a suo criterio, gusto, interesse, abilit. allora che possiamo lasciar andare il respiro sospeso, quando esce dalle loro mani, un soffio lento e grato demozione. Poi ricominciamo daccapo. Questione di cornici Ovviamente, nelloccuparci dei fatti degli altri, come si fa tutti, anche noi terapeuti cerchiamo una cornice in cui inserirli, un modo di ragionare se non un quadro teorico, unidea del come dovrebbero andare le cose. Da cui le cose che avvengono si discostano; variamente e con effetti spesso di grande sofferenza. Le nostre teorie, i modelli cui facciamo riferimento, fungono da linee guida, da mappe dei territori che andiamo a conoscere. Nel corso del tempo, alcuni modelli, alcune teorie, hanno conquistato un credito maggiore di altri, hanno improntato di s generazioni di terapeuti che hanno preferito muoversi nel rapporto di cura entro un recinto logico e teorico condiviso e che hanno contribuito a definirlo, dettagliarlo, qui aggiornando un passaggio, l rinforzando un confine. E, ciclicamente, a ogni progressiva santificazione di un modello teorico, ecco che gli se ne contrapponeva un altro, agganciato a quel punto, magari, ma esteso in tuttaltra direzione, oppure divaricato a fronteggiare un dogma sacro. Connessi allevolversi e al mutare del contesto sociale e culturale, i modelli terapeutici hanno costituito un vasto arazzo e, in qualche modo, una documentazione precisa dellandamento del pensiero. Perch, molto semplicemente, lindagine sullaltro, motivato dal desiderio di contribuire ad alleviare sofferenze, disagi, arresti emotivi, paralisi inspiegabili, ostacoli a una gestione buona, soddisfacente, pienamente umana dellesistenza quotidiana, si trasformava continuamente, incalzata dalle diverse formulazioni del malessere. E, soprattutto, dalla definizione che, un decennio dopo laltro, si veniva attribuendo al malessere stesso, via via che lidea di

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benessere si complessificava, abbracciando molteplici esigenze, innestando desideri e aspettative solo ventanni prima impensabili. E, dentro e fuori i recinti dei modelli di maggior successo, ogni terapeuta cercava comunque lincontro con laltro, trasgrediva e obbediva alle regole del suo stesso modello nellurgenza di un fare sul momento che sempre, per alcuni aspetti, sfuggiva alle ipotesi teoriche. Come per i reati penali, la responsabilit del terapeuta resta esclusivamente personale: nellincontro con laltro, si soli, per quanto numerose e dettagliate possano essere le icone dei padri protettori. Nel tempo doggi, penso che, proprio come accadde agli inizi del secolo scorso, assistiamo a una dissoluzione radicale, non drammatica ma seria s, delle forme del pensare e del fare che ci hanno accompagnato fedeli fino a pochi anni fa. Non solo perch, come si dice, ogni generazione una generazione di transizione e la nostra con tutte, ma perch stanno verificandosi degli eventi su scala mondiale che necessariamente pretendono attenzione: lo spostamento di milioni di persone in cammino verso una speranza di vita, la tecnologia del virtuale, la costituzione degli stati uniti dEuropa, limponenza della comunicazione nella vita di ciascuno, la globalizzazione politica ed economica, le prospettive di intervento sulla fecondazione artificiale, il cibo, lambiente ne sono solo alcuni esempi. Per non parlare della guerra che ha fatto nuovamente irruzione impudente nei nostri giorni. Inevitabilmente, come daltronde sempre successo, la cura della persona umana, le sue forme, le tecniche, i modelli di riferimento, anche oggi dipendono dal pensiero che della persona umana socialmente si preferisce avere fra i molti disponibili. Dallidea, appunto, del benessere da cui deriva, per contrappunto e differenza, la diagnostica, il progetto dintervento, la cura del malessere. Il cerchio etereo del pensiero scende attratto dalla concretezza a riempire il quadrato della realt e subito, in unimpennata veloce, si svincola ancora ritrovando la sua forma di cerchio concluso. A ogni generazione, in ogni frammento di tempo che riusciamo a definire, noi umani pensiamo veramente di aver quadrato il cerchio. Di aver colto linfinito trasmutare della persona, di aver capito, definito, agganciato per la manica il malessere, il disagio psichico. Di poterlo sconfiggere, disinnescare.

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Uno, nessuno e centomila Ad esempio, c uno slogan che ha avuto e conserva ancora oggi un grandissimo successo: Essere se stessi. Suona bene, sembra molto chiaro, immagina delle verit e delle identit, si propone come guida affidabile nei marosi dellesistenza. Lo leggiamo sui manifesti, sulle copertine dei libri, ci esorta con baldo vigore dal mondo del new age, ci ammonisce pensoso dagli ambienti meditativi. Sintetico e vibrante, ci sprona a drizzare la schiena, a confrontarci con il conformismo dilagante senza perdere lorientamento, ad avviarci a passo sicuro nel sentiero o nel viale ampio della nostra esistenza. Ma lo scintillare di questo motto da ricamare sul petto per potersi pensare cavalieri senza macchia, ottimati dallo sguardo puro, acuto come quello leggendario dellaquila, severi nel redarguire perch adusi a una austera coerenza, beh uno scintillio truffaldino, una luccicante confezione di nulla, come laria di Napoli, imbottigliata con diligenza da un avventuriero geniale. Perch che cosa mai vuol dire, che cosa mai significa essere se stessi? In un seminario di tanti anni fa sulla comunicazione, uno psichiatra partecipante tentava di negare il successo palese di un esercizio di induzione di comportamento avvenuto il giorno prima: s, certo, era vero, si era mosso effettivamente in quel tal modo ma era confuso, forse era anche distratto, insomma ieri non era se stesso. Il docente lo considera con attenzione, siamo tutti sospesi in silenzio, poi si china verso di lui e, incuriosito, gli sillaba sul volto: e quando tu non sei te stesso, chi sei? una di quelle scene che, come credo facciamo tutti, conservo come icona, nel reliquiario dove ammasso i reperti che il mondo e lesistenza mi offrono e mi permettono di utilizzare. A fianco di questa, un foglietto: Snoopy che sentenzia: nessuno perfetto, ma chi vuol essere nessuno? Essere se stessi, appunto, uno slogan fortunato, mi ricorda il bombastium di un vecchissimo racconto di Paperino, una sostanza magica e misteriosa che, aggiunta in un contenitore qualunque, ne trasformava il contenuto nel cibo preferito da chi lo aggiungeva. Oppure lo sciroppo per la tosse di Mary Poppins che cambiava sapore a seconda del bimbo che lo ingoiava ma restava prelibato per ciascuno. Non voglio affatto negare che lo slogan abbia potuto avere effetti brillanti, ispirare coraggio, suggerire fermezza,

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rafforzare qua e l caratteri insicuri: la capacit suggestiva esattamente qui. Poich non vuol dire nulla di preciso ma ha una forte attrattiva, lo slogan viene riempito di significato da chi lo prende in considerazione, lo traduce in una esortazione che poi segue. Lo sforzo di padroneggiare sentimenti o timori, la soddisfazione di esserci riusciti, rientrano in circolo a riempire ancor pi di rinnovato valore lo slogan stesso. Ma se fa bene, se ci aiuta in alcuni passaggi perigliosi, perch attaccarlo, perch svilire a slogan unesortazione che sembra parlare detica? Beh, come tanti farmaci e come tanti motti ritenuti utili a educare le pi giovani generazioni, anche questo ha degli effetti collaterali pesanti, impone ladesione a presupposti non criticabili. Molto semplicemente, essere se stessi presuppone che ciascuno di noi abbia almeno un s pi vero e pi s degli altri, pretende che ciascuno di noi, sotto le varie maschere indossate per fronteggiare le situazioni pi disparate, abbia un suo volto unico, riconoscibile, vero. Vero in quanto unico, il volto di s. Ecco, a me pare che questo presupposto risulti oggi particolarmente inadeguato e antistorico, forse addirittura pericoloso. Inadeguato perch non (pi?) funzionale per il modo odierno di costruire i pensieri, pericoloso perch civetta con lidea di un pensiero unico pi vero e pi giusto degli altri. E questo mi spaventa e mi preoccupa. Ogni pensiero che pretende di essere il migliore pretende anche, inevitabilmente, la dedizione e la fedelt. Totali. E la sconfitta, magari brutale ma per il fine migliore, di ogni altro concorrente. Il bigottismo laico estremamente pi pericoloso del bigottismo religioso, proprio perch chi si ritiene laico si pensa esente da bigottismi e, dunque, non fa nessuna attenzione a preservarsene. E se glielo fai notare, ti spiega che si chiama coerenza. Un frattale per identit Ma se invece di collocare lidea di identit in un nucleo compatto e immutabile ben custodito nel profondo del nostro interno, la immaginassimo esterna, se invece che unica la immaginassimo molteplice, se invece che sostanziale la pensassimo pi legata alla forma? Come dire, scivolassimo via dallidentit intesa come il nome di Ra, il segreto unico, lanima (magari immortale?), quel qualcosa che perennemente ci contraddistingue nel tempo evitando di impigliarsi nelle mutevoli apparenze e invece facessimo leva proprio sulle apparenze, e invece prendessimo laltro per come

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appare e (speriamo che Fromm guardi altrove!) non ci occupassimo di sondare il suo vero essere? Se cominciassimo ad ascoltare, semplicemente ascoltare ci che ci vien detto evitando di auscultare i discorsi? Se guardassimo con interesse ci che laltro ci mostra e solo dopo, con il suo permesso e con la sua attiva partecipazione, provassimo ad accostarne qualche significazione? Che succederebbe se aggiungessimo unaltra idea di identit a quella che ha attraversato i secoli formandoci in un pensiero? E dove sarebbe l'utilit di introdurre la farragine di un modello in pi? Tanto, certe cose le sappiamo da sempre, sappiamo che ognuno di noi contiene opposti e differenze sia pur costretto a una fatica quotidiana di integrazione, sappiamo bene che condividiamo pensieri e volti incompatibili, sappiamo che il nostro destino. Sappiamo che il nostro compito di Sisifo risorgere costantemente dalla comune imperfezione che ci affligge per crescere, diventare se stessi, smussare, tralasciare, polire le nostre divaricazioni, scegliere di diventare fedeli allunica essenza vera, sempre inattingibile ma sempre davanti agli occhi, stella polare cui orientare il lavoro (lanalisi interminabile!) su di noi. Ecco, a me questa idea non appaga, non mi sta tanto bene questa visione di noi peccatori (o nevrotici, che differenza c?), sempre tesi a redimerci dalla frammentazione, come dei cani da pastore impegnati a far s che le mille pecore si trasformino in un gregge ordinato. Teniamola pure, questa idea che ha intriso profondamente le nostre culture ma gliene possiamo affiancare unaltra? Se oltre al volersi considerare individui unitari con allinterno una ridda di parti anche contraddittorie ci pensassimo come una comunit articolata di individui molteplici di cui ciascuno, intero e compiuto, ha pari dignit e analoga capacit di porsi come portavoce della comunit stessa, si aprirebbero prospettive differenti non solo filosofiche ma anche per un criterio diagnostico e un progetto d'intervento di cura. Ci provo. Per ciascuno di noi, le cento, mille configurazioni dell'essere umano appaiono marcate da quella specifica caratterizzazione, da quello stile unico, inimitabile che ci fa dire "sono io". Ogni persona che siamo firmata, come ogni brano di Mozart lo rappresenta, come la scrittura di Leonardo si riflette nel suo disegnare, la pittura nel suo pensiero sulla luce. Se provassimo a chiamare questo, identit,

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senza pretendere di travasare la Gioconda nel codice Hammer, il Don Giovanni nellappartenenza massonica? Potremmo pensare ciascuno di noi come una moltitudine collegata da un dettaglio, da una forma che rimbalza da uno allaltro e allora potremmo rubare (o prendere in prestito) dal mondo serioso degli scienziati il concetto di frattale. Il frattale, (lo riassumo qui rapidamente solo per ricordarcene tutti negli stessi termini), entrato nella fisica da una manciata d'anni grazie all'innovazione velocissima dei computer pi moderni. Per dare qualche conto della realt, ci si spostati dall'utilizzazione della geometria euclidea a quella chiamata, appunto, frattale. Una geometria che, riformulando in termini attuali la teoria del caos, disegna la linea che, sempre uguale a se stessa, sempre diversamente traccia il confine fra la continuit e la discontinuit. Come dire, una foglia di quercia ben riconoscibile ma non esistono al mondo due foglie di quercia uguali. Sui libri invece s. Ognuno di noi sa riconoscere in una carrellata di foto la stessa persona cogliendo, in contemporanea, le sue trasformazioni nel tempo, nelle diverse emozioni, nell'atteggiarsi, nella luce, nei contesti spaziali. Concetto suggestivo, quello del frattale, non solo per la sua ormai leggendaria bellezza ed eleganza ma anche perch evade dall'universo dei modelli ideali (il punto, la retta, il triangolo ma anche il benessere psico-fisico, larmonia, lequilibrio) per cogliere l'andamento del movimento vivo dell'esistente. Le montagne non sono coni, il caos non disordine che squassa l'ordine ma flusso di vita impetuoso che, come un fiume, ha correnti e gorghi riconoscibili ma non prevedibili compiutamente. Un cielo a pecorelle ha un nome per tutti noi, lo riconosciamo ma non esiste una nube a pecorella se non nell'intero cielo, nessuna nube uguale all'altra eppure tutte sono grandemente simili, avvengono insieme nello stesso cielo. E, poi, soprattutto, le pecorelle vere brucano un po' pi in gi. Penso al frattale e lo vedo in giro attuato anche in forme d'arte, mi ripropone diversamente problemi di diagnostica, contiene gli interventi trasformativi, maestro dell'accompagnamento "un passo a lato", della metafora, del paradosso, della linguistica nella relazione. Del portentoso homo sum, humani nihil a me alienum puto.

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Cattedrali Ho trovato splendido un brano di Raymond Carver ("Da dove sto chiamando", Raymond Carver; Minimum fax, Roma 1999), lo ripropongo qui perch mi sembra una perfetta descrizione del lavoro terapeutico. Il terapeuta non sa, un cieco che ha bisogno che laltro disegni per lui e dia forma a ci che contiene dentro di s. Ma il terapeuta sa chiedere, porre domande, incalzare perch vuol sapere, forte del suo non sapere che il suo strumento migliore. Anche laltro vuol sapere, anche laltro incalzato dal bisogno di dar forma e il lavoro si avvia. "Cattedrali", ha detto il cieco, "so che ci sono voluti centinaia di uomini e cinquanta o cento anni per costruirle, so che intere generazioni di una stessa famiglia a volte hanno lavorato a una cattedrale. Se vuoi sapere la verit, fratello, questo su per gi tutto quel che so ma magari me ne puoi descrivere una tu, eh? Vorrei tanto che lo facessi. Mi piacerebbe un sacco. Se proprio vuoi saperlo, un'idea precisa non ce l'ho mica". Io mi sono concentrato: come si fa a descriverla, anche a grandi linee? ma supponiamo che ne andasse della mia vita, che un pazzo mi minacciasse. Ho cominciato a parlare, lui mi ascoltava: mi rendevo conto che non glielo stavo spiegando tanto bene, mi sono sforzato di pensare a cos'altro dire, poi "Scusa", gli ho detto, "ma mi sa tanto che il massimo che posso fare per te. E' che non ne sono proprio capace. Non ci riesco proprio a spiegarti com' fatta una cattedrale. Il fatto che le cattedrali non che significhino niente di speciale per me. Tutto l". E' stato a quel punto che il cieco si schiarito la gola, poi ha detto: "Ho capito, fratello. Non un problema. Mi venuta un'idea. Perch non ti procuri un pezzo di carta pesante? E una penna. Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme. Coraggio, fratello, trovali e portali qua" ha detto. E cos sono salito di sopra, ho rovistato un po', ho trovato delle penne a sfera in un cestino sulla scrivania. E poi mi sono sforzato di pensare a dove potevo trovare il tipo di carta che mi aveva chiesto. Sono sceso in cucina e ho trovato una busta di carta del supermercato che aveva ancora delle bucce di cipolla in fondo. L'ho svuotata scuotendola per bene. L'ho portata di l in soggiorno e mi

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sono seduto per terra vicino alle gambe del cieco. Ho spostato un po' di roba, ho allisciato la busta e l'ho stesa sul tavolino. Il cieco si tirato gi dal divano e si seduto accanto a me sul tappeto. Ha passato le dita sulla busta. Ne ha sfiorato su e gi i margini. I bordi, perfino i bordi. Ne ha tastato per bene gli angoli. "Perfetto", ha detto. "Perfetto, facciamola". Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua mano sulla mia. "Coraggio, fratello, disegna", ha detto, "Disegna. Vedrai. Io ti vengo dietro. Andr tutto bene. Comincia subito a fare come ti dico. Vedrai. Disegna", ha detto il cieco. E cos ho cominciato. Prima ho disegnato una specie di scatola che pareva una casa. Poteva essere anche la casa in cui abitavo. Poi ci ho messo sopra un tetto. Alle due estremit del tetto, ho disegnato delle guglie. Roba da matti. "Benone", ha detto lui, "Magnifico. Vai benissimo", ha detto. "Non avevi mai pensato che una cosa del genere ti potesse succedere, eh, fratello? Beh, la vita strana, sai. Lo sappiamo tutti. Continua pure. Non smettere". Ci ho messo dentro finestre con gli archi. Ho disegnato archi rampanti. Grandi portali. Non riuscivo a smettere. Ho posato la penna e ho aperto e chiuso le dita. Il cieco continuava a tastare la carta. la sfiorava con la punta delle dita, passando sopra a tutto quello che avevo disegnato, e annuiva. "Vai forte", ha detto infine. Ho ripreso la penna e lui ha ritrovato la mia mano. Ho continuato ad aggiungere particolari. Non sono certo un artista. Ma ho continuato a disegnare lo stesso. "Premi pi forte", mi ha detto il cieco. "S, cos. Cos va bene", ha aggiunto. "Certo. Ce l'hai fatta, fratello. Si capisce bene, adesso. Non credevi di farcela, eh? Ma ce l'hai fatta, ti rendi conto? Adesso s che vai forte. Capisci cosa voglio dire? Tra un attimo qui avremo un vero capolavoro. Come va il braccio?", ha chiesto. "Ora mettici un po' di gente. Che cattedrale senza la gente?" Poi mi ha detto: "E adesso chiudi gli occhi". L'ho fatto. Li ho chiusi proprio come m'ha detto lui.

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"Li hai chiusi?", ha chiesto. "Non imbrogliare". "Li ho chiusi", ho risposto io. "Tienili cos", ha detto. Poi ha aggiunto: "Adesso non fermarti. Continua a disegnare". E cos abbiamo continuato. Le sue dita guidavano le mie mentre la mano passava su tutta la carta. Era una sensazione che non avevo mai provato prima in vita mia. Poi lui ha detto: "Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l'hai fatta", ha detto. "D un po' un'occhiata. Che te ne pare?" Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi. Volevo tenerli chiusi ancora un po'. Mi pareva una cosa che dovevo fare. "Allora?", ha chiesto. "La stai guardando?" Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo come la sensazione di non stare dentro a niente. "E' proprio fantastica", ho detto. Uno splendido addio E quando laltro, appunto, giunge ad essere a casa sua, con la sensazione di non stare dentro a niente, pu insegnare anche il modo migliore di lasciarsi. A me capitato di impararne molti, voglio raccontarne uno in particolare che mi ha coinvolto e commosso profondamente. Lui era un ragazzo delizioso, attento, divertente, profondo sotto una sua beffarda modalit di narrazione; fisico nucleare, fra un evento e laltro della sua vita mi parlava del suo stare agilmente in cucina (mi ha incantato un giorno raccontandomi di come faceva i bign, con leggerezza, mentre io non son mai riuscita a farli lievitare come si deve), della musica, degli amici. E del suo amore, faticoso e ripetitivo ma da cui non sapeva se voleva veramente districarsi. Lavorava con quella pudica seriet che spesso gli uomini mettono nella ricerca di s, le donne son pi abituate da tempo a guardarsi dentro e talvolta proprio la disinvoltura nel maneggiare lincontro con se stessi fa velo a una indagine pi sinceramente interessante. Ma lui era molto serio, non grave, non malmostoso: serio.

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Un giorno mi annuncia che lo hanno chiamato a collaborare in un centro di ricerca negli Stati Uniti, incarico di grande prestigio e che si prefigurava come un primo ingresso in un mondo esplicitamente di adulti, un circolo di scienziati. Mi parla del suo professore che si dispiaceva di non poterlo pi avere come collaboratore allUniversit, mi dice che dovremo sospendere, che non pensa sia uninterruzione ma una sospensione, mi racconta sobriamente del dolore del distacco da questi nostri incontri, si chiede come fanno gli altri a andarsene via, come accade, come funziona. Abbiamo poche sedute da consumare, manteniamo ancora quel tono sommesso e impegnativo che gli appartiene, il tempo sgocciola, siamo allultimo incontro. Il mio studio ha per ingresso una porta finestra, vado ad aprire al suono del campanello e lo vedo, al di l del vetro, con limpermeabile addosso, un buffo sorriso sul volto e un violoncello al fianco, alto quanto lui ma pi largo della sua figura esile. Mentre gli apro la porta, mi dico che ha preferito portarlo con s perch fuori umido, sono stupita ma non poi pi di tanto, lui entra e si ferma in piedi, mi guarda col capo un po inclinato e mi dice: per lultima seduta le ho preparato un concerto. Resto assolutamente senza fiato, nessuno mi aveva mai fatto un concerto tutto per me, mi guardo intorno, s, anche lui daccordo, non andiamo nella stanza pi piccola con il lettino, ci fermiamo qui, nella stanza grande col giro di sedie per i gruppi e le famiglie. Emozionata, scosto una sedia, faccio per sedermi, esito, lui intanto si sta togliendo limpermeabile, va allattaccapanni, poi prende amorosamente fra le braccia il violoncello, mi mostra la protezione per il puntale: non volevo sciuparle il tappeto, mi dice, lo sistema per bene, si siede anche lui e mi guarda, sereno: le ho scelto dei brani, vorrei dirle perch. E poi comincia e nel mio studio si allargano delle note, un brano segue laltro e sono note dedicate, una musica scelta per essere eseguita l, per me. Con una strana naturalezza, parliamo a bassa voce, dopo lesecuzione di un pezzo riprendiamo dei pensieri su suo padre, un altro vuol significare il tempo del suo pensiero, quello dopo narra il dolore e la difficolt di dirlo. Lentamente, mai come oggi ogni minuto dotato di significato, il tempo raggiunge i quarantacinque minuti, ma guarda, il concerto finito giusto ora. Lui si alza, abbraccia nuovamente il violoncello, mentre infila limpermeabile sorride: sa che ho preso un posto anche per lui accanto a me sullaereo? Non potevo metterlo fra i bagagli, esposto a sbalzi troppo forti di temperatura. Cos mangio due pasti, quelli vegetariani sono sempre miserelli!

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E poi se ne va, mite, serio, affidabile, pudicamente gentile.

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Una rete per pensare


Mi immagino, come una delle tante raffigurazioni possibili, che tutti noi si sia simili a una rete, s proprio come Internet, una rete vasta, punteggiata da nodi. Mi immagino che ad ogni nodo corrisponda una nostra persona, autonoma, completa, con una sua storia e un suo carattere, qualcuna con famiglia, altre single, ognuna con una sua et e un suo modo di presentarsi e di comportarsi. E ognuna saldamente convinta di avere ragione, di saper spiegare tutto il mondo dal suo specifico nodo, come dire? ideologica, (grazie Popper!) esattamente nel senso che ci che pensa e la scala di valori cui si conforma valgono sotto tutti i cieli e per ogni tempo. Risorse a nostra disposizione. Mi immagino che la nostra esistenza sia un navigare costante fra questi diversi nodi, mi immagino che nel tempo ciascuno di noi strutturi delle abitudini e preferisca visitare alcuni siti pi di altri, mi immagino che abitudine richiami abitudine e che sempre pi facilmente la nostra scelta si orienti verso i siti pi visitati. Della serie stessa spiaggia, stesso mare ma anche io sono una persona che, io mi conosco, non potrei mai, debbo assolutamente ed espressioni analoghe che ci rassicurano sulla nostra identit con quella assertivit paciosa che sa essere ovvio e scontato ci che dice, ma lo dice per informare laltro. Un gesto mentale che mi sembra il carezzarsi la pancia di un signore di mezzet o il the pomeridiano con canasta delle signore con i ricciolini: tutto noto, rassicurante, abituale. Mi immagino, anche, che il progressivo restringersi delle abitudini provochi irrigidimenti e distorsioni, cos che mi immagino il disagio mentale: una progressiva riduzione del movimento e della frequentazione con il diverso. Mi immagino lintervento terapeutico come il ritrovare la possibilit, e il diritto, di riallargare il proprio campo dazione e di pensiero, di contraddire quel se stessi cos evidentemente noto, di scegliersi ogni giorno. Penso che tutte le persone con cui mi trovo a lavorare abbiano diritto a una vita pi piena e di maggior soddisfazione ed verso le aperture di prospettive altre che ci incamminiamo assieme. Le stecche del ventaglio Dopo aver fatto uso per molto tempo del pensiero lineare (quello in cui vige la regola della causa che provoca leffetto), ha cominciato a

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prender piede il pensiero sistemico: quello, cio, che preferisce considerare gli eventi e i comportamenti come inseriti in un sistema di cui sono parte e la cui identificazione permette loro di essere dotati di un significato. Ovviamente, i sistemi non esistono, sono piuttosto degli schemi in cui collochiamo le informazioni disponibili allo scopo di ottenere delle opzioni di lettura e, dunque, delle opzioni di intervento. Con analoga evidenza, la scelta del sistema che decidiamo di immaginare e, dunque, allinterno del quale ordiniamo le informazioni, vincola fortemente la raccolta stessa delle informazioni e anche il valore che andiamo loro attribuendo nella ricerca di una significazione soddisfacente. Cerchiamo sempre, noi animali umani, di darci ragione di ci che accade allo scopo di capire che cosa ci si pu fare; il modello sistemico uno strumento come un altro, funzionale fino a che risulta di qualche utilit. Per ora, mi sembra che lo sia, e anche molto. La scelta dello schema di lettura degli eventi e dei comportamenti vincola ed vincolata dallo strumento scelto: nulla di nuovo sotto il sole, semplicemente mi premeva sottolineare la scansione etica, la responsabilit delle scelte che appartiene a chi opera e che in nessun modo pu essere lasciato in carico allidea o allideologia utilizzata. Penso che la scelta non possa derivare dalla certezza di aver ragione, di stare dalla parte giusta della barricata. Preferisco pensare, piuttosto, che la scelta possa avvenire proprio quando ci si potuti avvedere della giustezza della posizione contrastante, altrimenti si ricade nel pensiero unico, indiscutibilmente giusto. Pi di tutti gli altri. Mi spiego: se in dibattito o in uno scambio di idee, di modi di pensare il mondo (e che cosa di altro levento terapeutico?) mi trovo a privilegiare una posizione, occorre, prima che la faccia mia e la possa sostenere, che mi accerti seriamente della validit della posizione dellaltro. Quando lavr esplorata e ne avr constatato il valore pari a quella che mi attraeva, allora posso assumere la posizione che preferisco. Responsabilmente, non perch la migliore ma perch mi d delle opzioni che mi piacciono, che voglio. Per esempio, tanto per essere ancora pi esplicita: il mio collocarmi nella cosiddetta opzione di centro sinistra non discende dallovvia, banale dimostrazione del torto dellopzione di centro destra, come se fosse impossibile aderire consapevolmente, con etica e con intelligenza, al centro destra. La mia collocazione politica o sociale non dipende da chi ha pi ragione ma da chi mi d un maggior numero di quelle scelte e di quelle possibilit, operative e culturali, che a me vanno bene. Ma

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non perch siano inequivocabilmente le migliori in assoluto. cos che mi racconto la convivenza democratica, fatta di opinioni, giustapposizioni, controllo, sogno e speranza, dove la voce altra da me non va difesa per bont danimo ma perch mi serve. Per poter scegliere In pratica, quando incontro una persona che chiede il mio intervento al suo fianco, presuppongo che la sua visione, limpostazione che ha dato e d dei suoi fatti sia stata certamente valida e che sia composta in un quadro logico che d ragione degli elementi considerati. Perch, dunque, il mio intervento? Perch, probabilmente, quella visione ha esaurito la sua capacit di azione, si consumata nel tempo o ha consumato il suo tempo. E laltro mi viene a chiedere un affiancamento. Proprio perch cerco di rendermi conto di quanto stato valido il suo modo di pensare e proprio perch lo percorro assieme allaltro, accade che ci troviamo a un punto in cui la spinta vitale si esaurita, in cui le possibilit di scelta si sono irrigidite come le stecche di un ventaglio che si chiuso. Da qui possiamo provare assieme a testare altri punti di vista, riaprendo il ventaglio affinch riprenda a funzionare, cambiando il ventaglio o magari utilizzando la rigidit delle stecche per unoperazione differente. Ma solo perch stiamo concordando che il moto si incagliato, che pulsa dolorosamente senza lasciare possibilit di sollievo. allora che posso mettere a disposizione i miei strumenti: sceglieremo assieme quelli che ci sembreranno pi adeguati e li maneggeremo assieme affinch si riapra la gamma delle scelte uscendo dal diktat della proposta binaria. Perch una scelta si pu chiamare tale solo se ci sono almeno tre elementi fra cui operare una scelta, altrimenti una rinuncia. Fra due fidanzati, non si pu scegliere, cercatevi il terzo e saprete che state operando una scelta. Una rete per navigare Scrive Aldo Zargani, (nella prefazione alla seconda edizione di Per violino solo; Il Mulino, Bologna 2002): Dentro di noi, quasi certamente nel nostro cervello, ma il modo ancora non si sa, e meno che meno il sito, si formerebbero, successivamente nel tempo, e vivrebbero poi luna accanto allaltra, pi anime fra loro distinte. questa una vecchissima teoria che risale addirittura a Platone. () io mi schiero con Platone perch, nella confusione indescrivibile della mia identit, sento pi voci dissonanti di persone diverse e spesso neppure so se queste voce provengano dalle mie

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molteplici anime, o non piuttosto da quelle del mio pap e della mia mamma, e talvolta nemmeno se esse siano state un tempo reali o non escano invece dalle bocche virtuali di personaggi di romanzo. Preferisco pensare noi umani come dentro una struttura a rete in cui si posizionano tutti i nostri sistemi, concettuali, linguistici, relazionali, affettivi etc. Di questa rete che immagino, non si conoscono pienamente i confini, volta volta decidiamo che segmento prendere in considerazione, non tutto lintero ma tutto ci che ci serve per operare. Nessuno di noi pu pensare di conoscersi completamente (il Gattopardo diceva che un palazzo di cui si conoscano tutte le stanze non degno di chiamarsi palazzo!), noto, ma ognuno di noi decide quali elementi della sua persona utilizzare in ciascuna occasione. Come si diceva in altre occasioni, possiamo avere acquistato i trenta migliori giocatori di calcio del mondo ma per giocare una partita ne scegliamo necessariamente undici; e non diciamo per questo che abbiamo rinunciato agli altri. Dunque, gi la decisione dei confini, la scelta del segmento, attiene a un esercizio di libert, una scelta etica. Decidere di andare in terapia vuol dire anche aver selezionato un segmento da prendere in considerazione, lavorare in terapia vuol dire giustapporne degli altri, allargare o restringere le dimensioni, scendere o salire per scrutare da punti di vista differenti fino a che ristabilito il movimento. La scelta del segmento spetta a chi decide di chiamarmi al suo fianco, il come lo maneggeremo, le operazioni (intese nel senso che indicava Bridgman) opportune le stabiliremo assieme. La rete che immagino, dicevo, composta da infiniti nodi. Questa prospettiva comporta alcuni spostamenti: si passa da un'idea di identit coerente a identit multiple e puntiformi, da un intero scomponibile in diverse parti a pi interi combinabili diversamente fra loro. Spesso si sente parlare di parti di s, spesso ci si riferisce a parti bambine, come il fanciullino di Pascoli. Non mi ritrovo a pensare alle persone come con delle parti al loro interno, mi trovo pi facilmente a pensarle come un sistema mobile (una rete, appunto) composto da tante, tantissime persone. La persona bambina non necessariamente la pi pregiata, sicuramente una persona che conosce e ha delle cose da dire, ma trovo pericoloso privilegiare la dimensione infantile come predominante perch fa scivolare la persona (e soprattutto il cosiddetto paziente) in una sorta di minore da porre sotto tutela, guarda caso proprio del

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terapeuta che dovrebbe assumersi la responsabilit della sua crescita armoniosa che altri non hanno saputo curare e preservare. La moltitudine delle persone moltiplica la gamma degli interlocutori con cui confrontarsi e con i quali prendere delle decisioni e, soprattutto, garantisce la dignit, la capacit competente propria della dimensione adulta. La persona porta un suo segmento di rete in cui sono ospitate delle sue persone e non delle altre, queste hanno gi compiuto un loro lavoro e ristanno esauste, non sanno pi come e dove trovare soluzioni. Linterlocuzione con delle altre riattiva, integra, completa un cerchio, sposta lattenzione, identifica prospettive e risorse. E se la persona piccolina centra nel gioco, che giochi la sua parte e dica ci che crede, gli altri la ascolteranno pretendendo a loro volta la stessa attenzione. Anche la gerarchia dei valori scivola da una stabilit a una serie possibile di gerarchie, da definirsi in ogni qui ed ora determinato dal punto di vista prescelto. A seconda di come cambiano le circostanze prese in considerazione, pu mutare (anche di molto) la gerarchia dei valori: occuparsi di s molto importante, dedicarsi del tempo pure. Questo resta vero e giusto da un angolo visuale, da un altro angolo pu risultare preferibile trascurare le proprie esigenze, per quel momento, in quella occasione. Ma la persona che si vive come sempre disponibile, che non sa quando riservare a s tempo e attenzioni, rigida e sofferente quanto chi non sa come districarsi dallo sguardo affascinato dal suo ombelico. Questione di tempi, di occasioni, di momenti, di scelte. Ma si pu scegliere pienamente solo se si sa come essere del tutto chinati su di s e si capaci di farlo con pieno appagamento, solo se si sa come dedicarsi allaltro e si capaci di farlo con la necessaria levit. Noi che facciamo questo mestiere troppo spesso non sappiamo come rivolgerci ad ascoltare laltro, dedicargli tutta la nostra attenzione. Troppo spesso non siamo pienamente l con lui, distratti dallarmeggiare con le nostre teorie o dal domandarci come proteggerci da quella invasione di malessere. Limmagine della rete mi permette di lasciare autonoma quella che vuol fare la terapeuta, per quel tempo stabilito, con la libert di chiamare a s tutte le altre che dovessero sembrarle utili. Ma la terapeuta che mi piace veder lavorare non una persona disponibile, non si china pietosamente sulla sofferenza; piuttosto una persona curiosa che vuole capire, che chiede di cercare ancora, che chiede di esplorare con una certa spregiudicatezza, che vuole tentare accostamenti

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diversi e che, alla fine dellincontro, restituisce tutti i giocattoli al proprietario, grata di aver potuto giocare assieme. Altrove nel tempo Anche l'idea di progresso continuo nel tempo (il troppo celebrato percorso terapeutico, quella incongrua idea di crescita) si modifica in una serie di eventi rotondi da infilare come in una collana, ogni incontro ha la freschezza del primo, incantato di tante possibilit da esplorare, ogni volta daccapo, ogni volta come se fosse lunico incontro del mondo, come se dovesse essere il primo e lultimo della storia. Sappiamo bene come a tutti noi piaccia innamorarsi, ogni incontro per me ha questa fascinazione, questo accattivante richiamo. Eppure, e proprio per permettere questo, ogni incontro ha un suo tempo stabilito, una scadenza. Perch solo in un tempo definito che pu inverarsi una situazione emotiva, una relazione: sono i limiti che danno senso, significato e valore a quello che racchiudono. Il fermo confine della morte riecheggia dotando di significato ogni attimo dellesistenza. Non ha senso riferirsi allavventura terapeutica come a un itinerario con tappe previste come a un tour organizzato per una crociera sul Nilo. Perch, appunto, nellincontro terapeutico, realmente non sappiamo se andremo a visitare il Nilo, se e quando mai il Nilo entrer nel nostro stare assieme. E non certo perch al Nilo manchi fascino o perch non sappia come ampliare la nostra esperienza di vita. Ma, semplicemente, noi non sappiamo quali delle nostre persone verranno invitate, quali saranno le domande, quali gli aggiustamenti, dove si collocher lo stupore del pensiero che illumina allimprovviso. Non possiamo prenotare in anticipo, anche se non possiamo assolutamente escludere che proprio sul Nilo finiremo per trovarci, in crociera o a nuoto, a colloquio con i faraoni o estatici di fronte al prodigio delle piramidi, magari, e perch no? comparando le leggende sulla Via Lattea nelle diverse culture proprio mentre constatiamo la meraviglia dello specchio fra cielo e terra a Giza nella cintura dOrione riprodotta nella disposizione delle costruzioni. Diceva Giampaolo Lai tanti anni fa in un seminario: che cosa vuol dire essere stati a Parigi? Forse che se non sono andato a visitare la Tour Eiffel e ho passato otto giorni in un bistrot a chiacchierare con tanti, diversi interlocutori, allora non posso dire di essere stato a Parigi, non posso parlare di questa citt? Ma, anche, se ho consumato i miei otto giorni per musei, se li ho passati nelle librerie, in un giro darte gastronomica o in allegre avventure

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damore? O seguendo i percorsi dal Lussemburgo alla Dfense, oppure ascoltando il dibattito parlamentare? Ma certo, si risponde, ma sono percorsi settoriali: appunto. Cerchiamo di seguire landamento della storia: si andati a Parigi per fare un viaggio (e si scelto Parigi) oppure si voleva andare a Parigi? Vuoi entrare in terapia perch ti hanno detto che sei diventato insopportabile, perch non dormi pi, perch ti affascina sapere chi sei, perch ti serve per migliorare il tuo lavoro? Perch non ti piace pi fare lamore o ti piacerebbe ma nessuno vuole giocare a farlo con te? E, magari, perch ti fa paura la terapia e vuoi dimostrare di saperla fronteggiare o perch pensi sia unesperienza intellettualmente significativa che ti ammette nel club degli iniziati? Il punto che moltissime di queste apparentemente incompatibili motivazioni coesistono e che non per questo diventano compatibili. Ognuna saldamente affrancata a un punto di vista, a un nodo della rete, a una delle nostre persone. Che hanno tutte ragione, evidentemente: come si fa ad escludere un sincero gusto intellettuale nel conoscere e assieme lurgenza di un groviglio doloroso e la fatica di riconoscersi adulti e il piacere di essere ascoltati e la necessit di risolvere una situazione? Come si fa ad affannarsi a selezionare la motivazione vera? Ma la questione non sul a chi dare ragione ma su quale punto di vista scegliere, affiancandosi alla persona che di quel punto, di quel nodo portavoce. E non si pu scegliere mettendo in competizione ma tracciando un progetto, un desiderio cui possano aderire una o pi persone. E con quelle lavorare, vigili a cogliere ogni indicazione che segnali la richiesta di uscita dal campo di una persona (per quel momento, in quella occasione) o il richiamo di unaltra pronta ad entrarvi. Per cercare di spiegarmi, torno a Parigi, (che oltretutto una citt splendida che amo molto e che per me una sorta di terra della potenzialit governata). Certamente dopo il viaggio mi deve restare nelle mani qualche traccia che sappia testimoniare a me e agli altri la realt e la buona riuscita del viaggio stesso. Il cerchio, che si apre con il progetto del viaggio a Parigi, si deve poter chiudere con un ritorno saturo di un viaggio effettuato: le coordinate, i criteri che mi permettono di dare significato al progetto del viaggio appartengono alla mia realt quotidiana dove ritorno (un viaggio senza ritorno non un viaggio, una terapia che non sia a termine non una terapia). Dunque, la realt e la soddisfazione del viaggio,

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al mio ritorno, devono essere riconoscibili per la logica della realt quotidiana, che altra da Parigi. Se ho avviato una terapia sotto unurgenza o per un progetto, beh me ne deve restare in mano una testimonianza, maneggiabile qui dove son tornato a vivere. Al mio ritorno devo risultare un poco straniato rispetto a questo quotidiano che ho lasciato altrimenti che viaggio stato mai? Straniato ma non estraneo, incapace di riprenderne il filo: una terapia non cerca di far evadere dal quotidiano, misero e senza possibilit di competere con gli sfavillanti dpliants delle agenzie di viaggio, una terapia serve a rendere vivibile e significativo e prodigioso il quotidiano. Si va per un po altrove per vivere meglio dopo, qui, nella propria terra. Ideologie a confronto Laltro aspetto che complica, per, che il tempo del soggiorno a Parigi (della sosta, come mi piace pensarlo) non deve e non pu seguire le regole e i criteri e la logica del luogo che abbiamo lasciato per spostarci. Non cercheremo la pizza a Parigi n andremo a domandarci come mai non cominciano il pasto con un bel piatto di trofie al vero pesto genovese. Ma, signori miei, inimitabile la grazia con cui preparano il piatto che vi portano, un vero godimento stare a guardare i negozianti che, di prima mattina, dispongono frutta e verdura con grandissima cura per laccostamento dei colori e larmonia delle forme: licona che conservo una cascata di fagiolini verdissimi che ricade da una cornucopia di vimini, affiancata dal viola profondo delle melanzane e dal grido brillante dei peperoni. Verdura, certo, ma che gusto differente, in bocca e negli occhi. Ma, camminando per Montmartre, un mattino presto, con il sussurro dellacqua che scorre nei canaletti a lavare i marciapiedi e a rinfrescare laria, in quei momenti magici, si pu restare italiani? O si deve giocare al facciamo che tu eri ed ero anchio parigina? E cos per la loro grandeur, (loro e il nero della Concorde fanno parte del gioco), davanti alle fontane uguali a quelle di San Pietro, si pu ricordare leleganza sobria di San Miniato? Ecco, mi piace pensare che in quel momento la nostra persona intrisa di quel certo gusto italiano ci sfiori leggermente: sono qui, abbiamo qualcosa da fare assieme? Posso esserti utile? Oppure, la sciovinista prepotente e sprezzante: ma dai, come fai a restare a perdere tempo qua, che cosa mai cerchi? Non sai che lItalia il paese che ha le maggiori ricchezze darte? Pu affacciarsi anche la storica, gli occhialini sottili

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un poco scesi sul naso, la cordicella dobbligo: certo, veramente interessante come dai monumenti si possano ricavare tante informazioni sulla cultura dei diversi popoli! qui che si pone la scelta etica: quale o quali di queste nostre persone invitare a spartire questo momento, a formare assieme dei pensieri. Il ricordo di San Miniato pu imboccare percorsi e concatenazioni assolutamente differenti, ma non vale dire: beh, allora mi venuta in mente San Miniato e non ho potuto fare a meno di confrontare, paragonare, mettere in competizione etc. Nello scontro, non certo Napoleone che rischia di farsi male, piuttosto chi a rischio la persona che ha scelto di andare a passare qualche giorno a Parigi. Ciascuna delle nostre persone, esponente di un nodo di pensiero e di identit, pu mantenere la sua ideologica coerenza: sta al navigatore decidere dove soffermarsi, con chi vuole condividere quel momento, da chi e con chi vuole ricercare informazioni e approfondimenti e risorse. Sta al terapeuta affiancarsi al navigatore per facilitare il suo scegliere, mettendo a disposizione la sua competenza affinch lo scegliere divenga gradualmente pi agevole, pi chiaro liter stesso della scelta, sta al terapeuta soffermarsi con laltro, ricercare con laltro, un passo a lato (e non il moralistico un passo avanti!), partecipe del suo procedere, pronto a fornire ci che serve, discreto nel proteggere unintimit: un po scudiero, un po guida, un po nutrice, un po compagno, un po manuale di navigazione, un po verificatore contabile. Un passo a lato, assieme. Ma non il terapeuta che naviga. Dallaccumulo del sapere a sapienze che trasmigrano Ecco che, allora, non pi tanto utile lidea di un sapere che va accumulandosi, di una biblioteca sempre pi complessa e voluminosa da portare con s. Anche perch, banalmente, forse proprio questo peso che rende faticoso il passo, proprio questo grande ammasso di cose che sappiamo a vincolare il movimento successivo, a imporci lesigenza tanto indiscutibile quanto insana di procedere in linea retta, coerenti con quello che gi stato, che sappiamo essere avvenuto, da cui non possiamo prescindere. stato detto, e mi sembra realmente molto significativo, che il fatto che una cosa sia vera non la rende di per s importante: sono miliardi le cose vere, infinito il loro elenco. E se veramente volessimo comporle in elenchi ragionati, verificheremmo lassoluta incompatibilit di mille elementi, veri, senzaltro, ma che non

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tollerano coesistenza obbligata. Come se pretendessimo di ridurre linfinita e benedetta molteplicit del mondo intero in un pensiero unico, con una sola religione, una sola etica, una sola forma di convivenza civile, un solo modo di vestire, di sorridere, di corteggiare, di dire di s o di negare. Ovviamente, dopo aver valutato attentamente per tutte queste categorie il meglio, il pi vero, il pi giusto fra tutte le opzioni possibili. Diceva il padre di mio marito, quando voleva insegnare a lui bambino linfinit dei numeri: puoi riempire la parete della tua stanza di numeri fino a saturarla ma sempre, sempre potrai aggiungere ancora una cifra. Non penso che i valori, le idee, le emozioni, i pensieri, i sussulti che si agitano o sospirano dentro le persone umane debbano essere iscritti in un girone ad eliminazione per selezionarne il migliore, penso che la gamma delle differenze debba essere casomai allargata ancora fino a perderci la testa e lorientamento, penso che qui sia custodito il nostro insopprimibile desiderio di vita. E che vada preservato. ovvio, poi, che in ogni attimo, in ogni tempo e luogo, in ogni occasione anche minimale, scegliamo i codici, i valori, i comportamenti che pi ci sembrano adeguati: ma per poi immediatamente rimettere nellurna tutte le ballotte senza privare di nessuna la scelta dellattimo successivo. ovvio che ciascuno di noi desideri una buona armonia con se stessi e con il mondo esterno, ovvio che ci piaccia essere in buona sintonia, a nostro agio, in un gradevole comprendersi reciproco basato sulla reciproca conoscenza condivisa ma altrettanto ovvio che ogni equilibrio va scomposto, che il quadro armonico vale per il tempo di un soffio, che la vita continuamente mettersi in un nuovo rischio da comporre ancora in un quadro dai lineamenti inediti. Che ha il valore di un tempo breve. Ormai diventata una battuta ma mi piace pensare che ogni amore, ogni passione, ogni idea, ogni valore, ogni stella hanno una scadenza: come le mozzarelle, ridiamo assieme! Per questo possiamo scegliere, volta volta, di dormire a saziet fino a che il nostro corpo non ci informa che adesso basta (e gustarlo, con pienezza) come anche decidere di alzarci nel buio, rabbrividendo un poco per il freddo dellaria nuova del giorno, per vedere lalba, come anche, e perch mai non avrebbe lo stesso rango?, alzarci a una certa ora per un impegno di lavoro, per un appuntamento, per scrivere, leggere o preparare le lasagne per stasera. Ma sono insofferente di chi pretende di farne una regola universale, valida comunque. Lesigenza dellarmonia, lascolto del

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proprio corpo possono irrigidirsi in imposizioni sciocche perch limitate e limitanti esattamente quanto la mistica del lavoro, del non perdere tempo; stare sempre a dieta parente del mangiare dissennato, essere equilibrati sconfina nella rigidit, tanto importante sapersi spendere in sogni utopici e tentare pervicacemente di attuarli quanto percepire i segnali di un esame di realt. Camminare una sorta di caduta controllata ed infinitamente pi difficile mantenere lequilibrio stando fermi piuttosto che muovendosi: perch mai quello che sperimentiamo nelluniverso fisico non dovrebbe suggerirci qualcosa anche per la nostra psiche? Eppure gran parte del gergo cosiddetto psicologico rimanda a unidea basilare di fissit: trovare se stessi, raggiungere un comportamento equilibrato, conquistare la serenit, fare ordine nelle nostre contraddizioni, magari risolverle? E perch, invece, non moltiplicarle, perch non spingerci oltre i confini di ci che sappiamo, perch non sperimentare linguaggi e comportamenti proprio perch non ci assomigliano? Perch investire tanto tempo a mettere ordine nelle nostre stanze affollate di oggetti, pensieri, ricordi e preziosissime sofferenze e invece non uscirsene un po fuori da questi luoghi con laria consumata che affievolisce il respiro? Non questa lesperienza dellarte, della ricerca, di qualunque conoscenza? Anche perch, in fondo, sarebbe bene tenere a mente che non siamo poi del tutto immortali, non vero? Di questa manciata di tempo di cui possiamo disporre, vogliamo farne unedizione della Fulgida? Appartengo a quella categoria di persone che fanno molta fatica a uscire di casa senza aver rifatto i letti ma ogni tanto, volutamente, esco con i letti in disordine. Mi piace, la mattina, entrare in cucina e trovarla in ordine, i piatti e le stoviglie a loro posto, ma ogni tanto li lascio l, abbandonati sulla tovaglia come sulla scena di unazione interrotta. Amo le mie abitudini e proprio per questo, per potere continuare ad amarle, mi serve poterle nuovamente scegliere: amo la cucina in ordine, la mattina, mi fa rumore in testa vedere il disordine e la mattina il rumore ci che mi disturba maggiormente ma un micro brivido di eccitazione trasgredire le mie stesse abitudini, c un micro rischio nello spegnere la luce con un ultimo sguardo sulla tavola ingombra. E spero di fare a tempo, la mattina dopo, a rimettere a posto, non vorrei morire proprio quella notte e passare alla storia come una casalinga sciattona! Fino ad ora ha funzionato, poi vedremo.

