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Parola tra noi

Natale: motivo della vita come lavoro


Luigi Giussani
Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Novizi dei Memores
Domini. Milano, 15 novembre 1998

È la prima volta, dopo tanti anni, che sento cantare, ricantare, quei bellissimi
«commenti biblici» che ha fatto padre Cocagnac, perché questi canti possono essere
punti di meditazione tutte le volte che l'animo nostro è, in qualche modo, oberato.
Questo canto è bellissimo:1 la Bibbia, la parola di Dio, l'atteggiamento di Dio con
l'uomo è dentro lì, non nella tua paura o nel tuo tremore o nella tua presunzione,
non nel giudicare l'esito di quello che fa Dio su di te perché ti lascia nella debolezza,
per cui sbagli e sei umiliato da questo.Comunque, sento un dissesto nel modo di
stare davanti alla realtà, davanti al proprio destino e, quindi, davanti a Dio, un
dissesto nell'animo della maggior parte della gente in cui mi imbatto, nella maggior
parte di voi, quando prendo un rapporto e ne prendo consapevolezza. E quello che
mi dà chiarezza maggiore nel guardarvi e nel tenervi presente è che l'abbiamo
superato, per amor di Dio, per grazia di Dio, anche noi nella nostra vita. Perciò, vi
parliamo non per difendere o farvi schiavi delle nostre idee, ma come uomini, uomini
come voi, secondo tutta la ricchezza che Dio ha dato all'uomo. Parlare così è parlare
come «idealmente» della vita. Ma parlare idealmente della vita vuol dire identificare
lo scopo della vita e la strada per andarci, che per nulla è pensabile o immaginabile
da ognuno di voi, ma è data: la salvezza dalla nostra dissipazione, dalla nostra
contraddizione, dalla nostra ingenerosità, la salvezza da questo ci è data. Anche
questa. Ci è data la vita e ci è dato il perdono del male fatto nella vita e ci è data la
rielezione, la rinascita: tutto ci è dato, perché Dio è tutto in tutto2 e non c'è la
possibilità di eccepire a questa formula che ha usato san Paolo, in nessun modo
(rileggete gli Esercizi alla Fraternità dell'anno scorso,3 perché io credo che sia
l'espressione più avanzata del nostro modo di concepire la vita, del nostro modo di
sentire).«Non c'è ideale - diceva Malraux - al quale possiamo sacrificarci, perché di
tutti noi conosciamo la menzogna [tutti gli uomini sono bugiardi: questo lo dice
chiaramente anche la Bibbia, e i salmi4 specialmente], noi che non sappiamo che
cosa sia la verità».5 Questa è una declinazione dell'anima di un uomo qualsiasi oggi.
Perché se un uomo è appena appena un poco abituato a pensare a se stesso, a
sentire se stesso, intellettualmente essendo portato a darsi la spiegazione di tutte le
cose - di tante cose o delle cose di cui sente il gusto o l'utilità o la necessità, o delle
cose di cui è costretto a pensare -, questa è proprio una frase che definisce il valore
di tutte le nostre dizioni, perché anche noi a un ideale non ci siamo ancora sacrificati
del tutto. Però ci siamo sacrificati: è la coscienza della vocazione nel senso cristiano
della parola, comunque sia inteso; veramente consapevoli o con la testa nel sacco o
nel tentativo d'affermare quel che si sente nell'ambito in cui siamo (nel seguire la
compagnia: il seguire la compagnia può darci l'impressione che ci siamo sacrificati a
un ideale). Ma sacrificarsi a un ideale vuol dire sacrificare la vita a quell'ideale, perciò
sacrificare quello che viene d'istinto e quello che si deve fare, sacrificarlo ogni giorno,
ogni ora. Per questo la Bibbia, parlando di Dio, si sofferma spesso - specialmente nel
Deuteronomio, nei più antichi libri - sulla necessità che l'uomo pensi a Dio stando in
casa, uscendo di casa (come dice il sesto capitolo del Deuteronomio;6 e san Paolo
ritorna a tutti questi dettagli7).«Non c'è ideale al quale possiamo sacrificarci [con
l'ideale non abbiamo rapporto se non nel sacrificio, perché l'ideale vuol dire il senso
di quel che facciamo, e il senso di quel che facciamo non lo possiamo avere se non
sacrificando la modalità con cui facciamo (pensate cosa dicono a me, vecchio, queste
cose: come fanno vedere lo strisciare di una vita, tutti i giorni ripresa al mattino ma
strisciando, come quando si va in un posto dove c'è pericolo, dove si teme o dove
non si vuole esser visti e si sta lì, si gira attorno)], perché di tutti noi conosciamo la
menzogna [di tutti: anche mia, anche tua, perché se non c'è questa coscienza, è
falso anche quello che dici degli altri, giochi anche con gli altri, rendi fessi anche gli
altri]». Mi ricordo la prima volta che l'ho letta, come mi ha fatto pensare questa
frase: «perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cos'è
la verità». Ma noi sappiamo cos'è la verità! «Io sono la verità e la vita»8 ha detto un
uomo, l'unico che abbia detto nella storia questa cosa. Noi conosciamo la verità, ma
anche qui portiamo tutta la nostra grettezza o tutta la nostra equivocità: è come se
mancasse alla nostra vita quell'impeto - suscitato tre volte al giorno, mattino
mezzogiorno e sera, quando si dice la preghiera (l'Angelus, per esempio) - che a
mezzogiorno ritorna a galla dal mare di nebbia in cui è stato al mattino e alla sera
rispetto al pomeriggio.Comunque, questo brano ieri sera mi ha fatto pensare anche
al salmo ottavo... Quando noi, leggendo il breviario, a un certo punto sentiremo il
cuore e la testa spalancarsi e capire quella parola che diciamo, sarà un giorno non
solo non nefasto, ma nemmeno un giorno brutto della nostra vita, o facile a
dimenticarsi, perché i salmi dicono l'uomo, l'uomo «uomo», con tutti i suoi
sentimenti, in tutte le occasioni così contraddittorie, così accavallantesi (non c'è cosa
che a noi sia stata detta o cosa che a noi sia stata chiesta di fare che non abbia
percosso e trapassato la nostra umanità, cambiato la nostra umanità nella verità e
nell'affezione, nell'intelligenza e nell'affezione).Rileggiamo l'ottavo salmo:«O Signore,
nostro Dio,quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:sopra i cieli si innalza la tua
magnificenza [al di là del visibile si innalza la tua magnificenza].Con la bocca dei
bimbi e dei lattantiaffermi la tua potenza contro i tuoi avversari [sembra vana questa
cosa, perché la bocca dei bimbi e dei lattanti non sente la lotta che c'è tra la parola
di Dio, la rivelazione di Dio, la presenza di Dio, e ciò che appare loro (e non sanno
che queste apparenze sono gli avversari). Ma è se mantiene la bocca del bambino e
dei lattanti che l'uomo grande capisce Dio e la Sua potenza nella lotta con gli
avversari, perché lo sente in sé (che cosa sia la conoscenza è il problema
fondamentale della gnoseologia e della filosofia, di una filosofia umana, perché il
problema della conoscenza è il rapporto tra sé e la realtà: così come si concepisce la
conoscenza, si concepisce il rapporto tra sé e la realtà). Insomma, si potrebbe dire:
«Con la semplicità difesa nella nostra maturità affermi la tua potenza contro i tuoi
avversari»],per ridurre al silenzio nemici e ribelli.Se guardo il tuo cielo, opera delle
tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissate,che cosa è l'uomo [cos'è mai l'uomo?]
perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?». Ma questo - scusate - mi
trovo a dirlo tutte le volte che debbo andare a compiere gesti in cui devo essere
aiutato, perché da vecchi è così! Per il bambino questa non è una sofferenza, un
sacrificio per l'ideale, cioè per il senso di quel che fa. «Non c'è ideale al quale
possiamo sacrificarci»: non c'è senso della vita che possiamo sorprendere, perché
tutto quello che si dice nella mentalità moderna come tale è menzogna.Eppure l'hai
fatto [questo uomo] poco meno degli angeli [poco meno di Te: «degli angeli» è una
formula biblica per dire «manifestazione di Dio». L'angelo è la manifestazione di Dio],
di gloria e di onore lo hai coronato [di gloria e di onore: non appena i re o i
presidenti delle repubbliche; non i capi di stato maggiore o i professori universitari.
Hai coronato di gloria e di onore ogni io: di gloria nella realtà che si modifica, nella
realtà che prende le sue forme, nell'evoluzione, e di onore (lo fai sentire nella sua
dignità e gli altri lo devono guardare secondo questa sua dignità, piccolo e disfatto
come possa essere un uomo). E perché, perché hai fatto così? Perché l'hai coronato
di gloria e di onore?]. [Perché] gli hai dato potere sulle opere delle tue mani [potere
sulla realtà, sul cosmo: questa è l'intuizione e il riassunto di tutto quello che si può
dire della storia: «gli hai dato potere sull'opera delle tue mani», sulla creazione],
tutto hai posto sotto i suoi piedi».Capite da dove è nato il degrado dell'uomo? Da
qui! L'uomo, sentendosi fatto con questo potere, degrada tutto, tende a degradare
tutto: «Io sono la misura di tutte le cose» diranno della ragione, confondendo che
cosa sia la ragione con una pretesa loro, con una pretesa: «La scienza è contro la
Chiesa» (invece la scienza è contro la Chiesa quando non è scienza, ma preconcetto
che si scarica addosso alla realtà ecclesiale e a ciò che dice Dio).Dentro questo salmo
c'è la definizione dell'uomo come destinazione, come senso della sua vita (senso
della sua vita è il rapporto con chi lo crea: «Con la bocca dei bimbi e dei lattanti
affermi la tua potenza»).Ma perché Dio dà valore al piccolo gesto, all'istante che
passa, quando l'uomo cerca di esprimersi? Perché l'uomo è rapporto con Sé.
