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Rudi Vittori

VIENTO BLANCO
Cronaca di un sogno

Con scritti tratti dai diari di:


Fabio Algadeni
Lorenzo Collini
Tutte le immagini
che corredano il testo
sono di proprietà dei
componenti la spedizione

© 1983 by Rudi Vittori


I edizione gennaio 2010

Finito di stampare nel mese di gennaio 2010


a Mario, Fabio, Enzo, Sergio
Mauro, Vittorio,Cristina
e Vittorio Zuppel
per aver vissuto con me
uno dei più bei momenti
della mia vita

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PREFAZIONE

Sono passati ventisette anni da quando gli eventi qui


riportati si sono svolti.
Ventisette è un numero ricorrente nella mia vita, e
ventisette è il giorno di gennaio in cui abbiamo calcato la
cima del Cerro Mercedario.
Perché questo libro? Quale motivo mi ha spinto a
pubblicare queste note di diario che per ventisette anni
sono rimaste nel cassetto.
Non lo so nemmeno io, forse soltanto un sentimento che
non definirei nostalgia, un sentimento dolce,
meraviglioso, che in questi ultimi giorni di dicembre mi
ha fatto riandare con la memoria a quando stavamo
preparando i bagagli per iniziare questa grande avventura
che doveva essere una delle tante, ma che poi si è
rivelata unica.
Ne ho avute molte di avventure alpinistiche da allora,
centinaia sono state le cime raggiunte, le pareti salite. Vie
difficili, forse molto più difficili di quanto sia stato salire
la Cresta Sud Ovest del Cerro Mercedario, ma mai, mai
più, nessuna avventura mi ha lasciato nell’animo un

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ricordo così dolce, così struggente.
Mi ha lasciato nelle narici il profumo dell’amicizia.
Ecco, questa è stata per me la salita di questa grande
montagna del Sudamerica, amicizia. Il sogno di nove
amici, un sogno che avevano e che sono riusciti a
realizzare.
Le nostre strade si sono divise nel tempo, le esperienze
sono state diverse in questi ultimi ventisette anni, ma
credo che per tutti noi questo ricordo sia rimasto
immutato, stemperato forse nei colori del sogno, ma
vivo e presente come se non fosse passata una vita intera.
E tra me e me, spero che ognuno di noi, ripensando a
quei giorni, provi quello che provo io, un dolcissimo
sentimento e la gioia profonda per averli vissuti.

Non ho voluto cambiare nulla di quello che era stato


scritto ventisette anni fa. Forse il racconto sembrerà
iperbolico per gli alpinisti di oggi, ma va inserito nella
dimensione di allora, quando non esistevano telefoni
cellulari e satellitari, quando l’elicottero non veniva usato
a queste quote e vivere per trentacinque giorni in fondo
alla valle del Rio Colorado era come vivere sulla Luna,
isolati dal mondo.

Tempo per pensare… tempo che forse oggi non abbiamo


più.

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INTRODUZIONE

La ricerca dei grandi silenzi, degli spazi incontaminati,


della natura selvaggia, sono alcune delle componenti
essenziali che l’uomo va cercando nell’alpinismo. Il
silenzio dei grandi spazi non coinvolti nei mutamenti
tecnologici, l’essenziale ritorno alla natura procurato da
un esasperante tecnicismo che ci fagocita e nel quale
riusciamo sempre meno a trovare spazi per realizzare i
nostri bisogni più naturali, sono i principali motivi del
ritorno dell’uomo alla grande montagna.
Ma questi spazi sulle nostre Alpi si stanno sempre più
restringendo, il terreno di gioco sta per essere
lentamente, ma inesorabilmente soffocato da un sempre
maggior sfruttamento turistico delle valli alpine con
costruzione di funivie, strade, alberghi, da una parte, e da
un boom vero e proprio della arrampicata su roccia,
ridotta a semplice attività atletico sportiva, sempre grazie
alle moderne strutture che permettono rapidi
avvicinamenti alle pareti e, molto spesso, comodi rientri
in funivia.
L’alpinista classico, quindi, cerca di ricrearsi le situazioni

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dello scorso secolo, prova a rivivere nell’età pioneristica
delle Alpi, e per farlo se ne va alla ricerca di valli
sconosciute ed inesplorate in terre lontane.
Questo è stato anche il nostro caso, nove amici che, chi
con più chi con meno capacità alpinistiche, se ne sono
andati alla ricerca di una cima dove sia ancora possibile
sostare ascoltando l’eterno silenzio dei monti.

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LA MONTAGNA

Come siamo arrivati alla scelta di questa montagna di


6770 metri nelle Ande Argentine, sinceramente non se lo
ricorda nessuno. Le Ande erano quasi un obbligo, là ci si
può andare senza bisogno di permessi ed è ancora
possibile praticare l’alpinismo in libertà assoluta, senza
dover pagare alcuna tariffa, o senza perdere anni ed anni
in lungaggini burocratiche come normalmente avviene in
Himalaya, dove ormai è diventato più semplice salire su
una montagna che arrivare ai suoi piedi. Il problema
alpinistico, la Cresta Sud-Ovest del Cerro Mercedario ce
lo indicò un nostro amico, salitore della via normale della
montagna e profondo conoscitore di problemi andini.
Viste le fotografie del Cerro, a noi sembrò impossibile
che una linea di salita così logica ed attraente fosse
ancora vergine.
Il Cerro Mercedario appartiene alla Cordillera della
Ramada, di cui è la vetta più alta. Il gruppo fa parte della
dorsale andina che divide l’Argentina dal Cile e
comprende molte montagne con quote al di sopra dei
seimila metri, come il Pico Polacco (6000), la Mesa

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(6200), la Ramada (6410) e l’Alma Negra (6120).
La storia alpinistica della montagna è relativamente
recente, anche se si pensa che la via normale, che passa
dal versante nord, e che presenta problemi
esclusivamente di quota, salita ufficialmente da una
spedizione polacca nel 1934, fosse già stata salita molti
secoli prima dagli Inca. Infatti, alcune centinaia di metri
sotto la vetta principale, un alpinista e archeologo
italiano, residente a S. Juan, Antonio Beorchia Nigris, ha
individuato delle costruzioni in pietra che
presumibilmente sono da attribuire alla cultura incaica.
Recentemente alcune spedizioni moderne hanno aperto
alcune vie su versanti diversi da quello normale. La
parete sud è stata salita per due itinerari diversi da una
spedizione giapponese nel 1968 e da una austriaca nel
1971; mentre sulla parete Est c’è una via disegnata da
una spedizione padovana nel 1975.

1 Il Cerro Mercedario visto dal Campo Base

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La via che ci proponiamo di scalare passa attraverso lo
sperone che divide la parete sud dalla parete ovest. Si
tratta di una cresta che unisce assieme il Picco Polacco al
Mercedario e si abbassa al centro fino ad una quota di
circa 5000 metri. Sarà lì che dovremo riuscire a salire
prima di affrontare la cresta vera e propria.
Sulle fotografie, fatte male, non si capisce molto bene la
difficoltà a cui andremo incontro, tutto quello che si
riesce a intravedere è che la roccia è in moltissimi tratti
molto pulita e senza neve, il che sta a significare che o è
molto verticale o c’è tanto vento.
Sappiamo comunque che dovremo salire fino a 6770
metri di altezza e che il dislivello dal Campo Base alla
vetta sarà di circa 3000 metri, dimensioni per noi,
abituati alle Alpi, al di fuori della realtà.

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“NEMO PROFETA IN PATRIA”

Essere i primi ad organizzare una spedizione in una città


priva di tradizioni alpinistiche, ha dei notevoli
inconvenienti. Primo fra tutti la scarsa fiducia dei propri
concittadini. Questi, pronti a darti tutti gli aiuti morali
possibili ed immaginabili e a criticare la scarsissima
sensibilità al progetto da parte delle autorità competenti
(quali poi non si è ben capito), diventano
immediatamente degli irriducibili avversari
dell’alpinismo in tutte le sue forme, giudicato attività
pericolosa ed antisociale, nonché cattivo esempio per le
generazioni future, nel momento in cui gli chiedi di
comprarti per tremila lire la cartolina della spedizione.
Nonostante tutto molti sono interessati veramente e alla
fine qualche cartolina riusciamo a venderla anche noi, in
fin dei conti non ci sarà mai nessuna zia che rifiuti di
aiutare il nipote in bolletta, a maggior ragione se è il
primo ed è maschio.
Alcune ditte più sensibili accettano di aiutarci, ma anche
in questo caso la raccolta di fondi assomiglia più ad una
questua francescana che ad una vera e propria

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sponsorizzazione.
D’altra parte non possiamo pretendere di più, siamo alla
nostra prima esperienza extraeuropea e siamo gli unici a
crederci veramente.
Un aiuto consistente proviene dalla nostra sezione del
C.A.I. in quanto la spedizione è organizzata in occasione
del centenario della sua fondazione; ma il contributo che
ci onora di più è quello proveniente dalla Commissione
Nazionale Spedizioni Extraeuropee che sceglie anche la
nostra tra le quattro più importanti per il 1983.
Dividiamo tra noi nove i vari compiti organizzativi e da
bravi Italiani ci interessiamo, nel corso del 1982, di tutto
quello che riguarda il lavoro degli altri, tralasciando il
nostro, con puntuali riunioni che ricordano la costruzione
di una famosa torre, di biblica memoria.
Io ho il compito dell’alimentazione e non vado più in là
delle tabelle dietetiche, non riuscendo a quantificare in
bistecche alcun valore proteico o calorico che sia. Perciò
che mi riguarda potremmo essere ancora là, magro pasto
dei condor.
Se penso poi chi si era impegnato ad imparare lo
spagnolo, non riesco ancora a capire come siamo riusciti,
non a scalare la montagna, ma a cambiare aereo a Buenos
Aires.
L’unica voce che funziona è quella sui materiali perché
bene o male qualcosa di alpinismo capiamo.
Una parte importante della preparazione riguarda
l’allenamento.
In quel periodo vivevo a Verona per motivi di studio e
grosse possibilità di far uscite frequenti in montagna non
ne avevo. Un surrogato però c’era, le “Torricelle”, un
insieme di collinette quasi al centro della città. Andavo lì
ogni sera a correre e tutti quei metri di dislivello, mi sono
serviti a far fiato, non ne facevo certo mille in

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trentacinque minuti come qualcuno di nostra conoscenza,
ma avevo considerato che per un 6700 era sufficiente
farne trecento in venti minuti.
Ho provato anche ad andare a fare pesi in palestra, ma i
risultati non è che si vedessero molto, più che altro lo
facevo con l’intento ambizioso di migliorare la mia
immagine pubblica, in vista di un eventuale successo
strabiliante che mi avrebbe portato a diventare un
personaggio noto.
E puntualmente giunge il giorno della partenza con
centinaia di persone che si accalcano alla stazione dei
treni per salutarci in un mare di lacrime. Fotografie,
intervista registrata per la radio, abbracci di gente
sconosciuta. Momento a cui nessuno vuole rinunciare per
poter un giorno dire: “L’ho visto per l’ultima volta
proprio il giorno della partenza, eh, sì, c’ero anche io
quella volta lì”.
Ma qualcuno che sperava che tornassimo veramente ci
sarà pur stato, però mia mamma non so proprio dove si
sia cacciata all’ultimo momento.

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ARGENTINA

Come già detto, il sei gennaio, il giorno della Befana,


partiamo dalla nostra città e con un viaggio che risulta
liscio ancor più del previsto, sbarchiamo la mattina del
giorno otto a Buenos Aires. Ad attenderci una
delegazione di alpini residenti in Argentina, capeggiati
dal cap. Zumin. Usciamo dall’aeroporto e credo di
svenire, ho la netta sensazione che cadrò in mezzo a tutta
quella gente e che mi sveglierò in un candido letto di
ospedale. Manca, l’aria, il caldo è soffocante e loro se ne
stanno impettiti in giacca, cravatta e cappello alpino. Ci
mettono in gruppi per poter essere fotografati, sono tutti
molto cordiali e non mi sento di metterli a disagio ma
veramente la temperatura mi sta uccidendo. Dopo un
veloce giro della città, che avremo modo di visitare al
ritorno, ci portano alle sede della “Società Friulana”,
dove diamo letteralmente assalto ai bagni per mitigare un
po’ il calore.
Dopo un pranzo ufficiale offertoci congiuntamente dal
Fogolar Furlan e dall’A.N.A., alla sera, abbastanza
allegrotti raggiungiamo con un altro volo la città

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preandina di San Juan.
Il caldo è terrificante anche qui nonostante l’ora.
D’accordo, veniamo da una stagione fredda e quindi lo
sbalzo termico è già di per se notevole, ma quaranta gradi
da noi non si vedono neanche d’estate.
La cordialità della gente che ci accoglie è incredibile, per
tutto il periodo di permanenza in terra argentina la loro
disponibilità sfiorerà la dedizione.
Sono in tanti ad attenderci, volti nuovi e nomi
sconosciuti ma che alla fine della spedizione avranno dei
significati ben diversi per noi e che, anche se non rivedrò
mai più, sarà impossibile cancellare dalla nostra
memoria.
San Juan è una città con 300.000 abitanti è stata costruita
in una zona sismica e un terremoto la distrusse
completamente nel 1954, da allora tutte le costruzioni
sono basse e soltanto in centro qualche palazzo
raggiunge i tre piani. L’ultimo terremoto risale al 1977.
Veniamo sistemati in un alberghetto dalle pareti bianche
pitturate a calce e con i soffitti in legno, di proprietà della
famiglia Hermann, un medico tedesco venuto qui dopo
la guerra e sua moglie, una donna di discendenza Inca
che conserva ancora i meravigliosi tratti somatici della
sua razza.
Le finestre della camere si affacciano su un patio
spagnolo che viene invaso da tutto il nostro materiale.
Il ventilatore gira al ritmo stanco degli uomini, nella mia
stanza. Una stanza piccola di un piccolo albergo
dell’America Latina, una scena che potrebbe
comodamente uscire dalle pagine di un libro di
Hemingway. Divido la camera con Fabio e con lui, oltre
alla grappa che teniamo al fresco nel lavandino bianco di
ceramica, divido anche le prime impressioni, le
esperienze di questi primi giorni, poche, troppo poche,

