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01/01/2009

SEMINARIO DI PSICOLOGIA PENITENZIARIA

LA DISTRUTTIVITÀ NELL’UOMO

Psicopatologia dei reati nella popolazione carceraria

19 settembre 2008
-

Complesso socio-sanitario dei Colli


Via dei Colli, 4 - Padova

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Suicidi in carcere detenuti e agenti di


polizia , dott.ssa L. Baccaro
• “L’uomo vuol essere felice, e vuole
soltanto essere felice... La volontà non fa
mai il minimo passo se non verso
quest’oggetto
quest oggetto. È il movente di tutte le
azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che
s’impiccano”.
B. Pascal

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Raccontano:

• “tutti almeno una volta


abbiamo pensato ad
ammazzarci, soprattutto alla
prima carcerazione o
quando ci è giunta una pena
di tanti anni,, ma è solo un
momento…”

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• Già nel XVII secolo i giudici inglesi (Coroners),


chiamati a indagare nelle carceri su casi di morte
violenta o, comunque, sospetta, pur classificando, di
solito, l’evento suicidario come “morte per castigo
divino”, in qualche raro caso iniziarono a stabilire
divino
delle correlazioni fra gli episodi di autosoppressione e
alcuni specifici aspetti del regime detentivo.
• Ma fu soprattutto nell’Inghilterra vittoriana del XIX
secolo che s’intensificarono gli studi, anche se erano
t tti influenzati
tutti i fl ti dal
d l ffatto
tt che
h in
i quell periodo
i d non
soltanto la morte in carcere, ma la morte in generale
aveva assunto una sorta di significato politico, cioè
veniva interpretata non come indice della salute
psicologica individuale, ma piuttosto della salute
morale l d della
ll nazione.
i Si d
deve però
ò arrivare
i alla
ll metà

del 19º secolo perché il tema più generico delle “morti”
in carcere inteso come un “fenomeno di disagio
sociale” cominci a destare l’interesse degli studiosi.

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• Ferri nel 1885 commenta come “il suicidio non mi


pare un atto immorale; il suicidio è una sventura,
ecco tutto. È una sventura come la pazzia, a cui
spesso si associa, e come qualunque altra debolezza
fisica o morale.
morale Certo è una debolezza; ma una
debolezza che non si può imputare alla volontà
immorale dell’individuo che ne subisce il fato, o per
decreto ereditario attraversante più generazioni, o
per resistenza minore della sua fibra agli uragani
psicologici che talvolta sconvolgono tutta
psicologici,
un’esistenza. E così il suicidio non è un fatto
antinaturale, contrario alle leggi di natura, all’istinto
della propria conservazione. Già tutto ciò che
avviene in natura è naturale, ed il suicidio stesso è
poi la prova del fatto che
che, in chi lo compie ( e per
giudicare bisogna tenere conto delle sue condizioni e
non delle nostre) l’istinto di conservazione è venuto
meno”

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• Attualmente in Italia il suicidio non è punibile ma


per l’art. 580 Cod. Pen. è reato l’istigazione o
l’aiuto al suicido, la pena è maggiore se il
suicido
i id avviene
i effettivamente
ff tti t e se il suicida
i id è
infermo di mente, incapace di intendere e di
volere o minore di 14 anni. In questi casi
l’istigatore è colpito con la stessa pena del reato
di omicidio
i idi volontario.
l t i
• Chiunque cagiona la morte di un uomo, col
consenso di lui, è punito con la reclusione da sei
a quindici anni.