Dicevamo altre volte che tutto il cosmo giunge a un certo punto di evoluzione o di
qualificazione, in cui diventa autocoscienza:9 si chiama io quel punto. L'io è
l'autocoscienza del mondo, del cosmo, di sé. E allora il cosmo, realmente come è, è
la disposizione del contesto in cui il rapporto con Dio vive, il rapporto col Mistero
vive.Perciò, capite che parlare di lavoro è una cosa veramente interessante, se per
lavoro intendiamo quello che noi non possiamo non intendere (eppure non
l'intendiamo neanche un po', la maggior parte di noi, tutti i giorni!). Il lavoro è una
cosa grande, come la piccola realtà dell'uomo che dice: «Signore, che cosa è mai
l'uomo perché tu te ne rammenti, te ne ricordi?». In mezzo a tutte le bestie e le
bestioline del cosmo l'uomo è come un centesimo, un millesimo, un decimillesimo
delle bestiole che ci sono in ogni ambito. Ma la grandezza dell'uomo - l'onore e la
gloria dell'uomo - dipende dal fatto che l'uomo, il singolo uomo, è rapporto con
l'infinito; e per vivere ciò che l'uomo è, per realizzare la sua persona - perché la
felicità è la finale di questo processo: la penetrazione dell'eterno è questo processo -
l'uomo deve prendere in mano lui tutto quello che Dio ha fatto. Questo ottavo salmo
di Davide, a un certo punto, uno lo dice tutti i giorni.Ma io adesso vorrei proprio dire
che cosa è il lavoro per un cristiano, come Cristo ha usato questa parola. Usando
questa parola non con Cristo, tutto decade e diventa violenza: violenza per il potere
o violenza subita senza più riscossa possibile. L'approfondimento della parola lavoro,
che dico adesso nei suoi elementi più rilevanti, è forse l'inizio del cambiamento che
noi dobbiamo assumere nella società in cui siamo: cambiamento del modo con cui
trattiamo noi stessi nella società che abbiamo, perché Cristo, Dio, offre l'occasione
del cambiamento attraverso le condizioni della società in cui uno vive. Non è la
società lo strumento che porta a noi la forza di Dio, ma la grande Presenza è
continuamente data dalla Chiesa attraverso i sacramenti e le espressioni di fede del
popolo cristiano. «Dio, mia forza e mio canto sei tu»,10 forza e canto: potenza
operativa e creativa; e perciò sorgente della gioia e, prima ancora, della letizia -
perché la gioia è di certi momenti, la letizia deve diventare normale, il sottofondo di
ogni giorno -.Il lavoro per un cristiano è come l'aspetto più concreto, più arido e
concreto, più faticoso e concreto, del proprio amore a Cristo. L'amore a Cristo, a
buon conto, richiama il fatto - più di qualsiasi altro rapporto - che l'amore è un
giudizio dell'intelligenza che trascina con sé tutta la sensibilità nostra, tutta la
sensibilità umana. Altrimenti il giudizio è qualcosa di gretto, come il giudizio di cui
certa magistratura di questi tempi dà abbondanti esempi; ma anche come noi
moralisti, che dal pulpito sottolineiamo sempre le cose come debbono essere e quindi
giudichiamo gli atti non secondo quella tensione al meglio e al giusto che rende
morale ogni uomo: pesiamo soltanto l'esito negativo o il tradimento che a noi non
rimproveriamo, ma agli altri sì.L'amore a Cristo è un giudizio dell'intelligenza.
L'amore - non solo «l'amore a Cristo» - è un giudizio, implica un giudizio. Il giudizio è
un riconoscimento di verità, è un riconoscimento dell'essere. Il giudizio è lo sguardo
all'essere che viene percepito come da un bambino: l'esito della realtà che emerge ai
miei occhi è uno stupore. Se si mantiene questo, si capisce da lì come è stato fatto
l'uomo nel guardare tutto, riguardo a tutto. Le certezze nascono di lì, le evidenze
della certezza nascono di lì, altrimenti diventano una definizione del potere, cioè di
un'estraneità che sempre riduce e cambia a seconda dei suoi tornaconti: il potere
non vuole altro che sudditi, nel senso di schiavi.Perciò, il lavoro ci costringe a
diventare più cristiani, a ripensare al nostro amore a Cristo, a ripensare a come io
vivo, all'utilità con cui vivo e per che cosa sia stato dato tutto.Il lavoro come l'aspetto
più concreto - più arido e faticoso (e concreto, però!) - del proprio amore a Cristo:
concreto vuol dire l'aspetto più esistenziale, più inserito nelle cose che ci circondano,
nelle circostanze. Mi sono soffermato sulla sottolineatura che l'amore a Cristo (ma
non l'amore a Cristo appena, ma anche al tuo compagno, a quello che vorresti far tu
con altre persone, o l'amore della mamma verso il figlio) è un giudizio
dell'intelligenza che trascina con sé tutta la sensibilità umana. La sensibilità umana è
per dire l'esigenza compiuta della promessa che è la vita, della promessa che è la
nostra struttura originale. L'intelligenza vuol dire riconoscere che Gesù è Dio, Dio è
diventato uomo: riconoscere questo. Se c'è un uomo che è Dio (come si legge nel
vangelo di Natale, come si dice nell'Angelus), l'inserimento di un bisogno, di una
necessità o di una situazione nel dialogo con questo uomo - la preghiera, cioè - è la
sincerità e la serietà di essere uomini. «L'intelligenza trascina con sé tutta la
sensibilità umana»: davanti a questo uomo la mia intelligenza non può non
trascinare con sé tutta la mia sensibilità! Dovrebbe accadere - tu lo devi ammettere -
anche per la tua sensibilità che non si muove, perché non la richiami, tra l'altro! Tu
sei passivo, ultimamente passivo e ti aspetti che la compagnia faccia in vece tua, ti
aspetti che le formule e le cose ripetute facciano al posto tuo, si mettano al posto
tuo. Invece no, sei tu che... Eh, non posso adesso ricordare cos'è la libertà: andate a
rileggere gli Esercizi alla Fraternità dell'anno scorso.11Il lavoro come l'aspetto più
concreto e arido e faticoso del proprio amore a Cristo: parlo di questo perché la volta
scorsa avete messo a tema la memoria di Cristo, il valore della memoria di Cristo;
perciò con questo mio intervento mi attacco a tirare delle conclusioni dalla
supposizione che per voi sia stato un richiamo reale quello della memoria. Per sua
natura l'amore a Cristo compone il desiderio che domina la vita, quello della felicità;
ma lo compone in modo tale da farlo diventare vero, con una constatazione: che il
nostro desiderio della felicità diventa desiderio che tutti gli uomini raggiungano la
felicità. La mia povera mamma era così religiosa e ho capito dopo tutto quello che mi
dava, e che razza di gratitudine dovevo avere per lei, per Dio che mi si è dato
attraverso lei: perché tutte le sere, venendo a farmi sotto le coltri - io lo ricordo da
cinque anni in su, fino a quando sono andato in seminario (compivo dieci anni) -,
neanche una sera ricordo in cui non fosse venuta a dire: «Pensiamo ai poveri...»,
«Pensiamo a quel che è successo in Giappone», «Pensa alla guerra che c'è in Cina»
Mi richiamava tutto questo, anche quando ero un po' grandicello, i primi anni di
seminario, dove nessuno ci diceva della Cina e tanto meno della povera gente (sì, ci
dicevano: «Ai poveri bisogna dare la nostra offerta»).È l'amore a Cristo che per sua
natura compone il desiderio che domina la vita, cioè soddisfa il desiderio che domina
la vita come promessa indiscussa, perché la promessa è la natura del nostro cuore:
intelligenza e affettività (giudizio che si tira dietro tutta la sensibilità del cuore). Di
fronte all'essere della realtà, di fronte alla realtà che emerge ai tuoi occhi, tu sei
colpito: è evidente che c'è questa persona davanti, è evidente che questa persona ti
vuol bene, perché si curva verso di te - la zia si curva verso di te bambino e tu senti
che la zia è parte della mamma! Io avevo, per esempio, una zia zitella, ma era molto
intelligente. A 50 anni si è accorta di non potersi più sposare (!) e ha fatto un gruppo
di zitelle in parrocchia, che ha composto la vita di tante. «Composto», cioè pacato,
resa pacata la vita di tanti, perché affermando ciò che è al fondo della propria
esistenza l'uomo riposa, come dice un salmo di Compieta: «In pace mi corico e
subito mi addormento» -.12 Ora, cos'è il lavoro, per essere una cosa così definitiva e
decisiva (ho detto che il lavoro è l'aspetto più concreto dell'amore a Cristo)? Pensate
a chi va alla Pirelli o alla Fiat stamattina per otto ore (stanno tentando di organizzare
uno sciopero, che adesso è sconsigliato da un certo sindacato perché è contro il
governo: la prima cosa è salvare il governo, poi viene rimediare alla disoccupazione,
stare attenti alla giustizia Ma non la giustizia concepita come lo strumento per
eliminare gli avversari!). Il lavoro è l'espressione totale della persona. Se quel che
abbiamo detto prima è giusto, cioè in quanto l'uomo è rapporto con l'infinito, con
l'eterno, col Mistero - si può dire così: «rapporto col Mistero», per spiegare di più la
realtà, la verità di quanto dico -, allora il lavoro veramente prende tutto e tutte le
espressioni della persona. Si chiama lavoro tutto ciò che esprime la persona come
rapporto con l'infinito. Perché per il muratore o il minatore i gesti che fanno,
mettendo su un mattone o zappando un sotterraneo, sono rapporto con Dio: per
questo devono essere rispettati, per questo devono essere oggetto di giustizia reale
e di amore anche, e quindi di aiuto. Perché? Perché sono lavoratori e perciò sono
esseri chiamati ad amare Cristo. Perché c'è questo nesso tra amare Cristo e il lavoro?
