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di David Ramanzini

Ad Andrea Filippo Cunanan. Frammento

Ho ritrovato, per puro caso, due quadernoni, rimasuglio –


risalgono a due anni fa – di un articolato e inconcludente
zibaldone, testimone di un periodo, o un‟epoca, in cui
scrivevo molto più volentieri – poi, appunto, le sparizioni
continue mi hanno disamorato, il fatto di non poter
conservare nemmeno modeste cartacce mi ha reso sempre
più sfiduciato. Tutto ne ha risentito, mi sembra che ogni
giorno che passa sia sempre più morto del precedente.

Si tratta di un quaderno a spirale di Harry Potter – l‟avevo


trovato in offerta da Vagnino, 1 euro, così si spiega la
scelta – e un quadernone con un‟immagine puerile in
copertina, forse ispirata a qualche cartone animato (la mia
ignoranza in materia non potrebbe essere più abissale), a
quadrettoni da un centimetro, parte di un pacco da dieci
che acquistai per 4 euri a Napoli or è parecchio tempo. Il
quadernone di Harry Potter mi accompagnò in un giretto
per l‟Italia di tre inverni fa, mentre il quadernone è quasi
intonso, e mi è servito, a quel che vedo, soprattutto da
portafoglio, dato che vi ho inserito stracciafoglî di vario tipo
e scritti in tempi diversi; ed è forse tutto quello che rimane
di un certo saccone di plastica bianco che a Grugliasco (oh
l‟incubo) tenevo sotto la scrivania (un‟asse e due
cavalletti), e che un giorno sparì per finire chissà indove.

Tra le carte inserite ci sono alcuni foglî che avevo


cominciato a pasticciare proprio a Grugliasco, una sera, in
particolare la sera del 23 luglio 2007, mentre alcuni ragazzi
facevano festa e casino in cortile. Dato che in casa c‟era un
televisore, avevo ripreso l‟abitudine di guardare il
telegiornale, e in giornata non potei mancare una
commemorazione di Gianni Versace, che era stato ucciso lo
stesso giorno dieci anni prima. Io non mi sono mai
interessato di Versace – non conosco la moda -, e, ciò che
più conta, la mia conoscenza del nome dello spree killer
risaliva a prima dell‟omicidio del sarto; la folle corsa di
Cunanan era stata seguìta dai telegiornali prima che
raggiungesse Versace e l‟uccidesse; fino a quel momento le
sue vittime, tre in tutto, erano stati omosessuali
benestanti, nessuno in vista oltreoceano. Nei dieci anni che
intercorrono tra gli omicidî e la commemorazione di
Versace che intravidi in televisione le tesi, anche quelle
innocentiste, si sono sprecate. Dato che sono state tutte
relative ai moventi più immediati dei varî assassinî, e non
hanno preso ovviamente in nessuna considerazione
motivazioni esistenziali più estese – che però non sono
stato, sono convinto, l‟unico a percepire – non mi sogno
nemmeno di prenderle in considerazione. Tutto, però, è
rimasto in sospeso. Cunanan, nato nel 1969 da famiglia
modestissima d‟immigrati, dopo una carriera scolastica
apparentemente promettente ma che non l‟aveva portato
da nessuna parte (biglietti, lettere, cartoline e
testimonianze raccolte dai postumi biografi denotano
vivacità ma anche lacune), aveva cominciato a frequentare
locali gay per abbienti, dove si era prostituito, o meglio
aveva cominciato a frequentare persone più o meno
mature dalle quali si faceva mantenere; aveva però avuto
nel corso del tempo relazioni più durevoli anche con
coetanei, specialmente professionisti. Quando aveva
diciannove anni, la madre, tale Shillacci (di evidenti origini
meridionali italiane, alla faccia di certe trascrizioni
anagrafiche) aveva scoperto tutto quello che c‟era da
sapere circa le sue tendenze e la sua condotta di vita; e
AFC aveva reagito sbattendola contro il muro e lussandole
una spalla. I rapporti con la famiglia si erano troncati lì. È
certo che assumesse sostanze psicotrope, più che
occasionalmente, meno che compulsivamente, e che negli
ultimissimi anni avesse mostrato qualche preferenza per il
sadomaso, o per estenuazione sensuale o perché il fisico,
interessato da un inedito enbonpoint in via di trasformarsi
in cicciuzza, non addicendosi più al moscardino mantenuto
che era stato sembrava avviarlo naturalmente all‟attività di
master: regole di mercato. Quando morì, suicida, in una
houseboat, o casetta galleggiante, a Miami, facendosi
trovare cadavere dalla polizia, aveva trent‟anni. La tesi,
molto succintamente, era che fosse impazzito in séguito
alla scoperta di essere affetto da HIV, ma in primis egli non
ne aveva mai parlato, nessuno gliel‟aveva mai
diagnosticato, e dall‟autopsia risultò HIVnegativo. Si era
detto che avesse ucciso nel tentativo di raccogliere quanto
più denaro fosse possibile, essendo avido e interessato, ma
l‟inventario dei suoi beni non comprendeva molto, a parte
parecchî tubetti di idrocortisone (da wikipedia, non me lo
ricordavo) e una quantità discreta di romanzi di C.S. Lewis,
l‟autore delle Cronache di Narnia. I furti che aveva
commesso (specialmente auto) dopo gli omicidî erano
ovviamente dettati dalla necessità di seminare la polizia.

Lungi da me l‟idea di mettere il naso in questioni che non


mi riguardano – il mio interesse per AFC era infatti dovuto
alla percezione, sempre meno confusa, che la sua storia
riguardasse anche me; non lo stesso per quanto riguarda
le sue vittime –, né potrei mai forzarmi a dilungarmi sui
particolari della fine di Versace, che per me è rimasto solo
uno dei quattro ammazzati, meritevoli tutti e quattro della
stessa umana pietà e considerazione; se qualche strascico
mi è meglio noto dipende esclusivamente dalla sua fama.
Ma un decennio dopo la sua scomparsa mi capitò tra mano
una pubblicazione riguardante una persona vicina allo
stilista, nella quale si esprimeva la convinzione che l‟autore
del delitto non fosse AFC (di cui peraltro non sono mai
riuscito a capire esattamente se avesse o no conosciuto, in
precedenza, Versace), definito “un bravo ragazzo”. Eppure
pare che fosse stato riconosciuto, per quanto la
conoscenza in tempo reale dei suoi precedenti delitti e il
vano inseguimento di giornalisti e polizia potesse aver
creato qualche psicosi e falso convincimento.

La sua tetra e irrisolta vicenda è stata puntualmente


riflessa da tre pubblicazioni, che, grazie ad una spedizione
via amazon stettero per qualche tempo in poter mio: si
tratta di tre libri di cui uno solo ha le caratteristiche pulp
dell‟instant book, e ormai si sarà fatto rarissimo, non
avendo alcun interesse storico nel suo riprodurre, tagliando
& cucendo & inferendo, in maniera sudaticcia (di sleazy
parlano infatti gli americani per questo genere di
pubblicazioni) e sensazionalistica vicende su cui ancóra non
s‟era fatta piena luce. Altri due libri avevano altro interesse,
benché alla prova dei fatti presentassero svantaggî del
tutto assimilabili di eccessiva tempestività e ideologismo.
Uno, Three Months Fever, era dell‟omosessuale Gary
Indiana, scrittore di discreta fama che ebbe ovviamente
buon gioco a mostrare attraverso le vicende di Cunanan a
che cosa portino la mancanza di determinazione e di
cultura (riproduceva diverso materiale notistico di mano
dell‟assassino, rilevando spietatamente gli errori ortografici
in inglese e francese, e persino la sua biblioteca,
dimostrando l‟occasionalità, spesso interessata, della sua
raffazzonata cultura). L‟altro, della giornalista Maureen
Orth, Vulgar Favors, prendeva occasione dal vivo della
cronaca; essendo suo lettore affezionato, Cunanan stesso
l‟aveva più volte contattata telefonicamente, cercando un
contatto diretto; rimane il fatto che era Cunanan a
conoscere gli scritti della Orth, e non la Orth a conoscere
direttamente Cunanan, e nella sua trattazione, che ricordo
molto prolissa, la Orth metteva particolare rilievo sulle
dinamiche del mondo della prostituzione.