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Il moto permanente Questa rete che immagino, i sistemi viventi la percorrono in una continua esplorazione e discorrono costantemente fra i nodi, modificandone con la frequentazione lentit e il peso, stringendone di nuovi, allentandone degli altri. Vuol dire, cio, che ogni persona e ogni gruppo, ogni complesso vivente procede da una postazione ad unaltra nello scorrere del tempo e nel modificarsi delle situazioni. Cos, accade che la persona alle 9 del mattino si orienti verso il tempo del lavoro: ne veste i panni e soggiorna in quel nodo con quella specifica identit adeguata. Raccoglie i pensieri che appartengono a quel contesto, acquista quel modo, quel comportamento, quella mimica, quel tono di voce che fanno s che venga riconosciuta sul posto di lavoro e che si concordi tutti che effettivamente l, presente, per lavorare. Nel quadro generale dellassetto da lavoro, ovviamente ci saranno dei dettagli, delle sottolineature proprie di quel giorno, di quellumore, di ci che vuole trasmettere, di ci che vuole ottenere ma la struttura di base dellidentit deve essere riconoscibile nelle sue modificazioni. Per la persona e per gli altri, segnali e codici devono ben bilanciarsi fra una continuit e un mutamento, alchimia complessa sulla quale impegniamo le nostre giornate. La permanenza nel nodo lavoro fa sfumare dopo breve tempo la significativit dellassetto da lavoro cos accuratamente predisposto: s, ho capito, sei la mia collega, lo so, sei qui per lavorare ma adesso che cosa facciamo assieme? Dopo i riti che aprono la giornata e ne ufficializzano linizio (la professionista che saluta il portiere, apre la porta dello studio, ascolta la segreteria, cambia laria, accende le lampade, linsegnante che passa in sala docenti, appende il soprabito, controlla i registri, sceglie il volto con cui entrare in classe o linfermiera che cambia dabito, raccoglie i capelli, sfoglia le cartelle, spunta la lista delle medicine) c un tempo nuovo da segnare di s, nel solco della continuit ma nello specifico di quel giorno. In questo momento non pi sufficiente lassetto da lavoro che sfuma a farsi cornice, magari si affaccia la nostra persona che sa affrontare il nuovo, quella che sa arredare anche la tenda da campeggio per farsela assomigliare, quella che scende con un poco di trepidazione su una terra sconosciuta gi cercando di individuare dei particolari che user come punti di riferimento, per calmare la sua ansia. La persona ricercatrice che sperimenta accostamenti inediti, contagi e dissonanze, lesploratrice un po guascona che lei se la sa sempre cavare. Ed

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ecco che sentiamo raddrizzarsi le spalle, il nostro volto assumere unespressione di calma controllata e vigile, lo sguardo che spazza intorno come uno spot da teatro, le mani morbide, la presa sicura. Il timore confinato in un angolino, dai che la giornata sar una bella giornata, il passo elastico, il sorriso pronto a bere ogni novit da ricercare e cogliere. Oppure, si affaccer la ragazzina assestata che allinea sempre allo stesso modo i suoi pastelli colorati e che ricondurr il nuovo di questo inizio di giornata a una rassicurante, ordinata, banale, nota sequenza. Un po come quando si dice che linconscio poi sempre lo stesso, che il lavoro di un impiegato monotono, che anche la scrittura in fondo non che un ripetere, che gli uomini sono tutti uguali, che i giovani doggi non vogliono impegnarsi e non hanno i valori. E che, signora mia, non ci sono pi le mezze stagioni. Nodo importante, questo, quello che ci protegge dallo sconcerto dello sconosciuto, quello che ci assicura che resteremo vivi. lo stesso nodo che calma gli spaventi dei bambini: non niente, solo un tuono, solo che ho mal di testa, una verdura come le altre. una persona fondamentale da avere al nostro fianco ma non chiediamole di farci divertire! Conosce le nostre abitudini, anzi attraverso le nostre abitudini che ci conosce, esattamente per quello sono state costruite, per farci riconoscere. Io sono uno che fuma, che tutte le mattine beve una spremuta darancia, che non tollera di affacciarsi nel vuoto, che non digerisce laglio, che di fronte al sangue si sente mancare. Il sangue di chiunque, le arance della Sicilia o del Medio Oriente, laglio della suocera o del ristorante francese: la mia abitudine mi aspetta nel luogo nuovo come un parente che riconoscer i miei lineamenti, azzerando qualunque timore. E, come nei pranzi coi parenti, garantendomi una tranquillit un po annoiata ma sicura: alla domenica si mangia cos, fra fratelli si parla cos, lo zio ama ripetere il suo esempio preferito, lo sai bene. Ci avviamo al lavoro certi che ogni novit sar disinnescata, ricondotta nel quadro noto, non ci succeder nulla. Il respiro pacato, la circolazione scorre con il suo andamento che conosciamo, siamo come il protagonista di turista per caso che sa dove trovare anche in Francia un hamburger con poca cipolla e la salsa ketchup. E nel volgere di un tempo breve, il gioco si riavvia, uno stimolo esterno, un pensiero, una sensazione, un suono o un ricordo

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associativo ed ecco che nuovamente abbiamo bisogno di riposizionarci, di far fronte al momento successivo: forse conserveremo la persona protagonista del tempo precedente ma dovremo renderla nuova ancora. Forse se ne affiancher unaltra, forse la persona di prima le ceder il passo o ne uscir uninserzione fra le due, forse entreranno in gruppo pi di una a possedere la scena di quel momento. Forse. Saranno mille e pi le componenti che ci indirizzeranno, ogni volta in un risultato che ci assomiglia ma che pure ci regala informazioni maggiori. Su di noi, su ci che pensiamo, che proviamo, che siamo capaci di fare, su ci che vogliamo. Per questo ci vuole una vita intera per vivere la vita, per questo fino alla morte la chiesa cattolica non proclama santi n i giornalisti pubblicano i necrologi. Si dice: ma lo conosciamo, ha scritto, ha detto, ha fatto, si sa bene chi . Non fino a che il gioco non si definitivamente arrestato, solo allora sapremo chi era. Chi eravamo. Ogni giorno ci raccogliamo nel letto secondo consuetudini certe e rassicuranti, ogni giorno possiamo dirci che ci riconosciamo, ogni giorno nelle lenzuola scivola una persona un po diversa. Che domattina berr il suo succo darancia, anzi, no, la spremuta che ha pi vitamine. Cercando la convenienza Quello che sto cercando di dire che in s non esiste una gerarchia stabile su cui collocare le nostre diverse persone, che in ogni istante c una nostra persona che pu risultare pi adeguata di altre, che sono competenze e risorse nostre. E che, dunque, pi ce ne sono, maggiormente si amplia il ventaglio delle opzioni, pi ricco e articolato si fa il formarsi dei pensieri, pi largo il quadro delle emozioni, pi interessante lo scambio. Fra le stesse nostre persone, con gli altri, con i nostri habitat, con lincognito e nella frequentazione del noto. Limportante non lasciar cadere la palla, arrestarsi stabilmente in una posizione, in un nodo, come immaginare una rete ferma, definita, ordinata, non pensabile, nei termini pi letterali: arrestare il movimento significa arrestare il pensiero, lo stesso pensare viene sospeso, in una bolla fuori dal tempo. Senza movimento, in un tempo che non scorre, lattivit del pensare impraticabile, langosciosa permanenza dellattimo immobile. Questa la patologia, il tentativo disperato di fermare il percorrere, irrigidire la rete, imprigionare la mobilit del pensiero. Con lintensa sofferenza di un movimento che, incarcerato, grida il terrore di sentirsi condannato a morire, senza uscita in una morsa che lo soffoca. Il pensiero bloccato cozza in un infinito reiterarsi,

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lattimo che segue ferocemente simile a quello presente, fino a rasentare una straziante, terribile identit. Non questo poi un modo di rappresentarci il sintomo? Non questo che ci strazia, noi terapeuti, quando incontriamo il cosiddetto paziente? La monotonia della voce, la replica incessante del comportamento, leco del passato sigillato in s che ripete la volont di costringere il presente e financo il futuro: non questo insieme che il famoso hic et nunc tenta di contrastare? Spezzando la bolla che stata costruita per proteggere ed ha finito per mangiare laria, ricaricando un pendolo sia pur nel cigolio doloroso del movimento che ha dimenticato come si fa. Vittorio Foa dice che la libert non sapere che cosa succeder domani, Massimo Cacciari che la libert non esiste ma per un comportamento etico bene fare come se esistesse, una scelta voluta non sempre una scelta libera, parole in libert, libert dai vincoli, libert di fare ecco, basta una parola perch si affollino tante persone, ognuna con il suo proprio convincimento, pensato, testato, indiscutibile. allora che si pone il problema: e come opero la scelta? Quali sono i criteri? Quali persone ascolto, quali convoco, per quanto tempo, a quali chiedo di attendere in stand by? Ovviamente i criteri appartengono a pi livelli, i valori cui facciamo riferimento, i confini che stabiliamo per circoscrivere levento su cui operare la scelta, la simpatia per certi nostri personaggi, labitudine a interagire con altri, magari meno simpatici ma cos tanto abituali, leco dellevento appena passato, una percezione esterna che incatena un pensiero a unemozione ma anche lo sguardo verso il risultato, il criterio della convenienza, della gamma di opzioni che vengono assicurate. E la ricaduta ecologica: diceva il grande Bateson, unauto che funziona non solamente unauto che cammina, unauto che non inquina. Ecco, allora, che diventano segnali essenziali quelli dei personaggi che obiettano, nicchiano, cercano di ritardare o di annacquare il processo stesso: hanno indicazioni da dare, magari datate, magari non immediatamente utilizzabili ma comunque indispensabili per formare una scelta piena e potersi, poi, spudoratamente affiancare a chi guider il passo. In altri capitoli potremo scorrere assieme alcuni di questi passaggi attuati concretamente. Come cambiare spostandosi, per avere di pi e meglio. Il nostro diritto a percorrere la rete garantito dalla certezza che non potremo mai conoscerla tutta, come accade per l'universo. Da questa certezza origina il nostro diritto a porre arbitrariamente dei limiti all'universo/rete che

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intendiamo considerare. Dei limiti posti e di ogni evento (nodo) che andiamo verificando e utilizzando in questo ambito siamo responsabili. Perch la libert si fonda sui vincoli, poggiando su di essi che possiamo scegliere, occorrono viottoli per operare una scelta, la radura sterminata rende esitante il passo. (Anche un intrico troppo denso, certamente, ma per quello no?, che siamo in due a scostare il fogliame). E, ancora, la libert si fonda sul rischio dell'intervento. Non so se Vittorio Foa intendesse questo, ma io lho capito cos e cos lho fatto mio. Il rischio di vivere la massima libert cui non possiamo permetterci di rinunciare. Neanche quando indossiamo le vesti di terapeuti. Trasmigrare fra i nodi I nodi della rete, li immagino come addensamenti di maggiore stabilit in una fluttuazione costante, capaci di attirare energie e passioni e in questo modo consolidarsi. Sono parole, eventi, persone, follie, emozioni. E se in ogni nodo vige un sistema di pensiero totalmente esaustivo (ideologia), esattamente il pensiero assoluto di ogni nodo, il suo assoluto aver ragione che permette al navigatore di tracciare un pensiero relativo, democratico perch sceglie assumendosi il rischio e ansiosamente, poi, ne scruta le conseguenze. In ogni momento, si fa il punto, un gesto etico che connette per dare un significato, un senso alloperare, definendo arbitrariamente i contorni, collegandoli in un progetto. Attraverso la trasmigrazione del navigatore, i nodi discorrono fra di loro, allacciano somiglianze, stringono rapporti: la famosa persona piccolina pu trovare conforto e protezione pi con una figura, si avvicinano e danno vita a un rapporto che pu stringersi fino a formare un nodo nuovo. uno dei modi in cui, ad esempio, si pu descrivere la cosiddetta fobia: un apprendimento istantaneo, un violento coup de foudre che stringe inestricabilmente una percezione a un comportamento. Ecco che, allora, un ascensore diventa una trappola mortale, la vista del sangue provoca uno svenimento. Leggendolo come un addensarsi della rete che ha fuso due o pi nodi, evitiamo qualunque indagine moralistica o giudiziaria, possiamo laicamente interrogare i personaggi in gioco, chiedere di raccontare la loro storia, testarne i confini che hanno creato dolore, far intervenire altre persone che apportino idee nuove, immagini che permettano di evadere da questa connessione soffocante, restituire autonomia e rango a ciascuno. E liberare

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energie emotive e intelligenze che tornano nuovamente a disposizione di tutti. Perch come si forma una fobia, pu formarsi unamicizia eterna, un amore appassionato. Il procedimento della fobia diventa uno strumento utilizzabile, una competenza che amplia le scelte di un domani. Talvolta le complessifica, talaltra le complica. Un maghrebino al semaforo Sulla strada verso il mio studio, a un semaforo, staziona un maghrebino. Come tanti, come troppi, basa la sua povera sopravvivenza scambiando una improbabile pulitura di vetri con quattro soldi. Il problema delle elemosine che si vestono da mestiere, un rompicapo da cui non riesco a uscire, e che mi si ripropone intatto a ogni offerta di accendini, di fazzoletti di carta o, appunto, a due semafori su tre. Non mi piace farmi servire, anche al supermercato mi imbarazza che mi si aiuti a scaricare il carrello come se avessi dei servitori ma non peggio rifiutarsi di tenere quel fragile inganno che trasforma unelemosina in una mercede dovuta per un servizio? Comunque, passo e ripasso ogni giorno, gli sorrido, mi sorride, talvolta mi d una passata al vetro, poi, gradualmente, si avvia labitudine di dargli un euro anche se sono in bicicletta, cos, come buongiorno, minuscola solidariet fra due esseri umani. Una stagione dietro laltra, mi chiede se posso procurargli una coperta, ha freddo. Il giorno dopo gliela porto e tutto sommato gli sono grata di poter fare qualcosa, lui mi sorride, la sciarpa intorno al volto, i denti qua e l mancanti: apro la portiera, la coperta passa di mano, accelero e vado. Unaltra volta, me ne chiede ancora, sono in tanti in un centro disastrato di raccolta. Prendo in mano dallarmadio una mantella pesante cui sono molto affezionata, mia figlia mi ferma: mamma, sei sicura di volertene privare? Per lui non ha lo stesso valore, perch questa? Gi, perch? Per fare pi significativo un gesto? Ancora una volta mi sono dimenticata di pensare con il pensiero di lui, lho assimilato a me in un insopportabile paternalismo. Rimetto a posto la mantella, prendo una coperta, mentre vado da lui incontro degli altri extracomunitari: hanno freddo anche loro, perch a lui una di pi e non a loro? Non lo so, si fa tutto complicato, gli do la coperta e il buon Natale ma sono incerta.

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Ancora un giorno dopo laltro, una volta lui mi sbarra la strada mentre sono in bicicletta, un po per scherzo un po anche leggo nel suo gesto una violenza appena accennata: dimprovviso mi ritrovo non signora milanese che ha il suo maghrebino da proteggere (orribile vero?) ma donna scoperta di fronte a un maschio che mi fronteggia. Faccio finta di nulla ma evito che succeda ancora, accosto sull'altro lato al semaforo ma ancora leuro passa regolarmente di mano, lo preparo apposta prima di uscire. E poi, un giorno, ho il vetro schizzato e il sole ci batte sopra e mi abbaglia. Al semaforo, gli chiedo per favore di dargli una pulita ma lui si rivolge a unaltra auto dietro di me, lava il vetro e prende il denaro, intanto torna il verde e ci muoviamo tutti. Dopo un primo moto di rabbia, mi dico che ha perfettamente ragione: se prende leuro da me senza dover pulire il vetro, perch mai dovrebbe rinunciare a prendere del denaro anche da altri? Forse mi sono creduta di avere acquistato uno schiavo? Forse la mia solidariet cos ingenuamente cordiale allinizio si trasformata nel tempo in uno strano contratto di asservimento? Ma se sono stata io a redigerlo? E allora? Allora non lo so, so solo che la situazione mi sfuggita di mano, che devo aver fatto un pasticcio, che ho perso la partita. Che ho cambiato strada per andare in studio ma ho conservato ben presente tutta la storia e mille volte lho usata come cartina di tornasole in terapia, in privato, ogni volta che mi sembrava che la mia attenzione, il mio voler bene stessero per trasformarsi in una trappola per laltro e per me. Ma il gusto amaro, uso ancora la storia ma credo proprio di non averla ancora consumata.

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Vincoli
In questo trasmigrare del navigatore, in questo discorrere dei nodi che mi piace immaginare per descrivere il nostro pensare, esistono dei vincoli. Penso, appunto, che i vincoli fondino la libert della persona umana, ne rendano possibile lesercizio. Il vincolo, il limite, le regole del gioco rappresentano per me lelemento di maggior fascino, la struttura aerea su cui inerpicarsi, poggiare il piede, scegliere la direzione. Io i vincoli li amo, fra suggerimenti, provocazioni, possibilit e sfida, li immagino come compagni severi ma anche un po ridanciani, complici attenti che seguono landamento del passo, presenze competenti su cui far conto. Anche per superarli con qualche forzatura inventando con loro un assetto inedito che marchi un tempo ancora tutto da vivere. Comincio a identificarne qualcuno, ovviamente sar solo un assaggio di questo mondo complesso che, se conosciuto e rispettato, ne facilita la frequentazione. Cos che la complessit non divenga complicazione. Cerco di spiegarmi affinch questa distinzione non risulti solo un gioco di parole. Per poter prendere qualunque decisione occorre aver raccolto una quantit di informazioni sufficiente a permettere la presa stessa della decisione: questa la complessit. Se voglio andare al cinema, devo sapere quali film sono in programmazione e dove li proiettano, ma devo anche conoscere i miei criteri di scelta: il genere, il regista, gli attori, il battage che se ne fatto, lorario che mi risulta pi agevole. Devo sapere se voglio andarci da sola o con qualcuno (e con chi), devo sapere se invitare qualcuno a vedere con me un film che voglio vedere o se voglio scegliere un film che permetta di andarci assieme. Conoscere i miei criteri, (i miei desideri?), mi permette di modulare la scelta in termini soddisfacenti. quello che viene chiamata la tecnica delluso delle obiezioni, percorrendole tutte posso decidere al meglio. Per me, in quel momento, su quel tema. Ad esempio, so di un film per me interessante, lo propongo a unamica. Lei mi dice che lha gi visto: si apre la valutazione se per me pi importante uscire con lamica e dunque modificare la scelta iniziale o privilegiare la pellicola desiderata, rimandare a unaltra occasione etc. etc. Del tipo: vuoi venire con me stasera a vedere xxy? mah, guarda, stasera sono un po stanca, non vorrei fare tardi possiamo andare allo spettacolo delle 20 s, ma poi non che mi entusiasmi tanto quel regista. A questo punto, le obiezioni dellamica identificano un

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reticolo di vincoli; volete testarli? ma insomma, in realt non hai voglia di uscire (lettura del pensiero, interpretazione), oppure tutte le volte che ti propongo qualcosa non ti va mai bene (versione Calimero, querimonia colpevolizzante), oppure vuoi che invece ci mangiamo qualcosa assieme? (limportante stare con te), oppure s, hai ragione sul regista ma mi dicono che la fotografia magnifica (fammi capire se il no veramente sul film). I turni verbali si susseguono, a ogni bivio si apre la scelta del nodo da intersecare (relazionale, di contenuto) e del livello (pi comprensivo, pi in dettaglio, trasversale, orizzontale), quello che otteniamo quello che abbiamo costruito assieme allaltro ed fondamentale che ci assomigli e che ci soddisfi. Se non sappiamo che cosa vogliamo ottenere come potremmo accorgerci di averlo magari ottenuto? Per definire lambito della complessit sufficiente, il veicolo principe il desiderio, il progetto, la vision. Complicato, invece, tutto ci che inceppa il percorso, il granello nel meccanismo. Le considerazioni, i pensieri, le notizie che in quel momento non sono funzionali alla presa di decisione. Evidentemente, come si diceva, sono uninfinit le cose vere ma il fatto che una cosa sia vera non la rende di per s automaticamente importante e significativa. Siamo noi a dotarla di significato, se lamica cui telefoniamo abitualmente una che si nega, allora a quale scopo le telefoniamo? Per avere la conferma che anche stavolta andr cos? Per poter gustare lulteriore rifiuto e crogiolarci? Per avere la scusa di restare a casa davanti al televisore? Linformazione del suo abituale sottrarsi un vincolo importante che orienta il percorso: vogliamo veramente che stavolta dica di s? Dovremo impostare sequenze inedite che sorprendano lei e noi, secondo laureo principio che se facciamo ci che abbiamo sempre fatto, otterremo ci che abbiamo sempre ottenuto. Complesso chiedersi quali sono le informazioni necessarie e sufficienti, complicato rendere pregiudizialmente insolubile qualunque presa di decisione, ritrovarsi scontenti a casa o scontenti al cinema, avendo desiderato dellaltro e avendo perseguito lopposto. La stucchevole affermazione il problema pi complesso in genere non seguita dalla raccolta dei dati sufficienti a onorare la dichiarata complessit ma piuttosto a insabbiare un percorso progettuale, a dilazionare lazione. Sottintendendo che un problema risolubile una banalit, non degna della nostra preziosa attenzione quando veramente interessante, invece, , a mio giudizio, una formulazione cos

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precisa del problema che ne permetta la soluzione. Questo aspetto uno degli ostacoli pi drammatici della clinica, la sofferenza sconcertata del vedere una soluzione. quello cui mi riferisco con il lutto del sintomo ma ne parleremo meglio pi in l, ora torniamo ai vincoli. Bipolarismo Uno dei vincoli pi evidenti, pi cogenti, proprio quello del bipolarismo, della struttura binaria. Quella che, asserendo che il mondo non tutto bianco o tutto nero, privilegia, nel suo stesso negarlo, la predominanza ovvia del bianco e del nero. Superiori a qualunque altro colore proprio per la loro assolutezza, per il loro comprenderli o escluderli tutti, i colori. A noi piacciono i colori, ne amiamo qualcuno, ci teniamo distanti da altri ma nessun colore ha il rango del bianco e del nero, nessuno ha questa definitivit appagante, risolutoria. Entriamo fra i contrafforti del bianco e del nero, dispieghiamo liride intera e poi, dopo un percorso che richiede il suo tempo, scegliamo, fissiamo un colore, una nuance, un tono su tutti gli altri. E il bipolarismo si ripropone, contrapponendo, ora, la tinta scelta a tutte le altre. Del bianco e del nero non ci occupiamo pi. Sono tanti i bipolarismi che scandiscono il nostro andare del pensiero. Di tempo, il sempre/ mai che ci sussurrano un soffio inquietante di freddo, di giudizio, quel buono/ cattivo che si impiglia di ricordi, attenuanti, giustificazioni, il glorioso maschile/ femminile che ha innervato volumi, culture e momenti di grande politica quotidiana, lalto/ basso, il dentro/ fuori, il tutto/ niente, sono tanti, veramente. Stabilendo un polo, se ne richiama lopposto andando cos a definire una gamma infinita di punti intermedi. Quelli, s, sono alla nostra portata, quelli s che possono essere oggetto della nostra scelta. Ci muoviamo allinterno dello spazio presieduto dalla polarit, spazio fruibile, gestibile, diverso dalla sacrale colossalit dei poli che, pure, si riflette in ogni nostro gesto, in un gioco di specchi sempre pi minuto che farebbe la felicit di Enscher. Eppure, ogni giorno ci sentiamo ripetere con sufficienza da chi ci deve insegnare a pensare (direbbe Jannacci: quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire), ogni giorno ci dicono che il mondo non tutto bianco o tutto nero ma poi, contemporaneamente, veniamo bacchettati se non prendiamo delle posizioni chiare, se avanziamo dei distinguo, se cerchiamo, come si diceva, di allargare il ventaglio. Ed come se queste due modalit fossero tutte e due

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indispensabili, come se ci dibattessimo nella scelta, convinti di ciascuna e desiderosi dellaltra. Confronti improbabili ma a cui sembra non sia possibile sottrarsi, una dimensione binaria che dispiega un tessuto fra i due poli, una sostanziale continuit in cui occorre stabilire un confine, come per gli Stati. Come per lora della nascita e della morte. Attratti dalla apparente chiarezza bipolare (O di qua o di l, sintitolava una trasmissione televisiva, peraltro pessima), quella in cui ci sembra venga ospitata e custodita la coerenza e il coraggio (ma tu, da che parte stai?), non possiamo che riscontrare la reale unit del tutto che oggi riacquista anche un particolare valore simbolico e riferimento culturale, spaziando dalla globalizzazione allOM che celebra lessere indiviso di ogni realt cosmica: Da quella Totalit venuta questa Totalit. Togli questa Totalit da quella Totalit Ci che resta la Totalit. OM pace, pace, pace. (inizio della prima Upanishad, da Un altro giro di giostra, Tiziano Terzani, Longanesi & Co, Milano 2004) Proviamo, ad esempio, a prendere in considerazione il binomio analogico/ digitale, uno degli schemi con cui tentiamo di leggere il mondo e in particolare il comportamento umano, la comunicazione. Allora, in prima battuta, sembra semplice: analogico il comportamento non verbale, digitale il dire. Ma gi al secondo passaggio, il gioco si ripete: stiamo studiando un movimento, un gesto del braccio che si leva. Il braccio rispetto al resto del corpo si stacca, come elemento digitale. Se poi lo guardiamo pi da vicino, c quel movimento della mano che spicca sul braccio intero e poi, ancora pi da vicino, le due dita raccolte si stagliano nette. Come un grido. E raccogliamo quella informazione. Ma le due dita divengono significative perch attraverso questo percorso che le abbiamo elicitate. Accade lo stesso nellanalisi del parlato: la frase significativa che ci d senso si stacca dal contesto analogico del discorso, ma nella frase c quella parola che come un uncino aggancia e trascina la frase intera, un gesto determinante. E poi, potremmo chiederci, quella frase, quella parola, la commentiamo come fosse una chiosa del discorso, come fosse una nota a margine o a pi di pagina, come fosse un ampliamento, unassociazione, un accostamento

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cognitivo di che tipo? In ogni nostro incedere stabiliamo dei poli, definiamo lo spazio intermedio, operiamo una scelta e, subito, ritroviamo la polarit, lo spazio, la scelta. Uno scambio veloce di figura/ sfondo in cui ci addentriamo sempre pi immersi nello spazio, sempre pi richiamando la polarit. Fino a che concludiamo, fermiamo il tempo dellindagine e i poli ristanno quieti scandendo un tranquillo prima e dopo. I piedi nel piatto solo dopo linquadramento bipolare, dopo aver cercato ed evocato laltro polo che possiamo avviare le cosiddette domande circolari, come ragionavamo con Gianfranco Cecchin una sera destate di cui ho una gran nostalgia. Da Connessioni numero 10: Maria Cristina: partiamo da quell'episodio accaduto a Oslo e che mi raccontavi? Gianfranco: s, un gruppo di inglesi che hanno portato come esempio un loro intervento: erano stati inviati in una prigione dove c'erano cinque adolescenti che avevano violentato una vecchietta e l'avevano uccisa. Li avevano messi in galera, ovviamente, per non sapevano poi come intervenire con loro. Avevano 16, 17 anni, 18 al massimo (...) non si poteva parlar con loro, perch proprio non avevano nessun senso di colpa, niente, nessun pensiero di nessun tipo, giocavano tra di loro. Sembravano ottusi, sembravano degli idioti totali. E se si andava l a minacciarli, non serviva a niente. Sono in galera? Non sono in galera? Chi se ne frega!. E lo Stato si domandava: cosa ne facciamo, li mettiamo in galera per 80 anni, li mandiamo al capestro, cosa facciamo? Io l'ho chiesto a loro, per vedere se era possibile fare qualche intervento di tipo sistemico. E stato interessante, perch loro li hanno incontrati e hanno detto: "Noi siamo stati mandati qui dal giudice per parlare con voi visto che voi non parlate con nessuno e non ve ne frega niente di niente". Sono riusciti a parlare: insomma, un po obbligati, ma parlavano. Dopo un po hanno chiesto: "Questa storia della vecchietta che avete ucciso, possiamo parlarne un momento?". Ne uscito un bel quadro, perch hanno detto: "Qual era la parola che pi andava daccordo con questo evento? Potete inventare una parola?" E hanno detto: "Excitement": "Eccitamento." Maria Cristina: accidenti!

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Gianfranco: e un'altra Interessante, no?

parola?

Un'altra

parola:

"Solidariet".

Maria Cristina: gi, perch era di gruppo. Gianfranco: poi un'altra parola ancora: "Capo" del gruppo; un'altra: "Divertimento " Fun. Un'altra era: "Suono", "Musica", e mi veniva in mente musica rock. E sono uscite cos un sacco di parole. E dopo si sono fermati e hanno cominciato ad esaminare le parole tutte insieme. C' qualcosa che le mette insieme, no? e sono andati a cercare, usando le parole sparse, se ci fosse una specie di discorso, qual era, quali erano le parole, i pensieri dominanti di questo gruppo. E allora viene fuori che nel gruppo c'era un leader, e ci che fa il leader lo devono fare tutti, e l'unico modo per vivere quello di essere insieme e fare qualcosa di exciting: e quindi la persona, l'altro, non esiste. Non esisteva nessuna parola che facesse vedere che l'altro essere umano esiste. Maria Cristina: l'altro non c'era proprio! Gianfranco: non cera. E' interessante la possibilit di ricostruire quel pensiero partendo dalle parole, senza nessun moralismo, senza neanche nessun gioco sistemico, niente, solo parole. E poi alla fine, dopo un po hanno cominciato a dire: Ma sentite, mettiamo questa vecchietta che morta, mettiamola qua dentro... Maria Cristina: dentro le parole Gianfranco: dentro le parole, certo: A quale parola potrebbe associarsi questa signora?. Oppure, potremmo trovare il contrario di ogni parola? E allora gli operatori hanno detto: "Excitement", e i ragazzi hanno risposto: Excitement? Fear. Paura. Solidariet. Solidariet? Solitudine, no? Maria Cristina: straordinario; loro stessi, i ragazzi, l'hanno fatto? Gianfranco: s. Ed era diventato un gioco. Poi: Coraggio...Terrore. Dopo: Musica Silenzio. Excitement... Morte. Affascinante, perch hanno cominciato attraverso questo esercizio, diciamo cos, a pensare a come poteva pensare la vecchietta. Cos gli operatori (...) esaminando e confrontando hanno visto che questo stesso meccanismo presente nelle guerre etniche: questi gruppi generano una totale inesistenza dell'altro, per cui laltro lo puoi infilzare con un coltello e proprio non lo vedi. Cio non c' un

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sentimento di nessun tipo e l'altro non c'. Per una volta che questi operatori hanno detto: Prendiamo la vecchietta e mettiamola dentro questo quadro, loro hanno cominciato a vederla, no? Maria Cristina: sono tornati intelligenti. Gianfranco: hanno ricominciato a pensare, ma usando le parole e il contrario delle parole; e ogni parola aveva il suo contrario ed era esattamente quello che poteva aver sentito lei. Maria Cristina: che quindi loro non sapevano di sapere, ma che invece hanno scoperto... Gianfranco: hanno scoperto di sapere perch, come dicevamo, ogni parola esiste solo se c anche il suo Maria Cristina: contrario. E questo che stai dicendo, mi fa venire in mente quello che pensavo sul fatto che il nostro pensiero comunque vincolato a un andamento polare, no?, polarizzato. Allora, noi conosciamo una cosa se siamo in grado di conoscere anche il contrario; probabilmente i ragazzi nel momento in cui hanno potuto cominciare a cercare le parole opposte, e dunque il punto di vista della vecchietta, hanno avuto... possono aver creato una relazione fra le loro parole e le parole della vecchietta. Mi domandavo se non proprio una struttura del nostro pensiero quello del muoversi per poli. Mi spiego: per esempio noi in sistemica diciamo che esiste la dimensione analogica e quella digitale; ma io non penso che esistano, io penso siano dei modi di vedere, cio che per poter cogliere l'analogico dobbiamo poter parlare del digitale, e viceversa. Esiste il dentro e il fuori, esiste il buono e il cattivo, esiste il bianco e il nero, esiste il maschile e il femminile... Quello che loro, che questi ricercatori o terapeuti hanno fatto con questo gruppo di ragazzi non stato tanto il fare delle domande circolari, cio non hanno cercato di costruire un sistema ma hanno raddoppiato, con delle domande bipolari, il mondo dei ragazzi. Allora mi domandavo se anche in terapia la polarizzazione uno dei vincoli fondamentali del nostro pensiero; questo non significa che c' nella realt, significa che questo uno degli schemi fondamentali con cui noi conosciamo. Per questo pu essere utile porre domande che polarizzino, affinch si cerchino risposte.

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Gianfranco: quindi si pu dire che una domanda circolare un po a s, cio uno strumento potente, ma non sufficiente perch c' la domanda bipolare che...sarebbe una buona invenzione, no? La domanda bipolare implica che non esiste nessuna realt che non integri anche il suo opposto. Quindi se c' la guerra (...) Maria Cristina: non pu che esserci anche la pace. Gianfranco: non pu che esserci anche la pace, ed quello che gli operatori, diciamo, gli intervistatori, o i diplomatici ecc., vanno a cercare in ogni struttura... Maria Cristina: l'altro. Gianfranco: l'altro, il contrario di quello che... Appena hai creato il potere esiste il non potere. Maria Cristina: s, nella stessa persona e nella stessa situazione e nello stesso sistema. Gianfranco: nello stesso sistema. Maria Cristina: certo, e il fatto che esistano un polo e l'altro, non vuol dire che siano... che luno appartenga a un pezzo del sistema o a un membro del sistema, e laltro ad un altro pezzo del sistema; ma vuol dire che a ciascuno appartengono entrambi i poli. Gianfranco: tutti e due i poli, s. Ed stata quella la scoperta degli operatori: se gli chiedi di portare a galla, bring off, tirare fuori, l'altro aspetto... Maria Cristina: l'altro aspetto...s, anche perch nel momento in cui tu stabilisci l'altro polo apri in mezzo un'infinit di punti intermedi, e quindi, come dire, reinventi la mobilit. Allora, anche se noi sosteniamo che etica non vuol dire avere dei buoni sentimenti, possiamo dire, per, che c' dentro di noi, sicuramente, un punto che dice: non si devono violentare le vecchiette. E questo giusto. Poi devono esserci, per, anche altri punti, anche il punto opposto, quello in cui questi ragazzini di 16-17 anni hanno trovato invece il giusto nel violentare la vecchietta. Cio: se noi non riusciamo a immaginare che ci deve essere un punto guardando dal quale loro hanno avuto ragione, non possiamo nemmeno portarli a domandarsi qual era il punto di vista della vecchietta. Gianfranco: questo un discorso circolare, perfetto.

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Maria Cristina: allora, io credo che nel momento in cui accetti lo strumento della bipolarit, che poi la circolarit serve a mettere in circolo, appunto, in asse, in connessione dei punti. Ma nessuno dei poli iniziali pu essere messo in connessione da solo. Gianfranco: no, certo. Adesso mi viene anche il sospetto che se noi cerchiamo di azzerare tutto il gioco, se sosteniamo che i poli devono assomigliarsi, che tutto deve essere neutrale, in questo modo uccidiamo l'esistenza. (...) Maria Cristina: come mi raccontavi della baby sitter del tuo nipotino Gianfranco: s, guarda dei bambini neonati; per lei sceglie solo bambini di meno di 8 mesi, e li tiene non pi di 3 anni, fino a 3 anni: le piacciono i bambini cos. Maria Cristina: mette delle regole molto precise. Gianfranco: e ne prende 6 o 7 al massimo, e poi paga di tasca propria delle persone che per lei intervistano i genitori del bambino no?, e vogliono vedere se va bene per lei. Maria Cristina: beh molto interessante come fa questa donna. Stavo pensando, come sia assolutamente arbitrario decidere chi sceglie chi. Intendo dire che la migliore baby-sitter probabilmente quella che ti seleziona, non che accetta chiunque. Gianfranco: ah, s, esatto. Maria Cristina: allora mi domando anche se il tanto discorrere buonista di sentimentale comprensione, di apertura verso chiunque, da parte del cos detto terapeuta (se uno ha un cuore grande, salva tutti), non sia un modo poi di non...come dire...di non farsi scegliere, di non sottostare a una sorta di screening, ma anche a una sorta di contratto. Gianfranco: praticamente torniamo all'idea di prima: c' stata una grande abbuffata, il tentativo di eliminare le polarizzazioni, no?. Perch le polarizzazioni sembravano preparare solo guerre, violenza, abuso, ecc. ecc., no?. E quindi c' stata questa grande illusione di poter annullare la polarizzazione: i terapeuti devono amare tutti i pazienti che vedono. Maria Cristina: tutti.

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Gianfranco: e, allo stesso modo, le madri devono amare tutti i bambini che nascono, le baby-sitter devono essere tutte innamorate di tutti i bambini che vengono loro proposti Maria Cristina: s, il conflitto peccato, il conflitto morte.(...) Gianfranco: la realt quella di continuare a creare continuamente polarizzazioni che avvengono e si estinguono, si creano e vengono distrutte. E sulla realt della polarizzazione che va avanti il mondo. Maria Cristina: come per la corrente elettrica, come per lo yin e lo yang, certo. Ma quello che a me spaventa molto, e di cui io credo in parte la terapia sistemica stata anche corresponsabile, coautrice insomma, questa idea del dover mettere l'armonia in famiglia: ogni terapeuta familiare sogna segretamente di ricongiungere quest'uomo e questa donna che stanno litigando furiosamente. Cio non ho mai incontrato un terapeuta familiare che fosse effettivamente alleato del litigio e curioso della finezza, per esempio di come viene alimentato del litigio. E' molto difficile litigare bene. Gianfranco: farlo con arte e con raffinatezza. Maria Cristina: considerato casomai, con una brutta parola, strategico, ma una cosa che non va bene; nel suo cuore il terapeuta sa che si deve amare l'armonia. Gianfranco: molto probabilmente, se seguiamo la fantasia dei bambini che vediamo, i bambini hanno sempre questa fantasia molto forte, no?, che vogliono la famiglia normale, dove c' il pap, la mamma, che stanno insieme, sono contenti di stare insieme per i bambini d pi sicurezza dal punto di vista di sopravvivenza e fisiologico. (...) Non possibile che i terapeuti siano un po una massa di grandi bambini che hanno questa fantasia? Maria Cristina: ma la sopravvivenza dei bambini deve essere garantita fino a una certa et. Non detto che un bambino un po pi grande abbia la sua sopravvivenza a rischio se il padre e la madre si separano, ma sembra che il terapeuta quando vede una famiglia debba profondere tutte le sue forze e le sue abilit per rimetterli insieme. (...) ma tu non pensi che in questo senso, per esempio, ci sia una scarsissima alleanza con gli adulti delle famiglie, cio non pensi che abitualmente coloro che si occupano di famiglie (i terapeuti, ma anche gli assistenti sociali, anche i giudici minorili) sono sempre e comunque a difesa dei bambini? Ma, in

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qualche modo, difendere i bambini senza difendere prima i genitori, che sono quelli che ne devono garantire la sopravvivenza, un gioco folle, perch non si possono difendere i bambini senza difendere i loro genitori. Gianfranco: e perch allora non accettiamo che questa un'idea culturale diffusa in occidente, perch i bambini sono scarsi, sono pochi, ci sono troppi vecchi, per cui i bambini sono sacri Maria Cristina: sono linvestimento del futuro, come dicevamo. Gianfranco: esattamente, per cui c' tutta una struttura sociale, una cultura, no?, per cui il bambino viene difeso a oltranza sia dai servizi sociali che dai terapeuti. Nei Paesi del Nord Europa, se un genitore si comporta male con un bambino, il bambino viene subito preso e portato via, dato in adozione o in affidamento. Maria Cristina: perch la cultura collettiva, io credo anche, difende i bambini, ma ciecamente: ciecamente perch, appunto, secondo me un bambino non pu essere difeso se prima non difendi i suoi genitori, no?. In questo modo, difendendo ciecamente i bambini, gli adulti vengono progressivamente privati di sostegno, e quindi di difesa. E quindi io credo che noi assistiamo a un popolo che sempre pi giovanile, nel senso che trova sempre meno utile l'idea di essere adulto. per questo, io credo, che anche noi stiamo incrementando in qualche modo la pedofilia: perch da qualche parte, con qualcuno pi debole te la devi pure prendere. Cio, nessuno difende gli adulti, nessuno dice: adulto bello. Non pi una cultura abituale in cui uno cresce perch il bello diventare grandi, no?. Il bello ... Gianfranco: essere giovani, belli, affascinanti... Maria Cristina: essere giovani... Allora, se cos, necessariamente quanto pi difendi i bambini, va a finire che li difendi contro gli adulti. E nel momento in cui li difendi contro gli adulti, li rendi doppiamente orfani, perch li privi dei loro genitori. Gianfranco: ecco, per noi adesso dovremmo seguire il discorso della polarizzazione: una volta creata la polarizzazione adulto bambino, no?, noi senza saperlo siamo caduti nella contrapposizione, nella guerra, tra questi due poli. Maria Cristina: esattamente.

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Gianfranco: invece, il terapeuta deve sapere che la polarizzazione assolutamente inevitabile; per il lavoro dei terapeuti quello di far s che la polarizzazione abbia un effetto creativo e non distruttivo. Maria Cristina: e quindi deve reggere la polarizzazione, per non la deve negare. Gianfranco: perch la polarizzazione potrebbe arrivare alla guerra totale, no?, alla distruzione. Come si pu mantenere viva la polarizzazione senza uccidere il sistema? E' questa l'idea finale, diciamo, di questo concetto. Maria Cristina: certamente. Io penso, per esempio, che se, in una situazione di polarizzazione, il terapeuta appoggia il polo che gi in sintonia con l'assetto sociale (e qui ne faccio un'altra, di polarizzazione, cio il privato della famiglia versus il contesto sociale) se, dicevo, il terapeuta appoggia il polo socialmente corretto, allora squilibra di troppo la situazione, e quindi rischia di alimentare la capacit di guerra. Questo non vuol dire, a mio giudizio, che, se il contesto sociale dice che non va bene violentare i bambini, il terapeuta deve appoggiare l'idea che bene. Non sto dicendo questo: sto dicendo per che il terapeuta deve poter mostrare che nella violenza sui bambini ci sono anche degli elementi, dei comportamenti, dei valori, che in qualche modo costituiscono il genitore come tale, e che si esprimono anche nel suo violentare il bambino. Gianfranco: qui c' un'idea difficile da vendere, diciamolo. Maria Cristina: mi spiego: normalmente tutti i bambini negano che siano stati i genitori a picchiarli, tutti quanti i bambini negano che a stuprarli siano stati i nonni o i fratelli, no?...Nel momento in cui l'adulto terapeuta, si prefigge invece di svergognare quel familiare che i bambini stanno cercando di proteggere, va contro i bambini. Vorrei essere chiara, non sto dicendo che mi sta bene che i bambini siano stuprati. Diamolo per buono. Io sto dicendo che nel momento in cui il bambino subisce violenza, in qualche modo, inevitabilmente, come accade per le donne maltrattate, partecipa a quest'atto di violenza; sia pure astraendosene in qualche modo; ed l la follia, perch ci sta, e non ci pu stare. E' la persona che dovrebbe garantirgli la sopravvivenza ed quello che gli fa la maggiore violenza, no? il tutto condito da un fortissimo rapporto. Ci siamo posti per tanti anni e decenni il problema del controllo sociale, tra terapie, controllo sociale, ecc. Ma in questo modo di

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porsi il problema, non ci siamo mai posti fortemente a fianco, sia pure a tempo, di colui che invece veniva accusato. Allora, se un bambino Gianfranco: come quei cinque stupratori della vecchietta. Maria Cristina: bravo, esattamente questo. Allora, nel momento in cui i ricercatori sono andati a parlare coi ragazzi, non gli hanno detto: Rendetevi conto di quel che avete fatto. Sono partiti dal presupposto che loro non sapessero cosa avevano fatto. Questo sospendeva ogni giudizio, era una constatazione di fatto. Non sono entrati nel merito del perch non lo sapevano; non hanno detto I giovani doggi che non hanno valori, che hanno un vuoto spirituale. Loro hanno detto: Questi ragazzi non hanno, sull'omicidio di questa donna, la stessa percezione di realt che ne ha il contesto sociale circostante, no?. Ma non sono partiti dal contesto sociale circostante, sono andati da loro e gli hanno detto: Tu quando hai ammazzato la vecchietta, cos' che hai provato di bello?. Perch se no i ragazzi non avrebbero mai potuto rispondere: Exciting, Divertente, Fare gruppo. Sono parole positive queste, importante. E da questo, da questa posizione i ragazzi hanno poi potuto andare a cercare la versione polare che era quella della donna anziana. Gianfranco: perch... dalla versione polare poi viene naturale... Maria Cristina: viene assolutamente naturale. Cio quando tu hai consumato la tua posizione, vai dall'altra parte. Gianfranco: quando hai trovato la tua connotazione positiva, cio quando la tua posizione viene accettata. Maria Cristina: io sono assolutamente convinta, Gianfranco, che le persone possono cambiare, nel senso di spostarsi, cambiare idea anche, solamente quando hanno avuto ragione, da vincenti. Cio nessuno cambia se non da vincente. Obiezione: Ma questo significa che tu puoi permettere a un padre stupratore di muoversi diversamente solamente dopo avere dato un significato al suo aver stuprato i figli?. Io ti rispondo: In qualche modo s. Io credo che sia una responsabilit etica del terapeuta quella di spostarsi nella posizione polare per vedere come si vede il mondo dall'altra parte, e credo anche che il miglior modo per difendere i bambini sia quello di difendere e custodire i loro genitori, ricostituire i loro genitori nella loro dignit di adulti e in questo senso restituire dei genitori

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integri ai bambini. Una volta che uno si sposta nella posizione polare, poi ha tutte le infinite intermediazioni che vanno tra un polo e l'altro, che in qualche modo condivide un polo con l'altro. Per esempio il fatto che un bambino pu aver pensato che, tutto sommato, era il privilegiato del padre se il padre faceva con lui questo. Che soffriva ma provava piacere, che dava volentieri qualcosa al padre, che aveva paura ma poteva diventare coraggioso. E non sto giustificando il fatto, sto cercando di districare dalla violenza orribile di uno stupro o di un abuso su un bambino gli elementi che ci sono gi presenti e che possono ricostituire un genitore nell'adulto che in questo momento viene considerato l'accusato. Il corpo e la mente Il corpo veramente il nostro consulente migliore. Daltronde, con noi da che esistiamo, come potrebbe non aver memoria di tutti i nostri attimi? Memoria diversa da quella della mente, certo, ma cos strettamente in interazione! Il corpo il consulente migliore, intanto perch sempre a nostra disposizione, attento, preciso e disponibile. E se siamo stati abituati a dargli retta quando ci arriva un segnale di dolore, perch mai, mi son chiesta, non andare a cercare un rapporto con lui anche senza la necessit dellaccompagnamento doloroso? Ritengo, infatti, che siamo fin troppo esperti nel riconoscere il dolore, la sofferenza un linguaggio che scambiamo spesso fino a farle acquistare una qualche strana sorta di sacralit. Ora, non certo contestabile la presenza diffusa, e quanto ripetuta!, del dolore nella nostra esistenza. Ci piaga, ci afferra, ci torce, dentro di noi e in chiunque, un tormento di cui non sappiamo e non possiamo darci pace, di cui cerchiamo brandelli di consolazione, per cui tanti levano i pugni al cielo, che sollecita solidariet e impotenza, disgusto e piet. Ma il dilagare del dolore, cos tante volte originato da intollerabili ingiustizie e violenze ma anche cos spesso insopportabile proprio perch immotivato, questa presenza dovunque che ha innervato religioni e costruito luoghi sociali per poterlo affrontare, definizioni per dargli un nome quasi lo si potesse cos catturare e irreggimentare, non vuol dire che il dolore sia, se non lunico, il migliore dei linguaggi con cui gli esseri umani possono rivolgersi gli uni agli altri o a se stessi. Una certa santificazione del dolore nasconde lindecente obiettivo dellasservimento a unobbedienza che sa di sottomissione. La tragedia della sofferenza umana spesso scivola in un oscuramento delle altre emozioni, delle esperienze

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fisiche e psichiche che non dal dolore traggono origine e scopo ed esistenza. E che vengono tacitate o, quanto meno, relegate in un rango minore: meno vere, meno importanti, meno dicibili socialmente. Nel mio lavoro, cerco di non farmi catturare dalla fascinazione del dolore, cerco di non attardarmi nei territori della cosiddetta patologia, invito laltro a percorrere il campo della normalit, della salute. Quel campo dove lui ed io possiamo fruire di cittadinanza piena, dove siamo riconosciuti come persone competenti, con un lavoro, famiglia, ruoli e abitudini sociali; ognuno le sue ma le abbiamo ambedue. Assieme, da l riguardiamo quel buco di dolore, cerchiamo di maneggiarlo con qualche distanza, se appena possibile lo riconduciamo con affetto e attenzione e rispetto nel mondo della salute, ne accarezziamo i lineamenti che, distorti in quel territorio, qui possono cominciare a ricomporsi in unespressione che si pu riconoscere, interpretare. Quasi una nuova nascita, con lineamenti plasmati da un rapporto damore: dice Giuliana, medico ematologa e donna straordinaria, un bambino acquista il suo viso non con la nascita ma con le carezze che glielo modellano. Nel mondo della normalit il dolore si pu interrogare e lo si pu sperimentare consumandolo e trasformandolo in energia vitale, nel mondo della patologia lo si pu solo contemplare, attoniti basilischi, in un tempo che non scorre ma abbacina. Tante cosiddette depressioni erano involucri di sofferenza tesi ad abbracciare e custodire un dolore che si pensava tanto inevitabile quanto invivibile, oggetti preziosi, diceva una donna, umiliazioni, sconfitte, tradimenti, disperazioni da lucidare con cura e che, ogni volta che li prendi in mano per rimirarli, restituiscono la stessa, eterna, immutabile fitta di dolore. Quando siamo riusciti, e qualche volta stato possibile, a denudare il dolore temuto, ad attraversarlo, consumarlo, assaporarlo compiutamente, le icone di un tempo hanno potuto finalmente trovare riposo e riparo. Senza essere cancellate n dimenticate, esperienze cui volendo si pu riaccedere in ogni momento ma che non costituiscono pi il perno dellesistenza quotidiana. Lorizzonte si amplia, il lucore si stempera in altre luci, si spande in atmosfere pi ariose. Il quotidiano allargato pu assorbire la predominante patologia di un tempo, un quotidiano che non usa pi la sofferenza come altare sacro ma che, laico senza dover essere necessariamente laicista, attraversa con leggerezza consapevole tutti gli strati dellesperienza vitale, fermandosi qui a incoronare un dio, l a seppellire un reperto, l,

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invece, a organizzare un museo. Con la libert impegnativa di essere protagonista della propria esistenza. Annabella e lo stornello Ci sono dei libri di cui non si pu fare a meno, da una generazione allaltra. Penso, in questo momento, alla serie di P.L.Travers su Mary Poppins, bambinaia con il volto da bambola olandese, scontrosa e insostituibile, imprevedibile, rassicurante e misteriosa, giustamente adorata dai piccoli Banks (il loro padre lavora in banca!). Nella famiglia nasce la piccola Annabella ed ecco un passo delizioso che racconta lingresso nel mondo di un cucciolo nuovo (da P.L.Travers Mary Poppins ritorna; Gruppo Editoriale Fabbri Bompiani Sonzogno Etas s.p.a., Milano 1937): Mary Poppins si aggirava quietamente nella stanza, ponendo in bellordine gli abiti nuovi di Annabella. La luce del sole, entrando dalla finestra, attravers lentamente la stanza e raggiunse la culla. Apri gli occhi! disse piano e vi lascer cadere un raggio! La piccola coperta si mosse. Annabella apr gli occhi. Brava bambina! disse la luce del sole i tuoi occhietti sono celesti, vedo il mio colore preferito. Ecco! Non si potrebbe trovare da nessuna parte un paio docchi pi luminosi! La luce del sole scivol via dagli occhi di Annabella, carezz le sponde della culla e si dilegu. Tante grazie! disse Annabella gentilmente. Una tiepida brezza, rimuovendo le trine della culla, le sfior la testina. Capelli ricciuti o lisci? mormor la brezza. Oh, ricci per favore! implor piano Annabella. I riccioli risparmiano i dispiaceri, vero? assent la brezza. E si agit sul capino biondo finch arricci in su con cura le punte dei suoi capelli prima di uscire, volteggiando, dalla stanza.

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Eccomi! Eccomi! grid una voce rude dalla finestra. Lo Stornello era tornato sul davanzale. () Annabella, cara () e la guard col suo tondo occhio luminoso Spero disse gentilmente che tu non sia troppo stanca del viaggio! Annabella scosse la testa (...) agit le manine fra le lenzuola. Io sono terra e aria e fuoco e acqua disse dolcemente vengo dal Buio dove tutte le cose hanno il loro principio. () Vengo dal mare e dai suoi flutti () vengo dal sole e dalla sua luce. Ah, sei cos luminosa! disse lo Stornello, assentendo. E vengo dalle foreste della terra. () In principio mi muovevo piano () mi rammentavo di tutto quello che ero stata e pensavo a tutto quello che sarei diventata. E dopo che ebbi sognato il mio sogno, mi svegliai e arrivai a tutta velocit. () Nel mio cammino udivo le stelle cantare e mi sentivo avvolta di trepide ali. Passai attraverso gli animali della giungla, attraversai acque scure e profonde. Fu un lungo viaggio. Annabella tacque. () Un lungo viaggio, davvero! assent a bassa voce lo Stornello, sollevando dal petto il capino E cos presto, ah!, cos presto dimenticato! Annabella si agit sotto la piccola coperta. No! disse fiduciosa Non lo dimenticher () Me ne ricorder! Me ne ricorder! Perch dovrei dimenticarlo? Perch tutti dimenticano! ribatt lo Stornello duramente Ogni stupido essere umano!() Non ti credo! Non ti voglio credere! gridava furiosamente Annabella. () Zitta! Zitta! la ammon lo Stornello in tono burbero Non ci badare! Non ci si pu fare nulla. Dopo tutto sei anche tu un bambino come gli altri. ()

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Aveva una settimana quando lo Stornello torn. () La culla si mosse lievemente. Annabella apr gli occhi. Buongiorno disse Desideravo appunto vederti. Ah! esclam lo Stornello volandole accanto. Vorrei ricordare una cosa cominci Annabella, aggrottando le ciglia E pensavo che tu potessi farmela tornare in mente. Lo Stornello la guard fisso. I suoi occhi scuri ammiccarono. Come cominciava? disse piano Cos? e cominci in un tremulo soffio Io sono terra e aria e fuoco e acqua No, no! lo interruppe Annabella con impazienza Non cominciava certo cos! Dimmi le domand lo Stornello ansiosamente Era a proposito del tuo viaggio? Sei venuta dal mare e dai suoi flutti, sei venuta dal cielo e Oh, non essere cos sciocco! grid Annabella il solo viaggio che io abbia mai fatto stato fino al Parco, stamattina. No, no, era qualcosa dimportante. Qualcosa che cominciava per B. () Ho trovato! ella grid biscotto. C un mezzo biscotto allavena sul caminetto. () Tutto qui? chiese lo Stornello, deluso. S, certo Annabella rispose irritata Non ti sembra abbastanza? Pensavo che ti saresti accontentato di mezzo biscotto! Il corpo come Atlantide Mi immagino, quando penso al corpo e a quella sua incredibile, prodigiosa memoria, ai modi per accedervi, alla grammatica e alla sintassi di questo processo, mi immagino la terra di Atlantide. Come per questi mitici (e cosa mai il mito se non un racconto che ci consola, che ci aiuta a sentirci meno soli nella faticosa impresa del vivere?) abitanti del fantastico regno di Atlantide, cos il nostro corpo conserva, mi immagino, tutte le competenze, tutte le esperienze, tutto ci che ci fa essere chi e come siamo. Ma, come loro, gli atlantidi, anche il corpo ha il problema di fornirci le informazioni al momento giusto, quando, cio, siamo in grado di

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utilizzarle al meglio. Di tante versioni di Atlantide, mi piace privilegiare quella in cui questo popolo, sapiente e saggio, vedendo lucidamente avvicinarsi il tempo della sua estinzione, si pone, con grandissima umanit, gentilezza e responsabilit, la questione del come racchiudere la sua sapienza affinch si conservi per divenire disponibile per delle genti che verranno, non si sa quando e non si sa neppure che genti saranno, quale la loro cultura, le loro leggi, il loro pensiero, la loro societ. Per questo, dunque, gli atlantidi affidano le loro conoscenze a due veicoli che sicuramente sapranno aprirsi e svelare il segreto al momento opportuno: quando le genti future saranno in grado di farne luso migliore. I veicoli scelti sono la narrazione e la matematica. La narrazione di cui gli umani non potranno mai fare a meno, nel tempo costruir una conoscenza condivisa che modeller le persone a venire e le render recettive allarticolazione del passato con il futuro, del sogno giovanile con la saggezza e il rispetto degli anziani, dellintesa con il mondo della natura con il permesso di modificarla, dellindividuo unico con il rotolare della storia di mille e mille altri. La narrazione collega gli esseri umani, permette loro di manifestarsi e di scoprire, di comprendere assieme e di inventare il proprio destino. Mito, leggenda, fiaba, racconti fantastici, biografie e autobiografie, sogni e invenzioni, ogni narrazione modella la persona umana ricamandone lattimo nellarazzo globale del tempo e dello spazio. E poi, a saldo contrappunto, la matematica, esatta, sapiente, che rende accessibili le sue informazioni solo se si sono ripercorsi i passi obbligati, con quel suo linguaggio che non certamente quello pi adeguato per ogni campo dellumano ma, pure, di ogni campo sa dare ragione, ogni campo sa descrivere e definire e porgere alla relazione condivisa. La matematica che identifica e riconosce nel comportamento umano configurazioni, equivalenze, gestalt, che ci porge suggerimenti per maneggiarle. La matematica che cinge la poesia e la musica, che propone strutture tanto rigorose quanto flessibili allinventiva umana, la matematica che non cela nulla ma richiede, per essere letta, conoscenze e ricerca, un atteggiamento in qualche termine scientifico. Come per le magiche piramidi di Giza, mai ripetute e che ancora oggi non sapremmo costruire, che presuppongono luso noto del pi greco e larte di scavare lunghissimi, eleganti colli per trarre vasi da una pietra di tale durezza che i nostri strumenti non sanno lavorare. Le incisioni Nazca semplicemente ci sono, non ci sfidano, non si celano, non ci provocano: ci attendono, a un appuntamento previsto da secoli e secoli che non sappiamo quando mai verr.