Perché il lavoro è la forma espressiva della personalità umana, del rapporto che
l'uomo ha con Dio (Gesù definisce Dio l'eterno lavoratore).13Nella lettera agli Efesini
san Paolo dice:14 «Non cesso di render grazie per voi, ricordandovi nelle mie
preghiere, perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria
[generatore della gloria], vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più
profonda conoscenza di lui [possiamo dirlo di noi questo augurio]. Possa egli davvero
illuminare gli occhi della vostra mente [gli occhi della mente, che diventano, poi,
come corollario, occhi fisici che vedono quello che gli altri non vedono, anche nelle
apparenze] per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di
gloria racchiude la sua eredità fra i santi [che tesoro di gloria racchiude il nostro
seguire i santi: "Guardate ogni giorno al volto dei santi e traete conforto dai loro
discorsi"15 aveva scritto don Villa su una parete della casa posticcia e di breve
durata che ha avuto, in una parrocchia centralissima di Milano, che è quella di piazza
San Babila] e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza [della sua
presenza, meglio. Quale è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di me]
verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza che egli [il Mistero] manifestò
in Cristo [nell'uomo Cristo], quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua
destra nei cieli [Cristo, con la sua morte e risurrezione, esprime tutto l'uomo, l'uomo
nell'handicap della sua esistenza, da bambino, quando deve crescere come un
animaletto, e da grande, quando si confonde dentro le sue idee], al di sopra di ogni
principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si
possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti
ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la
quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose».
Cristo, che costruisce nel tempo il suo corpo, che dilata il suo corpo, il corpo dell'io di
Cristo (lo dilata con la forza che il Mistero, il Mistero dello Spirito Suo, dà a lui,
perché il Mistero lo ha preso, fatto e preso, fatto e portato nella natura stessa di Dio:
fatto uomo, Dio si è fatto uomo), questo Cristo, Dio fatto uomo, ha avuto sottomesso
ai suoi piedi tutto (tutto!) e il Mistero «lo ha costituito su tutte le cose a capo della
Chiesa», perché tutte le cose diventano sue, dimostrano che quest'uomo è il Signore
di tutto, esprime quello che il Mistero è nelle cose. «Lo ha costituito su tutte le cose a
capo della Chiesa [la quale è la modalità e il luogo in cui tutte le cose, attraverso la
coscienza attiva dell'uomo chiamato, dell'uomo battezzato, dell'uomo che ha
conosciuto Cristo, partecipano in qualche modo del suo corpo]. Tutto infatti ha
sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la
quale è il suo corpo [Chiesa come corpo di Cristo], la pienezza di colui che si realizza
interamente in tutte le cose». La Chiesa è il luogo di colui che si realizza interamente
in tutte le cose, di colui che ha la padronanza, la signoria su tutta la storia. Per
questo diciamo che il senso della storia è la gloria di questo uomo, è che tutti diano
gloria a questo uomo: perché il corpo di questo uomo è la pienezza che si realizza
interamente in tutte le cose. La pienezza di tutte le cose è come un fiume che porta
al mare, e il mare dove tutto confluisce è Cristo: nella storia tutto confluisce a lui.
Come confluisce a lui? Questo fiume immane incomincia come un ruscello; questo
ruscello diventa sempre più largo assimilando tutte le cose: è come un'acqua che
incomincia da una sorgente e prende tre centimetri di larghezza, poi ne prende
trenta, ne prende quaranta e poi ne prende centomila. È la Chiesa nella storia lo
strumento perché tutti gli uomini vengano a Cristo. Così, partendo da pochi, con un
misterioso eppur constatabile dinamismo che si chiama testimonianza della fede, la
Chiesa ha dato a Cristo tutta la sua storia. Se il lavoro è l'espressione dell'uomo sulle
cose, l'amore a Cristo c'entra, è alla radice, perché di Cristo sono tutte le cose.
Questo si vedrà alla fine del mondo, l'ultimo giorno, ma il metodo di Dio, il piano di
Dio implica che questo ultimo giorno sia preceduto dalla storia della Chiesa come
corpo di Cristo, sia preceduto dalla storia del corpo di Cristo nel tempo.In che modo
noi concorriamo a compiere la Chiesa, a compiere il dovere che ha la Chiesa, il
compito che ha la Chiesa? Come noi contribuiamo a rendere più ricco il corpo di
Cristo, a dare gloria a Cristo, che è lo scopo e il senso della vita di ognuno che è
chiamato a questo (l'unico criterio che, da tutta la sua defezione o debilitazione,
l'uomo deve avere)? Come noi concorriamo a questo? Se viviamo - e quanto più
viviamo - ogni azione, ogni espressione della coscienza di noi stessi che diventa
soggetto di un'azione, se affrontiamo le nostre azioni secondo la mentalità di Cristo,
non secondo la mentalità del mondo che è o espressione di un istinto o di una
reazione, oppure espressione di potere, di possesso. La differenza tra il rapporto
giusto dell'uomo con la donna e il rapporto sbagliato, traditore, è qui. Perché il
rapporto non è affrontato secondo la mentalità di Cristo: Cristo non è niente in quel
rapporto, non c'entra niente, c'entra l'istinto o il calcolo, per cui il rapporto diventa
sempre - sempre! - violenza.Nella misura in cui l'uomo vive la fede in Cristo, la
memoria di Cristo in tutto quel che fa, in quella misura la Chiesa vive, rivive, si dilata
e, dilatandosi, prende anche altri, come vedrete quando mediterete sulla missione.In
questi mesi mi sono arrivate tante lettere in cui si diceva: «La verginità che utilità
ha?», «Il centuplo quaggiùdov'è?», «E poi, senza bambini - dicono le donne -, senza
bambini non è essere veramente donne». Nonostante tutta la verosimiglianza che
questi giudizi hanno, sono giudizi che dicono di un tipo di intelligenza che non ha
avuto la grazia di avere come oggetto il fatto cristiano, l'avvenimento cristiano: non
l'hanno visto. Come quando la prima volta sono andato in Brasile in nave: a un certo
punto, dopo Gibilterra, ho visto un cosino in alto, un triangolo in alto e ho
domandato al capitano: «Capitano, cos'è?». «È la vetta del vulcano di Tenerife»
(dopo, passando al ritorno, l'ho visto giù dall'aereo!). Siamo arrivati sotto Tenerife
"bordando" tutta l'isola alle otto di sera; quando avevo domandato al capitano così
eran le otto del mattino: ci abbiamo impiegato dodici ore per vederlo 'sto vulcano!16
Ma nessuno dei compagni di viaggio aveva visto quel triangolo posato sopra tutta la
nebbia e riapparso tra le sei e le otto del pomeriggio.Comunque, io volevo dirvi che il
nesso tra lavoro e Cristo è un nesso oggettivo, perché di Cristo è tutto ciò che c'è: è
il Signore, Rex universi; in Cristo tutto diventa una cosa - uno! -, come ridirà la
liturgia di Cristo Re. Christe cunctorum dominator alme:17 o Cristo, di tutto Signore
fecondo. La fecondità della vita dell'uomo non è data necessariamente dall'avverarsi
in lui dell'esperienza che fa il gatto con la gatta e il cane con la cagna (o il toro con la
vacca, per dire un paragone più dignitoso!), ma perché diventa generatore di
creature che sono sulla strada della completezza, sulla strada della felicità: rivela il
senso della vita, educa al senso della vita, testimonia il senso della vita (il senso
della vita essendo dato da Cristo, quel Cristo che si rende presente nel mondo, nella
storia, attraverso la dilatazione del suo corpo). Vi ricordate il paragone che facevo
dei bambini che sono ai piedi di Gesù?18 I più piccoli vedono una mano che va sulla
loro testa, e vedono questo vestito rosso, questa tonaca rossa e non vedono la faccia
di quel che è su; ma anche dopo tanti anni, anche da vecchi, ricorderanno quei
momenti. La veste di Cristo siamo noi, adesso, in questo passaggio fulmineo che è la
vita: «un soffio è la vita dell'uomo»,19 dice il salmo 89. «Un soffio è la vita
dell'uomo»: quando avrete settanta, settantasei anni sarà evidente questo (mentre
si è giovani non si capisce, perché sembra tutto presente a sé!). Essendo, dunque, il
lavoro l'espressione della persona con le cose e la realtà presente, è l'amore a Cristo
che rende più capaci di lavorare. È una cosa totalmente diversa quando uno va al
lavoro per amore di Cristo, quando uno nella memoria di Cristo lavora: c'è
un'attenzione alla totalità, una finezza nel giungere a tutti i capillari, una pazienza
nell'ampliarsi del tempo, un rispetto, perciò, del tempo che ci vuole, e poi una non
mormorazione, un non lamento delle circostanze che ti fanno diventare sgradito il
particolare. Anzi, è ravvivato in lui il senso d'una fraternità che si ponga anche di
fronte a chi gli ruba la casa, al potente, al signore, al padrone (ma dovrebbero allora
usare di più questa solidarietà tra di loro: contro i sindacati che non sono molto
determinati dal valore del singolo, ma da un giudizio in funzione del proprio valore
politico!).L'amore a Cristo c'è nella misura in cui uno sente questa missione che è nel
lavoro, questa natura del lavoro. Il rapporto con Dio è rapporto con Cristo, perché il
Mistero si è rivelato in quell'uomo, e tante cose che quell'uomo ci ha detto sono
squarci di luce nel buio del Mistero (ma non ci è stato rivelato tutto; e non solo,
perché, per esempio, dicono a Cristo: «Quando è che verrà quel giorno, l'ultimo
giorno?». «Di quel giorno e di quell'ora nessuno sa, neanche io».20 Il Mistero non si
può esaurire perché si comunica. Lo scopo di Dio, creando un uomo, è stato creare
uno che lo riconoscesse; ha creato un rapporto familiare, che le prime pagine della
Bibbia specificano con accenni, come: «Dio scendeva a parlare con loro sul limitare
della sera» - vi ricordate che la Bibbia dice così? -).21 Se noi amiamo Cristo,
lavoriamo meglio, perché comprendiamo. I lavoratori che erano con me sui treni
della Nord dal seminario di Venegono a Milano, le prime volte che venivo giù per GS
(anche tre volte al giorno, un'ora e mezza per venire, un'ora e mezza per andar su,
quindi quando venivo tre volte al giorno era un bell'affare!),22 quei lavoratori lì non
capivano (e quindi son diventati comunisti. I comunisti desiderano il potere come un
cristiano desidera il Paradiso! E adesso al potere sono saliti! Non sono saliti loro:
sono saliti con la partecipazione di cattolici. Ma questo è accaduto perché certe
associazioni cattoliche avevano più il senso dell'organizzazione che neanche il
desiderio del recupero del proprio rapporto con Cristo e del rapporto della società con
Cristo).Comunque, il rapporto con Cristo decide della verità del lavoro: con qualsiasi
cosa. Il lavoro è l'espressione dell'uomo che usa, manipola tutto ciò che gli sta
attorno. Innanzitutto il proprio corpo, la moglie, i figli, la mamma, il papà: tutto è
lavoro, perché è espressione dell'io. Se questa espressione dell'io è vissuta nella
memoria di lui, allora diventa tutto diverso, è destinato a diventare tutto diverso.