Questi tre libri e la rete, dal 1999, come già la televisione


in quell‟estate 1997 in cui i fatti si erano rapidamente
consumati, costituiscono fonti di documentazione, a cui si
possono aggiungere le notizie, comunque sempre le stesse,
riportate da varî dizionarî specialistici su serial- e spree
killer. Tutto materiale indispensabile, fatto salvo il contatto
medianico, a lèggere una figura che è certamente
importante considerare nel suo contesto, dato che la sola
pressione negativa esercitata dal contesto può spiegare
l‟esplosione di una violenza omicida così ad ampio raggio;
ma di cui, paradossalmente, ho trovato e trovo molto più
interessante la figura „in sé‟ che il contesto in cui si trovò
ad agire e reagire. Sembra una prospettiva, messa in
questi termini forse non del tutto corretti, completamente
irrealistica; basti allora invitare a considerare quanta
differenza intercorra tra una ricostruzione biografica che
ricrei il personaggio attraverso le sue relazioni con
l‟ambiente e una (presunta) ricostruzione biografica che
tenti di desumere il personaggio dalle dinamiche, del tutto
astratte, che regolerebbero gli ambienti in cui è vissuto e
con i quali è entrato in relazione. Ecco, ambo le due ‟serie‟
ricostruzioni biografiche, dell‟Indiana e della Orth,
appartenevano alla seconda categoria.

Non che fosse tutta colpa loro, chiaramente. Anzi, la


difficoltà oggettiva, in un‟epoca che si avviava rapidamente
all‟onnina diffusione del telefono cellulare, al satellite come
occhio di dio, al monitoraggio capillare delle nostre vite, e
in cui era già possibile – non come dieci anni dopo, ma
quasi – sapere praticamente tutto della vita di una
persona, fino a coglierne, almeno dal lettore intelligente, la
sostanza esistenziale più individuata, la vita di Cunanan
pareva come essersi affossata, salvo talune emergenze,
che però non spiegavano nulla. Non si tratta solo della
naturale strategia reattiva, che distingue l‟uomo
contemporaneo dall‟umanità naturale dei secoli precedenti
l‟invenzione della metropoli e del capitale, e può portarlo
ad una neurotica o deliberata contraddittorietà di
comportamenti, ma di un problema a monte, strutturale,
che riguarda l‟osservatore. Un mondo osservabile
capillarmente è un mondo in cui solo le emergenze – posto
ce ne siano ancóra di vere e proprie, in una società
finalmente, brutalmente democratica – possono risaltare;
ma è soprattutto un mondo in cui, tutto potendosi
registrare, nulla lascia, in fondo, alcuna traccia.

Non che di Cunanan mancassero segnali teoricamente


rilevanti: di lui gli ex-compagni di scuola dissero che era
decisamente il compagno più difficile da dimenticare:
esibizionista, insicuro, discontinuo nel rendimento, poco
serio. Nulla che comunque rendesse conto della
raccomandazione del professore di proseguire con gli studî
al college; scrivendo, il professore, che era a real thinker,
un insicuro e un rompicoglioni ma di qualche spessore e
curiosità intellettuale, dunque; ma non di più, nel senso
che questo thinker non lasciò nessuna traccia rilevante di
quello che gli passava per la testa, e optò assai per tempo
per frequentazioni superficiali nel migliore dei casi,
consacrandosi ad una specie di culto del corpo che, in
gradevole contrasto con la fisionomia pulita (spesso
occhialuta), ne fece poi un‟icona ossimorica. I rapporti con
la famiglia erano per converso da escludersi
completamente come fonte d‟informazione: la madre
Shilacci non solo non aveva accettato l‟omosessualità del
figlio, determinando una rottura con lui e chiudendosi a
qualunque comprensione, ma, come incresciosamente
rivelò l‟incontro con i giornalisti nei pressi della casa in cui
l‟assassino aveva trascorso l‟infanzia, pareva avere un
rapporto limitato in genere cól mondo; e, stando a quello
che traspariva del suo aspetto mentale (“I‟m the actress,
okay?”), sarebbe stato presumibilmente lo stesso
qualunque figlio avesse avuto e in qualunque dei mondi
possibili si fosse trovata a nascere. Quanto al padre
filippino, peggio che andar di notte: aveva lasciato la
famiglia troppo presto, i suoi ricordi riguardavano solo il
figlio adolescente, come altar-boy e come quel portentoso
tredicenne che lesse tutta un‟enciclopedia, from cover to
cover.

Difficilissimo, probabilmente, compulsare a questo scopo le


amicizie e la clientela: non tanto per protezione della
privatezza, quanto proprio per la natura, del tutto
meccanica, delle relazioni che possono essere intercorse
tra Andrea Filippo e tutti gli uomini con cui intrattenne
relazioni sessuali. Rimanevano i quattro ammazzati; il più
giovane dei quali, un architetto, aveva per la verità già una
relazione stabile con altro uomo, pure professionista;
definito dall‟Indiana come hard-working e perbene, fu
ammazzato proprio in un periodo in cui stava discutendo
con il proprio compagno circa la possibilità di continuare a
frequentare AFC, che gli era parso ravveduto sulle
pregresse scelte sbagliate.