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per poter dire di aver capito questo popolo. L’America
Latina è grande, troppo grande e troppo complicata per
poter essere capita in così poco tempo, tempo però
vissuto assieme a questa gente, fianco a fianco, gomito a
gomito, non da turista con la faccia sprofondata in una
guida, ma assieme a loro, come uno di loro. Per gli ultimi
preparativi abbiamo dovuto acquistare i viveri, parlare
con i militari per organizzare il trasporto con i camion,
noleggiare i muli. E tutto ciò lo abbiamo fatto grazie a
tutti gli amici del Club Andino Mercedario di San Juan,
circolo di andinisti con a capo il grande Antonio
Beorchia Nigris, uomo schivo, montanaro carnico
trapiantato in Argentina, il cui valore umano è certo
superiore al pur certo grande valore alpinistico, ragazzi
argentini che ci hanno aiutato a portare a termine tutte
quelle pratiche che altrimenti ci avrebbero portato via il
doppio, se non più, del tempo disponibile e che hanno
vissuto con noi per tutto il periodo di permanenza nella
loro città.
E’ forse anche questo il bello di una spedizione, la
finalità che viene aggiunta al semplice viaggiare, il dover
salire una montagna, alla fine, i ricordi dei luoghi passati,
della gente con cui si ha a che fare, si ricordano
altrettanto bene che i momenti della scalata. Si impara
molto di un paese quando bisogna avere a che fare con i
suoi uffici, con i suoi commercianti, quando bisogna
comprare o spostare enormi quantità di materiali,
vedersela con i venditori, i camionisti, i doganieri. Tutto
questo avvicina al lavoratore locale e il rapporto con la
nazione che si visita diventa molto stretto al contrario di
quelli che viaggiando si trovano a contatto soltanto con
gli operatori turistici.
Arrivare in Argentina è sbarcare in un luogo che ha un
modo di vivere diverso dal nostro, tradizioni diverse,

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esigenze diverse.
La prima sera di permanenza a San Juan sono rimasto
colpito dai numerosi cortei nuziali, strombettanti e
schiamazzanti, che sfilavano davanti a noi seduti ai tavoli
di un bar a bere cerveza ghiacciata, alle undici e mezzo di
sera. Alla mia, apparentemente logica, richiesta di dove
andassero a quell’ora, Pablo mi rispose tranquillamente
che essendo sabato si erano appena sposati approfittando
del fresco della notte e che ora andavano al ricevimento.
Ma per loro tutto questo è normale, come normale è
andarsene a cena al ristornate alle tre del mattino o a far
visita in casa di amici a mezzanotte. Se non mi credete
non vi resta che andare a constatare di persona.
Per noi, da un punto di vista, sono stati giorni
massacranti, sveglia alle otto per preparare i carichi e per
sbrigare le ultime faccende e a letto mai prima delle tre di
notte. Ma sono state giornate intensissime, piene di
novità e di colore locale.
Come potremo dimenticare la faccia dell’addetto postale
alla nostra richiesta di tremila francobolli per cartolina o
all’ufficio di cambio quando, visto che avevamo dollari,
e tanti, l’impiegato ci ha condotto nel retrobottega e ce li
ha cambiati lui personalmente a condizioni di mercato
nero per noi veramente favorevoli.
Giorni che mai potremo dimenticare anche se i ricordi
via via si stemperano e tutto si tinge dei colori del sogno.

***

Una volta recuperato il materiale, spedito via mare, dalla


dogana iniziamo la preparazione dei carichi ed in meno
di una mattinata di lavoro tutti i sacchi sono chiusi e
pronti a essere trasportati. Caricati su un camion li
trasportiamo, sotto una inattesa pioggia battente, che ha

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caratteristiche diluviali, alla caserma militare, nella quale
ci siamo accordati per il trasporto con i camion, fino a
Casa Amarilla, luogo dove finisce la strada.
Il sergente Aranda, un sottoufficiale del distaccamento, si
interessa molto alla nostra avventura ed è felice di poter
essere utile alla spedizione. Senza il suo innato senso
organizzativo non so come saremmo riusciti a trasportare
tutto quel materiale fino al campo base.
Pur essendo una spedizione leggera e rifiutando l’uso
delle corde fisse, siamo sempre in nove e quindi per la
nostra prevista presenza di venticinque giorni al campo
base, il quantitativo di materiale è veramente elevato,
intorno ai mille chili di peso.

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AVVICINAMENTO

“Si parte, un omnibus della Universidad Nacional de


San Juan carica nove italiani, due giapponesi e
quattordici argentini e come una corriera stravagante di
Steinbeckiana memoria lascia l’Hotel Austria e i coniugi
Hermann che ci salutano con gran sorrisi e tanti “buena
suerte”.

Così scrive Fabio nel suo diario il 12 gennaio, giorno in


cui lasciamo definitivamente San Juan alla volta della
montagna. Con noi sulla stessa corriera viaggia la
spedizione argentina che ha come meta la salita del Picco
Polacco, una cima di 6000 metri che fa da vassallo al
Mercedario, e due cineoperatori giapponesi che verranno
con noi fino al campo base con l’intento di girare un
documentario sulle valli ancora sconosciute delle Ande.
Prima sosta a Barreal, 160 chilometri da San Juan, a
1700 metri sul livello del mare, è l’ultima città, se cosi la
vogliamo chiamare, prima della Cordillera.
Qui la gente è veramente povera, solo alcune strade sono
asfaltate e il mezzo di locomozione più comune è il

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cavallo.
Pranziamo in una osteria che funge anche da galleria
d’arte dal momento che sulle pareti sono attaccati disegni
dei bambini della scuola locale. Sarà comunque l’ultima
volta che mangeremo con le gambe sotto ad un tavolo
per molto tempo.
Forse consci di ciò che ci aspetta ci rimpinziamo come
matti, spronati anche dal fatto che tutto costa un decimo
che in Italia. L’acqua di soda che si vede in sifoni di
vetro con vuoto a rendere è più costosa del vino locale e
quindi la scelta della bevanda è evidente.
Nel primo pomeriggio arrivano i camion militari e ci
sistemiamo nel più vecchio e scassato di tutti.
Non siamo neanche partiti che siamo già impantanati in
una grande pozza di fango provocata dalle eccezionali
piogge dei giorni precedenti. Tutta questa pioggia in
pianura significa neve in quota ed infatti tutti gli
argentini ci confermano di non aver mai visto le cime dei
monti così bianche in questa stagione. Comunque dopo
una buona ora di sforzi durante la quale i giapponesi
hanno modo di dimostrarci le loro capacità inventive e
lavorative, il camion se ne esce dal fango e possiamo
riprendere la corsa.
Il paesaggio che si presenta a me e a Mario, seduti sopra
il tetto della cabina del camion con l’intenzione di
gustarci per intero il panorama e prenderci una bella
tintarella, è grandioso e desolato allo stesso tempo.
Praticamente viaggiamo in un deserto ghiaioso come il
greto di un fiume con poche piante cespugliose sparse
come se vivessimo in un plastico costruito dalla fantasia
di un bambino che senza senso razionale ha sparso dei
ciuffi di verde qua e là. La strada si inerpica sulla dorsale
sinistra del fiume e a tratti il terreno alla destra del
camion frana e precipita per un centinaio di metri

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nell’acqua che ribollisce in basso.
Dopo una deviazione imprevista di una trentina di
chilometri dovuta al crollo di un ponte causato dalla
piena del Rio, giungiamo indenni a Casa Amarilla.
Questa casa che, essendo bianca, nessuno ha ancora
capito perché si chiamasse gialla, è un vecchio villaggio
colonico immerso in un’oasi artificiale di verde con
canali d’irrigazione scavati appositamente per far vivere
gli unici alberi ad alto fusto che si vedono nei dintorni.
Oggi è proprietà del demanio e funge da avamposto
militare al confine con il Cile; ai confini per modo di
dire, in quanto il Cile è dall’altra parte della Cordillera
che per essere attraversata offre solo dei valichi intorno
ai cinquemila metri, non propriamente transitabili.
Certo, immagino che essere destinati qui, sia il sogno
segreto di ogni ragazzo argentino in sevizio di leva. Alla
sera in libera uscita al posto delle ragazze si trovano lepri
e guanachi e il primo, per così dire, bar, è a Barreal, a
sessanta chilometri di deserto.

***

Dopo lo scaricamento dei camion ci sistemiamo tutti


intorno al fuoco e gli argentini preparano un “asado”,
cioè carne cotta direttamente alla fiamma e in questo
clima spensierato finalmente ci rendiamo conto di essere
partiti, di essere decisamente tagliati fuori dalla civiltà e
di essere sul punto di iniziare quell’avventura che da due
anni stiamo preparando e sognando, un’avventura che,
trascendendo i risultati sportivi, ci permetterà di vivere
un viaggio all’interno di noi stessi, verso la conoscenza
di una parte del nostro io, che altrimenti non avremmo
modo di scoprire.
Il cielo è stellato, la notte calma e prima di addormentarci

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cerchiamo di riconoscere alcune costellazioni di questo
emisfero boreale che a noi non sono note se non dagli
atlanti. Riconosciamo Orione e la Croce del Sud ed è
impossibile in queste condizioni, non pensare a quanto
siamo distanti dalle nostre case.

***

Il giorno successivo passa tutto per la preparazione dei


carichi che verranno caricati sui muli, ma prima
procediamo a salare la carne che abbiamo comprato, in
modo da poterla conservare per molto tempo; qui il clima
è talmente secco che una volta esposta all’aria per un
giorno si secca completamente e se è stata salata in
precedenza può essere conservata anche per dei mesi.
Sono già le quattro del pomeriggio quando, nonostante
gli sforzi del sergente Aranda, i militari finiscono di
imbastire le bestie e possiamo partire.
Ci incamminiamo nella valle del Rio Colorado che ci
porterà tra due giorni al luogo dove verrà installato il
campo base.
Il Rio Colorado è alimentato dai ghiacciai Karpinski e
Ostrowsky che nascono dalla parete sud de Cerro
Mercedario e dal ghiacciaio Italia che scende dalle
pendici della Mesa e si rompe alla fine in una particolare
seraccata le cui masse di ghiaccio vengono dette “vele”
per la forma che assumono. Gigantesche lame acuminate
di ghiaccio, lavorate dal vento, alte anche trenta metri.
Dopo tre ore di cammino in questa valle ci fermiamo
sotto ad una colonna di conglomerato alta una
cinquantina di metri dalla forma caratteristica sul cui
nome sorvolo per non ferire i più puritani. Abbiamo
percorso una ventina di chilometri e ci siamo alzati,
secondo l’altimetro di 500 metri.

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2 Le vele del ghiacciaio Italia

***

“Ci ritroviamo alla sera attorno al fuoco a ridere della


giornata avventurosa fuori dagli schemi di qualsiasi
inclusive tour”.

In questa frase tratta dal diario di Fabio è racchiusa tutta


la filosofia della nostra spedizione. Forse non sarà, alla
fine, un grosso risultato sportivo, ma c’è la volontà in
ognuno di noi di vivere veramente un certo periodo della
nostra vita facendo qualcosa di insolito che esca dagli
schemi prefissati della routine giornaliera.
L’indomani alle nove e trenta iniziamo nuovamente a
camminare in direzione della nostra cima.
La marcia al sole dura tutta la giornata e raggiungiamo
dopo le sette della sera il luogo dove verrà montato il
campo base. Attraverso i quaranta chilometri di strada

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percorsi siamo più volte costretti a guardare le acque del
Rio Colorado per l’impossibilità di proseguire su quella
sponda. Non esiste un sentiero, lo stiamo segnando noi.
A mezzogiorno sostiamo sotto l’ombra di un masso, sotto
ad uno strano complesso di torri di conglomerato che, a
causa della loro forma, vengono chiamate “La Catedral”,
il caldo è molto forte, qualcuno abbandona il termometro
tascabile su un sasso, quando lo raccoglie segna settanta
gradi, dal caldo ha sballato anche lui.
Ancora mezza giornata di cammino, con le stesse
caratteristiche ed arriviamo al luogo dove piazzeremo le
tende del campo completamente cotti dal sole, le gambe
ed i visi sono totalmente bruciati. Siamo stanchissimi,
riusciamo ancora a montare due tende e dopo una cena
sommaria ci buttiamo dentro a dormire. Io della giornata
non ricordo altro.

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CAMPO BASE

Il campo base lo installiamo nei pressi di un fronte


morenico nell’unico spazio disponibile dove si trovi
ancora acqua corrente e che nello stesso tempo sia
abbastanza in altro da evitare allagamenti in vista di
eventuali piene del torrente.
Sabato quindici, la mattina dopo il nostro arrivo, i
militari che ci hanno accompagnato fin qua se ne vanno
con la promessa di tornare a prenderci tra una ventina di
giorni. Rimaniamo soli, noi, gli argentini e i due
giapponesi. Siamo ancora in troppi per renderci conto di
essere soli.
Il campo prende forma alla svelta, montiamo la tenda
mensa, che servirà per cucinare e ritrovarsi tutti insieme
la sera, e altre due tende canadesi.
I tre scapoli della spedizione, cioè Mario, Fabio ed io, si
riservano una tenda tutta per loro, invidiata da tutti gli
altri per la cura della disposizione interna e per la
quantità di libri della biblioteca. Il caos che regna
all’interno è assoluto e l’interscambiabilità di biancheria
intima diventa una necessità.

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Il tempo peggiora il primo giorno di arrivo al campo e
alla sera addirittura nevica un po’ e cadono pezzi di
ghiaccio che assomigliano vagamente a grandine.
Perdiamo subito ogni speranza di collegamento radio con
il mondo esterno dopo alcuni tentativi, ma nessuno di noi
ne è particolarmente dispiaciuto, volevamo la solitudine
assoluta e ce l’abbiamo. Unico problema che affligge
qualcuno è il non sapere se il Governo in Italia sia caduto
o no.
Ma i primi problemi reali si presentano subito. Il giorno
sedici mentre finiamo di sistemare le ultime cose,
Vittorio Zuppel se ne va con l’altro Vittorio a fare
un’escursione, che loro chiamano di acclimatamento, in
una valle laterale che porta ad una cascata d’acqua molto
bella e caratteristica che si chiama “Salto Frio”. Al
ritorno Vittorio ha 38 di febbre. Probabilmente la marcia
di avvicinamento ed i guadi di acqua fredda del torrente
lo hanno indebolito e la camminata di oggi sotto il sole
ha fatto il resto.
Lo mettiamo a letto, anche se letto non è propriamente
l’espressione adatta e iniziamo una cura. Questo può
essere già un problema per l’economia della nostra
spedizione, un uomo “out” già il primo giorno non è
confortante.
Comunque già dallo stesso giorno inizia quella che
potremmo definire la salita vera e propria.
Mario, Enzo e Sergio risalgono la morena sopra di noi e
cercano un passaggio per riuscire a raggiungere il
ghiacciaia Karpinsky e porre un campo.
Assieme a loro salgono i nostri due baquianos, due
persone argentine che ci hanno affittato tre mule per il
trasporto dei materiali e noi siamo riusciti a convincerli
ad accompagnarci fin sul ghiacciaio.
Alla sera i due gauchos ritornano al campo base con un

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biglietto scritto di pugno da Enzo, che ci conferma di
aver sistemato una tenda sul ghiacciaio a circa 4500
metri di quota, ottocento metri più in alto del campo
base.

3 Salita verso il Campo Base avanzato

Alla sera nevica un po’.