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Immagino qualcosa di simile per il corpo e la sua sapienza. Il corpo come consulente Cos, da questi presupposti, ha preso le mosse un lavoro di ricerca, una sperimentazione che nel tempo si consolidata in un vero e proprio galateo dellinterlocuzione con gli organi del corpo, che si fatta abitudine a ricorrere quanto meno a una intervista veloce, una supervisione a volo dangelo. Ma che, invece, spesso nervatura di un incontro con s, alla ricerca di altre informazioni, chiarimenti, opportunit, ma anche conforto, consolazione, sostegno. Con un cenno di saluto a Freud e allanalisi interminabile, credo di poter dire che il riscontro esterno del terapeuta pu nel tempo vantaggiosamente essere sostituito dal confronto interno in cui il corpo centrale. Linterlocuzione con il corpo, per come la conosco, segue delle regole semplici e abbastanza precise. E, prima di ogni altra, occorre sapere che andare a cercare conforto e informazioni e consigli trova comunque un riscontro, magari imprevisto, ma gli interlocutori che si sono recati allappuntamento, in genere hanno un bassissimo senso dellumorismo: non amano per nulla che i contratti stipulati con loro vengano traditi, si innervosiscono, e talvolta reagiscono, se ci che stato messo in luce, magari con gran fatica, non viene utilizzato o viene schernito, valutato come banale, inessenziale. In questo modo di ragionare, evidentemente, c leco della preoccupazione degli atlantidi (qualcuno potrebbe dire dellinconscio?): come fare a decidere quando e che cosa far sapere, quando e quale informazione rilasciare? Penso, e chiedo allaltro di condividere, che tutti i componenti della persona sono comunque, primariamente, orientati alla sua sopravvivenza. Sono, dunque, aiutanti sinceri e validi, competenti e ben capaci di collaborare. Ma pu accadere che alcuni programmi orientati alla sopravvivenza non siano stati aggiornati, pu essere successo che non sia circolata linformazione che nuove e diverse competenze sono state raggiunte dalla persona, s che alcune difese e alcune protezioni non sono pi necessarie. Forse inutile ripeterlo, ma non questione di asserire che questo vero, che le cose stanno realmente cos: semplicemente lo sfondo, il quadro di riferimento in cui linterlocuzione con il corpo e con i suoi organi acquista senso, valore e pu risultare utile. Daltronde, ogni nostra azione acquisisce senso dal contesto in cui si colloca, dalla condivisione di accordi presi, dal gioco di carte dove attribuiamo valore a un

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cartoncino illustrato a ogni rito o celebrazione sociale di qualunque ordine e grado. Basta ricordare il teorema di Godel. Scrive lucidamente Umberto Eco, ne Il pendolo di Foucault (Bompiani, Milano 1988): Dice Lia: Pim, non ci sono gli archetipi, c il corpo. Dentro la pancia bello, perch ci cresce il bambino, si infila il tuo uccellino tutto allegro e scende il cibo buono saporito, e per questo sono belli e importanti la caverna, lanfratto, il cunicolo, il sotterraneo, e persino il labirinto che fatto come le nostre buone e sante trippe, e quando qualcuno deve inventare qualcosa di importante lo fa venire di l, perch sei venuto di l anche tu il giorno che sei nato, e la fertilit sempre in un buco, dove prima qualcosa marcisce, e poi ecco l, un cinesino, un dattero, un baobab. Ma alto meglio che basso perch se stai a testa in gi ti viene il sangue alla testa, perch i piedi puzzano e i capelli meno, perch meglio salire su un albero a coglier frutti che finire sottoterra a ingrassare i vermi, perch raramente ti fai male toccando in alto (devi essere proprio in solaio) e di solito ti fai male cascando verso il basso, ed ecco perch lalto angelico e il basso diabolico. Ma siccome anche vero quel che ho detto prima sulla mia pancina, sono vere tutte e due le cose, bello il basso e il dentro, in un senso, nellaltro bello lalto e il fuori, e non centra lo spirito di Mercurio e la contraddizione universale. Il fuoco tiene caldo e il freddo ti fa venire la broncopolmonite, specie se sei un sapiente di quattromila anni fa, e dunque il fuoco ha misteriose virt, anche perch ti cuoce il pollo. Ma il freddo conserva lo stesso pollo e il fuoco se lo tocchi ti fa venire una vescica grossa cos, quindi se pensi a una cosa che si conserva da millenni, come la sapienza, devi pensarla su un monte, in alto (e abbiam visto che bene), ma in una caverna (che altrettanto bene) e al freddo eterno delle nevi tibetane (che benissimo). E se poi vuoi sapere perch la sapienza viene dalloriente e non dalle Alpi svizzere, perch il corpo dei tuoi antenati alla mattina, quando si svegliava che era ancora buio, guardava a est sperando che sorgesse il sole e non piovesse governo ladro. S, mamma. Certo che s, bambino mio. Il sole buono perch fa bene al corpo, e perch ha il buon senso di riapparire ogni giorno, quindi buono tutto quello che ritorna, non quello che passa e va e chi s

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visto s visto. Il modo pi comodo per ritornare da dove si passati senza rifare due volte la stessa strada camminare in circolo. E siccome lunica bestia che si acciambella a cerchio il serpente, ecco perch tanti culti e miti del serpente, perch difficile rappresentare il ritorno del sole arrotolando un ippopotamo. Inoltre se devi fare una cerimonia per invocare il sole, ti conviene muovere in circolo, perch se muovi in linea retta ti allontani da casa e la cerimonia dovrebbe essere brevissima, e daltra parte il circolo la struttura pi comoda per un rito, e lo sanno anche quelli che mangiano fuoco sulle piazze, perch in circolo tutti vedono nello stesso modo chi sta al centro, mentre se unintera trib si mettesse in linea retta come una squadra di soldati, quelli pi lontani non vedrebbero, ed ecco perch il cerchio e il movimento rotatorio e il ritorno ciclico sono fondamentali in ogni culto e in ogni rito. S, mamma. Certo che s. E adesso passiamo ai numeri magici che piacciono tanto ai tuoi autori. Uno sei tu che non sei due, uno quel tuo affarino l, una la mia affarina qui e uni sono ilo naso e il cuore e quindi vedi quante cose importanti sono uno. E due sono gli occhi, le orecchie, le narici, i miei seni e le tue palle, le gambe, le braccia e le natiche. Tre pi magico di tutti perch il nostro corpo non lo conosce, non abbiamo nulla che sia tre cose, e dovrebbe essere un numero misteriosissimo che attribuiamo a Dio, in qualunque posto viviamo. Ma se ci pensi, io ho una sola cosina e tu hai un solo cosino sta zitto e non fare dello spirito e se mettiamo questi due cosini insieme viene fuori un nuovo cosino e diventiamo tre. Ma allora ci vuole un professore universitario per scoprire che tutti i popoli hanno strutture ternarie, trinit e cose del genere? Ma le religioni non le facevano mica col computer, era tutta gente per bene, che scopava come si deve, e tutte le strutture trinitarie non sono un mistero, sono il racconto di quel che fai tu, di quel che facevano loro. Ma due braccia e due gambe fanno quattro, ed ecco che quattro lo stesso un bel numero, specie se pensi che gli animali hanno quattro zampe e a quattro zampe vanno i bambini piccoli, come sapeva la Sfinge. Cinque non parliamone, sono le dita della mano, e con due mani hai quellaltro numero sacro che dieci, e per forza sono dieci persino i comandamenti, altrimenti se fossero dodici quando il prete dice uno, due, tre e mostra le dita, arrivato agli ultimi due deve farsi prestar la mano dal sacrestano. Adesso prendi il corpo e conta tutte le cose che spuntano dal

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tronco, con braccia, gambe, testa e pene sono sei, ma per la donna sette, per questo mi pare che tra i tuoi autori il sei non sia mai stato preso sul serio se non come doppio di tre, perch funziona solo per i maschi, i quali non hanno nessun sette, e quando comandano loro preferiscono vederlo come numero sacro, dimenticando che anche le mie tette spuntano in fuori, ma pazienza. Ma vuoi la spiegazione di altre figure ricorrenti? Vuoi lanatomia dei tuoi menhir, che i tuoi autori ne parlano sempre? Si sta in piedi di giorno e sdraiati di notte () e quindi la stazione verticale vita, ed in rapporto col sole, e gli obelischi si rizzano in su come gli alberi, mentre la stazione orizzontale e la notte sono sonno e quindi morte, e tutti adorano menhir, piramidi, colonne e nessuno adora balconi e balaustrate. Hai mai sentito parlare di un culto arcaico della ringhiera sacra? Vedi? E anche perch il corpo non te lo permette, se adori una pietra verticale, anche se siete in tanti la vedono tutti, se invece adori una cosa orizzontale la vedono solo quelli in prima fila e gli altri spingono dicendo anchio anchio e non un bello spettacolo per una cerimonia magica Il linguaggio degli organi Dopo essersi, dunque, sistemati in una posizione di rispetto e di curiosit tanto ferma quanto cortese, attivato il sistema di sicurezza che testi lopportunit e le modalit e la tipologia dello scambio di informazioni, che ne controlli la ricaduta ecologica, possiamo accingerci a interrogare, a chiedere un incontro. Semplicemente, se siamo dentro a un inghippo, a una trappola da cui non sappiamo uscire, possiamo chiedere se qualcuno, dentro il nostro corpo, ne sa qualcosa e vuole venire a dircene due parole. Talvolta, invece, pu essere invitato a un incontro un organo preciso, il cuore, lo stomaco, lintestino, il fegato, ma anche un arto, un dito della mano o la testa che ci pesa. Nel primo caso, il corpo che sceglie chi mandare allincontro e gi questo ha un significato e un valore. Perch ogni organo del corpo, oltre ad appartenere a quel singolo corpo, stato visto, lavorato, nominato e caricato di significati nel corso dei millenni dalle culture pi svariate in ogni angolo della terra. Si possono mai prendere in considerazione i polmoni senza valutare il significato della respirazione, dallipnosi alle arti marziali, senza ricordare che nel mondo greco ospitavano e modellavano la formazione stessa del

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pensiero, senza il corteo delle manifestazioni dolorose (e basti per tutte la fame daria), senza la notizia dello smog delle nostre citt? Al cuore, senza i riti aztechi che accorrono in frotta assieme alle canzonette damore, al fegato senza il cannibalismo e le cento locuzioni proverbiali? Alle ginocchia senza il riconoscimento latino della paternit e la tenerezza dellinfanzia maternamente accudita?

Eppure, e proprio l si colloca il giunto che permette larticolazione, quel cuore, quel fegato, quei polmoni appartengono a quel singolo, specifico, unico corpo. Su questo snodo si sviluppa la conversazione, volta volta, come dicevamo, decidendo nello schema bipolare per affondare le mani nella miriade dei punti intermedi, aprire la biforcazione per operare la scelta. Si avvia con un sussulto, un pizzicore, unimmagine, un suono lontano, un sapore: gli organi del corpo conoscono luso dei canali percettivi, sanno le preferenze della persona, decidono se percorrere strade note o muoversi in modi inattesi. Si tratta, soprattutto, di stare in attesa per cogliere il primo segnale, autosuggestione? S, certo, si pu catalogarla anche cos, qualunque evento acquista valore a seconda delle attese che vi si appoggiano. Un turno verbale dopo laltro, avviati i reciproci riconoscimenti, si svolge una vera e propria chiacchierata. Chiedo al mio interlocutore se vuole fare delle domande, se vuole sentirsi dire, se vuole delle risposte, se vuole rispondere a domande postegli. Cambia molto, evidentemente, se si va a un incontro per avere informazioni, per avere consigli, per parlarsi un poco e cominciare a conoscersi, per interrogare, per protestare. Gli organi coinvolti porranno condizioni a loro volta. Ad esempio, se lobiettivo dichiarato voler dimagrire, come si fa a non trattare la questione con lo stomaco? E come pu una contrattazione non coinvolgere la bocca e l'intero apparato digestivo, comprendendo gusto, facilit di smaltimento ma anche le regole igieniche della persona quando non le sue norme religiose o spirituali? Tante volte mi accaduto di constatare che le persone vogliono magari dimagrire ma non hanno pensato minimamente a quale sarebbe il peso giusto da raggiungere: non il peso di cui disfarsi ma quello da ottenere! Senza la definizione dellobiettivo, come si fa a sapere se lo si raggiunto? ben logico che, in assenza di nuovi ordini, si torni pi o meno velocemente allo stato quo ante.

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Accade anche, ad esempio, che una crisi di panico veda interessati diversi organi e che ci si accorga che alcuni reagiscono secondo un programma antiquato, non aggiornato. Tutta lesistenza punteggiata da regole che vanno a decadere in tempi pi o meno brevi nella scansione di fasi diverse che si susseguono. Ma un organo potrebbe non essere stato coinvolto nellaggiornamento, mantenere unansia per un pericolo non pi attuale. Esattamente come le nutrici di Shakespeare trepidanti per i loro agnellini o le madri e i padri di tutto il mondo che non sanno mai bene quando dismettere la preoccupazione per il cucciolo. Ogni comportamento che, pur incongruo, continuiamo a reiterare orientato a difenderci da un pericolo o a salvaguardare un bene importante e prezioso. Da questo presupposto, semplice (anche se non sempre facilissimo) verificare assieme lo stato dellarte, aggiustare obiettivi, condividerli, concordare le modalit pi economiche. Il nostro corpo dalla nostra parte, sempre e comunque: basta che gli permettiamo di esserlo sul serio. Assieme per dare un nome Non lo dice solo Nanni Moretti, le parole sono importanti, lo sono veramente tanto. E ogni volta sembra incredibile la potenza che dispiegano, la capacit di agganciare assieme tanti diversi livelli comunicazionali, di reificare un pensiero concretizzandolo, di viaggiare per quelle tracce inconsistenti fatte di fantasia e di emozioni, di sentimenti e di spigoli reali che laltro giorno una donna chiamava con affetto pudico assurdit: non so dirle che piacere mi fa tornare di nuovo qui a dire queste che poi sono assurdit, no? come molte altre cose, s, Giovanna, sono assurdit, cose senza senso che rigiriamo fra le nostre mani alla ricerca di un significato da attribuire. Perch poi in fondo tutto sta l, svincolare il passo da una realt stabilita e costringente, cos nota da non permettere nessun rifiato, trappola triste di cui conosciamo talmente bene tutto da non poterne trovare luscita. Diceva il muezzin, allalba di una giornata tutta nuova: fratelli, sapete di che vi parler oggi? No, rispondono i fedeli, dopo un rapido sguardo lun laltro di interrogazione. Bene, se non lo sapete e il muezzin si ritira allinterno del minareto. I fedeli, perplessi e infastiditi, attendono il momento della prossima preghiera. Si affaccia il muezzin, chiede: fratelli, sapete di che cosa vi parler oggi? S, rispondono con fervore tutti i fedeli. Bene, se lo sapete e il muezzin rientra rapidamente. Il popolo dei fedeli

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innervosito e incerto, prende le contromisure: alla prossima uscita, alla ormai celebre domanda del muezzin, met dei fedeli risponde: S e met risponde: No. Bene, conclude allora il muezzin, quelli che lo sanno lo dicano a quelli che non lo sanno, e sparisce dietro la tenda. La magia della parola, della conversazione, della relazione umana sta proprio nellaver bisogno dellaltro per la pi piccola frase che non si perda nellinfinito ma venga accolta dallaltro, modellata, restituita cos tanto trasformata da farci salire il cuore in gola, cos tanto uguale da farci raggomitolare tranquilli: il rapporto c, io esisto perch un altro mi ha riconosciuto, non mi ha fatto da specchio indifferente. Esisto nella dinamica del rapporto, tessuto dalla parola. Se so gi tutto di un argomento, di una situazione, di una persona, se non ho nulla da aggiungere, se non c alcun bisogno, alcun desiderio, nessuna aspettativa che attenda, come si pu avviare una relazione? Ma, in termini assolutamente speculari, devo pur avere un sapere in comune, una qualche condivisione che mi permetta di entrare a conversare, appunto, assieme, distinti per poter spartire uno spazio unico. Il razzismo, prima di ogni altra considerazione etica e civile, sostanzialmente stupido perch sono infinitamente di pi le cose in comune fra tutte le etnie e le aggregazioni umane rispetto agli elementi che le differenziano. Ma razzismo pericoloso non solo quello di rifiutarsi di accedere al palesemente diverso, il razzismo pi violento quello di chi vede e predica luguaglianza e ne imbocca la strada con bella e superficiale baldanza e poi, al primo crac della diversit, si infuria, si sente tradito, imbrogliato. Un bambinello nero adottato in Europa deve fare subito i conti con la sua diversit: la sua pelle ben visibile, si parte da l. Ci sar certamente la discriminazione ma dichiarata, esplicita. Da l si imposta il superamento. Un piccolo russo o albanese, invece, biondo e con gli occhi chiari, potrebbe essere scoperto solo in un secondo momento e allora la reazione scatta violenta, nutrita dai buoni sentimenti che abbiamo appoggiato sullaltro senza chiedergli il permesso. Il linguaggio comune fra colleghi si asciuga rapidamente in gergo, diverso dal gergo dellaltra scuola di pensiero. Ma gli altri sono diversi e lo si sa, chi partecipa del nostro gergo e ne d una lettura differente o non ortodossa, un traditore. Chi si vanta di essere laico, non si premunisce contro il rischio di diventare bigotto (e bigotti lo siamo un po tutti, magari ciascuno venerando un dogma diverso!) e, non prevedendone la possibilit,

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come se fosse amputato della parola, del concetto stesso. Chi credente, almeno in qualche angolo custodisce lidea del bigottismo, ne avverte il sapore ridicolo, in ogni caso sa che esiste, lo nomina, lo pensa. Poi, laico e credente, lo riscontrano soprattutto negli altri, sia pur con sfumature e linguaggi differenti, contrapponendolo alla vera fede o al vero esercizio di religione o al vero credo politico o alla vera espressione di civilt. Che naturalmente quella che abitano. bigottismo o coerenza non comprare pi il pane dal solito (bravissimo) panettiere perch espone da bravo leghista la statuetta di Alberto da Giussano? Si pu andare a vedere uno spogliarello a Parigi o Londra? uno spettacolo come un altro e non vale la pena di annoiare gli amici o invece bisogna difendere anche in quelloccasione il principio fondamentale che il corpo della donna non deve essere in vendita? E di miss Italia, che farne? un antiquato e patetico reperto paesano su cui sorridere come per il festival di Sanremo o va condannato? E lo spogliarello maschile, triste, penoso, miserando oppure si pu farsi una serata ridanciana con le amiche commentando grassamente le esibizioni proposte? E se riprovevole, perch invece politicamente corretto (nellintero arco parlamentare) il bellissimo Full Monty? E i giochi per computer possono prevedere delle bombe giocattolo? un insulto alla tragedia (veramente troppo presente, in termini e qualit fino a poco tempo fa inimmaginabili) della guerra? Ma non rischiamo, poi, sostituendoli con i fiori, di espellere la violenza anche dai giochi? Una mamma democratica aveva proibito i giocattoli di guerra ai suoi bambini e loro usavano le dita al posto delle pistole, c chi ha detto: lasciate le armi ai bambini in modo che memorizzino bene che la violenza un esercizio dei piccoli e che, da grandi, ne sappiano fare a meno. Amplificare la giustissima campagna contro i maltrattamenti degli animali fino a chiamare assassino chi uccide le foche? Al festival della letteratura di Mantova del 2003, ambiente sommamente democratico e politicamente corretto, un ragazzo riferiva, critico, di un certo signore che non aveva voluto firmare un appello animalista ma aveva, per, dato del denaro a degli extracomunitari! E per entrare di forza ad ascoltare Gino Strada e Lella Costa a un incontro per costruire la pace, molti ragazzi rimasti esclusi dallesaurimento dei biglietti hanno aggredito violentemente gli organizzatori che hanno dovuto richiedere laiuto delle forze dellordine. Ragazzi assolutamente contrari a ogni forma di violenza ma che non potevano tollerare di restar fuori e non esserci dove si parlava contro la guerra.

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A ogni scansione, dobbiamo guardarci le spalle: siamo tutti di mentalit aperta e, diamine, libertari ma pur sempre rilevante il consenso del gruppo dappartenenza. Consenso sufficiente a non esserne espulsi ma non tanto da vincolarci, gioco complesso di equilibrio ed equilibrismi spesso non dicibili. Perch lappartenenza sembra necessaria, occorre che gli altri ci sappiano riconoscere, dal vestire, dal linguaggio, dai tratti del viso, dal mestiere, dalle idee. E se siete a casa damici e un altro invitato le spara grosse su argomenti per voi effettivamente molto importanti, che fate? Vale di pi il rispetto dellamicizia per cui non si litiga con linvitato del padrone di casa oppure certe affermazioni non vanno lasciate passare, mai? E se siete a casa vostra, smorzate i toni o prendete posizione? Pi esplicitamente, a quale religione date la prevalenza? Al culto dellamicizia? Della buona educazione? Della franchezza a ogni costo? Dellapostolato civile e politico? A seconda di quale sceglierete, sceglieremo, ci diremo: beh, questo troppo e ci comporteremo di conseguenza. Fedeli o militanti pi di questo che di quello e fieri di essere spiriti autenticamente liberi. Dalla diagnosi alla significazione Questo anche uno dei pericoli della diagnostica: un assetto di parole che inquadrano e definiscono, tracciano i confini, un esercito di Procruste in camici bianchi. Il pericolo della diagnostica usata malamente la sua evidente credibilit, la sua capacit di quietare langoscia emettendo un affidabile verdetto corredato dalle istruzioni per luso. Lentamente, da quadro lucido e rassicurante nellambito del quale si apre la collaborazione, la diagnostica si sposta a costringere lattivit stessa del pensiero del clinico. Come lexpertise, che un tempo apparteneva al dominio dellocchio dellesperto, era un gesto discrezionale e in quanto tale proprio dellesperto, e oggi divenuta una caratteristica delloggetto da esaminare. Una caratteristica riscontrabile, verificabile, che si pu trovare. Basta cercarla. Certo, qualunque disagio pu essere catalogato, riconosciuto, identificato, ovvio che si pu. Troppo spesso, per, deprivandone la persona che diviene accessorio, essenziale daccordo, ma accessorio comunque, del disagio. La persona che slitta a divenire portatore di disagio, cui viene sottratta limprescindibile angoscia della domanda del che cosa farne, di questo disagio. Di che significato dargli, di come situarlo nel proprio pensiero. Non di disinnescarlo o di risolverlo come fosse un teorema.

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Credo che il cercare di ridurre, di semplificare, di generalizzare siano operazioni che facciamo tutti: di continuo, e saggiamente, perch ci permettono di continuare a vivere. Chi la fa troppo lunga, chi si interroga permanentemente sul senso di ci che fa, chi cerca il pelo nelluovo o pretende la perfezione, la chiarezza esaustiva, la completezza rifinita: li conosciamo, ci esasperano, cerchiamo di tagliar corto, guardiamo altrove, con impazienza ci sostituiamo nel lavoro. Tranne, evidentemente, quando siamo noi a riflettere pensosi. Un mio amico, fisico, era stato chiamato al servizio militare e il capitano gli aveva ordinato di stare di sentinella con la punta degli scarponi che doveva sfiorare quella striscia l, sul terreno. Il mio amico si rivolge deferente al capitano attraverso gli occhiali da studioso: s, signor capitano, ma la striscia ha un suo spessore. La punta degli scarponi deve toccare il bordo interno o quello esterno della striscia? Il capitano si agita, si riunisce con altri ufficiali per riflettere sulla risposta da dare e, dopo un po, esce dalla stanza e gli cambia lordine. quello che fanno tutti i nostri figli quando, al momento di sparecchiare o di portare gi la spazzatura, vengono assaliti da dubbi esistenziali o da riflessioni urgentissime sul big bang o sullaldil. ovvio che continuamente per poter agire occorre concludere il pensiero, semplificarlo in uno schema, porsi un limite, un termine allargomentazione ma occorre ricordarsi, una volta avviata lazione, di riattivare lintera complessit del nostro riflettere. Azzerando il processo di semplificazione appena concluso per, a mente fresca, rivolgersi al progetto della nuova azione e, se del caso, applicare ancora, ma come fosse la prima volta, la ristrettezza della riduzione, del riassunto. Perch, invece, se procediamo spediti di semplificazione in semplificazione, ci troviamo a una banalizzazione del pensiero senza neppure accorgerci, o ricordarci, che quella realt cos chiara labbiamo ottenuta qui tagliando, l spostando, cancellando lo sfondo o amputando particolari e dettagli. E adesso quella realt cos ben definita, chiara, convincente che certamente vera. Anche tutti gli altri non possono che convenirne. Le persone che si rivolgono a noi che ci dichiariamo terapeuti vengono gi con una realt ben precisa. Tuttal pi con diverse versioni e pareri ma si sa che questa cosa c ed immodificabile, altrimenti lo sarebbe gi stata. La diagnostica usata con goffaggine, ricopre di un nuovo nome, molto pi bello e nobile e scientifico, la grossolana creazione che ci viene portata ad esaminare. E lonere dellexpertise passa velocemente dalle sue mani alle nostre. Se

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sappiamo darle un nome, riconoscerla, sapremo bene anche cosa farne di questa cosa. Ed ecco che laltro si adagia sulla poltroncina, si rilassa, il compito suo lha gi fatto portando il sintomo s che, quando lo chiamiamo in causa a lavorare con noi, fra stordito e confuso, non sa pi che cosa vogliamo ancora da lui. Da una banalizzazione allaltra, diventiamo pedagogisti pazienti e spieghiamo con condiscendenza che abbiamo bisogno del suo aiuto, in fondo sono cose che lo riguardano, no? e, poi, ci facciamo moralisti edificanti: non creder mica che si possa uscire da questa situazione senza faticare un po? e magari, visto che ci stiamo, anche soffrire poich senza lacrime e sangue non c cambiamento. Che invece, e qui siamo fermissimi, ci che dobbiamo cercare e ottenere. Ma il punto che a me interessa di pi il significato da attribuire a quella congerie dolente che costringe e immiserisce la vita del mio interlocutore. E il significato non mai stabilito una volta per tutte. Come per i fedeli del muezzin, non vero che non so nulla di ci che mi ha raccontato, ma ugualmente vero che non ne so tutto. Soprattutto, non so quale significato ora, in questo luogo, pi opportuno attribuirle. Ne so perch ne ho studiato, ho visto altre situazioni sorelle, conosco linquadramento diagnostico, altri colleghi mi hanno riferito il loro modo di approcciarla. Ma la prima volta che mi trovo ad affrontarla con quella persona l e dunque non so che cosa per lui. Sostanzialmente, per, so fare il capo carovana, so come si riconoscono le piste nel deserto, quanta acqua portare con s, come vestire e dove troveremo loasi pi vicina. Posso aiutarlo nel muoversi assieme. Nella delicata e appassionante ricerca di un significato da attribuirle, vengo a conoscere alcune sue reazioni, mi racconta emozioni e sentimenti, impostiamo un abbozzo di linguaggio in comune. Non so cosa avvenga dentro laltro ma dentro di me si affastellano pensieri, ricordi, associazioni cliniche, letterarie, frammenti di leggende, Edipo e Pollicino rincorrono le divinit azteche. E semplifico, riduco, scelgo per costruire la prossima frase o per spostare il mio luogo dascolto.

La costruzione di un senso, di un significato utilizzabile forse loperazione pi importante dellintero nostro lavoro. Lorgano coinvolto pu risultare interessato in quanto organo bersaglio e offrire una lettura sintonica alla sua funzione (dita anchilosate di un

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musicista che servono a impedirgli di suonare e cercheremo il perch mai non deve pi suonare o quale, pi precisamente, sia il divieto) oppure, e capita spesso, lorgano coinvolto stato interessato esattamente come fosse un foglio bianco, su cui vergare con precisione e pulizia un messaggio chiaro. Gli organi del corpo si prestano a collaborare anche in quanto intatti, privi di segnature precedenti. Un discorrere fresco da avviare con spregiudicatezza. Come, anche, per lorgano bersaglio, si pu elicitare la personalit pi disposta a un interlocuzione sensata, che dia significato. Che debba valere e valga per oggi, solo per oggi, a ogni volta basta la manna che c, ma non la si pu conservare.

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Flash

La Locandiera

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Alla stazione di Trento S, ero alla stazione di Trento, stavo per prendere il treno per tornarmene a Milano. Avevo concluso un ciclo di seminari, sedevo impigrita sulla panchina, in attesa del treno. Che tardava. Cera gente, movimento di borse poggiate e poi spostate, di cellulari impazienti, ragazzi che ridevano, gli sci tenuti con noncuranza spavalda. Alzo gli occhi dal libro, mi scosto per far posto a un giovanottone che parla tedesco con voce assertiva, mentre torno alle pagine colgo un quadretto carino: una giovane mamma, la coda di cavallo, lo zaino sulle spalle, un bambinello ricciuto in braccio di qualche mese, una borsona con rotelle ai piedi. Vicino, sua madre, gli stessi occhi, gli zigomi alti, la pelle abbronzata da montanara, tiene in braccio unaltra bambinetta, di forse due anni. Chiacchierano, scherzano, trattengono i bambini che si vogliono buttare gi dalle braccia o che hanno assolutamente bisogno di bere, ora, proprio ora, alla fontanella. Le guardo un po, mi distraggo ancora sul mio racconto. Laltoparlante avverte ulteriore ritardo del treno, brusio sulla banchina poi ci si adatta, tantoma non tutti. No, la madre della ragazza entra improvvisamente in agitazione, restituisce vivamente la piccola alle braccia della figlia che gi tiene laltro bambino, affrettatamente Sai, devo raggiungere tuo padre, l sulla piazza della stazione che aspetta in macchina, ciao, cara, fa buon viaggio e, lesta, scende le scale, sparisce, riemerge al di l dei binari, la vediamo spingere le porte a vetri, uscire del tutto. La figlia resta un po perplessa, ma poi neanche tanto. Avvicina con i piedi la borsona a una panchina, ci poggia sopra in piedi la bimba mentre cerca di quietare il pi piccolo che comincia a innervosirsi. Finalmente arriva il treno, raccolgo per lei la mano della bambina e un manico della borsona, saliamo e poi ognuna va a sistemarsi al suo posto. Fine della scenetta. E non stato un gran dramma. Per, in treno il pensiero comincia a raccogliere qui e l ricordi, mini riflessioni, immagini. Che sempre hanno al centro una donna, come se fossero le donne a essere costrette a scegliere. O, forse, pi banalmente, da donna colgo pi facilmente queste strettoie. Perch mai quella madre, affettuosa, in buoni rapporti con la figlia, ha dovuto abbandonarla l, allultimo minuto? La ragazza era in buona salute, i bambini bellissimi, tutto si risolto al meglio, nessun dramma. Eppure, comunque laveva accompagnata alla stazione, comunque si era soffermata con lei sulla banchina. Ma poi, a un certo punto, prevalso il timore, di che? Se il marito (e padre) aspettava sulla

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piazza, bastava fare un salto ad avvertirlo del ritardo, che problema cera? Perch noi donne siamo cos timorose dei contrattempi che potrebbero disturbare il nostro uomo? Oppure, cos irritate da questo timore da contro reagire trascurandolo deliberatamente e vistosamente? Una donna, professionista, colta, alternativa, con figli grandi, mi dice: perch non posso avere il coraggio di chiedere a mio marito di fermarsi a una stazione di servizio sullautostrada se devo fare pip? Perch devo avere paura che sbuffi o che stringa le labbra o che non mi parli pi per tutto il viaggio? Gi, perch mai? Ma, anche, perch mai deve essere cos importante per un uomo una questione come fermarsi sullautostrada o aspettare in auto su una piazza? Bisogner ragionarci meglio, una volta o laltra, ce lo eravamo ripromesse tempo fa con una giornalista durante una trasmissione, perch le donne sono cos atavicamente, sembra, timorose del malumore delluomo? Che, a buon bisogno, inducono proprio sogguardandolo con questo irritante timore negli occhi: chi non ne resterebbe infastidito? Usiamo voci querule, frasi scelte con cura, introduciamo una tensione ansiosa che ha regolarmente la giusta risposta dello scoppio dallaltra parte. Ma quello su cui riflettevo della scenetta alla stazione non era tanto questo aspetto quanto linevitabilit della scelta. Quella madre, quella nonna, comunque ha dovuto scegliere. Non perch doveva aprire il suo negozio, perch la sua classe o il suo ufficio o i suoi clienti la aspettassero, perch chiudeva lanagrafe o il banchetto del mercato. Mai per s. La scelta era fra due amori, fra due doveri damore, la figlia e il marito. Mi posso immaginare facilmente la trattativa per accompagnare figlia e nipotini alla stazione ti aspetto qui dice il marito (perch non parcheggia e non aiuta anche lui? Una donna lavrebbe fatto) e gi questa frase, ti aspetto, una clessidra che comincia a scorrere. Probabilmente, molto probabilmente, senza che neanche lui labbia voluto ma unabitudine che si venuta strutturando, nel tempo, chiss come. Fatto sta che la signora ha un buono per un tempo dato, con un margine derrore, certo, e dentro quel tempo tranquilla, si gode la figlia, in regola. Ma il treno ritarda una volta di troppo (rispetto a che?) e lei deve, deve fare come se avesse gi concluso il suo compito affettuoso. Infatti, scende le scale tranquilla, in pace, non corre n si agita n si gira a salutare. Lei, la figlia lha accompagnata e ora torna dal marito. Quante volte, in famiglia, accade di trovarsi in questa trappola? La scelta fra marito e figli ma

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su questioni di una assoluta banalit, non sulla scelta della scuola o sulluscire la sera o sulla sparizione di una somma di denaro, no, su forse dieci minuti, quindici al massimo, in una mattinata di sole, n Ferragosto n Natale, un mercoled qualunque. Mi sembra che, nella grossolanit di qualunque suddivisione, le famiglie si possano riunire in due categorie, quella in cui ci sono dei genitori che stanno in coppia e quella in cui una coppia si occupa genitorialmente dei figli. Nella prima, gli adulti si appoggiano (o si contrappongono) lun laltro nei confronti dei figli: liti, discussioni, accordi, riti e trasgressioni riguardano la gestione dei figli. Il loro stare in coppia giustificato e reso significativo dalla presenza dei figli. E, tutto sommato, una categoria molto riconosciuta socialmente, politicamente corretta. Nellaltra categoria, la coppia in primo piano e il rapporto con i figli passa attraverso la realt della coppia che predomina. Meno apprezzata, non piace tanto socialmente un rapporto franco di coppia, induce sorrisetti e qualche ironia e poi in questi nostri tempi in cui di bambini se ne fanno pochi, devono essere loro il valore primo da custodire e da preservare. Un compagno, lo si trova sempre.

Evidentemente, ogni categoria racchiude dei costi e offre vantaggi netti, non saprei farne una valutazione definitiva. Forse, si pu immaginare una articolazione fra le due, un alternarsi in sequenza ai diversi momenti della vita della famiglia stessa. Una cosa si pu dire: anche queste categorie sono a scadenza, vale per loro la regola delle mozzarelle! Grande saggezza quella di Valeria, madre di due gemelli, che a unaltra madre in attesa, ansiosa di suggerimenti diceva: guarda, strilleranno per mangiare tutti e due allo stesso momento. Tu non ti preoccupare, da il seno a chi vuoi, a una sola condizione: che non sia mai lo stesso!

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Bustine tonde per il the Quando ci sentiamo, Umberta mi chiede sempre: e come vanno le bustine per il the? Le raccontavo, infatti, di questo progetto di nuovo libro e che avevo in mente di cogliere spunto da alcuni piccoli eventi quotidiani, dei flash, appunto. Per esempio, dicevo, laltro giorno ho fatto la spesa al supermercato e avevo preso una confezione in offerta di bustine per il the. Non ci avevo fatto molto caso ma, tornata a casa, mi sono accorta che le bustine non avevano la solita forma quadrata ma erano tonde. Da qui, ho capito dopo, lofferta, era un lancio. Lancio di bustine tonde, e perch mai? Ragionavamo, con Umberta, ma perfino le bustine per il the devono essere private di spigoli, quasi dovesse essere eliminata ogni minima rudezza, tutto farsi rotondo, inoffensivo? Cos le auto, cos il toast, sfuggiamo gli spigoli un po dovunque. E ancora, sfuggiamo le asprezze. Mi diceva un dentista che i bambini di oggi hanno un palato che si restringe perch non sono pi abituati a masticare cibi duri. Penso alla crosta di parmigiano che, resistente e sapida, davamo ai piccoli per alleviare il tormento dei dentini che spuntavano. Mi accorgo dei mille e pi accorgimenti che nel vivere quotidiano ci sollevano dalla fatica pi banale, telecomandi per non alzarsi a cambiare canale, per non scendere ad aprire il cancello, per non dover azionare linterruttore del ventilatore. Preoccupazione da moralista? No, non inneggio certamente alla fatica, non ho nostalgie pre industriali, ricordo il bucato steso sui campi ma ritengo la lavatrice una benedizione e la luce delle candele un gioco romantico. Amo il computer, lemail, trovo affascinante questa ricerca scientifica che si moltiplica in rivoli inimmaginabili solo ieri, mi appassiona e mi incuriosisce lavventura che esplora spregiudicatamente. Solo, mi mette in pensiero un messaggio complessivo che ne risulta, di una protezione da qualunque sforzo come dovesse essere risparmiato a persone troppo deboli e delicate che non lo sopporterebbero. E ho limpressione che i ragazzi di oggi siano espulsi dal loro stesso corpo, che non vi abitino pi. Provo a spiegarmi. Allanoressia e alla tossicodipendenza, con cui conviviamo ormai da decenni senza, mi sembra, averne saputo cogliere pienamente il segnale, si stanno aggiungendo fenomeni integrativi come il tatuaggio, il piercing e, pi drammatica, lautomutilazione. Come dire, che, oltre agli abituali comportamenti che sanciscono il gruppo come referente fondamentale dei ragazzi,

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il vestiario, il linguaggio, gli amori per musica e tecnologia, c anche un uso del corpo che sta diventando se non preminente molto rilevante. E il corpo viene raggiunto dallesterno e attraverso il dolore. Questo mi preoccupa e mi allarma. Come se i ragazzi dovessero ritrovare il loro corpo principalmente per come appare e come se lingresso a questo corpo fosse permesso solo infliggendo sofferenza. Non la sofferenza interna che si esprime nel corpo ma la sofferenza che informa che il corpo c. Scarnificando una ferita, impedendole di cicatrizzarsi e di guarire, procurandosi attraverso il dolore una percezione certa dellesistenza. Una bella descrizione dellinvadenza materna il famoso scambio di battute fra madre e figlio: metti un golf che prendi freddo, ma io non ho freddo, ti dico che fa freddo! Linsegnamento originario a non fidarsi delle proprie percezioni che sono fallaci, insicure, meglio, molto meglio fidarsi di quelle materne, lei lo sa. Analogamente, i ragazzi che mi dicono: chieder a mio padre che cosa scegliere alluniversit, lui mi conosce. Un giovane, un giorno, mi diceva addirittura che avrebbe sottoposto la scelta della sua compagna al padre perch lui sa che cosa va bene per me. Certo, c anche la cura del corpo, diete, ginnastica, body building, stretching eccetera ma anche qui forse pi accentuata lattenzione a modellare dallesterno il proprio corpo forzandolo a un modello desiderato piuttosto che ad abitarlo dallinterno e sentircisi dentro, padroni e protagonisti. Soccorre, spesso, il rivolgersi a dottrine e discipline di carattere mistico o religioso. Yoga, massaggi shiatsu, meditazioni, arti marziali, una ricerca dellOriente che non mi sembra pi quellavidit iniziale di conquista e di conoscenza che comunque veicolava un messaggio vitale. Ora, forse mi fa velo let, ma sa pi di rifugio, di protezione, di riparo, assieme ad altri, aggiungendo il proprio corpo al corpus della disciplina. Evitando, con il prevalere del bianco, pensieri e comportamenti rossi o altrimenti colorati, emozioni dissonanti, crude, aspre, in qualunque modo forti che vengono come dissociate, dimenticate al di l del lucente plexiglas dellarmonia. S che non stupisce linsorgere di quelle che i giornali chiamano improvvisi raptus di violenza. Uno skin head era un buddista fervente, un animalista militante venne un giorno a raccontarmi scandalizzato di aver raccolto un piccione ferito, di averlo curato ma se prendeva chi lo aveva ferito lo avrebbe ammazzato. Ma la misura delle proprie emozioni, dellarticolazione e dellinterazione fra diversi pensieri, della scelta conflittuale profondamente

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connaturata al corpo. I piedi enormi degli adolescenti, quelli che ancora non si sono accorti di avere, che sono cresciuti allimprovviso e che li fanno inciampare letteralmente a ogni pi sospinto, sono anche strumenti di misura con cui valutare le dimensioni del mondo. E cos le trasgressioni devono poter essere calibrate, governabili, proprio per permettere lapprendimento della misura che traghetta verso let adulta, premiando leccesso adolescenziale e dandogli spazio senza impedire il graduale accostarsi a una crescita compiuta. Una cosa rubare il sellino di una bicicletta (deplorevole ma una ragazzata su cui sorridere) tuttaltro ritrovarsi improvvisamente con un coltello in mano nel cortile della scuola. E constatare che quella ragazzina, compagna di scuola, ormai morta, ferita da quel coltellino come avesse agito da solo. Un conto prelevare dal portafoglio dei genitori, tuttaltro doverli uccidere. S che continuiamo con angoscia a sommare vite giovani interrotte e stravolte, faccette lisce trascinate in galera, come stordite da eventi strani, ragazzi invecchiati prima ancora di essere diventati adulti. Non so se sia la strage degli innocenti, non abbiamo bisogno di trovarli innocenti per rivendicare i nostri figli. Come mi vesto oggi? Diceva il titolo di una commedia teatrale di qualche tempo fa: Sta arrivando la rivoluzione e non ho niente da mettermi. Non un caso che fosse una donna, e spiritosa, a interpretare la pice, un uomo avrebbe indossato virilmente gli abiti di sempre. Forse, chiss, il pensiero maschile che ha informato di s un periodo cos (esasperantemente) lungo, potrebbe iniziare a lasciare il passo a un pensiero di marca femminile. Non femminista, che ne stata ledizione militante, appassionata e innovativa ma che, nonostante lentusiasmo travolgente della sua stagione, risultata nei fatti sostanzialmente sterile, incapace di radicarsi nelle generazioni successive. No, femminile, un pensiero della donna che non nasca da una reazione o contrapposizione a quello delluomo ma prenda le mosse semplicemente da s. Magari, e perch no?, riassumendo come propri caratteristiche o spunti che ci sono stati usati contro per millenni. Senza negarli ma indagandoli come propri. Da sempre, ad esempio, ci viene rimproverata la doppiezza, lincoerenza, labilit di mentire, cui risalirebbe la nostra scorretta capacit di attrarre e sedurre. Eterno femminino, dicono, e dichiarano incomprensibile il nostro modo di fare in quanto non logico, non razionale, istintivo, uterino. Ma come ragioni?, si

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spazientiscono intendendo: perch ti rifiuti di ragionare? se, nellargomentare, ci si discosta da una linea tracciata (non vien detto lineare un ragionamento che convince?) giustapponendo magari un frammento di unaltra disciplina come esempio o suggestione di pensiero. Non divagare, non confondere le acque, resta al tema, mi fai perdere il filo. E, anche, linsofferenza per quel tipico stile femminile di pensare contemporaneamente a pi di un problema o di un progetto. Che, se lo fa Napoleone dettando sette lettere allo stesso tempo o un giocatore di scacchi che governa venti tavoli in contemporanea, allora si parla di genio, di mente superiore. Se una donna mentre si reca al suo studio compra il pane o allunga il percorso per portare a scuola dal figlio il certificato di vaccinazione, se uscendo per andare al cinema si ferma in tintoria, questo le sembra un modo pratico di rispondere a necessit che, per essere in s varie, non pretendono, per, di essere incompatibili. Il suo compagno non avr pi che tanto da dire a patto di non essere coinvolto, al massimo nella funzione, eventuale, di autista passivo, tollerante con cristiana rassegnazione, ma provate a chiederlo a lui di ritirare un pacco che di strada per il suo lavoro, di alterare sia pur di poco litinerario su unesigenza improvviso, di fare una sosta non prevista, di modificare una sequenza in corso: si confonde, si infastidisce. Non per la cosa in s ma per la repentinit della richiesta, per il suo non essere stata programmata, preannunciata. Ora, al di l degli screzi minuti e tutto sommato talmente scontati da ricamare sempre gli stessi ghirigori sulle riviste, potrebbe essere che il modo femminile di pensare contemporaneamente pi registri, di guardare al mondo con occhi come di mosca sia anche un vantaggio, unopzione di un qualche interesse? Potrebbe essere che il ragionare saltando di palo in frasca, come si dice, sia anche un diverso modo di stabilire delle connessioni, di sperimentare accostamenti inediti? Si possono, insomma, cucinare le melanzane o i peperoni con la cioccolata, come in certi piatti straordinari meridionali o sudamericani? Anche quando si ragiona, anche quando si discute? Laccostamento imprevisto deve essere apprezzato (o tollerato) solamente in ambito artistico? Siamo sicuri che la razionalit voglia essere coniugata solo con discorsi che filano, con percorsi che partono da un punto dirigendosi schiettamente verso una conclusione l davanti? Perch mi sembra che anche noi donne condividiamo, nella sostanza, questa idea, che il pensiero, quello vero, solo di marca

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maschile, lucido, lineare, dimostrabile. Alle signore la funzione di renderlo vivibile, sopportabile, addolcendolo con affettivit e fantasia. Ma andiamo, non sembrano delle grosse sciocchezze? Veramente ancora pensiamo che razionalit sia una linea di ragionamento e non, magari, una rete che abbraccia uno spazio tracciando connessioni e articolandole verso il vuoto, veramente ancora pensiamo che occorre ripartire ogni volta dal dato storico per intravedere che cosa vogliamo pensare delloggi e del domani, veramente il senso di un futuro che non c custodito nei pensieri di un tempo passato? Veramente, insomma, crediamo ancora nella distinzione fra razionalit e fantasia, pensiamo che il giudizio non debba essere contagiato dallemotivit, valutiamo ancora indispensabile unobiettivit di cui per tutta la nostra vita abbiamo verificato linconsistenza? Ancora distinguiamo fra materie scientifiche e umanistiche? Penso che s, penso che ancora siano questi i nostri riferimenti, sento le donne con cui lavoro (donne grandi e belle, studiose, docenti, imprenditrici) asserire con certezza che il pensiero maschile, qualcuna mi ha detto che sente maschile anche lutero. Penso che facciamo fatica a immaginarci responsabili in proprio di ci che pensiamo e vogliamo, penso che non sentiamo il diritto di intrecciare liberamente riferimenti culturali prelevati da ambiti differenti, penso che abbiamo timore di uscire da categorie che sentiamo consunte ma che, pure, in altri tempi, hanno garantito sicurezza e stabilit. Penso che ci protendiamo a sfiorare il bordo delloggi agganciati a forme di pensiero di cinquantanni fa, incapaci di scioglierci, forse nel timore di perdere il senno. Abitiamo il nostro tempo come turisti, cercandovi con ansia i riferimenti di ci che conosciamo gi, incapaci di esplorarlo con generosa e spregiudicata curiosit: rattrappiti fra lansia e la nostalgia, aspettiamo di ritornare nel conforto di una casa che non c pi. Ma che continuiamo a raccontarci, coprendo il mondo reale con la diapositiva della nostra infanzia custodita e sicura. Donne e uomini, stretti nel ribadirci lun laltro la certezza che abbiamo ragione, infelicemente raccolti in una stasi che scambiamo per fermezza nel tentativo disperato di evitare linfelicit.

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Comprare un bambino? Beh, per noi del ricco primo mondo queste sono frasi che sconcertano e scandalizzano: andiamo, un bambino, un essere umano, non ha prezzo, non deve averlo, non pu averlo. E chi fa di queste cose persona inqualificabile, anzi, signora mia, proprio non riesco a comprendere come una madre possa vendere suo figlio! Posso capire il desiderio generoso di dare una famiglia, di donare un po di gioia a un piccolo sfortunato ma vendere un figlio, come mai si pu farlo? Come ci facile definire con nettezza colpe e doveri, come facciamo in fretta noi giusti a stabilire le norme di una convivenza civile, di pi, pienamente democratica. Come ci tutto chiaro, fortunati noi. Ma ora non mi interessa tanto ripercorrere il quadro notissimo e dolente della sopraffazione violenta e spietata sui pi deboli da parte di chi, come noi, ha la forza per farlo: piuttosto vorrei cercare di cogliere quel confine sfuggente che segnala il limite fra diversi livelli e contesti logici s che unazione impossibile da immaginare ad un livello si propone come sensata a quello adiacente o solo un po pi in l. Ponendo serissime questioni di etica che, scacciata da un contesto, si ritrova pellegrina nellaltro. E torniamo pure a una adozione, prescindendo per un attimo dalla realt spaventosa del commercio, della pedofilia, dei piccoli disarticolati per fornire organi freschi a degli altri bambini. No, pensiamo per un momento a una coppia (pi politicamente corretto non si pu!) magari affiatata, magari anche benestante che sinceramente desidera un figlio in casa e desidera dare una casa a un figlio altrui. Organismi, associazioni internazionali, enti pubblici e privati, ce ne son tanti, la normativa nellintento di farsi sempre pi rigorosa va acquistando una pesantezza burocratica che, nellidea di prosciugare lillegalit, rischia di suscitarla nuovamente. Occorre tempo, molto tempo, esami, denaro, disponibilit: per un figlio si fa, si deve fare. Secondo criteri che fatalmente rischiano di trasformarsi in un prolungato e ripetuto giudizio moralistico sulla tenuta dei due che vorrebbero diventare genitori: bisogna meritarselo, un premio grande, non lo si pu vincere gratis. Forse innestato dalla necessit di un iter controllato nei dettagli, forse originato autonomamente dal contesto sociale, c il pensiero che senza lacrime e sangue non si va da nessuna parte, che tutto va pagato nella vita, che ci che si conquista a fatica la conquista pi bella, lunica che vale. S che la donna che partorisce con un

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sospiro in due ore non si sa bene che madre poi sar, meglio, molto meglio quella che si squartata in lunghissime ore se non giorni di travaglio. E vuoi mettere lamore che sapranno dare a un bambino due che sono passati attraverso una trafila estenuante, senza cedere, senza titubare mai? Basta guardare quante ragazze un figlio ce lhanno avuto e lo danno via, questa giovent doggi. Talvolta accade perfino che il desiderio di chi vuole adottare un bambino venga rinfacciato come una accusa infamante. Cera una coppia giovane, sana, ben amalgamata, con un buon lavoro sia lui che lei, lassistente sociale chiede: dunque perch mai cercate unadozione? E alla risposta, per completare una vita gi pi che soddisfacente, c un inalberarsi stizzoso che si riflette in una relazione tecnica negativa, figuriamoci se un bambino deve servire a completare la vita di questi due, un bambino ben altro. Qualunque desiderio pu essere capovolto in un bisogno, qualunque bisogno pu indurre compassione solidale o rifiuto moralistico. La coppia che si sottopone alla cosiddetta fecondazione assistita ha diritto alla compassione solidale ma bene che soffra un po, che non abbia successo subito, vorr pi bene e meglio al figlio che finalmente arriver. Pagato, in denaro, ansia, sofferenza, delusioni, sconforto, tenacia. Pagato come equivalente di meritato. Mi sa che noi in Italia abbiamo un rapporto con il denaro che non poi tanto trasparente. Non abbiamo una tradizione di benessere consolidato che ci abbia permesso di sviluppare unidea alta del denaro, la persistenza di un cattolicesimo disgiunto dallevoluzione socio culturale rattrappisce il nostro pensiero sul denaro in una dicotomia immota: sterco del demonio e contemporaneamente segno di successo. Ma, nonostante le lotte operaie e laffermarsi del lavoro come elemento costitutivo della persona (perfino per le donne, anche se non ancora chiaro se hanno unanima!) il denaro guadagnato non riesce a cogliere lo status del denaro ricevuto dagli avi. Il denaro guadagnato serve a essere speso per vivere ma contingente, non ha un valore che si rifletta sul proprietario. Siamo ancora impregnati di una mentalit da sudditi, affascinati dal potere del signore o signorotto che sia, il denaro, certo lo usiamo ma non ci pu garantire il riconoscimento di uno status sociale effettivamente alto. Abbiamo ancora nellorecchio ladagio che ogni grande fortuna prende origine da una sopraffazione e da una violenza di rapina eppure i signori restano signori, lor signori ci sono ben noti se possiamo irriderli nella satira sociale. E ai signori guardiamo, perch sono colti, sono raffinati, sono snob, mettono

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lorologio sopra il polsino come faceva Gianni Agnelli, loro, i signori, s che sanno come si vive. Allora, per noi che non possiamo, al denaro che d status contrapponiamo gli affetti, laffettivit. In un eterno gioco di pendolo, le classi sociali si evolvono, i figli studiano, impariamo a stare a tavola, a non fare chiasso, le nostre mani si affinano cos come il nostro linguaggio. Ed allora che andiamo a cercare la spontaneit, la naturalezza, i bambini che giocano facendo rumore, la bellezza di un parlare non artificioso, il vestire senza ricercatezza. Ma l, il denaro deve essere poco, la sommatoria con gli affetti deve restare a somma zero, quantit inversamente proporzionali. Perch anche i signori possono amare, ma in modo composto, possono soffrire ma con il contegno adeguato. Siamo noi al di fuori del giro stretto di quelli che contano che possiamo abbracciare con foga o strillare o ridere, noi un tantino dozzinali oppure quei popoli magari colorati di scuro o di giallo che usano manifestare rumorosamente le loro emozioni, che si strappano i capelli o le vesti sulla bara del figlio o che danzano chiassosamente alle feste. Forse anche per quello che si finisce per far loro guerra, per insegnar loro a vivere portando la cultura e a democrazia. Perch comunque, stato detto, ciascuno ha i suoi meridionali. Forse, chiss, la nostra insofferenza verso una corretta e lucida meritocrazia, la nostra abilit nel confinarci nei poli sicuri e noti della compassione e dellammirazione invidiosa, la nostra incapacit di coniugare il successo con simpatia, semplicit, spontaneit e affettivit cordiale si innesta sulla goffaggine imbarazzata del rapporto con il denaro. Scrive Angeles Mastretta, in Puerto libre (Giunti, Firenze, 2000): Colpa salariale. un senso di colpa frequente fra gli scrittori. Per chiss quale motivo il mondo ha sempre creduto che gli scrittori esistano per regalare, e credendolo il mondo intero lhanno creduto anche gli scrittori, che se c una cosa a cui si dedicano anima e corpo proprio nel credere al mondo. Cos gli dispiace farsi pagare. (...) Anche perch la gente ti guarda in modo ostile e diffida degli scrittori che si fanno pagare per fare il proprio lavoro. (...) un senso di colpa irresolvibile, pertanto raccomando a chi ne soffre di cercarsi un amico generoso che assuma formalmente il ruolo di agente, capace di farsi pagare in sua vece. Mastretta spiritosa ma quante volte incappiamo in questo laccio? E noi che facciamo questo mestiere, quante volte ci siamo sentiti dire la difficolt di pagare una relazione di sostegno, intrisa daffetto e dimpegno intelligente? E veramente mai vi siete

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sentiti a disagio nel farvi pagare? A sentirvi chiedere se, oltre allimpegno professionale, per cui vi si paga, siete interessati anche personalmente alle sue vicende? Oppure, allopposto ma in finale la stessa cosa, quante volte avete pensato di essere pagati una miseria dal vostro ente o associazione per quel prezioso contributo che date? Nei sacri testi sappiamo bene come e che cosa dobbiamo pensare e provare ma poi, nel rapporto diretto...Mi viene in mente un notabile milanese che diceva di sua moglie che faceva s la psicoterapeuta ma la faceva gratis perch era danimo molto buono! Ho rabbrividito e ci siamo salutati, spero che alla signora almeno vadano molti gioielli e serate alla Scala.