Eppure, alla vigilia di uno degli ammazzamenti, AFC e un


ex avevano avuto una discussione tremenda, durante la
quale AFC aveva chiaramente mostrato fino a che punto
potesse perdere il controllo nell‟ira. Fortunatamente si era
trattato solo di una telefonata, della quale la ventura
vittima aveva detto che la voce di AFC in quell‟occasione
era sonata come quella di una bestia braccata, o come
quella di un essere la cui vita è seriamente minacciata. AFC
era, presumibilmente da sempre, una polveriera che una
piccola scintilla poteva far esplodere, seminando, come in
effetto fu, morte e distruzione; ma non è questo che
importa. Come non importa nemmeno molto il fatto che
avesse una personalità repressa; la landmistress, la
padrona delle houseboats dove AFC aveva fissato l‟ultima
dimora, ricordava quanto fosse sempre compìto & educato,
e fosse tutto uno yes, madam, thank you, madam. Quello
che maggiormente colpisce è che nell‟ira era come un
animale che lottasse per la propria sopravvivenza. Ed è
questo contrasto con l‟architetto, che aveva trasferito nel
lavoro qualunque possibilità di realizzazione esistenziale –
posto che sia la soluzione – ad essere in qualche
illuminante: da una parte lo hard-worker in teoria ci si
presenta come un omosessuale che ha provveduto a
costruirsi un‟esistenza il meno minacciata possibile;
dall‟altra AFC, inesorabilmente perduto in bassi commercî,
non è forse proponibile come segnacolo vivente – finché
visse, è chiaro – di quello che può minacciare l‟equilibrio di
un omosessuale se non si vota ad una vita di hard work?
Naturalmente, lo hard-worker e il bagascio si
frequentavano; ciò che vien facile attribuire ad una scarsa
propensione da parte di entrambi ad accettare le proprie
condizioni esistenziali, come condizioni ingrate e diverse da
quelle di persone più fortunate – cioè eterosessuali: è
pieno così di uomini che campano alle spalle di donne,
magari non onorevoli, ma non così minacciate come può
avvenire per un Cunanan: AFC poteva benissimo avere
rimpianto per una vita regolare, per una posizione ed
entrate sostanziose e sicure; l‟architetto poteva avere
rimpianto dell‟abbandono alla corrente, della sfida al
mondo, della fiducia nonostante tutto nei confronti del
proprio simile. Sono tentazioni in cui chiunque può cadere,
e cade in effetto purché ne abbia motivo; ma la posizione
pericolosa di AFC, la sua compromissione, la mancanza di
un calcolo, di una strategia di sopravvivenza rendono il suo
rimpianto in qualche modo eroico; mentre è proprio la
strategia messa in atto dall‟architetto, il debito pagato alla
società per la propria omosessualità, l‟accettazione delle
condizioni magari non direttamente avverse ma più
faticose e in ombra, a rendere il rimpianto, per parte sua,
borghese, con tutte le implicazioni possibili quanto a
pelosità, ad ambiguità, a contorsioni anfibologiche, a –
insomma – doppiezza sostanziale, data la capacità
borghese di rimanere sempre in bilico tra ammirazione a
denti stretti e disprezzo temperato di pietà. Anche quel
rapporto, pare, era qualcosa a cui sopravvivere.
Non stupisce il fatto che gli omicidî di AFC non abbiano
suscitato reazioni particolarmente risentite dall‟altra
sponda: i quattro morti fatti da AFC erano tutti
omosessuali, pareva più che altro una questione interna.
Quindi non stupisce nemmeno che le manifestazioni di più
becero furore, prima e dopo la morte dello spree killer,
siano venute da parte omosessuale. Facilissimo dire che
AFC era un omosessuale che non aveva accettato,
specialmente caduta la tesi dell‟AIDS (ma non quella della
perdita della freschezza giovanile – che mi pare anche un
po‟ una stronzata, non tutte le fotografie lo mostrano in
forma ideale, ma AFC era piuttosto fresco anche da
cadavere), la propria omosessualità, o le conseguenze della
propria scelta estrema, che poi è la stessa cosa; ma non è
la facilità di questa lettura che m‟ha indotto a respingerla.
Che AFC avesse qualcosa di diverso, portasse implicazioni
non riconducibili a nulla di facile, è stato evidente a tutti. Di
qui l‟interesse riscosso da una parte e dall‟altra dell‟oceano
ben prima che Versace cadesse sparato a Miami; anche se
non tutti se lo sono spiegato razionalmente.

Non che AFC abbia lasciato traccia solo in me, stando ai


bollettini che inseguirono AFC per una buona fetta di USA,
alle reazioni di molti, a caldo e a freddo, in rete, e anche a
quel telegiornale del 15 luglio 2007, in cui lo spazio dato
alla morte dello stilista e all‟assassino era praticamente lo
stesso. Mi sono fissato mentalmente il 23 seguente come
data in cui buttar giù poeticamente qualche noterella circa
quello che di AFC ricordavo. Dieci anni prima, quando
ancóra tutti i miei equilibrî familiari ed esistenziali erano
intatti, l‟intenzione era stata un‟altra, e cioè quella di
dedicarmi lungamente ad AFC, con un‟opera, nientemeno,
di qualche respiro. Le profondità che mi sembrava di
scorgere nella sua figura, e soprattutto le implicazioni
metafisiche della percezione di una profonda duplicità del
fatto – l‟antitesi, quale potevo percepirla allora, cioè
confusamente –, tale per cui l‟atto compiuto, ributtante e
brutale, assumeva automaticamente una sua ragion
d‟essere profonda e vitale in un‟altra dimensione, non
affatto o meno percepibile, mi parve del tutto ispirante.
Impossibile, chiaramente, persistere nell‟interesse per la
vicenda senza lasciare in giro qualche traccia di un mio
evidente coinvolgimento morboso, sicché stetti
abbottonato; e cominciai, ed è la cosa peggiore da fare, da
un punto di vista strettamente pratico, a concepire
quest‟impegno [ma mica era il solo!] in prospettiva
ovviamente futura. Mi limitai a raccogliere ritaglî di
giornale, a buttar giù qualche considerazione scritta e a
chiudere tutto in un cassetto. Non so nemmeno se mi
rendessi conto che sia la mancanza di esperienza sia la
mancanza di elaborazione mi avrebbero messo
immediatamente alle corde; ma non essere in grado di
affrontare un argomento non vuol dire non rendersi conto
della sua rilevanza. E il come mai questo stralcio di
vicenda, dolorosa e violenta, fosse in sé rilevante, mi era
tutto sommato visibile già allora, benché non come adesso
che non mi pare più il caso di tornarci sopra.

Due anni dopo gli equilibrî suddetti erano andati a farsi


benedire, e vivevo in modo che solo esteriormente poteva
sembrare senza soluzione di continuità rispetto a prima;
eppure, tra altre questioni che continuavano a premermi,
quando scopersi le possibilità della rete, riservai qualche
spazio anche ad AFC; il progetto, piacevole perché
delirante, una barocca sfida, di affrontarne poeticamente la
figura si rivelava semplicemente fatale: la stessa natura
profondamente antitetica, a tutti i livelli, delle
problematiche che sollevava non poteva essere affrontata
in prosa, nemmeno analiticamente – se fossi stato un
saggista o un giornalista, chiaramente, avrei scelto quella
strada, ma, appunto, non era la mia. Come già detto, via
amazon mi feci spedire gli unici tre testi che lo
riguardavano, e che naturalmente sarebbero rimasti gli
unici e i soli, li lessi con l‟intenzione di procedere – non
conosco a tutt‟oggi nessun altro metodo – allo spoglio dei
nudi dati e al loro ordinamento crudamente cronologico,
dopodiché avrei proceduto ad elaborare, prendendo la cosa
da varie angolature, secondo che mi veniva fatto. Se non
ne feci nulla non dipese affatto dal taglio a tratti ributtante
ed antipatetico delle narrazioni, ma dalla loro oggettiva
povertà d‟informazione. Chiaramente non m‟interessava
affatto che le analisi sociosessuali dei trattanti non fossero
all‟altezza: la mia analisi era quella che premeva. Purché ci
fosse qualcosa su cui lavorare: e non c‟era quasi niente, se
non le opinioni delle poche persone normali che l‟avevano
conosciuto: del suo recours à l‟abîme non c‟erano tracce di
qualche spessore. La necessità di risolvere ogni questione
su un piano simbolico è talmente prepotente, in poesia,
che sicuramente mi sarebbe venuta ispirazione ad
inventare, se solo avessi imparato a conoscere AFC
sufficientemente, fino a farlo muovere e parlare davanti a
me; ma altri progetti mi risultarono più immediatamente
fattibili al momento; un‟esperienza odiosa di servizio civile
(2000) mi riavvicinò nuovamente a quei poveri tre libri, che
mi confermarono nel primo interesse e che poi accantonai
dopo una veloce rilettura. Fino al 2007, se l‟idea è
riaffiorata in me, è stato sempre nei momenti in cui
m‟occorreva penetrare lucidamente le modalità, più che le
cause (arcinote; che altro c‟è da sapere?), di una discrasia
con l‟ambiente; nel 2007, in quella casa di merda a
Grugliasco, si determinò la concomitanza tra una discrasia
a varî livelli da una parte e, dall‟altra, il memento costituito
dal necrologio al telegiornale; ma da almeno quattro anni i
libri e le stampe e i ritaglî che mi sarebbero potuti servire,
posto potessero ancóra, erano andati dispersi.