Il giorno seguente anche io , Mauro e Fabio saliamo a
questo campo trasportando tende e materiali. Vittorio
Aglialoro e la Cristina invece rimangono a prendersi cura
del Zuppel che non accenna a riprendersi.

***

Le due tende, che chiameremo campo base avanzato,


sono piantate proprio al limite delle nevi perenni.
Ci sono circa una decina di chilometri da percorrere dal
campo base per raggiungerlo e noi, che non siamo ancora
acclimatati, impiegheremo circa tre ore e mezzo per

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coprire la distanza e il dislivello.
Questo primo tratto di salita non è particolarmente
entusiasmante, si cammina su ghiaie rosse su un eterno
saliscendi, rotto soltanto in qualche tratto da rivoli
d’acqua proveniente dal ghiacciaio che affiorano qua e là
per scomparire poco dopo tra i sassi.
La vista comunque è imponente, si cammina
continuamente con la parete sud del Mercedario, duemila
metri di scivoli e seracchi di ghiaccio, proprio di fronte
agli occhi.
Quando arriviamo al campo veniamo accolti dai tre che
ci hanno preceduto e iniziamo a discutere sul modo
migliore per raggiungere la cresta.
Da qui la visione è ben diversa che sulle ingiallite
fotografie viste a casa. Una forcella esiste proprio tra il
Picco Polacco e la cresta sud-ovest e per raggiungerla
sembra che ci sia da percorrere un lungo canalone di
neve che, come tutti i canaloni, visto di fronte sembra
inclinatissimo.
Enzo, Mario e Sergio partono decisi a dare un’occhiata e
noi intanto sistemiamo le tende e cerchiamo di rendere il
campo abitabile.
Contemporaneamente la spedizione argentina è salita e
ha posto il suo primo campo sotto la parete del Picco
Polacco.
I tre rientrano alla sera dicendo che il canale non è molto
inclinato e secondo loro facilmente percorribile. Data
l’ora tarda di partenza non sono saliti più in alto dei 4900
metri, ma affermando che la forcella è soltanto trecento
metri più in alto. Hanno abbandonato i carichi che
avevano alla base del canale e noi saliremo domani con
l’intento di raggiungere la cresta.
Il tempo si è messo al bello, anche se spira costantemente
un forte vento, che non smette neanche per un attimo. Il

27
morale è alto, stiamo tutti bene e speriamo di poter
proseguire abbastanza velocemente. Siamo ancora,
comunque, a quote per noi abbastanza usuali.
Al contatto radio della sera veniamo a conoscenza che
Vittorio sta sempre più male e alla febbre si è aggiunta
una pericolosissima diarrea che potrebbe disidratarlo in
breve tempo. La terapia viene cambiata e speriamo che
riesca a guarire altrimenti saremo costretti a farlo
accompagnare a valle da qualcuno.

***

Il giorno 18 anche io, Mauro e Fabio partiamo per


raggiungere la cresta. Gli zaini sono pesanti e
contengono tutto il materiale per la sistemazione di un
campo in quota e molti viveri. Le distanze qui sono
molto più dilatate che sulle nostre Alpi e ce ne
accorgiamo subito.

4 Verso la Cresta

28
Il tratto pianeggiante di ghiacciaio non finisce più, è un
continuo saliscendi su collinette di sassi alternate a
lunghi nevai, ogni tanto incontriamo qualche crepaccio a
ricordarci che ci troviamo su di un ghiacciaio e non in
una cava di pietre.
Poi la salita dello scivolo di neve che porta all’imbocco
del canale, sulle tracce dei compagni che ci hanno
preceduto, sembra non aver fine. La neve è molle e
sprofondiamo fino al ginocchio, abbiamo caldo e
sudiamo nonostante il vento continui imperterrito a
soffiare. Sono tre giorni che soffia e non ha ancora mai
smesso, cala un po’ di intensità tra le diciannove e le
nove di mattina, probabilmente influenzato dalla
temperatura del sole. Al punto massimo raggiunto ieri dai
tre ci fermiamo a sostare. Poi ci carichiamo anche quello
che hanno portato fin qui ieri e risaliamo questo
canalone. Dopo una trentina di metri, però, ci accorgiamo
dell’insidia che ci aspetta e che non avevamo notato
prima. Come giustamente ci aveva preannunciato Mario,
il canalone non è assolutamente pendente, raggiungerà
forse i quaranta gradi ma è pieno di penitentes di
ghiaccio. Sono, queste, formazioni molto frequenti in
questa zona delle Ande, ricevono il nome dalla forma che
ricorda un uomo con saio e il cappuccio tirato in testa che
prega, che fa cioè il penitente. Sono dei candelotti di
ghiaccio alti dai trenta centimetri fino ai due metri,
lavorati dal sole e dal vento assumono queste forme
caratteristiche e sono orientati tutti nella medesima
direzione. Pur essendo molto estetici nelle fotografie,
sono la dannazione degli alpinisti, tra di essi la neve è
molle ed inconsistente e vi si sprofonda. Già trovarli su
un terreno piano rallentano enormemente la marcia,
trovarli poi su un pendio, come nel nostro caso, è la fine.
Fabio dice di non salire più, non si sente acclimatato e

29
scende al Campo Base Avanzato. Io e Mauro
procediamo. Mauro è avanti, ma la sua traccia non mi
aiuta minimamente, è un continuo sprofondare, quando si
poggia il piede non si sa se questa terrà, se si sprofonderà
fino al ginocchio, o se, una volta caricatolo, si finirà nella
neve fino al collo. Aggrapparsi poi ai penitentes è
assolutamente inutile, perché anche in questo caso non si
sa se terranno o se staccandosi, ci faranno perdere
l’equilibrio e cadere indietro.

“Penitentes: pinnacoli intagliati per gioco dal sole e dal


vento quando giocano con la neve, piccole torri di
ghiaccio fatato, in un mondo di allucinazioni”.

Dopo enormi sforzi, però, finalmente raggiungiamo la


forcella. Siamo in cresta. Dal versante opposto possiamo
ammirare tutta la Cordillera Andina dal versante cileno e
sulla nostra destra la parete ovest del Mercedario. Siamo
stati esattamente tre ore per percorrere gli ultimi centro
metri del canalone, il vento qui in cresta è insopportabile

30
e non abbiamo certamente tempo per andare avanti a
cercare un posto e sistemarvi il campo primo, anche
perché sulla nostra destra la cresta è sbarrata da quella
che chiameremo la prima fascia rocciosa.
Abbandoniamo tutto il materiale che abbiamo trasportato
al riparo di un grosso masso e scendiamo cercando di
abbattere più penitentes possibile sul nostro cammino per
favorire le risalite nei prossimi giorni.
Alla sera siamo tutti riuniti nella tenda più grande del
Campo Base Avanzato, si decide che domani saliranno
Sergio, Mario ed Enzo a sistemare il campo primo e noi
saliremo il giorno seguente.

5 Dal Colle sguardo verso la Valle del Colorado

31
LA CRESTA

Il 19 gennaio i nostri tre amici salgono a loro volta, come


prestabilito, a installare il campo primo. Riusciamo a
distinguerli fino all’arrivo sulla forcella; dal modo veloce
che hanno di procedere ci convinciamo che il lavoro che
abbiamo fatto ieri io e Mauro scendendo non sia stato del
tutto inutile. Verso mezzogiorno arrivano al nostro
campo Cristina e Vittorio Aglialoro. Ci portano generi di
conforto e notizie più precise sull’ammalato che per
radio sono più difficili da spiegare. Comunque Zuppel sta
già meglio, ma a detta loro non è uno dei pazienti
migliori che esistono. Il suo morale è molto basso e
temiamo che non possa fare alcuna attività per tutto il
corso della spedizione e per lui questo non sarebbe molto
positivo, lavorare sodo e sognare qualcosa per due anni,
per poi vedere i sogni dissolversi così per causa di pochi
giorni di stupida malattia è molto avvilente. Comunque i
nostri compagni non si vedono più, segno che la via che
hanno scelto passa sull’altro versante della cresta; la
forcella, raggiunta ieri, ha una quota di 5200 metri e il
campo primo a rigor di logica dovrebbe essere posto due

32
trecento metri di dislivello più in alto in modo da
interporre mille metri di dislivello tra questo e quello. I
nostri interrogativi comunque, potranno venire risolti
solo domani, in quanto i nostri compagni, non si sono
portati dietro la radio per questioni di peso.
La serata ferve di preparativi. Dosaggio dei pesi, viveri in
una quantità giusta da permettere di essere portati con
sufficiente facilità, ma che consentano una permanenza
di più giorni sulla cresta. Rivediamo tutti i materiali e poi
ce ne andiamo a dormire; la sveglia è messa molto presto
in modo da sfruttare le prime ore fredde per usufruire di
una neve dura per non sprofondare, almeno fino alla
forcella.

***

Alle cinque del mattino la temperatura è di dieci gradi


sotto lo zero, c’è una differenza impressionante tra il
giorno e la notte, ieri in tenda abbiamo misurato trenta
gradi sopra. Iniziamo la nostra salita in silenzio, ognuno
cammina per proprio conto, ognuno con i propri pensieri.
Da questo momento è nostra intenzione salire sempre e
cercare di raggiungere la vetta in un paio di giorni.
Inevitabili sono i raffronti con salite fatte in precedenza,
ricordi di albe sulle Alpi, di pensieri e dubbi che
precedono sempre una grande ascensione, ma qui non
siamo sulle Alpi, qui non intraprendiamo la salita
insieme a decine di altre persone, non siamo in costante
unione con il fondovalle. Qui siamo soli e soli dobbiamo
agire e ognuno di noi è il solo responsabile di se stesso,
nessuno può pretendere niente dagli altri. I dubbi allora
diventano ancora più radicati in noi e i pensieri di chi
abbiamo lasciato lontano devono sparire per non
interferire con l’azione che stiamo per intraprendere.

33
6 Enzo sul traverso dopo il Campo 1

***
Alle dieci e trenta raggiungiamo il colle. Un vento
impetuoso soffia dall’Oceano Pacifico e ci investe
brutalmente. Nuvoloni densi si rincorrono sulla

34
Cordillera e ogni tanto qualcuno ci avvolge. Affrontiamo
il salto roccioso che si presenta sulla destra della forcella,
uno in fila all’altro, le difficoltà all’inizio sono intorno al
terzo grado classico ma bisogna mettere la massima
attenzione a non sbagliare in quanto la roccia è molto
friabile e molti pezzi si staccano e precipitano sul nevaio
sottostante. Più in alto un passaggio più difficile ci
ricorda il quarto grado delle Alpi, ma qui siamo carichi
come muli e ad una quota di 5300 metri. Dopo il salto la
cresta si appoggia un po’, è completamente spoglia dalla
neve, le roccette che affiorano sono cementate dal gelo,
segno che qui il vento non soffia solo ora, ma soffia da
sempre.
Alle dodici e mezzo raggiungiamo il Campo primo.
Siamo a 5400 metri, non c’è nessuno, se ne sono andati
più in altro a sistemare il secondo campo. Mangiamo
qualcosa in questa specie di nido; la tenda è piantata in
un anfratto della roccia, la neve che vi si era accumulata
è stata in parte scavata via ed in parte utilizzata per
costruire una specie di muretto protettivo. Hanno fatto
proprio un bel lavoro. Dopo un po’ di riposo decidiamo
di ripartire. Stiamo bene, la progressione finora è stata
veloce e quindi pensiamo di continuare sulle tracce dei
tre che ci precedono per cercare di raggiungerli e
installare insieme il campo secondo.
Subito dopo alla tenda dobbiamo procedere in leggera
traversata ascendente, le tracce dei nostri compagni sono
nette su un nevaio molto inclinato che traversa a sinistra,
la neve è dura e tiene, procediamo slegati; su un terreno
come questo, dove è impossibile fare un qualsiasi tipo di
assicurazione, almeno un po’ affidabile, preferiamo
contare solamente sulle nostre capacità, piuttosto che
mettere a repentaglio l’esistenza dei nostri amici. Certo,
se qualcuno di noi volesse l’assicurazione, nessuno,

35
credo, gliela negherebbe, però nessuno la chiede, sembra
di pensare con una testa sola, procediamo senza parlare
ma ci comprendiamo perfettamente.

7 Salto roccioso tra il Campo 1 e il Campo 2

36
Ci stiamo elevando, lentamente guadagnando quota, il
Picco Polacco sta calando di fronte a noi e presto saremo
all’altezza della sua cima. Chissà come procede la
spedizione argentina, da alcuni giorni non ne sappiamo
più nulla.
Dopo la traversata del nevaio ci troviamo di fronte a
un’altra serie di salti rocciosi, anche questi non superano
il terzo grado di difficoltà, ma sono anch’essi molto
friabili.
La quota qui ormai si fa sentire, ogni passo mi costa una
gran fatica e lo zaino sulle spalle pesa moltissimo.
All’uscita dell’ennesima paretina trovo Mauro seduto e
preoccupato. Per la prima volta mi accorgo che siamo
avvolti dalle nubi e che si sta facendo tardi. Mi dice di
proseguire per cercare di vedere dove si sono fermati gli
altri. Posto per piantare una tenda intorno a noi non ne
vedo e quindi l’unica soluzione, se non vogliamo tornare
indietro è quella di salire ancora sperando di trovare uno
spazio utile per bivaccare. Mauro si ferma ad aspettare
Fabio. Non me ne ero reso conto, chiuso nel mio
egoismo e concentrato solo sulla mia progressione, che
Fabio era rimasto molto indietro a noi sulla cresta e che
faticava a salire.

Nel suo diario scriverà:

“…Raggiungiamo il campo dei nostri amici che ci hanno


preceduto. Lì pranziamo e ci riposiamo un po’.
Decidiamo di spingerci più in su, stiamo bene e
cerchiamo di guadagnare quota. E invece io scoppio.
Non ce la faccio proprio più. I miei compagni davanti.
Mauro mi prende la tenda. Gli ultimi 50 metri di
canalone Cricio mi prende lo zaino, arranco, avanzo
pianissimo, piango, da solo, su uno scivolo di neve di

37
40°, piango, perché non devo farcela? Non posso
compromettere gli sforzi e i tentativi di altre persone.
Ognuno è solo in cima ad un orlo di mondo e per non
essere egoisti bisogna essere soli. Forse ho iniziato un
gioco superiore alle mie forze.
Finora non mi sentivo né fuori luogo né mi sembrava di
barare. Facevo quello che sapevo fare, che molte altre
volte avevo fatto.
Qui la natura è grande e sa essere estremamente ostile.
E’ come un gigante, che non fa niente per dimostrare che
è forte, perché non ha bisogno di dimostrarlo. Basta che
ci sia, per dimostrare che è forte, grande, deve
solamente essere, esistere.
Sembra a volte che la montagna rida. Quando sei solo e
in alto, sembra di sentire dei rumori, degli squittii che
assomigliano a risatine trattenute, sembra che la
montagna rida di quella piccola formichina che tenta di
salirla. Perché? Razionalmente quegli squittii sono
dovuti agli scarponi, o alla piccozza che cigola nella
neve gelata, ma lassù dove forse non è razionale andare,
irrazionalmente i rumori si trasformano.
Il rumore della piccozza diventa la risata del gigante-
montagna. Si entra nel mondo del fantastico, del non
tecnologico; del ridicolo?”.