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• “In genere si comincia con atti di autolesionismo, ti


tagli addosso, prendi a capocciate il muro. Poi insceni
il suicidio. Solo che a quel punto è pericoloso. Sei
deperito, puoi avere un mancamento, ti possono
cedere le gambe
gambe. E allora sei morto
morto. Il gioco
gioco, però
però, è
pericoloso anche se sopravvivi. Fascicoli personali,
magistrati di sorveglianza, guardie: tutti controllano il
detenuto. […] In carcere i tentati suicidi vengono
puniti,, come pure
p p g
gli atti di autolesionismo”. Tutto
finisce nella tua cartella, vengono stesi dei rapporti,
iniziano ad osservarti 24 ore su 24. A quel punto, se
hai inscenato il suicidio, devi continuare a fingere,
tutto il tempo. E non è facile. Simulato o meno, spesso
l risposta
la i t d
delle
ll istituzioni
i tit i i all tentato
t t t suicidio
i idi passa
rapidamente dalla visita medica alla cella di
isolamento, che dovrebbe essere (ma non è sempre
così precisa) piantonata a vista”

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• Nell’Ordinamento penitenziario, legge n. 354 del 1975, non si


parla del suicidio ma, genericamente, di tutela della salute dei
carcerati all’art. 11, nel quale si legge che “L’assistenza
sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell’istituto,
con periodici e frequenti riscontri,
riscontri indipendentemente dalle
richieste degli interessati”. In realtà, in carcere il tentativo di
suicidio è punito disciplinarmente (come avviene anche per
l’autolesionismo, il tatuaggio, il piercing), in base all’articolo 77
del Regolamento penitenziario che, al punto 1) prevede
ll’infrazione
infrazione (molto generica) della “negligenza
negligenza nella pulizia e
nell’ordine della persona o della camera”. Oltre alle possibili
sanzioni decise dal Consiglio di disciplina (richiamo, esclusione
dalle attività, isolamento, etc.), l’infrazione disciplinare comporta
la perdita dello sconto di pena per la buona condotta
((liberazione anticipata),
p ), nonostante il codice penale
p non
consideri reato il tentativo di suicidio. Inoltre il detenuto che si
suicida in carcere si sottrae all’obbligo giuridico di astenersi dal
togliersi la vita e ciò può essere ritenuto un “reato omissivo
improprio”.

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• L’obbligo giuridico in realtà è riferito non tanto al


detenuto, ma all’agente che deve intervenire,
infatti l’art. 41 dell’O.P., “Impiego della forza
fisica e uso dei mezzi di coercizione”, individua
il preciso dovere giuridico e la chiara
responsabilità della polizia penitenziaria di
salvare il recluso anche a costo di usare la
forza, infatti, al fine di garantire l’incolumità del
detenuto, gli agenti sono autorizzati a usare
quei mezzi di coercizione fisica che,
normalmente, sono loro proibiti.

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• “Oggi un compagno si è tagliato le vene…Tutto quel sangue mi


ha impressionato: la limitatezza e la fragilità della natura umana
in carcere è come uno specchio e ti senti emotivamente
coinvolto… insomma non è come vedere la sofferenza in
televisione, è tutto molto più brutto, più vero, più crudele”. Molti
detenuti in carcere si fanno male perché non hanno altri modi
per farsi ascoltare. Molti di loro hanno dei problemi ed hanno
bisogno di attenzione, per esempio i tossicodipendenti, e non
credo che il carcere sia il posto migliore per loro, usciranno dei
rottami peggio di quando sono entrati. La maggioranza delle
guardie sembrano come quei macellai che non
s’impressionano
s impressionano più alla vista del sangue
sangue, si arruolano solo per
lo stipendio non hanno preparazione ed istruzione adatta per
gestire delle persone che stanno male.
• Se per curare dei malanni fisici ci vuole un dottore laureato in
medicina come si può pretendere di curare dei detenuti con
problemi psicologici, esistenziali, ecc. con una divisa, una
li
licenza di tterza media
di edd una chiave
hi iin mano. M
Molti
lti di lloro
stanno chiusi 24 ore su 24 e sono imbottiti di psicofarmaci, in
queste condizioni c’è da meravigliarsi se uno non si taglia le
vene o non tenta la fuga perfetta suicidandosi…”

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• Comunque le misure che vengono adottate nei tentativi di


suicidio dei detenuti vanno da un richiamo fino all’isolamento o,
nei casi più, gravi, ritenendo il soggetto “affetto da una sorta di
devianza psichica”, ad un intervento di tipo medico-psichiatrico,
inquadrando il suicidio o come un comportamento “patologico”
patologico
che viola il diritto\dovere alla salute o come un voler “solo”
richiamare l’attenzione su di sé. Quindi abbiamo devianze di
vario livello e varia gravità: se l’atto autosoppressivo è
considerato “serio”, allora chi lo compie è un malato di mente e
ll’ordinamento
ordinamento penitenziario prevede l’adozione
l adozione di misure rivolte
alla tutela della salute mentale del soggetto (assistenza
psichiatrica, trasferimento ad un ospedale civile o all’ospedale
psichiatrico giudiziario...).