A quel punto potevo solo rendermi conto di quanto la


vicenda essenziale di AFC fosse a sua volta invecchiata –
fosse cioè comprensibile e dabile solo in quegli anni „90, e
dieci anni dopo fosse diventata altamente improbabile,
fuori contesto. Mi resi conto che sarebbe dovuta essere
una tappa della mia maturazione, o una delle scelte
fondanti, e anche definitive. Se non m‟ero deciso, allora,
nonostante l‟importanza simbolica di questa vicenda di
cronaca, a portare a compimento nulla di mio in merito, è
perché questa scelta non era stata fatta; scelta radicale
che allora non mi sentii di fare, non per la scelta in sé, ma
perché non volevo precludermi altre possibilità,
evidentemente. O fors‟anche perché il mondo stava
cambiando più rapidamente di quanto io lucidamente
registrassi, e conferendo importanza, al momento
tutt‟affatto meritata, a quella cosa, avrei corso il rischio di
rimanerci legato, se non per sempre, per un tempo troppo
lungo.

Dato che sono condannato a riallacciare le fila con tutti i


progetti che abortisco, anche questo l‟avrei affrontato per
senso di dovere e insieme con senso di liberazione.
Chiaramente un poema heroico a questo punto sarebbe
stato del tutto fuori luogo: in primo luogo non ne avevo né
il tempo né la lena – anzi, non avevo lena affatto, e stavo
combattendo per qualcosa d‟altro, che ai tempi del
progetto di AFC non potevo nemmeno supporre. Essendo
un progetto morto, potevo rappresentarlo, appunto, da
morto. Un‟ode funebre è quella che ne è uscita: per AFC e
per quello che su AFC avrei voluto scrivere, o di AFC avrei
voluto fare; e questo dovrebbe spiegare le campane
(appunto) a morto delle anafore – ne manca una, peraltro,
come si noterà, e ci sono buchi anche nelle strofe, che
dovevano essere 49, divisibili in 7 gruppi di 7 in base alle
iterazioni iniziali, secondo lo schema ABaBCDCEED. Non ci
fu il tempo di celebrare nemmeno questa specie di funerale
privato, perché la scoperta della scomparsa di un cumulo di
miei scritti, per un dispetto o una disattenzione – ma credo
più per un dispetto, perché nessuno in quel periodo aveva
accesso alla stanza, che dividevo con un ragazzo
valdostano molto brutto, e non c‟era nessuno che venisse
dall‟esterno a fare le pulizie o cose del genere – mi rese
proprio in quei giorni incapace di scrivere. Sembra
l‟impegno più semplice, e i suoi frutti sembrano i più facili
da conservare – anche perché un‟invenzione non dovrebbe
interessare nessuno; e invece la strana vita in cui mi
ritrovo a vivere comporta anche questa difficoltà, a tratti
impossibilità.

La tentazione narrativa è rimasta percepibile nel


componimento, che fu steso per la prima metà la sera del
23 luglio, e per l‟altra metà – dico della parte superstite,
ovvio – la mattina seguente, del 24. Non so che cosa avrei
fatto, entro la fine della xlix strofa; ma mi tenni aperta la
possibilità, fino ad un certo punto, di poter riutilizzare in un
secondo momento le 49 stanze come proemiale di un più
lungo lavoro, cioè di trattare l‟ode come un‟unità interna
dell‟auspicato poema; l‟impossibilità contingente di arrivare
fino in fondo a questa prima unità naturalmente fece
svanire qualunque velleità circa la possibilità di prolungare
indefinitamente. Ma l‟idea dell‟utilizzo della strofe, che bene
o male è in sé lirica, come strofa di poema non era da
buttare; perché se c‟è un problema, a riguardo del verso
narrativo, è proprio quello dell‟unità strofica, che
paradossalmente può essere, dipende da come la si
gestisce, meno monotona quando è ridotta all‟unità minima
che quando è una strofa articolata – la quartina e l‟ottava.
Sennonché il distico presuppone appunto un trattamento
estremamente vigoroso e brillante, che certe umbratilità
del mio modo di impostarmi mentalmente il tema
rendevano fuori registro – si può benissimo impostare un
poema dedicato ad AFC come una giostra degli orrori, o
una sequela d‟immagini dalle paste acide, ovviamente, ma
non era mia intenzione farne un piccolo monumento
tardogotico, dato che preponderante, nella mia maniera di
accostarmi al tema, era una quantità di riflessioni
abbastanza sconsolate. L‟ottava decisamente è troppo
rigida, e impone una poesia fatta di cose, totalmente
materica; e io volevo riservarmi spazio sufficiente al
ragionamento, svincolandomi quandunque ne sentissi la
necessità da istanze troppo pressantemente narrative, e
materiche, e fattuali. La più flessuosa strofe di pindarica
poteva avere una sua ragion d‟essere, dunque, anche in un
poema o un poemetto: automatico pensare a un tot di
“canti” da 49 strofe, ognuna di 10 vv., ovvero ciascuno di
490 versi; 10 soli canti avrebbero voluto dire un poemetto
di 4900 versi; un componimento di 49 canti, secondo una
progressione del tutto aritmetica, non avrebbe portato a
più che 24.010 versi, che è circa la dimensione
dell‟Innamorato o del Morgante, ed è un po‟ più della metà
di lunghe avventure poetiche come il Furioso o l‟Adone. Il
tutto, mi affretto a precisare, nel mio solito disinteresse
circa l‟esser letto o non esser letto – non è quello, certo il
problema; ma con la preoccupazione, quella sì, che
l‟argomento fosse eviscerato come ritenevo dovesse.
Quest‟obbligo di realizzare un‟esatta intenzione non
avrebbe rappresentato una difficoltà accessoria, per quanto
potesse rallentarmi nell‟esecuzione del disegno; sì poté
rappresentar ciò tutta quella serie di incidenti. Da ultimo,
avendo interrotto la composizione, pensai almeno di
copiare e salvare su dischetto il manoscritto; non portai a
compimento nemmeno questo modesto progetto: sul
vecchio Mac esisteva un file dal titolo AD ANDREA FILIPPO
CUNANAN, ma era rimasto vuoto. Poi sparirono, in
successione, e il manoscritto, e il Mac, rubatomi in
biblioteca in un momento di distrazione.