***
Un centinaio di metri più in su, all’uscita di un altro
canale di neve troviamo un plateau inclinato che termina
ai piedi di un’altra fascia rocciosa. Siamo ora
completamente avvolti da nubi che arrivano da ovest
spinte da un vento fortissimo. Inizia a nevicare. Mauro
abbandona lo zaino ed inizia a salire per cercare di
individuare i nostri compagni. Ma non si vede niente,
dopo una mezz’oretta scende, Fabio è appena arrivato, si

38
vede che è stanco, ma anch’io non sto bene, faccio un po’
fatica a respirare, comincio a pensare di non essere ben
acclimatato e che forse sarebbe stato meglio passare la
notte al campo primo.

8 Il plateau del bivacco

Decidiamo di bivaccare qui, al limite superiore di questo


plateau di neve che presenta un’inclinazione intorno ai
trenta gradi. Proprio al limite occidentale, sotto la fascia
rocciosa, troviamo un masso molto grande al quale
ancoriamo l’involucro della tendina che possediamo e ci
accovacciamo dentro. Mauro, che è l’unico dei tre ancora
in forze, inizia a far fondere la neve, siamo quasi a 6000
metri e dalla mattina avremo bevuto si e no mezzo litro
di acqua. Ci prepariamo una minestra, ma qui è tutto
inclinato, facciamo fatica anche a star seduti, figuriamoci
a tentare di cucinare. Ingoiamo qualche biscotto. A me fa
male la testa, do la colpa alla congiuntivite cronica
all’occhio destro che ho da un paio di anni ma dentro di

39
me ho paura che possa essere mal di montagna. Si respira
male qui dentro, in poco tempo tutto è bagnato, lo spazio
in queste tende è già stretto per due, figuriamoci in tre
con zaini e scarponi. Mauro cerca di sdrammatizzare, ma
non ci riesce. Poi accade qualcosa che si aggiunge alle
nostre preoccupazioni, un temporale gigantesco si
scatena sulla Ramada. Ecco cosa scrive Fabio:

“Una notte durissima, un bivacco a quota stimata di


5800 metri, in tre in una tenda da due persone,
rannicchiati. Temperatura esterna -20°. La condensa
interna della tenda si gela e ai continui sbatacchiamenti
del telo, dovuti al vento, fa cadere il ghiaccio sui sacchi
ed in testa. Mauro dice: “ bisogna cantare e portare la
croce”. Mi sento ansioso, chiaramente non riesco a
dormire se non a tratti brevissimi. Sul cerro Ramada a
notte esplode un temporale, sembra una guerra, siamo
preoccupati che il temporale si sposti verso il Cerro
Mercedario, siamo proprio sulla cresta, con tanto ferro
intorno a noi. Altro motivo di preoccupazione. Mi
sembra di respirare male. Ho la sensazione che manchi
l’aria, dovuta anche ad una sensazione di claustrofobia a
causa della tenda sovraffollata. Penso che a queste quote
respirare è già un lusso, qualsiasi persona per quanto
misera possa essere, possiede il bene minimo di
respirare. Quassù vi è la condizione di massima povertà,
sembra non esserci nemmeno il bene minimo di
respirare”.

***

La notte passa lentissima, siamo tutti rannicchiati, ogni


volta che prendiamo sonno ci svegliamo di soprassalto
perché siamo scivolati sul telo della tenda e abbiamo la

40
netta sensazione di cadere. Nei pochi attimi che riesco ad
addormentarmi faccio sogni stranissimi che sembra
durino delle ore, poi mi sveglio e sono passati solo pochi
minuti. Il vento sbatte la tenda per tutta la notte, il
rumore è assordante. All’alba Mauro esce dalla tenda
deciso a raggiungere gli altri, sta bene, o almeno sembra,
io sono attanagliato da un forte dolore al capo e ho
freddo, questo per me è un bruttissimo sintomo. Fabio
fatica a uscire dalla tenda, prepariamo un tè, sono sempre
più convinto della necessità di bere, e bere molto, e non
riesco ad ingoiare nulla se non molto lentamente. Dopo
essere riuscito a buttare giù una tazza del tè esco dalla
tenda e appena in piedi vomito tutto.
Infilo il duvè ed in un brusco movimento il sacchetto nel
quale era contenuto e dove è riposta anche la giacca di
tela e il sacco da bivacco rotola giù per il nevaio.
Istintivamente faccio un passo per rincorrerlo, ma per
fortuna mi fermo. Siamo, come già detto, su un pendio di
neve dura inclinato di trenta gradi, una scivolata mi
sarebbe di certo fatale. Mi rendo conto in quel momento
che i miei sensi sono alterati e che i riflessi sono molto
lenti. A fatica calziamo gli scarponi doppi, è
un’operazione che ci costa almeno mezz’ora di fatiche.
Prepariamo lo zaino, abbandoniamo senza una ragione
vera e propria, se non l’inconscia volontà di non
appesantirci troppo, la tenda, le corde e tutti i chiodi che
abbiamo trasportato fin qui. Siamo certi che Mario, Enzo
e Sergio hanno trascorso una notte migliore della nostra e
quindi ci preme arrivare al più presto possibile al loro
campo. Poi penseranno loro a tornare qui a prendere
quello che abbiamo abbandonato.
- Cristo, non possono essere tanto più in alto! –
Mauro parte avanti, lo seguo ma non riesco a mantenere
il suo passo, il terreno non è difficile, siamo su una

41
placca inclinata di rocce, abbastanza rotte; in alto un
centinaio di metri più in su si raddrizzano a formare una
torre. Fabio è dietro, ancora più lento di me. Il vento
continua a soffiare, sempre più forte. Non so se sia il
vento che è aumentato o se sono i miei nervi che non lo
sopportano più. Certo è che alle volte vengo spostato
anche di mezzo metro. Mi fermo sovente per respirare,
non sono assolutamente acclimatato. Son salito troppo
velocemente fin qui. Faccio un breve calcolo, che nella
mia mentre risulta fin troppo complicato e mi rendo
conto che ieri abbiamo percorso 1300 metri di dislivello,
forse sono troppi a queste quote. Sono seduto sotto alla
torre a prendere fiato quando da dietro le rocce sbucano
fuori Mario ed Enzo. Enzo sta male, è stordito, ha male
al capo, fa fatica a reggersi in piedi e a mantenere
l’equilibrio, è tutto imbacuccato. Il male lo ha colpito,
fortissimo, ieri sera, nessun farmaco è servito a qualcosa.
Scambiamo poche parole. Mario lo sta accompagnando
al campo base. Mario sta bene, li avverto che sotto di me
sta salendo Fabio. Ci salutiamo, mi dispiace molto per
Enzo, spero che riesca a recuperare, ma in quel momento
l’unica cosa da fare per lui è scendere.
Raggiungo il campo due, è piantato poco più in alto della
torre di roccia che presenta difficoltà di terzo nella sua
parte più vulnerabile. Siamo a 6000 metri. Guardo su e
vedo poco più avanti sulla cresta Mauro e Sergio che
sono andati, come mi ha preannunciato Mario, a cercare
una possibilità di progredire. Non sto ancora bene, gli
occhi mi fanno male, sento che ho bisogno di bere, entro
in tenda, mi infilo nel sacco piuma e cerco il fornello per
far fondere la neve, ma, ironia della sorte non lo trovo. Il
nostro, ricordo ora, lo abbiamo abbandonato al bivacco e
quello della prima squadra devono averlo preso mauro e
Sergio. Mi viene il dubbio che vogliano tentare la cima.

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9 Enzo sul passaggio roccioso prima del Campo 2

Lo reprimo, mi vergogno di quello che ho pensato. Resta


il fatto che ci sono almeno dieci bombolette di gas e
nessun fornello. Mi metto a dormire sperando di
recuperare il sonno della notte.
Vengo svegliato da Mario che entra in tenda. Anche lui
cerca inutilmente qualcosa da bere. Sto meglio, comincio
a credere che il mal di testa era solo stanchezza. Mario
mi comunica che Enzo sta scendendo insieme a Fabio.
Hanno preso la decisione comunemente quando si sono
incontrati.

Di questo giorno scriverà Fabio:

“Il sole sorge ancora, sorge sopra un uomo sbattuto,


provato. Provato perché ha voluto provarci. Ma la luce
porta coraggio e fa definire contorni prima imprecisi per
il buio. “Ognuno faccia il suo passo, oggi” dice Mauro.
“Sono stanco” dico “Fate conto che io non ci sia”. Rudi

43
esce dalla tenda e vomita, si lamenta per il fortissimo
mal di testa.
Mauro parte.
Lasciamo la tenda piantata.
Sono smontato, mi sento solo, sono demotivato, non ho
interesse ad andare avanti, a salire in cima.
Quello che cercavo penso di averlo già trovato.
Il pomeriggio del 20 gennaio 1983. La notte fra giovedì
20 e venerdì 21 gennaio 1983. Provare la miseria delle
proprie possibilità, vedere fin dove si può arrivare.
Capire cosa si è capaci di fare.
Per questo sono scaricato, la cima non mi interessa, per
me non è un’ambizione.
Vado avanti con l’intendo di raggiungere il campo che
deve essere poco sopra. Avanzo lentamente. Dove sto
andando? Sono solo sulla cresta di un monte, a seimila
metri di quota sulle Ande, in Argentina, a 15.000
chilometri da casa. E non so bene cosa faccio qui,
perché ci sono arrivato.
Ho la sensazione infantile di voler dire: “Non gioco
più”, come un bimbo che ha perso interesse per il
giocattolo che ha appena rotto per vedere come era fatto
dentro. Una caduta di interesse per questa avventura che
ha condizionato la mia idea fissa per tutto il 1982, che
ha divorato tutto il mio tempo libero. Però meritava, è
stato bellissimo, una esperienza da vivere e che penso di
aver vissuto bene. Ma bisogna sapere quando il gioco è
finito.
“The end of the game” sarà il primo disco sul piatto del
giradischi quando tornerò a casa. Ma ormai cosa
faccio? Non posso ragionare in termini personali, siamo
un gruppo, così mi carico per arrivare al campo 2, per
sapere cosa succede, cosa fanno gli altri amici ma senza
nessuna intenzione di andare in cima. Mauro è partito

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carichissimo. Rudi Cricio è un po’ più avanti di me sulla
cresta. Ad un tratto appare Mario, seguito da Enzo. Sto
ancora pensando che non posso uscire da questa
avventura come se scendessi da un autobus. Non ho
voglia di andare in vetta ma desidero ardentemente che
qualcuno dei miei amici raggiunga lo scopo di questa
spedizione.
Così è con una certa costernazione che vedo due dei più
forti e preparati tornare indietro.
Cosa succede? Enzo sta male, ha male di testa, alla
nuca. Mario lo sta accompagnando di sotto. Mario sta
benissimo, è in piena forma. Così mi offro io di
accompagnare a valle Enzo. Mi sembra la soluzione più
razionale ed umana. Per me non costituisce nemmeno
una rinuncia, ed è la soluzione più utile all’economia del
gruppo”.

Per Fabio la spedizione finisce qui, ma nessuno potrà mai


dimenticare questo gesto altruistico che lo eleva più in
alto di qualsiasi cima.

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VIENTO BLANCO

Per me e Mario la giornata passa cercando di rimetterci


dalle fatiche dei giorni precedenti. Siamo molto amici,
abbiamo iniziato ad arrampicare insieme, molti anni fa.
Legge il mio diario, ne discutiamo, parliamo delle nostre
ragazze, amiche pure loro, che sono lontane, ma la cosa
non ci turba più di tanto. Riandiamo a momenti passati
tutti assieme sulle nostre montagne. Facciamo progetti
per il futuro. Essere qui, a dividere idee in questa tendina
a 6000 metri di quota ci fa sentire ancora più vicini.
Verso le quattro rientrano al campo Mauro e Sergio.
Sono evidentemente delusi, hanno tentato di salire la
torre che per un centinaio di metri sbarra la via della
cresta, è, a detta loro, molto friabile, si staccano blocchi
grossi e molto pericolosi, inoltre le difficoltà sono
piuttosto elevate. Bisognerebbe attrezzare il pilastro con
corde fisse, ma questo non rientra nella filosofia della
nostra spedizione, comunque sembra che sia possibile
aggirarlo ma ne riparleremo domani mattina, la vetta
ormai dista solo settecento metri di dislivello e non sarà
una torre di roccia a fermarci. Il tempo è migliorato,

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splende il sole, ma il vento non è ancora calato. Io sto
abbastanza bene, avrei bisogno di bere. Con il fornellino
fondiamo parecchia neve e prepariamo un’aranciata
fresca con le buste di Sali, beviamo tutti e quattro, siamo
un po’ deperiti e per la prima volta mi accorgo quanto il
sole abbia martoriato le nostre facce, nessuna crema è
servita, siamo pieni di incrostazioni e di bolle, la pelle si
sta squamando. Io e Mario scendiamo al luogo del
bivacco e nel giro di un’ora risaliamo con la tenda e il
materiale abbandonato, è un segno che sto bene, sono
solo stanco, ma stanotte avrò modo di recuperare.

10 La vetta vista dal Campo 2

Nel corso della risalita, però, il tempo si guasta


nuovamente, ritornano le nubi e per un po’ ritorna a
nevicare. Il vento aumenta ancora. La sera ci vede tutti
raccolti in una delle due tendine, cuciniamo alcune
minestre liofilizzate il cui gusto ormai ci nausea, è da
quattro giorni che non ingoiamo altro. Io mi domando
coma ha fatto Jager a mangiare queste schifezze per

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sessanta giorni di fila nel suo esperimento di
sopravvivenza sul Huascaran.