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Elogio dellapparenza Lapparenza non ha una buona stampa. Generalmente la si cita per contrapporla alla virtuosa verit dellessere, divenuta sinonimo di menzogna, impostura, travestimento. Cerchiamo di capire una persona o una situazione al di l delle apparenze. Come dire che la persona o la situazione vanno spogliate, private dei modi in cui si sono mostrate cos da poter attingere la loro vera realt, per definizione opposta o quanto meno fortemente divaricata dalle apparenze, appunto. un presupposto cos abituale da non venire nemmeno pi sottoposto a una qualsivoglia critica, , invece, un atteggiamento mentale che sembra fondare primariamente letica. Come tutti i luoghi comuni, mantiene un nocciolo di senso, ovviamente, eppure a me suona come indizio preoccupante di fondamentalismo. Presuppone, infatti, la necessit di un voyeurismo impudico e violento che attraversa la persona di fronte a noi per coglierne, senza il suo permesso anzi esplicitamente contro la sua volont, un interno segreto da svelare e da esibire con soddisfazione. Nel nostro tempo, stiamo smarrendo la distinzione fra segreto, discrezione, riservatezza, pudore. Un ragazzo mi racconta di un sogno in cui inorridisce perch si accorge che suo padre lo sta guardando mentre si sta masturbando. Gli chiedo se lorrore perch il masturbarsi in s che denuncia di colpa o di vergogna o perch masturbarsi un fatto privato che un occhio esterno disturba e stravolge. lui in colpa perch si masturba e locchio del padre lo coglie in fallo o il padre indiscreto e violento nellintromettersi in un momento tutto suo? Ricordate? Diceva quel benedettino che ci sar sempre tortura nel mondo perch ci sar sempre una madre che vuole sapere che cosa c nel cuore di suo figlio. Anche la presenza dei bambini in una seduta di terapia familiare pu essere usata per svelare il segreto degli adulti, segreto colpevole in quanto segreto prima ancora che per il suo contenuto, spesso minimale e per nulla drammatico. E anche questa violenza. A fin di bene? Beh, fermiamoci un attimo a discuterne, il ruolo sociale del terapeuta non coincide automaticamente con un secondino da 1984, non cos scritto e scontato che lesercizio della cosiddetta terapia debba soprattutto essere orientato a scoprire, svelare, capire, portare alla luce. Direi, invece, che la svolta grande dellottica sistemica stata il suo attestarsi su ci che appare, sembra, scostandosi con forza da quellimplacabile . Il suo mostrarsi con un comportamento che la

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fa sembrare una schizofrenica mi induce a pensare che, mi chiedo il senso del suo sciopero della fame che le ha reso il corpo come fosse di unanoressica, questo era il modo di costruire i commenti in una seduta di taglio sistemico. Poi, nel tempo, anche i bravi sistemici hanno tagliato qua e l semplificando i passaggi, ritrovando la consolante stabilit del verbo essere e dando origine a una penosa nuova diagnostica in cui esistevano le famiglie psicotiche, quelle resistenti, quelle difese, quelle con componente anoressico, handicappato, tossicodipendente. E lapparenza, chiave di volta del modo di guardare alle persone, rapidamente ritornata a farsi velo della migliore, splendente verit. Da catturare un po a qualunque costo per poi usarla nellintervento finale, salvifico in quanto capace di redenzione. Stiamo mostrando al sistema la vera struttura che lo tiene insieme, non potranno che trarne cambiamenti rilevanti e, se non lo faranno, si dimostreranno resistenti, indisciplinati, ribelli. Toccher, al caso, essere ancora pi fermi. interessante che anche negli incontri di formazione in PNL (la programmazione neurolinguistica una tecnologia della comunicazione) dove si viene soprattutto per imparare a leggere i segnali espliciti, dichiarati, ben visibili dellatteggiamento corporeo, della mimica, della gestualit, del tono della voce, delle caratteristiche minute del comunicare, anche l si ritrova latteggiamento indagatorio cui laltro tenta di sfuggire nel gioco pi abituale. Ad esempio, si vuole apprendere a cogliere il movimento degli occhi quando si trascorre da un canale percettivo ad un altro, quando, per intenderci, da tuttocchi mi faccio tuttorecchi per ascoltarti? Il presupposto, noto e ripetuto, di accorgersi dei segnali esterni che gli esseri umani mandano verso linterlocutore esattamente allo scopo di migliorare la comprensione precisa di ci che vanno comunicando. Dunque, sono segnali esterni affinch linterlocutore li possa cogliere agevolmente, basta addestrarsi ad accorgersene. Tu mandi i segnali, io li colgo, io sono ok tu sei ok? Neanche per idea, immediatamente quello i cui segnali devono essere osservati si irrigidisce tentando di trattenere il movimento degli occhi mentre laltro gli sta addosso per coglierli, questi benedetti segnali, anche se lui cerca di frenarli e poi esplode: li ho visti! Come fosse una vittoria non assieme allaltro per un esercizio di formazione ma sullaltro di cui ha violato il segreto. Tristissimo. Neanche si trattasse di uno scoop che coglie la diva seminuda (ma non deve guardare nellobiettivo, se no non vale perch sarebbe

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voluta, la foto! Il gioco crudele di mostrare senza veli, da talebani capovolti). Lapparenza il fulcro della convivenza civile, come ci si veste, come ci si comporta, come si parla, come si gestisce. il tratto che caratterizza la cultura, lo scarto che custodisce la libert, articolata e bilanciata fra me e gli altri. Le regole sociali sono esattamente la struttura della convivenza ma sono regole che normano lapparire, il come non il che. Ciascuno di noi nel corso della sua giornata e della sua vita intera sceglie quanto, in che misura e come adeguarsi alle regole e quali interpretare e quali trasgredire. Per come vogliamo essere colti. Sono segnali che costruiamo con attenzione, dedicandovi molto tempo, perch mai dovrebbero essere dispersi con tanta noncuranza se non disprezzo? Perch deve essere quasi un obbligo svalutare come strumentale la motivazione di chi ci chiede un aiuto attendendo di venire a sapere in seguito la vera motivazione? Perch non accogliere senza riserve labbigliamento di chi ci si presenta davanti come un suo manufatto che le appartiene? Perch andiamo subito a cogliere il particolare che le sfuggito? Diciamo che ha un comportamento artificioso, voluto, ma il nostro tono accogliente, il modo di gestire che abbiamo educato nel corso di lunghi anni, correggendolo con formazioni estenuanti, costose e spesso non prive di dolore, quello non voluto? il nostro modo di tenere la relazione, di valutare se, quando e come intervenire, il nostro modo di vestire o di arredare lo studio, non sono stati voluti? Certo che s. Quando avevo diciottanni, prendevo lautobus presto la mattina per andare a lezione alluniversit. Era inverno, faceva freddo, eravamo tutti un po insonnoliti. Un giorno, per caso, il bigliettaio mi sorride, dandomi il biglietto. Mi era piaciuto, era come un buongiorno che alleviava la pioggerella fitta. Sorrido anchio, passo oltre ma mi resta in testa. Se mi piaciuto e ho risposto al suo sorriso, potrei provare a provocarlo, il sorriso. Potrei. Il giorno dopo, chiedo il biglietto sorridendo e, funziona! Il bigliettaio me lo porge sorridendo. Aggiungo il buongiorno, anche lui distende il viso. Da allora, ho cominciato spesso a iniziare un rapporto con un sorriso: con la commessa, in farmacia, alla cassa del supermercato. E in genere rende pi agevole lincontro. Dunque costruiamo e sfruttiamo un nostro modo di apparire per ottenere gli obiettivi che vogliamo ottenere? Certamente. Ma questa non manipolazione? Certo che lo , ma perch un chirurgo che esercita lagilit delle dita per manipolare al meglio un bravo professionista e chi usa la

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parola e la comunicazione in senso lato deve essere spontaneo? Forse che non abbiamo imparato a camminare esercitandoci fino a trovare il nostro passo? E non abbiamo fatto analogamente per la calligrafia o per lo stile del nostro vestire? Bene, ora ci appartengono, li abbiamo voluti esattamente cos per poterli usare. Altri dettagli del nostro apparire sono ancora preda di lavori in corso perch una vita ci vuole una vita per viverla. E per farne ci che vogliamo, per come ci possibile. attraverso la cura dellapparenza che veicoliamo agli altri i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri obiettivi, le richieste e gli amori. In un seminario, un ragazzo ha ribattuto con pazienza tollerante: ma, vede, io sono abituato a essere pi attento al contenuto che alla forma. Penso ancora che chi veramente attento al contenuto e veramente se ne preoccupa, si prende molta cura della forma con la quale trasmette il suo contenuto. Affinch arrivi con la miglior sicurezza, con la tenera cura di chi incarta un regalo. E se avvolge un gioiello in carta di giornale, lha voluto. Quanto se usa la pi nota carta scintillante.

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Figli e figliastri Dal cucciolo quando in culla via via nel corso degli anni tutti quanti, genitori, parenti, educatori, riviste e specialisti, siamo l ad ammonire: attenzione, il bambino deve poter crescere sereno, attenzione, il mondo attorno a lui deve mostrarsi un luogo sicuro, attenzione, non litigate davanti a lui, non tenetegli il broncio la sera che non vada a letto turbato, lacqua del bagno sia giustamente tiepida, il pur non scotti troppo, la maglietta a pelle sia di fibre naturali e la merendina ecologica. Attenzione, un bambino che ha visto violenza sar un adulto violento, un bambino deve sorridere, ridere, giocare, spensierato e con le guance arrossate dalla gioia. evidente per ciascuno quanto effettivamente la serenit fiduciosa di un piccolo ci rassicuri e ci dia pace, quanto sia una carezza per un momento di pena o una tristezza, i pensieri degli adulti sono alleviati da una gioia infantile, la fronte si distende, un sorriso emerge quasi senza permesso, le spalle si allentano atteggiandosi allabbraccio. Cos anche sappiamo profondamente come sia struggente assistere al dolore dei pi piccoli, come sia una tensione difficile da sopportare limpotenza a consolare, distogliere, mettere in fuga, scacciare la pena da quel faccino, da quel corpo contratto. Tutto ci unesperienza ovvia per ognuno, tutti conoscono la fatica e limpegno degli sforzi educativi, le cineserie pi o meno arzigogolate sullallevamento dei figli, i convincimenti pi fervidi smentiti peraltro inesorabilmente dalla scortese realt quotidiana. Poi, miracolosamente o misteriosamente, questa congerie di intenzioni, comportamenti, eventi, scatti e affetti si risolve prendendo forma e i figli si presentano al mondo come persone. Imprevisti e scontatissimi, i lineamenti si assestano, i movimenti si sciolgono in unandatura propria, il pensiero vola autonomo intessendo frammenti di storia patria in configurazioni inedite, i momenti educativi decantano in un bouquet sconosciuto. Di queste persone, vibranti, incerte, divertenti e sconcertanti, mi sembra si possano distinguere due tipi, generici pi che generali: quelli che calcano il terreno della vita e del mondo come signori della terra e quelli che ci si aggirano come immigrati. Figli e figliastri, amati e non amati? Non cos semplice. Credo che oltre i doverosi tributi al rapporto con i genitori vada considerata anche una qualche caratteristica primaria che con il rapporto familiare si fonde e si confonde, qua rafforzando, l smentendo lintreccio relazionale. Ma soprattutto, prescindendo da faticose e ingombranti teorizzazioni o considerazioni sullorigine e la formazione del carattere, mi sembra

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interessante tentare di cogliere il diverso approccio allesistenza dei due gruppi. Ci sono i figli che si affacciano al mondo attendendo di essere giustamente e ovviamente incoronati. Certi dei loro diritti ad esistere e ad essere soddisfatti, si interrogano sul perch mai le cose non vanno come dovrebbero, anzi come devono. La sicurezza del loro status li fa guardare direttamente negli occhi, anelanti di cogliere il loro tempo, di identificare il posto nel mondo che spetta loro, si innervosiscono di fronte alle difficolt, non perch non siano capaci di affrontarle ma perch le considerano impacci noiosi che impediscono il passo. Hanno un compito da svolgere e sono impazienti di attuarlo, trasmettono un radicamento forte e indiscusso, vogliono e sanno pretendere, saprebbero come organizzare le cose al meglio se solamente si desse loro ascolto. Competenti e certi del fatto loro, chiedono solo di essere utilizzati per poter fare, sanno di aver ragione e si disperano se gli altri non capiscono o non condividono. Non tanto perch siano presuntuosi ma perch sembra loro cos evidente e indiscutibile la realt dei fatti che un peccato non coglierla e si affaticano a predicarla. Per il bene di tutti. Credono nei valori, pressanti e costringenti nei confronti degli altri, comunicano una assertivit forte e rassicurante con cui talvolta ci si trova a combattere ma che, pure, si allarga e si diffonde ad abbracciare linterlocutore. Il sogno di tanti genitori poter contemplare dei figli cos, sicuri, fattivi, nati su di una terraferma di latte e miele, capaci di cercarla ancora e ancora, continuamente. Il dubbio esistenziale li sconcerta e li turba, inserisce un tempo fastidioso di sospensione in cui non si pu operare, lintelligenza brillante tollera poco lesitazione, lincertezza. Difficilmente disposti a collaborare in progetti non firmati da loro, sono capaci di grandi generosit e impegno, entusiasti e fiduciosi. Le cose, basta dirle, sinceramente, i problemi li risolvono, non se li creano, disposti a dare sempre una mano certi che a loro pure verr data e stupiti dolorosamente quando questo non accade. Gli altri, immigrati senza permesso di soggiorno, studiano il mondo per apprenderne le regole, per trovare liter giusto del riconoscimento. Ben consci della farragine burocratica, conoscono lattesa, si dedicano a scovare i modi di bucare lindifferenza dellimpiegato allo sportello, hanno tutto un armamentario di sistemi per catturare lattenzione dellaltro da cui dipende, in ultima analisi, la loro stessa sopravvivenza. Il tempo introspettivo assai pi lungo del momento dellazione, abitano la solitudine come uno

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stato normale, talvolta addirittura protettivo, impacciati e goffi, temono di essere colti e scoperti in atteggiamenti o situazioni sbagliate che poi dovranno far grande fatica a risanare. La loro cautela nellesporsi richiede una lunga preparazione, un addestramento a cogliere gli interessi dellaltro che pu scivolare nella compiacenza, attenti a ogni sussurro esterno, difficilmente permettono che vengano amplificati i loro, di sussurri, senza averne controllato con cura lediting minuzioso. Affettivi e capaci di dedizione, appaiono come molto propensi a essere affiliati ma lappartenenza per loro sempre temporanea, il pensiero corre per connessioni, costantemente timoroso di una chiarezza definitiva. Cangianti e mutevoli, scelgono con destrezza labito mentale pi adeguato al momento, gi sfuggenti altrove nellattimo successivo. Tanto disponibili quanto imprendibili, sostano nel rapporto e non frequentano il mondo delle certezze, allevano e custodiscono le idee e i sogni degli altri facendoli loro, cercando di continuo. Sono i figli accudenti che molti vorrebbero, di una fedelt duratura e infinitamente adattabile. Temono luso dichiarato del potere, sfumano i termini, conoscono bene il piacere del successo ma non se ne vestono attendendo che siano gli altri ad abbigliarli. E allora? Allora, nonostante il disperato desiderio dei genitori, di tutti i genitori, non c possibilit di esonero dalla paura e da dolore, qualunque sia il versante della montagna la fatica grandissima. I figli legittimi spesso si infrangono contro la pervicace malvagit e inutilit che constatano attorno a loro, cadono in depressioni profondissime di cui difficilmente riescono a fare esperienza durevole scattandone fuori al pi presto possibile, la loro certezza fa velo alla necessit di accordo e intesa che sembra loro un umiliante accomodamento. Gli altri, con quel segnale persistente di forse, chiss, si potrebbe, sono untori dellincertezza, irritano e mal dispongono chiunque cerchi di possederli, di inscriverli in un quadro preciso. Esperti del rintorcinamento mentale, quasi si sgomentano se temono di trovarsi alla fine con un documento ineccepibile di identit, evitando le conclusioni, i definitivi passaggi che scandiscono un distacco ultimo. Ma ambedue i gruppi hanno capacit e competenze preziose, ambedue riguardano allaltro con desiderio e nostalgia. I legittimi invidiando la libert svincolata che propria di chi non ha nulla da perdere, la ricerca e lutilizzo di qualunque appiglio come risorse tipiche delleconomia di guerra, quella in cui le donne si scambiavano ricette di cucina inventate sui poverissimi ingredienti disponibili. Gli

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illegittimi scrutano con occhi da piccole fiammiferaie la sicurezza scontata di chi chiede apertamente, afferma, presume lassenso, va al confronto, gioca con valori riconosciuti, saldo nella sua appartenenza; talvolta chiudono gli occhi nel timore del disastro ma, quando li riaprono, gli altri son l, sani e salvi, forse inconsapevoli del pericolo sfiorato o, forse anche, il pericolo poi non cera. Forse, chiss, nel corso della vita partiamo da una posizione del pendolo per cercarne laltra con oscillazioni che ci descrivono nel tempo e nello spazio. I figli legittimi imparando dagli emigranti ad espatriare per assaporare linsicurezza e cercare i modi e le risorse di una sopravvivenza garantita, gli illegittimi accettando che certezza pu esserci, c. Intera, piena, appagante anche se fino a domani. Talvolta, accade, anche a dopodomani.

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Foglie derba Siedi un momento, caro figlio, qui c biscotto per mangiare e c latte per bere, ma non appena avrai dormito e indossato morbidi indumenti, ti dar il bacio daddio e ti aprir il cancello per andartene. Per troppo tempo hai fatto sogni spregevoli, ora io ti detergo la cispa dagli occhi, devi assuefarti al fulgore della luce e di ogni momento della vita. Per troppo tempo hai sguazzato vicino alla riva, timidamente reggendoti a una tavola, ora voglio che tu sia un nuotatore spavaldo, che ti tuffi nel bel mezzo del mare, e torni a galla, e mi fai un cenno, e gridi, e ridendo ti scrolli i capelli. Ecco, questo brano di Walt Whitman, tratto da Foglie derba, me lo ha scritto anni fa mio figlio, allora giovanissimo ora gi padre a sua volta. Naturalmente conservo ancora il foglio con la sua calligrafia ma il motivo per cui lo ripropongo qui, oltre alla sua innegabile bellezza commovente, perch vi si aggancia tutta una fila di pensieri sulla scarsa capacit della mia generazione di lasciare vivere i nostri figli, di lasciarli respirare. Forse, pi brutalmente ancora, di lasciare loro uno spazio desistenza autonoma, di tollerare che, come nelle regole della vita, siano loro al timone e che il nostro posto sia in secondo ordine, alle loro spalle. Pronti, se del caso, ad affiancarci allesigenza ma ben attenti a non sostare un attimo di troppo. Certo, questa questione di sempre, di ogni scarto generazionale, mi interessa solo fissare qualche tratto di questo nostro specifico momento storico. La mia generazione ha avuto delle opportunit incredibili, straordinariamente concentrate: ne accenno qualcuna, pagando lovvio scotto della generalizzazione e dellattenzione esclusiva alla dimensione borghese. Siamo approdati alluso della tecnologia potendola contrappuntare con la conoscenza del latino, abbiamo vissuto la liberazione dagli schemi di uneducazione rigida avendo gi in dote i vantaggi della disciplina che ci era stata imposta, abbiamo scoperto il diritto alluso libero del nostro corpo, dai vestiti al sesso, quando questo stesso corpo aveva gi conosciuto uninfanzia protetta. Abbiamo maneggiato coppia,

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famiglia, maternit quando ancora erano dei tarocchi ben definiti nelle nostre mani, carte spesse che ci rilanciavamo con unallegria entusiasta, cercando accostamenti solo perch nuovi. Abbiamo avuto il mitico 68, linvenzione della politica del privato, abbiamo visto le parole diventare reali, abbiamo attraversato violenze, terrorismo, paura sconfinata, ci siamo sgomentati di noi stessi e forse, talvolta, del potere che ci sembrava di avere prima di risentire appieno la persistenza di certe regole, la pesantezza di certi ritorni. La terribile ripetitivit dellonda che torna a riva. Ma abbiamo vissuto. Con chilometri di errori e quintali di sbagli, come direbbe una mia sorella, inciampando e scottandoci ma anche ridendo e sperimentando e discutendo e pensando e imparando. Attraversando un tempo in cui parole e contenuti si beffavano lun laltro sfidandosi reciprocamente a catturarsi con sempre nuove e diverse invenzioni, abbiamo vissuto laffermarsi della comunicazione, ceravamo quando i confini si sono aperti improvvisamente sul mondo intero, dallIndia al Vietnam allUngheria a Praga. Di questa stagione ci siamo nutriti fino a diventare oggi i gestori del nostro tempo, professionisti, colti, quel tanto snob da poterci permettere di situarci nelle situazioni pi diverse, imponiamo la persistenza del nostro modo di pensare, di fare, di vivere. E continuiamo a restare autoreferenziali, pecca che se si perdona ai ragazzi diventa indecorosa nei cinquanta sessantenni. Come se volessimo ancora succhiare, manteniamo ferma quella stagione, traghettandola con destrezza nello scorrere del tempo che siamo noi a governare. Non solo nel senso che logico siano quelli della nostra et a tenere le fila, ma nel senso pi malato che vogliamo restare noi i giovani. Possiamo permettercelo, possiamo continuare ad imporre il nostro stile nel vestire, lattenzione al cibo e allambiente ci tonifica, perch mai ancora dover distinguere fra generazioni? Siamo tutti giovani, purtroppo sono quelli che per et avrebbero diritto a chiamarsi cos che restano fuori dal gioco, che sembrano divertirsi di meno, che sembrano pi tristi, piegati da una sofferenza veramente esistenziale. Li abbiamo privati di tutto, ci siamo impossessati, allora, della stanza dei giochi, ci piaciuto moltissimo e siamo restati l, a presidiarla. E non li lasciamo entrare. Le madri che vanno in palestra con le figlie scambiandosi gli abiti quando non i fidanzati, i padri giovanili che fanno ginnastica e indossano i jeans, sempre sullonda, brillanti

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conversatori mentre i figli stanno al computer, capaci di mettere al mondo bambini pi piccoli dei nipoti. Perch no, si dice? Penso che la nostra meravigliosa (e difficile, senzaltro) stagione sia stata sostanzialmente sterile, come le sementi ogm, da nutrircisi ma incapaci di riprodursi. La scoperta emozionante della politica sembra una pista che neanche noi troviamo pi, confusa nella sabbia. Il femminismo, che era sembrato un sentiero glorioso, pieno di luce e di speranza, restato nelle mani di chi lha vissuto allora, le nostre figlie non sanno come maneggiarlo e i loro tentativi di inventarlo per loro vengono comunque mortificati dalle nostre parole che li definiscono svuotandoli del valore per loggi. La scoperta delluso libero del corpo si stravolto in una generazione di giovani che sono del tutto alienati dal loro corpo, lo portano in giro ma non lo possono abitare. Il piercing come il tatuaggio come lo spaventoso fenomeno dellautoferimento sono tutti modi di ritrovarlo, questo corpo, di poterlo sentire, ma solo, sembrerebbe, guardandolo o segnandolo per vederlo o percependone lesistenza reale attraverso il dolore. Tossicodipendenza, anoressia, sempre in altalenante bilico e proteici pi che mai ci dicono che per la prima volta, forse, nella storia sono i giovani a suicidarsi. Nel nostro tempo, fino al nostro tempo, i ragazzi difendevano la loro vita, anche e soprattutto contro i grandi, genitori e non. Perfino nelle cronache nere gli omicidi fra generazioni hanno un computo praticamente equivalente: madri e padri che uccidono i figli, figli che massacrano i genitori e, con loccasione, magari, anche la suocera e il cognato. Quello che mi colpisce di pi questa impressione di aut aut: o loro o noi. Mi vien da pensare che la loro tenerezza e il profondo amore che i giovani hanno per noi li portino a risparmiarci, a togliersi di mezzo per proteggerci nella nostra illusione drogata di una giovinezza permanente. Una ragazza racconta di come la madre le abbia portato via linnamorato ma lei non arrabbiata perch, povera, se la mamma lo desiderava! In questi decenni di lavoro clinico ho imparato come sia immutabile e indistruttibile lattenzione dei figli per i genitori, non saprei se pari a quella dei genitori per loro ma certo di una forza enorme. Non mi sembra impossibile che abbiano visto lucidamente la nostra incapacit di fare gli adulti, di rendere nuovamente onorevole e bello e auspicabile il diventare grandi, adulti, responsabili. E che ne

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abbiano avuto piet. Sacrificando le loro esistenze affinch non fossero minacciate le nostre. Non so se tutto questo sia utilizzabile, ma per favore basta con i ragazzi che non hanno pi ideali, che sono viziati, che sono insoddisfatti perch hanno tutto, che non vogliono faticare per ottenere. Mentre noi, alla loro et, facevamo il 68.

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Forzati del cambiamento Scrive Bateson, in Una sacra unit, (Adelphi, Milano, 1997), commentando levoluzione del cavallo, anzi, meglio, della relazione fra cavallo ed erba, scrive: curioso che tutto il cosiddetto progresso evolutivo sia stimolato dal bisogno di lasciare le cose come stanno. Lerba cambia e il cavallo cambia e lerba cambia e il cavallo cambia e cambiano in modo tale che la relazione che li lega possa restare costante. E in sostanza levoluzione un vasto procedere di cambiamenti interconnessi, dove ogni singolo cambiamento uno sforzo per rendere non necessario il cambiamento (...) Uno dei grandi errori della biologia di met Ottocento fu quello di pensare che la selezione naturale fosse una forza che spinge al cambiamento. Non cos: la selezione naturale una forza che spinge a lasciare le cose come stanno (...) Non spinge a star fermi, vedete, questo non proprio possibile. Se vogliamo star fermi veniamo sorpresi, come Giobbe, con le brache calate, per cos dire, e tutto va storto. E, dopo, I cambiamenti di equilibrio superficiali sono in effetti la salvaguardia di caratteristiche molto pi profonde le quali meglio che non cambino. Beh, il cambiamento quello che si chiama croce e delizia dei terapeuti, lo vogliono, lo devono ottenere, sigillo chiaro della loro efficacia professionale. un po il tormentone di ogni scuola o setta terapeutica, come indurlo, come verificarlo, quanto durer. Ma, pensavo, se si dice che plus a change plus cest la mme chose, funziona anche linverso? Si pu immaginare che pi le cose restano come sono pi cambiano? questione di livelli logici? S, anche, certo, ma appunto perch si tratta di livelli, occorre considerare con grande attenzione il livello cui pu effettivamente accedere losservazione del terapeuta, come connettere i cambiamenti superficiali, quelli che salvaguardano limmodificazione delle caratteristiche profonde, con la necessit del terapeuta di verificare lavvenuto cambiamento cui anela. D per nota la sterminata letteratura sullargomento, mi importa qui considerare la situazione del terapeuta, in particolare se proprio necessario volerlo, cercarlo, verificarlo, constatarlo. Se potremmo anche prescinderne, evidentemente se questo risultasse pi vantaggioso.

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Perch, se vero che non si pu non cambiare, ( semplicemente impossibile, non ci riusciremmo neanche provandoci allo stremo), se vero che il solo fatto di vivere ci modifica, sembra discenderne che anche nei confronti delle persone con cui lavoriamo in terapia, singoli, coppie o sistemi che li vogliamo considerare, il cambiamento non si tratta di indurlo ma di collaborare a governarlo. E gi questa prima banalissima osservazione potrebbe abbassare lansia, quando non addirittura il furore interventistico che troppo spesso agita i terapeuti, un filo meno di onnipotenza e un po pi di serenit nel relazionarsi con laltro. Quando incontriamo nuovamente il nostro interlocutore, lo sguardo indagatore che cerca il cambiamento sfiora gli abiti, il modo di gestire, il tono della voce, limpostazione delle spalle, ricerca in ci che ci viene raccontato. E spesso, durante le supervisioni, sento lo sconforto in chi mi dice come si confessasse: non cambiato nulla, non successo niente. Pi precisamente, mi sembra si possa ridefinire: non ho trovato traccia di quel cambiamento che mi aspettavo. Come dire che non stiamo guardando come laltro ha vissuto, e dunque si modificato, dallultima volta che labbiamo incontrato, non stiamo osservando laltro ma lo stiamo scannerizzando per confrontarlo con quello che avrebbe dovuto diventare. A nostro giudizio, secondo quel che, grazie al nostro intervento, avrebbe dovuto fare, porsi, capire, inventare. S che, come nel sempre presente letto di Procruste, lo misuriamo non per sapere che cosa gli successo e seguire il suo passo ma per confrontarlo con unidea, nostra, di quel gli sarebbe dovuto succedere. Altrimenti, non siamo stati bravi, non siamo stati efficaci, abbiamo sbagliato. Detto cos, sembra un monologo del tutto autoreferenziale, sto semplificando, evidentemente, ma il punto importante. Anche perch i cosiddetti pazienti in genere sono molto cortesi con noi e si adattano con una certa buona grazia ai nostri desideri, si stendono sul letto se si avvedono che l che noi guardiamo in modo da poter essere visti, si allungano o si restringono per non perdere il contatto con noi. E noi ci rassicuriamo un po, siamo stati utili, va bene cos. Forse, la questione si sposta sul livello del progettare per laltro: se ci occupiamo di qualcuno, del tutto evidente che facciamo dei

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sogni per lui, che ci piacerebbe vederli tutti belli, sani, allegri e fattivi, sicuri di s. Questo sarebbe il cambiamento, no? Certo, ed questo su cui anche loro concordano che sarebbe una gran bella cosa. E concordano perch laccordo sul loro star male, allora il cambiamento auspicato sarebbe non stare pi male. E qui c un passaggio indigeribile: non si pu avere un progetto siglato dal non, non pi. Non proprio possibile ottenere di non stare pi male, si pu solo ottenere unaltra condizione. Ma a quellaltra condizione, appunto, appartiene una differente, inedita configurazione, i pensieri e le emozioni formano costellazioni e figure diverse, che non si possono conoscere n immaginare fino a che non vi siamo dentro, abbiamo traslocato, suoni e colori e vicini sconosciuti, con noi oggetti e movenze che ci accompagnano nel tempo ma che, collocati in quel nuovo ambiente, risaltano in modo inesplorato. E non sarebbe questo il cambiamento? Certo che s ma non lo possiamo ottenere attraverso una progettazione, non possiamo testarlo come se si fosse in un cammino, non possiamo trovarlo in un percorso. Prima di averlo raggiunto. Dopo, come in ogni esperienza umana, potremo traguardarlo, sistemarlo in una carta geografica, ritrovare, a ritroso, una linea guida che potremmo chiamare un percorso. Ma non possiamo pensare di muoverci passo passo sulla strada giusta. E definirlo percorso, ricordarne tempi e passaggi un modo che ci permette di raccontarlo a noi e agli altri con le forbici abilissime della memoria che fanno abiti su misura. Lincontrarsi in terapia, dunque, un confrontare i diversi sogni che si possono sognare per quella persona, collocarvisi dun balzo, attestarsi sullaltipiano a considerare soddisfatti i propri possedimenti, da l guardare come ci si arrivati. un salto logico fuori dai confini noti, tenendosi per mano quando manca il respiro. Ma non funziona, credo, se ci incamminiamo con lo zaino pesante e i muscoli irrigiditi con la garanzia di far fatica perch con le lacrime e con il sangue che si ottengono i risultati. Gli atleti saltano pi in alto perch hanno visto se stessi mentre superano lasticella e non una sequenza di fotogrammi. Lallenamento vuol dire ripetersi centinaia, migliaia di volte in movimenti di vittoria e poi, nellattimo, inventarne lunico del momento sulla salda esperienza di chi ha gi vinto. E il sintomo? Il malessere? Sono il modo di incontrarci, un biglietto pagato per entrare nella relazione. Ma occorre che restino fuori perch se sul sintomo che ci affatichiamo, sulla famigerata

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diagnosi, sulla sofferenza portata con attenzione ch non ne vada persa neppure una goccia, questi diventano unancora fortissima, con la prepotenza di significare di s ogni avvenimento ed esperienza. Ci vincolano a un percorso a testa china, per limitare i danni, per rappattumare, per rabberciare una vita un poco pi vivibile. Capace di amputare le ali al sogno e di immiserire il battito del nostro pensiero.

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I confetti, tu li mastichi? Mentre la giornata trascorre, si aprono spesso delle finestre di tempo in cui si pu iniziare un gioco con se stessi. Mi piace farlo, arrotondando lo spessore degli eventi minuti e inventando per loro un significato, s, un poco come quando saltellavamo sul marciapiede, attenti alle giunture da non sfiorare con i piedi. Giocare in modo innocente, per testare qualcosa di s, darsi delle regole e infrangerle, sdoppiarsi in chi d i compiti e chi li deve eseguire, farsi obbediente e assieme imprevedibilmente trasgressiva. Perch mai? Anche per esercitare, come muscoli che non vanno dimenticati, le mie diverse persone, verificare limportanza delle mie abitudini, controllare laggiornamento di ci che mi piace e di ci che non mi piace. Con il gioco, cintato dal regolamento altrimenti gioco non , riconquisto una diversa libert di pensiero, perch come obbediente a una norma sono libera di pensare ci che voglio, dentro unazione che unaltra me dirige. Soprattutto per gli eventi piacevoli, ma anche per quelli in cui faccio pi fatica. Ho cominciato tanti anni fa, ero ragazzina e avevo cinque confetti, bianchi e lisci. Mi piacciono moltissimo, i confetti e, anni dopo, vedendo quanto piacevano anche a mia madre, ho cominciato a regalarglieli per ogni minimo spunto gioioso, senza dover aspettare che qualcuno si sposasse. Poi, gioco nel gioco, a regalarglieli, e lei a me, anche quando occasioni di gioia non cerano ma ne avremmo avuto bisogno. Una minuscola complicit fra donne come qualcosa di giallo mimosa da regalare alle mie donne l8 di marzo. Bene, allora ho questi cinque confetti e ne sono felice. Li conto, ne prendo uno, lo mastico di gola, poi mi domando come sarebbe gustare separatamente la mandorla e lo zucchero. Il prossimo, lo metto in bocca con attenzione, sto obbedendo allordine di non tritarlo con i denti, lo rigiro in bocca mentre lo zucchero si assottiglia, c ormai solo pi una leggerissima camicia attorno alla mandorla e proprio in quel momento, con il sorriso storto di chi fa un dispetto e lo sa, stringo dimprovviso i denti, la mandorla si spezza mescolandosi con il rimasuglio di dolce. Per, dice laltra me, non hai sperimentato fino in fondo com la mandorla senza zucchero. Vero. Stavolta mi comporto bene, obbedisco e sciolgo lo zucchero con disciplina, un passo pi in l della volta precedente ma sono io che decido e ancora una volta il traguardo quasi, quasi raggiunto. Appena un sentore di dolce ma lo zucchero cera

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ancora. il quarto confetto a farmi masticare la mandorla da sola, tanto per farti vedere che ne sono capace, sai. Il quinto lo manger a mio piacere, senza regole. un dono in pi. Questa solo una storia piccola piccola ma spesso mi capita di organizzarmi fra le mie diverse persone che entrano in gioco per sperimentarsi e mantenersi in allenamento. Ne convoco tante, penso importante conservare una certa agilit di ingresso. Una volta, al supermercato, avevo nascosto con il cappotto poggiato sul carrello un golfino per mia figlia. Passo alla cassa, pago, esco, svuoto il carrello e scopro il golfino di cui mi ero assolutamente dimenticata. Lo restituisco ma mi resta in testa che non conosco come si fa a rubare. Lho fatto senza volere ma sarei capace di farlo consapevolmente? Molte ragazze e ragazzi lo fanno negli anni delladolescenza, per tanti quasi uniniziazione, per gli adulti una guasconata prendere la metropolitana con un biglietto usato, ho visto signore impellicciate ridacchiare per questo, ma unesperienza che conosco solo per sentito dire. Ma io non voglio rubare sul serio, voglio solo provare come si fa, che cosa succede. Forse, s cos, voglio sperimentare che cosa si prova a stare dallaltra parte, temere di essere scoperti. Cos, un giorno salgo sullautobus ma non timbro il biglietto. Una fermata dopo laltra, con il cuore accelerato, guardo verso le porte attendendo che salga il controllore. Sono pronta a pagare la multa, ho deciso che non far la scena di essermi dimenticata di timbrare. Mi sto comprando unesperienza, non voglio danneggiare le casse comunali. Ma uso tutto il tempo del percorso, attimo per attimo, per farmi le fantasie di essere scoperta e sbugiardata, ribattermi che non succede poi nulla di grave, contare le fermate che mancano come ne andasse della vita: i giochi vanno giocati seriamente. Poi, quando sono quasi arrivata, con noncuranza timbro il biglietto, in piedi presso luscita, latteggiamento della signora per bene che chi mai potrebbe avere qualcosa a ridire su di lei? Cos, almeno una volta lanno faccio fare un giro a qualche mia persona che abitualmente preferisco non mi rappresenti: quella che fa gli occhiacci ai bambini e, al loro pianto, guarda con innocenza compassionevole la madre, quella che non risponde a chi le chiede unindicazione, quella che getta una cosa consumata solo a met. Mi serve per ricordarmi quanto non mi piacciono le persone tutte giuste, tutte perbene ma anche per tenere sotto controllo e conosciute le mie di persone. Penso, infatti, che chi si considera un non violento non saprebbe come gestire la sua persona violenta e

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assassina perch non la conosce, penso che chi si dice assolutamente sincero aggiusti gli eventi senza neppure pi accorgersene, penso che chi si vive nella pi piena legalit finisca rapidamente per comportarsi con larroganza di chi le leggi le fa, non le segue. Penso, insomma, che sono centinaia le persone che ci compongono e che ci fanno noi stessi e che nessuna di queste pu essere trascurata. proprio perch saprei essere violenta e crudele che il mio comportamento cortese e attento una scelta di cui rispondo. Ma pensarsi alieni da sadismo, asserire che io mai potrei fare questo, condannare stupefatti le tricoteuses del nostro tempo che loro nel sangue ci sguazzano, questo sciocco e pericoloso. Che pensare di fronte alle madri che preparano il the e lo portano la mattina ai figli drogati perch sanno che devono uscire a spacciare? C stata una madre che, per non mettere in pericolo il figlio tossicodipendente, ha deciso di andare lei a prendergli la dose. Cos, si incontrata con la spacciatrice, una, due, molte volte. Sono diventate amiche, un giorno la spacciatrice si lamenta che non ha nessuno che le guardi i bambini piccoli. E allora la signora si offre di guardarli lei, i bambini, mentre la madre usciva per spacciare. Quella stessa droga da cui la signora temeva che il figlio si facesse male. Noi siamo tante persone, la giostra gira e nessuno pu arrogarsi il diritto di amputarne qualcuna. Pena doverlesi fare incontro indifesi, senza preparazione, senza aver possibilit di trattare. Meglio stringere un piccolo fra le braccia sapendo che con pochi passaggi anchio potrei fare la torturatrice. Per questo ci sto molto attenta. Cos godo pienamente labbraccio.

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Il lutto del sintomo Un aspetto che troppo sottovalutato, se non addirittura spesso trascurato, quello che mi piace chiamare il lutto del sintomo. Possiamo riferirci al sintomo in termini esplicitamente clinici ma possibile anche allargare lo sguardo sulle avventure quotidiane. Proprio per continuare questa spola fra il tempo di tutti i giorni e quello un po speciale della cosiddetta patologia, per continuare a confrontare il comportamento sintomatico con quello considerato normale e derubricarlo a caricatura, esagerazione, irrigidimento, sottolineatura di un normale agire. Riportare, come si diceva, il patologico nel quotidiano, dove siamo pi abituati a destreggiarci e possiamo, soprattutto, contare sullalleanza vigile e competente del nostro interlocutore, cos penosamente definito paziente. Labbandono del sintomo, il suo andarsene o il nostro distaccarci, lascia dietro di s un vuoto. Un grande vuoto. Consolidato nel tempo, stato perno essenziale di tutta una miriade di comportamenti, pensieri, abitudini che, talvolta lentamente talvolta bruscamente, hanno fatto corpo con il sintomo seguendo linfinita adattabilit della persona umana. Se mi riconosco fobico, qualcuno mi ha fatto una diagnosi, sia pur casereccia e, per farmi riconoscere dagli altri e da me stesso, dovr mantenere un assetto adeguato. Se nessuno mi ha diagnosticato, comunque sar stato definito come quello che torna a controllare la chiusura della porta di casa, del rubinetto del gas, che non sopporta le farfalle, che non ama laglio, che odia la musica dodecafonica, che non tiene un segreto, che cambia i regali e cos via. Tutti quanti noi tentiamo continuamente di inscatolare gli altri per saperne almeno le linee generali e poterci recare allincontro con qualche certezza in tasca mentre ci addentriamo nellimprevedibile del momento. Ciascuno di noi a sua volta inscatolato e si inscatola volentieri nel previsto letto di Procruste pur di essere ritrovato, riconosciuto, interpellato. Protestando, certo, rivendicando la nostra diversit da quel quadro stucchevole che ci accompagna da tanto tempo ma pronti, prontissimi a rientrarvi di corsa se cogliamo lo sconcerto negli occhi dellaltro, se ci sentiamo mancare il cuore al solo pensiero che ci lasci cadere come sconosciuti. Chi di noi non ha provato lo sgomento di telefonare a un amico e di sentirsi rispondere, magari gentilmente: chi sei? Non parliamo neppure del sentirsi dire cos da un fratello o un genitore!

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Poi, magari, lontano da quelli che ci conoscono, sperimentiamo la libert di forzare questi limiti, di negare levidenza dei nostri tratti, di assaggiare la zuppa di pesce con la maionese e il formaggio parmigiano (basta farsi consigliare da un parigino!) noi consuetudinari e attenti alla dieta dissociata o di rimettere in ordine con cura la nostra stanza, noi, notoriamente disordinatissimi. In genere, troviamo il gusto di capacit e competenze cui abbiamo rinunciato nel tempo per un gioco relazionale di vedo/ non vedo. Ma faremmo, e facciamo, fatica a ritornare con queste nuove acquisizioni nel tempo del quotidiano. Se le raccontiamo, veniamo conditi via con un per una volta, ci sei riuscito, ma quanto potr mai durare? Sappiamo bene come sei fatto, se le mettiamo in atto, ci sentiamo scrutati con un certo allarme, che ti successo? Non sembri pi tu! Un ragazzo di neanche ventanni mi ha fronteggiato un giorno, un poco sconcertato ma anche irritato: prima lo sapevo chi ero, ero un tossicodipendente, ma adesso? Adesso devo ricominciare da capo, non so chi sono, e come faccio? Il sintomo qualcosa di pi ancora, consuetudine e limite, lineamento essenziale della nostra persona, non solo per gli altri ma per noi stessi. Che progressivamente entriamo sempre di pi nel personaggio rifinendo con attenzione dettagli sempre pi minuti. Ma se, spaventati dallessere restati imprigionati, volessimo uscirne, come sarebbe mai possibile? E per andare dove? E con che faccia? La nostra, di faccia, aderisce completamente al personaggio, tutti i nostri averi sono stati spesi per sostentarlo. S che, quando lavorando assieme magari si riesce a moltiplicare i personaggi e poi, magari ancora, a diversificare le persone, resta forte il lutto di quella unit che sapeva di unicit proprio nel suo essere catalogabile, riconducibile a una elementarit semplice, racchiusa in una definizione, un aggettivo, la diagnosi, appunto. Un vuoto doloroso su cui le persone si affacciano un po stranite, combattute fra la consapevolezza pi profonda e la fresca diversit. E si girano a guardarti, come ogni teorema o problema, una volta che si usciti dal sintomo sembra tutto cos banale, povero. Era cos semplice, come ho potuto mortificarmi dentro per tanto tempo? Come ho potuto non accorgermi? Come ho fatto a spenderci tante energie? Perch? a questo sintomo, al congerie di guidava la sgomento doloroso che mi riferisco con il lutto del pianto per avere perduto una identit, un ruolo, una micro abitudini che come una forte rete tratteneva e giornata intera. Dentro e fuori di s. E il lutto va

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onorato, va pianto, rispettato. Occorre il tempo (chi mai si pu permettere di stabilire il periodo giusto di una vedovanza? Quando si pu e si deve ricominciare a sorridere? Quando, se e come ci si pu comportare normalmente? Senza essere aggrediti dal malevolo: ha gi dimenticato! Sussurrato spesso da chi esortava a rifarsi una vita.), ma occorre anche custodire il ricordo. Ogni sintomo anche una creazione personale, una metafora importante cui abbiamo dedicato energie, inventiva, fatica e sofferenza. Non lo si pu cancellare amputandone la persona. Ma lo si pu conservare come unacquisizione di grande rilevanza che, chi sa mai?, potrebbe ancora essere utilizzata, magari non in quegli stessi termini, magari non nelle stesse situazioni, magari spezzettandola in tanti comportamenti, come una vera e propria eredit che ci appartiene. Il cambiamento, la trasformazione cui ogni persona ha ben diritto, non possono risolversi nellabitare un territorio sconosciuto di cui non sappiamo lingua, usanze, codici sociali. Leredit del sintomo pu innervare di s questo diverso modo di esistere, di modellare la propria giornata, aggiungendo vita a vita, moltiplicando le esperienze senza che queste debbano costringerci a crudeli amputazioni o a lacci ugualmente crudeli. Penso che anche per le trasformazioni del contesto sociale sarebbe bene ricordarsi di risarcire il vuoto che ogni cambiamento comporta. Pena limpoverimento di un tessuto di convivenza che si fa sempre pi rado, semplificato in termini miserabili. Se stato un grandissimo successo civile labolizione del delitto donore, ci siamo curati di dare una nuova e moderna edizione dellidea, del concetto, di onore? Possiamo farne a meno? Siamo certi che non ci servirebbe oggi quando lamentiamo assenza di responsabilit, quando difficile attribuire ancora fiducia? Lealt, un altro valore che non credo debba essere affossato solo perch stato amato dalla destra. Perch se non li onoriamo con attenzione e rispetto, questi valori ci tornano su allimprovviso, incontrollabili, proprio come le famose ricadute di cui si parla per i tossicodipendenti. Quando ci fu la storia del corvo di Palermo, il dubbio che un magistrato fornisse informazioni alla mafia sulle indagini in corso, lessi su molti giornali che catturare le impronte digitali del magistrato sospettato offrendogli un bicchiere di whisky non era un comportamento leale! Ma penso anche che la tecnologia dei trapianti possa essere assimilata al meglio se viene nuovamente e diversamente celebrato il culto del corpo morto, primo segnale di ogni civilt. Altrimenti,

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perch gli scoiattoli delle Dolomiti rischierebbero la vita per recuperare i corpi congelati, perch un soldato si ferma a aiutare il compagno ferito a morire, perch mai sarebbe cos importante riavere almeno il corpo del familiare ucciso? Per seppellirlo con onore. Il punto, mi sembra, non temere il cambiamento e linnovazione, frenare il cosiddetto progresso, ma, piuttosto, il punto non impoverire la nostra cultura, la convivenza civile di noi tutti. Non voglio contrastare i trapianti dorgano ma voglio che si accentuino e si moltiplichino tutte le occasioni e il valore dellassistenza a chi sta morendo, che luso della cremazione cerchi un suo proprio modo di celebrare il corpo morto, che la dimensione laica del rito vada a fiorire secondo i suoi canoni e non si limiti a togliere i petali al rito religioso abbandonato. Per far s che il cambiamento, auspicabile e bello e pieno di speranza, della persona e della societ sia un aggiungere, un articolare, un far interagire nuovi modi con antiche condivisioni. Affinch ci sia sempre pi spazio per tutti, complicati e complessi come siamo, alieni da una semplificazione incongrua che ci renderebbe forse tutti un po pi uguali in quanto tutti un po pi miserabili.

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Il presente nasce dal futuro Tanto vale cominciare con una confessione: a scuola non sono mai riuscita a padroneggiare la storia, la studiavo, ci provavo ciclicamente a farmela piacere ma sempre stata una inimicizia a pelle, ci fronteggiavamo con reciproco disgusto e rancore, quello che scaturisce dallamarezza di non sentirsi amati. Ce la intendevamo con il latino, la matematica, la fisica, il greco, con la storia no. Ho provato a darmi le spiegazioni pi varie: era fatta tutta sulle guerre, le date mi innervosivano, non era ben raccontata, non mi permetteva di curiosarci dentrotutte chiacchiere che non risolvevano nulla. Per, proprio allopposto del mio malanimo verso la storia, cera una passione grande per le storie, per i romanzi, per i racconti, le biografie e i resoconti di viaggi. La narrativa, insomma, che consumavo con la velocit e il disordine allegro e casuale tipici di quella et. Poi, pi grande e dopo aver fortunosamente sfangato i vari esami di storia, ho riflettuto tanto sulla questione, ne ho individuato almeno un paio di elementi ostici. Il primo era la rigidit in cui venivano allineate le varie vicende, in uno schema di riferimento che sapeva assai di compiaciuta verit: del tipo, ci ho lavorato tanto, ho studiato uninfinit di testi e ora ti propongo la versione vera, non ti affaticare a cercare altrove, te lo dico io. Tu studia e apprendi la mia sequenza che la migliore. Laltro grave ostacolo era il sottostante, ovvio uso del principio di causa ed effetto come principio elettivo ma mai effettivamente eletto, un principio che regnava con assoluta, incontrastata serenit. E anche contro questo ostacolo mi affaticavo inutilmente, disgustata da questa falsamente modesta esibizione di verit e della stretta ferma del corso della causa che produce leffetto. La matematica, la fisica, giostravano con le regole, le aggiravano, le superavano con balzi logici che ne proponevano di nuove, era una inventiva spregiudicata che addentava i problemi per costruire la soluzione pi logica/ elegante/ economica. Il latino e il greco arabescavano sulla struttura rigorosa della sintassi, incrociavano grammatica e semantica nella tensione costante di dire il nuovo per condividerlo attraverso luso della lingua. Ho ritrovato questa analoga pesantezza nel mio mestiere, lo splendido nitore della psicoanalisi che ancora mi emoziona mi sembrava immiserito quando, poi, si tiravano le fila del

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ragionamento: loggi cos perch un tempo, il presente discende da un passato vincolante, cerchiamo nei ricordi, nelle esperienze inattinte la chiave, la spiegazione, la risoluzione dei problemi, del dolore, dei sintomi. Fino a delineare corrispondenze fra sintomatologie ed eventi da ricercare nel passato in un disegno che dalliniziale aerea ipoteticit troppo spesso si nel tempo irrigidito e sclerotizzato in polverose linee guida. Mortificando linventiva, la fantasia, lemozione che cerca il nuovo, la spregiudicatezza necessaria per ogni avventura, la curiosit irriverente che non si quieta fino a che non appagata. E mi sono detta: ma se provassimo a capovolgere il discorso? Se il perch causale si ribaltasse in a quale scopo? Come dire, se lindagine sulloggi la leggessimo in funzione di un futuro, se movimenti, trasformazioni, pensieri da tentare li orientassimo verso il domani, che succederebbe? Tutta la struttura logica e concatenata della sapienza terapeutica diventa uno strumento fondamentale per la ricerca, come il sestante che ha permesso di navigare i mari e di spingersi oltre i confini dati. Ecco, allora, che il passato si fa fastoso serbatoio di dati, elementi, esperienze, pensieri, emozioni, a nostra disposizione affinch possiamo maneggiarli per costruirci un presente che guardi al futuro. Se ci pensiamo un attimo, non potremmo neanche alzarci la mattina, non sapremo come vestirci se non pensassimo a quello che ci aspetta nella giornata! Il nostro guardaroba certamente uninformazione vincolante, ci racconta le nostre scelte passate, ci definisce nei gusti, il nostro patrimonio affinch, pensando alloggi che svolgeremo nel tempo con incarichi, attivit, immaginandone dei tratti, curiosi o timorosi di quel che avverr nei fatti, possiamo scegliere che cosa indossare, come presentarci a mondo, in un abito che ci permetta di incontrarlo mentre noi ci riconosciamo dallinterno e, sullapparenza sociale, anche gli altri ci potranno riconoscere. Per fare qualcosa di nuovo e di riconoscibile, assieme in quanto differenti. Labito forse non fa il monaco, nel senso che non basta labito a fare lintero monaco, certamente, occorre vestirlo il nostro abito affinch possiamo essere riconosciuti. Ma scelgo labito in funzione di ci che dovr e vorr fare, labito che mi permetter di traghettare dai dettagli futuri che obbediranno alle previsioni a quegli improvvisi cambi di scenari che desideriamo e che ci spaventano. Linterpretazione di ci che successo, cos pericolosamente confinante con la verit oracolare, la lettura del cosiddetto materiale si spostano, allora, dalla constatazione pi o meno

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dolorosa, da una presa datto pi o meno trasformativa allo sguardo impaziente e curioso dei due protagonisti che si rivolgono al buio del futuro per strapparne i veli che si apprestano a far s che possa accadere. Tengo da tempo nel mio studio uno di quegli oggetti che giovani alternativi e con le treccine colorate vendevano su bancarelle improvvisate. una coppia di vetri trasparenti che racchiudono, ben sigillate, delle sabbie colorate. A seconda di come li muovi, le sabbie contenute fra i vetri si ridispongono in un disegno inedito, puoi appoggiarli di lato, puoi metterli ritti: dentro ai vetri, silenziosamente, la sabbia mescola i suoi elementi colorati, i suoi granelli sgranati e forma una nuova costellazione. Cascate, navi, monti e case, puoi leggerli come ognuno di noi racconta i suoi pensieri leggendo le forme delle nuvole, o delle foglie del the. O dei comportamenti. Sempre la lettura del mondo, degli eventi, dei gesti e delle movenze riflette il nostro pensiero e ci regala in contemporanea lemozione profonda della scoperta. Vedere il volto della madre nelle nuvole, come in un antico film di Woody Allen, riconoscere nella sagome della sabbia un promontorio cui sono agganciati tanti ricordi, ritrarsi con spavento dalla chiromante che ci legge la mano o che lancia le conchiglie e l, nelle sue parole, ci vediamo ritratti fin nei dettagli, ma anche il magico insight o quello che Giampaolo Lai ha chiamato la felicit della conversazione, ogni nostro movimento vitale lega stretto il mondo a noi e noi al mondo. Lo sappiamo bene tutti, talvolta lo sappiamo di pi, talvolta ci sfugge un poco. A me sembra pi utile raccogliere questo gomitolo di noi e mondo e cominciare a districarlo con lo sguardo e il cuore confidati al futuro, guidati dal desiderio e dal sogno, verso un terreno altro da cui e verso cui possiamo, a nostro modo, utilizzare il nostro passato. Che nostro non perch noi gli apparteniamo ma affinch possiamo disporne. Forse era pi semplice imparare la storia a tempo debito? Amo di pi le storie, per ora, ma domani chiss.