Un problema che non mi sono posto è quello del mio tipo e


grado di coinvolgimento con il personaggio di AFC.
Riconoscere in un personaggio il portatore di una
problematica, e in quel personaggio il portatore di massima
risonanza, per così dire, non costituisce di per sé
ispirazione poetica sufficiente: ci vuole un moto di
simpatia, un senso di condivisione, per quanto combattuto
e dolente, che nel suo caso non mi è mai mancato, sin dal
primo momento che passarono per tv la sua fototessera,
nel primo telegiornale da me visto che desse spazio alla
sua vicenda. Semmai, frustrata rimase la mia intenzione di
procedere in senso analitico su un materiale certo e
‟storico‟, cioè cronachistico, rigoroso; avrei voluto avere
tutto il necessario a disposizione, e poi tappare i buchi,
come i vecchî romanzieri cinesi, complementando in base a
quello che mi sembrava verosimile quello che nei resoconti
mancava. Ma, ripeto, la pubblicistica in merito non m‟ajutò
affatto; e inventare sarebbe stato per converso inutile,
dato che la mia intenzione era proprio quella d‟indagare
sulla realtà. Fu ingenuità, la mia, perché le problematiche
non sono mai eviscerate per filo e per segno, e nemmeno
per l‟essenziale, finché si stanno producendo; l‟unico che
avrebbe potuto enucleare la questione, risalendo alle
emergenze più significative della propria vita, poteva
essere solo lo stesso AFC, o una persona a lui vicina dotata
di straordinaria capacità di penetrazione. E la letteratura
che lo riguarda, legata per giunta alla notizia ancor fresca,
è stata, del tutto prevedibilmente, troppo modesta,
superficiale e insulsa per permettere una simile
ricostruzione, per quanto circospetta, scrimitosa e paziente.
Si trattava, poi, di distanza culturale, esperienziale. Non
nego alla mia capacità di penetrazione l‟eventualità di un
successo in questo senso nel caso in cui avessi avuto la
possibilità, non del tutto a caldo ma nemmeno a troppa
distanza dai fatti, di verificare di persona gli eventi
attraverso le persone più o meno direttamente riguardate:
ma non è ufficio mio, e sarebbe stato da una parte troppo
pretendere e adoperarsi, dall‟altra un uscire di tema: avrei
potuto confezionare un ottimo resoconto, tanto più
illuminante quanto più inconciliabile con qualunque poesia.
I casi della vita, come in tante altre circostanze, hanno
congiurato a non farmi pervenire a nessun esito definitivo;
ma la possibilità materiale di arrivarci mi avrebbe
dimostrato che era comunque impossibile.
AFC, in tutto questo, rimane un‟apparizione improvvisa,
una meteora impazzita, in grado di sollevare un
rilevantissimo problema in modo plateale e in certo senso,
in questi anni, perché no?, addirittura ‟superato‟ – temo più
per un deciso peggioramento delle circostanze che per un
progresso effettivo. È stato, non l‟unico e il solo, ma certo
l‟ultimo, a ben guardare, che abbia portato l‟intollerabilità
della sua condizione esistenziale all‟attenzione del mondo
tra schizzi di sangue, e la sua vicenda ha ancóra uno
strascico amaro e realmente tragico; dove la condizione
eroica coincide con la solitudine – ipo-, e non apo-geica –,
garantita dalla condizione esistenziale e dalla mancanza
totale di un retroterra e di validi punti d‟appoggio, in
compresenza d‟un orgoglio satanico lasciato inutilmente al
mondo perché lo calpestasse; dove il destino tragico è
costituito dal pregiudizio, quel dover-credere-così-perché-
le-cose-siano-così, ed è questo che ne fa l‟unica efficace
sopravvivenza della magia nera nella contemporaneità;
dove il turbamento di uno status quo ante è garantito dalla
tenacia con cui un ricordo, almeno nei casi più
direttamente implicati, rifiuta di precipitare nell‟oblio,
mantenendosi anzi ben inciso in talune memorie.

Ma AFC, come figura, è fatto solo per sollevare il problema,


nel suo brutale grado zero, non certo per risolverlo. E, no,
non è un limite suo: io credo che solo una feroce lucidità,
una spaventosa consapevolezza possano averlo condotto a
compiere più volte il gesto estremo, e non una presunta
incapacità di trovare “soluzioni” in altre direzioni (quali? Chi
mai ha “risolto” il problema?). Volgendo le armi contro chi
condivideva, apparentemente da posizioni più privilegiate,
parte del suo modo di essere, non ha né dato prova di
non-accettazione della propria sessualità, né ha inteso
punire alcun ipotetico tradimento: ha ribadito, per l‟ultima
volta prima di cedere al peso del proprio, la presenza
esclusiva del vuoto esistenziale ed essenziale in un numero
casuale di omosessuali, a lui noti o ignoti, imponendo nel
modo più esecrabile possibile, e quindi il meno ignorabile,
la questione tabù della nostra infernale dipendenza – di
tutti, nessuno escluso – dal gioco delle opportunità – come
porta che può aprirsi una volta, poche volte, mai –,
dall‟opinione corrente, dalla scelta altrui. Il tempo stesso
gioca a vantaggio del pregiudizio, selezionando una dorsale
sempre più sottile di tipologie sempre più compatte, e
rassegnate, di outsider sempre più solo nominali: tutti gli
altri, eccettuati i pochissimi che uccidono (beh, per
fortuna), scivolano, semplicemente, fuori dalla vita,
diventando invisibili in molti e non necessariamente
incruenti modi. Rimane sempre la possibilità, per lo hard-
worker, di ovviare a quel vuoto con un compagno mite e
stempiato, e con l‟intossicamento aziendale; ma ho detto
ovviare a, non colmare. AFC è stato l‟ultimo a diventare un
mostro come conseguenza esclusiva di una condizione
sessuale, e – per conseguenza profondamente non voluta
– esistenziale. Per quanto ripugnante sia il crimine, una
volta commesso è data solo una cosa più ripugnante
ancóra: vanificarne la scandalosa portata, l‟orrore,
sciogliendone il significato in una diagnosi di sociopatia, di
follia omicida, di compulsività paranoide – rendendolo, per
giunta, di nuovo e di nuovo possibile, solo che il solenoide
dei probabili torni nuovamente, come farà sempre, prima o
dopo, a incurvare in giù o ad innalzare la propria linea,
mutevole e sempre uguale a sé stessa.

È un caso-limite, e ha tutti i – chiedo scusa per il bisticcio –


limiti del caso-limite: da una parte non può assurgere a
regola di nulla, dall‟altra però è universalmente significativo
perché rappresenta l‟esasperazione di qualcosa che
riguarda tutti.

Tutto questo più per concludere un discorso molto tempo


fa iniziato, in anni che sembrano distanti ère geologiche da
GayPride varî, e dibattiti su pacs e dico, ma non affatto
perché questi abbiano segnato un mutamento positivo nel
costume, ma, al contrario, perché rappresentano tanti
piccoli spostamenti dell‟attenzione dal problema
fondamentale, che è un problema disperato: l‟unico
cambiamento dirimente per gli omosessuali non essendo
affidato a loro, alla loro capacità di elaborare modelli di
comportamento, di fare scelte di vita funzionali o di mutare
il proprio atteggiamento nei confronti della comunità di cui
sono a varî titoli parte, ma alla piena accettazione da parte
del contesto: una circostanza dalla quale siamo
lontanissimi, non nel senso che essa paja indefinitamente
lontana nel futuro, ma nel senso che, assai peggio, appare
totalmente fuori contesto, al punto da non parere
nemmeno auspicabile da parte di molti omosessuali, che
condividono con il contesto la sensazione, diffusa a tutti i
livelli nei nostri anni, di giochi ormai conclusi, di conquiste
ormai sostanzialmente conseguite – tanto da lasciarci liberi
anche di optare, a volontà, per una leggera, superficiale
involuzione. È un‟umanità, in genere, ormai del tutto
stanziale, propensa alla costruzione di reti private di
rapporti interpersonali e intesa in genere alla
comunicazione di segnali di rassicurazione:
preventivamente, cioè, vôlta ad eliminare il problema dal
proprio campo visivo più che, veramente, dai proprî
orizzonti, o ad abbracciare nelle proprie prospettive solo
modelli e schemi limitati e funzionali alle esigenze più
elementari e immediate. Normale sistole di una tendenza,
durata anche fin troppo, all‟adozione se non
all‟elaborazione di schemi di ampia portata, è una tendenza
che tuttavia lascia tutto quanto non è stato risolto in
precedenza allo stato di magma incontrollato. Il timore
preventivo che un‟attenzione troppo pronunciata a certi
meccanismi sia foriera di conseguenze violente o
incresciose, quasi che esse non fossero nei fatti, ma in chi
li investiga – anche se alla presa di coscienza dovrebbero
sempre o quasi sempre conseguire azioni – trasformano
certe questioni, che si credevano solamente vecchie, in
roba da preistoria; senza che da allora si sia fatto un passo
in avanti.