11 Mauro, salendo verso il Campo 2

Mauro è convinto che sia meglio affidarsi a cibi più


naturali e più appetitosi, andiamo con la memoria a
quello che desideriamo mangiare. Verso le nove ci
ritiriamo in due per tenda. Non ci sembra che il tempo sia
migliorato, ma nemmeno ci preoccupa molto. Mettiamo
la sveglia alle quattro. Riesco ad addormentarmi quasi
subito, sogno molto, sono a casa, mangio, bevo, siamo
seduti in giardino sotto gli alberi e spira una lieve brezza,
mio padre mi parla di cose astruse, io mi giustifico con
lui per qualcosa che ho fatto, ma non so cosa, poi tutto ad
un tratto sono sempre con lui, ma in una fonderia, c’è
rumore dappertutto, lui parla forte ma non lo sento, tremo
per il freddo, ho i piedi bagnati, non capisco dal rumore
cosa mi stia gridando, poi individuo la voce ma non è
quella di mio padre ma quella di Mauro, mi sveglio di
colpo e sento Mauro che impreca e spera che la tenda

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non voli via. La tenda è come un pallone, tesa, sbatte, si
muove tutta.
Il rumore è assordante, dobbiamo gridare per sentirci a
venti centimetri l’uno dall’altro, ogni tanto il vento cala
di intensità e cerchiamo di captare quello che ci gridano
dall’altra tenda. Siamo nel mezzo di quello che gli
argentini chiamano “bufera de viento”. Non ho mai visto
un vento simile. Abbiamo la netta sensazione che a
breve una raffica più forte delle altre ci solleverà e ci farà
precipitare per mille metri giù per la parete sud.
-Sarebbe una soluzione per arrivare al campo base
avanzato senza faticare molto – dice Mauro. Ma non ride.
E’ buio, non è ancora mattina. Alle nove, dopo aver
passato la notte a stare attenti alle tende nella speranza
che non si strappino, decidiamo di accordo con gli altri di
scendere. Non abbiamo molti viveri, non siamo in grado
di resistere per molti giorni quassù e da com’è il tempo
non sembra che abbia intenzione di smettere a breve
termine. Rimanere qui significherebbe deperire
fisicamente e probabilmente quando si presentasse la
possibilità non avremmo più la forza e soprattutto la
determinazione per tentare la vetta.
Lentamente ci vestiamo, portiamo appresso solo il sacco
piuma, i vestiti e la piccozza. Lasciamo qui tutto il resto.
Non avremmo la forza di riportare su tutto, quindi tanto
vale lasciare tutto su, se il vento dovesse strappare le
tende e portarle via con tutto il contenuto la spedizione
fallirebbe, ma se portassimo con noi tutto per poi tentare
di riportarlo fallirebbe comunque, quindi tanto vale
abbandonare tutto e sperare nella fortuna. Chissà che per
una volta non ci aiuti.
La discesa nel vento è penosa e lunghissima, siamo
fiaccati dalle fatiche degli ultimi giorni e provati
psicologicamente dal tempo che imperversa. Questo

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vento è infernale, non smette neanche per un momento.
Qualche volta sembra che per alcuni attimi cali di
intensità per poi riprendere con la stessa forza di prima.
Duemila e cinquecento metri di dislivello in discesa, una
ventina di chilometri di sviluppo, non sono pochi in
queste condizioni. Sostiamo al campo primo per alcuni
minuti, mangiamo una scatola di prugne secche lasciate
li da chissà chi di noi. Poi riprendiamo a scendere, la
prima fascia rocciosa, il canale di penitentes; tanti metri
di salita, altrettanti in discesa. Dopo al canale dello
scivolo di neve ci sediamo distrutti e ci lasciamo
scivolare come in un toboga, ma ogni tanto la neve è
troppo molle e finiamo dentro fino al collo, sembriamo
dei bambini, torniamo sconfitti, ma siamo felici di essere
nuovamente giù. Al campo base avanzato abbandoniamo
gli scarponi e gli indumenti pesanti e iniziamo la discesa
lungo la morena fino al campo base. Sono cinque giorni
che non rientriamo, Mario e Sergio uno di più. Quando
arriviamo alle tende siamo sconvolti o almeno così
credo dalle facce di quelli che ci accolgono.

Enzo scriverà:

“Veniamo a sapere dagli argentini che Mauro, Sergio,


Mario e Rudi stanno tornando al Campo Base, quando
arrivano sono molto provati e portano sul viso i segni di
parecchie scottature”.

La sera siamo finalmente tutti riuniti nella tenda mensa


del campo base, Vittorio Zuppel sta bene, la febbre è
passata e non ha più problemi intestinali. Enzo sembra
ripresosi bene, mangia e afferma di essere pronto a
risalire. Gli argentini intanto sono riusciti a salire in
vetta al Picco Polacco, sono felici, tra qualche giorno se

50
ne andranno, per loro la spedizione è finita bene, per noi
deve ancora cominciare.

12 Il Pico Polacco visto dalla nostra cresta

Un po’ di invidia mi assale, vorrei essere in Pablo, non


essere più perseguitato dall’idea di quella cresta, poter
dormire sapendo che da domani qui potrò fare il turista,
prendere il sole, fare escursioni nelle valli laterali, e
invece no. Bisogna risalire; Mauro con la sua
caratteristica di parlare fuori dai denti chiede chi se la
sente di risalire. Non parliamo molto, siamo in cinque.
Si decide in fretta. Io e Sergio formeremo il primo
gruppo, saliremo al Campo Base Avanzato e appena il
tempo lo permetterà andremo al campo 1°, questo può
ospitare comodamente solo due persone.
Contemporaneamente Mauro con Enzo e Mario,
risaliranno al campo base avanzato. Il giorno seguente
saliremo tutti al campo 2°, io e Sergio, partendo da
molto più in alto trasporteremo un po’ più di viveri e la

51
tenda del campo 1° in modo da avere, al campo 2°, sei
posti disponibili e viveri per almeno una settimana.
Preferisco salire per primo assieme a Sergio e frazionare
in questo modo l’ascesa. Ho intenzione di abituarmi
lentamente alla quota in modo da non incorrere nei
problemi di adattamento che ho avuto la volta scorsa.
Anche Sergio è della mia stessa idea, un po’ più di peso
ma un po’ meno di dislivello. La serata termina nella
tenda mensa degli argentini, festeggiano la salita al
Picco Polacco. Hanno portato sei alpinisti in vetta per
una via aperta venticinque anni fa da Antonio Beorchia,
sono entusiasti. Ci offrono frittelle fritte che chiamano
“Zoppa y Pillas” e un minestrone. Domani se ne
andranno. Noi risaliremo.

52
LA RISALITA

Rispetto a ieri la situazione del tempo non è mutata


minimamente, sulla cresta del Mercedario nuvoloni si
rincorrono ed il vento alza pennacchi di neve per
centinaia di metri. Non sappiamo come, e se,
ritroveremo le tende al Campo 2. Il baquiano on Nicolas
dice che questo è il famigerato Viento Blanco. Ci mostra
alcune nubi a forma lenticolare che sembrano delle
enormi palle. Si formano in presenza di correnti
fortemente contrastanti e quando appaiono nel cielo la
velocità del vento può superare i 150 chilometri orari.
Fabio e Cristina si impegnano tutta la mattinata per
preparare un colossale spezzatino con carne e patate. Io
rimango chiuso nel sacco in tenda per buona parte della
mattinata a riposare. Il sonno nel corso della notte è stato
lungo e profondo e mi sento rimesso completamente
dalle fatiche e già pronto a risalire.
Nel pomeriggio ripartiamo. Assieme a me e Sergio
salgono Vittorio Aglialoro e Vittorio Zuppel. Per il
secondo si tratta di un gesto di orgoglio, una verifica
delle sue possibilità. Ci accompagneranno, aiutandoci

53
nel trasporto dei carichi fin sulla cresta. Vogliono dare
uno sguardo dall’altra parte. Per un po’ cammino
insieme a loro, poi mi stacco e vado avanti. Mi sento
bene, cammino veloce come se mi trovassi su di un
sentiero alpino, ho bisogno di rimanere solo. Ogni tanto
mi fermo a scattare qualche foto o a raccogliere qualche
sasso un po’ più colorato degli altri. Cammino e penso, è
un momento di verifica, devo capire che cosa e,
soprattutto, quanto vale questa cresta, questa via, questa
montagna, per me. Qui non si tratta di essere degli
alpinisti eccelsi ma è necessario essere fermamente
motivati per tornare a salire. La prima volta tutto era
novità e scoperta, ora non più. Conosco, si può dire,
ogni sasso, ogni passaggio, so quanto ci si mette da un
posto ad un altro, quanta fatica costi tutto ciò. Non lo
faccio più con intenti esplorativi, non c’è nulla di nuovo
da scoprire, lo faccio solo per orgoglio, per dire di essere
arrivato lassù, per dire di avercela fatta.

***

Arrivo al Campo Base Avanzato in un tempo


brevissimo, una delle due tende è strappata, è afflosciata
a terra e il muretto protettivo le è franato sopra, sposto
tutte le pietre, la rimetto in piedi e preparo un tè per gli
altri che stanno arrivando.
Il vento continua imperterrito a soffiare, mi assale il
dubbio che non ce la faremo mai a salire. Quando
Vittorio ficca la testa nella tenda il tè è pronto e lo sto
zuccherando, si tolgono gli scarponi ed entrano,
prepariamo da mangiare, apro delle scatolette di polpette
che trovo particolarmente gustose e che per fortuna gli
altri non apprezzano altrettanto, così non ho problemi
per saziare il mio appetito. In questa settimana sono

54
diventato uno specialista di cucina veloce, preparo purè
e budini a tutte le ore tanto che gli altri mi prendono in
giro, ma in una spedizione, quando imperversa il brutto
tempo e non ci si può muovere dalle tende, di eroico non
c’è proprio nulla da fare e io scrivo o mi diletto a
cucinare quello che c’è.
Fatto il punto della situazione ce ne andiamo a nanna.
Loro tre occupano la tenda più grande ed io mi sistemo
in quella da due assieme al materiale. E’ la prima notte
che passo da solo da che è iniziata la spedizione e vengo
assalito per la prima volta da un forte senso di nostalgia
e dalla necessità di una presenza affettiva. Sgarfo nel
sacchetto e per la prima volta in vita mia prendo un
sonnifero.

***

La mattina il vento continua a soffiare, ci alziamo tardi e


ci colleghiamo con il campo base. Rinviamo la partenza
per i campi alti ancora di un giorno, sotto, condividono la
nostra decisione e rinviano anch’essi la partenza. Ci
comunicano che questa notte le raffiche hanno abbattuto
la tenda mensa del Campo Base. Ritorna a farsi forte la
preoccupazione per le tende al Campo 2.
La giornata passa lentamente, ci riuniamo in quattro nella
tenda più grande, si dorme, si parla, si scrive, si cucina.
Io scrivo una lettera a casa che non spedirò mai, vi
raccolgo le mie idee su questa spedizione e
sull’alpinismo in generale, tento di mettere in bella la
discussione che è stata fatto l’altra sera nella tenda degli
scapoli. Le riflessioni sulla differenza che esiste tra una
spedizione, anche se piccola, ma che ha sollevato rumore
e l’alpinismo praticato individualmente sulle nostre
montagne. Quella lettera l’ho persa, ma rileggendo il

55
diario di Fabio, lo stesso giorno, rileggo parte dei miei
pensieri, delle mie convinzioni:

“Oggi partono i San Juanini, dopo il pranzo a base di un


colossale risotto fatto da Cristina, ci salutiamo in un
sincero clima di caldo cameratismo. Ci lasciano la loro
tenda mensa, più piccola, ma più robusta della nostra
che questa notte è stata buttata giù dalla furia del vento.
Ci salutiamo con un “Arrivederci a San Juan”.
Ci fanno mille auguri per la cima del Mercedario. Si
allontanano sempre più piccoli nella sterminata valle del
Rio Colorado. Un desiderio di seguirli, incamminarmi
con loro, per liberarmi dall’incubo di questa montagna
di luce andina, sempre sopra di noi, sempre grandiosa,
una montagna che qualcuno di noi deve scalare.
Qualcuno deve arrivare in cima a quella maledetta
montagna. Troppo è stato detto.
Troppi sanno, anche tutti quelli a casa, tutti quelli che ci
hanno aiutato. Tutti si aspettano che uno di noi arrivi in
vetta al Cerro Mercedario. Ma pochi sanno quanta fatica
costi un passo, un solo passo verso l’alto a 6000 metri.
Quando non ce la fai più; quando hai il fuoco nei
polmoni, quando vorresti avere una bocca grande il
doppio per buttare dentro ossigeno, quando la gola ti
brucia per l’aria troppo secca, quando le labbra si
spaccano per il sole e per il vento, quando…
Ma è inutile continuare, bisogna provare, io ho provato,
ho avuto il coraggio di provare e ne sono contento. Però
è un gioco, un gioco per grandi o forse un gioco per
duri, ma pur sempre un gioco.
Una spedizione invece sembra trasformarsi in un
business, non è più un gioco, ma diventa un affare, non
per proprio piacere o divertimento. Bisogna farlo.
Bisogna farlo non per se stessi, ma per gli altri. Per

56
quelli magari a cui non interessa niente dell’alpinismo,
ma ti hanno aiutato e ora aspettano. Aspettano che uno
di noi arrivi in cima al Cerro Mercedario.
Il gioco finisce. La spedizione diventa una trappola, il
cui modo per uscirne è arrivare in cima, in cima a quella
maledetta cima. In cima a quel Cerro Mercedario che sto
guardando e ammirando splendente e maestoso alla luce
di questo tardo pomeriggio. Ed è anche bellissimo,
grande. Ghiacciai, seracchi, scivoli di neve, rocce, salti.
Tutto fino in alto alla cima maestosa e lontanissima.
Ma io lo sto guardando dal basso, non me la sento più
di metterci le mani. Può essere terribile, bello visto da
sotto, terribile e spaventoso quando ci sei in mezzo. 6770
metri sono tanti. Sono fatti di migliaia di piccoli passi
che costano una fatica immensa. Una fatica che per il
momento io non sono disposto a sopportare”.

***

“Alle 19,30 il sole sparisce dietro al Picco Polacco. Il


tempo continua ad essere incerto. Nicolas dice che c’è il
vento sonda che porta freddo in quota e caldo in
pianura. “Tiempo malo”, e noi continuiamo a essere
confinati in questa valle. Davanti a noi il muro immenso
del mercenario che chiude la valle con la cresta che
porta fino al Picco Polacco, dietro a noi la lunga valle
del Rio Colorado, desertico, 60 chilometri per arrivare
alla prima capanna abitata.
Siamo più soli ora che se ne sono andati i diciassette
argentini. Il campo sembra ora più grande. E
l’incertezza comincia a serpeggiare. L’altro giorno
bastava un giorno alla cima, dicono, un solo giorno in
più di bel tempo e la cima era raggiungibile. Ora non si
sa se il tempo permetterà di avvicinarsi ancora alla

57
vetta.
Tutto in questi momenti sembra più lontano, più difficile.
Affiora la nostalgia di casa e si incomincia a guardarsi
alle spalle, verso il fondovalle, la testa cessa di essere
sempre volta in alto, verso la montagna, si guarda
indietro. Tutto sembra vanificarsi, un anno e più di
preparativi e di progetti buttato via per tre quattro giorni
di maltempo. Ancora una volta la natura, gli elementi,
sembrano avere il sopravvento sulle formiche umane,
sulla loro volontà, sulla ostinatezza di questi piccoli
uomini.”.