Quante volte uno mi dice: «Ma c'è un mio compagno di lavoro che è stato colpito da
quel che dico o da quel che faccio o dal mio atteggiamento, e mi ha detto: "Ma come
mai sei così?"». Questa è la domanda che tutti fanno prima di rassegnarsi a essere
cristiani come noi: «Come fate a essere così?». Perciò, il lavoro, in tutta la sua
gamma, è proporzionale all'amore a Cristo. Ma è vero anche l'inverso: che l'amore a
Cristo rigenera tutto il nostro lavorare. L'amore a Cristo, cioè, non è vero, se non
interviene in qualche modo nella grande - come dire - kermesse del nostro lavoro.
Ma il lavoro non si può amare, se non si ama Cristo: il lavoro si subisce, si tollera; ci
si adatta («perché devo prendere i soldi al ventisette del mese»). Quando parlerete o
parleremo della "casa" e della "regola", parleremo di lavoro: è lavoro quello. Alzarsi
al mattino, andare lì dove dite le Lodi e vedere quelle facce, quattro, cinque, sei,
dieci facce, vederle così slavate o così senza motivo per iniziare la giornata, perché la
maggior parte di noi è così, o non vederle neanche, perché non sono venute (e
questo è peggio ancora): è lavoro sopportare o tollerare questo, vincendo un
katéchon, un ostacolo (perché per andare a lavorare alle otto alla Pirelli tu devi
superare l'ostacolo del partire di casa alle sette!). È l'amore a Cristo che spiega tutto
questo e che rende non «tollerabile», ma amoroso il rapporto che abbiamo con tutti
gli uomini e con tutte le cose, questa espressione di noi che noi non avremmo mai
previsto, non avremmo neanche supposto. L'amore a Cristo rende possibile tutto,
semplificando tutto. L'amore a Cristo è un giudizio dell'intelligenza - vi dicevo - che
trascina con sé tutta la sensibilità umana; è un giudizio sul rapporto che ho con certe
persone o certi ambiti o certo pezzo di Chiesa dove si capisce che Cristo c'è, perché
si cambia tutto in nome di lui, perché c'è un influsso su chi ci va. Il giudizio
dell'intelligenza è: «Qui c'è Cristo»; questo dà uno shock, dà un colpo alla nostra
persona, alla nostra personalità, alla nostra storia, e così desta un'evidenza e un
gusto, una certezza, un gusto di certezza, che è proporzionale a come noi facciamo
le cose: incomincia a costituire vero il rapporto.Andare all'università, dopo, a
insegnare o a essere insegnati, o andare alla fabbrica dove tu sei capo, vice capo o
vice sottocapo oppure sei solo uno come gli altri, il far questo è lavoro il cui soggetto
adeguato è l'amore a Cristo. Perché Cristo è il senso di tutto e la memoria di Cristo è
l'antefatto di ogni realizzazione, di ogni creazione. Quando le nostre dita plasmano -
come quelle di Dio il cielo e le stelle - quel che si fa, rendono presente Cristo in quel
che si fa. Per questo val la pena andare al lavoro.È da compiere questa premessa a
tutto quanto leggerete o sentirete dire del lavoro. Io ci ho insistito, perché è strano
sentir parlare del fatto che il lavoro sia l'aspetto più concreto anche se arido, più
arido e più faticoso, del proprio amore a Cristo!Ragazzi, dobbiamo dire che Cristo è
così interessante che non si può toglierlo, non si può più toglierlo: dov'è entrato e ha
dato un pugno nello stomaco, dove c'è stato un sussulto, dove c'è stata un'apertura
d'occhi per un minimo di stupore, la tua vita è chiamata a destarsi tutta a questo
primo impulso. Perché se non ci fosse Cristo, non sarei che una creatura finita.23 Chi
lo diceva? San Gregorio Nazianzeno. Oppure? «Quando ho incontrato Cristo mi sono
scoperto uomo»24 diceva Mario Vittorino nel IV secolo, l'ultimo grande retore.
Oppure quel che avevo scritto su un'immaginetta del mio seminario - una faccia di
Cristo di Carracci -: «Io penso di non poter più vivere se non lo sentissi più
parlare».25Dobbiamo chiedere alla Madonna la grazia di credere veramente e con
letizia, perché non c'è nessuna verità più evidente di questa nella nostra vita e
perché l'evidenza porta con sé tutto il flusso della sensibilità umana. Per questo non
si può conoscere, se non si conosce con affezione: senza affezione non c'è
conoscimento, ma proiezione di un preconcetto sulla cosa. È lo stupore che la cosa ci
ingenera che rende l'intelligenza capace di afferrarla (il bambino è così). Come dice il
salmo: «Tu mi hai visto, mi hai conosciuto nel ventre di mia madre»,26 così noi
dobbiamo pensare Dio. O come quando Cocagnac fa cantare «Oh, si tu savais
combien je t'aime, tu retournerais Jérusalem», «Ritorneresti, Gerusalemme, a me,
verresti ancora a me, se tu sapessi quanto t'amo»: più che scusarsi, deve prevalere
l'attaccamento a Cristo!Però, per parlare di queste cose dobbiamo concepire tutti i
nostri rapporti come offerta a Cristo. Allora prendiamo qualsiasi cosa perché il
rapporto con essa diventi parte della veste di Cristo, che è il corpo di Cristo che si
dilata in tutta la storia. Per questo Cristo è presente, totalmente presente, e non solo
attraverso l'Eucarestia! L'Eucarestia è il segno grande, il Mistero che si identifica col
segno; ma tutto il contesto umano - che si esprime sommamente nell'Eucarestia,
che esprime il suo rapporto col senso della vita e col Mistero nell'Eucarestia -, tutta
la vita umana è questo oggetto. Così l'uomo spinge la mano e prende la cosa e la
plasma, e allora gli altri, e allora il mondo, passando di lì, vedendo una cosa
plasmata in quel modo, è stupito e domanda: «Ma come mai, come mai qui c'è
questa roba? Non c'è nessun posto nel mondo in cui ci sia uno stabilimento che
faccia questa cosa così!».

Note1 AM Cocagnac, «Chant de penitence», in Il libro dei canti, Jaca Book, Milano
1976, pp. 520-521.2 1 Cor 15, 28.3 Tu o dell'amicizia, Appunti dalle meditazioni di L.
Giussani per gli Esercizi della Fraternità, suppl. a «Litterae Communionis - Tracce»,
n. 6, giugno 1997.4 Cfr. Sal 51, 5; 61, 5; Is 59, 3; Ger 6, 13; 8, 10; 9, 4.5 «Il n'est
pas d'idéal auquel nous puissions nous sacrifier, car des tous nous connaissons les
mensonges, nous qui ne savons point ce qu'est la vérité» (A. Malraux, La Tentation
de l'Occident, Bernard Grasset, Paris 1926, p. 216).6 Cfr. Dt 6, 6-9.7 Cfr. Rm 14, 8;
1 Cor 10, 31; 1 Ts 5, 10. 8 Cfr. Gv 14, 6.9 Cfr. L. Giussani, «Tu» (o dell'amicizia),
BUR, Milano 1997, p. 329.10 Cfr. Es 15, 2; Sal 117, 14; Is 12, 2.11 Tu o
dell'amicizia, Appunti dalle meditazioni di L. Giussani per gli Esercizi della Fraternità,
op. cit., pp. 17-18.12 Sal 4, 9.13 Cfr. Gv 5, 17.14 Ef 1, 16-23.15 Didachè, IV, 2, in I
padri apostolici, Città Nuova editrice, Milano 1978, p. 32.16 Cfr. L. Giussani, Si può
(veramente?!) vivere così?, BUR, Milano 1996, p. 137.17 «Christe cunctorum», Inno
della dedicazione del tempio, in Analecta Hymnica Medii Aevi, vol. 27, a cura di C.