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Intimit e verginit Ascoltavo David Grossman al festival della letteratura di Mantova, un autore che amo molto, un pensiero giovane che porta con s tradizioni millenarie con una particolarissima capacit di raccontare questo difficile presente. E Grossman diceva: in ogni rapporto importante, con il partner, con i figli, con gli amici pi cari e pi vicini, occorre fare delle censure, occorre non guardare e non vedere delle cose dellaltro e, se le hai viste, occorre dimenticarle. Ogni rapporto importante, diceva, si basa su questo accordo, in cui ciascuno sceglie di ricordare degli aspetti e trascurarne altri, un forte pudore di s e dellaltro che permette e salvaguarda la profonda intimit. Ma con i personaggi di cui si scrittori, sorrideva, no, con quelli non cos, quando scrivi devi lasciarti violare fino in fondo e loro si impadroniscono di te e tu li racconti, non c piet n pudore che ti protegga, non puoi, non devi proteggerti. Ascoltavamo in tanti, eravamo persi in quel suo porsi gentile, libero, drammatico nella sua leggerezza. E sono andata a prendere il suo libro Col corpo capisco, (Mondatori, Milano 2003). Il primo racconto non mi ha coinvolto pi di tanto ma il secondo, dio mio che bello! E c un brano che mi piace riportare qui, un passo in cui Rotem, la figlia, interroga la madre, Nili, una grande insegnante di yoga. E la insegue, avida di poter raggiungere il suo cuore pi profondo, chiede di poter essere accolta, o forse solo toccare, quel suo inviolato segreto, quel suo punto vitale che le sempre stato negato. E, dolorante, Rotem dice: La verit che lei ha sempre saputo proteggersi dalle sofferenze altrui. Chi la conosce non ci creder () Era un rivestimento trasparente, spirituale naturalmente, ma molto robusto, che la avvolgeva completamente e dentro il quale si rannicchiava. () Lei mi ha spiegato che grazie a questo rivestimento, a questa barriera, poteva donare se stessa agli altri, fluire senza limiti. Proprio perch nessuno poteva attingere dalla sua forza. () Con grande onest, con un candore criminale, Nili mi ha spiegato che se avesse permesso a qualcuno di penetrare, di attingere liberamente alle sue forze, lei non sarebbe stata pi la stessa. () Ma se dovessi avere bisogno di tutte le tue forze, anche quelle che conservi laggi? () Lei () invece di una risposta, ha cercato di insegnarmi ancora una volta a proteggere me stessa, a non permettere al dolore del mondo, a qualsiasi altra cosa, di insinuarsi dentro di me. Nemmeno al grande amore della tua vita, ripeteva, () nemmeno alla persona

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che di pi ami al mondo. Poi sorrideva, quel sorriso stupendo, ingenuo: nemmeno a me. un passo drammatico, brutale eppure cos vero, cos terribilmente e innocentemente vero. Cos inevitabile in tutti i rapporti profondamente affettivi e talmente indispensabile in questo nostro mestiere. Perch poi proprio questa inviolabile verginit che permette di avviare lintimit profonda, proprio cos che si pu accogliere e ospitare chiunque in un territorio pulito, libero dal desideri e dalla memoria. Lintimit pi profonda non tollera ma si esprime nel silenzio, che non lassenza di parola ma il prima, il luogo profondo della sensazione emotiva che non si pu mettere in parola. Linnamorato parla, scrive, descrive e declama, poi nel rapporto le parole citano e descrivono le cose interne ed esterne che vengono condivise fino a che le vite si definiscono pi pienamente in s, scorrono appaiate, non pi fuse se non per incontri di caduta abissale di intimit, commoventi nel loro struggimento ma non perch nostalgici, piuttosto perch sperimentano linfinita intesa dentro il limite strettissimo della parola. Ed per questo che si parla di s agli estranei, alle persone con cui si veramente in intimit le parole troppo scoperte risultano indecenti. Sappiamo benissimo come unintimit semplice sia vietata quando si veramente molto vicini. Le frasi dei fidanzati sono quasi impudiche in un rapporto forte, contemporaneamente troppe e troppo poche, insoddisfacenti e lievemente irritanti. A questo servono le distanze, a potersi nuovamente scrivere perch non siamo l quando laltro legge. Diceva Philippe Daverio in una intervista a Radio 3 scienze, accendi una radiolina in giardino e dalla cucina ti sembrer di ascoltare un pianista in diretta, metti su un concerto di Chopin in soggiorno, in un sofisticato hi fi e ti accorgerai comunque dellartificiosit del mezzo che ha registrato. Il luogo comune delle confidenze allo sconosciuto in treno, come la scopata senza cerniera di Erica Jong, sono esperienze di tutti noi. Parlare intimamente con un amico nella notte davanti a un fuoco ci rende imbarazzati, distanti, forse anche un po rancorosi quando ci ritroviamo a colazione. Non perch ci siamo aperti con lui, non perch lui ci giudichi o si comporti in modo indelicato. No, perch lui anche altro, un rapporto affettivo che continua, che permane. Con le persone pi care, pi vicine, le parole sono sempre allusioni, riferimenti a, cos da non esserci nellattimo in cui

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laltro coglie il nostro essere. Da distogliere lo sguardo sperando disperatamente di essere colti nel nostro intendimento pi profondo ma incapaci di poterci essere, con laltro, in quellistante decisivo. Quando laltro ci coglie e ci contiene nella sua persona, allora possiamo abitarla nelle sue mani. Ma non nello stesso momento, prima ci deve aver raccolto e dopo possiamo entrarvi. I rapporti affettivi profondi contengono questi attimi di sconfinata solitudine, che siamo noi ad abbracciare il segreto dellaltro o che, ansiosi, attendiamo di essere contenuti nelle sue mani. Come nellincontro sessuale in cui ti cerchi nellaltro cercandolo senza tregua. per questo che nel nostro mestiere possiamo imbandire ogni volta una totale intimit, questo il senso dellastinenza. Eppure, resta comunque un dolore in fondo alla gola di non poterci perdere luno nellaltro, assieme al terrore che veramente avvenga. Perch non torneremmo pi indietro. Lo sgomento e la rabbia dei figli che vogliono forzare questa verginit fa parte del dolore inevitabile, per loro e per noi. Per loro (per noi tutti, figli) per essere restati al di fuori, per i genitori nellassistere alla sofferenza del saperli restati al di fuori e nella struggente nostalgia di non poterli raggiungere. E anche per dovere rinunciare a spiegarsi, raccontarsi, narrarsi come acque senza controllo. Comunque non ci si incontrerebbe pi di un tanto e forse il danno sarebbe alto. E se ci incontrassimo veramente, se realmente toccassimo il cuore dei figli e lo congiungessimo al nostro, chi mai riuscirebbe pi a staccarci? Brava Nili e bravo Grossman, ma sarebbe pur bello se non avessero ragione!

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La clinica e le donne Qualche considerazione su un accoppiamento che sembra molto naturale ma che a me sembra presentare dei passaggi non cos ovvi n trasparenti. Sia dal punto dosservazione delle donne psicoterapeute, sia da quello delle donne intese come pazienti (termine che non amo ma qui lo uso per intenderci rapidamente, diffuso definisce cos le persone che, cercando una relazione migliore con se stessi, vanno a lavorare con i professionisti chiamati terapeuti). Perch questa sfumatura di preoccupazione? Beh, quel che mi gira in testa che le donne, noi donne, ci accostiamo allesperienza chiamata terapia tutto sommato a passo lieve. Qualche ruga di ansia, il timore di scoprire chiss mai quali terribili cose al nostro interno, un pudore impacciato, certo, ma nella sostanza non unesperienza che ci risulta estranea. Gli anni dei gruppi di autocoscienza ce li ricordiamo bene ma ben prima e dopo di questi, in tutta la storia delle donne presente il confidarsi, lo scoprirsi, il rovesciare pensieri vuotandoli sul tavolo come se fossero il portamonete racchiuso nellincavo dei seni e poi riguardarli, rigirarli, le dita delicate e impazienti assieme che si accavallano nel comporre disegni e figure. Le donne, noi donne, scriviamo i diari, facciamo le telefonate, prendiamoci un caff perch ti devo parlare, ci raccontiamo e raccontandoci svolgiamo davanti ai nostri occhi il film delle emozioni, delle percezioni, dei nostri pensieri. Forse una delle nostre competenze pi abituali e diffuse, non a caso archiviata dai maschietti nella sprezzante categoria delle chiacchiere. Eppure, proprio da qui che vorrei prendere le mosse: troppo abituale, troppo diffusa, troppo femminile questa competenza, tale che non ci sembra davvero di dover fare un salto grandissimo entrando, come si dice, in terapia. E, allora, accade spesso che esattamente questa facilit di giocarci nel rapporto ci faccia velo alla necessit di un registro altro da attuare, praticamente sovrapponibile ma con un filo di differenza che lo rende sostanzialmente, radicalmente differente. Mi capitato spesso di sperimentare questa parete divisoria trasparente e in gran parte indefinibile ma chi ci passato credo sappia che cosa intendo. Accade, allora, di trovarsi di fronte a una grandissima difficolt perch le parole stesse tradiscono il nostro pensiero accoppiandosi velocemente con la predisposizione abituale alla confidenza e nascondendo cos il salto logico e relazionale che

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occorre per entrare a pieno titolo nel rapporto terapeutico. Mi capitato di sbattere contro questa parete e di ristare sconfitta, le dita che accarezzavano e premevano e spingevano e tentavano invano una trasparenza infrangibile. stato allora che una donna mia coetanea, di grande spessore umano e intellettuale, mi ha lasciato dicendosi delusa della mia mancanza di coraggio nel seguirla liberamente, che unaltra, importante ed impegnata, mi ha bollato di volgarit, che quella ragazza un po invecchiata si risentita perch non mi ero preoccupata di chiamarla per sapere come stava dopo che aveva interrotto i nostri incontri. Evidentemente, il mio racconto sarebbe parallelo allaltro, ma non voglio tanto ora analizzare o confrontare i diversi resoconti di unesperienza vissuta in comune. In questi casi, e in altri ancora forse meno eclatanti o risolti con uno scarto che siamo state capaci di dare al nostro rapporto, comunque mi era sembrato di trovarmi di fronte a questa vitrea impossibilit di riuscire a intenderci. Esperienza piuttosto dolorosa. Ovviamente, lo stesso ostacolo possono trovarlo le donne che praticano questo mestiere dalla parte del terapeuta. Con la scioltezza dellabitudine, talvolta, spesso, non ci accorgiamo che non ci siamo preoccupate della necessit di partire da zero e non da tre. Come accade alle nonne che non sanno imparare nuovamente dalle madri. Dice con intelligenza chiara Daniela: un capomastro, abile nel suo mestiere, pu arrivare a diventare pi abile, abilissimo, ma non ha lapertura delle opzioni di chi comincia da zero per imparare il mestiere. Ce lo ha raccontato Massimo Troisi, ce lo mostrano le linee che si divaricano: la maggiore apertura richiede una partenza non pi grande di un piccolissimo punto per una forbice ampia, generosa. Come dire che la predisposizione femminile a confidarsi una sorta di falso amico come accade nelle lingue vicine, sorelle? S, un po cos, tanti, mille punti di contatto che troppo spesso costringono a un accoppiamento che non richieda stupore, che scorra via facilmente. Da questo punto di vista, ben vero che gli uomini si servono con minore frequenza delle nostre pregiate professionalit ma, quando decidono di usarle, spesso accade che si accostino agli incontri terapeutici con una seria, composta attenzione a capire, vedere, adeguarsi a regole che pensano di non conoscere e, dunque, si predispongono ad imparare. Lavorare con le donne pi facile, sembra richiedere un grado minore di estraniamento dal nostro modo di essere persona eppure penso che sia pi scivoloso, che pi

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di frequente occorra testare se ci stiamo adagiando in un agevole rapportarsi di cui conosciamo bene dettagli minuti, sequenze, sorrisi, complicit. Lavorare con un uomo diversamente facile, c un gusto speciale nel riuscire a costruire con un uomo una intimit dintesa che non travalica il rispetto pudico per trasformarsi in complicit. Siamo pi avvertite, noi donne che facciamo le psico, quando ci rapportiamo con un uomo e, forse, lattenzione che dedichiamo rende pi semplice procedere assieme, senza slittamenti o sbandamenti verso registri incongrui con il nostro lavoro. E, ancora, tanto per non tralasciare di massacrarci aggiungendo difficolt a difficolt, lo stesso ambito terapeutico trascina verso un ruolo ben codificato da chiss quanto: basta ricordare i termini cura, rispetto, intimit, malattia, sofferenza, dolore, rapporto, disponibilit, conversazione..., termini che rimandano immediatamente a una cultura che tradizionalmente viene abitata dalle donne. Le mani fresche e leggere che consolano il sofferente, lesposizione delle piaghe da curare, lesperienza antica del dolore negli occhi di chi si prende cura, come non riconoscere i tratti delle suore cappellone negli ospedali, delle infermiere di guerra, delle madri, delle spose, delle nonne che proteggono e curano parlando piano fino a che il pianto si acquieta? proprio questo, appunto, il pericolo troppo trascurato, una professione cui le donne dovrebbero dedicarsi per naturale predisposizione, rischiando di non impararlo mai realmente ex novo, cui gli uomini possono dedicarsi spostando il loro polo naturale inclinandolo verso un universo altro dal mondo maschile, capaci, dunque, di cominciare ad apprenderlo ma rischiando, a loro volta, di fraintendere una necessit di adeguarsi a un ambiente che sentono pregiudizialmente aperto alle donne. S che nel tentativo di femminilizzare il loro intervento per avere il diritto di libera circolazione, finiscono per trattenere con redini forzate la loro mascolinit operando una sorta di devirilizzazione: atteggiamento un poco mesto e pensoso, voce controllata, spalle curve, un sentore di sofferenza tutto attorno. Impersonare la funzione paterna scivoloso per gli uomini quanto reggere la funzione materna per le donne ma si respira per gli uomini e per le donne una qualche tristezza di costrizione: quando ridono gli psico? Lallegria strumento da utilizzare? La sofferenza va omaggiata con il rispetto di un tono sottomesso?

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Non sar che abbiamo bisogno anche nel nostro lavoro di cogliere e realizzare una pi attuale definizione dei sessi? Maneggiando con nuova e diversa attenzione lo scambio e lo scarto fra le nostre competenze date e le necessit richieste dallesercizio professionale? Potremmo provare a ricominciare a ragionarci con la spregiudicatezza che esige lavvento di un nuovo secolo, di un nuovo millennio? Magari giurando che lasceremo comunque (per un po!) intatti i posti dirigenziali agli uomini?

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La curva a tocchettini Questo titolo ha una storia. Tanti anni fa, cera il sole un po freddoloso di inizio primavera, ero in macchina, diretti da qualche parte ma non ricordo assolutamente dove e tanto meno il perch. Ricordo, per, il conducente dellauto, un ragazzo alto, magro, con gli occhi verdi stretti e le mani grandi. Allora ero troppo giovane per avere la patente e lui faceva un po di scena, fiero della sua abilit. Vedi, mi diceva con voluta noncuranza, il punto come si prendono le curve, se si tengono le mani sul volante seguendo landamento della curva, (e lo mostrava, imboccando la curva con le mani ben salde) va a finire che ci si ritrova con il corpo sbilanciato e le mani impastoiate in una posa poco comoda (ed eccolo l che pende verso il finestrino, i polsi torti a seguire la curva). Poi mi guarda, per vedere leffetto della mini pantomima, e continua, invece tu non devi mai essere in curva, pericoloso, hai visto?, devi essere sempre in asse anche mentre stai eseguendo una curva, cio la prendi a tocchettini, curvi un attimo e raddrizzi il volante, poi ancora una sterzata e ancora raddrizzi, cos, e mi mostrava. Sar che stato efficace nella dimostrazione, sar che mi sembrava bellissimo, fatto che ho custodito lidea della curva a tocchettini come icona di un modo di procedere in sicurezza, nella professione e non solo. Da quella immagine lontana ho mantenuto il modo di frammentare il tempo, cos che ogni istante si caratterizza come unit autonoma: se ho seguito troppo la curva e sono sbilanciata, rapido il movimento che riassesta la postura, se ho fatto un intervento che non mi piace o che mi sembra non sia piaciuto al mio interlocutore, faccio in fretta a ritirarmi, a mutare proposta, a cercare diversamente una intesa per me indispensabile. Ovviamente, se il disappunto dellaltro, o mio, mi coglie di sorpresa: accade che nel mio lavoro ritenga di dover risultare faticosa, difficile da trovare, magari oppositiva o complicata, cerco che accada il meno possibile ma non mi ci sottraggo. Ma certo che se fraziono lo spostamento in tocchettini mi agevole ritornare in asse, scusandomi, spiegando quel che avevo voluto intendere, verificando se il disappunto che mi parso di cogliere arrivato cos anche allaltro. Anche per questo cerco di imparare ogni anno un giocattolo nuovo per ampliare la gamma degli strumenti a mia disposizione, anche per questo sono tanto fissata con la precisione della tecnica da usare in ogni dettaglio, anche per questo racchiudo listante

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successivo in una serie di cerchi concentrici ognuno dei quali ha un suo sistema di sicurezza: se anche non dovessi avere successo potrei sopravvivere? Se anche oggi non va poi tanto bene lincontro, laltro se ne andrebbe via? Potrei mantenere unautostima professionale anche se laltro se ne andasse? E cos via, come quando si verificano le macchine, appunto, prima di mettersi in viaggio. Se sappiamo che consuma molto olio ce ne portiamo una lattina, se scalda tanto il motore ecco la bottiglia dellacqua da rabboccare, se la strada fosse brutta posso fermarmi e casomai tornare indietro, se non so come procedere chieder. Fatti i controlli, sono finalmente libera di salire sullauto, libera di guidare perch libera da pensieri o preoccupazioni che mi intralcerebbero il movimento con la loro presenza importuna. Seguo landamento dei tornanti restando sempre bene in asse, per cogliere lintesa con laltro ho bisogno di avere tutta la scioltezza possibile e solo cos il mio lavoro mi rende felice. Dice: e quando fori? Quando foro ne prendo atto e scendo cambiare la ruota, so di avere a posto quella di scorta e anche allora a consolarmi c un ricordo lontano di un altro amico che quando forava, fermava con calma, accendeva la radio, cambiava la ruota e poi si toglieva il grasso dalle dita con dei fazzolettini detergenti di cui aveva sempre una scatola con s. In verit, io mi sporco molto quando debbo cambiare una ruota che ho bucato ma, se appena mi riesce, la radio laccendo.

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Alle madri di maschi Con questa dedica Ann ha inviato questa poesia di Mary Carr che ha tradotto per noi, la riporto di seguito: Entrando nel Regno. Quando del figlio si allungarono le ossa e crebbe il cuore e la mente, un giorno sua madre manc di riconoscersi in lui. Era diventato un uomo, che irradiava l'innata solitudine degli uomini. Da allora in poi la sua espressione le fu un enigma. Quando sull'orlo del sonno i suoi lineamenti si ammorbidivano infantilmente, era un istante. Poteva solo stringere la sua ampia spalla. Cosa avrebbe potuto insegnargli della Perdita, proprio a lui che ora l'infliggeva, entrando nel regno della sua propria volont? Gi, le madri di maschi si trovano a impattare una virilit difficile, capovolta e ripetuta come in una clessidra con quella del padre del ragazzo. Capita, cos, che lo stesso moto dinsofferenza o magari di violenza appena trattenuta, proprio quello stesso che si trovava insopportabile nelluomo divenga occasione di un compiacimento segreto da contemplare nel figlio. Oppure, un comportamento da stroncare, subito, duramente, s che neanche prenda terreno la sola idea della crescita, della trasformazione del ragazzo ancora quasi bambino in uomo, dellassottigliarsi delle rotondit in muscoli lunghi, di capricci lagnosi che evolvono in affermazioni secche di una volont tutta nuova. Le donne italiane maneggiano con incertezza la mascolinit del figlio quanto sono confuse e contraddittorie nei confronti delluomo.

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C come uno sconcerto, talvolta diventa furia nella scoperta improvvisa di ritrovarsi in trappola, di fronte a uomini accomodanti e cedevoli che cercano solo di potersene stare in pace, senza ambizioni complicate o desideri faticosi. Che vorrebbero vivere tranquilli mentre, e quanto pi, la loro compagna tutto un fiorire di proposte e di iniziative. Che loro non contrastano, no, si limitano a chiedere di esserne esentati, restano senza rancore n gelosia davanti al televisore o al computer. Uomini che sembrano scimmiottare la comprensione e la disponibilit tradizionalmente attribuita alle donne, ripetendo la caricatura triste di chi pretende femminilizzato un uomo privato degli attributi maschili, certo, labitudine cos antica ma ancora sotto pelle di pensare le donne come uomini senza. Uomini che vengono definiti tanto sensibili ma che sembrano aver dimenticato certe durezze che accompagnano la mascolinit e, quasi, direttamente la mascolinit stessa. Mi diceva, una volta, una donna che nel suo amore per le donne aveva spesso nostalgia delle labbra dure di un uomo. Perfino la collera, un tempo attributo quasi sacrale, sembra oggi desueta, perfino come parola, malamente sostituita da rabbia, scatto di nervi, furori umorali, vogliamo dirlo? isterici, appunto, propri dellutero. Che drammaticamente si stravolgono in vere e proprie violenze, verbali, fisiche, esplosioni incontrollate senza alcun senso utilizzabile, da parte di nessuno. E di cui, a buon bisogno, viene attribuita responsabilit e colpa alla donna stessa che ha voluto troppo, che mette in difficolt il compagno perch capace e competitiva, perch di successo, perch guadagna e si diverte e ha cento amici e mille interessi. Che pretende, perfino, di avere un rapporto sessuale pieno, soddisfacente, invece di adattarsi, comprensiva e riservata. Quante volte mi capitato di assistere a pianti umiliati e brucianti di donne che nel mio studio si dibattevano in questa morsa, sapendo bene come sarebbe stato semplice lasciare il rapporto eppure decise a incaponirsi, a stanarlo, a far emergere infine luomo nel loro compagno! Tutto questo ben presente nelle madri dei maschi che li vedono crescere con unansia dibattuta fra il volerli modellati secondo le esigenze femministe e la necessit che, allopposto, vengano coltivate e fatte crescere le caratteristiche maschili. Fra nostalgie di un assetto ancora estremamente recente, in cui il passo si muove sicuro su tracce ben note, con ruoli distinti e reciprocamente specchiati e la voglia, la speranza di un assetto nuovo, dellavvento

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di un mondo di persone, di pari, uomini e donne che si affiancano, si scambiano, collaborano e si scontrano, nel segno della dignit, della responsabilit vitale, lontana dal mesto senso di colpa, donne e uomini che si scoprono uno nellaltro, che si distinguono senza dovere prendere le distanze, che riprendono a conoscere la gioia, lallegria, limpegno, il fare assieme, la progettazione e le mani sul futuro. I maschietti di una scuola materna che inseguono una bambina e la chiudono nellangolo sono dei futuri violentatori, da redarguire con fermezza inequivoca fino a che si in tempo oppure sono dei bambinetti che stanno liberamente dando sfogo a istinti sacrosanti? Che si dice al faccino sollevato e interrogativo di un piccolo di tre anni? Che non si azzardi mai pi, che non sportivo perch non era solo, che vada a chiedere scusa alla bambina, che penseremo noi a scusarci con i genitori, che non frequenti mai pi quei bambini cattivi che gli fanno fare quelle brutte cose, che cosa si dice a vostro figlio che attende di sapere dalla madre che cosa deve pensare di ci che ha fatto? Un po come protestare quando vostro figlio al parco giochi gridando: mio! strappa il suo giocattolo dal bambino che laveva raccolto da terra. Un subbuglio di pensieri, emozioni, ideologie, praticit: no, non tuo, solo un giocattolo, dai, prestaglielo per un po, bambino glielo puoi ridare che dobbiamo andare, facciamo uno scambio, vuoi un gelato? Che cosa si dice, che cosa si deve dire? E che fare della richiesta profonda di ogni figlio di avere la madre sempre e comunque al suo fianco se non dalla sua parte? Negandoci in nome dellequit o dellesame di realt, ne facciamo dei bambocci mammoni, dei prepotenti che la ottengono a ogni costo o degli adulti deprivati di quella solida, basilare certezza di essere comunque amabili e amati? Il re del Marocco vuole incrementare la cultura delle sue donne perch, dice, sono le madri a crescere i figli e quanto pi aumenter la loro cultura tanto maggiore sar la grandezza danimo dei loro figli, dei cittadini. Credo che le donne di oggi debbano nuovamente scoprire una stima per luomo, non so bene come funzioni in altri paesi ma a me sembra che in Italia il rapporto fra la donna e luomo sia un poco strano, anzi, particolare come si dice abitualmente intendendo, con unocchiata significativa, alludere a chiss poi che cosa. Strano per unintricata rete di legami che da una parte pendono verso una devozione timorosa e compiacente e, dallaltro, sfociano in aperto disprezzo. La donna italiana (almeno fino alla mia generazione ma ne colgo tracce

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significative anche sulle ventenni) sogguarda in tralice il suo uomo, sempre pronta a percepire un suo eventuale malumore, lo tormenta chiedendogli mille volte che coshai? oppure a che cosa pensi?, cerca di sondarne lintimo, disperatamente interessata a ci che gli accade dentro. Per amore, si direbbe, no?, perch lui il centro del suo universo, perch lei la moderna geisha che non si occupa di massaggiargli i piedi (almeno non tutte!) ma dellanimo che si prende cura amorosa. Pronta a farsi stuoino, sembrerebbe, per le sue esigenze: vuoi parlarmi del tuo lavoro?, vuoi un po pi di sale?, non hai freddo senza maniche?, hai sentito oggi tua madre? Che intollerabile condiscendenza, un servilismo umiliante in gran parte orientato a disinnescare la violenza temuta di lui: fisica (e quanto!), verbale, il suono alto della voce che grida, le spalle di lei che si chiudono, la voce di lui che si arrochisce per la furia che monta, lei che volge il viso come a stornare da s laggressione, raccoglie le stoviglie, stira con le dita la tovaglia, rifugi modesti di un quotidiano domestico che fedelmente la riconosce. Sono scene che sappiamo da sempre (anche se ogni volta ci stringono dangoscia rinnovata), le donne se le raccontano, consolano, accolgono in abbracci e carezze tenere la donna e lamica, affastellano considerazioni trite rassicuranti e inoppugnabili proprio nella loro stolida banalit e, poi, scaduto il tempo, sciolgono il cerchio che le proteggeva e tornano sole, ciascuna a rivestire il suo chimono stropicciato. Allora, questa versione la conosco, la conosciamo da tanto tempo, il refrain delluomo prevaricatore labbiamo spolpato fino allultimo impostandovi su rivendicazioni femministe di ogni genere e qualit, diversamente capaci di produrre risultati ma che tutte, nella loro gamma variegata, riconosco e faccio mie anche oggi. Semplicemente, propongo di aggiungere un altro punto di vista mirato a cogliere le nostre partecipazioni al perpetuarsi di un circuito brutto e maligno, anche perch, banalmente, mi appare improbabile affidarsi alla capacit maschile di modificare un canovaccio da cui, in prima battuta, risulterebbe trarre vantaggio. E, appunto, il vantaggio solo sul piano del cosiddetto potere sociale ma la pesantissima contropartita il disprezzo con cui le donne valutano luomo italiano: ragazzone, semplice nei suoi pensieri fino a rasentare una rigida stupidit, violento in quanto incapace di vincere altrimenti sulla donna, sostanzialmente un bambino mal cresciuto da accudire, frenare, educare, perennemente incompetente nel vivere. Non sa scegliersi i vestiti

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(la donna governante), non sa tenere la casa (la donna domestica), non sa maneggiare i figli (dammelo qua che piange), si imbrana nei rapporti (la padrona di casa che entra trionfalmente con le lasagne), viene mandato ogni giorno fuori di casa a lavorare (e non diciamo ai nostri figli che la scuola il loro lavoro?) e ne ritorna stressato (come odio questa parola, onnicomprensiva e sterile quanto il senso di colpa!), un bambino in pi che la donna superwoman deve allevare con infinita pazienza (io sono buona e cara, ma se mi arrabbio la fine). Come stato detto che per molto tempo la donna non ha saputo trovare un suo stile femminile nel lavoro, cos, analogamente, i giovani padri al parco giochi, quelli al supermercato con il figlio nello zaino, i single non hanno ancora trovato un loro stile maschile, ripetono movenze e comportamenti femminili da sempre. Nulla di male, in verit, ma come fatto un padre di oggi che non sia un mammo? Come fa la spesa un vero uomo che non sia Batman n Schwarzenegger? Le pi giovani generazioni vedono maschietti sempre maggiormente privi dei segni del maschio adulto: avete notato che i trentenni di oggi non hanno pi capelli?, che sono efebici nella loro dinoccolatura?, che usano frasi sempre pi semplici, elementari nella loro gergalit?, che a quarantanni sono gi disinteressati ai rapporti sessuali? E non perch, intimiditi da questa novella virago, la vagina dentata di tanti studi (maschili), si ritraggono spuntando e amputando la loro virilit cercando da eunuchi la protezione sicura dellharem, ma perch divengono sempre di pi simili al bambino che, notoriamente, privo di sesso. Non accade cos per le ragazze, non sono efebiche, magari anoressiche ma veramente un altro discorso. Che voglio dire, dove voglio andare a parare? molto semplicemente, fino a che non spezzeremo il terribile circuito per cui luomo un figlio mal cresciuto (la Badinter scriveva anni fa che ogni maschio deve dimostrare 1) di essere cresciuto, 2) di essersi staccato dalla mamma, 3) di non essere gay; tutte richieste che non vengono rivolte alle donne) saremo anche noi donne a perpetuare, molto pi che solo una tragica disparit sociale, una ugualmente tragica incompletezza nel rapporto fra i sessi: non si pu, non si deve andare a letto con il proprio figlio, ma il compagno adulto dov? E se il figlio di mamma, beh le mamme italiche, pettone e accudenti, non sanno neanche dov di casa il rispetto e la stima per i figli: loro propriet inalienabile, ne fanno luso di un oggetto: possono prestarli, mandarli in giro, affidarli a un lavoro

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che li tenga impegnati ma stima, perch mai? Una madre risponde a una persona che critica il figlio: beh, che devo farci se ho fatto un figlio deficiente? attenzione: lha fatto lei deficiente, non gli vien riconosciuta nemmeno la capacit di essere deficiente in proprio, come ribattevamo a nostra madre sulle cattive compagnie: non ci valuti capaci neppure di perderci in proprio, ci vogliono le cattive compagnie per traviarci? Di mancanza di stima si pu morire dentro ben di pi che di mancanza damore, non ora di finirla con questi asili dinfanzia sempre pieni, in cui non c pi posto per accogliere i piccoli veri, con let giusta? Oppure vogliamo continuare dolorosamente a vedere i nostri figli entrare nel Regno, al seguito del guerrafondaio di turno?

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Lei o lui? Un fatto che mi sembra sempre singolare lobbligo cui tutti pi o meno obbediamo di scegliere uno su due, di fare graduatorie, di comparare prendendo le misure, di elicitare il vincente definendo perdenti laltro o gli altri. Sembra che non siamo capaci (o abilitati) a considerare la coppia, (linsieme, il gruppo) vedendone chiaramente i membri, apprezzare le qualit delluna o dellaltro senza che il giudizio debba necessariamente capovolgersi in constatazione di vuoti o demeriti dellaltro. Mi spiego, se si parla di una donna che ha avuto successo, che ha concluso bene una attivit, che stata brava con un pubblico riconoscimento, che ha gestito un affare difficile in maniera eccellente, subito dopo lapprezzamento ecco comparire il sorrisetto o la battuta sarcastica sul suo compagno: ma lhai visto, a quella premiazione, costretto a fare il principe consorte? Poveretto, convivere con una manager, non lo invidio certo, magari deve anche cucinare e tenere i bambini, con lei che porta i pantaloni in casa, e poi si lamentano se i matrimoni saltano e dicono che di maschi di un tempo non se ne trovano pi. Oppure, se lui il vincente, ecco la compassione per doversi tenere quella moglie cos limitata, che fa rappresentanza ma per piacere non la fate parlare! Daltronde, ancora carina, doveva essere una bellezza da giovane, da ragazzi si va dietro lamore e poi lui bravo, forse si prende qualche svogliatura ma in fondo discreto,... Quello che mi colpisce linclinazione su cui scivola immediatamente il nostro pensare, perch magari non lo diciamo apertamente ma il pensiero si forma quasi da solo ed l, bello chiaro e ben leggibile. Un riflesso automatico che, sia pur prescindendo per ora dalle sacrosante diatribe e filippiche sul femminismo, certamente condiziona i nostri rapporti ma, soprattutto, sarebbe apertamente smentito dalla nostra esperienza quotidiana. I nostri amici, quelli che invitiamo a cena o con cui ci confrontiamo, quelli che ci consolano e ci confortano nella fatica del vivere, raramente formano coppie cos squilibrate. O, meglio, raramente formano coppie in cui il pieno delluno debba obbligatoriamente corrispondere al vuoto dellaltro. Sembra uneco della drammatica confusione fra parit e uguaglianza, sembra che comunque per tranquillizzarci la nostra sommatoria debba avere risultato zero. Ma perch mai? E quanto ci costa in termini di libert di pensiero, di gestione delle nostre emozioni, dei nostri

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sentimenti? Quanto ci vincola e ci anchilosa unidea del gioco relazionale e sociale pensato solo come una gara, un giudizio, una selezione estenuante? E quanto ci mette a rischio anche per quanto riguarda noi stessi? ovvio che esistono i conflitti, le discriminazioni, le lotte di conquista, il tentativo di sopraffare il parere dellaltro, di spuntarla sulla collocazione dellarmadio, la scuola dei figli, la dieta, il modo di curarsi, se va chiusa la chiavetta del gas e abbassati gli avvolgibili la sera, se si deve dormire con la finestra aperta o chiusa, se la mia mamma meglio o peggio della tua, luso del denaro (chi il risparmiatore e chi scialacqua? Chi spende con oculatezza e chi troppo di classe per badare agli spiccioli?), la politica, la spiritualit, le credenze, i sogni. N certamente propongo o auspico unarmonia ininterrotta, no, semplicemente mi chiedo come potremmo essere nei rapporti se sapessimo concepire il successo contemporaneo delluna e dellaltro, quale ne sarebbe il costo sociale e personale oltre ai vantaggi che mi appaiono pi facilmente. Forse, si potrebbe immaginare di rendere dinamica questa costrizione, lasciare che la luce di un partner richieda il temporaneo oscurarsi dellaltro e poi mutare la messa a fuoco, forse ci che mi appare faticoso e pesante la persistenza monotona del punto di vista. Come nei tarocchi, la carta del mondo in cui sinseguono e mai si raggiungono ma ambedue corrono. Forse, allora, affrettando ogni volta un poco di pi lo scambio del gioco figura sfondo, abbreviando i tempi, chiss mai che ci abituiamo a saper tollerare una contemplazione in cui il valore delluno si appoggi su quello dellaltro e non debba spiccare su di un vuoto. Si dice, certo, che dietro il successo di un granduomo c una gran donna ma sapremmo realmente pensarlo e dirlo anche per il successo di una donna senza che questo le apporti una certa diminuzione di valore? Difficile, se ancora oggi cos impervio che una donna possa semplicemente offrire un caff a un uomo senza imbarazzo reciproco. Galateo, ruoli sociali, daccordo, e tutti i mille timori di una perequazione che sfili i perni centrali della convivenza eppure come possiamo non considerarla una questione essenziale dei nostri tempi? Sempre la Mastretta (e non metteremmo larticolo per un uomo!) scriveva acida: perch al compagno di una donna ambasciatrice non viene mai proposto di visitare un istituto di beneficenza?

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Perch non ne siamo capaci, Angeles, perch ci stride in mano e in testa una proposta cos semplice, perch anche noi donne in fondo non credo che lo vorremmo. Perch vorremmo al nostro fianco, nel momento del successo, non un mesto principe consorte (costretto, magari, come Filippo dInghilterra a vendicarsi prendendo a calci i cani della consorte) ma un uomo di cui essere fiere. Perch la pari dignit non passa, non pu passare attraverso lo scacco del vincitore di ieri. Per quanto violento, sopraffattore, sfruttatore e becero sia stato, non pi il tempo di fargliela pagare, questo credo che noi femministe vintage labbiamo dovuto e saputo finalmente comprendere fino al nocciolo pi legnoso: non funziona cos, o, meglio, se funziona cos non ci appaga. Non la sconfitta dellaltro il nostro risarcimento, non questo che frantuma il tetto di cristallo. Sarebbe ancora il gioco antico che ci ha fatto tanto soffrire. Ma un gioco altro che non si concluda con un vincitore e uno sconfitto richiede un pensiero che sappia accogliere una vittoria di ambedue. E, poi, forse, la vittoria per luna o per laltro ha lineamenti differenti. Forse, ma bisognerebbe ragionarci un po su, forse quello che cercano le donne la stima pi che lamore mentre gli uomini hanno pi bisogno, nello scambio, di ottenere lamore. So bene come difficile districare questi due valori ma una questione di accentuazione. Nel sociale, il successo si chiama prevalentemente stima, nellambito privato amore. E se vogliamo rendere pi facilmente comunicabili questi due mondi (il privato politico dicevamo nel lontano e mai dimenticato 68) forse occorre che ne cogliamo a fondo i linguaggi differenti per saperli tradurre da un mondo allaltro. Sono di uomini i grandi romanzi damore, anche se le protagoniste possono essere donne ma se le donne sono quelle da cui si cerca la conferma damore, non detto che anche per loro sia questo lobiettivo vitale. Questo s che un pensiero maschile: se questo per me il bene pi importante, lo sar sicuramente anche per te. Ma se si pu vivere, per quanto dolorosamente, senza amore, non si pu calcare la terra senza stima, senza essere legittimati a vivere, riconosciuti. Forse, nel lungo deteriorarsi di una inizialmente trionfante e festosa rivendicazione di diritti per le donne, la nostra societ pi che femminilizzata si devirilizzata. Non riuscendo ad acquisire e assimilare il pensiero femminile, ha smussato i tratti maschili ripetendo il terribile assunto che un uomo privato della mascolinit sostanzialmente una femmina. Equivoco tragico e violento che ha murato il dire femminile distorcendone

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senso e significato. S che alla richiesta di autorevolezza, stima, visibilit nel sociale si creduto di rispondere in eco beffarda con proposte di armonia, infantilizzazioni, accudimenti estetici, cosmesi da parte del mondo maschile. Femminielli nel sociale, sempre pi apertamente violenti nel privato, in una escalation drammatica di fraintendimenti reciproci che hanno finito per mettere in ridicolo, e dunque tacitare, le istanze di una parit. Nata gioiosa e combattiva, la parit delle donne e degli uomini divenuta faticosa e dolente come un livido che fa male solo a sfiorarlo. Un discorso inacidito che richiede oggi pensieri e parole differenti, freschi, inusuali. Anche da parte delle donne, se non soprattutto da parte loro. Da parte nostra.

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La lingua mochena Ero a Trento, svolgevamo un programma interessante che coinvolgeva lintero complesso delle scuole materne, uno dei classici fiori allocchiello della Provincia. E giustamente, una realt antica che comprende praticamente tutti i bambini del territorio trentino con una esperienza consolidata capace di non immusonirsi nella ripetitivit degli anni ma ancora curiosa di assaggiare il non esplorato, di ripensare diversamente il gi noto. Bene, il programma triennale, appunto, prevedeva di prendere in esame il riflesso dellorganizzazione della scuola materna sulla relazione con il bambino, per cui giravo in tutte le scuole della Provincia per cogliere le particolari caratteristiche di ciascuna e intersecarle con le linee comuni, dichiarate, volute o reali che fossero. Un giorno, studiando con le insegnanti i dati di un distretto, mi imbatto nella questione della lingua mochena che ignoravo completamente. Si trattava di un lembo di terra delle valli trentine dove si parlava, un tempo, la lingua mochena e la questione, evidentemente, era cosa farne, come conservarla (era un patrimonio culturale, non dello stesso rango del ladino ma insomma...), come articolarla con linsegnamento della lingua italiana, sciogliere gli inevitabili nodi burocratici e organizzativi. Gi, perch per garantire i diritti dei piccoli cittadini del luogo occorrevano insegnanti che parlassero la lingua mochena, non una sola, per, per scuola, doveva essere assicurato il ricambio o la sostituzione in caso di malattia. S, ma secondo le norme condivise ci voleva anche personale di servizio che sapesse e parlasse il mocheno, per ne basta una di persona per scuola? S, ne basta una, il problema era trovarla e poi verificarne la padronanza della lingua, che problema ?, beh, ci vorrebbero dei membri della commissione esaminatrice che assegna gli incarichi capaci di parlare il mocheno, anzi cos esperti da saper controllare la conoscenza degli esaminandi. Perch cos difficile?, chiedevo, affascinata da un tema di cui non sapevo nulla, perch, mi spiegano con gentilezza, la lingua mochena non scritta, solo orale, non ci sono testi da studiare n verifiche immaginabili, ma il problema ancora un altro, interviene una insegnante simpatica con begli occhi che ti guardano con franchezza, il problema che i genitori dei bambini non vogliono che i loro figli parlino quello che ritengono solo un dialetto, vogliono che i figli parlino, e bene, litaliano. vero, ribatte laltra alla mia sinistra, la coda di cavallo che danza accompagnando la sua foga, ma infatti dalle elementari in poi insegniamo solo litaliano. Pacata,

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la responsabile dellorganizzazione ci espone il prospetto dei costi, altissimi, delloperazione lingua mochena. Dunque, riassumo per me silenziosamente, i genitori non vogliono che i figli la parlino, il costo alto tale da sottrarre risorse ad altro anche nella ricchissima provincia autonoma, la verifica praticamente impossibile, il tempo di esposizione per i piccoli ristretto ai tre anni della frequenza alla scuola materna, privilegiare la conoscenza del mocheno significa anche condizionare pesantemente le graduatorie per assumere il personale rischiando oggettive ingiustizie, ne vale la pena? E, silenziosamente, mi rispondo: e chi ha il diritto di cancellare una lingua dal consesso culturale di un luogo? Oggi non facciamo follie estatiche per il ladino dedicandogli istituti e corsi di studio prestigiosi? Non ci emozioniamo quando possiamo accedere a squarci di culture che pensavamo sepolte o di cui non conoscevamo neppure lesistenza? Chi pu decretare che il mocheno non serve pi? Solo per lesilit della sua presenza nel territorio, trentino e, peggio ancora, nazionale? In una regione che non ama poi cos tanto la nazione di cui fa fatica a considerarsi parte integrante, non dovremmo sostenere litaliano senza confusioni? Ma questo comporta annullare i contrasti, le differenze, le variegature che danno il senso al tessuto unitario? La settimana dopo, le domande si ripetono sotto altra forma: oggi il punto garantire lapertura di due scuole materne sui bricchi, popolazione prevista meno di dieci bambini, settanta chilometri di salita per raggiungerle. Ovviamente con la dotazione prevista di maestre, e loro sostitute, personale di servizio e cuoca. Con meno di tre presenze si pu non aprire, per bisogna considerare gli eventuali ritardi per neve o panne della corriera, il problema ora organizzare il coordinamento delle informazioni per prendere tempestivamente la decisione se aprire o meno. Per quattro piccolini, se va bene dieci? E perch mai questi bambini non dovrebbero avere il diritto di usufruire di un servizio che garantito a tutta la popolazione dai tre ai cinque anni? Solo perch sono una minoranza esigua? Ma, pure, di nuovo, si ripresentano gli interrogativi sulle risorse e, quasi, alla fin fine sul significato stesso del servizio che sembra sfumarsi in un nonsense suscitando echi antichi di soluzioni che abbiamo rifiutato con energia: pagare le mamme affinch si occupino dei bambini loro e degli altri, ridurre limpianto previsto di personale a due, tre dipendenti. Com facile semplificare quando si un poco fuori dal problema, ma per noi e per i nostri figli abbiamo voluto servizi completi, e per tutti,

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abbiamo irriso e sbugiardato gli amministratori che ci proponevano di restare a casa con un contributo di denaro che equivalesse al costo degli asili nido. Abbiamo fatto bene, e lo penso ancora, ma il pensiero mi corre a tutti i bambinetti degli immigrati nel nostro paese, con lingue ben pi significative e coinvolgenti della mochena, si ripete la stessa sequela di dubbi difficili: i genitori vogliono che parlino litaliano per un loro migliore integrazione ma la pratica della lingua locale li allontana dalla cultura dorigine, ovvio e in parte inevitabile. E, in altri termini, ma sostanzialmente identico il problema si ripropone nei paesi in via di sviluppo: corrente elettrica, scambi culturali, farmaci occidentali e vaccinazioni, sicuramente fattori di sviluppo ma necessariamente squassanti il tessuto della convivenza che ha tenuto assieme nel tempo con ritualit codificate e valori precisi e condivisi. Ma come possiamo fare affinch non si affermi tanto il progetto dellintegrazione mortificante ma dellinterazione a pari merito? Lo penso uno dei quesiti pi seri e determinanti dei nostri tempi, per tutti noi, perch se, appunto come si dice, ogni popolo ha i suoi meridionali e, aggiungo io, la sua lingua mochena, anzi, non solo ogni popolo, ognuno di noi, dentro e fuori di s, nello spazio e nel tempo, combattuto fra il desiderio di conservare le sue antichit preziose e insostituibili e lansia di conoscere il nuovo, delle modifiche, di cambiamenti, di aria fresca. Ma che non sciupi le dorature antiche, che non ingiallisca i merletti.

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Magie Ogni tanto, la magia entra nella vita quotidiana: se la sai accogliere, ti rallegra. A me capitato, e mi piace raccontarlo anche perch me ne rinnova lincanto. Per prima, voglio raccontare di Praga. Sapevo che era una citt magica ma non sapevo che mi avrebbe regalato una sua magia. La storia comincia quando un caro amico appassionato di Mozart ci propone di organizzare una gita a Praga per il duecentesimo anniversario del Don Giovanni: grande divertimento, preparativi accurati, obbligo per tutti (eravamo poi undici) di studiare a memoria musica e libretto. Partiamo e Praga si apre in una magnificenza stupefacente, velata dalla tristezza delloccupazione sovietica. Ci siamo organizzati per stare qualche giorno, lesecuzione del Don Giovanni struggente, restano negli occhi i giovani padri che con i bambini a cavalluccio sulle spalle fanno la fila per i biglietti e la povert dellallestimento, amorosamente curato con i mezzi disponibili. Ci sentiamo in vacanza, la fine dottobre e noi siamo evasi dalle nostre diverse professioni, laria dolce e il fiume incantato. Uno di noi ha letto sulla guida che bisogna assolutamente andare a mangiare dai Tre Struzzi, noi facciamo un po gli snob, ma dai, sar un posto turistico, fa molto pi gita intelligente andare nelle loro birrerie, lui insiste e finiamo per accontentarlo, dai, andiamo. Il locale estremamente suggestivo, affacciato sul ponte Carlo, facciamo per entrare ma ci fermano subito: non c posto, bisogna prenotare. Pazienza, non ci rimanere male, torniamo domani. La mattina dopo, chiediamo a un cameriere dellalbergo di telefonare per prenotare, occorre qualcuno che parli bene la lingua, ma il ristorante ancora chiuso, non importa, per favore pu telefonare fra un po? Grazie, e ce ne andiamo in giro. Ecco la villa (splendida, fra gli alberi) dove Mozart ha terminato la composizione del Don Giovanni la notte prima della rappresentazione, gli strumenti musicali, le stanze sommesse, le dimensioni raccolte. Ma vogliamo andare anche al Castello, c una meravigliosa collezione di quadri, strano, i mezzi oggi sono radi, fino a ieri erano frequentissimi, beh finalmente arrivato, saliamo. Il Castello affascinante, la salita dove arrancava Giordano Bruno densa di memorie, i quadri vorremmo vederli con pi calma ma lamico ci fa fretta: ora di andare altrimenti perdiamo la prenotazione.

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Facciamo un po i preziosi ma non ci sentiamo di sabotare un desiderio cos innocente, gi a passo veloce verso il ponte Carlo mentre il cielo simbruttisce, Praga sembra diventata di malumore? Ci rimandiamo ridendo lidea ma il vento si alzato, stringiamo i colletti delle giacche e affrettiamo ancora il passo, ecco il ristorante allingresso del ponte, andate avanti voi signori che noi ragazze ci si va a rifare il truccoin bagno. Collegiali un po tardone, finalmente ci avviamo verso la sala da pranzo, illuminata e con un buon tepore, cerchiamo con lo sguardo il nostro tavolo, girandolo incontriamo gli occhi dei maschietti: che fanno l allingresso, perch non entrano? Non entrano perch non c posto, ma non avevamo fatto telefonare? Certo, ma quando lalbergo ha telefonato gli era stato detto che era gi tutto prenotato. Siamo frastornati, infreddoliti, sgradevole sentirsi buttati fuori ma non facciamone un dramma, troveremo mille posti dove andare a mangiare. Beh, mica poi tanto visto che si sono fatte nel frattempo le due, ci aggiriamo per le strade ma tutto chiuso, perfino le costose vinerie mostrano i camerieri che rassettano al di l dei vetri. Comincia a far proprio freddo, lumore da vacanza perde smalto, poi uno di noi avverte: l c aperto, come ma sembra un seminterrato, no, un ristorante, beh proviamo magari un panino lo rimediamo. Entriamo e un cameriere ci viene incontro: prego, tutto pronto. Che cosa sta dicendo? Ci fa strada, e noi lo seguiamo storditi, ci conduce in una sala dove c una tavola apparecchiata per undici: prenotata per voi, sorride il cameriere. vietata la scappatoia che lalbergo avesse chiamato un ristorante per laltro (lo verificheremo daltronde la sera), no, una magia di Praga che ci ha presi in giro con garbo. Ci accomodiamo soddisfatti, stiamo per ordinare, entra uno studente che ci mostra dei suoi disegni, il Castello, i Tre Struzzi, il ponte Carlo. Forse glieli avremmo acquistati lo stesso ma lallegria stata tanta. A casa li abbiamo incorniciati, forse le magie non avvengono solo a Praga. Vuoi dire che il problema riconoscerle?

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Prendere gli stivali ad un morto Una scena di film, la neve, i soldati con i cappottoni lunghi delle guerre passate, molti caduti e altri che arrancano con tanta fatica. Il soldato giovane ha freddo, i suoi stivali sono inutilizzabili, sta gelando ma i caduti, guarda, hanno stivali ancora buoni. A loro non servono pi ed ecco che il ragazzo si china, singinocchia vicino a un morto, glieli sfila, ne lascia ricadere i piedi indifesi, li indossa, si rialza e va. E a me si solleva un nuvoletta di pensieri, piet per chi morto e non pu protestare, non ha pi diritti, tenerezza per quel viso giovane e per quel freddo di adolescente, il fatto che la vita di ciascuno si svolge in contemporanea con quella degli altri, e che questo comporta dei diritti incrociati di propriet e di supremazia. In quel caso, certo, sembra tutto pi facile, ma resta una decisione non banale appropriarsi degli stivali di un morto. Ma il ragazzo in guerra, sta difendendo la patria, il suo proteggersi dal freddo non si limita alla sua persona ma ordinato a un obiettivo pi alto. E, se invece, in guerra non fosse? Se si trattasse di due barboni? Sempre giovane resterebbe, sempre sentirebbe il freddo, sempre avrebbe paura di morirne, allora potrebbe lo stesso? Mi sa di no, penso proprio che la comunit intera si rivolterebbe disgustata riscoprendo allimprovviso una tardiva piet per quel povero morto, cui si fatto lestremo insulto di derubarlo mentre non poteva pi difendersi, cosa pu esserci di pi spregevole? Mi immagino il ragazzo circondato minacciosamente, mi immagino gli vengano tolti rudemente gli stivali, lo vedo scacciato da una indignazione che gonfia il petto e rassicura le menti. E, adesso, mani intenerite calzano nuovamente gli stivali a quel barbone che, pure, di stenti appena morto e per cui non cera stata piet n tenerezza n generosit. Allora va bene derubare un morto? No, certo che non va bene ma nella nostra vita quotidiana spesso lasciamo fra le righe, per non esserne infastiditi o turbati, la realt evidente che il danno o la morte delluno pu portare vantaggio ad un altro senza che per questo chi se ne avvantaggia debba esserne colpevole o subire la riprovazione. Ogni tanto, nelle storie della cronaca, si affaccia per un attimo leterna possibilit del cannibalismo: in situazioni estreme, ci si pu cibare di un altro essere umano? Si pu farlo ma non poterlo dire? Non vogliamo saperlo troppo, ci diciamo che sono domande morbose, una curiosit malsana. Eppure, anche nel caso

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apparentemente tranquillo delleredit, situazione ultranormata e sminuzzata nei dettagli pi piccoli, cos difficile accettare e riconoscere il diritto del passaggio di mano. C il dolore per la morte di un familiare, forse la frequentissima lite nella spartizione delleredit assolve anche alla funzione di spostamento della sofferenza e della terribile contesa su a chi di pi apparteneva il morto stesso, sono messi in moto meccanismi psichici e sentimenti profondissimi ma forse c anche proprio la difficolt di poter fruire a testa alta, senza infingimenti, di un vantaggio derivato dalla morte di un altro. Pi brutalmente ancora, i trapianti dorgano sono possibili se a qualcuno invece che gli stivali accade che non possa pi utilizzare il suo cuore. Lo vestiamo con il termine mellifluo di donazione ma come se non sopportassimo di vederlo con chiarezza, forse non sapremmo perdonare chi ne usufruisce, forse un forma di piet per chi vive, per chi pu sopravvivere perch un altro morto. Non al posto suo, non per colpa sua ma, tant, occorre giustificare, riformulare, dirci che il morto torna a vivere perch il suo cuore batte in un altro corpo sottratto alla morte. Ma ascoltando un medico che, al telefono, gioisce perch sta morendo quel ricoverato giovanissimo e fa poco si potr operare il trapianto, comunque scoppia un sussulto interno per quanto silenzioso, il medico si volta, coglie lo sconcerto non espresso, si affretta a giustificare, si costringe a restare ancora un poco invece di correre in ospedale dove gi con il pensiero che si deterge le mani. E ha ragione, il suo lavoro, ma ha ragione anche chi vuole ricordare linsopprimibile civilt del culto dei morti, ma ha ragione chi aspetta con ansia drammatica un cuore nuovo, ha ragione la madre che smuore dal dolore nel vedere il corpo morto della figlia avviarsi sulla barella verso la sala operatoria. Sono limiti, confini tremendi cui non possiamo sottrarci incalzati dalle tecnologie sempre migliorate. Qualche anno fa gli ospedali britannici segnavano una piccola bara vicino ai pazienti che avevano superato una certa et, come dire che per loro non ci sarebbero stati trapianti, gli organi sarebbero andati sprecati per tenere in vita delle persone anziane. Come non capire una scelta cos elementare? Certo, se gli organi a disposizione non sono sufficienti per tutti, se un trapianto, inoltre, sommamente costoso, un piano di sanit nazionale non pu sottrarsi a scelte di questo impegno. brutale, coraggioso, trasparente o inumano applicare la piccola bara vicino a quei nomi in modo visibile?