A livello di rimedio strutturale si adotta
adotta, in molte carceri,
carceri la
cosiddetta “cella liscia”, un parallelepipedo senza nessun
oggetto all’interno e nessun appiglio alle pareti.

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• Nel caso in cui il suicidio è considerato


“simulativo”, allora, si ritiene che il
detenuto strumentalizzi il suo gesto per
qualche
l h fifine di
diverso d
dalla
ll morte
t cheh può
ò
essere quello di protestare contro
l’amministrazione penitenziaria, quello di
ricattare al fine di ottenere qualche altro
beneficio,
f oppure quello di vendicarsi delle
frustrazioni subite. Quando il suicidio è un
gesto “manipolativo” o “strategico”, come
viene definito nel linguaggio burocratico
dell’amministrazione penitenziaria, allora,
il gesto suicidario è etichettato come atto
di devianza di un detenuto “ribelle”.

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• I tre quarti dei suicidi in carcere sono


finti suicidi andati male. Non mangi,
deperisci e poi fingi di ucciderti. Se ti
va bene prendi l’incompatibilità col
carcere che può voler dire, per
d t
detenuti ti con pene brevi,
b i uno sconto t
di pena, un trasferimento in un
ospedale psichiatrico giudiziario
(OPG) in comunità
(OPG), comunità. Se ti va male
male,
muori

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• “Di solito, per chi finisce in carcere, il momento più


critico è quello di “primo ingresso”, quando si
effettuano i colloqui con gli psicologi ed educatori, che
dovrebbero cercare di alleviare il trauma della
carcerazione,, specialmente
p p
per chi entra la p
prima
volta e si trova rinchiuso in un ambiente totalmente
diverso dalla normalità del vivere all’esterno. Qui il
“nuovo giunto” tende a sfogare la sua delusione e
amarezza, vedendosi di fatto crollare il mondo
addosso,, e finisce per
p sperare
p solo che la p
persona
con cui svolge il colloquio possa dargli conforto e una
certa sicurezza. Ma invece quasi inevitabilmente, data
la cronica carenza di personale specializzato, questa
speranza nella maggior parte dei casi viene disattesa.
Succede allora che, q quando si ppresentano p persone
che di fatto richiederebbero maggior attenzione, a
volte vengano messe nelle celle “lisce” per un periodo
di osservazione. E si finisce per creare, di
conseguenza, disagio su disagio.

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a) Il suicidio/fuga
• L’ambiente
L ambiente carcerario esercita sull’individuo
sull individuo
un’influenza distruttrice tanto da essere considerata
la vera causa del suicidio. In queste condizioni
psicofisiche il ristretto può attivare a vedere come
unica “libera” soluzione la fuga da se stesso, dalla
vita
a e da u
unaa realtà
ea à cche e lo
o so
sovrasta
as a e aalla
a qua
quale
e non
o
può sfuggire, ma non solo, il suicidio diventa l’ultimo
progetto, inteso come fuga definitiva da una
situazione aberrante (perdita della propria
soggettività, solitudine, isolamento). Ma,
paradossalmente,, il suicidio diventa l’unica possibilità
p p
di essere con se stessi, in un momento concreto di
personale progettualità anticipatoria dell’evento della
morte. Un riprendersi in mano la propria vita per
andare in una condizione migliore e di pace.