Blume, Leipzig 1897, p. 265.18 Cfr. Tu o dell'amicizia, Appunti dalle meditazioni di L.
Giussani per gli Esercizi della Fraternità, op. cit., p. 31.19 Cfr. Sal 89, 9.20 Cfr. Mt 24,
36; Mc 13, 32.21 Cfr. Gen 3, 8.22 Cfr. L. Giussani, «Tu» (o dell'amicizia), op. cit., pp.
52-53.23 Cfr. San GParola tra noi

Natale: motivo della vita come lavoro


Luigi Giussani
Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Novizi dei Memores
Domini. Milano, 15 novembre 1998

È la prima volta, dopo tanti anni, che sento cantare, ricantare, quei bellissimi
«commenti biblici» che ha fatto padre Cocagnac, perché questi canti possono essere
punti di meditazione tutte le volte che l'animo nostro è, in qualche modo, oberato.
Questo canto è bellissimo:1 la Bibbia, la parola di Dio, l'atteggiamento di Dio con
l'uomo è dentro lì, non nella tua paura o nel tuo tremore o nella tua presunzione,
non nel giudicare l'esito di quello che fa Dio su di te perché ti lascia nella debolezza,
per cui sbagli e sei umiliato da questo.Comunque, sento un dissesto nel modo di
stare davanti alla realtà, davanti al proprio destino e, quindi, davanti a Dio, un
dissesto nell'animo della maggior parte della gente in cui mi imbatto, nella maggior
parte di voi, quando prendo un rapporto e ne prendo consapevolezza. E quello che
mi dà chiarezza maggiore nel guardarvi e nel tenervi presente è che l'abbiamo
superato, per amor di Dio, per grazia di Dio, anche noi nella nostra vita. Perciò, vi
parliamo non per difendere o farvi schiavi delle nostre idee, ma come uomini, uomini
come voi, secondo tutta la ricchezza che Dio ha dato all'uomo. Parlare così è parlare
come «idealmente» della vita. Ma parlare idealmente della vita vuol dire identificare
lo scopo della vita e la strada per andarci, che per nulla è pensabile o immaginabile
da ognuno di voi, ma è data: la salvezza dalla nostra dissipazione, dalla nostra
contraddizione, dalla nostra ingenerosità, la salvezza da questo ci è data. Anche
questa. Ci è data la vita e ci è dato il perdono del male fatto nella vita e ci è data la
rielezione, la rinascita: tutto ci è dato, perché Dio è tutto in tutto2 e non c'è la
possibilità di eccepire a questa formula che ha usato san Paolo, in nessun modo
(rileggete gli Esercizi alla Fraternità dell'anno scorso,3 perché io credo che sia
l'espressione più avanzata del nostro modo di concepire la vita, del nostro modo di
sentire).«Non c'è ideale - diceva Malraux - al quale possiamo sacrificarci, perché di
tutti noi conosciamo la menzogna [tutti gli uomini sono bugiardi: questo lo dice
chiaramente anche la Bibbia, e i salmi4 specialmente], noi che non sappiamo che
cosa sia la verità».5 Questa è una declinazione dell'anima di un uomo qualsiasi oggi.
Perché se un uomo è appena appena un poco abituato a pensare a se stesso, a
sentire se stesso, intellettualmente essendo portato a darsi la spiegazione di tutte le
cose - di tante cose o delle cose di cui sente il gusto o l'utilità o la necessità, o delle
cose di cui è costretto a pensare -, questa è proprio una frase che definisce il valore
di tutte le nostre dizioni, perché anche noi a un ideale non ci siamo ancora sacrificati
del tutto. Però ci siamo sacrificati: è la coscienza della vocazione nel senso cristiano
della parola, comunque sia inteso; veramente consapevoli o con la testa nel sacco o
nel tentativo d'affermare quel che si sente nell'ambito in cui siamo (nel seguire la
compagnia: il seguire la compagnia può darci l'impressione che ci siamo sacrificati a
un ideale). Ma sacrificarsi a un ideale vuol dire sacrificare la vita a quell'ideale, perciò
sacrificare quello che viene d'istinto e quello che si deve fare, sacrificarlo ogni giorno,
ogni ora. Per questo la Bibbia, parlando di Dio, si sofferma spesso - specialmente nel
Deuteronomio, nei più antichi libri - sulla necessità che l'uomo pensi a Dio stando in
casa, uscendo di casa (come dice il sesto capitolo del Deuteronomio;6 e san Paolo
ritorna a tutti questi dettagli7).«Non c'è ideale al quale possiamo sacrificarci [con
l'ideale non abbiamo rapporto se non nel sacrificio, perché l'ideale vuol dire il senso
di quel che facciamo, e il senso di quel che facciamo non lo possiamo avere se non
sacrificando la modalità con cui facciamo (pensate cosa dicono a me, vecchio, queste
cose: come fanno vedere lo strisciare di una vita, tutti i giorni ripresa al mattino ma
strisciando, come quando si va in un posto dove c'è pericolo, dove si teme o dove
non si vuole esser visti e si sta lì, si gira attorno)], perché di tutti noi conosciamo la
menzogna [di tutti: anche mia, anche tua, perché se non c'è questa coscienza, è
falso anche quello che dici degli altri, giochi anche con gli altri, rendi fessi anche gli
altri]». Mi ricordo la prima volta che l'ho letta, come mi ha fatto pensare questa
frase: «perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cos'è
la verità». Ma noi sappiamo cos'è la verità! «Io sono la verità e la vita»8 ha detto un
uomo, l'unico che abbia detto nella storia questa cosa. Noi conosciamo la verità, ma
anche qui portiamo tutta la nostra grettezza o tutta la nostra equivocità: è come se
mancasse alla nostra vita quell'impeto - suscitato tre volte al giorno, mattino
mezzogiorno e sera, quando si dice la preghiera (l'Angelus, per esempio) - che a
mezzogiorno ritorna a galla dal mare di nebbia in cui è stato al mattino e alla sera
rispetto al pomeriggio.Comunque, questo brano ieri sera mi ha fatto pensare anche
al salmo ottavo... Quando noi, leggendo il breviario, a un certo punto sentiremo il
cuore e la testa spalancarsi e capire quella parola che diciamo, sarà un giorno non
solo non nefasto, ma nemmeno un giorno brutto della nostra vita, o facile a
dimenticarsi, perché i salmi dicono l'uomo, l'uomo «uomo», con tutti i suoi
sentimenti, in tutte le occasioni così contraddittorie, così accavallantesi (non c'è cosa
che a noi sia stata detta o cosa che a noi sia stata chiesta di fare che non abbia
percosso e trapassato la nostra umanità, cambiato la nostra umanità nella verità e
nell'affezione, nell'intelligenza e nell'affezione).Rileggiamo l'ottavo salmo:«O Signore,
nostro Dio,quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:sopra i cieli si innalza la tua
magnificenza [al di là del visibile si innalza la tua magnificenza].Con la bocca dei
bimbi e dei lattantiaffermi la tua potenza contro i tuoi avversari [sembra vana questa
cosa, perché la bocca dei bimbi e dei lattanti non sente la lotta che c'è tra la parola
di Dio, la rivelazione di Dio, la presenza di Dio, e ciò che appare loro (e non sanno
che queste apparenze sono gli avversari). Ma è se mantiene la bocca del bambino e
dei lattanti che l'uomo grande capisce Dio e la Sua potenza nella lotta con gli
avversari, perché lo sente in sé (che cosa sia la conoscenza è il problema
fondamentale della gnoseologia e della filosofia, di una filosofia umana, perché il
problema della conoscenza è il rapporto tra sé e la realtà: così come si concepisce la
conoscenza, si concepisce il rapporto tra sé e la realtà). Insomma, si potrebbe dire:
«Con la semplicità difesa nella nostra maturità affermi la tua potenza contro i tuoi
avversari»],per ridurre al silenzio nemici e ribelli.Se guardo il tuo cielo, opera delle
tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissate,che cosa è l'uomo [cos'è mai l'uomo?]
perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?». Ma questo - scusate - mi
trovo a dirlo tutte le volte che debbo andare a compiere gesti in cui devo essere
aiutato, perché da vecchi è così! Per il bambino questa non è una sofferenza, un
sacrificio per l'ideale, cioè per il senso di quel che fa. «Non c'è ideale al quale
possiamo sacrificarci»: non c'è senso della vita che possiamo sorprendere, perché
tutto quello che si dice nella mentalità moderna come tale è menzogna.Eppure l'hai
fatto [questo uomo] poco meno degli angeli [poco meno di Te: «degli angeli» è una
formula biblica per dire «manifestazione di Dio». L'angelo è la manifestazione di Dio],
di gloria e di onore lo hai coronato [di gloria e di onore: non appena i re o i
presidenti delle repubbliche; non i capi di stato maggiore o i professori universitari.