Ma anche per chi scrive tutto questo, al meriggio pieno,


abbacinante in cui si è consumato il suo crimine privato, è
subentrato da anni il crepuscolo dell‟assuefazione, quella
penombra che sola è in grado di far distinguere con
chiarezza gli oggetti: ma è chiaro che è il meriggio l‟ora
giusta, non il momento che precede di poco il declino del
giorno.

Quanto ho scritto in merito è troppo lungo e articolato per


poter essere considerato un semplice „cappello‟ a quello
che segue; che non merita assolutamente, peraltro, troppo
approfondite precisazioni e inquadramenti, giacché si tratta
di cosa modestissima. Gli è che mi correva l‟obbligo di
mettere in chiaro, più per me – mi dispiace! – che per chi
passa di qui le ragioni, non per le quali un simile
argomento m‟è parso poetabile – poteva essere solamente
un capriccio, se è solo per quello –, sibbene i motivi per cui
mi ha accompagnato per tanti anni senza peranco portare
ad alcun risultato sensibile.

Se non quel mazzetto di versi, brutti, va da sé – quali versi


miei non sono brutti? – che seguono. Mi sembra infatti
doveroso, per quanto sia totalmente inutile, far presente
che essi non sono affatto all‟altezza di quello che avevo in
mente; ma riflettono i precedenti e altri ragionamenti, e poi
sono frutto di un fortuito ritrovamento, a cui volendo potrei
anche riferire alcunché di fatale. Dopo aver tutto e
regolarmente perduto, mi parrebbe ὕβρις allo stato puro
risbatter via quello che contro ogni speranza ho ritrovato.
Per me è come salvare quel mazzetto di foglî superstiti,
innanzitutto; che decifrerei, trascriverei, salverei anche se
avessero contenuto tutt‟altro, e di rilevanza ancor minore.
Trattandosi di questo, a maggior ragione decifro e trascrivo
e posto; senza ovviamente correggere le asimmetrie o
smussare le asperità o integrarlo in alcun modo: dato che il
destino ha voluto, questa è la forma in cui questa cosa
deve fatalmente comparire, sia che qualcuno (e ne dubito;
ma non importa, affatto) sia interessato, sia che no. Inoltre
mi sarebbe impossibile, ormai, metterci le mani in
qualunque modo.

Ad Andrea Filippo Cunanan.

(31 agosto 1969-23 luglio 1997)

1. Sì; è questa sera: scorsa mezzanotte,


Mentre il frastuono – dura da due ore,
Tre ore –, e ininterrotte
Le vibrazioni dell‟unz-unz, l‟ardore
Falso, o alcolico, di motti e di risa,
E vaga e onnipresente la funesta
Ombra dell‟impotenza quasi uccisa
Han surretizia volontà autoimposta
(Che poco può, ma molto sangue costa)
Già vessata dal re dei mal di testa,

2. È questa sera, in cui al patimento


Della felicità greve, infelice,
Anche il caduto vento
S‟aggiunge, e l‟afa aspra tormentatrice;
In cui l‟aere, che ha il piede incatenato,
Fa sì che al foglio riempia ogni vivagno
Variando il carme sempre riniziato,
Nell‟amarezza mia, cupo ristagno,
Che alle basi corrode il tralicciato
Tenue dell‟equilibrio risicato;

3. È questa sera, in cui torbida vena


Aprendo in faccia al mondo, il mio disdoro
A due pagliuzze d‟oro
Prese nel mezzo alla melmosa piena,
Premendo in cuore l‟astio ed il sospetto,
Non ascoltando il disinganno atroce,
Di scongiurare timido commetto;
E sciolgo incerta & arrochita voce;
E ancóra grazie, se infiochiti i canti
Scordan la scaturigine nei pianti;

4. È questa sera in cui, stizze volanti,


Anche i mordaci insetti noje aggiungono
Mentre a frotte mi pungono,
Attratti dai grafemi sfarfallanti
Sullo schermo racceso spesso, e spento,
Giusta le intermittenze della musa,
O quando a toglier virgole, o un accento
A porre, o intorno a un giro che non s‟usa
Più da quasi un millennio a interrogarmi
Non sto; è questa: potrei mai sbagliarmi?

5. È questa sera, in cui steso stremato


Sul letto, intendo funebri rintocchi,
Né oso girar gli occhî,
Benché dai ritmi l‟aere saturato
Sia dalle ingrate solfe popolari;
E dimentico infine del fracasso
Di sedie smosse e rudi conversari,
Mi sento il cuore, benché già di sasso,
Opprimere di pena. E poi m‟appari,
Ombra a cui domandare altro non vieta
Che inanità, ben tutta ombra segreta.
6. Questa è la sera; in cui tutto mi dice
Che non soltanto questa che trascino,
Ma, dato il mio destino,
Ogni esistenza avrei tratta infelice:
Che non saperi, genio no, non forma
Proporzionata, non pietà, non forza,
Non facoltà d‟imprimere fond‟orma,
Non quanto non inscrive questa scorza
Fragile, e nata pronta per la morte,
Nulla avrebbe mutato la mia sorte.

[7a.] <…>

7b. Eri l‟eroe di certa sconciatura


Di mio poema heroico – altra protesa
Sul mondo ombra inattesa –,
Mi parve ineditissima fattura:
Sfondo di palme verdi e mura bianche,
E auto di lusso e lùbriche avventure
E inconfessati abissi d‟idee stanche,
Speculative incòndite torture:
E avevi in volto sufficiente vuoto
Da animarlo a pro mio, secondo il noto.

8. Eri l‟eroe della mia miniserie


Preferita in tivvù – all‟ora dei pasti
Io puntualmente i tasti
Premevo del comando, e le miserie
Familiari inseguivo, e la tua forse
Pazza madre, e fallito il padre, e ontosi
Ricordi dei compagni, e le risorse
Superiori alla media, e (i teste ombrosi
Concordavano in ciò), a quel che pare,
Su cui dev‟essere obbligo contare.

9. Eri l‟eroe i cui promettenti giorni


Striò d‟accidie con ombrie di lutto
La Vanità del Tutto,
Non estranei può darsi i primi scorni;
Il tuo tesauro letto integralmente,
I filosofi amati, tutto, invano
Compulso e meditato ingenuamente,
Prima di dar risposte, di tra mano
Ti sfuggì, salvo un foglio o due negli anni,
Pirausta in forgia dei tuoi disinganni.