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b) Il suicidio/vendetta, minaccia, ricatto

• Il d
detenuto
t t che
h sii dà lla morte
t per vendetta,
d tt
minaccia o ricatto è un ribelle nel cui suicidio,
estrema forma di trasgressione
comportamentale, si ravvisa un’intenzionalità
etero-aggressiva
etero aggressiva, anche se questa aggressività
non viene, nei fatti, diretta verso gli altri.
• Il suicidio come vendetta nasce dal sentimento
di odio e di rivalsa verso tutto e tutti, in quanto il
detenuto si vede e si sente dimenticato e
disprezzato dalle istituzioni, dalla comunità e
dalla famiglia.

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• Nel suicidio come minaccia o ricatto la


dimensione è finalistica e utilitaristica, cioè l’atto
autosoppressivo ha lo scopo di sensibilizzare
ll’Istituzione
Istituzione penitenziaria e
e, per raggiungerlo
raggiungerlo, il
detenuto si serve del proprio corpo e del suicidio
(più spesso di un tentativo di suicidio) come se
fosse di un’arma, è come se il recluso
riprendesse possesso del proprio corpo, per
mantenerlo in ostaggio fino ad ottenere la
soddisfazione delle proprie esigenze. In pratica
per il detenuto la minaccia di suicidio è vista
come l’ultima carta da giocare per tentare di
modificare la situazione a proprio favore ma
questi non possono essere considerati casi di
suicidio vero e proprio in quanto manca
l’intenzionalità ed in pratica solo un gesto
manipolativo.

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c) Il suicidio per coscienza/vergogna


• “Dopo il suicidio del ragazzo albanese non mi meraviglia tanto
la reazione del figlio delle vittime che accusa quella persona di
essere “sfuggita” alla pena suicidandosi [ …]Se poi si vuole
di
discutere
t d
deii motivi
ti i che
h questat persona poteva
t avere per
suicidarsi, io credo che la cosa sia troppo soggettiva, nel senso
che ognuno di noi vede il proprio reato in modo diverso. C’è chi
lo giustifica e trova delle scusanti, magari ritenendo di aver
ucciso per vendicarsi di un torto grave subito. Poi c’è chi non
riesce neppure
pp a comprendere
p la p
propria
p azione, non sa
spiegarsi come ha fatto ad arrivare a un gesto così violento, e
c’è chi trova difficile confrontarsi con quello che ha fatto, e io
credo che sia questo il caso della persona suicidata. Allora io
credo che lui abbia deciso di morire per sparire, per sfuggire,
ma non per sfuggire alla pena, bensì per sfuggire alla difficoltà
di comprendere
p il p
proprio
p g gesto. La mia impressione
p è che
questa persona che si è uccisa non perché spaventata dal
carcere, ma perché spaventata dalla propria coscienza. Perché
sono convinto che il peso più grave non è quello del carcere,
ma quello dei rimorsi, del convivere con le proprie
responsabilità”.

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• Massimo Floris, 19 anni, in attesa di processo. in carcere per una rissa avvenuta un
anno fa all’uscita di un bar a Sant’Anna Arresi. Il ragazzo era in cella da poco,
trasferito a Buoncammino per il processo che sarebbe cominciato presto.
• Lei, 17 anni, l’aveva lasciato: gliel’aveva comunicato in una lettera che lui aveva letto
poche ore prima. Alle quattro di giovedì pomeriggio, rimasto da solo, Massimo Floris
ha preso il lenzuolo dalla sua cuccetta, ne ha annodato un capo alle sbarre della
cella e si è passato l’altro attorno al collo. Poi s’è lasciato cadere. Un suicidio
organizzato con cura: i quattro compagni di cella fuori per l’ora
l ora d’aria
d aria, lui che aveva
detto di non stare bene ed era rimasto in cella. Prima di annodare un lenzuolo alle
sbarre e di impiccarsi in una cella di Buoncammino, ha scritto sulla propria pancia il
messaggio d’addio: il nome della sua ragazza e la frase “L’ho fatto per te”. Un
suicidio annunciato, in una lettera spedita a casa: una lettera rimasta sulla credenza
per due giorni, in una busta chiusa. Sua madre, Anna, non aveva voluto aprirla per
rispetto: Massimo l’aveva indirizzata non a lei ma a una sorella. L’hanno aperta
giovedì sera, quella lettera. C’era scritto che se la ragazza l’avesse lasciato, lui si
sarebbe
bb ucciso.
i
• Con tutti si era sempre mostrato sereno, senza mai dare problemi di nessun genere.
• “In genere stiamo sempre molto attenti alle condizioni psicofisiche dei detenuti. I
casi cosiddetti a rischio sono sempre molto controllati, stiamo attenti e vediamo se
ricevono visite nei giorni di colloquio, se scrivono e se ricevono posta, come si
relazionano con gli altri detenuti. Se ci rendiamo conto che un detenuto è depresso o
si sta lasciando andare interveniamo subito con un supporto psicologico”. E
conclude: “Purtroppo
Purtroppo nel caso di questo ragazzo non ce lo aspettavamo
minimamente. Stiamo attenti ma non possiamo conoscere i problemi personali e
familiari di ogni detenuto. Se loro non esternano un disagio è impossibile. Purtroppo
alcune volte i detenuti si sentono come abbandonati. È la solitudine gioca un ruolo
devastante”. (Il Sardegna, 11 novembre 2007)