Hai coronato di gloria e di onore ogni io: di gloria nella realtà che si modifica, nella
realtà che prende le sue forme, nell'evoluzione, e di onore (lo fai sentire nella sua
dignità e gli altri lo devono guardare secondo questa sua dignità, piccolo e disfatto
come possa essere un uomo). E perché, perché hai fatto così? Perché l'hai coronato
di gloria e di onore?]. [Perché] gli hai dato potere sulle opere delle tue mani [potere
sulla realtà, sul cosmo: questa è l'intuizione e il riassunto di tutto quello che si può
dire della storia: «gli hai dato potere sull'opera delle tue mani», sulla creazione],
tutto hai posto sotto i suoi piedi».Capite da dove è nato il degrado dell'uomo? Da
qui! L'uomo, sentendosi fatto con questo potere, degrada tutto, tende a degradare
tutto: «Io sono la misura di tutte le cose» diranno della ragione, confondendo che
cosa sia la ragione con una pretesa loro, con una pretesa: «La scienza è contro la
Chiesa» (invece la scienza è contro la Chiesa quando non è scienza, ma preconcetto
che si scarica addosso alla realtà ecclesiale e a ciò che dice Dio).Dentro questo salmo
c'è la definizione dell'uomo come destinazione, come senso della sua vita (senso
della sua vita è il rapporto con chi lo crea: «Con la bocca dei bimbi e dei lattanti
affermi la tua potenza»).Ma perché Dio dà valore al piccolo gesto, all'istante che
passa, quando l'uomo cerca di esprimersi? Perché l'uomo è rapporto con Sé.
Dicevamo altre volte che tutto il cosmo giunge a un certo punto di evoluzione o di
qualificazione, in cui diventa autocoscienza:9 si chiama io quel punto. L'io è
l'autocoscienza del mondo, del cosmo, di sé. E allora il cosmo, realmente come è, è
la disposizione del contesto in cui il rapporto con Dio vive, il rapporto col Mistero
vive.Perciò, capite che parlare di lavoro è una cosa veramente interessante, se per
lavoro intendiamo quello che noi non possiamo non intendere (eppure non
l'intendiamo neanche un po', la maggior parte di noi, tutti i giorni!). Il lavoro è una
cosa grande, come la piccola realtà dell'uomo che dice: «Signore, che cosa è mai
l'uomo perché tu te ne rammenti, te ne ricordi?». In mezzo a tutte le bestie e le
bestioline del cosmo l'uomo è come un centesimo, un millesimo, un decimillesimo
delle bestiole che ci sono in ogni ambito. Ma la grandezza dell'uomo - l'onore e la
gloria dell'uomo - dipende dal fatto che l'uomo, il singolo uomo, è rapporto con
l'infinito; e per vivere ciò che l'uomo è, per realizzare la sua persona - perché la
felicità è la finale di questo processo: la penetrazione dell'eterno è questo processo -
l'uomo deve prendere in mano lui tutto quello che Dio ha fatto. Questo ottavo salmo
di Davide, a un certo punto, uno lo dice tutti i giorni.Ma io adesso vorrei proprio dire
che cosa è il lavoro per un cristiano, come Cristo ha usato questa parola. Usando
questa parola non con Cristo, tutto decade e diventa violenza: violenza per il potere
o violenza subita senza più riscossa possibile. L'approfondimento della parola lavoro,
che dico adesso nei suoi elementi più rilevanti, è forse l'inizio del cambiamento che
noi dobbiamo assumere nella società in cui siamo: cambiamento del modo con cui
trattiamo noi stessi nella società che abbiamo, perché Cristo, Dio, offre l'occasione
del cambiamento attraverso le condizioni della società in cui uno vive. Non è la
società lo strumento che porta a noi la forza di Dio, ma la grande Presenza è
continuamente data dalla Chiesa attraverso i sacramenti e le espressioni di fede del
popolo cristiano. «Dio, mia forza e mio canto sei tu»,10 forza e canto: potenza
operativa e creativa; e perciò sorgente della gioia e, prima ancora, della letizia -
perché la gioia è di certi momenti, la letizia deve diventare normale, il sottofondo di
ogni giorno -.Il lavoro per un cristiano è come l'aspetto più concreto, più arido e
concreto, più faticoso e concreto, del proprio amore a Cristo. L'amore a Cristo, a
buon conto, richiama il fatto - più di qualsiasi altro rapporto - che l'amore è un
giudizio dell'intelligenza che trascina con sé tutta la sensibilità nostra, tutta la
sensibilità umana. Altrimenti il giudizio è qualcosa di gretto, come il giudizio di cui
certa magistratura di questi tempi dà abbondanti esempi; ma anche come noi
moralisti, che dal pulpito sottolineiamo sempre le cose come debbono essere e quindi
giudichiamo gli atti non secondo quella tensione al meglio e al giusto che rende
morale ogni uomo: pesiamo soltanto l'esito negativo o il tradimento che a noi non
rimproveriamo, ma agli altri sì.L'amore a Cristo è un giudizio dell'intelligenza.
L'amore - non solo «l'amore a Cristo» - è un giudizio, implica un giudizio. Il giudizio è
un riconoscimento di verità, è un riconoscimento dell'essere. Il giudizio è lo sguardo
all'essere che viene percepito come da un bambino: l'esito della realtà che emerge ai
miei occhi è uno stupore. Se si mantiene questo, si capisce da lì come è stato fatto
l'uomo nel guardare tutto, riguardo a tutto. Le certezze nascono di lì, le evidenze
della certezza nascono di lì, altrimenti diventano una definizione del potere, cioè di
un'estraneità che sempre riduce e cambia a seconda dei suoi tornaconti: il potere
non vuole altro che sudditi, nel senso di schiavi.Perciò, il lavoro ci costringe a
diventare più cristiani, a ripensare al nostro amore a Cristo, a ripensare a come io
vivo, all'utilità con cui vivo e per che cosa sia stato dato tutto.Il lavoro come l'aspetto
più concreto - più arido e faticoso (e concreto, però!) - del proprio amore a Cristo:
concreto vuol dire l'aspetto più esistenziale, più inserito nelle cose che ci circondano,
nelle circostanze. Mi sono soffermato sulla sottolineatura che l'amore a Cristo (ma
non l'amore a Cristo appena, ma anche al tuo compagno, a quello che vorresti far tu
con altre persone, o l'amore della mamma verso il figlio) è un giudizio
dell'intelligenza che trascina con sé tutta la sensibilità umana. La sensibilità umana è
per dire l'esigenza compiuta della promessa che è la vita, della promessa che è la
nostra struttura originale. L'intelligenza vuol dire riconoscere che Gesù è Dio, Dio è
diventato uomo: riconoscere questo. Se c'è un uomo che è Dio (come si legge nel
vangelo di Natale, come si dice nell'Angelus), l'inserimento di un bisogno, di una
necessità o di una situazione nel dialogo con questo uomo - la preghiera, cioè - è la
sincerità e la serietà di essere uomini. «L'intelligenza trascina con sé tutta la
sensibilità umana»: davanti a questo uomo la mia intelligenza non può non
trascinare con sé tutta la mia sensibilità! Dovrebbe accadere - tu lo devi ammettere -
anche per la tua sensibilità che non si muove, perché non la richiami, tra l'altro! Tu
sei passivo, ultimamente passivo e ti aspetti che la compagnia faccia in vece tua, ti
aspetti che le formule e le cose ripetute facciano al posto tuo, si mettano al posto
tuo. Invece no, sei tu che... Eh, non posso adesso ricordare cos'è la libertà: andate a
rileggere gli Esercizi alla Fraternità dell'anno scorso.11Il lavoro come l'aspetto più
concreto e arido e faticoso del proprio amore a Cristo: parlo di questo perché la volta
scorsa avete messo a tema la memoria di Cristo, il valore della memoria di Cristo;
perciò con questo mio intervento mi attacco a tirare delle conclusioni dalla
supposizione che per voi sia stato un richiamo reale quello della memoria. Per sua
natura l'amore a Cristo compone il desiderio che domina la vita, quello della felicità;
ma lo compone in modo tale da farlo diventare vero, con una constatazione: che il
nostro desiderio della felicità diventa desiderio che tutti gli uomini raggiungano la
felicità. La mia povera mamma era così religiosa e ho capito dopo tutto quello che mi
dava, e che razza di gratitudine dovevo avere per lei, per Dio che mi si è dato
attraverso lei: perché tutte le sere, venendo a farmi sotto le coltri - io lo ricordo da
cinque anni in su, fino a quando sono andato in seminario (compivo dieci anni) -,
neanche una sera ricordo in cui non fosse venuta a dire: «Pensiamo ai poveri...»,
«Pensiamo a quel che è successo in Giappone», «Pensa alla guerra che c'è in Cina»
Mi richiamava tutto questo, anche quando ero un po' grandicello, i primi anni di
seminario, dove nessuno ci diceva della Cina e tanto meno della povera gente (sì, ci
dicevano: «Ai poveri bisogna dare la nostra offerta»).È l'amore a Cristo che per sua
natura compone il desiderio che domina la vita, cioè soddisfa il desiderio che domina
la vita come promessa indiscussa, perché la promessa è la natura del nostro cuore:
intelligenza e affettività (giudizio che si tira dietro tutta la sensibilità del cuore). Di
fronte all'essere della realtà, di fronte alla realtà che emerge ai tuoi occhi, tu sei
colpito: è evidente che c'è questa persona davanti, è evidente che questa persona ti
vuol bene, perché si curva verso di te - la zia si curva verso di te bambino e tu senti
che la zia è parte della mamma! Io avevo, per esempio, una zia zitella, ma era molto
intelligente. A 50 anni si è accorta di non potersi più sposare (!) e ha fatto un gruppo
di zitelle in parrocchia, che ha composto la vita di tante. «Composto», cioè pacato,
resa pacata la vita di tanti, perché affermando ciò che è al fondo della propria
esistenza l'uomo riposa, come dice un salmo di Compieta: «In pace mi corico e
subito mi addormento» -.12 Ora, cos'è il lavoro, per essere una cosa così definitiva e
decisiva (ho detto che il lavoro è l'aspetto più concreto dell'amore a Cristo)? Pensate
a chi va alla Pirelli o alla Fiat stamattina per otto ore (stanno tentando di organizzare
uno sciopero, che adesso è sconsigliato da un certo sindacato perché è contro il
governo: la prima cosa è salvare il governo, poi viene rimediare alla disoccupazione,
stare attenti alla giustizia Ma non la giustizia concepita come lo strumento per
eliminare gli avversari!). Il lavoro è l'espressione totale della persona. Se quel che
abbiamo detto prima è giusto, cioè in quanto l'uomo è rapporto con l'infinito, con
l'eterno, col Mistero - si può dire così: «rapporto col Mistero», per spiegare di più la
realtà, la verità di quanto dico -, allora il lavoro veramente prende tutto e tutte le
espressioni della persona. Si chiama lavoro tutto ciò che esprime la persona come
rapporto con l'infinito. Perché per il muratore o il minatore i gesti che fanno,
mettendo su un mattone o zappando un sotterraneo, sono rapporto con Dio: per
questo devono essere rispettati, per questo devono essere oggetto di giustizia reale
e di amore anche, e quindi di aiuto. Perché? Perché sono lavoratori e perciò sono
esseri chiamati ad amare Cristo. Perché c'è questo nesso tra amare Cristo e il lavoro?