10. Eri l‟eroe che in sé l‟émpito enorme


Sentendo, in sé lo volse, e in vesti chiare
Cól servire l‟altare,
Le brame occultò oscure, e non difforme
Dai dettami del prete, al suo sacrario
Approfittò per chieder qualche lume
All‟ente superiore immaginario;
Di vino zuccherino tutto fiume
Vide scorrere, e le ostie sbriciolate
Duemila salme avrebbero colmate;

11. Eri l‟eroe che appese alla fredd‟ara


Ogni perché, e risposta attese; e il cielo
Con silenzio di gelo
Gli rispose; e gli fu del pari avara
Di lumi l‟evangelica finzione:
(Sferiche perfezioni, alme e feconde
Non sanno di pietà, o consolazione;
E a notte alta, splendide e profonde
Le azzurrità dei cosmi a te rapito
Richiamo ripetevano, & invito).

12. Eri l‟eroe, tu, che intuì nel cuore,


Innocente e spietato, delle cose
Le forze poderose
Mosse ed avvinte dal comune amore;
Che non sanno precetti, che a comandi
Non sottostanno, che hanno insciente e forte
Crescita senza téma, e fatte grandi
Son tutte vita, e muojono ogni morte,
Vampa che pure spenta il Tutto alluma,
E inconsumabilmente si consuma.

13. Eri l‟eroe che ad ingrandire accinto


L‟anima incontenibile e felice
Dall‟invida pendice
Fu assorto nei suoi crolli, e al masso avvinto,
Ennesimo Prometeo preventivo
Senza saper perché, tra pianto e sdegno,
Semimorto captivo ossia malvivo
Mai diede corpo al flammeo disegno;
Negli occhî degli altri uomini, ahinoi, sono
Vita, speranza, slancio ed abbandono.

14. E i tuoi occhî che in trono in biondo viso


Eran capaci dei più intensi lampi,
Gli occhî che i campi
Scorrevano del fondo paradiso
Quasi ogni notte aperto a noi nei cieli,
Gli occhî aperti alla vista e alla visione
Volgesti in occhî altrui, specchî di geli,
Plumbei veli, maestri d‟oppressione,
E, come già tropp‟altri, avvinto al masso,
Li fissasti solo alti, o troppo in basso.

15. E i tuoi occhî gentili, affascinati


Per natura dal guizzo delle cose
Tènere e luminose,
E ad un tratto stornati e allontanati
Dal convincersi che, no, tra le belle
Cose prive di peso ed innocenti
Non c‟è posto per te, e persino a quelle
Sarà insegnato a emettere lamenti
Quando d‟avvicinarti farai prove,
Come fece Marpessa in grembo a Giove;

16. E i tuoi occhî severi, fatti all‟uopo


Per sceverare il buono dal malvagio
E veglie di disagio
Destare all‟atto reo, al meschino scopo,
Come abbassasti quando ti s‟apprese
Che tra famiglia; circoli; commercî;
Istituzioni; popoli; e (sei) chiese,
Come i relitti umani, e dei più lercî!,
A malapena a due, tre appartenessi;
Purché gl‟infimi posti vi tenessi.

17. E i tuoi occhî perversi, balenanti


Delle più smisurate cupidigie,
Le reprimende ligie
S‟avevano di poi sempre davanti
Dei benpensanti a cui di snaturato
Nulla si vieta, e a cui ogni misura
Ridotta è al velo dell‟impalesato,
E ai flati di famiglia, e di natura
(Le stesse, alle stessissime animacce,
Da stiparci empietà fruste bisacce!).

18. E i tuoi occhî pudichi, vergognosi


Di spettacoli osceni, ahimè oltraggiati
Dai nervi prolassati
Di preti obesi, e vecchî biascicosi!
Oh sconsolato Andrea, cui tenerezze
Deve l‟aurora della vita amara,
Quanto anzitempo, largo di schifezze,
Ai suoi orrori il mondo ti prepara!
Quanto anzitempo spenti gli entusiasmi
Dal contatto obbrobrioso coi marasmi!

19. E i tuoi occhî curiosi, fatti apposta


Per cercare il perché di tutto, o quasi,
Ripiegati sui casi
Tuoi inestricabilmente – ah quanto costa
Neoplatonico more, quando unito
A basso ceto e povertà paterna!
Sicché lo sguardo edace impoverito
Sia di quanto ci dà vicenda eterna
Di bello e brutto immensurato il mondo!
Occhî acuti abbassati in cieco fondo!

20. E i tuoi occhî ridenti senza téma,


Senza passar dal necessario pianto,
Disillusi frattanto,
Perduta la felicità suprema
Di fissarsi sul Tutto ingenuamente
Con sardonico rictus le querele
Intime censurando ostile e ardente
Presero il lampo che idolo crudele,
Fissa sulle ostie, sicché il balenio
Pari negli occhî ebbe & l‟offranda, e il dio.

21. Eri bello, di quell‟essere bello


Ch‟è fatto per brillare un‟ora sola;
Come cosa che vola,
Come cosa che intorno a qualche avello
Fiorisce o aleggia, a consolare invano
Quella che avrà sua propria sepoltura,
Come cosa che l‟incontrare è strano,
Sfuggita per un caso alla testura
Scrimitosa per solito del vaglio
Ch‟arduo è travada mai per qualche sbaglio.

22. Eri bello, ma fragile, parvenza


Tenue di scolorito paravento
Sotto il falso ardimento
Di via via meno nitida evidenza;
Ché quanti più rodeva il Tempo gli anni,
Tanto più consumava un freddo fuoco
Dall‟interno gl‟inconfessati inganni,
Tanta meno allegria avvivava il gioco;
Fu morire avvedersi che alcun‟arte
T‟avrebbe schiuso asili in qualche parte.

23. Eri bello, ma l‟inveduta soma


Dei popoli scaduti, o antico morso,
Ti gravava sul dorso;
Dalle periferie tu del genoma
Giunto; & in seno a libertà ineguale
Denunciava il tuo ceto ereditario
La stessa obliqua tua grazia orientale;
Estrazione e livello censitario,
Tutto era chiaro nei tuoi tratti infidi,
Subalterno retaggio d‟altri lidi.

24. Eri bello; e le fumide promesse


D‟un avvenire in aule polverose
In mezzo a carte annose
Null‟avevano in sé che t‟attraesse;
Spontaneo amore attratto aveva invano
La precoce attenzione all‟erto vanto
Di slancio alzate dall‟ingegno umano;
Altro non c‟era che gettarlo a un canto,
Reso necessità: venne in sospetto,
Dovendo mendicar vita e rispetto.

25. Eri bello: a che pro al tempo commessa


Una felicità d‟ora negata?
Investire a che pro, se è già passata
Virtualmente la vita a te concessa?
Perché amare, se, eterna ombra alle terga
Traendo, ti rammenti quel motivo
Per cui solo odio dentro un cuore alberga?
Perché vivere, quando non è vivo
Se non ciò che avversione mai non priva
Di dignità, & di libertà nativa?

26. Eri bello, e il sorriso era uno squarcio


Nel volto a te, come squarciare suole
Nembo aggrondato il Sole;
Avevi il cuore tutto secco, o marcio.
E l‟anima insensibile al tormento
Che si voleva infliggere nel mondo,
Escogitò sottrarsi al patimento
Cól rifugiarsi in irraggiunto fondo;
Così per vendicare inulti torti,
Nel tornare, si mascherano i morti.

27. Eri bello, e lo sguardo ardimentoso


Del primo pelo e quello acre impudico
Proprio del vizio antico
Già si perdeva in te, non speranzoso
D‟altro che di sollievi ai patimenti
Del possessore dei medesimi occhî:
Oh non represse spasimi violenti,
Oh non guaì gemendoti ai ginocchî
E gioventù e canizie? Ed il tuo cuore
Non tacque forse al tuo parlar d‟amore?