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Fattori di rischio individuali

• Gli istituti
i tit ti di pena sono luoghi
l hi d
dove sii
concentrano gruppi vulnerabili che sono
tradizionalmente tra quelli più a rischio:
• giovani DONNE
• persone con disturbi mentali o interdette
• soggetti socialmente isolati
• soggetti con problemi di abuso di sostanze
• soggetti con storie di precedenti comportamenti
suicidari o comunicazione di intento suicidario
• trattamento psicofarmacologico durante la
detenzione
• reato ad alto indice di violenza

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Tentato suicidio

• IIn carcere sii evidenzia


id i lla grande
d diff
diffusione
i d
deii
tentativi di suicidio non letali tra la popolazione
detenuta. Preciso che un tentato suicidio è qualcosa di
molto simile ad un suicidio ma è anche tanto altro che un
suicidio non è, perché sottende una dinamica
completamente diversa dal suicidio vero.vero
• Sottolineo che questo è vero perché nella stragrande
maggioranza dei casi chi vuole davvero suicidarsi
purtroppo muore e in questa verità sta la differenza:
mentre chi vuole morire vuole cessare con la vita, chi
tenta il suicidio spera che qualcuno interpreti la sua
richiesta d’aiuto, offrendo un cambiamento alla
situazione

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• Il fenomeno del tentato


suicidio
i idi in
i carcere negli
li
ultimi 27 anni è stato
registrato in 13.297
13 297 casi,
casi
con un tasso medio ogni
10.000 detenuti pari al
142,24%.

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• La lettura del tentato suicido si può


leggere:
• suicidio vero che viene scoperto e
bloccato
• episodio di autolesionismo
• a scopo dimostrativo
• richiesta aiuto
• protestatario
t t t i
• fuga verso altre strutture

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AUTOLESIONISMO

• Negli ultimi 17 anni gli


episodi di autolesionismo
sono stati 93
93.414
414 con un
tasso di autolesionismo
pari al 105,03%.

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• Il tagliarsi per loro è come un passaporto per avere ciò


di cui hanno bisogno, ad esempio: vogliono parlare
con un operatore, psicologo, se non lo ottengono una
lametta e via, ovviamente sono già persone con grossi
problemi a monte
monte.
• Poi ci sono due tipi di autolesionisti, ovviamente
sempre per ottenere qualcosa, però uno lo fa
coscientemente ed allora sceglie il punto dove tagliarsi
di minor danno e minor entità (carceramente si
chiamavano graffi di gatto e c’era sempre la battuta
scherzosa “hai messo il gatto in cella?”).
• Il peggio è quello determinato, si dà coraggio con gli
psicofarmaci e taglia
p g dove capita,
p , se ci sono vene,,
arterie, è uguale. Ho visto uno che si tagliò il collo…lo
hanno ripreso per i capelli quando i soccorsi…sob,
come al solito sono arrivati tardi, ed il sangue dal
bagno era arrivato in cella…