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Forse si potrebbe pensare di completare il gesto della scelta con una sorta di risarcimento sociale a favore del valore che nella scelta stato inevitabilmente penalizzato, andando a impoverire il nostro tessuto sociale. Evitando che la terribile piccola bara vada a significare una volta per tutte che degli anziani non sappiamo che farcene, come se la scelta di un piano sanitario andasse a cancellare il valore sociale e civile degli anziani nella collettivit. Perch il pericolo mi sembra stia non tanto nella scelta che, discutibile o meno, compito e diritto di chi governa e, casomai, va valutata in quei termini. Il pericolo nellestrapolare direttamente e senza filtri da una scelta tecnica una ricaduta obbligata sulla societ. Che diventa, dunque, uno slittamento dei valori cui si informa la convivenza. Perch queste scelte sono quotidiane e dovunque: chi va assistito per primo, il pi giovane, il pi grave, chi pu farcela, chi allo stremo e avrebbe diritto a morire assistito? A chi riservare le medicine scarse, ai pi piccoli che forse non riusciranno a diventare grandi, a chi adulto e sarebbe utile? Agli anziani? Quante volte, nel nostro mestiere, incontriamo diritti che stridono e facciamo fatica a districarci nello scegliere chi privilegiare nellascolto? Ladulto che sta costruendosi una professione e ha chiuso la porta per studiare e il piccolo che scuote la maniglia chiedendo di vedere assieme i cartoni animati. La donna quarantenne che vuole brillare nella sua bellezza piena e ladolescente bruttina che soffre nel contrasto. Il padre cinquantenne che mette al mondo un bambino con la nuova moglie e la figlia che non riesce a concepire. E, ancora, drammaticamente, a chi va dato il lavoro, la casa? Ai pi bisognosi? A chi ha meritato, a chi pi malato, a chi pi inserito, a chi pi emarginato? Come riaffermare il valore della salute, del rispetto delle regole civili, come risarcire nella nostra cultura chi sembrerebbe penalizzato non avendo malattie da esibire e non n un ex detenuto n un ex tossicodipendente? In modo da evitare che la fondamentale civilissima attenzione per il disagio si stravolga in un suo perverso essere premiato? S che si appanna il valore delladulto responsabile fino a non costituirsi pi come un orizzonte e una meta ma viene insistentemente suggerito il fascino del piccolo, dellimmaturo, del debole, sensibile, delicato, incapace di fronteggiare conflitti e difficolt. Figli spaventati dalla fatica del vivere per cui si sentono non sufficientemente attrezzati e adulti bambineggianti occupati a conservare il diritto a essere giovani.

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Razzista anchio Li chiamiamo princpi, come se da l, da loro prendessimo le mosse, come se da loro derivassero, a caduta, i nostri comportamenti, quelli giusti, sintende, quelli di cui andiamo fieri. Ma a me sembrerebbe pi adeguato chiamarli obiettivi, mete finali, orizzonti cui guardare. Riferimenti progettuali, questi s cui orientare i comportamenti che vorremmo ci caratterizzassero. Come si dice, le utopie sono come lorizzonte, non le raggiungi mai ma a loro che guardi per indirizzare il tuo cammino. Ancora una volta solo un gioco di parole? Beh, ancora una volta le parole sono importanti, diverso discendere da qualcosa o orientarsi verso qualcosa. Intanto, nella nostra abitudine mentale, ci da cui si discende immutabile, eternamene scritto nella roccia, mio padre emigrante, la mamma primogenita di una schiera di fratelli, il nonno studioso o contadino, la nonna altera, scostante o un po pettona, tutta morbida e profumata di mele. Geni e cromosomi, abitudini, educazione, rituali, ecco di che cosa siamo composti, e gi facciamo fatica a modulare limpasto a modo nostro, figurarsi a modificare gli antecedenti! Tuttal pi, possiamo dirazzare, deviare in alto o in basso la linea tracciata ma non tornare sui passi antichi. Come pensiamo, pi per cultura dominante che per vera ingenuit, che il passato non si pu modificare, che la memoria un archivio magari un poco affastellato ma completo nel suo disordine, (ma di questo parleremo meglio) cos i sacri principi vengono posti allorigine del nostro comportamento. S che, nellovvio divario fra il nostro comportamento e loro, vediamo riaffacciarsi trionfante la metafora del peccatore. Flagellatevi perch avete mancato, nascondete il vostro operato se appena potete o, quanto meno, provatene vergogna. E proprio come sui testi sacri non ammessa vera critica o discussione (tuttal pi interpretazioni differenti!), cos sui princpi, signori miei, non si discute. Nemmeno per ischerzo, aggiungerebbe mio suocero. Ora, mi sembra opportuno svincolarsi finalmente dalla condizione di penitenti, militanti, seguaci pi o meno obbedienti, pecorelle distratte e un po svagate che si perdono per un ciuffo derba pi in l. Mi sembra che potremmo finalmente considerarci soggetti a pieno titolo, come si diceva negli anni della politica che sperava, titolari di una cittadinanza compiuta. Che si muovono appassionatamente verso degli obiettivi civili, che custodiscono

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diritti e responsabilit nelle loro mani, che li vogliono sempre pi attuali perch a loro, i cittadini compiuti, che ne occorre la diffusione e la realizzazione. Obiettivi che danno senso e valore al nostro muoverci da persone, non pi crocette da apporre al quotidiano esame di coscienza. Verso la chiesa, verso il partito, verso la famiglia, verso la scuola di pensiero, verso le tradizioni, verso qualunque appartenenza, che comunque controller il nostro operato e, inevitabilmente, lo sanzioner o perdoner o proporr degli esercizi per rafforzare la nostra fede debole. Qualche penitenza per redimerci, ben sapendo che redenzione completa non ci sar mai per noi, tanto pi nelle appartenenze che vogliono chiamarsi laiche e, come tali, si pensano esenti da bigottismi per cui non se ne proteggono fino a configurare vere e proprie inquisizioni pi o meno velate. In nome dei princpi, sintende, che non si discutono s che noi dobbiamo chiederti di confessare apertamente il tuo errore per preservare il corpo sano di tutti noi, a meno che tu, ma noi non lo vorremmo mai, finisca per meritare di essere espulso. Fuori, privo di appartenenze che trattengono anche la nostra identit, perch ben cucita a quei princpi: certo, possiamo sempre formare unaltra appartenenza rivale che difende, ah s, molto meglio e con molta pi correttezza quei princpi cos sacri, ma, capiamoci bene, dobbiamo tornare alle origini, riprendere il passo dalle antiche radici, riscoprire i veri princpi, quel nocciolo essenziale che non tradiremo mai pi. Anzi, che non permetteremo mai pi che vengano traditi, sai, forse tu non ti sei accorto ma debbo correggerti fin da subito, con la fermezza necessaria. Il padre del presidente Schreber aveva ideato dei piccoli tensori collegati alle radici dei capelli dei bambini cos che, se accadeva loro inconsapevolmente di curvare la schiena, potevano correggersi immediatamente evitando (ed era qui la terrificante e insieme sollecita amorevolezza) di essere puniti. Nulla di nuovo, certo, e certo non basta spostare i princpi dal mondo del passato mitico verso il tempo del futuro, certo non basta un nominalismo daccatto ma chiss mai che, dovendo formulare dei pensieri e delle parole, ci troviamo il passo inciampato da questa diversa collocazione e, chiss mai, appunto, ci accada di provare la fatica appagante di un pensiero, di una parola tutta fresca, contingente, valida oggi, anzi ora, per il tempo di una bolla di sapone. Iridescente, bella, se mi piace ci prover ancora, domani o fra un minuto, ecco, s, se mi piace la soffio e resto a guardare come le mani dellaltro si tendono a raccoglierla e, contemplando le

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goccioline che la formavano, ancora ne soffi una fresca, iridescente, caduca verso di me. Un pensare, un conversare, un scambio fra persone che non discende dai princpi ma li cerca, li vuole, forsanche li pretende. Mani protese che si stringono per fare assieme. Ma, soprattutto, ci si porr finalmente il problema, la questione, linterrogativo vitale di che cosa farsene dei pensieri, delle emozioni, dei sentimenti degli impulsi che non solo non fanno avverare i sacri princpi in questa valle di lacrime ma, addirittura, li contrastano, li negano. Che ne facciamo di quellimpulso a difenderci? A difendere la nostra persona, i nostri beni (ahi! ahi!), a trovare pericoloso il diverso, a voler stroncare le obiezioni, a trovare estenuante e noioso lobbligo del rispetto dellaltro, a pensare, colpevolmente ma con buona approssimazione reale, che se decidessimo tutto da soli le cose andrebbero meglio. Che ne facciamo della voglia che ci fa prudere le mani di intervenire bruscamente, togliendo dalle mani esitanti dellinesperto lo strumento che noi sappiamo usare cos agevolmente, sovrapponendoci al genitore imbelle che sta facendo impazzire il figlio, scrollando ladolescente apatico che gioca irresponsabilmente con la morte, suggerendo di coprire il capo di un bambinello perch il sole forte o inserendoci in un litigio cos evidentemente insulso e che li fa soffrire cos tanto? da qui che, a mio parere, che prende valore letica di ciascuno di noi, perch sono capace di essere profondamente razzista, intollerante, violenta che posso scegliere un comportamento, un atteggiamento che, sia pur minimamente, renda un poco pi prossimo lorizzonte dei princpi. perch sono ben capace di un pensiero banale e normativo (a quellanoressica l quattro schiaffi al momento opportuno e vedi come smetteva di far la malata e di far ballare tutti quanti intorno a lei) che posso distaccarmene e cercare altrove, un punto di vista da cui restituire ai protagonisti il diritto e lautorevolezza e la dignit di gestire la loro esistenza. Ma se mi pensassi aliena da banalit, come potrei accorgermi di scivolarci dentro? E, pi precisamente, se non percorressi a saziet la saggezza del pensiero banale, come potrei uscirne fuori? Veramente si pu fare a meno del buon senso, anche di quello pi becero? Non una insopportabile supponenza decidere che la verit, la saggezza, la giustizia si collocano da un gradino in su? in questo quadro che mi sembra pi funzionale immaginare tante, tantissime persone al nostro interno, capaci di presidiare ciascuna

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uno dei nodi della rete, capaci di porgere il punto di vista del razzista, del banale, dellinterventista, dellideologizzato, del cinico, del laico e del laicista, affinch si possano raccogliere le diverse informazioni, analizzare i suggerimenti, ascoltare e poi giudicare, decidere, assumendosi la responsabilit di far proprio quellorizzonte che un tempo chiamavamo princpi.

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Regina della casa? Continuano a dircelo, sembra una banale ovviet che la casa sia il regno della donna, il suo luogo delezione, non tanto e non solo perch la donna se ne deve occupare ma perch ci gabellano che il luogo suo, su cui, appunto, dovrebbe regnare. Eppure basta una osservazione superficiale per accorgersi che ne responsabile, che generalmente la governa, che tiene le redini dellandamento complessivo. Ma non lei ad abitarla sul serio. La rende abitabile, per il compagno, per i figli, non per lei. Compagno e figli hanno angoli privilegiati, luoghi privati cui eventualmente le concesso di curare, di tenere in ordine ma lei, lei dove abita? Dove sono i luoghi privati delle donne in casa loro? Con la scusa che la casa tutta della donna, regina appunto, le viene scippata la scelta, lesclusivit di uno spazio tutto suo. Che sia testimonianza della sua esistenza l, in quella casa su cui regna. E se ha un suo angolo, praticamente sempre le riservato in quanto dedicato al lavoro fuori casa: la scrivania, su cui appoggiare documenti, testi, computer. Le spetta in quanto, lavorando, si avvicina al rango delluomo, ma forse ha la sua poltrona preferita? Professioniste qualificate, donne di bella intelligenza ed autorevolezza, magari perfino carismatiche, se state leggendo una rivista, il giornale, se state giocando al computer, siete capaci di continuare tranquillamente anche se entra in casa il vostro compagno? Se un figlio entra in camera dove siete? Oppure, sbrigativamente, vi ricomponete dissimulando le tracce di una permanenza che sa di abitante illegittimo? Anche se avete gi preparato la cena, anche se state aspettando ed laltro ad essere in ritardo, quanto vi costa stroncare il moto istintivo di rassettarvi e continuare la partita a spider sul computer oppure seguitare a leggere? E perch mai trovate, invece, naturalissimo che il vostro compagno alzi gli occhi dal giornale per salutarvi, ma non mostri neanche lombra di una scusa per il suo stare in quiete dentro la sua casa? Che i ragazzi, anzi, vi chiedano di non interromperli che stanno per vincere? Quante volte, donne, siete state comodamente sul divano a leggere (ma non a studiare!) in bella vista mentre gli altri girano per casa? E perch avete sempre a portata di mano ferri da calza, cucito o chiss che altro? Quanto siete, quanto siamo capaci di mostrarci

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apertamente senza far nulla? Allepoca del femminismo militante, quando ce ne andavamo in giro con le gonne lunghe e gli zoccoli, sembr di grande innovazione mettersi a lavorare a maglia durante le riunioni (noiose e ripetitive ieri come oggi). Caspita, marcavamo con attivit femminili luoghi tradizionalmente maschili. Ma non eravamo, e non siamo, capaci di stare serenamente in quiete. O, meglio, lo sappiamo fare solo se siamo fra donne, ecco allora il cazzeggio, il lunghissimo parlare, il conforto, il confronto, lo psicodramma e le risate. L non dobbiamo lavorare, possiamo starcene con le mani in mano, tuttal pi rifare il caff o svuotare i portacenere. Le donne non hanno ancora imparato a pensarsi come detentrici di diritti semplici ma fondamentali, il tempo, lo spazio per s. E la nostra furia per gli uomini incapaci e disordinati, ingombranti e fannulloni, che non si accorgono di ci che serve, che in casa sanno solo fare guai, che quando cucinano lasciano tutta la cucina in disordine, che, quando fanno la spesa bisogna dirgli tutto e ricordarglielo, la nostra furia in gran parte nasce proprio dalla loro paese capacit, invece, di abitare liberamente a casa, di fruirne pienamente, di piegarla ai loro comodi. Ma, diciamolo sia pur sottovoce, hanno ragione loro, la casa a questo deve servire, ad accogliere, abbracciare, a dare permessi e possibilit. per questo che ne siamo le governanti, abili, competenti, efficaci, siamo brave a rendere abitabile, piacevole la casa ma poi ci dimentichiamo di usarla, restiamo rancorose ed emarginate a guardare con rabbia la facilit con cui lui si accomoda, con cui nostra figlia apre il frigorifero, beve, poggia il bicchiere dove capita, con cui il piccolo fruga nello zaino aperto allingresso. Ma la nostra furia sa di invidia, come non ci avessero invitato a giocare anche noi: il punto che a loro non viene neanche in mente che ci sia bisogno di un invito, siamo noi che non sappiamo come entrare nel gioco. E allora, per rappresaglia, diventiamo acide, nervose, accampiamo scuse per guastare il gioco da cui ci sentiamo respinte, parliamo di tempi da rispettare, affibbiamo incombenze fastidiose, ci rinchiudiamo in cucina con la corona delle martiri. Noiosissime! La parit della donna comincia ad affermarsi nel mondo del lavoro, sia pur fra estreme difficolt e contini scivoloni, ma allinterno della casa abbiamo capovolto lo schema: incapaci di custodire i nostri diritti, il tentativo di abbassare il livello di quelli degli altri. Invece di apprendere dagli orrendi maschi la facile leggerezza con cui si appropriano della casa, con cui la abitano a uso loro, vogliamo

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accollare loro la noia delle incombenze domestiche: perch mai dovrebbe essere una prospettiva accattivante lavare i piatti, fare la polvere, stirare? Passi pure il cucinare che ha un qualche risvolto di creativit e di divertimento ma portare fuori la pattumiere vi sembra poetico? So bene che qualcuno deve pur farlo ma non questo il punto: gli uomini non ci hanno costretto a lavorare perch qualcun doveva pur farlo e loro non lo volevano fare pi, no, era una loro esclusiva, a noi sembrava un diritto essenziale che consolidasse la dignit di una cittadinanza piena e abbiamo voluto fortemente conquistare il diritto al lavoro. Perch in casa, invece, tutto quel che sappiamo richiedere la condivisione della noia, della fatica? Perch non cominciamo a usare della casa e dalla piena capacit di abitarla impostare alla pari la questione delle faccende? Qualcuna ha delle idee? Come cominciare, da dove partire? Dal tempo per s, da uno spazio protetto (per la donna in casa, non per la lavoratrice che ci ritorna), da unalternanza di qualche genere? So bene che artificioso come qualunque partenza, come ogni avvio, ma prima cominciamo, pi presto ci risulter naturale, si accettano proposte ma mettiamoci in moto!

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Storia di una sonda spaziale Racconto questa storia che ho tratto da un articolo, (La difficoltosa missione della NASA fino a Giove, e il suo trionfo) di Michael Benson, pubblicato sul New Yorker Magazine, 8 settembre 2003 e che Valrie mi ha tradotto con grande gentilezza. Allora, Benson narra che a 1995 al 2003 la storica navicella spaziale conosciuta sotto il nome di Galileo Orbiter ha tracciato un sentiero complesso tra le quattro grandi lune di Giove. Durante questi anni, ha fatto osservazioni scientifiche dettagliate, ha preso migliaia di fotografie ad alta risoluzione, trasmettendole a Terra, a mezzo miliardo di miglia di distanza.(...) La navicella ha anche condotto quaranta sorvoli di pianete e di lune, molto di pi di qualsiasi altra nave spaziale. E stata la prima ad avvicinarsi ad un asteroide; la prima ad orbitare uno dei pianeti esterni; la prima a documentare fontane di fuoco che eruttavano dalla superficie della luna vulcanica di Giove che si chiama Io; e la prima a volare attraverso una piuma atmosferica di Io, un pianeta di un colore giallo arancione sporco, e che ha circa trecento vulcani in eruzione in qualsiasi momento. Nel luglio 1994 Galileo ha fornito osservazioni dirette dei frammenti della cometa Shoemaker-Levy che si scontravano con Giove; queste collisioni hanno prodotto esplosioni pi potenti di quella della pi grande bomba ad idrogeno. Una navicella meravigliosa, insomma, capace di attuare operazioni straordinarie, per questo diventa ancora pi interessante la sua storia. Concepita dalla NASA nei primi anni 70, Galileo ha avuto degli inizi difficili; la sua storia allinizio stata segnata da una serie di ritardi. Lintero piano di volo stato ridisegnato cinque volte, sia per motivi di cambiamento delle specifiche tecniche che per il cambiamento delle posizioni dei pianeti tra le date di lancio riviste. E stata portata tra la Florida e la California numerose volte, ed stata smontata, pulita, messa in deposito e poi rimontata. Anche se la navicella era un pezzo di tecnologia molto avanzato negli anni settanta, quando finalmente andata nello spazio nel 1989 molti dei suoi sistemi erano gi obsoleti. La cosa comincia a complicarsi, ma non finita: Durante tutta la prima parte del viaggio di Galileo nello spazio, la sua antenna ad alta capacit a forma dombrello, che doveva essere il principale

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collegamento con la Terra da Giove, rimasta ripiegata su un lato della sonda. Era lantenna pi grande mai mandata fuori dallorbita della Terra. Si prevedeva di dispiegarla solo dopo che la sonda si fosse allontanata sufficientemente dal sole: come Galileo, lantenna era stata disegnata per operare nelle temperature gelide della parte esterna del sistema solare. Nel frattempo, la navicella spaziale si sarebbe affidata ad unantenna pi piccola e molto pi lenta che avrebbe dovuta servire solo vicino a Terra. Siamo in aprile del 1991, Galileo si ormai addentrata nelle zone pi fresche della cintura degli asteroidi che si colloca tra Marte e Giove: venuto il momento di aprire lantenna ad alta capacit e iniziare a mandare gli impulsi di dati verso Terra. La velocit prevista di 134 kilobyte per secondo e Galileo era stata disegnata per avere una larghezza di banda sufficiente a trasmettere unimmagine per minuto, trasmettendo contemporaneamente informazioni dagli altri suoi strumenti. E qui avviene il vero colpo di scena: lantenna, questo strumento chiave per la missione, bloccato. Gli scienziati che dirigono la missione sono disperati: senza un mezzo per trasmettere degli alti volumi di dati, la funzione di Galileo sarebbe stata duramente limitata. Entro una settimana, vengono formate due teams di ingegneri, una per disincastrare lantenna, laltra per capire come salvare la missione senza lutilizzo dellantenna fornendo, cio i cacciaviti a un milione di miglia, un modo di riparare una navicella spaziale trasmettendo dei segnali radio da Terra. In un brainstorming, si valuta: supponiamo che non cambiamo niente. Quale sar la velocit di trasmissione dei dati quando arriviamo a Giove, se dobbiamo utilizzare questantenna a bassa capacit? La risposta desolante: circa unimmagine al mese e solo se gli altri dieci strumenti scientifici di Galileo non fossero stati utilizzati contemporaneamente. Ma nello spazio fenomeni complessi devono spesso essere fotografati molte centinaia di volte prima di poter essere compresi! Invece di provare a cambiare lhardware della navicella spaziale, lquipe di soccorso inizia a pensare a come migliorare le capacit di Galileo di processare le informazioni: riscrivere in pratica il software di base di Galileo. Il computer di bordo avrebbe dovuto essere sufficientemente potente per elaborare gli algoritmi pi avanzati del codice riscritto. Ma il sistema di computer di Galileo era antico. Allora, guardammo che tipo di microprocessore avesse

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a bordo, e quanta memoria ci fosse. E ci furono delle buone notizie e delle cattive notizie. Le cattive notizie erano che i processori di Galileo erano talmente vecchi che i loro disegnatori originali avrebbero dovuto essere richiamati dalla pensione per un consulto. Le buone notizie erano che poco prima di essere lanciata nello spazio, Galileo era stata dotata di due volte tanto il numero originale di chips di memoria di quanto avessero inteso i disegnatori originali. Ma i chips forse erano restati danneggiati da radiazioni assorbite durante il lungo viaggio nello spazio. No, dopo diciannove mesi di volo tutti i chips della navicella erano ancora funzionanti. Si rischia ci che non era mai stato tentato prima: cambiare lintero software della navicella a met volo. Aggiornare il software avrebbe permesso al team di introdurre tecniche avanzate di compressione di dati, il che avrebbe permesso a Galileo di mandare immagini utili e altre preziose informazioni da Giove attraverso lantenna a bassa capacit. Galileo sarebbe stato in grado di trasmettere pi di duecento immagini al mese, insieme con altri dati, velocit molto pi lenta di quella originalmente prevista, qualcuno degli obiettivi di Galileo avrebbe dovuto essere modificato o abbandonato, ma la missione avrebbe comunque potuto raggiungere il settanta per cento dei suoi obiettivi. Ci sono voluti anni, ma quando la navicella arrivata a completare il suo primo giro di Giove, il suo software era stato interamente sostituito. Era una mossa con dei rischi senza precedenti un trapianto completo di cervello con un link radio di 400 milioni di miglia, come dice un documento del team ed ogni errore avrebbe potuto significare la perdita della navicella. Ma laggiornamento era necessario, ed il trasferimento di codice stato senza errori. Rimaneva ancora un problema: Galileo poteva raccogliere le informazioni molto pi velocemente di quanto riusciva a trasmetterle. I suoi disegnatori avevano bisogno di trovare un modo di memorizzare le immagini, per permettere che potessero essere lentamente ritrasmesse a Terra. E assistiamo a un nuovo colpo di scena: la navicella aveva un registratore di nastri a bordo, uno di quei registratori con due avvolgitori di nastro che venivano utilizzati con gli apparecchi stereo negli anni 60 e 70. E un registratore quasi obsoleto diventa uno dei componenti pi importanti di Galileo. (Il registratore era stato incluso nel disegno della navicella per una sola ragione: doveva fare da backup per i

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dati dalla sonda atmosferica che doveva penetrare nelle nuvole di Giove nel 1995, quando Galileo arrivava vicino al pianeta. La sonda doveva dispiegare il suo scudo contro il calore, aprire un paracadute, e trasmettere le informazioni relative allatmosfera di Giove mentre cadeva verso il pianeta. Tutta la procedura doveva durare unora. Durante questo tempo, i dati della sonda sarebbero stati trasmessi da Galileo verso Terra). Il registratore diviene uno strumento critico per la missione. I gestori di Galileo si accorgono che sarebbe stato necessario memorizzare tutte le immagini in entrata insieme con gli altri dati scientifici raccolti dai suoi strumenti durante il sorvolo delle lune di Giove. Queste informazioni avrebbero poi potuto essere inserite nel computer di Galileo utilizzando il nuovo software di compressione dati e lentamente ritrasmesse a Terra durante i lunghi mesi di inattivit che trascorrevano quando la navicella viaggiava da una luna allaltra. Il nastro magnetico arrotolato nel registratore di Galileo diventa il sottile filo al quale appeso tutto il destino della missione, il sistema era stato interamente improvvisato e raffazzonato, ma ha funzionato. Galileo inizia lentamente a trasmettere immagini spettacolari di Giove e delle sue lune fino a Terra, dove unantenna potenziata raccoglie i segnali lenti e deboli della navicella. Leggendo la storia di Galileo sono restata affascinata dallo snodarsi della vicenda, dalla spregiudicatezza delle intelligenze, dalluso straordinario delle risorse. S, ovvio, mi sembrata una storia assai simile a una terapia.

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Strisce pedonali e sellini di bicicletta Ditemi pure borghesuccia, perbenista, ma trovo estremamente irritante labitudine molto diffusa di lasciare lauto ferma un po dovunque, in seconda o terza fila, se non sulle strisce pedonali, chiusa e con le quattro frecce lampeggianti. Un uso che sta diventando quasi una norma sfrontata, come dichiarasse: non hai visto le frecce? Sono impegnato e non ho tempo per trovare un parcheggio, ho da fare, no? Ugualmente mi irrita, forse addirittura talvolta mi spaventa il modo di guidare spostandosi di corsia o frenando allimprovviso, magari, ed ecco ancora le quattro frecce, per unimprovvisa retromarcia. Mi pu irritare perch mi costringe a reagire con immediatezza in un soffuso senso di pericolo ma mi spaventa perch non ho limpressione che si tratti di banale maleducazione, strafottenza, trascuratezza nei confronti degli altri sulla stessa strada. Scortese ma in qualche termine compreso nellambito della normalit. Ma invece gli automobilisti che incontro, sempre pi spesso mi danno limpressione di non sapere che gli altri ci sono: non che lo sanno e se ne disinteressano alla grande, a me sembra che realmente non lo sappiano, s che non guardano infastiditi chi eventualmente si permette di protestare ma, ma lo guardano stupiti, come sorpresi di trovarlo l, a un centimetro dai loro paraurti o reduce da uninchiodata secca per evitare lo scontro. Sorpresi, e solo dopo un po infastiditi da una presenza di cui non vedono lutilit. Mi preoccupa perch mi sembra che siamo andati oltre, al di l di un recinto di consapevolezza che in qualche modo dovrebbe tenerci assieme in un contesto vitale e dotato di una sua logica interna. Mi spaventa perch se non si sa che gli altri esistono non si in grado neppure di proteggere se stessi, magari violando le regole ma sapendo o percependo un quadro connesso in cui muoversi. E la preoccupazione, lo spavento, si trasforma rapidamente in pena, come fosse stato tolto un po a tutti noi un confine protettivo, e tanto pi in pericolo proprio chi non venuto mai a saperlo, n che il confine esisteva, n che oggi sembra sbreccato, assottigliato, evanescente. Devo, per, confessare che quando a sciamare, disordinati, colorati, svagati, invadendo con la stessa noncuranza marciapiedi, strada e strisce, coppie o gruppi di ragazzi, allora la mia insofferenza cambia colore, quasi si accordasse con le loro sciarpe, con gli zaini su quelle spalle giovani. Linsofferenza si fa come un sussulto di tenerezza, mi si sveglia quellillogica allegria che citava Gaber, li guardo con quelle faccette fresche, le mani che

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raccontano, i sorrisi dintesa dentro il giubbino, il passo strascicato non di chi stanco ma di chi non costretto a tenersi bello dritto perch sta facendo altro. A loro (quando sono pedoni, per, non automobilisti!) perdono pregiudizialmente un po tutto, uso il tempo in cui sono costretta ad attendere che lo stormo passi oltre per guardarli, lanciare pensieri dimmagini verso il loro futuro, con un affetto che non certo privo di una certa pena dolente, da brava mamma italica, pettona e ansiosa. Ma il pensiero non che a loro permesso tutto, evidentemente no, anche perch loro, i ragazzi, sono quelli maggiormente esposti al pericolo se si sfalda il connettivo sociale, se non ben tracciato il reticolo delle norme della convivenza. No, il pensiero attorno alla perdita di una misura della trasgressione delle regole, quella misura che permette di forzare gradualmente i limiti spingendoli in l con le spalle che crescono, con un passo che si fa adulto. Mi spiego: laltro giorno, scendendo in strada, ho trovato la mia bicicletta senza pi il sellino. Da una parte mi parsa una seccatura, neanche poi grandissima, la spesa per la sostituzione non era certamente impegnativa, ma da unaltra parte ho avuto un moto di gioia: questo potevo riconoscerlo come una ragazzata, equivalente a suonare i campanelli alle tre di mattina, a fare il verso ai professori, a falsificare le firme sulle giustificazioni. Ovviamente come me lo sono raccontata, mi sono immaginati dei ragazzi che, passando per strada, hanno pensato bene di togliere un sellino da una bicicletta e magari di gettarlo un po pi in l, alla prossima strada, a buon bisogno dentro un cestino per i rifiuti! Un gesto che mi ha fatto pensare un poco, mi sono accorta di desiderare veramente di incontrare ancora ragazzate, di saperne, di sentirmene raccontare in giro. Troppo seriosi e cupi, questi nostri ragazzi, troppo svelti al gesto grave, alla violenza irrimediabile, dimentichi della leggerezza fantasiosa del dispetto, della bugia sfacciata, degli intrighi complicati per ottenere ci che stato vietato. Portati in volo sulla sommit della scalinata senza aver dovuto (o potuto) contare i gradini, li troviamo storditi e goffi a maneggiare soldi veri, armi vere, potenzialit reali, tecnologie da governare senza nessuno al fianco. Adolescenti che non sanno dove sistemare i piedi cresciuti nella notte, che non hanno ancora fatto a tempo a imparare, cui temiamo di contrapporci, che intortiamo con fumosi e ambigui discorsi cosiddetti democratici, trattandoli bugiardamente da pari solamente perch abbiamo orrore di non piacere loro. Come possono fronteggiarci se ci sentono cos esitanti, timorosi, asserviti alla necessit di compiacerli affinch ci vogliano bene?

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Non voglio dire che la soluzione sia organizzare gite di gruppo per rubare sellini di bicicletta ma alle prossime strisce pedonali da cui trasborderanno impedendovi di muovervi, guardateli anche voi e poi ci raccontiamo che ne pensiamo!

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Sudafrica e Ruanda tracciano la strada Stavolta il cosiddetto mondo sviluppato deve inchinarsi di fronte alla grandissima civilt dei neri e spero tanto che anche noi possiamo cominciare a costruire pensieri diversi sulla tragica questione delle vittime. Dapprima il Sudafrica e recentemente anche il Ruanda hanno avuto il coraggio di prendere risolutamente in mano il problema che sembrava impossibile da sciogliere di come ricostruire un tessuto di convivenza lacerato da massacri spaventosi. Con animo lucido e forte, capace di guardare veramente al futuro della loro cultura civile, connettendo assieme i riferimenti politici e religiosi della popolazione, hanno insediato commissioni che hanno chiamato per la verit e la riconciliazione. Con audace semplicit, queste commissioni vanno a indagare i singoli casi di violenza sanguinosa invitando gli assassini a dichiararsi responsabili, riconoscendo esplicitamente la paternit dei crimini commessi davanti ai familiari delle vittime. Smuovendo emozioni terribili e prevedendone uno sfogo pubblico capace di ripercuotersi su tutti gli abitanti, i membri della commissione facilitano, poi, la reintegrazione degli assassini e dei torturatori nel corpo della collettivit. A pieno titolo. Pensiero e prassi scandalosi per la nostra mentalit piccina, che sbattuta fra lidea religiosa del perdono, lesigenza di una giustizia che spesso vorremmo innamorata della vendetta, la fatica di guardare a occhi aperti il dolore insopportabile, il rifiuto di rallentare il tempo e sostare entro unemozione grave, un impulso di chiudere la faccenda definendo rapidamente i colpevoli pur di non esserne tirati dentro personalmente, una insofferenza miserabile per queste vittime che continuano a soffrire e non ne escono cos che non ci riesce di archiviare la pratica. E tutto questo dentro la patina di dichiarazioni di principio compassionevoli verso la sofferenza, simbolo cult purch riservato agli altri e, per piacere, che non schiamazzino troppo, la sofferenza una cosa seria, non va esibita e occorre tollerare che noi, sani, ci dedichiamo ad altro. Oppure che ce ne occupiamo come mestiere, indossata una facies pietosa e ferma, la denudiamo, la districhiamo, la restituiamo al mittente dopo una breve, quando accade, condivisione. Poco tempo fa ragionavamo con gli studenti universitari della Bicocca sulla percezione che abbiamo delle vittime dellabuso, se veramente i sentimenti che pensavamo di provare per loro corrispondevano a ci che ci accadeva nei fatti. Intanto, ci siamo

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faticosamente confessati, le vittime non sono simpatiche, non ci attraggono per nulla mentre agli stupratori che va il nostro malcelato interesse, anche degradato in curiosit, magari un po guardona e vigliacca. Diceva una ragazza, la testa di ricci, gli occhi chiari, la persona bella di chi vuol capire, diceva che stava dal parrucchiere e aveva sentito una signora di mezzet commentare velenosamente un episodio di violenza su una ragazza, c da dire che portava il tanga! La studentessa allora ha ribattuto alla signora rancorosa con i bigodini che prima il violentatore non poteva sapere che la vittima sotto gli abiti portava il tanga, e mi ha guardato soddisfatta per aver rimesso a posto le cose. Ma a me venuta una gran tristezza, ma perch, se si fosse potuto sapere che portava il tanga, questo avrebbe motivato o addirittura giustificato la violenza? Nel 68 sui muri di Milano cera una scritta: maschio, maschietto, se tu mi hai violentato, la colpa mia che ti ho provocato. E c da sottolineare che lambiente di questo scambio era il negozio di un parrucchiere, a parlarne due donne: dove avremmo potuto trovare un ascolto pi favorevole, pi capace di accogliere la vittima di un abuso? Ma, appunto, le vittime non ci piacciono, non sappiamo che farne, come racconta crudelmente Alice Sebold in Lucky, quando descrive lo sguardo su di lei, massacrata e sanguinante dopo una violenza selvaggia, della sua migliore amica: vi ha letto una esplicita ripulsa, lei, la vittima, era insostenibile, aveva perso la sua migliore amica che definiva con il suo distogliere lo sguardo lemarginazione sociale di chi aveva subito violenza. Definitivamente, chi aveva subito violenza si collocava al di fuori del normale, consueto, tessuto sociale espulsa affinch non lo contagiasse con la sua disperazione. Violento il suo dolore, insopportabili le sue ferite, colpevole il suo aspetto discinto e non composto da una doccia e da abiti puliti. la stessa esperienza che raccontano, quelle poche che sono riuscite a raccontare, le donne bruciate vive dai loro familiari di tanti paesi del mondo, quello che sussurrava una ragazza nel mio studio, quando gridavo perch mio fratello mi molestava, mia madre mi sgridava forte che figura, diceva, stai zitta, non fare rumore, non ti vergogni? Non ci piacciono le vittime, siamo affascinati dagli assassini, da chi ha usato violenza. Mi tornano in mente le lettere emozionate e ammirate per Erika; meno per Omar, valutato come esecutore, non mente guida del massacro. E, contemporaneamente, mi struggevo

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per quella piccola dal visetto ancora arrotondato da uneco di infanzia e mi dicevo che lei ancora ce lavevamo, ancora potevamo fare qualcosa per lei, potevamo recuperare il suo diritto a una giovinezza e poi una vita adulta da vivere. Ecco, a me sembra che in questo stia la grandezza del Sudafrica e del Ruanda, nellaver compreso fino in fondo che lo strappo della violenza pu essere risarcito, cos da reintegrare lunitariet del corpo sociale, solamente da chi ha subito violenza, affiancato e sostenuto da chi rifiuta di scegliere quali parti amputare ed emarginare dei sopravvissuti. Questi paesi hanno accettato con fermezza di assumersi la responsabilit pesantissima di un risarcimento, di un risanamento di una societ sconvolta e spezzata da violenze inimmaginabili. E non percorrendo la strada bigotta e un poco ambigua del perdono o, peggio ancora, con la dichiarazione di essere tutti colpevoli s che la colpa ne risulta attenuata e come annegata: tutti colpevoli, nessun colpevole. (bello, da questo punto di vista, il film In my country, sempre su questo tema, che contrappone lesperienza dolente della bianca afrikaaner alla rozzezza un poco ideologica del giornalista nero che vive a New York). Mi sembra importante e da assimilare profondamente il respiro grande di chi non ha voluto aderire o al perdono o alla giustizia o alla piet ma che ha preteso di tenere tutto assieme andando oltre, tracciando un nuovo dominio di pensiero e di prassi. Verit e riconciliazione, per un futuro da volere e vivere senza lasciar fuori nessuno: grandi, chiss se ne sapremo fare unedizione innestata sulla nostra cultura, squassando la nostra civilt immiserita per darle una speranza. La mia generazione ha perso, canta Gaber e son daccordo con lui ma ce n unaltra in campo, abbiamo bisogno di poter sperare.

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Un polpo in Sardegna Questa unaltra storia di magia, una di quelle che, come si dice, se non lavessi vissuta non ci crederei. Dunque, siamo in estate in Sardegna, con nostra figlia quindicenne e una coppia damici carissimi, sposati da qualche mese. Ogni giorno ci scegliamo una spiaggia diversa fra le tante libere, una volta pi di scoglio, unaltra pi ampia e dorata, unaltra ancora con un po di verde. diventata una gradevole abitudine, ogni mattina ci presenta un nuovo patto e anche quel giorno l, quando comincia la storia, ci siamo sistemati su una spiaggetta silenziosa e aperta. Lacqua meravigliosa, sobbolle di luce nella brezza, siamo tutti a mollo e si alza unesclamazione: Alberto non ha pi la fede al dito, scivolata in mare. Tutti a far cerchio attorno a lui, tutti a tuffarsi e rituffarsi ma non ci tiriamo fuori proprio nulla. Un po mogi, usciamo dallacqua e cominciamo a districare i commenti: in effetti Alberto dimagrito, anche le dita si saranno assottigliate oltre alla pancia, strappiamo un sorriso ma la moglie Rosaria non ride tanto, a riva con i panini in mano, si accatastano le proposte: Alberto potrebbe prendere per s la fede di Rosaria e comprare a lei una fedina sarda, no, meglio fedi sarde per tutti e due, anzi cerchiamo se c un orefice qui in paese, ma agosto e fra quattro giorni partiamo, beh vediamo. E il giorno dopo Alberto trova effettivamente un orefice, pensa!, sulla salita verso la casa, ordina la fede nuova per s, lincidente sembra rientrato senza scosse. Il gioved sera Alberto e Rosaria si fanno una passeggiata da innamorati e tornano con la fede nuova, lucente, al dito di Alberto. Festeggiamo con le seadas e il mosto cotto, la ricotta freschissima, la pelle brucia piano di sole. Ma la mattina di venerd, lultima in Sardegna, si apre malmostosa: nulla di grave ma una serie di piccoli inciampi, cesti che si rovesciano, borse sparite e poi ritrovate. Non ci facciamo smontare e ci sistemiamo in spiaggia: oggi ne abbiamo trovata una piccola e raccolta, lontano sfilano le barche, il sole splendido. Ancora una volta entriamo in mare alzando spruzzi tiepidi, Federica, nostra figlia, si aggira con la maschera incantata dai fondali, noi nellacqua gi pensiamo un po alla partenza, ma no, dai, godiamoci questultima giornata di vacanza, Rosaria ha comprato delle buste di bottarga, le mette in acqua per non farle scaldare troppo al sole e, poi, di nuovo, incredibilmente, Alberto perde la fede in mare. Rosaria si abbuia e tutti noi ci sentiamo passare un brivido di

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malessere. Facciamo cerchio attorno ad Alberto attenti a non smuovere il fondo, cerchiamo e cerchiamo ma dopo una mezzora Alberto interrompe bruscamente le ricerche. C un silenzio pesante, ci distribuiamo in mare, Rosaria prova, sulla riva, a poggiare la sua fede sulla sabbia: due, tre passate donda ed gi nascosta. Se la rimette al dito, pensosa, addolorata. Federica, qualche metro pi in l, fa finta di niente, la maschera sul viso, le braccia allargate sulla superficie dellacqua, poi si solleva di colpo, fa un cenno ad Alberto, vieni a vedere, c un polpo che si arrotola in mare. Alberto, sulla spiaggia, il volto scuro e teso, si nega allinvito ma Federica, che lo conosce bene, torna a riva, insiste, gli d la maschera. Alberto allora si alza controvoglia, prende la maschera dalle mani di Federica, entra in acqua, si avvia scontento verso il punto dove cera il polpo, si china rivolto al fondale. E sul fondale il polpo allunga i tentacoli, li stira, li inarca, lento, sicuro, ma no, guarda!, indica, s certo, la vedi? Al limite di un tentacolo allungato, sorretta in piedi da due sassolini lucenti, la fede nuova riluce piano tremando nellacqua. E mentre tutti si fa cerchio intorno al braccio trionfante di Alberto, il polpo, messaggero del regno dellaldil e protettore dei Capricorni, (Alberto del 4 gennaio!) scivola via, un po pi in l, nellacqua alta, verso il buio.

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Incontri

Inchino

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Nota breve Nella scelta delle sedute, ho privilegiato gli incontri che, oltre a garantire una buona protezione dellintimit delle persone coinvolte, potessero evidenziare alcuni aspetti della tecnica per linterlocuzione con quelle che chiamo le persone interne o gli organi del corpo. Mi sembra evidente che il punto se queste persone interne esistano effettivamente non di cos grande rilevanza, pu risultare un approccio di qualche utilit per affrontare tematiche, emozioni, sentimenti o nodi difficili da maneggiare in diretta. Le persone interne, la voce di un organo interno, il suggerimento di un ginocchio o la protesta di un piede hanno la stessa valenza, se vogliamo, di una qualunque finzione letteraria. Un poco meno che allucinazioni, un po di pi che solo pensieri, permettono alle persone, e a me con loro, di addentrarci in modo protetto fuori dal terreno conosciuto su cui calchiamo ogni giorno. Un tempo sospeso, un ragionare altro, unavventura da sperimentare. Poich penso che la persona umana sia di una complessit pressoch infinita, nellarticolata variet di tutti i suoi livelli esistenziali, e poich penso, appunto, lidentit come quella firma, quello stile che in tutti riecheggia e che tutti, in qualche modo misterioso, li collega, ritengo utile avventurarsi sul livello che, in quel momento, per quella persona, pu mostrarsi pi agevole. Star, poi, allinterezza complessa assicurarsi che il messaggio, la conoscenza, la scoperta attinti ad un livello vengano veicolati fino al livello che pu trarne la maggiore utilit. Mi sembra proprio che accada, spesso, rendendo estremamente significativo il tempo fra un nostro incontro e laltro, quando la persona che maneggia e modella a suo piacimento il senso e il dettaglio di ci che abbiamo vissuto insieme. Questo modo di lavorare si poggia anche sulla convinzione che non provoca rigetto, non un trapianto da un pensiero allaltro ma, ecologicamente, si compone di elementi gi fin da subito appartenenti alla persona stessa. In questa modalit di lavoro, mi affianco e anchio partecipo dellesperienza: non potrei seguire un andamento senza, a mio modo, farmene anchio un film, un racconto, una visione. S che i miei sentimenti, le mie intolleranze, le mie curiosit vanno a integrare, nel rapporto fortissimo che si crea, lesperienza stessa. Ho annotato, qua e l, dei commenti di tecnica minuta o di controtransfert. Invitare al colloquio le proprie persone interne o gli organi del nostro corpo, per quel che ne ho capito in questi lunghi anni, richiede un certo galateo. Vanno invitate con una certa

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apertura di opzioni, va considerato ci che portano o dicono: non voglio dire che occorra obbedire loro, comunque la persona stessa che mantiene lassoluto governo, ma tenuta, una volta invitatele, ad ascoltare e tener conto del loro intervento. Magari per contrastarlo o negarlo, per fare tuttaltro ma non per fare come non avessero detto nulla. Analogamente, a mio giudizio, vanno ringraziate per il loro contributo e occorre andar dietro al tempo che ritengono maggiormente adeguato. La cortesia nei rapporti resta comunque una buona sponda e permette alle persone di accostarsi alle proprie cose con rispetto ed attenzione. Come tentiamo di fare in ogni incontro.

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Lambiguit del colesterolo Qualche giorno fa, ci siamo incontrate, con Frances e ci siamo imbarcate in un gioco dimmagini animate che aveva tutto il sapore della lanterna magica dun tempo e ne siamo riemerse, come dicono i libri di lettura, stanche ma felici. Racconto di lei e poi sgraniamo la seduta, un passaggio dopo laltro. Di Frances, che dire? E una donna piena, con un grandissimo fascino umano: una donna che riveste di un abito femminile, e lo dichiara apertamente, il suo conoscere delluno e dellaltro sesso. Qualche volta siamo finite a contarcela su, intrigate in un gioco sottile, quasi di competizione nel bel dire. Ricordo di altri giorni, di quando abbiamo avuto passi pesanti da palombaro, che perfino la voce era diventata tutta infreddolita, ricordo dei contrasti da comari e delle intese da sorelle. Come in un film della von Trotta,? Beh, forse, e allora Frances la facciamo impersonare da Hannah Schygulla o da Dominique Sanda; anzi, magari da Vanessa Redgrave. Comunque, torniamo al giorno di cui voglio raccontare: Frances si sistema sul lettino, raccoglie con cura la gonna intorno a s, si scherma, come fa spesso, gli occhi con il braccio ripiegato e resta in silenzio, quieta per un po. Anchio me ne sto l tranquilla, in attesa. Lei comincia a parlare. Frances: mi guidi Lei. Maria Cristina: cosa vuole osservare, cosa le piacerebbe? Frances: bene, mi piacerebbe toccare il punto pi debole se sapessi che riesco Maria Cristina: a ricomporlo? Frances: s. Qui, accetto al buio: non so perch oggi mi chieda di guidarla n tanto meno dove, ma lei lo sapr. Cos, chiedo indicazioni per andare avanti, seguendo le tracce di ci che le piace. Frances si sintonizza subito sulla mia richiesta e, mentre lascia in sospeso la frase, fa un gesto di rappattumare con le due mani che mi suggerisce la battuta; di nuovo lei conferma

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Maria Cristina: possiamo chiedere a chi controlla dentro di Lei che ci dia lalt, mentre stiamo andando avanti, per garantire il tempo della ricomposizione? Frances: (pausa in cui sembra ascoltare) s. Maria Cristina: daccordo? Frances: (brevemente) s

Evidentemente a Frances arrivata linformazione che potrebbe porsi il problema della ricomposizione. Non ne so ancora nulla, cos propongo di far conto sul sistema di sicurezza: chi ne ha dato avviso, pu avvisarci ancora sul suo sistema di sicurezza: chi ne ha dato avviso, pu avvisarci ancora che il tempo di fermarsi? Frances mi appare a suo agio.

Maria Cristina: Lei sa come le dar il segnale? Frances: (ascolta) dice che a questo ci pensa lei. Maria Cristina: (stupita) ci penso io? Frances: no, ci pensa lei, la mia parte Frances che controlla.

Ah, qui bellissimo: io credo di informarmi sul come accadr per essere sicura che il sistema funzioni e Frances risponde tranquilla. Ma la sua risposta, io la fraintendo e mi confondo: lequivoco sul lei (la parte di Frances) inteso come Lei (pronome di cortesia) mi sconcerta come uno spruzzo dacqua in faccia. Gocciolante, penso a quante volte mi capitato che il Lei formale si rigirasse a indicare mogli invece che parti del corpo o personaggi del mio interlocutore che, maschio o femmina che sia, sempre con il Lei mi ci rivolgo. Certo, per, presente qui anche un pensiero, una qualche ansia

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su chi controller nei fatti il lavoro. Mi sembro Dante, del: sio vo, chi resta? E sio resto, chi va?

Maria Cristina: Possiamo andare, allora? Frances: (sospira) proviamo e comunque con la garanzia che se Lei se ne accorge che non mi avvisa in tempo, di, di tenerla a bada, di non assalirmi. Maria Cristina: senzaltro, diciamo che se nel frattempo a Lei o a me venisse un dubbio, possiamo chiedere; altrimenti abbiamo il segnale. Frances: va bene.

Ecco che la richiesta di sicurezza ora la fa Frances, chiede a me di garantirla da una svista possibile. La rassicuro ma preferisco che si allarghi la sfera del controllo appoggiandosi anche su di lei. Sempre per smorzare, parlo di dubbio: non voglio in alcun modo che ne risulti svalutato il lavoro assicurato dalla sua parte e ribadisco che ci conto; anzi che ci contiamo.

Maria Cristina: qual il primo capo del discorso? Frances: va beh, io marted scorso ho detto tante cose e abbiamo detto che non le ricaccio indietro visto che ho fatto tanta fatica a tirarle fuori e credo che sia da cominciare da quelle il discorso della mia ricerca dellamore, Lei lha detto giustamente, ma io lavevo interpretato in qualche senso pi codificato, invece

Le chiedo da dove incominciamo, perch penso che i capi del discorso possano essere tanti, la invito a sceglierne uno: in ordine di tempo o di importanza, come lei crede meglio. Frances traccia un rapido schema dello stato dellarte centrando come punto focale la sua ricerca dellamore e le varie forme di tradimento da parte degli uomini. Mi sembra che il suo non lo so finale sia come

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effettivamente verso allo stesso tempo la ricerca dellamore libero mi vien da dire, mentre in qualche modo ne venuto fuori un ventaglio di uomini che in un modo o nellaltro mi tradiscono, okay?, ognuno per il suo verso dandomi fiducia, laltro togliendomela, uno non lasciandomi sposare, laltro volendomi sposare, senza guardarci dentro ecco, credo che sia questo, non lo so.

interrogativo, rivolto a me. Ma Frances, come se ci ripensasse, cambia tono e velocit di voce e comincia a narrare.

Frances: ieri, poi, stata una giornata molto difficile. (Discorsiva per alcuni minuti, racconta tempestosi equivoci in cui quanto pi uno si affatica per andare incontro allaltro tanto pi laltro vede la cosa opposta, di fastidi e delusioni sul lavoro).

Ascoltandola, sento che la sua voce va ad avvitarsi gradualmente, sempre pi stretta, come un microsolco spinto ad accelerare; e intervengo.

Maria Cristina: Frances, pu controllare un attimo con quella parte l se stiamo muovendoci bene?

Frances va, ascolta, ha la conferma. Con voce ora sicura riprende il

Frances: s, stiamo andando

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bene.

racconto, tutto dun fiato ma non di fretta.

Frances: allora, a pranzo venuto anche un ragazzo che fa yoga e ha fatto in modo tale che io parlassi un po, dicendo che mi vede, sa come fanno gli yoghisti, i grandi indovini, e dice vedo che il tuo subconscio ancora molto ferito e tutte queste cose qua e che ti sta danneggiando molto. Pu anche darsi che in qualche modo si sia sintonizzato con il mio colesterolo, non voglio neanche minimizzare perch una persona che lavora da anni, e tutte queste cose qua. E sta di fatto che ha fatto in modo tale che io parlassi un po del mio dolore e io ho incominciato a piangere. E poi sono andata in ufficio. E sono rimasta a battere una lettera e sono andata a parlare con altri colleghi raccontando un po qual era la mia impostazione di lavoro dicendo che daltro canto non stavo molto bene. E ho detto che il mio dolore causato dal mio grosso senso di solitudine che ho vissuto e ho visto che sono stati toccati profondamente. Al che una di loro che capisce un po di pi ha detto: non credere che perch uno non ha detto niente non ha sofferto. Allora

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io ho risposto: se non avessi una speranza, anche una piccola speranza con questo, non starei parlando adesso. Da un lato sono contenta e mi sono piaciuta. Dopodich sono andata a lavorare e sono venuta qui e ho avuto questa spossatezza enorme per cui vorrei io credo che dovevo dire tutto quello che ho detto perch credo che sia la spossatezza che si riconduce un po a tutto. Io credo che devo piano piano cominciare a guardare in questa non aprire la diga ma guardarci almeno dentro in quella cosa che la diga ha fermato perch io guardassi tutto il resto perch da questo dipende, dipende tutta la mia evoluzione e il mio modo, il mio modo giusto di avere rapporti.

Maria Cristina: diciamo che pu essere un serbatoio di linfa, se ben condotto?

Frances: s, assolutamente. (attende ancora, come in ascolto, scuote lievemente la testa) niente, io ho finito.

Propongo una prima ambiguit nel modo di considerare le cose: lei ha parlato di diga del colesterolo, io riprendo limmagine avanzando serbatoio di linfa in contrappunto e concludo con un condotto: che prende le mosse da un sistema circolatorio ma pu alludere anche a un rapporto, un processo. Come dire, se conduciamo

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bene il nostro lavoro, Frances, ritiene che il colesterolo possa assumere funzione di linfa? Lei acconsente.

Maria Cristina: qual , Frances, il punto che brilla di pi, che chiede di essere richiamato per primo?

Frances: io credo che tutto, perch siccome ho imparato a congratularmi con me stessa, ho incominciato a guardare un po in quella diga di colesterolo, parlandogli come ho parlato perch proprio per non continuare sulla stessa scia dellambiguit. Io stavo guardando dentro la mia diga e la cosa che brilla diciamo in modo negativo, di pi in questo momento Sandro. La cosa che brilla di pi in senso positivo, e no non tanto che brilla sembra che la parte di pensiero caldo, dove io mi rivolgo e ho del calore e ho del pensiero Luis.

Per guardarci dentro si pu cercare ci che brilla di pi: mi piace usare lo strumento tecnico del di pi, che affianca e raddoppia. Avviando una nuova sequenza, dopo il suo ho finito, riecheggia il tema iniziale della guida, come la stella cometa che brilla a indicare. Assieme al visivo brillare, aggiungo (ancora un raddoppio) la componente auditiva del chiedere di essere chiamato: vorrei fosse esplorata, infatti, la terza percezione, quella delle sensazioni, per cogliere la spossatezza di cui parlava Frances. Lei riconosce che due punti che brillano di pi, in positivo e negativo, due uomini, ma osservando il secondo, Luis, il guardare trasforma in pensiero caldo, una sensazione.

Maria Cristina: che in

Uso il termine collegato senza

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qualche modo collegato a Sandro, se non altro come polo?

Frances: Luis dice di s, sono spuntati allimprovviso e stanno qui, Sandro dice di no.