Perché il lavoro è la forma espressiva della personalità umana, del rapporto che
l'uomo ha con Dio (Gesù definisce Dio l'eterno lavoratore).13Nella lettera agli Efesini
san Paolo dice:14 «Non cesso di render grazie per voi, ricordandovi nelle mie
preghiere, perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria
[generatore della gloria], vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più
profonda conoscenza di lui [possiamo dirlo di noi questo augurio]. Possa egli davvero
illuminare gli occhi della vostra mente [gli occhi della mente, che diventano, poi,
come corollario, occhi fisici che vedono quello che gli altri non vedono, anche nelle
apparenze] per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di
gloria racchiude la sua eredità fra i santi [che tesoro di gloria racchiude il nostro
seguire i santi: "Guardate ogni giorno al volto dei santi e traete conforto dai loro
discorsi"15 aveva scritto don Villa su una parete della casa posticcia e di breve
durata che ha avuto, in una parrocchia centralissima di Milano, che è quella di piazza
San Babila] e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza [della sua
presenza, meglio. Quale è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di me]
verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza che egli [il Mistero] manifestò
in Cristo [nell'uomo Cristo], quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua
destra nei cieli [Cristo, con la sua morte e risurrezione, esprime tutto l'uomo, l'uomo
nell'handicap della sua esistenza, da bambino, quando deve crescere come un
animaletto, e da grande, quando si confonde dentro le sue idee], al di sopra di ogni
principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si
possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti
ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la
quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose».
Cristo, che costruisce nel tempo il suo corpo, che dilata il suo corpo, il corpo dell'io di
Cristo (lo dilata con la forza che il Mistero, il Mistero dello Spirito Suo, dà a lui,
perché il Mistero lo ha preso, fatto e preso, fatto e portato nella natura stessa di Dio:
fatto uomo, Dio si è fatto uomo), questo Cristo, Dio fatto uomo, ha avuto sottomesso
ai suoi piedi tutto (tutto!) e il Mistero «lo ha costituito su tutte le cose a capo della
Chiesa», perché tutte le cose diventano sue, dimostrano che quest'uomo è il Signore
di tutto, esprime quello che il Mistero è nelle cose. «Lo ha costituito su tutte le cose a
capo della Chiesa [la quale è la modalità e il luogo in cui tutte le cose, attraverso la
coscienza attiva dell'uomo chiamato, dell'uomo battezzato, dell'uomo che ha
conosciuto Cristo, partecipano in qualche modo del suo corpo]. Tutto infatti ha
sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la
quale è il suo corpo [Chiesa come corpo di Cristo], la pienezza di colui che si realizza
interamente in tutte le cose». La Chiesa è il luogo di colui che si realizza interamente
in tutte le cose, di colui che ha la padronanza, la signoria su tutta la storia. Per
questo diciamo che il senso della storia è la gloria di questo uomo, è che tutti diano
gloria a questo uomo: perché il corpo di questo uomo è la pienezza che si realizza
interamente in tutte le cose. La pienezza di tutte le cose è come un fiume che porta
al mare, e il mare dove tutto confluisce è Cristo: nella storia tutto confluisce a lui.
Come confluisce a lui? Questo fiume immane incomincia come un ruscello; questo
ruscello diventa sempre più largo assimilando tutte le cose: è come un'acqua che
incomincia da una sorgente e prende tre centimetri di larghezza, poi ne prende
trenta, ne prende quaranta e poi ne prende centomila. È la Chiesa nella storia lo
strumento perché tutti gli uomini vengano a Cristo. Così, partendo da pochi, con un
misterioso eppur constatabile dinamismo che si chiama testimonianza della fede, la
Chiesa ha dato a Cristo tutta la sua storia. Se il lavoro è l'espressione dell'uomo sulle
cose, l'amore a Cristo c'entra, è alla radice, perché di Cristo sono tutte le cose.
Questo si vedrà alla fine del mondo, l'ultimo giorno, ma il metodo di Dio, il piano di
Dio implica che questo ultimo giorno sia preceduto dalla storia della Chiesa come
corpo di Cristo, sia preceduto dalla storia del corpo di Cristo nel tempo.In che modo
noi concorriamo a compiere la Chiesa, a compiere il dovere che ha la Chiesa, il
compito che ha la Chiesa? Come noi contribuiamo a rendere più ricco il corpo di
Cristo, a dare gloria a Cristo, che è lo scopo e il senso della vita di ognuno che è
chiamato a questo (l'unico criterio che, da tutta la sua defezione o debilitazione,
l'uomo deve avere)? Come noi concorriamo a questo? Se viviamo - e quanto più
viviamo - ogni azione, ogni espressione della coscienza di noi stessi che diventa
soggetto di un'azione, se affrontiamo le nostre azioni secondo la mentalità di Cristo,
non secondo la mentalità del mondo che è o espressione di un istinto o di una
reazione, oppure espressione di potere, di possesso. La differenza tra il rapporto
giusto dell'uomo con la donna e il rapporto sbagliato, traditore, è qui. Perché il
rapporto non è affrontato secondo la mentalità di Cristo: Cristo non è niente in quel
rapporto, non c'entra niente, c'entra l'istinto o il calcolo, per cui il rapporto diventa
sempre - sempre! - violenza.Nella misura in cui l'uomo vive la fede in Cristo, la
memoria di Cristo in tutto quel che fa, in quella misura la Chiesa vive, rivive, si dilata
e, dilatandosi, prende anche altri, come vedrete quando mediterete sulla missione.In
questi mesi mi sono arrivate tante lettere in cui si diceva: «La verginità che utilità
ha?», «Il centuplo quaggiùdov'è?», «E poi, senza bambini - dicono le donne -, senza
bambini non è essere veramente donne». Nonostante tutta la verosimiglianza che
questi giudizi hanno, sono giudizi che dicono di un tipo di intelligenza che non ha
avuto la grazia di avere come oggetto il fatto cristiano, l'avvenimento cristiano: non
l'hanno visto. Come quando la prima volta sono andato in Brasile in nave: a un certo
punto, dopo Gibilterra, ho visto un cosino in alto, un triangolo in alto e ho
domandato al capitano: «Capitano, cos'è?». «È la vetta del vulcano di Tenerife»
(dopo, passando al ritorno, l'ho visto giù dall'aereo!). Siamo arrivati sotto Tenerife
"bordando" tutta l'isola alle otto di sera; quando avevo domandato al capitano così
eran le otto del mattino: ci abbiamo impiegato dodici ore per vederlo 'sto vulcano!16
Ma nessuno dei compagni di viaggio aveva visto quel triangolo posato sopra tutta la
nebbia e riapparso tra le sei e le otto del pomeriggio.Comunque, io volevo dirvi che il
nesso tra lavoro e Cristo è un nesso oggettivo, perché di Cristo è tutto ciò che c'è: è
il Signore, Rex universi; in Cristo tutto diventa una cosa - uno! -, come ridirà la
liturgia di Cristo Re. Christe cunctorum dominator alme:17 o Cristo, di tutto Signore
fecondo. La fecondità della vita dell'uomo non è data necessariamente dall'avverarsi
in lui dell'esperienza che fa il gatto con la gatta e il cane con la cagna (o il toro con la
vacca, per dire un paragone più dignitoso!), ma perché diventa generatore di
creature che sono sulla strada della completezza, sulla strada della felicità: rivela il
senso della vita, educa al senso della vita, testimonia il senso della vita (il senso
della vita essendo dato da Cristo, quel Cristo che si rende presente nel mondo, nella
storia, attraverso la dilatazione del suo corpo). Vi ricordate il paragone che facevo
dei bambini che sono ai piedi di Gesù?18 I più piccoli vedono una mano che va sulla
loro testa, e vedono questo vestito rosso, questa tonaca rossa e non vedono la faccia
di quel che è su; ma anche dopo tanti anni, anche da vecchi, ricorderanno quei
momenti. La veste di Cristo siamo noi, adesso, in questo passaggio fulmineo che è la
vita: «un soffio è la vita dell'uomo»,19 dice il salmo 89. «Un soffio è la vita
dell'uomo»: quando avrete settanta, settantasei anni sarà evidente questo (mentre
si è giovani non si capisce, perché sembra tutto presente a sé!). Essendo, dunque, il
lavoro l'espressione della persona con le cose e la realtà presente, è l'amore a Cristo
che rende più capaci di lavorare. È una cosa totalmente diversa quando uno va al