Un altro imprevisto, Vittorio Aglialoro non dorme tutta


la notte a causa di un dolorosissimo mal di denti,
nonostante tutte le pastiglie antidolorifiche che ingoia il
male non accenna a calare. Alla mattina controllo la sua
bocca e mi accorgo che i denti doloranti sono tutti
piombati, mi ricordo allora di aver letto da qualche parte
che questo è piuttosto comune in alta quota. Le sacche
d’aria che si formano tra dente e piombo con il calare
della pressione barometrica, che si verifica salendo di
quota, si dilatano e comprimono le terminazioni
dolorifiche, causando il male. Unica soluzione è quella
di togliere i piombi, ma nel nostro caso…
Un altro uomo è perso, Vittorio scende e il suo carico ce
lo dividiamo tra noi tre.
Zuppel ce la mette tutta, vuole dimostrarsi di essere
guarito, stringe i denti e nonostante non possa essere
acclimatato sta al passo e per certi periodi fa lui pista.
Rimane molto impressionato dai penitentes, di cui tanto
aveva sentito parlare, e finalmente c’è in mezzo.
Fotografa, gioisce come un bambino dopo aver aperto
una scatola di nuovi giochi che desiderava da tempo. Sul
salto roccioso oltre la forcella si appende e si tira su a

58
braccia per la corda che avevamo lasciato pendere
durante la discesa a valle del ventidue.

13 In mezzo ai penitentes

E’ una prova di volontà, di coraggio, giunge stremato


alla tenda del campo due. E’ stanco ma felice, il suo
sguardo spazia all’orizzonte sulle montagne del Cile.
Non ci sono nuvole e pensiamo di poter intravedere
nella foschia il Pacifico. Scarica il suo zaino e poi da
solo, con le raccomandazioni quasi paternalistiche di
Sergio, prende la via del ritorno. Siamo preoccupati che
non gli succeda nulla almeno fin sulla forcella, il vento è
forte e la cresta molto affilata in questa sua prima parte,
per la parte di roccia non dovrebbero esserci problemi in
quanto abbiamo lasciato la corda.
Alla sera sarà al campo base.
Di questa giornata di movimenti Fabio scrive:

“Il vento soffia ancora ma con minore intensità, il


tempo è enigmatico, alle nostre spalle una nube

59
lenticolare sembra fare da guardone mezzo nascosta da
una costa del Cerro Negro. Il baquiario Nicolas è
dubbioso
- Puede compuerse – dice,
ma quella nube lenticolare sta a dirci che potrebbe
anche non “compuerse”.
La montagna è un posto duro, vi resistono solo poche
cose dure: rocce, erbe dure, uccelli selvatici, nevi dure,
ghiacciai come vetro, uomini duri.
Cose dure e fredde, uomini duri e freddi.
Cose aspre ed aguzze, accidentate come è aspra e
aguzza e accidentata la montagna.
Comunque sia il Campo Base Avanzato non risponde,
segno che se ne sono andati più in alto. Verso le dodici
ritorna al campo base Vittorio Aglialoro, ha male ai
denti. Gli altri tre stanno salendo al campo 1°.
Zuppel rientrerà al campo base la sera.
E’ durissima – dirà – fermarsi ogni dieci passi a
respirare.
E’ stravolto. Ma dice di essere contento perché
finalmente si è reso utile alla spedizione.
Nel pomeriggio partono per il campo 1° Mauro, Mario
ed Enzo. Rispetto al primo tentativo li vedo ormai come
dei veterani, i pantaloni sporchi, l’equipaggiamento
meno brillante. Mi sembrano più disincantati, forse c’è
meno entusiasmo, forse a causa del tempo incerto.
Comunque sanno ciò a cui vanno incontro, forse per
questo sono meno entusiasti. Per questo sono da
ammirare di più. Mario è preoccupato per le tendine del
campo 2°, secondo lui sono state strappate dal vento.
Comunque vanno. Buona fortuna ragazzi. Io resto.

***
Vittorio è sceso, io e Sergio rimaniamo soli, a 5400

60
metri di quota, sul versante cileno di questa cresta, in
una tendina sistemata in un anfratto della roccia.
L’esposizione è a ovest e per tutto il pomeriggio e la
sera fino al tramonto usufruiamo dei caldi raggi del sole.
Il vento soffia ma in questo nido d’aquila ci sentiamo
protetti e la luce che filtra dai teli di nylon giallo ci
infonde un certo ottimismo. Siamo soli, ora possiamo
dire di essere realmente soli. Nei pochi, pochissimi
momenti, in cui non parliamo il silenzio si intrufola
dappertutto. Solo il vento con la sua voce, disturba ogni
tanto questa pace.
Dalle quindici e trenta, ora che giungiamo al campo, ci
infiliamo nei sacchi a riposare e mangiare, vogliamo
molto bene a noi stessi in questi giorni, rifiutiamo ogni
lavoro che ci costi un po’ più di fatica. Sedici anni non
sono poi così tanti, ma nel nostro caso separano due
generazioni molto diverse, per usi, abitudini ma
soprattutto disponibilità. Sergio è nato all’inizio della
seconda guerra mondiale, io al’inizio del boom
economico. In quelle ore che ci separano al tramonto e
quindi alla notte, che qui significa fine delle attività,
parliamo di molte cose, di casa, di figli e quindi di
giovani, di interessi.
La mia generazione ha maggiori possibilità di girare, di
spostarsi, di fare conoscenze, rispetto alla sua. Il
discorso si sposta sulle feste di fine anno, sul suo e sul
mio modo di trascorrerlo e, inevitabilmente, sui ricordi
di come abbiamo trascorso l’ultimo, quello di venti
giorni prima. Venti giorni, quante cose sono mutate in
questi giorni, quante esperienze nuove, quanto sono
maturato in questo periodo.
L’ultimo l’ho passato insieme a Mario e alle nostre due
ragazze. Ora Mario sarà al Campo Base Avanzato con
Enzo e Mauro, novecento metri più in basso.

61
Poi, non so più come, Sergio parla della sua passione
giovanile per la motocicletta. E’ uno sport che non ho
mai amato, ho sempre avuto paura del rischio non
controllato. La tecnologia con tutti i suoi difetti mi ha
sempre spaventato, l’incontrollabilità del mezzo, la
scarsa importanza del fattore umano sul fattore
macchina. Anche praticando l’alpinismo ho accettato il
rischio. Ma il rischio controllato dall’uomo, dalle sue
capacità, dal suo allenamento. Ogni disgrazia in
alpinismo, secondo me, è sempre imputabile alla
incapacità, o meglio, all’errore dell’uomo, un terreno
sconosciuto, l’ora sbagliata, la leggerezza nel controllare
il tempo atmosferico, lo scarso allenamento con la
sopravalutazione delle proprie capacità e
sottovalutazione delle difficoltà, o in certi casi dei
pericoli, sono tutti fattori che, in alpinismo,
predispongono alla disgrazia.
Comunque, nel corso del discorso, vengo a sapere che
Sergio conosceva e frequentava amici di mio padre. E’
strano. Conosco da molti anni Sergio e dovevamo venire
fin quassù, in questo ambiente da condor, per sapere che
mio padre aveva corso in motocicletta nel suo stesso
periodo, che probabilmente si erano anche conosciuti.
Sono cose strane, che in un altro ambiente, in un altro
momento, forse, sarebbero passate inosservato, o
perlomeno avrebbero avuto un peso certamente
inferiore, ma in questo luogo queste conoscenze ci
legano molto e ci fanno sentire ancora più vicini. Il sole
cala, l’ultimo raggio lascia il posto al freddo blu della
notte, è ora di chiudersi nei sacchi e avvolgersi nei
propri pensieri. Il vento continua a soffiare.

***

62
Partiamo, è mattina avanzata, abbiamo dormito bene e
molto. Non ci preoccupiamo di essere veloci, nel nostro
caso non ha senso. Pieghiamo la tenda. Il campo 1° non
esiste più. Ci aspettano seicento metri di dislivello per il
campo 2°, sappiamo dov’è, quanto manca, che cosa ci
aspetta. Non è facile salire in queste condizioni. Lo
zaino pesa e gli spallacci tirano sulle spalle. Non
possiamo barare con noi stessi, sappiamo quanta strada
c’è, quali sono le difficoltà.

14 Sulla cresta verso il Campo 2

Procediamo al solito, slegati, ma uno vicino all’altro,


abbastanza lontani da non darci fastidio ma abbastanza
vicini per darci un aiuto morale. Ammiro Sergio, è un
toro, sembra non stia facendo fatica, mentre io cerco
tutte le scuse possibili per fermarmi ogni momento a
respirare. In tutti i passaggi innevati ci sono ancora le
nostre tracce, non è nevicato e quindi sono ancora
evidenti. Il vento le ha indurite e gelate. In certi casi è
opportuno farne altre. Sostiamo un po’ al luogo del

63
bivacco dell’altro giorno, sto bene, la quota non mi da
alcun fastidio, se non avessi questo zaino così pesante,
probabilmente procederei come sulle Alpi. Al Campo
Base mi sono pesato, ho sessantaquattro chili, quando
sono partito ne avevo settanta. Meno peso da portare su,
è una buona scusa. Arriviamo bene al Campo Due.
Faccio gli ultimi metri in apprensione, uno stato di
angoscia mi attanaglia. Chissà se ci sono le tende. Le
tende sono lì, dietro a loro un muro di neve si è
accumulato, sul versante ovest affiora la roccia. Due
tiranti si sono rotti, ma le tende sono lì, hanno resistito.
Questa è una notizia meravigliosa che mi da coraggio. Il
tempo, inoltre, sembra sia migliorato, il vento si
sopporta.

15 Le tendine al Campo 2

Entriamo in una tenda a preparare qualcosa di caldo per


i nostri tre compagni che dovrebbero essere qui in un
paio di ore. Sono partiti da più in basso ma sono forti e

64
certamente hanno iniziato la salita molto presto
stamattina.

16 Mauro sulla seconda fascia di rocce

Alle 16 sbucano dall’ultimo salto roccioso Mauro e


Mario. Sono soli, Enzo non c’è.
Per un po’ non ne parliamo, forse è un po’ indietro, ma
non arriva.
Mauro conferma le nostre paure, Enzo ha rinunciato alla
risalita poco sopra il campo base avanzato. Era stanco,
non riusciva a camminare. Anche per lui la spedizione è
finita, ce ne dispiace. Mi sento quasi in colpa, c’è aria di
imbarazzo, lui, proprio lui, uno dei più forti e più
costanti, quello con le più belle cose sul curriculum. Mi
sembra impossibile che sia il suo fisico ad aver ceduto.
Al Campo Base lo avevo visto demoralizzato,
probabilmente per il male che lo aveva colpito, ma
soprattutto demotivato; sembrava svuotato, mi era parso
che per lui questa cresta, questa montagna, non

65
contassero più nulla, probabilmente in questi valori non
crede più molto, altri, più importanti gli si sono
sostituiti. Ha vissuto una nuova spiaggia qui al
Mercedario, ne parleremo al Campo Base e lo scriverà
sul diario:

“Sono ritornato da solo al Campo Base. Moralmente


più che fisicamente sto male. A quota 4800 non avevo
più la voglia di salire. Sento nella montagna qualcosa di
diverso dal solito. La vedo come una massa inerte, non
mi ispira per niente. Sento molto la mancanza della mia
famiglia. Non ho nessuna notizia da quando siamo
partiti. Forse mi blocca questo pensiero. Anche se la
cima è perduta sono contento lo stesso. Il solo fatto di
pensare alla mia famiglia in questi momenti mi consola
di tutte le amarezze patite in questa parte alpinistica
della spedizione.
Ormai la spedizione sta volgendo al termine, scrivendo
sento come se mi si sbloccasse qualcosa dentro, vedo
tutto più chiaro. Vorrei che i miei cari vivessero con me
tutte queste esperienze. Mi sento un po’ egoista a vivere
tanto tempo al di fuori della mia famiglia. Sono contento
per questa esperienza perché mi ha fatto vedere certe
sfumature del mio carattere che non avevo molto ben
capito. Quanto sia poco importante per me la montagna
senza uno stimolo vicino, quale la donna a cui si vuole
bene.
Aspetto il giorno del rientro come la liberazione da
queste paure e tormenti.
Mi accorgo di non essere quel lupo solitario che
pensavo”.

***

66
Siamo in quattro sopra questo angolo di mondo, siamo
soli, rannicchiati tutti all’interno di una tenda, stretti si
sta meglio, più caldi. C’è meno paura.

17 Mario nella tendina del Campo 2

Stiamo aspettando di collegarci via radio con il Campo


Base, il vento sembra essere calato di intensità, la serata
è tranquilla. Al contatto usciamo tutti quattro, il
tramonto è bellissimo, la serata stupenda.
Fabio da sotto ci comunica che il baquiano ha
sentenziato tempo splendido per domani. Speriamo.
Viveri per quattro ne abbiamo a sufficienza per resistere
qui almeno una settimana. Ma i viveri non sono certo
sufficienti a rimanere quassù. Siamo su una spalla
nervosa, proprio sul filo della cresta, a 6000 metri di
altitudine. Per uscire dalle tende bisogna infilarsi gli
scarponi doppi, il duvè e gli occhiali, il riverbero del
sole è fortissimo, anche nelle tende. Rimanere qui
significa, in ogni caso, deperire, nonostante ci sia tanto

67
da mettere sotto i denti. Se poi il tempo peggiora c’è da
battersi contro la caduta inevitabile del morale, la
tensione nervosa che a lungo andare sfibra. Perciò la
notizia sul tempo ci conforta e ci manda il morale alle
stelle. Siamo proprio italiani, facili da abbattersi, ma
facili da riprendersi. Basta un niente per farci
nuovamente sperare.
Rientriamo nelle tende, o meglio, rientriamo in una delle
due, quella che , per tutta la sera diverrà la nostra casa
comune. Mauro ha portato fin quassù un piccolo
registratore a cassette. Ascoltiamo alcuni brani registrati
ieri al Campo Base Avanzato, il fulcro della discussione
erano le tende del Campo Due, nessuno pensava
avessero resistito. E invece siamo qua, tutto è a posto,
tutto sta funzionando a dovere, sembra che le tavole del
puzzle stiano andando finalmente a posto e solo pochi
pezzi mancano per concludere il quadro. Cala il sole,
sorge la luna. Il cielo è stellato, è la prima volta che lo
vediamo da questo campo. Sembra che tutto fili liscio,
ma non illudiamoci, non cediamo a facili entusiasmi, per
la vetta mancano 770 metri di dislivello e ci sono ignoti,
per ora non sappiamo nemmeno da dove potremmo
passare.
Sergio va avanti e indietro dalla tenda all’esterno. Si sta
dando da fare come suo solito, è instancabile, preciso, sa
esattamente quello che c’è da fare e lo fa senza rompere
l’anima agli altri.
Fondiamo neve, prepariamo alcune minestre, ma la
nostra alimentazione è variata dalla scorsa settimana,
abbiamo prosciutto, scatole di tonno, di carne, purè di
patate. Il peso è aumentato molto, ma ne è valsa la pena,
poi, rispetto alla volta precedente, non avevamo gran
parte del pesante materiale che avevamo lasciato qui
prima di iniziare la discesa.