Maria Cristina: pu darci qualche indicazione, Luis, su quel che ne pensa?

specificarne altri modi oltre al suo essere polo, eventualmente sar Frances a dare indicazioni. Lei d lassenso di Luis, mentre Sandro nega, e da questo prendo le mosse per proporre a Luis di collaborare; in modo aperto, quel che ne pensa. Applico ancora la contrapposizione per precisare il senso della risposta di Luis.

Frances: come se mi biasimasse perch ho ripreso il rapporto con Sandro.

Maria Cristina: la biasima perch pericoloso o perch non deve?

Frances: perch non ne vale la pena!

Maria Cristina: questo un po poco. Non mi sembra che Luis si interessi poi molto dei suoi tempi morti.

Frances: (sovrapponendosi ride divertita) vero!

Commento fra brusca e scherzosa la risposta laconica di Luis, rifacendomi a come Frances me ne ha parlato, per saperne di pi e con maggior precisione ma anche per confermare la confidenza fra noi.

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Maria Cristina: non vale la pena in che senso? nel senso che non un uomo per cui vale la pena di, e dovremmo sapere di che si tratta, o non ne vale la pena di andare ad indagare quello che lei , nel rapporto con Sandro, pu scoprire?

Sembra che Frances abbia una risposta emotivamente importante; provoco un ancor maggiore coinvolgimento riproponendo, anchio seria, il divario: se non Sandro, chi?

Frances: (la voce si fa molto seria, bassa) no, no. Perch uno che non vale la pena di.

Maria Cristina: quale sarebbe invece luomo che vale la pena di?

Frances: lui.

E Luis si espone.

Maria Cristina: ma Luis disponibile a farle esplorare un sentimento, lo stesso sentimento che lei intendeva sperimentare con Sandro?

Frances: no, ma Luis dice che non devo pi sperimentare questo tipo di sentimento; che ho gi sperimentato.

Quello che cerco di chiarire se il veto di Luis al rapporto con Sandro si allarghi anche a ci che in questo rapporto pu essere sperimentato, laltro senso del non vale la pena; Frances riferisce ci che Luis va dicendo e commenta, poi, a margine, che un discorso differente la realt del danno dalluso potenzialmente interessante che lei pu farne. Dicendo cos, differenzia il suo

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Maria Cristina: quindi non questione che inutile ma che dannoso ripetere la prova?

pensiero, e quindi anche la sua posizione, da quella di Luis.

Frances: s. E perch Sandro comunque dannoso. Sandro danno. E che poi mi possa servire perch a me il danno mi aiuta, un discorso differente. Il danno vuol dire la sofferenza, limpatto; mi aiuta in che senso? mi aiuta ad andare avanti perch io mi ci guardo dentro e non mi distrugge, in qualche modo riesco a ricostruire. Per, non pi necessario, tanto di danni ne sono stati fatti per cui non ci deve pi stare.

Interessante lo scarto tra inutile, dannoso, non pi necessario.

Maria Cristina: cos che non ci deve pi stare? Sembra che a Luis piaccia essere un po sornione, le d un foglietto per volta.

Frances: beh, s (assorta e forse compiaciuta), sempre stato cos. (Poi, come tornando ad una vigilanza differente) Beh, il suo consiglio che intanto ho fatto bene quello che ho fatto, per quel

Ora come se fossimo su di un palcoscenico, tre persone, Frances, Luis e io, a formar triangolo e le luci che ogni volta illuminano una coppia: dapprima chiedo a Frances che cosa Luis ha inteso dire e la attiro in una complicit tra noi due che di Luis commentiamo. Frances mi risponde sintonica nel testo ma si sposta ad affondare il rapporto con Luis facendo di me il terzo. Torna a me

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lavoro. Poi mi dice di lasciar cuocere Sandro nel suo brodo per vedere che minestra ne viene fuori.

Maria Cristina: s, Frances, (la mia voce perplessa) ma non un po in contraddizione con quello che le diceva prima, nel senso che se Lei deve distaccarsi dal suo rapporto con Sandro, non dovrebbe neanche interessare che minestra ne viene fuori. O invece non ho capito?

riferendo il consiglio di Luis e stavolta sono io a distaccarmi da lei controllando lesattezza del pensiero di Luis. Lei aderisce e si assume la paternit della minestra che la differenzia dal brodo idiomatico cui accenna Luis.

Frances: beh, devo dire che questo viene, viene da parte mia, ossia la mia tendenza ossia io avrei voglia gi, gi o domani, o quando sia, quando avr loccasione, di cominciare a fare con Sandro quello che stavo facendo, che ho fatto con i miei colleghi. Ma poi volevo sapere il suo parere, come le suona, come le arrivato allorecchio. Infine chiede il mio parere, con quel ma avversativo iniziale.

Maria Cristina: cosa ne dice Luis?

Proprio con questo movimento a triangolo, sono molto cauta nellespormi quando Frances mi chiede e, proprio come un

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Frances: sta ascoltando.

Maria Cristina: mi sembra che Lei abbia riportato in gran parte il telex di Luis ma abbia aggiunto i suoi saluti finali, non c pi solo il pensiero di Luis.

Frances: no, no, no. Non pi Luis che parla, sono io.

Maria Cristina: Luis si ritirato?

Frances: s, s, s. Per cui io dico che la mia tendenza sarebbe questa e quando dico: vediamo che minestra ne viene fuori, perch prima o poi lo far, lo devo fare. Chiaro che con metodi diversi, non fare le stesse cose che con i miei colleghi, fare una cosa con Sandro che gli entri dentro, ma proprio dentro al midollo, come arrivata ieri a quelle persone.

terzo in una coppia, mi assicuro che laltro, Luis, non se ne avr a male. Formulo la frase con la stessa vaghezza di quella di Frances perch non so bene su che cosa lei volesse il mio parere: sul contenuto complessivo del discorso, sul rapporto di coppia, sul suo differenziarsi da Luis, sul suo progetto di attuare con Sandro ci che ha gi fatto con i colleghi. Luis sta ascoltando: commento con Frances che non c pi solo il pensiero di Luis (un tema, questo dellautonomia del pensiero femminile nella coppia che abbiamo ripreso tante volte). Lei, con grande vivacit, quasi ridente riafferma che non pi Luis che parla, sono io. E si mangia le parole nella fretta di espormi ci che far.

Maria Cristina: dica un attimo a Luis di stare attento, volevo chiedervi questo, a Lei e a lui insieme. Se ho capito bene il

Chiedo a Frances di ricongiungere la coppia per un riassunto del punto che mi sembrato centrale del

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pensiero di Luis, Frances pu sperimentare con Sandro qualcosa perch Sandro ne un ottimo esemplare.

Frances: (attenta) s.

Maria Cristina: ma Sandro una persona pericolosa per sperimentarla. Allora Frances dovrebbe trovare un esemplare che sia ugualmente significativo per il brodo di Sandro ma non Sandro la persona giusta con cui indagare, esplorare, sperimentare.

pensiero di Luis, il brodo di Sandro, e affido loro la verifica della correttezza della mia comprensione. Frances si immerge in un discorso a spirale, punteggiato di allora che ogni volta precisano meglio dove andare a cercare la risposta. Che Frances ha gi ma che nel dialogo con Luis arriva a possedere compiutamente, mi piace prenderla a metafora di una felice relazione terapeutica. Il mio commento sotto voce tende sicuramente a verificare lesattezza di quel che ho capito ma mi sembra voglia anche richiamare Frances al rapporto con me: le offro una metafora, come fosse una caramella. Forse c un sentimento di gelosia (ancora il terzo?) che la sua intimit con Luis ha suscitato.

Frances: allora: Luis ha abbassato gi la testa perch considera che io ho gi la risposta. Non tanto che Sandro la persona, non la persona giusta, da un lato allora: Luis dice che sui lati, nei lati nei quali io ho sperimentato con Sandro, ci sono esemplari a un livello diverso con cui io posso sperimentare certi tipi di rapporto con un uomo e che c gi, lho gi trovato; che io lo so e che lui approva. Io dico, e lui anche, che questo tipo di sperimentazione con Sandro in cui alla fine penetra dentro la mia, la mia parte di colesterolo perch faccio

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perch finch allora: diverso. Adesso invece di sperimentare con un Sandro, io sto sperimentando guardando dentro la mia diga, la mia, diciamo, parte vitale che tutta qui dentro. Allora, siccome Sandro una punta abbastanza di significativa della ambiguit quella che arriva a me, dentro, male. Quella che a me crea il colesterolo. Allora in questo momento per cui, una volta individuato che questo danno, ma danno profondo, e siccome anche se lo so, comunque Sandro riesce a entrare in quella parte e riesce a entrare. Perch per quello che deve essere lasciato Sandro: perch Sandro riesce a trovare un linguaggio tale da farsi credere, da far credere che veramente mi vuol bene. E io ci credo. Come di fatto credo un po a tutti, per questo , diciamo, cos. E allora, Luis dice due cose: prima di tutto non vale la pena per il tipo che , e secondo non bisogna farlo perch nonostante sapere tutto questo ti danneggia.

Maria Cristina: non vale la pena per il tipo che un po la stessa differenza che passa fra lape e la vespa, tutte e due hanno il pungiglione la vespa sterile e muore perso il

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pungiglione.

Frances: esatto, proprio cos.

Frances: (tace per qualche minuto, assorta, il respiro calmo, la figura abbandonata sul lettino. Poi con una voce come umida) molto bello, Luis cos, per.

E un momento di quiete. Alle parole di Frances mi affianco interrogativa, come fossi sospesa sul da farsi.

Maria Cristina: (ascolto nel nastro una nota complice e forse uneco dinvidia nel mio intervento) amicale o tenera?

Frances: (in registro lavorativo) attento, estremamente attento la testa abbassata, le gambe incrociate, appoggiato ad un tavolo, non a caso rotondo, le mani appoggiate sulle ginocchia e la testa appoggiata sul tavolo che ascolta con attenzione.

Maria Cristina: si fida, in questo momento, di Luis?

Lei mi rimanda subito un riprendiamo a lavorare con quellaccenno al tavolo rotondo che appartiene ad un nostro codice. Testo la qualit di un rapporto che Frances in questo momento ha con Luis: la tenuta, la confidenza, la differenziazione. Ci scherziamo anche un po su, con lirrisione leggera che ridimensiona senza diventare un deridere. Una sfumatura particolare di linguaggio fra donne che parlano di uomini.

Frances: s.

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Maria Cristina: totalmente?

Frances: no.

Maria Cristina: quanto le serve?

Frances: s molto sorpreso Luis di queste cose qua.

Maria Cristina: che Lei dica: fino ad un certo punto?

Frances: che io dica: fino ad un certo punto.

Maria Cristina: lha metabolizzato, adesso, o ancora l che pensa?

Frances: gli piaciuto, molto. Okay, pronto.

Maria Cristina: (sorridendo) mhm. Volevo chiederle, se possibile, se opportuno, che

Sembra che si possa cominciare a raccogliere qualche filo di quelli che sono

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Lei chiedesse a Luis questo, di mostrarle per un attimo, a fianco a lui, una immagine di Luis in cui sia distinguibile dellambiguit, affinch Lei possa distinguerne i contorni.

Frances: distinguerne i contorni.

Maria Cristina: s, e conoscerla, diciamo. Chiedendo a Luis, proprio per la sua doppia nascita, per la sua doppia appartenenza, di sdoppiarsi mantenendo davanti ai suoi occhi, Frances, ben saldo Luis che Lei conosce e di cui pu fidarsi e fare una sorta di proiezione a lato di Luis ambiguo, che abbia dellambiguit. In modo che Lei possa vederla come brillare, nel confronto. Sono stata chiara?

stati via via disseminati nel discorrere. La ricerca di Frances intorno allambiguit nei rapporti ma Sandro non un soggetto utilizzabile: Luis sarebbe disposto a esporsi lui, mostrando di s una immagine in cui Frances possa discernere della ambiguit? Nei contorni, dapprima, data la pericolosit di cui Frances e Luis si sono detti convinti, poi, dopo, il consenso di Frances, per una conoscenza vera e propria. Accampo come risorsa il sangue doppio di Luis, una sua caratteristica che guider Frances nel discriminare fra doppio ed ambiguo. Propongo, insomma, che venga evocata unimmagine di Luis ben distinta da quella che Frances conosce e di cui pu fidarsi. Siamo in piena esperienza visiva: riprendo il brillare di prima, sono stata chiara?.

Frances. S.

Maria Cristina: per, non so se opportuno farlo.

Frances: (sovrapponendosi) diciamo che quello che Luis mi

Frances daccordo, ragioniamo sullopportunit della proposta e sui rischi che pu comportare; una verifica che mi torna piuttosto abituale.

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dice che se pu sdoppiarsi, pu sdoppiarsi nella sua parte nera e bianca e se deve dare i suoi connotati allambiguit, pu temere che mi dispiaccia.

Maria Cristina: questo un ostacolo, per Lei, Frances?

Interessantissimo come Frances dichiari per Luis difficile sdoppiarsi perch difficile restare nero: mi sembra che difficile non sia qui laggettivo contrario di facile ma piuttosto alluda a un rischio, questo s fin troppo facile, di restare poi dimezzato come il visconte di Calvino.

Frances: no, per non riesce, quando lui si sdoppia, non riesce a diventare, a rimanere Luis di sempre, diventa nero e bianco. Certe volte, dice, difficile sdoppiarsi perch pericoloso restare nero.

Maria Cristina: pericoloso per lui o pericoloso perch Frances potrebbe temere di averlo perso?

Frances: no, pericoloso per lui.

Maria Cristina: pericoloso per lui?

Frances: s. Maria Cristina: (come pensando a voce alta) potrebbe mettersi al fianco, allora, un Luis bianco da una parte e un Luis nero dallaltra,

Oltre alla difficolt di

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mantenendo lui, intero, al centro, fra tutti e due.

Frances: s, okay. E la parte bianca si vede pochissimo.

Maria Cristina: la parte nera?

mostrarsi in un rapporto importante nella propria parte nera. Da qui, il suggerimento di chiedere a Luis non pi di sdoppiarsi ma, meglio, di raddoppiarsi, restando intero al centro e affiancandosi un bianco e un nero. Questo si pu fare e resta subito evidente come sia la parte nera quella pi interessata.

Frances: s, si vede, ha un braccio sulle spalle e Luis la stringe.

Maria Cristina: cos che le interessa verificare e scoprire?

Frances: beh, intanto ho visto che, che la sua parte nera che gli d la vecchiezza, lantichit. Luis ogni tanto sembra quasi un vecchio come parla e come pensa, un vecchio, un vecchio saggio, no?, che ha dentro di lui la parte bianca e la parte nera, e proprio la parte nera di Luis negro un Luis vecchio, diciamo come se fosse il suo bisnonno. La parte bianca quasi senza contorni, per la parte che gli serve per proteggere la potenzialit della sua negrezza. Lui ha assentito e a questo punto si potuto permettere di abbracciare tutte e due le parti e la parte

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bianca, mentre la parte nera un vecchio, la parte bianca quasi un ragazzo. E come per dire lambiguit dei bianchi nel carattere dei piccoli, fin da piccoli.

Maria Cristina: (sottovoce) Frances, glielhanno insegnata i bianchi?

Frances: gli ha insegnato la sua parte nera al confronto con i bianchi, dipende dalla struttura in cui si vive e c la parte di Luis ambiguo, la parte di Luis che forzatamente stata la struttura per difenderlo. E questa la parte ambigua. Allora, quello che mi vuol dire Luis, di non soffrire se magari anzi sembra che io faccia delle cose sbagliate nei suoi confronti e anche nei miei confronti e nello stesso tempo mi dice: adesso posso essere meno sbagliato di prima perch lambiguit usata non cambiando persona, non cercando di aiutarti perch questo non si poteva fare. Ed proprio cos, perch la legge dei bianchi che lha detto. Eppure lambiguit era vestita di nero ha usato la sua parte bianca, indubbiamente (Frances lascia morire la frase, lascia assaporare il discorso,

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forse per ospitare una riflessione. Poi si riscuote e:)

Frances: (bruscamente) e adesso il nero mi dice: adesso che mi sono mostrato io, quando andrai a fare la tua parte, tu?

Maria Cristina: e Lei ha accettato, Frances?

C un soprassalto di Frances, come si sentisse aggredita. E mi giunge violento il teso messaggio. Cos, mi informo con un po dansia e, quando Frances riporta una risposta banalizzante non mi accontento e incalzo Luis che si era promesso protettore, distinguendolo dal nero.

Frances: dice di no, stava scherzando.

Maria Cristina: non so se stava scherzando.

Frances: lha detto che un sornione, io penso che lo sa gi.

Sembro un po mamma lupa, no?, sospettosa e con i denti ben in mostra. Frances mi risponde tranquilla ridistribuendo con cura i ruoli in gioco: la parte di controllo deve fronteggiare la richiesta rendendone conto a Luis in termini reali, il tempo rotondo della seduta. Lei, Frances, che ha un rapporto con Luis, pu fargli una promessa. Senza condizioni.

Maria Cristina: il nero, ma Luis cosa ne dice?

Frances: sta aspettando e ascolta e sorride.

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Maria Cristina: sta anche aspettando la sua risposta?

Frances: s. Io credo che la parte di me che sta conservandomi nel tempo rotondo della seduta, deve rispondere a Luis che non ce la faremmo. Io comunque prometto a Luis, che la prossima volta che, che lo chiede, lo far.

Maria Cristina: c altro che Lei vuole sapere, Frances?

Frances sta rassettando: questo a posto, questo lo sapevo gi quindi neanche chiederlo. Sinterroga e ha le risposte che le servono, sa cosa non il caso di fare perch non sarebbe il modo giusto di parlare. E allora, e questa sincronia mi incanta, con ovvia naturalezza le due parti si ricompongono dapprima fra di loro e poi rientrando in Luis. Permettendogli di sedersi. Mi informo, molto interessata, sul come andata precisamente la ricomposizione e Frances, docile, descrive. C un clima di tranquillit corposa, di conversazioni senza tensioni.

Frances: mah, come se lui mi avesse gi risposto una cosa che io avevo gi da tempo, questo lo sai gi quindi neanche chiederlo. S, mi interessa pi sapere su di lui, nei confronti di lui piuttosto che di lui nei miei confronti. Questo vero. Dice che basta. Perch io adesso parlerei con lui ma non sarebbe il modo giusto di parlare. E allora le due parti adesso si sono sedute e lui rimasto in piedi, si guarda in giro e non ha dove sedersi, e le due parti sono riunite e lui si seduto.

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Curare la vita con la vita

Maria Cristina: riunite, come?

Frances: prima si sono riunite e poi sono entrate in lui.

Maria Cristina: prima fra di loro si sono riunite?

Frances: s, adesso seduto un po affaticato.

Maria Cristina: se fosse stato pi a lungo o pi faticoso il lavoro, invece che affaticato sarebbe stato spossato come lo era ieri sera?

Intreccio, ora, il tema della spossatezza, faccio anchio la donnina di casa che rimette in ordine: di questa spossatezza che ci rimasta in giro, cosa ne facciamo, Luis la conosce? Lo chiamo in causa e un po lo punzecchio: sono cose da donna o anche un uomo pu sfinirsi? Frances dapprima lo copre escludendolo automaticamente per rivendicare la paternit della sua spossatezza del tutto autonoma, svincolata da lui e da me: la mia spossatezza era mia, non centra il lavoro che avevamo fatto. Poi si reinserisce la risposta piccata di Luis che apre una nuova parentesi di grande complicit fra Frances e me.

Frances: non credo, a parte che le parti non si sono proprio riunite del tutto perch le vedo, io credo che la mia spossatezza era mia, non centra molto con il lavoro che avevamo fatto. Ah, Luis, prima di tutto lui dice che lui non arriva mai ad essere spossato.

Maria Cristina: oh, ecco mi pareva, (ridiamo assieme) mi pareva un po troppo

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tranquillo!

Frances: quando ha capito, quando ha realizzato quello che ha detto, ha detto: non scherziamo. (a me) Vogliamo scherzare? (ride a gola piena) Bellissimo questo! (ride ancora).

Frances: (dopo un po e con una voce meditativa) eppure quando sento quello che dice, mi dico cosa mi sto inventando io, no?, eppure quando lui che risponde, io non centro, son convinta. E poi non importa. C la parte che controlla il tempo che mi sta redarguendo: come ti permetti di invadere il tempo che , il tempo reale. Basta.

Frances passa, ora, a commentare, sinterroga sul che cosa avvenuto e sul come potuto accadere. Sbrigativa, e saggia, conclude: non importa. Entra in campo la parte deputata al controllo che la rimprovera di invadere il tempo che contrapposto al tempo rotondo della seduta.

Frances: probabilmente, in questo rapido fluire di battute, come lui ha risposto cos, io immediatamente stavo sganciandomi da questo tempo qua.

Maria Cristina: cos che rischiava?

C qui lultimo passaggio, il rapporto diretto di Frances con la sua parte di controllo; che lha avvertita che stava sganciandosi da questo tempo qua, in relazione alla risposta di Luis. stupefacente lagilit di Frances nel passare da un livello logico ad un altro, da un rapporto a un commento a unemozione. Senza incertezze, senza confusioni,

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Frances: rischiavo molto, non so cosa ma rischiavo. Rischiavo di, di dimenticare, di non capire. Secondo me, la parte che abbiamo chiamato in causa da subito che mi ha fatto questa cosa qui perch rischiavo di non capire, perch questa parte crede che io debba parlare della mia spossatezza.

con una brava cordialit. Anche con la capacit di fidarsi delle indicazioni che le giungono senza saperne poi troppo: rischiavo molto, non so cosa ma rischiavo. Mi allineo a lei per valutare come va usato il tempo, ora, nella zona crepuscolare in cui il tempo rotondo della seduta va stingendo sul tempo reale. E Frances tira le ultime fila.

Maria Cristina: deve parlarne adesso, in questi quattro minuti che mancano?

Frances: s, perch molto breve. Io credo che questo affaticamento, enorme, che io avevo, era proprio causato dal fatto che ci avevo ficcato il naso nella mia parte colesterolica, lambiguit. E ho collegato i due poli, ho collegato i due punti. Nel senso che, guardando dentro nella mia parte dolente, ho parlato agli altri di cosa mi procurava dolore, okay?, e questo stata una grossa fatica perch mentre la mia tendenza stata quella di mettere un argine, racchiudere questa mia parte profondamente dolente, e ammalata, per poter

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continuare a vivere nel suo complesso, ieri ho fatto una cosa diversa, ho vissuto parlando un pezzo di parte malata. E questo mi ha provocato unenorme spossatezza. C stato, il fisico ha fatto s che io non toccassi nullaltro perch mi avrebbe distrutto. Mi ha spossato anche perch c sempre una donna nel ventaglio dellambiguit e questo mi ricorda che c un conto in sospeso che va saldato e che da l non si scappa, lambiguit della donna che vive il distacco mentre vive il rapporto.

Maria Cristina: ci torniamo su?

Ho consegnato a Frances la trascrizione di questa seduta e gli appunti a lato, proponendole, se lo desiderava, di farne un commento suo. E lei mi ha consegnato una lettera che accompagnava un suo lavoro. La lettera lho conservata per me, il suo testo eccolo: Parla Frances Ho letto e riletto questa seduta per ben tre volte. Ho sentito la necessit di rileggerla perch alla prima lettura quello che mi balzato di pi allattenzione che ha offuscato tutto il resto stata lenorme imprecisione che ho nellesprimermi. Constatare questo mi ha turbato e preoccupato, tant che non riuscivo a focalizzare nientaltro. Ritornando successivamente al nostro lavoro questa imprecisione mi ha toccata sempre con forza. Adesso dopo esserne ritornata per la terza volta mi viene da dire che questa mia attuale difficolt di

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parlare adeguatamente pu essere di nuovo collegata al colesterolo. Direi che il colesterolo, questa mia parte vitale inferma, si manifesta sintomaticamente attraverso il mio parlare. E penso che sia molto importante a questo punto guardarci dentro, con amore e cautela per anche con decisione e costanza. Ho risentito come molto mio il fatto di considerare che questa mia parte dolente, ammalata, pu essere un serbatoio di linfa, di nuove energie e di nuove pi grosse capacit. Per la prima volta sto considerando lidea di essere malata, penso sia dovuto al fatto che credo di poter guarire. Sto gi guarendo? E stato molto utile rileggermi pi volte ed avere possibilit di prendere coscienza della malattia. Solo adesso capisco perch mi ha tanto sconvolto il mio esprimermi sconnesso; perch ho realizzato che stavo toccando la malattia. Ho avuto ed ho un po di paura, paura che il torrente colesterolico, tenuto fino ad ora a bada, sia pi forte di tutto il resto pi forte di me. Ho realizzato che ci aspetta ancora un arduo lavoro, sono fiduciosa ma anche timorosa. Penso che si dovr lavorare sopra con molta cautela e amore. (Credo che questo sia un avvertimento principalmente per me). Sento amore per questa parte, un amore protettivo come si sente per il figlio pi fragile. Rileggendo la parte riguardante Sandro ho sentito che una parte di me non pi disposta a subire le ambiguit altrui ed a proteggermi contro di esse. Lo sente come una grande offesa e vuole e ha bisogno di chiederne conto. -LUISMi ha sorpreso (favorevolmente) la Sua ammissione di complicit e del pizzico di invidia che riscontr ascoltandosi. E stata la conferma del nostro percorso comune, del percorso di questi anni e della sua partecipazione al mio/nostro lavoro. Ho ammirato la Sua capacit di seguirmi, nonostante il mio esprimermi difficoltoso. (Per seguirmi voglio dire intendermi). Sembrerebbe che Luis sia gi membro della mia parte guarita e un segnale che proviene da me guarita.

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Mi sono vista, per, molto acritica nei suoi confronti, non succube. Mi incuriosisce e affascina molto questa dimensione surreale; una chiave che mi permette di avere accesso a tante stanze chiuse che altrimenti sarebbero rimaste sempre chiuse. Per esempio attraverso la parte nera Luis mi chiede perdono di quello che non fa nei miei confronti e che secondo lui dovrebbe fare. Sar cos, oppure sono io che necessito di giustificarlo a tutti i costi? La parte finale della seduta ci invita a tornare sulla mia parte malata. Torniamoci

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Gli occhi del sarcofago Monica, donna simpatica e fattiva, fa linsegnante, ha una famiglia ma le sembra di divertirsi poco. O, meglio, questo il punto cui siamo giunte e su cui stiamo lavorando quando ci incontriamo, in una giornata estiva, calda ma non soffocante. Monica: oh mamma. (ansima per un po, ha fatto le scale; poi ricorda la mia richiesta di un sogno o due che ci chiarisse le idee, sa di averlo fatto ma non lo ricorda) poi suonata la sveglia e io nel dormiveglia ho cercato di manipolare il sogno, farlo andare come volevo io, per di che cosa fosse proprio non ricordo. una richiesta che faccio abbastanza spesso, questa di un sogno o due, di qualche informazione sotto qualche forma, in merito o inerenti a quello che passato fra di noi la scorsa volta. Questo restituisce autonomia e controllo allaltro che torna ad essere il gestore principale delle sue cose. Chiedo, in genere, di rivolgersi al facitore di sogni affinch venga messo a disposizione un sogno, un cenno, unimpressione, un qualcosa, insomma che possa essere inteso come inerente alla domanda. Suggestione, realt, immaginario non mi interessa poi molto, il fatto che generalmente le persone ritornano con una conquista.

Maria Cristina: vediamo cosa riusciamo a recuperare.

Monica: guardi, ho cercato, non riesco a recuperare niente, so che c qualcosa ma non, poi dopo mi domandavo: sto

E, coerentemente, presuppongo, gi nel mio domandare, che qualcosa recuperabile poi sia. Sono al suo fianco. E Monica collabora ampliando il suo racconto, con una ironia pungente, che sfiora il sarcasmo, nei suoi stessi confronti, che cerca di far

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sognando o sto pensando? Zero assoluto. Non la prima volta che mi capita, cosa faccio?, cerco di fare andare le cose come piacciono a me; non sempre ci riesco, perch guarda caso se devo sparare non riesco a sparare, oltretutto ho sempre gli occhi semichiusi () sono in pericolo, devo agire in un certo modo, ma per agire devo avere gli occhi aperti. Invece io ho gli occhi chiusi. E non riesco a vedere.

andare le cose come piacciono a lei. Questo mi conforta nellaver avanzato la richiesta, evidente che a Monica piace tenere le redini e, come di consueto cerco di andare al suo passo anzi accentuandolo. Ma ecco che Monica introduce di botto un ostacolo grave, parla di pericolo, di sparare, e annota, angosciata, come avere gli occhi aperti renda impossibile agire, proprio mentre agire dovrebbe.

Maria Cristina: e li deve tenere chiusi?

Monica: no, io cerco di tenerli aperti ma non riesco. Proprio il contrario, non che io debba tenerli chiusi, io devo tenerli aperti, ma faccio una fatica immensa, per cui tipo, tipo saracinesca, ogni tanto riesco ad aprirli ma al momento giusto mi si chiudono, per cui devo andare al buio. Per cui, cos io so che posso sparare e colpire, per non riesco a farlo perch ho gli occhi chiusi.

Intervengo con voce molto bassa e interessata al dato tecnico: li deve tenere chiusi? Perch, chi la obbliga, come succede, che cosa esattamente succede? Spostando linteresse sullindagine cerco di sottrarla alla morsa dellincubo in cui mi sembra confinata e di tenerla con me: cerchiamo insieme di capire che cosa succede, Monica. La sua voce sale di tono, torna nella relazione con me. E descrive, dettagliatamente, quel che lei cerca, quel che le riesce. Ancora le vado dietro e introduco il tema della possibilit: sa che potrebbe. Lei ne conviene.

Maria Cristina: sa che potrebbe.

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Monica: s, so che potrei.

Maria Cristina: questo farebbe pensare che gli occhi devono rimaner chiusi altrimenti lei sparerebbe, si pu dir cos?

Monica: si pu anche dire cos.

Dunque, se potrebbe e non lo fa, (gli occhi lei non li deve tenere chiusi ma devono rimanere chiusi) importante che non lo possa fare, e che cosa in particolare? Ma, lei ha parlato di sparare, questo il punto su cui dobbiamo soffermarci a capire? Monica ne conviene.

Maria Cristina: a chi che sparerebbe?

Allora, se non deve sparare, c qualcuno che non deve essere colpito? Sparerebbe al pericolo del momento, ma, qui riassume brevemente, sono dei flash, il dramma un altro: io sono, non so, sono io e non sono io e poi la cerniera: so di essere io ma non mi vedo. Lo sguardo, meglio, la vista il controllo della realt, per Monica.

Monica: al pericolo del momento. Dipende dal contesto del sogno. Ieri io ho sentito parlare al telegiornale che c la droga in Colombia, che cosa faccio, mi sogno di essere un poliziotto che va in Colombia contro la droga, roba del genere, devo sparare a un certo punto per difficile sparare, ho gli occhi chiusi. E questi sono dei flash che mi vengono in mente dei sogni che ho fatto. Per la cosa che mi rimane impressa che io sono non so ... sono io e non sono io so di essere io ma non mi vedo (c unangoscia

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forte nella voce).

Maria Cristina: non vede neanche se stessa.

Monica: non vedo neanche me stessa. Per so che sono io, non una terza persona e non so, devo fare una certa cosa, adesso in effetti non saprei dirle esattamente i sogni, so che devo farlo per non riesco a farlo perch, perch arrivo a un certo punto che ho gli occhi chiusi, non riesco a vedere quello che faccio. E mi viene una sensazione di impotenza e dico ma allora non vero che so fare, come se ho qualcosa che sfugge di mano () Tutto quello che implica unazione mia, che sia sparare, che sia , non so, un colpo di karat, che sia danzare, non posso farlo perch io non ci vedo Ogni tanto riesco a aprire gli occhi.

Nel mio intervento aggiungo il neanche che lei riprender nella risposta, a tutto campo il test di ci che esiste. Non riesce a vedere ci che fa e allora subentra la sensazione di impotenza e dice ma allora non vero che so fare, come se ho qualcosa che mi sfugge di mano. Perso il contatto visivo, irrompono lauditivo e il cenestesico che sembrano sigillarla nellimpotenza. Agire richiede luso del corpo ma se non pu uscirne con la vista non pu agire. Ma ogni tanto ci riesce.

Maria Cristina: che succede quando li apre?

Monica: mi arrabbio perch non riesco a fare. Sono comunque bloccata. Anche se apro gli occhi sono bloccata.

E che succede? Apre gli occhi e si arrabbia. Resta comunque bloccata, non abbiamo ancora trovato il capo, alla mia richiesta lei risponde non saprei, quella consapevolezza che sembrava legata al vedere sprofonda in una certezza interiore, sa che li richiude

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subito dopo. Maria Cristina: come mai? Riprendo il filo e glielo ripropongo. Lei segue una sua pista interna, come se le si dipanasse davanti, intenta, racconta a frasi interrotte e sospese quel che le si mostra. Poich evidentemente in visivo accoppiato al cenestesico, come se stesse toccando il velo, la nebbiolina, fa addirittura lievi gesti con le mani come sfilasse, modellasse, cogliesse.

Monica: non lo so, non saprei proprio. No, forse sono bloccata dal fatto che so che ho aperto gli occhi un momento e se poi so che li richiudo subito dopo non riesco a agire.

Maria Cristina: allora, apre gli occhi ma per troppo breve tempo per agire, questo il punto?

Monica: il punto questo. Cio, come se tenessi costantemente gli occhi chiusi e poi ogni tanto riesco a aprirli. E come se poi ci fosse un velo davanti agli occhi, una nebbiolinacio allinterno degli occhi non allesterno. E proprio una cosa fisica, non esterna. Fisica interna, non fisica esterna. Degli occhi in se stessi, non che ci sia un velo.

Maria Cristina: appartiene proprio alla vista.

Monica: la vista proprio. A

Intervengo a voce bassa, puntualizzando quel che mi ha detto, mentre lei in una specie di sogno. E ancora, riprende a raccontare ci che va conoscendo. Poi, il salto

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me capitato tempo fa di avere un po di congiuntivite e avevo una specie di velo sugli occhi e faceva fatica al mattino a andar via questo velo. Ecco, la stessa cosa mi capita di notte, cio, io ho questo velo sugli occhi e non riesco a vedere se vedo, vedo tutto sfocato, tutto annebbiato. Oppure ho gli occhi chiusi. Ecco, il discorso Cio, e a me prende una rabbia, un senso di frustrazione perch so di poterlo fare, so che posso agire, so di essere in grado, per non posso farlo perch non ci vedo. E una cosa costante il fatto che io non riesco a tenere gli occhi aperti e quando sono aperti ho questa membrana. E ogni tanto vedo con lucidit, vedo nitidamente per in linea di massima no.

forte: ecco, il discorso. E qui torna lemozione, la rabbia, la voce aumenta di volume, decisa, ritorna il verbo sapere, furiosa perch in trappola ma non pi angosciata. Intervengo con voce morbida suggerendo una sua capacit che lei accoglie prontamente, ora asserisce.

Maria Cristina: e quando vede nitidamente cosa succede?

Monica: succede che mi rendo conto se sono in pericolo o se devo agire oppure se devo fare una cosa anzich unaltra. Ma talmente breve questo momento di nitidezza che comunque non posso far niente.

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Maria Cristina: quasi peggio.

Monica: quasi peggio. Forse meglio non vedere () Un po come uno struzzo. Per il discorso cos, lo struzzo si dice metta la testa sotto la sabbia per non vedere, per a un certo punto si dimentica che fuori ha un pop grosso cos. Quindi lui non vede, per gli altri lo vedono. Il discorso quello.

Fra domanda e definizione, ci che dico. Lei ne fa una constatazione. La voce tornata brillante, riappare lautoironia quando si paragona a uno struzzo con un pop grosso cos, ma non un sarcasmo acido, si prende in giro per quel suo corpo ingombrante che la fa ansimare quando sale le scale. Le propongo che il grosso pop dello struzzo possa essere una risorsa, un modo di ottenere una comunicazione doppi e contrappuntata.

Maria Cristina: daltra parte, questo pu anche giustificare perch lo struzzo ha un pop cos grosso. Per bilanciare, per cui quello che da una parte afferma dallaltra nega, le sembra?

Monica: s, per la negazione molto pi forte dellaffermazione, sproporzionato.

Maria Cristina: per linterno dello struzzo, ma per chi lo guarda la negazione non si vede proprio, le sembra? Cio, faccia conto che lei viene da dietro, non se ne accorge

Da brava insegnante, lei corregge verso la banalizzazione, riprendo la mia tesi introducendo il divario fra il dentro e il fuori e le dico se lei viene da dietro invitandola a spostarsi, dunque, al di fuori del suo corpo e sciogliendo per ora la contrapposizione perch la testa sepolta non si vede.

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neanche in un primo momento che non si vede la testa dello struzzo.

Monica: infatti, si deve proprio vederlo bene, avvicinarsi e controllare. S, per non riesco a capire, a cosa porta tutto questo (pausa lunga) Non riesco a capire cosa porta, capisce? (le mani sul viso) ma, come se si volesse far uscire qualcosa, per non c nientaltro. Ho avuto una sensazione di mancamento, un attimino, di respiro e basta. C un silenzio totale. Non c risposta. (pausa lunga) No, una mezza risposta c, non devo cercare di manipolare le cose, di farle andare per il verso che voglio io, devo lasciare le cose che vadano per il loro verso e lasciarmi guidare un attimino dallistinto. Come se dicesse che devo ragionare meno.

Monica ne conviene, nel suo dire sembra proprio che stia attuando la mia proposta di vivere in diretta lavvicinamento, ed per questo che stride di pi il suo non riesco a capire, capisce? Come se si volesse far uscire qualcosa, dice, e poi quel mancamento che mirabilmente incapsula in s ci che manca e un venir meno dei sensi. E, dopo il silenzio, che sembra averle fermato il cuore, ecco la mezza risposta: non manipolare le cose, lasciarsi guidare dallistinto, ragionare di meno. E se deve ragionare di meno, per contrappunto, che cosa deve fare di pi? Ancora una volta il gioco dei poli che racchiudono tutte le possibilit. E lei, tranquilla, risponde subito: pensare di pi al mio fisico. E avanza una idea, che il non vedere sia un dormire della testa, un suo voler essere lasciata in pace, come se mente e corpo si disturbassero reciprocamente e reciprocamente si chiedessero una sosta.

Maria Cristina: cos che deve fare di pi?

Monica: pensare un po meno alla testa e un po di pi al mio fisico. (lenta, da vaticinio) E il mio fisico che ha bisogno di essere seguito. E il lavoro della testa anche di vagare ogni

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tanto. E il lavoro del corpo quello di star sempre con i piedi per terra () Non pu essere che il fatto dei sogni che io non vedo nei sogni sia anche un voler dormire della testa, della mente, un rifiutare lazione perch vuole essere lasciata in pace?

Maria Cristina: beh, carina come domanda, no?, E molto elegante come soluzione.

Monica: (didattica) ma la soluzione?

Maria Cristina: non lo so (ridiamo insieme) che aria tira dentro di lei?

Monica: sa quel che si dice? Se sei al cinema e lascia che se la sbrighino quelli che sono sullo schermo tanto in effetti tu in pericolo non sei. Come se mi dicesse di non agitarmi troppo e di valutare le cose per quello che veramente sono. (pausa lunga, mani sul viso) . Mi venuto in mente che per assurdo se io perdessi la memoria e mi guardassi allo specchio non mi riconoscerei,

Approvo sorridendo la sua ipotesi, una buona pista, no? Rapida e dottorale lei ne propone un test ma io svio ammettendo facilmente la mia ignoranza e la interrogo sullaria che tira al suo interno, aria in tanti sensi, atmosfera emotiva, movimento di vento, suoni. Lei prende il filo del suono, del detto proverbiale, un capo agganciandosi al quale srotola tutto un discorso importante in cui coinvolge bravamente tutti i temi: la vista, il pericolo, il sogno come un film, la memoria e lidentit, ci che vede come suo corpo e ci che sa essere il suo corpo. E quel bellissimo, incisivo: lunico modo per riconoscermi sarebbe modificarmi. Di diverso colore emotivo, distanziante, il commento su un corpo che non riesce a essere dinamico ma resta tutta presa dentro il suo saper

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perch quello che vedo non limmagine che ho dentro di me () Lunico modo per riconoscermi, sarebbe modificarmi. Fare in modo che in quello che vedo riflesso allo specchio fosse quello che vedo riflesso dentro di me. (pausa) Il mio corpo sta diventando un impedimento, oltre tutto un corpo estraneo, un corpo straniero, non , non quello che io so di essere. Un corpo simile non riesce a essere dinamico, dopo tre scalini ha il fiatone, mentre io mi sento di fare una rampa di scale di corsa. Preferirei immaginarmi grassa e essere magra, cio il contrario.

essere il contrario di ci che vede di s, preferirei, dice.

Maria Cristina: avere lo stupore di essere meglio di come uno si pensa.

Monica: esatto!

Maria Cristina: eh, certo una bella sensazione.

Monica: cos positiva mentre nellaltro modo negativa. Meglio ancora sarebbe essere come ci si vede.

Avallo il suo desiderio aggiungendo lo stupore di essere meglio di come uno si pensa. anche una chiara semina di suggestione ipnotica, del tipo: vedrai come sar bello quando ti scoprirai meglio di come ti pensavi. E lei aderisce, prontissima, io rincalzo, lei riprende la contrapposizione introdotta con lo struzzo, ma non si potrebbe far coincidere ci che si e ci che si vede?

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Maria Cristina: beh, perderebbe lo stupore, per. In ogni soluzione c un vantaggio.

Monica: si perderebbe lo stupore. Diciamo che essere come ci si vede, ci si riconosce. Anche questo un vantaggio () Per io sono cos, non sono cos.

Certo, Monica, ma se non possibile, ora, qualche motivo ci sar, ne cerco il versante positivo, lincanto dello stupore. Lei coglie i vantaggi delluna e dellaltra soluzione poi con un gesto delle mani si dichiara divisa. Sia convenendo che non il momento di vedere ci che si sia nel marcare la differenza fra ci che vede e ci che sente, dissidio doloroso fra diverse percezioni di senso.

Maria Cristina: cosa ne dicono gli occhi?

Monica: gli occhi sono fissi allo specchio e allimmagine che c sullo specchio. Per sono in bilico: cio guardano dentro e guardano fuori. Strano, perch se tengo gli occhi chiusi non fisicamente, io vedo quello che c fuori, se apro gli occhi, limmagine che c fuori uguale a quella che c dentro. E tutto al contrario. In effetti, gli occhi non che siano chiusi, come se ci fossero delle ante vuote, per cui c il nero, quando riescono a inserirsi gli occhi. E come se fosse dietro a una maschera, con gli occhi della maschera,

E gli occhi, Monica, cosa ne dicono? Connetto con naturalezza i due canali percettivi e gli occhi di Monica ribaltano la doppiezza in dentro e fuori, con quel sono in bilico che dice di loro e di lei, dice anche di una prossimit di una decisione quanto di un equilibrio forse rischioso quanto di un movimento che scatta come un interruttore o il bilico degli occhi delle bambole, apri, chiudi, apri. Ecco lo stupore, tutto al contrario, si affaccia la maschera con le sue dense implicazioni teatrali, sociali, etiche. E quando lei chiede: mi sono

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con delle tendine che si possono sollevare e abbassare. Per gli occhi sono sempre aperti dietro, la maschera che d limpossibilit di vedere. Mi sono spiegata?

spiegata? non so bene decidere a quale livello e rispetto a quale contenuto vuole che ci collochiamo.

Maria Cristina: sto cercando di capire, come arrivata questa maschera: da quanto tempo c, che forma ha, com fatta, i colori.

Monica: pi che maschera, ha presente i sarcofaghi? Quelli tipo egizio, son fatti cos, hanno i loro begli occhi eccetera. Al posto degli occhi, cio gli occhi si possono aprire e chiudere, dentro c una persona che ha gli occhi aperti, per vede buio, vede nero. Quando invece ha la possibilit di aprire gli occhi del sarcofago, allora riesce a vedere esternamente, per tutto un miscuglio.

Dunque, rispondo tangenzialmente, aprendo un ventaglio di possibilit, che spaziano nel tempo e nei livelli, (come arrivata, ora e allora, la maschera, che tempo ha, che forma, che colori) lei passa oltre, attenta ai termini, no non una maschera, piuttosto un sarcofago. E dentro c una persona. Il tono emotivo si alzato fortemente, la sua voce narra incantata.

Maria Cristina: chi che pu comandare gli occhi della maschera, del sarcofago? Monica: non riesco a capire se una persona o se il sarcofago stesso.

Mi sintonizzo con la voce bassa e chiedo introducendo il verbo comandare che riprende il filo dellavvio che voleva far andar le cose a suo modo ma che anche contiguo allazione di chi opera in un macchinario. Lei non sa decidere se la

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Maria Cristina: vero? E un po l che si bilancia la contrattazione.

Monica: ma vede, nel sogno per, proprio io ho la sensazione di avere gli occhi che appiccicano.

persona che intrappolata o se, invece, usa il sarcofago stesso come nascondiglio, ne convengo reintroducendo il bilanciamento e aggiungendovi la contrattazione: se ci son due poli, c anche modo di negoziare. Laccordo che nasce dal divario riconosciuto. Lei parla di occhi che appiccicano, colgo una nota di spavento, son proprio i suoi.

Maria Cristina: quelli suoi o quelli del sarcofago?

Monica: quelli miei.

Maria Cristina: e non pu essere che lei nel sogno sia il sarcofago? Sia gi a livello pi esterno?

Monica: pu essere, ma questo cosa comporta?

Maria Cristina: beh, nel sogno per esempio pu apprendere delle capacit che durante il giorno non ha tempo o occasione di apprendere. Per esempio, come si fa a tenere gli occhi aperti per un po poi sentirli richiudere, le palpebre cos pesanti, stanno bene con

Come per lo struzzo, le propongo un distanziamento dallinterno che le fa paura immedesimandosi nel sarcofago e, implicitamente, assumendo il comando. Esita, vuol sapere, tranquilla come svagata descrivo il sogno come momento privilegiato di apprendimento, poi depotenzio lidea, so come sia importante che sia lei a governare: non so, non serve? Non cos? No, dice Monica, cos, e continua lindagine, il sarcofago le parla, le fa delle proposte.

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un sarcofago. Non so, non serve? Non cos?

Monica: no, no cos. Per non riesco a spiegare com. E come se il sarcofago dicesse: io ti faccio entrare in me e diventi una parte di me, per non puoi agire, devi comportarti da sarcofago.

Maria Cristina: cos che dice?

Monica: cio, io ti do la possibilit di avvicinarti allesterno, quindi per farlo devi tramutarti in me, per devi comportarti da sarcofago, fermo, senza possibilit di agire, di interagire o, o cos. Devi solo assistere. Per cui la domanda, non che abbia paura il sarcofago?

Ti do la possibilit di avvicinarti allesterno, dice il sarcofago, ma come se fossi un sarcofago, dunque non devi agire (eco del sogno iniziale) e ora Monica sposta lemozione di paura sul sarcofago.

Maria Cristina: questo sarebbe interessante, perch il sarcofago abbia paura di prendere movimento?

Indago con lei, cercando di cogliere il punto, paura di che? Come dabitudine, chiedo proponendo, lei chiarisce: di perdere le sue prerogative, di non essere pi il padrone.

Monica: no, di perdere le sue prerogative. Di non essere pi il padrone.

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Maria Cristina: avrebbe da perdere?

Monica: penso che non esisterebbe pi, sarebbe lannullamento.

Maria Cristina: verrebbe annullato?

Ora sono io a testare: sarebbe un guaio? E lei, drastica, sarebbe lannullamento, la mia voce un poco scettica, come dire, ma veramente verrebbe annullato? Mi sembra unipotesi tragica e Monica cerca ancora sollievo nel capire, verbo anchesso di dense significazioni fisiche e mentali. Riappare il dilemma iniziale, agire e non vedere, lansia palpabile.

Monica: (pausa lunga) non riesco a capire. (voce agitata) Non riesco a capire. E come se io dovessi agire, per devo agire al buio, se ho la possibilit di vedere, non posso agire.

Maria Cristina: tornando al discorso dello struzzo, di vedere o di essere vista? Viene in mente quello che fanno i bambini, quando si nascondono, chiudono gli occhi, perch se loro non vedono come se nessun altro li vedesse.

Monica: ma io sono sempre dentro al sarcofago, quindi non mi vedono. No, per mi vedono, sono io che non vedo.

Intervengo con voce assertiva ma non bassa per invitarla a distanziarsi un pochino da quellansia che sembra sommergerla, riprendo lo struzzo, parlo di bambini che se non vedono come se nessun altro li vedesse, Monica un caleidoscopio di dentro e fuori, di loro e di lei, di vista e di sensazioni, non vede, non direttamente.

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Ho la sensazione che mi vedono, ho la sensazione. Ma non vedo, non direttamente. La seduta si chiude qui, il tempo proprio scaduto, lei si alza, mi sembra pi leggera, si accomoda la veste con un gesto femminile, unocchiata allo specchio mentre vi passa accanto per uscire, un bel sorriso e ci lasciamo. A me rimangono in testa gli avvertimenti di Leonardo: havvi uno specchio e dipingi ci che vi si riflette. Non si accede direttamente alla realt, mi ripeto, la terapia e lo specchio son due elementi accostati da sempre, ci lavoreremo ancora su, mi dico mentre rassetto la stanza, fra dieci minuti si aprir tutta unaltra storia.

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Un volpino per Sergio Ci eravamo detti, con Sergio, che un giorno o laltro avremmo ripreso il nostro incontrarci. Quando? Non lo sapevamo n lui n io ma eravamo certi che ad un certo punto sarebbe accaduto. Lui mi aveva chiamato e mi aveva detto che era arrivato il momento, due parole per stabilire data e ora ed eccoci oggi qua assieme. Un sorriso cordiale nel salutarci e ci accomodiamo ai posti consueti di lavoro. Maria Cristina: come ha deciso che era il momento di rincontrarsi? Mi sembra importante allinearci dallinformazione che ha dato il via al nostro incontro. Cos gli cedo il passo e gli chiedo dove debbo situarmi.

Sergio: mi uscita la rabbia, quando mi esce la rabbia esce anche la paura, settimana scorsa cera, luned mi venuta una paura pazzesca, per andare a lavorare ho dovuto fare un giochino con cui ho chiesto alla paura di lasciarmi un po di tempo per andare a lavorare.

Ecco, stata una manifestazione di rabbia e si accompagna con la paura. Altre volte con Sergio avevamo trovato il modo di interloquire con la paura affinch si potesse avviare una collaborazione con lei invece di trovarsi paralizzato appiattito in un angolo.

Maria Cristina: e lo ha fatto?

Controllo che, come dabitudine, la paura abbia siglato laccordo.

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Sergio: s, le ho chiesto di lasciarmi fino a gioved, anche perch dovevo andare a Parma, mi serviva essere un po tranquillo.

Certo, ha accettato di astenersi fin a un giorno stabilito. Se Sergio ne ha bisogno, la sua paura collabora. Ma poi dovr essere ascoltata.

Maria Cristina: c stata ai patti la sua paura!

E lha ovviamente mantenuto.

Sergio: s.

Maria Cristina: sono molto seri questi nostri personaggi.

Sottolineo laffidabilit dei personaggi interni, voglio rafforzare la tenuta del rapporto fra tutti noi e, indirettamente, rassicurare Sergio che dovr confrontarsi con la paura e la rabbia, emozioni che lo spaventano grandemente.

Sergio: porco cane!

Maria Cristina: se noi li trattiamo con seriet loro, sono seri, siamo

Sta a noi utilizzarli al meglio, sta a lei, Sergio, guidare il gioco, i suoi

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noi che siamo pi discontinui.

personaggi son a sua disposizione.

Sergio: ma le ho dato una immagine di una volpe, un volpino, e niente, io dicevo a mia moglie che non riuscivo ad andare a lavorare e allora le faccio: senti quasi quasi dico alla paura se mi da un pochino di tregua e magari la mando un po in vacanza. La paura, mi ha chiesto Lucia che forma aveva e le faccio un volpino ma ci ho pensato dopo mi venuto istintivo: il volpino scappa bellissima come concezione. La mandiamo in vacanza dove? In montagna! Io avevo una immagine che avevo visto una volta in un quadro, montagna ruscelli, cos, ma a trovare chi? A trovare una famiglia di castori! I castori erano, ma ci ho pensato dopo, quando sono stato male, due anni fa, continuavo a dire che avevo nello stomaco una famiglia di castori perch mi sentivo rosicchiare, picchiare e allora dicevo, per scherzare, per sdrammatizzare, che nello stomaco avevo una famiglia di castori, e io ho detto che andavo a trovare i castori e dopo un po mi sono reso conto che i castori sono quelli che avevo nello stomaco. E lei ci andata sul serio a trovare i castori. Tutta la

E, finalmente, Sergio tira un gran sospiro e comincia a raccontare.

La paura prende forma su richiesta di Lucia, la moglie ed un volpino.

Se deve allontanarsi, la paura, meglio mandarla in vacanza e Sergio studia attentamente cosa proporle, frugando fra i suoi ricordi che si dispiegano affinch lui possa scegliere.

Compaiono i castori, rosicchiano ma sono costruttori e simpatici. Il volpino ha lintelligenza. La

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famiglia, mamma pap, figlio e figlia, nella diga che giocavano eccetera eccetera. Ogni tanto mi guardava. Abbiamo fatto un patto che nel caso avessi avuto bisogno di lei, lei sarebbe corsa immediatamente da me, ci volevano circa quattro ore per arrivare, tutti i giorni ci sentivamo per vedere se era tutto ok. Quindi lei in qualsiasi momento sarebbe stata pronta ad arrivare in mio soccorso. Se ci fosse stato un problema grosso. Poi nel week end arrivata, tranquilla

paura ci andata, Sergio poteva controllare che avvenisse, hanno stabilito i contatti.

Poteva accadere che Sergio avesse bisogno della paura: bene, sarebbe tornata in un tempo ragionevole.

Maria Cristina: ma lei era pi tranquillo Sergio?

La paura era tranquilla, anche lei, Sergio? Uso il termine per trasferire emozioni e aumentare il collegamento che hanno strutturato e che stato cos funzionale.

Sergio: si, per credo che a questo punto sia il caso di parlare della rabbia e di affrontarla e di far uscire la rabbia. Io, seguendo il suo consiglio, non le ho dato ancora una connotazione, con la paura ci scherzo, le chiedo gentilmente di andare in vacanza, sulla rabbia la lascio cos.

Dunque, finora la paura ha fatto schermo alla rabbia, di questa che Sergio sente maggiormente il timore.

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Curare la vita con la vita

Maria Cristina: le serve avere a fianco il volpino oppure no?

Sergio ha gi le sue risorse.

Sergio: in questo momento s, direi che se alla rabbia non d fastidio che io mi tengo il mio volpino al fianco non mi dispiacerebbe.

Infatti, s, con il permesso della rabbia.

Maria Cristina: se fosse il volpino ad accompagnare la rabbia da lei?

Dal tenersi il volpino al fianco, cane da guardia e da difesa, al volpino come Mercurio, psicopompo e guida.