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SUICIDIO POLIZIA
PENITENZIARIA

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• Il sociologo Durkeim ha studiato il fenomeno del


suicidio nelle forze armate e nella polizia e lo ha
suddiviso in due forme:
• il SUICIDIO EGOISTICO, messo in atto in una
situazione di crisi personale e per scarso interesse
verso la comunità, come potrebbe avvenire in
seguito a malattie, privazioni e lutti;
• il SUICIDIO ALTRUISTICO, messo in atto per forte
ed intenso legame con la comunità, segnato da un
forte senso dell’onore, dello spirito di corpo e di
formazione morale, p per cui ci si sacrifica p
per il bene
ed il successo del gruppo di appartenenza.

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• L’ipotesi di partenza è che gli agenti di Polizia Penitenziaria


sono sottoposti ad un continuo stress dovuto:
• alla relazione con i detenuti, le loro problematiche, le loro
condizioni;
• alla relazione con i colleghi, i superiori e i dirigenti
dell’istituto penale;
• alla realtà organizzativa e ai compiti istituzionali più o
meno delineati e contradditori. L’analisi dei compiti e delle
g agenti
funzioni degli g p
penitenziari ha pportato a considerare una
possibile contraddizione che si fa strada nel ruolo di agenti:
l’assodata partecipazione degli agenti all’osservazione e al
trattamento, che si considera un progresso civile e coerente
con le linee costituzionali, potrebbe non essere in sintonia di
ruolo e mansione con la più consolidata funzione di controllo e
sorveglianza dei detenuti e internati. Questo conflitto di ruolo
incrementerebbe, negli agenti maggiormente sensibili e inclini
ad un alto livello professionale soprattutto nella relazione con i
detenuti, un ulteriore fattore di rischio di burnout.

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Alcune condizioni che possono essere


considerate per il rischio di suicidio sono:
• il sesso maschile: gli uomini interiorizzano e reprimono gli
stati emotivi negativi e questo viene amplificato dal
bisogno continuo di autocontrollo delle emozioni;
• l’ambiente operativo: che conduce ad un contatto
continuativo con la violenza, la sofferenza, il crimine, la
morte, con un continuo bisogno di fornire assistenza,
intervento, aiuto, nelle situazioni critiche altrui;
• la struttura gerarchica piramidale: a tutti è promessa
una carriera, ma la carriera prevede tagli ed esclusioni,
graduatorie e gerarchie che possono far crollare
psicologicamente chi si sente escluso da promozioni e
avanzamenti; il negativo adattamento alla gerarchia, se
eccessivamente autoritaria e poco sensibile ai problemi
del singolo.

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• l’assenza della rete delle protezioni sociali, della


funzione protettiva delle equipes, del senso di
appartenenza ad uno staff, in quanto anche fra “pari” c’è
una classifica, una graduatoria;
• la facilità al trasferimento, la difficoltà ad accettare la
realtà dei distacchi dalla città o dalla propria famiglia con il
conseguente sradicamento forzato dall’ambiente abituale
(famiglia, amici), che viene vissuto come una perdita della
propria
i sicurezza;
i
• la forzata convivenza con altri sancita da regole rigide,
che prevedono la perdita della privacy e rendono difficile
l’integrazione;
• la riattivazione di dinamiche relazionali conflittuali, nei
confronti
f ti dell’immagine
d ll’i i paterna,
t riproposta
i t ddaii superiori,
i i e
di quella dei fratelli, riproposta dai colleghi pari grado;

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Epidemiologia del suicidio


• Rifacendoci a dei dati statistici sul fenomeno del
suicidio nelle forze di polizia possiamo dire
innanzi tutto che “il suicidio è sempre e
comunqueq sottostimato nelle
statistiche ufficiali” (secondo studi dell’OMS
di Ginevra) per riserbo della famiglia, per errore
con morti accidentali o incidenti e per errata
causa di morte (“arresto
( arresto cardiaco”)
cardiaco ) stilata da un
sanitario poco attento.

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GRAZIE
PER
L ATTENZIONE
L’ATTENZIONE

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