28. D‟odio feroce esulcerato il petto,


Lo stomaco ed i lombi, glubescente
La puerizia fiorente
E la vecchiaja, ai sordidi costretto
commercî tutti, nei torbidi istanti
In cui rovescia al giudice interiore
Gli scranni impulso ardente negli amanti,
E nel lago degl‟incubi il rossore
Affogando risveglia il non confesso,
Sempre in non-te mutasti, oh dio, te stesso!

29. D‟odio feroce inebriato allora


In impeti, in sussulti la primeva
Rabbia si traduceva
Che il senno annebbia, e il volto discolora;
Infojato vampiro, ai tuoi diletti
Chiamando le agonie delle tue prede,
Tra laccî i membri torturati e stretti,
Di pene eletti capricciosa sede,
Infine tu il padrone, infine forte,
Dispensavi la vita, in uno, & morte.

30. D‟odio feroce, mai lenito, in notti


Allucinate intossicato, sfatto,
Tabescente ritratto
Di Ganimede, tossici corrotti
Altrui mescendo in coppa, sterminata
Serie d‟estenuatezze concependo
Sempre nuove, una folla strambasciata
D‟ostie all‟oscuro dio frante adducento,
Ridevi; e a te, tra te, con muto suono
Dicevi: Ma te no; non ti perdóno.

31. D‟odio feroce armato, non potendo


Dar sfogo ad esso sopra tutto un mondo,
Nell‟abisso profondo
Del tuo inferno ogni grido reprimendo,
Quella parte di mondo a te concessa,
Di piaghe avida carne a te immolata,
Le anime schiave – e la tua carne stessa,
Aperta l‟una, l‟altra deflorata,
Tutta avocavi in tuo potere; e il vanto
Per sempre in te seccò l‟urne del pianto.
32. D‟odio feroce cinto inutilmente
Eri, dunque; ché un mondo in leggi & arti
Doveva ammaestrarti,
E le ardue strade schiuderti arduamente
Del merito, e assegnare alle conquiste
Le faticose roveri; ma spinto
Tra oscure case e vie, tutte non viste,
Per quanto atroci, e di latebre cinto,
Luminoso benché, le imprese e te
Rimanevate occulti; e ha il suo perché.

33. D‟odio feroce spinto, al vero agone


Per sempre ignoto, invano audacemente
Cotest‟empia missione
Perseguivi cól corpo e cólla mente:
Era tutto perduto: e la distanza
Dalle luci tranquille delle case
Industri, e una generica ignoranza,
Altro che questo, oh Andrea, non ti rimase;
Se non pena più forte, e l‟accresciuto
Odio di decadente prostituto.

34. D‟odio feroce vittima senziente,


Da pervertito impulso travestito,
Dall‟orrido infinito
Della tua colpa verso te il veemente
Spirito distraendo, ancor più a fondo
Puntando disperando, estrema sfida
Plausibile per te (scarto del mondo),
Riscatto inverso & émpito suicida,
Chiedesti all‟imo d‟ogni odioso errore
Oblio alla mente, e fredda morte al cuore.
35. Tacque il mondo insensato; eguale terra
Arida e senza verde lo coperse;
Un ramo non s‟aderse
Contro di soli immoti ustoria guerra;
Non diede frutto più l‟avaro fianco
Dei colli brulli e delle piane aduste;
Non registrò mai più il porfido stanco
Nelle città deserte storie auguste;
Quanto di bello o grande aveva il mondo
La terra s‟ingojò nel morto fondo.

36. Tacque il mondo insensato; avaro cielo,


Immoto al pianto, ingiusto o giusto, dardi
Non scrimitosi e tardi
Lanciava sopra lui, e il tenue velo
Delle atmosfere gli levò, lasciando
Che in cielo nero rifulgente enorme
La Morte l‟esurisse, sgretolando
Quanto era vita in esso, e del deforme
Globo d‟impurità l‟empietà avita
Bruciando via cól bene, & cólla vita.

37. Tacque il mondo insensato; e il germe umano,


Memoria idealistica e fallace,
Svelò il fondo inferace
Di rozzo meccanismo opaco e vano;
Tolti d‟usi, di razze, lingue, nomi
I veli mendicati, sopra il dorso
Del mondo stirpe identica d‟automi
Seguiva, assorta in sé, l‟usato corso;
Non uomo urlava alle latebre fonde
Dei cosmi: Ehi! Non c‟è un dio che mi risponde?
38. Tacque il mondo insensato, e al nudo sguardo
T‟apparve il nulla donde è materiato
Per natura il peccato;
Ovviamente, apparì troppo in ritardo.
Di squallida menzogna finalmente
Rivelando il suo vero fondo, innanzi,
Onore, Pietà, Amore nudamente
Carogne avesti, e puzzolenti avanzi.
Era vuota la Terra, e il disinganno
Mostrò più atroce il tuo inutile affanno.

39. Tacque il mondo insensato, e se una voce


Si levò, parlò a te, e parlò beffarda;
Dicendoti: Oh lì guarda
Lui che fu verso sé tanto feroce!
Che voleva fuggire, e via non corse,
Tanto che la sua lunga titubanza
Come il più greve fallo gli rimorse!
E adesso, oh Andrea, che tempo non avanza?
E adesso che farai? Guàrdati intorno
Al lume osceno, ormai, del vero giorno.

40. Tacque il mondo insensato, e il grido crebbe


Di mille voci ignote a te, d‟accusa:
Anima però illusa,
Il Mondo ti sedusse, e per sé t‟ebbe!
Questo è il Mondo, non vedi?, l‟insensato
Globo dall‟austo dorso senza vita,
Il Mondo inutilmente vagheggiato,
Felicità impossibile e proibita;
Solo odiandolo o amandolo il pensiero
Lo forma; eppure, e sempre, ah! non è vero.
41. Tacque il mondo insensato, ed un sussurro
T‟accarezzò pietoso: Era struggente,
Di‟, il cielo risplendente
Di mondi e soli d‟oro in campo azzurro?
Di‟, ti ricordi quanto prometteva
L‟alba dei tuoi primi anni, e di rugiade
La primavera i campi, a te!, spargeva,
Soffondeva di luce, a te!, le strade?
Mai tutto ciò tra i cosmi vagì in culla;
Io fui; ma, fuor di me, c‟è solo il Nulla.

42. Era il Tempo; era il Tempo, che un istante


Solo, e per te, per tanto immenso errore,
In mezzo al muto orrore
Voce assunse, e parlò. Le ore rimpiante,
Le ore annojate, le ore torturate,
L‟effimero tesoro dissipato
Manda simili voci disperate
Quando il presente è vinto dal passato.
Torna al Nulla la Terra; e che conforto
Chiederai ora, Andrea, che il Tempo è morto?

43. Era il tempo, la prima volta in vita,


D‟assecondare il moto irresistibile
Del Tempo irreversibile,
Repente sulla Terra annichilita.
Tiranno incomportabile e severo,
Indifferente al fasto tributario,
Ma a cui si piega ogn‟irto nonvolere;
Potere a cui piegarsi è necessario,
Perché il suo trono da infinita altezza
Se crolla sempre, mai perciò si spezza.
44. Era il tempo di chiederne ad Astrea,
Regina decaduta, e avvinta al trono
Non proprio, ma di Crono,
Giudice sempre della gente rea;
……………………………………………
……………………………………………
……………………………………………
……………………………………………
……………………………………………
……………………………………………

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