Sergio: potrebbe essere una bella idea, anche perch il volpino e la rabbia vanno sempre insieme, quando arriva la rabbia arriva anche il volpino, arrivano sempre insieme, non arriva mai una cosa da sola

Sergio acconsente, recupera la descrizione iniziale: vanno insieme. Pi che una parentesi, il rapporto con il volpino da solo, in vacanza e suo alleato, appartiene a un altro contesto. Non in contraddizione con questo ma semplicemente altro.

Maria Cristina: cosa le sembra

Cerco lintersezione: chi

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Curare la vita con la vita

meglio, di chiedere al volpino di accompagnare a lei la rabbia o di accompagnare Sergio dalla rabbia?

deve andare da chi? Questioni di rango e il volpino il tramite fra i due.

Sergio: forse potrebbe essere che il volpino accompagna Sergio dalla rabbia. La rabbia mi sembra molto importante, sarebbe anche un gesto di rispetto, s, mi sembra unottima idea, sono convinto che la rabbia sarebbe molto contenta.

Va bene, Sergio si inchina alla rabbia. Nessuna perdita di dignit, importante che la rabbia abbia il suo omaggio.

Maria Cristina: cosa dice il volpino?

Controllo veloce.

Sergio: il volpino dice che ok, mi accompagna dalla rabbia.

Ci siamo. La voce di Sergio lontana, il suo corpo in riposo, disteso morbidamente.

Maria Cristina: quale Sergio accompagna dalla rabbia? Vuole la luce o il buio?

Ma quale Sergio deve andare dalla rabbia? Poi, anche la mia voce bassa, chiedo se desidera che abbassi la luce nello studio.

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Curare la vita con la vita

Sergio: va bene cos, al limite chiudo gli occhi.

Estremamente conciliante. Mi alzo abbasso la luce. E comincia lavventura.

Maria Cristina: quanto alto il volpino?

Come sempre, le domande che dettagliano hanno la funzione di aumentare la concentrazione ma anche di conoscere meglio i particolari (non sappiamo quali saranno quelli determinanti) e anche di poter condividere. Per poter accompagnare Sergio anchio vedo il volpino, i castori e la montagna. Come diversi verbali di uno stesso evento, spesso le versioni sua e mia hanno incredibili coincidenze e suggestive divaricazioni.

Sergio: alto un metro, il Sergio grande, alto quasi il doppio. Sembra mentre camminano il Sergio che accompagna il volpino invece che il contrario.

Risposta interessante, com differente stare dentro e guardare da fuori.

Maria Cristina: da che parte si

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Curare la vita con la vita

mette il volpino?

Sergio: sulla sinistra, io lo tengo con la mano sinistra.

La parte del cuore, delle emozioni, del cervello destro.

Maria Cristina: e il volpino?

Sergio: con la sua destra.

Maria Cristina: chi che tiene la mano dellaltro?

Chi accompagna chi? Chi tiene a mano dellaltro?

Sergio: cos (me lo mostra) sono io che tengo la sua.

Maria Cristina: tiene per mano la sua paura. La direzione come fate a darvela?

Asserisco dando un significato pieno: tenere per mano la propria paura, come si fa ad averne paura?

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Curare la vita con la vita

Sergio: c un sentiero, con tante foglie.

Maria Cristina: che ora ?

Lora importante per la luce e per la fase della giornata/ vita.

Sergio: verso sera, le 17.30 di sera.

Maria Cristina: autunno?

Parlava di foglie, lautunno va bene con le 17.30.

Sergio: si

Maria Cristina: quindi sono foglie rosse.

Sergio: s, sono le foglie che cadono dagli alberi, per terra sembra quasi un po bagnato.

Entra il canale cenestesico interno.

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Curare la vita con la vita

Maria Cristina: e adesso?

Sergio: adesso stiamo andando, una sorta di bosco, non molto fitto, abbastanza rado, stiamo andando la paura dovrebbe essere in una grotta, non so come faccio a saperlo.

Sergio ancora una volta sovrappone paura e rabbia.

Maria Cristina: la paura?

Dobbiamo riunificarle?

Sergio: la rabbia!

La sua voce tesa

Maria Cristina: fermiamoci un attimo.

C tempo, prenda fiato, Sergio.

Sergio: una grotta scura, buia, vedo lentrata, non tanto alta lentrata.

E, dopo un paio di minuti, ecco la grotta, scura, ancora laltezza, una annotazione sempre rilevante per Sergio.

Maria Cristina: rispetto alla porta

Il cancelletto verde fa parte di un nostro lessico, stato

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Curare la vita con la vita

del cancelletto verde?

lavvio di un suo profondo viaggio allinterno di s.

Sergio: in altezza uguale, doppio in orizzontale.

Precisissimo!

Maria Cristina: e adesso?

Sergio: e adesso sento odore di muschio, di umido, di bagnato, lodore che la pioggia fa sullerba, sulla roccia, sul terreno, odore di questo tipo, si sente anche una sensazione toccando la parete della roccia, si sente bagnato.

Lodore fortissimo, caratteristico, tutti i sensi di Sergio sono coinvolti in pieno.

Maria Cristina: la terra umida o ha piovuto recentemente?

successo qualcosa di cui ora tocchiamo le conseguenze?

Sergio: ha piovuto recentemente.

Maria Cristina: quindi fresca laria.

Il termine fresco induce piacere. Voglio che Sergio si senta a suo agio, forse

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Curare la vita con la vita

far fatica dopo.

Sergio: s, mi piace.

Sta bene.

Maria Cristina: il primo suono che sente entrando?

Dopo le sensazioni, facciamo entrare il suono per completare lesperienza.

Sergio: una specie, come se fosse caduto qualcosa e che rimbomba nella grotta. Che fa bum.

Sergio echeggia nello studio il suono della grotta, un colpo sordo.

Maria Cristina: forse questo il suo cuore?

Fra domanda e asserzione, per far rientrare in scena il corpo di Sergio.

Sergio: potrebbe essere, ...s.

Ascolta, concorda.

Maria Cristina: e adesso? Il volpino le tiene sempre la sua mano?

Ricordiamoci che il volpino c e protegge.

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Curare la vita con la vita

Sergio: si, ha preso una candela.

Un gesto autonomo.

Maria Cristina: la candela dov?

Qual lambiente?

Sergio: ho visto la rabbia, sulla mano sinistra del volpino, la rabbia mia nonna.

Quasi un grido soffocato. Risponde per la candela, poi la rivelazione drammatica.

Maria Cristina: sua nonna.

Ripeto a bassa voce, ci sono.

Sergio: strana, per, mia nonna tutta bianca, anche la faccia bianca.

Stupito, attonito ma non spaventato, la voce sussurra.

Maria Cristina: ha il viso pallido?

Bianca come?

Sergio: tutta bianca quasi sformata, come se avesse addosso una sorta di

Sformata, informe, unimmagine che per non fa paura.

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Curare la vita con la vita

accappatoio, un telo molto grande, forse, non si capisce cosa abbia addosso, una immagine bianca, per non mi fa paura come quando me lo faceva laltra volta.

La voce tornata normale, stupita ma presente.

Maria Cristina: cosa fa la nonna, la guarda?

importante che la nonna si rivolga a Sergio, l per lui.

Sergio: s, ha aperto gli occhi, si muove la bocca, non riesco a capire che viso ha, continua a cambiare viso, continua a cambiare, anche gli occhi mi sembra che cambino, mi sembra che abbiano, che siano grigi e azzurri, mi sembra quasi che gli occhi siano lunica parte ferma del viso che cambia. Adesso vedo proprio in primo piano il viso, come se fosse di gomma, una cosa strana che continua a cambiare, come unimmagine che si sfuoca. Che storia!, ma non mi fa paura, ecco adesso parla ma parlaparla con un tono particolare come al rallentatore, tono basso, come se fosse

Racconta incantato.

Inquietante questo continuo trasformarsi.

Ecco il suono.

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Curare la vita con la vita

Maria Cristina: come un disco?

Da una tonalit monocorde di Sergio.

Sergio: esatto come fosse, ecco, cos ciao (tono basso).

Concorda.

Maria Cristina: e se lei la mettesse alla velocit giusta? Che voce sentirebbe?

Intervengo per evitare uno scivolamento eccessivo paralizzante.

Sergio: quella di mia mamma.

Quasi un grido di dolore.

Maria Cristina: anche gli occhi?

Siamo certi?

Sergio: s.

Maria Cristina: cosa le sta dicendo?

Sergio: continua a sformarsi, adesso per un attimo mi

Un caleidoscopio ma segnato da quel terribile

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Curare la vita con la vita

apparsa mia mamma. Per si sformata, mamma mia, mi continua a cambiare faccia come un giochino di immagini che guardi alla televisione, che non so che...ferma l. Adesso diventata mia mamma. Non capisco cosa mi vuole dire.

sformarsi.

Non capisce che cosa vuole da lui.

Maria Cristina: rimasto anche il volpino?

E la sicurezza?

Sergio: non lo so, sta aprendo un foglio di giornale, tutto appallottolato, credo che stia cercando qualcosa da darmi, mi ha dato un rosario.

Sergio oltre, la mamma cerca qualcosa che deve dargli, un rosario.

Maria Cristina: con cinque o con quindici?

Mi riferisco alle poste del rosario.

Sergio: credo con cinque, piccolini, ci sono 5 stazioni pi grandi e tra queste ci saranno otto, dieci piccoline, quindi sono 55 o 45.

Un rosario molto composito.

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Curare la vita con la vita

Maria Cristina: glielo d con la destra?

Un concetto o unemozione?

Sergio: no, con la sinistra.

Unemozione.

Maria Cristina: cosa le dice?

Accompagnata da un pensiero?

Sergio: mi dice di pregare.

Maria Cristina: con che voce glielo dice?

Sergio: la sua voce molto... la sua, molto pacata.

proprio la sua mamma, la voce la sua.

Maria Cristina: dove guarda?

Rivolta a chi?

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Curare la vita con la vita

Sergio: ha gli occhi bassi.

Non a lui, concentrata in s?

Maria Cristina: lei sa perch, Sergio?

Ma lui ha la risposta.

Sergio: ha abbassato gli occhi, non capisco. Vedo limmagine del rosario in particolare dei primi 5, la prima filata di sassolini, stazioni, le prime dieci palline pi la stazione grande. Vedo questo pezzettino qui come se fosse importante arrivare fino alla prima stazione, arrivare l, dire queste dieci preghiere, sono dieci ave Maria e un padre nostro.

Occhi abbassati per indicar il rosario che viene in primo piano, con quella prima posta.

Maria Cristina: e la mamma le pu dire meglio perch?

La mamma vuole aiutare Sergio?

Sergio: s, adesso ha ricominciato a parlare con la voce bassa

esausto, sta per cedere.

Maria Cristina: racconta dei suoi

Sergio il primo di tre figli ma ci son stati due aborti,

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Curare la vita con la vita

cinque figli.

pi o meno celati.

Sergio: pu essere, cazzo, s! (piange)

Sergio sembra travolto.

Maria Cristina: sospendiamo?

Pi importante di tutto che Sergio non sia in pericolo.

Sergio: no, ok, (la voce molto tenue) forse posso dare un nome alle prime sue stazioni: Marco e Giovanni, (riprende un volume pi alto della voce) ha il rosario nella mano sinistra nel palmo aperto, e con il dito fa scorrere dal crocifisso e fa passare tutte le stazioni piccoline fino alla prima stazione e poi va avanti con le stazioni piccole, fino alla seconda, ha passato la seconda, sta andando verso la terza ma si sta arrabbiando

Riprende fiato, e lentamente torna a parlare, attribuisce un nome ai fratellini abortiti ma la mamma si sta alterando.

La voce di Sergio allarmata e dolente.

Maria Cristina: dove guarda?

A chi si rivolge?

Sergio: sulla sua mano, ha gli occhi fissi sulla sua mano, e un

Sta con s, e il suo furore aumenta sulla terza

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Curare la vita con la vita

po con la testa cos, non guarda pi me, sta guardando la sua mano, andata sullaltra stazione e si fermata, ma arrabbiata! Ha aumentato il ritmo del respiro ed tornata bianca sulla terza stazione.

stazione. Torna bianca, respira affrettata.

Maria Cristina: glielo chiede il nome?

ora di avere la conferma.

Sergio: Sergio! Lo ha detto in un modo cattivo, in un modo brutto (pianto). Anche il viso diventato brutto!

Unaggressione violenta, Sergio sconvolto.

Maria Cristina: provi a tornare sulla seconda

Possiamo attenuare?

Sergio: non ci riesco.

Non si pu.

Maria Cristina: cos importante per lei!

Un lei che abbraccia ambedue, un senso bifronte.

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Sergio: non mi ama, arrabbiata con la terza stazione, con Sergio, arrabbiata, ogni volta che ci mette su il dito il viso diventa duro, da arrabbiata.

Laggressione Sergio la prende tutta, il rancore, come se la sua nascita fosse stata in qualche modo pagata con due aborti.

Maria Cristina: le pu chiedere che cos che pu dirle?

Cerco uno spiraglio dincontro.

Sergio: un po difficile.

troppo scorato.

Maria Cristina: chieda alla mamma che cosa pu dirle.

Uso una voce molto dolce, la sua mamma.

Sergio: che aspetta domani.

Maria Cristina: che aspetta di dirglielo, che ora non pu rispondere?

Cerco di stabilire il senso.

Sergio: no, pu rispondere! Non mi vuole bene, me lo ha Una violenza secca, senza

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Curare la vita con la vita

detto con la voce sua, non mi vuole.

cedimenti.

Maria Cristina: non le vuole bene?

Affrontiamola, allora.

Sergio: lei dice cos (pausa) Mi guarda con aria cattiva, ce lha un po su con me, mi guarda con un occhio, laltro quasi chiuso ma uno aperto. Ha ripreso il rosario e si voltata, mi fa segno di andare, adesso si messa di laterale e ha la testa china.

C unombra di dubbio ora nelle parole di Sergio. Ci pensa su, sembra che la bufera sia passata, la mamma chiude lincontro.

Maria Cristina: pu chiedergli se pu tornare?

Forse non una chiusura definitiva.

Sergio: si, ha detto di si. Io non vedo pi il suo viso, per ha mosso la testa.

Forse no.

Maria Cristina: pu tornare tra una settimana?

Forse fra un tempo breve.

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Curare la vita con la vita

Sergio: s, anche il volpino dice di s, tutte due con la testa, sto andando, mi sto incamminando sul sentiero

Torna fedele il volpino, come allinizio si sovrappongono paura e rabbia, Sergio si vede andar via.

Sergio esausto, comprensibilmente, il viso stanco, qualche traccia di pianto ma come se avesse occhi nuovi, un passo pi deciso. Ci lasciamo senza smancerie ma in una commozione profonda partecipata. Lo guardo allontanarsi, come un ragazzo dentro un quadro, e quasi mi sembra di vedere il sentiero sotto i suoi piedi.

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Una biciclettata per Giulietta Giulietta molto simpatica, brillante, di polso con quei suoi capelli ricci e delle improvvise, esitanti ingenuit quando va ad avventurarsi nel terreno delle emozioni, dei sentimenti che, come fili vagabondi, sintrecciano e si confondono in un gioco sottile. Maria Cristina: allora cosa mi racconta? Come andata la settimana? Giulietta si sistemata, sta bella comoda, rilassata, mi accomodo ancho e la sollecito con voce leggera.

Giulietta: allora la settimana andata bene! Bene, s vabb direi di s! Per ho una gran voglia di rinnovare, di cambiare che implica tutto, siamo sempre l! E quindi ritornando dalla vacanza ancora pi concreta questa cosa.

Maria Cristina: cosa intende per rinnovare?

Giulietta: per esempio stamattina, una delle ultime cose della mattina, ho aperto lo stipettino dove ci sono le solite tazze, ecc., cos mi viene voglia, lidea di cambiarle tutte anche loro. Proprio di cambiamento radicale, un po pi di vita, togliermi da questa situazione di coppia. Non so tutta una serie di cose che per non

Sembra che insegua dei suoi pensieri, sottintendendo che le sto al passo ma non so ancora come collocarmi, chiedo per potermi sintonizzare. Lei racconta, generosa e decisa, abbondante.

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Curare la vita con la vita

riesco a

Maria Cristina: non le interessa travasare questa situazione di coppia in un altro contesto.

Cerco di capire, non vuole stare pi in coppia o ha voglia di un altro compagno?

Giulietta: no! Nel senso: la parte primaria che mi viene subito in mente di rimanere da sola. Comunque ho questo desiderio da una parte di rimanere comunque sfidanzata diciamo cos. E quindi da l tutto quello che sono i cambiamenti che comportano il fatto di non vivere pi con una persona con la quale si vive, quelle abitudini che si prendono insieme.

E lei combattuta fra il desiderio di restare fidanzata e la fatica (forse anche il dolore?) di recidere le mille piccole abitudini di una vita di coppia.

Maria Cristina: e questo le stato pi chiaro quando tornata, pi che durante la vacanza? Lha capito meglio standosene in vacanza? Giulietta: no, beh e gi un periodo che ho proprio questa sensazione di voler cambiare, rinnovare tutto Maria Cristina: come dicono i bambini: fare arimo insomma? Lei corregge pi che negare, da tempo che dura questa sensazione. Concludo con la definizione dei giochi infantili: arimortis, tutto daccapo, e lei si entusiasma, si infervora,

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Giulietta: s, s! E quindi ritornando da un momento di parentesi fuori dal consueto, dal solito proprio dallabitudinario ovviamente ne ritorno pi rafforzata, comprendendo anche quello che il lavoro, la citt, il discorso che tante volte faie tuttoe quindi stare via una settimana, come mi succede sempre quando mi allontano dal consueto, ovviamente torno con questa cosa pi forte. Questo desiderio di ricambiare tutto, di dare una mossa, non lo so come dire, per un cambiamento, proprio rinnovo.

conferma e ribadisce convenendo che pi forte tornando dalla vacanza.

Maria Cristina: quanto se ne rende conto, di questo, Marco?

Ma se la coppia va ribaltata, vogliamo informarne anche il partner? Marco lo sa?

Giulietta: ah, penso per nientepenso per niente perch lui come carattere dice: sono sempre stato cos, ho sempre fatto le cose cos, ho sempre pensato queste cose in questo modo e mi vanto di non aver cambiato nulla. Quindi non comprende neanche quando si parla cos a livello generale di qualcuno che ammetta un cambiamento. Per lui una cosa non buona un

Per nulla, anzi contrario a ogni sorta di cambiamento.

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Curare la vita con la vita

cambiamento di qualsiasi genere.

Maria Cristina: che vuol dire, incoerenza un cambiamento? Cosa vuol dire?

un problema di etica, Giulietta, di coerenza?

Giulietta: per lui incoerenza, s per lui s! Si vanta di essere coerente perch quello in cui credeva, in cui pensava e desiderava, non so, a quindici anni sono le stesse cose di adesso. E si fa molto forte di questa cosa, nonostante io gli dica s per se la societ, il mondo intorno a te cambia, normale e non per questo un essere incoerente il fatto di evolversi assieme a quello che c intorno, una cosa normale che sia da Internet che lui a tuttoggi non accetta minimamente a qualsiasi altro tipo di tecnologia di modernit vedi: carte di credito o quantaltro.

Il punto sembra proprio questo.

Maria Cristina: lui non le usa?

Giulietta: assolutamente, assolutamente non solo non le usa, ma non le vuole nemmeno! Per cui ecco proprio fermo a questa cosa che le dicevo

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Curare la vita con la vita

laltra volta di voler assomigliare a suo pap, che se suo pap si sempre messo i soldi sotto il materassoe lui, per grazia ricevuta, ha aperto un conto corrente ma se appena, appena, secondo me, si potesse fare li metterebbe anche lui sotto il materasso!

C molta sofferenza in questo rifiuto di Marco ad usare le carte di credito, rifiutare quello che lei potrebbe dargli, negare la rilevanza della sua professionalit, non voler accettare da lei. Giulietta ha la voce che trema, sconfitta.

Maria Cristina: quanto conta, in questo, Giulietta, il fatto che lei invece lavora in banca e faccia esattamente questo mestiere?

E allora entro apertamente sul problema e lei conferma, per questo che litighiamo.

Giulietta: conta, che infatti litighiamo sempre su questo argomento perch non si riesce a fargli capire che il mondo cambia, la tecnologia comunque sar sempre in via di sviluppo. E che quindi con questa, adesso mi sfugge, con questa tecnologia io ci lavoro e lui ovviamente insulta a livello generale quelli che adoperano per esempio, fermo restando quello che il discorso informatico, quindi internet e tutto quantolui ce lha proprio contro in una maniera incredibile e quindi indirettamente anche con me.

Poi sembra distaccarlo dalla sua persona, la tecnologia la bestia nera di Marco, tanto che Giulietta sembra quasi scusarsi con lui: Guarda che comunque io li uso per lavorare.

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Curare la vita con la vita

Gli dico: Guarda che comunque io li uso per lavorare, oramai si lavora cos- no ma sono tutte storie non cos che va il mondo ho detto: Come non cos che va il mondo? E cos che va il mondo.

Maria Cristina: cos che dice Marco, che lei va dietro a delle cose contingenti, che non segue i valori veri?

Giulietta: no, questo no perch appunto lui dice che io comunque sono una persona che tra le tante riconosce invece molto valida con delle basi molto belle, molto chiare che sono in questi termini come valori. E per ovviamente io non sono una che sta ferma, sono una che son sempre stata abituata al rinnovare, a seguire quello che la tecnologia tutto quanto e poi per giunta lavoro anche in questo contesto, per cui comunque fa parte di me e allora l lui ne parla genericamente in malo modo per ovviamente ci son di mezzo anchio ecco. Poi mi dice: S, ma tu non centri perch non sei come le altre, perch tu comunque hai dei valori s, ho capito ma non puoi allora generalizzando

Da qui la mia domanda, un fatto anche di valori? Sembra allinizio di no ma poi cos che finisce, lei si sente aggredita da Marco e tanto pi teme di dovergli comunicare una sua ulteriore voglia di cambiamento: lasciarlo. Mi domando se da qualche parte Giulietta dia un poco ragione a Marco, mi sembra troppo tranchant e ripetuto il quadretto che fa di un giovane uomo orientato solo a seguire le orme tradizionali del padre e mettere il denaro nel materasso. Marco di unaltra cultura ma i genitori vivono in Lombardia da molti decenni, Giulietta tante volte mi ha parlato di loro con affetto e tenerezza. Lasciare Marco vorr anche dire perderli? Scarto di culture o scarto di personalit? Giulietta si sente giudicata?

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avercela in questo modo con chi segue e chi ha un telefonino piuttosto che una carta di credito e comunque non colpire me, non devi pensare tu che non stai colpendo me, perch alla fine lui colpisce me. Ci sono discussioni di questo genere: Perch tu stai parlando in generale ma me che stai colpendo comunque. E finalmente sbotta: tu stai parlando in generale ma me che stai colpendo.

Maria Cristina: lui ci crede?

Di nuovo: ma Marco lo sa? Dal suo punto di vista, come lo vedrebbe? Lei come sorpresa, si arresta, esita.

Giulietta: che mi sta colpendo?

Maria Cristina: s.

Giulietta: ma lui dice, beh s a volte dice di s, che sono anchio dentro questo girone di cose che lui reputa inutili.

Sfuma in inutili.

Maria Cristina: inutili o perverse o cattive o immorali?

Riprendo, accentuando, solo inutili o sbagliate?

Giulietta: (alzando il tono della

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Curare la vita con la vita

voce) Inutili perch lui sostiene che quello che non cera cinquantanni fa per esempio e comunque si stava bene, si viveva lo stesso, non dovrebbe esserci neanche oggi perch tanto si riusciva a fare lo stesso determinate cose anche senza questa velocit che d per esempio la tecnologia.

Ma lei ripete, sempre pi irritata. Ho come la sensazione che si senta in trappola, costretta a ribattere lo stesso chiodo. Decido di provare a uscire dal circuito sempre uguale. Con voce incuriosita, introduco le sue donne, figure femminili che abbiamo gi incontrato altre volte e Gianni, un signore anziano distinto che Giulietta un giorno ha trovato in una casa antica. Che un poco un guru per lei.

Maria Cristina: di tutta questa cosa, cosa dicono le sue ragazze? O quel signore, Gianni? E ritornato Gianni?

Sono volutamente molto generica, quasi trascurata, di tutta questa cosa, come vorr continuare Giulietta?

Giulietta: no per, io ho provato a riguardare un attimo intorno se cera qualcuno in questi giorni e no! Si sono tutte staccate. Cercavo di rivedere il volto dellultima donnina gnoma non so come chiamarla, ed era sempre l sorridente. Per ecco non ho pi avuto modo di andarle a cercare o cos beh adesso non so bene devo andare a vedere dove siano finite Il (pausa) mah chi viene subito con il

Lei entra subito nel gioco, le ha pure cercate, soprattutto la donnina gnoma.

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Curare la vita con la vita

sorriso sempre quella signora gnometta.

Maria Cristina: prima di tutte!!

Non le ragazze, dunque, n Gianni, ma la piccola gnoma. Entrata quasi di sbieco lultima volta.

Giulietta: s, s la pi vicina, le altre come se fossero sparpagliate in altri boh in altri no, beh c Gianni che hano, appare anche lui in camicia bianca.

Sottolineo con voce allegra, approvante.

Maria Cristina: sulla sedia a rotelle o in piedi?

Lei in piena visione, si sta appoggiando a persone pi anziane di lei, la gnometta e Gianni, anche. In camicia bianca. pure guarito, stava sulla sedia a rotelle ma ora, no, eccolo in piedi, Giulietta sembra felice di vederlo, che le dia retta.

Giulietta: no, in piedi!

Maria Cristina: ah in piedi ormai !

Giulietta: in piedi con la camicia bianca e i pantaloni chiari e sorridente anche lui, di solito non mi saluta. E quindi cosa dovevamo domandare se?

S che, come strappandosi dallincantamento, a un certo punto, mi chiede ma che cosa mai dovevamo domandare? Ma il rapporto con le sue persone appartiene a lei, la libero da eventuali scorie di fedelt a me e al tempo di prima.

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Curare la vita con la vita

Maria Cristina: cosa vuol dire loro?

Lei, che cosa vuol dire loro? C un punto, questa storia che loro vogliono che lei aspetti

Giulietta: (pausa) mah! Beh quel fatto che loro mi mettano in attesa nel senso che mi dicevano del discorso che: non sono ancora pronta.

Maria Cristina: questa era Maria per, o anche la gnoma?

Chiedo di Maria, una sua affidabile e serena controfigura ma Giulietta persa dietro la gnoma.

Giulietta: anche la gnoma.

Maria Cristina: anche la gnoma diceva cos, forse ricordo male.

Le vengo dietro dandomi down e le reintroduce Maria e anche Gianni.

Giulietta: lo diceva s Maria quando stato confermato da Gianni e poi lha detto in altri termini anche questa signora gnoma qui. E quindi siccome non so se ci si pu azzardare a domandare: che cosa devo aspettare o se possono farmi capire questa cosa.

Ma della gnoma che ha soggezione: ci si pu azzardare?

Maria Cristina: che succederebbe se lei lo

Vediamo, quale sarebbe il pericolo?

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Curare la vita con la vita

domandasse, Giulietta?

Giulietta: non so! Non so se anche una forma di timore da parte mia nel sentire che cosa hanno da dire. Solo che resto in attesa, non sapere...non so, lidea che mi sono fatta io quella che potrebbe essere qualche evento che non sia dentro di me, quindi che non sia unevoluzione dei miei pensieri, delle mie constatazioni, di quello di cui io mi possa accorgere da parte mia. Ma come se fosse un evento esterno. E quindi loro dicono: non sei pronta ma perch c questo evento che deve concretizzarsi.

Giulietta esita, combattuta fra un fare da ganassa, un po spaccona, e la tenera vulnerabilit di un suo sentimento di fanciulla.

E se si trattasse di un evento esterno? Se non fosse lei a non essere pronta?

Maria Cristina: sono daccordo, loro, con questa sua posizione?

Giulietta: quindi non riesco a dire: va bene, se devo aspettare ma: in che modo? quanto? Cos questa cosa? E una cosa che posso provocare io? Non so! Mi son fatta lidea riuscendo a trovare il coraggio a due, a

Un rapido controllo se loro sono al suo fianco, poi lei dichiara lo spavento di dover affrontare Marco. Se occorre aspettare un evento esterno, allora lei per ora ne esonerata?

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quattro mani di azzardare in qualche modo un discorso con Marco (pausa breve). E per siccome daltro canto mi hanno detto che non ancora maturo qualcosa che era avere delle informazioni, delle cose che mi potevano aiutare a capire questa cosa. Mi blocco, perch dico: Cavoli, se per io faccio una cosa di questo genere magari un metterci troppo del mio non so come

Maria Cristina: secondo lei, Giulietta, i rapporti con Gianni e con la signora sono troppo formali per permettere una richiesta di consiglio, una richiesta daiuto?

Azzardo io, stavolta, quanto pu arrischiarsi?

Giulietta: no che io da sola non riesco! Io ho provato a chiedere ma, non so datemi appunto non lo so un segnale, un aiuto, un qualcosa

Sembra scherzosamente disperata ma c uneco di vuoto che rimbomba nella sua voce.

Maria Cristina: un sacco di indicazioni? Rinforzo la qualit della sua richiesta. Giulietta: indicazioni, ecc. Ma non ho questa capacit di vedere le risposte o comunque secondo me sempre quella: mi sorridono, mi dicono: Aspetta, aspetta. Come se

Ma lei resta costretta in attesa, e per di pi le sorridono e le raccomandano

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Curare la vita con la vita

dovesse appunto, comunque passare del tempo, come se la cosa non fosse in s, come mi hanno detto finora, matura.

di aspettare.

Maria Cristina: anche adesso glielo stanno dicendo?

Giulietta: loro lo sanno, loro sanno qualcosa per come se non fossi io comunque. che non riesco a capire se : da una parte ho una gran voglia di saperlo, dallaltra effettivamente ho timore, e quindi

Loro ci sono, le stanno accanto e Giulietta sosta incerta, fra desiderio e timore di quel che pu esserle detto. Se chiedesse.

Maria Cristina: potrebbe anche sembrare che se sono loro a risponderle, potrebbero risultare alla fine loro che hanno risposto al posto suo? Cio, essendo dei signori molto attenti, molto rispettosi, pu essere che si astengano da rispondere nel timore che lei possa essere sopraffatta da una loro risposta e rinunciare alla sua.

Avanzo lidea che loro si astengano dal dire per non rischiare di sopraffare il suo pensiero.

Giulietta: non lo so? Pu essere? Lo chiedo rispettosamente a Giulietta

Maria Cristina: son daccordo

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su questa mia ipotesi, Gianni e la signora?

che ne testa la consistenza.

Giulietta: mah, dicono qualcosa del genere (pausa) non so, mi veniva pi la sensazione del fatto che non fosse proprio ancora tempo. E appunto come dicevo prima, come se fosse un evento esterno e quindi che loro non possono, pur magari vedendo la percezione di quello che il poi, non hanno comunque (parla molto pi lentamente) questa sorta di scintilla che deve esserci per far partire

Maria Cristina: per mi scusi, Giulietta, mi pareva che la domanda di oggi non fosse tanto: quando? O che deve succedere? Ma qual il modo migliore di attendere, no?

Siamo nuovamente in panne, provo a riprendere lidea iniziale della domanda.

Giulietta: s (lunga pausa). Beh Gianni mi dice di cercare di rimanere serena.

Giulietta concorda, Gianni le parla.

Maria Cristina: lo dice con affetto o con seriet? Con che tono, Giulietta? Giulietta: (con tono affettuoso) siiii, con affetto, no

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con affetto (pausa). Dice sempre invece la signora, dice qualcosa che per (con un filo di voce) io non riesco a sentire. E sento che ha delle cose importanti da dire ma non riesco a (pausa) sentirle.

Con Gianni c affetto, con la signora, invece, la comunicazione sembra restare un poco difficile.

Maria Cristina: cos che glielo impedisce? La distanza? La posizione? Cio se lei accostasse il suo orecchio?

Qual il punto, difficile perch? Questione di distanza, di posizione? Intesa in senso fisico quanto relazionale.

Giulietta: (pausa molto lunga, in ascolto).

Maria Cristina: sembra che lei sia molto interessata a quello che la signora dice.

Giulietta: ma perch quella che rimasta pi vicina. A mano, a mano che, non so, Maria era stata molto forte per per quel periodo finch non arrivato Gianni. Adesso molto presente Gianni ma ancora di pi lo questa signora.

Evidentemente sono un po in ansia a lasciarla, forse non mi sento tranquilla? Certo che intervengo ancora, commentando sulla signora. Giulietta, serena ma assorta, si racconta.

Maria Cristina: mhm (assente e asseconda)

E narra del peso che attribuisce alle sue diverse persone, delle loro vicende.

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Giulietta: poi come se avessero fatto una sorta di staffetta. Cos, comunque, tra loro tre che sono quelli che, pi o meno chiaramente, nel senso che Maria appare meno chiara e sembra che voglia parlare meno, che lasci il campo agli altri, di questi quello che ha pi parola, diciamo, la signora. E questa signora avverto che ha delle cose grosse da dire, ma che non sento. Come non sentivo laltra volta quando mi diceva che comunque non sono ancora pronta.

La signora campeggia e la intriga; avverte che ha delle cose da dire ma non le sente.

Maria Cristina: se lei chiedesse aiuto e consiglio a Gianni, cosa ne direbbe Gianni? Perch basta sapere per esempio che lei deve poter vedere che la signora gnoma parla, ma che lei non pu intenderla. Basta saperlo forse. Oppure invece che c un modo per intenderla o per tradurla.

E farsi schermare da Gianni? Mi dispiace vederla l come un uccellino con le piume bagnate.

Giulietta: (pausa) mi dice: lasciati guidare, (pausa) Gianni mi dice.

Magico Gianni! Affidabile e cortese.

Maria Cristina: e la signora daccordo?

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Giulietta: (pausa) s, s sono tutti molto legati, come se fosse una mente unica ecco. Sono sempre daccordo, dicono questi ultimi tre: Maria, Gianni e lala gnoma. Come se avessero un impulso unico di mente e che quindi siano molto coalizzati nel conoscere e quindi ognuno di loro crede nella risposta dellaltro come se fosse proprio la sua. Finora almeno cos.

Qui splendido il quadro di diverse teste e personalit sintonizzate in un unico impulso per conoscere!

Maria Cristina: c una motivazione specifica, Giulietta, per cui Gianni ha un suo nome, Maria pure e la signora deve rimanere senza un suo nome proprio? Cio, importante che rimanga solo come funzione, come stirpe diciamo in quanto gnoma?

E allora avviciniamoci ancora, perch qualcuno ha il suo nome ma non tutti?

Laccenno alla stirpe riecheggia il divario culturale di Marco, forse era funzionale anche quello, chiss mai.

Giulietta: mhm s, dice che comunque il nome non ha importanzafermo restando che lunica cosa che mi dice nel momento gi anche quando si sentiva il profumo laltra volta lei mi dice sempre: Viola. Penso che potrebbe, che le vada bene che la si chiami Viola. Continua a dirmi sta: Viola.

Entra sicuro il nome Viola, profumo, suono e nome amati. nellaria e si diffonde.

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Maria Cristina: continua a dirlo la signora?

Giulietta: nellaria, molto presente questa Viola. (pausa) Non le dispiace se la chiamiamo Viola.

Maria Cristina: sembra un po esitante per?

Giulietta: no, no! Ero esitante io, ma lei no.

Tutto bene, Giulietta? al sicuro in questo rapporto anelato con la signora?

Maria Cristina: la signora non era esitante.

Giulietta: no, no! Ero io che

Maria Cristina: lei era esitante, perch? stava pensando a come chiederle il permesso?

Giulietta: no, perch non una cosa che dice e pi dovrebbe essere quando laltra volta le abbiamo chiesto se sentiva questo profumo e

Lei sembra ben disposta a farsi accompagnare: laveva accennato prima, vorrei far tutto da sola ma non ci riesco, qualche volta, Giulietta, si pu non dover essere soli. E lei racconta, spigliata e compresa assieme. Un suo lungo e complesso ragionare e la

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cossaltava fuori Viola, le viole tra laltro nel frattempo stavo guardando gi dalla finestra.

conclusione, ancora la stessa: Viola.

Maria Cristina: s

Giulietta: che cera l accanto quindi non capivo se intendesse le viole che potevano essere nellaiuola che intravedevo o che cosa: un profumo o forse probabilmente intendeva a questo punto il suo nome, comunque come voleva essere chiamata, che non il suo nome. Per si vede che ama le viole e quindi le sta bene: Viola.

Maria Cristina: sembrerebbe che una delle caratteristiche di questa signora di essere leggibile a pi livelli.

Sottolineo con ammirazione la complessit della comunicazione di Viola, da difficile la valutiamo complessa, Giulietta ne contenta.

Giulietta: (tono deciso) s! molto pi, boh, telepatica direi.

Maria Cristina: mhm, meno di parole.

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Giulietta: s, s anche perch queste grosse cose che mi dice, non le sta effettivamente dicendo, non vedo che muove il viso che lo dice a parole, ma tutta questa cosa qui che mi arriva ma non riesco a capire che cosa, a scandire bene le parole, le frasi. Per si sente tutto sto bagaglio, mi d la sensazione che quella che sa maggiormente pi degli altri.

Giulietta azzarda una franca superiorit della signora ma poi arretra, riavanza. Penso che incontreremo ancora questo suo bilanciarsi, non poter dire di uno che le piace pi di tutti, dover compensare gli altri. Tenerli buoni? Perch, non si ha il diritto di eleggere uno su tutti?

Maria Cristina: sa di pi.

Giulietta: s! Anche se no, beh c sempre questa sensazione che abbiano loro tre ununica mente per come se lei fosse una portatrice o comunque la la custode di queste cose e che quindi sia lei quella che debba direcome se avesse un ruolo pi importante diciamo e quindi sia lei che debba dire delle cose.

Maria Cristina: anche se in realt, lunica che non dice. Comunica ma non dice.

Giulietta: s. (pausa)

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Maria Cristina: cosa ne dicono questi due di queste nostre considerazioni, Giulietta?

Come vedono, loro, questo nostro conversare?

Giulietta: (pausa) mah, dice che siamo sulla buona strada.

Maria Cristina: anche Gianni?

Fedele al suo avvertimento, sto attenta a non tralasciare nessuno.

Giulietta: s, s (pausa)

Maria Cristina: quindi si potrebbe dire, una cosa di questo genere: proprio una domanda: linformazione che dar la possibilit a Giulietta di decidere, di valutare, di dare uno scarto, una svolta no? le sar comunicata, le apparir ma nessuno glielo dir in qualche modo? Non ci sar un evento specifico.

Il senso di tutto ci, Giulietta, cos ben rappresentato dalla signora, che levento determinante sar comunicato sotto qualche forma ma nessuno glielo dir?

Giulietta: mi stanno dicendo queste parole: una donna nel senso, ho seguito la domanda e come se questa cosa venisse comunque portata, suggerita comunque, che dia uno spunto per

Ci sar una donna a permetterle di comprenderlo.

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comprendere questa cosa attraverso una donna.

Maria Cristina: questo lo dice Gianni, o lo dice anche la signora?

Con il permesso e lassenso di Maria e di Gianni.

Giulietta: lo dicevano Maria ee Gianni prevalentemente.

Maria Cristina: per cui non sappiamo se per esempio la donna la signora?

E la signora? Potrebbe essere lei? Lei come centra?

Giulietta: s perch comunque lei tace, in effetti.

Maria Cristina: la mia impressione era appunto che fossero pi loro, che non ci fosse la comunicazione della signora, per volevo verificarlo con lei.

Un controllo veloce fra di noi per confrontare le valutazioni, verificare le impressioni.

Giulietta: no, no, infatti tace. Sono stati gli altri due a dirlo ma lei non non dice. Nessunaltra, vero? Nessuna delle ragazze?

Maria Cristina: e nello stesso

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tempo non sar nessuna delle altre ragazze?

Giulietta: no (pausa lunga) e la Viola tace (con un filo di voce) per sorride sempre. Non so se sia lei ma comunque non dice nulla ecco (pausa lunga).

Giulietta affascinata da Viola che sempre pi misteriosamente comunica e non dice, tace ma sorride.

Che sensazione, vuol dire accettare il silenzio di parole di Viola.

Maria Cristina: che sensazione c adesso? E si avvia una sequenza meravigliosa, sul sedersi e leggere un libro, orchestrato e interpretato diversamente da ciascuna delle persone di Giulietta. Al servizio di Giulietta.

Giulietta: mah, c la Viola che mi sta dicendo di (perch le ho chiesto io se mi poteva dare un suggerimentoper cosa fare, come fare) e lei mi dice: di sedermi e di leggere un libro ma come se fosse pi di sedermi e leggere un libro, di fermarmi e leggere un libro che sar uno specifico perch comunque leggo sempre ma

Maria Cristina: ha in mente un libro speciale la Viola?

Giulietta: (pausa) mah dice s e no. Non ce n uno maperch infatti diceva: di fermarmi e leggere un libro ma non uno solo (non so come dire una cosa strana)

Che pu comporre pezzi e pezzi.

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come se fosse nel senso da tanti potrei trovarne mettendo insieme pezzi e pezzi un po come diceva laltra volta per con un altro discorso potrei vedere una cosa, dare corpo a una cosa prendendo spunti, non sosuggerimenti qua e l e poimagari l

Maria Cristina: seguendo una traccia che si verrebbe a comporre via, via

Seguendo una traccia che si forma in itinere.

Giulietta: (sovrapponendosi) s, qualcosa del genere.

Maria Cristina: a lei piacerebbe un progetto del genere?

Le farebbe piacere, Giulietta? Dopo tanto lavoro, come sta, Giulietta? Il percorso tracciato ricalca il suo desiderio, ci che le piace?

Giulietta: mah il mio pensiero sempre stato quello che a me piace molto leggere cos e la mia idea sempre stata comunque quella che effettivamente da ogni libro bello o brutto che sia, nel senso che pi o meno importante o, non so, pi o meno piacevole. Piacevole lo sono tutti perch altrimenti nonPer comunque pi o meno importante, serio diciamo dal romanzo a quelli l

Sembra che Giulietta sia molto a suo agio.

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scientifici cos, tutti hanno qualcosina di interessante a cui fare appiglioecco s. Solo non che, io non ho mai smesso di leggere, per cui non riesco a capire anche se mi d la sensazione che mi dava laltra volta quando mi diceva di mettermi nel mezzo, no, di lasciare loggetto del pensiero nel mezzo e provare ad essere ognuno dei paletti che pu stare intorno per vedere la cosa da una prospettiva diversa, ecco. Mi da un po lo stesso richiamo di questa cosa qui, di questa frase che mi ha detto.

Maria Cristina. ma, secondo lei Giulietta, quando Viola dice: libro intende proprio un libro o lazione dello stare l e pensare, leggere, riflettere, ascoltare

Ora possiamo affrontare un ultimo chiarimento sul suggerimento che Giulietta ha ottenuto.

Giulietta: no, vero dava pi questa seconda immagine. S, come comunque dello stare fermi a

Maria Cristina: stavo pensando ad unespressione che usano le donne: fermarmi da una parte e leggere un libro per cui non tanto importante il

Dicevano che doveva entrarci una donna, no? E allora cerchiamo il loro linguaggio per capir meglio.

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libro da leggere proprio lazione del disporsi ad ascoltare delle parole non dette, una cosa di questo genere.

Giulietta: s. Direi che valida questa. perch proprio quella cosa che non riuscivo a capire io perch diceva di fermarmi a leggere un libro. Non diceva uno, o comunque uno in particolare ma libri singolare plurale per cui questa qui direi che quella pi simile a quella che intendeva lei. E quindi si ritorna comunque a quello che mi aveva detto laltra volta che era quello di fermarmi a guardare con occhi diversi.

Ecco: fermarsi a guardare con occhi diversi. Uneco anche dellavvio, lagitazione verso il cambiamento, gli occhi diversi di Marco, un suggerimento da ripensare allinterno di Giulietta.

Maria Cristina: Gianni ne sa qualcosa di pi?

Dopo aver lasciato il passo alle signore, ascoltiamo Gianni.

Giulietta: (pausa) Gianni dice che che non cos complicato come pu sembrare nel fare attuare questa cosa e che c sempre il solito discorso del tempo che comunque c qualcosa che deve che deve maturare

Questione di tempi e di tempo.

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Maria Cristina: sa, Giulietta, che io ho limpressione che la forma del pensiero e del comunicare di Gianni sia pi, diciamo, su un andamento lineare rispetto a quello della signora Viola. Cio che Gianni dica a modo suo la stessa cosa che sta dicendo la signora ma sono due modi diversi. Cio Gianni dice: occorre che qualcosa venga a maturazione, no? Sarebbe forse interessante sapere la versione che ne darebbe Maria, a questo punto.

Ricompongo il dire di Gianni e il comunicare di Viola in un unico pensiero espresso con linguaggi diversi (ancora la duplicit della differenza) e allargo a Maria (fra due sole opzioni, non c scelta!), un movimento che vuol essere anche proposta di leggere e ascoltare le altre letture di uno stesso evento. Fisico, pensiero, relazione o emozione che sia.

Giulietta: Maria, (lentamente) Maria dice che l che mi aspetta e quindi non dice niente di preciso.

Maria integra con lassistenza fedele, affettiva. Non sta a lei dire.

Maria Cristina: ecco c un modo di dirlo che quello della signora Viola che dice appunto fermarsi e mettersi a leggere un libro, c un modo di dirlo che quello di Gianni che questione di aspettare che qualcosa maturi, c un modo di Maria che dice che con lei, no?

Allargo e dispiego il ventaglio delle opzioni. Ognuno ha un suo modo, una sua funzione complementare alle altre nel gioco, ognuno rinforza con il suo modo il messaggio degli altri.

Giulietta: s

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Maria Cristina: ma il modo di Giulietta di dire la stessa cosa?

Giulietta: (pausa) ma sempre quello di schierarmi in attesa e mi ritornata limmagine di quando siamo caduti praticamente nella pupilla per guardare cos dallalto laltra volta. Nello stesso tempo come un po il desiderio di sciogliere queste questa imbracatura, queste briglie che comunque tengono fermo tante cose comunque vabb si fida e si schiera comunque con Maria, Gianni con Viola eccosi affida a loro ecco.

E lei, Giulietta, come vuole entrarci? Quale modo sceglier come suo?

Lei incerta, sembra un poco confusa, ritrosa, arretra in ci che gi sa, che gi ha sperimentato.

Passa la palla a loro, si sottrae?

Maria Cristina: si fida di loro o si affida loro?

Giulietta: entrambe!

Maria Cristina: ah entrambe. E loro accettano laffidamento? Beh capisco bene che

A loro andr bene? evidente da tempo, in filigrana, il commento sul nostro, di rapporto. Di fiducia, s, ma di affidamento? Lo ribalto su loro, con lantica tecnica del parlare a nuora perch suocera intenda. Sono le sue persone, le faranno da specchio riflettendo il suo

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accettino la fiducia, la riconoscono, ma laffidamento? Cio che lei si metta nelle loro mani in qualche modo. E una cosa che loro approvano?

pensiero e riflettendo su.

Giulietta: beh insomma non proprio come se, come se mi dicessero siamo qui nel caso in cui avessi necessit, bisogno per ecco che non facciano tanto da affidatari (sorride) non hanno questo ruolo ecco, non lo accettano ecco (pausa) comunque dimostrano sempre di essere l e che ci sono in caso di necessit ecco. Per non si sentono assolutamente e non mi devo comunque affidare a loro, ecco.

Non si tradiscono, Giulietta ne prende atto con buona grazia.

Maria Cristina: chi ha risposto di pi, qua?

Chi ha dato il la?

Giulietta: Maria.

Maria Cristina: Maria, vero? E la signora Viola stata a sentire oppure stava ascoltando altro? (si ride insieme)

Maria, ora molto differenziata da Viola, donne ambedue ma che distanza di posizione, stile, funzione! Orma superato il passaggi difficile dellaffidamento impossibile, siamo complici e alleate.

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Giulietta: beh s, un po e un po non era molto partecipe.

Maria Cristina: vero? Non il suo gioco.

Gianni e Maria affiancati, quanto simili alla coppia dei genitori di Giulietta, attenti, presenti, ma che non accettano deleghe.

Giulietta: no, no, non il suo settore, diciamo il suo argomento.

Maria Cristina: e Gianni?

Giulietta: Gianni ecco s, era pi vicino a Maria in questa cosa, condividendo quello che stava dicendo lei sempre cos abbastanza

Maria Cristina: s, ma non il loro gioco, no?

Giulietta: no, no. Poi mi appare anche la come si chiamava?

Maria Cristina: Gloria?

Giulietta: No, forse Franca,

E, dopo i genitori, ecco che si presenta anche la sorella di Giulietta, alternativa, eccentrica e spregiudicata, di cui Giulietta vorrebbe possedere lo stile sprezzante delle consuetudini. Qui viene allusa da Franca, una delle persone di Giulietta, tutta

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quella vestita di giallo, s!

Maria Cristina: s

molto particolare come soggetto, che alza di colpo il tono introducendo la splendida immagine del vento, Franca che nel vento, sulla sua bicicletta.

Giulietta: eh s, appare anche lei che dice di (beh lei tutta molto particolare come soggetto) dice di affidarmi, come non so, farmi una bella pedalata, di affidarmi al vento come fosse una corrente da comunque ecco la vedo molto cos, come consiglio mi sembra di vedere limmagine di lei in bicicletta, quindi nellaria, nel vento.

Maria Cristina: inebriata di vento? Cio che va dentro al vento?

Giulietta: no, no no, il vento tipico di quando si va in bicicletta e cos una visione molto normale di pedalata che per comunque d questa rinfrescata, questoquesta pulizia. Poi non una pulizia, qualcosa nellaria in bicicletta si stacca, non so la polvere, queste cose qua abbastanza leggere. Eccola mi fa vedere lei in

Ma lidea anche pi bella e forte di come era sembrata in un primo momento: il vento quello provocato proprio dalla pedalata. Ecco, Giulietta, se vuoi cambiare, resta stabile sulla tua bicicletta, pedala, forte, che laria intorno smossa da te e trasformata in vento far pulizia. A questo puoi affidarti.

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bicicletta e mi dice che dovrei affidarmi allaria, al vento.

Maria Cristina: e anche le altre, una dopo laltra, potrebbero darle la loro versione?

Questo specifico di Franca.

Giulietta: no no, direi di no

Maria Cristina: quando Franca le ha parlato e le ha fatto vedere la bicicletta, Maria cosa ha fatto? Maria approva, con grande seriet, questa magica biciclettata nellaria. Non il suo gioco ma approva.

Giulietta: Maria sorride, sempre molto Ha accettato questa cosa molto seriamente, nonostante sorrida perch approva nel senso di approvazione nei confronti di Franca, per molto seria dopo che c stata questa biciclettata nellaria.

Maria Cristina: Gianni?

Giulietta: Gianni s, anche lui, serio e dice: s, s come conferma che la cosa sia sia appropriata.

Anche Gianni, le ragazze, le figlie son grandi, si appoggeranno luna allaltra.

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Maria Cristina: e la signora lha ascoltato?

E la signora?

Giulietta: la signora s, pi sorridente anche lei, perch la trova, comunque s, valida anche se non parte del suo modo, ecco.

Non era il suo pensiero ma valida.

Maria Cristina: mi pare che Franca nellapparente semplicit del suggerimento della proposta che le fa, mi pare che ha preso qualcosa di molto sacrale, di molto importante: il vento anche lelemento biblico, lo spirito santo la voce, come dire, dentro la quale si trovano le indicazioni ma che non indicano. Mi sembra che, come dire, Franca abbia dato una rappresentazione fisica di una cosa molto impegnata, molto segreta, molto difficile da dire. Pu essere, Giulietta?

Lingresso del vento va festeggiato e onorato, si pu immaginare, Giulietta, che la proposta fascinosa di Franca rappresenti quellindicibile che andava trasmesso?

Giulietta: mah, vedendo la seriet di come hanno accolto gli altri direi di s che pu s, perch sono molto seri e molto concordi in questa cosa (pausa). Viola dice che comunque, no, che mi fa sempre ricordare che il

Il mio tono molto serio, rispettoso, Giulietta si sintonizza, Viola dice che poi un po la stessa cosa che fermarsi a leggere, chiudendo il cerchio in una festa di linguaggi incrociati che circondano un contenuto di

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discorso del fermarsi e leggere sia altrettanto valido. Per hanno accolto seriamente tutti, tutti e tre questa cosa qui della pedalata.

grandissima rilevanza.

Maria Cristina: e forse questo che dicono di portarsi con s.

Tiro le fila, concludiamo un lungo giro.

Giulietta: cio?

Maria Cristina: questa immagine di andare dentro il vento. E il vento che la stessa pedalata provoca. Che non la stessa cosa di andare dentro il vento.

Giulietta: eh no! E non ,non pu essere una cosa del tipo lasciarsi trasportare.

Maria Cristina: no, fidarsi di s stessi.

Vada, Giulietta, vada, sono, siamo tutti l che facciamo il tifo per lei, si affidi al vento che lei stessa produrr!

Giulietta: ah

Maria Cristina: affidarsi a se stessi.

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Lei si muove leggera, veramente, (ma sar solo suggestione?), sembra sostenuta da un gentile refolo di vento, scuote i ricci mentre raccoglie la borsa ricamata, va verso la porta, felicemente dimentica di me, tutta presa da un suo incanto privato. Poi si ferma, sorride, mi porge la mano, morbida e piccolina: ci salutiamo rapidamente e la guardo allontanarsi. E mentre scivola fuori dal mio sguardo, mi riecheggia in testa lantico saluto: Possa il sentiero sorgere per salutarti. Possa il vento essere sempre alle tue spalle. Possa il sole splendere caldo sopra il tuo volto. Possa la pioggia cadere gentilmente ai tuoi piedi.

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Maria Cristina Koch vive e lavora a Milano nel suo studio di via Grossich, 16 Dirige la scuola triennale di counseling accreditata S.I.Co. Sistema Counseling www.sistemanet.com Nella stessa sede di via Luisa Sanfelice, 3 a Milano, ha promosso un centro multiculturale dedicato alle donne e alle professioni, La Casa di Vetro www.lacasadivetro.com dove opera anche EFF&CI-Facciamo Cose: info@effecifacciamocose.com che organizza e cura eventi.

Oltre a contributi a volumi collettivi e interventi a convegni, ha pubblicato: Norma e patologia allo specchio, IPSA, Palermo 1985 Nel tempio nel bosco. Mito e fiaba nella conversazione terapeutica, Librerie Cortina, Milano 1988 Dentro una locanda. La terapia come sosta Moretti e Vitali, Bergamo 1999 Misurare limmateriale. Riflessioni per una societ trasparente a cura di G. Lai e M.C. Koch, Franco Angeli, Milano 2008

La grafica di Leonardo Gandini www.noicon.biz

Le statue riprodotte sono di Giovanna Basile www.giovannabasile.it

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