68
Mangiamo, chiacchieriamo, rispetto al precedente
tentativo c’è più calma, meno tensione, meno
apprensione. Non parliamo di quello che ci aspetta
domani, scambiamo invece idee generali sulla
spedizione, sul modo in cui ognuno di noi si è
comportato e sulle conclusioni che finora si possono
trarre. Anche non andando in vetta sarebbe un successo
per come è stata impostata, preparata e realizzata. Certo
è stata la prima e molto può essere migliorato in futuro,
ma questa è già stata una grande esperienza per ognuno
di noi. Registriamo tutto su una cassetta in modo da
poter rivivere un giorno questi momenti e alla fine,
prima di andare a dormire, abbozziamo un coro di
canzoni goriziane. Ci sentiamo un po’ a casa. Quando
Mario e Mauro se ne vanno nell’altra tenda ho ancora
fame. Riscaldo una scatoletta di tonno o me la mangio.
Sto proprio bene.

18 Il tramonto visto dal Campo Base

69
Anche al Campo Base si vivono questi momenti
particolari:

“Contatto radio alle 20; si sono ritrovati tutti e quattro


a quota 6000. Hanno ritrovato le due tendine intatte con
tutto il materiale. Stanno tutti benissimo, il morale è
alto. Il tramonto bellissimo.
Io comunico loro che il baquiano ha sentenziato tempo
bello per domani.
Siamo tutti gasatissimi, anche noi da quaggiù sentiamo
la cima a portata di mano. C’è eccitazione nell’aria, la
serata è bellissima.
La luna crescente illumina la valle, il Rio Colorado
risplende come un nastro d’argento. I ghiacciai
sembrano lenzuola stese ad asciugare. C’è atmosfera di
attesa”. (Fabio)

70
LA VETTA

Sono le nove quando abbandoniamo il Campo Due per


iniziare la salita. Per qualche ora avevamo temuto il
peggio. Il vento nella notte era ripreso a soffiare in
maniera violenta, la partenza, per le quattro è stata
spostata di ora in ora. Alle otto, finalmente un calo di
intensità e la decisione a partire. Portiamo con noi oltre
al materiale personale, due zaini con una tenda, una
corda, alcuni viveri, un fornello, la radio e tanta
determinazione.
Giungiamo in breve alla torre che sbarra la via della
cresta, è impressionante, avevano ragione Mauro e
Sergio, sembra un incastro cinese altro cento metri,
togliere un tassello significa provocare una reazione a
catena incontrollabile. Per passarla saremmo costretti ad
attrezzare. Deviamo sulla destra, sulla neve, siamo sulla
parete sud. Traversiamo lentamente sotto alle rocce per
alcune centinaia di metri. Ormai siamo in piena parete.
Sotto di noi 1500 metri di ghiaccio pendenti dai
cinquanta ai sessanta gradi. Noi siamo sempre slegati,
un errore qui sarebbe imperdonabile. Ma nessuno chiede

71
assicurazioni, oggi dovremo essere veloci, sarà
essenzialmente una gara contro il tempo.

19 Il lungo traverso nel cuore della parete Sud

Non possiamo permetterci di non arrivare in vetta, il

72
tempo, come abbiamo avuto modo di constatare, è
ancora troppo instabile, chissà come sarà domani, non si
può rischiare.

20 In salita verso il seracco sommitale

73
In questo momento la velocità è sinonimo di sicurezza,
molto di più di una corda che ci unisce.
Quando raggiungiamo la perpendicolare di un seracco
che incombe e che segna la cima della torre e l’inizio
della cresta terminale iniziamo a salire nella sua
direzione. Sono duecento metri di salita su di un muro di
neve di sessanta gradi. Come una via classica alpina,
superiore per difficoltà alla parete nord della Marmolada
e qui non rappresenta che un momento, un breve
momento di questa salita di tremila metri di dislivello.
Tre chilometri da percorrere a piedi su di una strada
sono già molti se poi questa strada la mettiamo
verticalmente diventano infiniti.
I nostri compagni dal Campo Base, in questo momento
possono vederci con il tele obiettivo, sarà l’ultimo tratto
dove saremo distinguibili e, sapremo poi, che la nostra
salita li ha lasciati per due ore in apprensione.
All’una siamo sul bordo del seracco, sotto ai nostri piedi
tutta la parete sud , sulla nostra destra la cresta terminale
che, a vederla da qua, non sembra particolarmente
difficile. Abbandoniamo uno zaino con il necessario per
il bivacco, prevedendo che da qui in poi non sarà più
necessario. Riprendiamo la salita più alleggeriti, un
primo salto di misto di una trentina di metri ci impegna
un po’, ormai la quota si fa nuovamente sentire.
Procediamo lentamente, battiamo pista a turno sulla
neve dura e ancora abbastanza pendente. Ci fermiamo
sovente a respirare. Un altro salto roccioso. La
respirazione diviene affannosa, procedere è faticoso, un
passo dietro l’altro, al massimo dieci di fila, più
frequentemente solo cinque. La bocca è spalancata per
cercar di buttar dentro più ossigeno. La netta sensazione
di riuscire a farcela mi pervade. Cerco di pensare ad
altro, camminare e pensare ad altro, faccio meno fatica.

74
Penso a tutto, tutta la mia vita mi scorre lentamente
davanti agli occhi, alla fronte che gronda di sudore.
Analizzo momenti di vita passata, spezzoni di film che
pensavo dimenticati.

21 Uscita sulla cresta finale

75
Una lenta moviola con numerosi play-back. Tempo per
analizzare bene l’azione.
Momento di autocritica, di promesse, di giuramenti. E la
vetta sempre là, lontana. E la bocca sempre più aperta
per respirare meglio.
Mi ritrovo a cantare dentro di me canzoni sconosciute,
ascoltate una volta, ma mai sapute, parole esatte,
memorizzate chissà quando e chissà perché rispolverate
solo ora. Canzoni che si legano a momenti particolari
della mia vita, ricordi che si accavallano. Volti di
ragazze dimenticate, di amici d’infanzia.
La vetta lentamente ma inesorabilmente si avvicina. Mi
avvicino tanto che ormai ho la certezza di arrivarci. E
con la certezza si scaricano i nervi, tutte le tensioni
accumulate, come quando ci si rende conto che un
esame è andato bene dopo averlo preparato da tanto
tempo. E piango, singhiozzo, cerco di trattenermi, ho
paura che gli altri possano accorgersene. Idiota. Ma non
sono ancora arrivato, devo trattenermi, qui non posso
sprecare le forze nemmeno per piangere. Il terreno è
ormai quasi pianeggiante, la cresta si è persa in un mare
di detriti, quasi puliti dalla neve e spazzati dal vento.
Vento che qui ricomincia con prepotenza a soffiare.
Troppo tardi se aveva intenzione di respingerci.
Intuiamo la via normale, siamo ormai sotto a due rialzi
che potrebbero entrambi essere la vetta. Sergio sale su
quello di destra che sembra essere il più alto. No, ci
siamo sbagliati è l’altro. Mario è davanti, a pochi passi
noi tre. Siamo in cima. Vedo l’Aconcagua in lontananza,
è l’unica cima qualche metro più in alto di noi, in fondo,
inconfondibile questa volta, l’oceano Pacifico. Calde
lacrime scendono sulle guance, ce la abbiamo fatta, è un
pianto liberatore. Un pianto che mi libera da questo
incubo, questa paura di non riuscire. Sono di nuovo

76
libero, sono riuscito in ciò che mi ero imposto e ce l’ho
fatta. E’ un sollievo, una liberazione, ma è anche felicità,
orgoglio. E’ felicità vivere questi momenti insieme agli
altri. Assieme a Mario, a Sergio, a Mauro. L’abbiamo
voluta questa montagna, l’abbiamo sofferta e ora ce
l’abbiamo. Ma non è una conquista, non abbiamo
conquistato nulla, abbiamo solo salito un mucchio di
sassi, la montagna esiste solo dentro di noi, solo noi
creiamo l’immagine di montagna.

22 La discesa dalla vetta

Esteriormente e fisicamente è solo un mucchio di sassi,


forse molto alto, ma nulla di più. Ma è l’uomo a dare dei
simboli a questo immenso conglomerato di ghiaie, e la
sua cima è un insieme immaginario di linee che si
congiungono in un unico punto di divisione tra terra e
cielo. Non abbiamo fatto nulla di più di un bambino che
sale sul monticello di sabbia per essere più in alto dei
suoi amici, quel monticello non significa nulla,

77
importante è essere più in alto. Per me non cambia nulla,
solo la fatica e la quota, ma il monticello è sempre lo
stesso della mia infanzia.
Importante è essere riusciti a portare a termine qualche
cosa che c’eravamo proposti di fare. Ci abbracciamo,
piangiamo sulle spalle dei nostri compagni. Ce
l’abbiamo fatta. Sono le 17 e 45 minuti del 27 gennaio.

***

Al Campo Base in queste ore sono in apprensione per


noi, è dall’una che non ci vedono, l’orologio gira
indifferente e loro non ci vedono scendere. Nessuno parla
ma tutti pensano a quello che potrebbe essere successo.
In discesa alle diciannove accendiamo la radio, siamo
ancora lontani dal punto dove possono vederci, ma
tentiamo lo stesso il collegamento.
- Quattro sconvolti reduci dalla cima chiamano il Campo
Base – è Mauro che parla. Appena toglie il dito dal
pulsante un urlo di gioia ci investe. Non sanno nemmeno
quello che stanno dicendo, urlano e basta. Altre lacrime
ci escono dagli occhi, siamo felici, tutti. Per la prima
volta mi rendo veramente conto che siamo stati in vetta,
che la spedizione ha vinto. Siamo tutti li, tutti e nove,
aggrappati alle rocce di quel pendio che stiamo
scendendo.

Fabio Scriverà:

“Sono arrivati in cima.


Siamo arrivati in cima.
Al contatto radio delle 19, Mauro eccitato ci comunica la
notizia. Alle 17 e 45 quattro goriziani sono in cima al
Cerro Mercedario, dopo aver aperto una nuova via

78
lungo la cresta sud-ovest.
Un successo.
Siamo in cinque attorno a quella radio e siamo tutti
emozionati.
Vittorio Zuppel piange abbattendosi sulla spalla di Enzo.
Io sono felice.
Li seguivamo con il teleobiettivo tutta la giornata. Li
avevamo individuati diverse volte. Nel canale di 60°
dopo il Campo 2, sotto il seracco orizzontale, ma poi li
avevamo persi.
La notizia via radio è completa e bellissima.
Tutti quattro in cima, sembra di sognare.
E’ andato tutto benissimo. Di lassù ci dicono che gli
ultimi cento metri li hanno fatto sulle ginocchia. Sono
stanchi ma si sentono bene. Stanno scendendo. Chiudono
il contatto radio perché vogliono affrettarsi verso il
Campo 2. Li vediamo calarsi nel canalone molto
inclinato e siamo in pensiero in quanto il tempo passa,
sta calando la notte, sopraggiungendo l’oscurità e
devono ancora affrontare il punto più pericoloso. Poi a
causa del buio non vediamo più niente.
Aspettiamo con trepidazione il contatto radio concordato
per le 22. Speriamo che non siano costretti a bivaccare.
La radio risponde alla chiamata alle 22, sono appena
giunti al Campo 2. Tutto va benissimo.
Sono stati veloci, bravissimi.
Appuntamento domani pomeriggio al campo base
avanzato, andremo loro incontro ad accoglierli.
Tutte le preoccupazioni sono passate. E’ andato tutto
benissimo.
La spedizione è stata un successo. Anch’io sono
soddisfatto del contributo personale che ho dato alla
stessa.
Vittoria, è una affermazione alpinistica che da coraggio

79
a tutto il nostro gruppo. E’ veramente qualcosa di cui
essere orgogliosi.
Una nuova via, logica ed alpina sul Cerro Mercedario,
la seconda o terza cima che sia delle Ande.
Scrivendo queste cose mi viene da piangere. Aver
raggiunto la cima è come una liberazione, una catarsi.
Mi sento come liberato da un peso, da una
preoccupazione sottile ed insinuante. Va tutto benissimo.
Mi vien voglia di ballare, di saltare, di ridere. Troppo
bello, troppo belli questi momenti. E’ gioia, è bello
viverli con gli altri”.

***

Alle dieci di sera raggiungiamo il Campo 2. Una luna


piena meravigliosa rende superfluo l’uso delle pile
frontali. Per scendere la parete abbiamo usato tutte le
precauzioni possibili e tutto è filato liscio.
Non era il caso di rischiare, stanchi come siamo. Ci
infiliamo in due per tenda, Mauro fa il contatto radio, con
il fornellino ci prepariamo un po’ d’acqua da bere e poi
ci infiliamo nei sacchi. Ancora qualche minuto per
pensare a ciò che abbiamo fatto, poi la notte prende il
sopravvento sull’euforia della vittoria.

80
LA DISCESA NEL VENTO

Il telo delle tende sbatte, il sole è già alto nel cielo. Non
ho voglia di alzarmi, vorrei rimanere qui ancora per
riposare, per non far nulla, per gioire della vittoria. Ma
non si può, dobbiamo scendere e dobbiamo farlo
velocemente perché sembra che il tempo stia nuovamente
cambiando.
Sergio sta già trafficando con il fornellino per preparare
qualcosa, fonde neve, mi offre biscotti, tutto quello che
abbiamo portato su non ci serve più, quindi non è
necessario razionare i viveri, stamani possiamo mangiare
ciò che vogliamo. Scambiamo alcune battute con l’altra
tenda. Ci prendiamo in giro, c’è euforia nell’aria, siamo
felici, ma bisogna scendere. Iniziamo a prepararci, con
calma indossiamo gli scarponi doppi e usciamo dalle
tende, la giornata è chiara ma il vento soffia teso.
Prepariamo gli zaini, lasciamo il cibo ai condor e
pieghiamo le tende. Mario e Mauro si avviano, io e
Sergio finiamo si sistemare le ultime cose e partiamo ad
una ventina di minuti.
E’ difficile abbandonare senza rimpianti questo posto,

81
sembra tutto senza senso, tante fatiche per portar su tutto
questo materiale e ora tanta fatica per riportarlo giù.
Il peso dello zaino mi stronca, saranno quasi trenta chili,
la stanchezza accumulata nei giorni precedenti, la perdita
di peso e la mia costituzione naturale non sono certo
presupposti ideali per rendere questa discesa una
piacevole passeggiata. L’euforia svanisce e al suo posto
subentra un’intolleranza verso tutto. Impreco contro lo
zaino, contro le rocce che si staccano, contro la discesa
delle placche che mi rovinano le ginocchia. Quando
giungiamo al canalone a metà parete, la discesa diviene
realmente delicata. E’ completamente ghiacciato e
affiorano delle rocce , le nostre tacche fatte in salita sono
scivolose e sarebbe un peccato cadere proprio ora.
Lentamente, ma riusciamo a scendere tutti quei metri che
ci avevano impegnati così duramente in salita,
ripassiamo dappertutto, dalla placco nata sotto al Campo
2, dal luogo del bivacco, il plateau, il canalone di
cinquanta gradi, la seconda fascia rocciosa, il campo
primo, la prima fascia rocciosa. Qui sul primo salto
siamo indecisi se recuperare la corda che avevamo
lasciato pendere l’altra settimana, forse la nostra
decisione è in contrasto con la nostra etica ma il peso che
portiamo sulle spalle è troppo elevato per permetterci di
prendere la masochistica decisione di aggiungere altri
quattro chili, così chi ha voglia può andare a riprenderla è
in perlon da otto millimetri e dovrebbe resistere bene per
molti anni ancora.
Mauro e Mario ci hanno preparato un bellissimo scivolo
nel canale dei penitentes, ci sediamo dentro e ci lasciamo
portare. Ogni venti trenta metri però, la neve che si
accumula tra le nostre gambe ci costringe ad alzarci e
riprendere la discesa alcuni metri più in basso.
Nonostante tutto la discesa sembra eterna, il ghiacciaio

82
Karpinsky non finisce più.

- In discesa ogni santo aiuta – dice Sergio.

Ma ormai stiamo camminando sul piano e ogni tanto


dobbiamo superare delle collinette moreniche.
Verso le quindici siamo al Campo Base Avanzato.
Ci sono venuti incontro. Ci abbracciamo, prima Fabio,
poi Vittorio infine Enzo. Anche il baquiano è voluto
salire, è commosso, felice di vederci. Il giorno prima,
saputo del nostro successo alla radio, aveva acceso una
candela davanti alla statua della Madonna che aveva con
se. Mangiamo alcune arance e vengo preso in giro per il
modo “aristocratico” che ho di sbucciarle. Qui bisogna
vivere come barbari per non essere canzonati.
Mauro nella discesa si è distorto un ginocchio, gli fa
male e cammina come uno storpio. Sbaracchiamo anche
questo campo. Un po’ di nostalgia mi assale, mi rendo
conto che la spedizione finisce, scendendo anche da qui
ormai non c’è più nulla da fare. Due anni di preparativi,
di sacrifici, di speranze, si sono esauriti in pochi attimi
di vetta. Tutto è finito, ora bisognerà cercare qualcosa
altro per cui impegnarsi, l’obiettivo è importante nella
vita di un uomo e quando lo si raggiunge già un altro
compare all’orizzonte, è l’eterna legge dei corsi e ricorsi
storici. Ho appena terminato una salita e già penso alla
prossima.
Scendendo passo a passo la morena, ogni tanto
guardiamo indietro, guardiamo la nostra cresta che si sta
lentamente avvolgendo in nubi dense, in tutto il tempo
che sono stato qui non ho ancora capito da dove arrivino
le nubi, prima non ci sono, alcune ore dopo ne sei
avvolto. Ma ormai anche le nubi non ci preoccupano.
In alto la neve è sollevata per centinaia di metri,

83
probabilmente imperversa un’altra bufera de viento, ma
non importa, non ci interessa più.
Al Campo Base veniamo accolti da Aglialoro e dalla
Cristina, non sono saliti per prepararci una sorpresa. La
tenda mensa è stata addobbata con quello che c’era.
Corde tese come serpentine moschettoni appesi. Ci
sediamo attorno ad una cassa di materiali e diamo fondo
a tutto quello che ci è stato preparato.
Siamo tutti felici, tutti rilassati, riviviamo a voce i
momenti più divertenti o i momenti più duri come se si
trattasse di qualcosa vissuto molto tempo prima. Ci
lasciamo andare completamente a sconcezze e sberleffi
reciproci. Facciamo molta autocritica. Zuppel chiede
continuamente particolari dell’ultimo tratto di salita e
noi glieli propiniamo dovutamente romanzati. Ci
ubriachiamo con l’ultimo vino rimastoci ed è già notte
fonda quando decidiamo, dopo aver sparato tutti i razzi
di segnalazione che non ci servono più, di andarcene a
dormire.

84
SASSISMO NELLA VALLE

Nei giorni che seguono il rientro dalla vetta nel campo


aleggia un’aria che oserei chiamare “di svaccamento”.
Il sergente Aranda dovrebbe venire a prelevarci con
l’esercito in modo da trasportare con i muli tutto il
nostro materiale a valle e quindi non possiamo fare altro
che aspettare.
La stanchezza, passata l’euforia e la tensione nervosa dei
giorni precedenti, si fa sentire. La maggior parte del
tempo la trascorriamo dormendo o cucinando. Il fuoco
del baquiano diviene il luogo di ritrovo di tutti.
Soprattutto nel primo pomeriggio ci riuniamo in due o
tre a parlare di tutto: i progetti di altre salite o di altre
spedizioni, ora che l’incubo di questa è terminato,
tornano ad essere i nodi centrali delle nostre
conversazioni. Facciamo ipotesi, discutiamo personali
propositi. E’ incredibile come si cambia idea facilmente,
dal “mai più in montagna” di alcuni giorni fa ai nuovi
progetti.
Il panorama della valle, comunque, ormai ci è troppo
familiare e così, Mario, io e i due Vittorio, ce ne

85
andiamo a fare i giovani esploratori in una valle laterale
che porta alle pendici del ghiacciaio Italia. Da bravi
escursionisti domenicali, fotocamera al collo, iniziamo
la passeggiata con l’intento di trovare un bel posto per
gustarci in santa pace la nostra merenda.
Risaliamo una specie di frana morenica e dall’altra parte
ci imbattiamo in qualcosa che non avremmo mai sperato
di trovare. Un specie di città dei sassi, alti, bassi, larghi,
tozzi, tutti di roccia sanissima, con appigli piccoli ma
saldissimi, messi nelle posizioni più perverse.
Approfittiamo subito dell’occasione, fare del sassismo a
4000 metri di quota non è cosa da tutti, ci impegniamo
in passaggi assurdi ma purtroppo dobbiamo arrampicare
con le scarpe da ginnastica distrutte dalla marcia di
avvicinamento e chiaramente non siamo molto tecnici. Il
terreno di gioco è vastissimo, di sassi ce ne sono a
migliaia, così ce ne rimaniamo li per alcune ore, finche
la fame non ci fa ricordare che forse è meglio rientrare al
Campo Base dove nel frattempo è giunto il baquiano che
ieri era sceso a valle con i muli per avvertire i militari di
venirci a prelevare e ora ha portato una pecora appena
uccisa.
Tutti sono assatanati alla vista di tutte quelle future
bistecche. La carne ormai manca da molti giorni dalla
nostra dieta fatta solo di patate, minestre e budini. Eh si,
è tempo di ritornare, di rientrare. I nostri discorsi sono
incentrati sul cibo, su vaghi ricordi di civiltà.

“Esco dalla tenda e vedo la Croce del Sud che ho


imparato a riconoscere, un quadrilatero messo
obliquamente.
Mi ricordo che siamo così lontani da casa e da tutto. Al
di là dell’equatore, sotto un cielo che non avevo mai
visto. L’acqua del torrente scorre verso est, verso la

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valle, verso la civiltà.*
Il vento sta spirando a ovest, verso la montagna.
Acqua e vento si incrociano, vanno in direzioni opposte.
Dove vorrei andare in questo momento io?
Ritornare su qualche montagna o andare verso valle?
Non c’è dubbio, seguirei l’acqua. Ho voglia di tornare.
Ho voglia di scendere.
Dopo la conquista della vetta ed il successo della
spedizione mi sembra che restare qui non abbia più
senso. Mi sembra inutile.
Quello che volevamo fare l’abbiamo fatto.
Io personalmente non mi sento più motivato a scalare
altre cime per diletto alpinistico. Mi sento soddisfatto
per il mio contributo al gruppo. Mi sento appagato
personalmente.
Non mi interessa cercare in altre vette circostanti più
basse qualche soddisfazione o qualche lenimento alle
frustrazioni.
Va bene così.
Per me possiamo tornare”.

Fabio sintetizza in queste poche parole tutto il suo


desiderio, che è anche il nostro, di scendere, vedere altri
luoghi, cambiare questo orizzonte che ormai è diventato
monotono ai nostro occhi.

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IL RITORNO

C’è una voglia sfrenata di scendere, di tornare, di


rivedere quella civiltà che un mese fa avevamo deciso di
abbandonare, di lasciare per qualche tempo. Ma le
motivazioni di allora non ci sono più e il desiderio di
una doccia, di una buona birra fresca e di un tavolo sotto
al quale mettere le gambe, ci attanaglia.
Anche il sergente Primero Aranda, finalmente, è arrivato
e possiamo iniziare la discesa verso valle.
Ci incamminiamo nella valle del Rio Colorado, in
piccoli gruppi, con poco peso, solo il necessario per
dormire fuori.
Ma l’avventura non accenna a diminuire di tono, il
torrente si è ingrossato, il livello dell’acqua è più che
raddoppiato rispetto all’andata e non è più pensabile
guadarlo a piedi.
Così per attraversarlo saliamo in groppa ai muli, ma in
questo modo le bestie si stancano e più di qualcuna fa
cadere i carichi.
Proprio all’ultimo guado, prima di fermarci per la notte,
cado in acqua al centro del torrente. Vengo travolto dai

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vortici, ho paura, per un attimo perdo il controllo di me
stesso. Che stupido finire così, proprio adesso, quando
tutto è ormai risolto.
Ma è proprio in questi momenti, quando i nervi sono
rilassati, che possono accadere questi incidenti.
La corrente mi rovescia, mi trovo impotente sotto acqua.
Ma ho fortuna, non è abilità, è solo fortuna, mi aggrappo
ad un grosso masso sul fondo e riesco a passare.
Tremo tutto, il pericolo è finito, tutti ridono e mi
fotografano, ma siamo tutti pallidi in viso, poteva anche
non andar bene.
Buenos Aires, albergo di prima categoria, sei dollari a
testa per notte, colazione compresa, moquette azzurra
sul pavimento, doccia in camera, impianto d’aria
condizionata.
Negozi splendidi nella zona commerciale della capitale,
abiti firmati e apparecchi di alta tecnologia. Negozi di
artigianato argentino che vendono cose che i gauchos
non hanno neanche mai visto e che nugoli di turisti
invadono per portare a casa un pezzo di quella che
credono essere l’Argentina.
Politica scritta sui muri, parlata nei taxi, urlata a Casa
Rosada.
Siamo a milioni di anni luce dalla Pampa di Don
Nicolas, dalla spontaneità e cordialità dei suoi abitanti.
Qui siamo in una capitale europea, frenetica e nevrotica
come tutte le capitali europee.
Siamo rientrati nella nostra realtà, nella nostra esistenza
di sempre, che volentieri o no dobbiamo accettare.
Siamo ingranaggi di questa società ma quando passiamo
per caso davanti ad una agenzia turistica che espone una
foto di una montagna andina, ci ritroviamo incollati con
il naso al vetro.

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POSTFAZIONE

Siamo seduti all’aeroporto di Fiumicino a Roma durante


la snervante attesa dell’aereo che dovrà portarci a casa.
All’aeroporto di Ronchi saranno in molti ad attenderci,
forse più gente ancora di quella che è venuta ad
accompagnarci alla partenza. Siamo giunti a Roma alle
11 e 30 dell’11 febbraio, sono le venti, nove ore di lunga
attesa.
Molti sono i pensieri che si accavallano in questi
momenti, molte le idee. Ma meglio di me lo ha saputo
fare, ancora, Fabio:

“Questo lungo viaggio attraverso mezzo mondo è stato


anche un viaggio lungo all’interno di me stesso e dei
miei sentimenti.
Mi sembra comunque di esserne uscito bene.
Pulito e psicologicamente integro, forse anche rinato.
Spero di aver mantenuto e guadagnato la stima delle
persone con cui ho vissuto questi giorni.
E’ stata sinceramente una grossa esperienza, nostra,
fuori dal giro dei possibili viaggi organizzati e quindi
irripetibile. Momento forzatamente unico e non
fotocopiabile, con i suoi errori e con i momenti di

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splendore e gioia.
Debbo confessare che ho riso anche molto in questa
spedizione, di gusto, come non mi accadeva da molto
tempo.
L’avventura si conclude oggi e già si colora delle
sfumate immagini del ricordo, di quello che è stato.
Forse anche per il carattere di eccezionalità che tutto
riveste.
Tutto è stato così normale ma anche così strano al
tempo stesso.
Sapevamo più o meno consciamente o consapevolmente
di vivere una vicenda con connotazioni epiche od
eroiche, roba che altri hanno descritto nei libri di
alpinismo, nella storia delle spedizioni.
Ma in fondo tutto è passato condito del nostro dialetto e
della nostra amicizia, fluidificato dal nostro
affiatamento.
Non c’è stata nemmeno una lite degna di questo nome
tra di noi e anche questo è anormale per le spedizioni.
La nostra è stata una spedizione artigianale, fatta in
casa da nove persone, tra l’incredulità generale, e
portata a compimento con pieno successo e in modo che
definirei brillante.
Partita in sordina, probabilmente, adesso che è andato
tutto bene, parecchi si butteranno sopra per dividersi
briciole dei meriti prima inesistenti.
Per me l’esperienza è stata vissuta, l’importante è
esservi stato, innanzitutto aver avuto il coraggio di
partire, aver avuto il fegato di iniziare una simile storia,
con spirito di avventura, per mettere piede insieme sopra
ad una piccola porzione di mondo che finora non era
mai stata calpestata da piede umano.

- Doctor Livingston, I suppose - ”.

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INDICE

Prefazione pag 7

Introduzione pag 9

La Montagna pag 11

Nemo profeta in patria pag 15

Argentina pag 19

Avvicinamento pag 25

Campo Base pag 31

La Cresta pag 39

Viento Blanco pag 53

La risalita pag 61

La Vetta pag 79

La discesa nel vento pag 89

Sassismo nella Valle pag 93

Il ritorno pag 97

Postafazione pag 99

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Rudi Vittori è nato a
Sagrado (GO) nel 1956. Ha
iniziato l’attività alpinistica
da giovane affrontando
centinaia di ascensioni sulle
Alpi e sulle montagne di
mezzo mondo, in ogni
stagione, sia con compagni
che in solitaria. Collabora
da oltre trent’anni con le
più prestigiose testate
giornalistiche di alpinismo.
Dal 1986 è Accademico del
Gruppo Italiano Scrittori di
Montagna. Questo libro è la
cronaca di una spedizione
alpinistica sulle Ande
avvenuta nel 1983.
Un’avventura che negli
anni ha preso i contorni
sfumati del sogno.

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