lavoro per amore di Cristo, quando uno nella memoria di Cristo lavora: c'è
un'attenzione alla totalità, una finezza nel giungere a tutti i capillari, una pazienza
nell'ampliarsi del tempo, un rispetto, perciò, del tempo che ci vuole, e poi una non
mormorazione, un non lamento delle circostanze che ti fanno diventare sgradito il
particolare. Anzi, è ravvivato in lui il senso d'una fraternità che si ponga anche di
fronte a chi gli ruba la casa, al potente, al signore, al padrone (ma dovrebbero allora
usare di più questa solidarietà tra di loro: contro i sindacati che non sono molto
determinati dal valore del singolo, ma da un giudizio in funzione del proprio valore
politico!).L'amore a Cristo c'è nella misura in cui uno sente questa missione che è nel
lavoro, questa natura del lavoro. Il rapporto con Dio è rapporto con Cristo, perché il
Mistero si è rivelato in quell'uomo, e tante cose che quell'uomo ci ha detto sono
squarci di luce nel buio del Mistero (ma non ci è stato rivelato tutto; e non solo,
perché, per esempio, dicono a Cristo: «Quando è che verrà quel giorno, l'ultimo
giorno?». «Di quel giorno e di quell'ora nessuno sa, neanche io».20 Il Mistero non si
può esaurire perché si comunica. Lo scopo di Dio, creando un uomo, è stato creare
uno che lo riconoscesse; ha creato un rapporto familiare, che le prime pagine della
Bibbia specificano con accenni, come: «Dio scendeva a parlare con loro sul limitare
della sera» - vi ricordate che la Bibbia dice così? -).21 Se noi amiamo Cristo,
lavoriamo meglio, perché comprendiamo. I lavoratori che erano con me sui treni
della Nord dal seminario di Venegono a Milano, le prime volte che venivo giù per GS
(anche tre volte al giorno, un'ora e mezza per venire, un'ora e mezza per andar su,
quindi quando venivo tre volte al giorno era un bell'affare!),22 quei lavoratori lì non
capivano (e quindi son diventati comunisti. I comunisti desiderano il potere come un
cristiano desidera il Paradiso! E adesso al potere sono saliti! Non sono saliti loro:
sono saliti con la partecipazione di cattolici. Ma questo è accaduto perché certe
associazioni cattoliche avevano più il senso dell'organizzazione che neanche il
desiderio del recupero del proprio rapporto con Cristo e del rapporto della società con
Cristo).Comunque, il rapporto con Cristo decide della verità del lavoro: con qualsiasi
cosa. Il lavoro è l'espressione dell'uomo che usa, manipola tutto ciò che gli sta
attorno. Innanzitutto il proprio corpo, la moglie, i figli, la mamma, il papà: tutto è
lavoro, perché è espressione dell'io. Se questa espressione dell'io è vissuta nella
memoria di lui, allora diventa tutto diverso, è destinato a diventare tutto diverso.
Quante volte uno mi dice: «Ma c'è un mio compagno di lavoro che è stato colpito da
quel che dico o da quel che faccio o dal mio atteggiamento, e mi ha detto: "Ma come
mai sei così?"». Questa è la domanda che tutti fanno prima di rassegnarsi a essere
cristiani come noi: «Come fate a essere così?». Perciò, il lavoro, in tutta la sua
gamma, è proporzionale all'amore a Cristo. Ma è vero anche l'inverso: che l'amore a
Cristo rigenera tutto il nostro lavorare. L'amore a Cristo, cioè, non è vero, se non
interviene in qualche modo nella grande - come dire - kermesse del nostro lavoro.
Ma il lavoro non si può amare, se non si ama Cristo: il lavoro si subisce, si tollera; ci
si adatta («perché devo prendere i soldi al ventisette del mese»). Quando parlerete o
parleremo della "casa" e della "regola", parleremo di lavoro: è lavoro quello. Alzarsi
al mattino, andare lì dove dite le Lodi e vedere quelle facce, quattro, cinque, sei,
dieci facce, vederle così slavate o così senza motivo per iniziare la giornata, perché la
maggior parte di noi è così, o non vederle neanche, perché non sono venute (e
questo è peggio ancora): è lavoro sopportare o tollerare questo, vincendo un
katéchon, un ostacolo (perché per andare a lavorare alle otto alla Pirelli tu devi
superare l'ostacolo del partire di casa alle sette!). È l'amore a Cristo che spiega tutto
questo e che rende non «tollerabile», ma amoroso il rapporto che abbiamo con tutti
gli uomini e con tutte le cose, questa espressione di noi che noi non avremmo mai
previsto, non avremmo neanche supposto. L'amore a Cristo rende possibile tutto,
semplificando tutto. L'amore a Cristo è un giudizio dell'intelligenza - vi dicevo - che
trascina con sé tutta la sensibilità umana; è un giudizio sul rapporto che ho con certe
persone o certi ambiti o certo pezzo di Chiesa dove si capisce che Cristo c'è, perché
si cambia tutto in nome di lui, perché c'è un influsso su chi ci va. Il giudizio
dell'intelligenza è: «Qui c'è Cristo»; questo dà uno shock, dà un colpo alla nostra
persona, alla nostra personalità, alla nostra storia, e così desta un'evidenza e un
gusto, una certezza, un gusto di certezza, che è proporzionale a come noi facciamo
le cose: incomincia a costituire vero il rapporto.Andare all'università, dopo, a
insegnare o a essere insegnati, o andare alla fabbrica dove tu sei capo, vice capo o
vice sottocapo oppure sei solo uno come gli altri, il far questo è lavoro il cui soggetto
adeguato è l'amore a Cristo. Perché Cristo è il senso di tutto e la memoria di Cristo è
l'antefatto di ogni realizzazione, di ogni creazione. Quando le nostre dita plasmano -
come quelle di Dio il cielo e le stelle - quel che si fa, rendono presente Cristo in quel
che si fa. Per questo val la pena andare al lavoro.È da compiere questa premessa a
tutto quanto leggerete o sentirete dire del lavoro. Io ci ho insistito, perché è strano
sentir parlare del fatto che il lavoro sia l'aspetto più concreto anche se arido, più
arido e più faticoso, del proprio amore a Cristo!Ragazzi, dobbiamo dire che Cristo è
così interessante che non si può toglierlo, non si può più toglierlo: dov'è entrato e ha
dato un pugno nello stomaco, dove c'è stato un sussulto, dove c'è stata un'apertura
d'occhi per un minimo di stupore, la tua vita è chiamata a destarsi tutta a questo
primo impulso. Perché se non ci fosse Cristo, non sarei che una creatura finita.23 Chi
lo diceva? San Gregorio Nazianzeno. Oppure? «Quando ho incontrato Cristo mi sono
scoperto uomo»24 diceva Mario Vittorino nel IV secolo, l'ultimo grande retore.
Oppure quel che avevo scritto su un'immaginetta del mio seminario - una faccia di
Cristo di Carracci -: «Io penso di non poter più vivere se non lo sentissi più
parlare».25Dobbiamo chiedere alla Madonna la grazia di credere veramente e con
letizia, perché non c'è nessuna verità più evidente di questa nella nostra vita e
perché l'evidenza porta con sé tutto il flusso della sensibilità umana. Per questo non
si può conoscere, se non si conosce con affezione: senza affezione non c'è
conoscimento, ma proiezione di un preconcetto sulla cosa. È lo stupore che la cosa ci
ingenera che rende l'intelligenza capace di afferrarla (il bambino è così). Come dice il
salmo: «Tu mi hai visto, mi hai conosciuto nel ventre di mia madre»,26 così noi
dobbiamo pensare Dio. O come quando Cocagnac fa cantare «Oh, si tu savais
combien je t'aime, tu retournerais Jérusalem», «Ritorneresti, Gerusalemme, a me,
verresti ancora a me, se tu sapessi quanto t'amo»: più che scusarsi, deve prevalere
l'attaccamento a Cristo!Però, per parlare di queste cose dobbiamo concepire tutti i
nostri rapporti come offerta a Cristo. Allora prendiamo qualsiasi cosa perché il
rapporto con essa diventi parte della veste di Cristo, che è il corpo di Cristo che si
dilata in tutta la storia. Per questo Cristo è presente, totalmente presente, e non solo
attraverso l'Eucarestia! L'Eucarestia è il segno grande, il Mistero che si identifica col
segno; ma tutto il contesto umano - che si esprime sommamente nell'Eucarestia,
che esprime il suo rapporto col senso della vita e col Mistero nell'Eucarestia -, tutta
la vita umana è questo oggetto. Così l'uomo spinge la mano e prende la cosa e la
plasma, e allora gli altri, e allora il mondo, passando di lì, vedendo una cosa
plasmata in quel modo, è stupito e domanda: «Ma come mai, come mai qui c'è
questa roba? Non c'è nessun posto nel mondo in cui ci sia uno stabilimento che
faccia questa cosa così!».

Note1 AM Cocagnac, «Chant de penitence», in Il libro dei canti, Jaca Book, Milano
1976, pp. 520-521.2 1 Cor 15, 28.3 Tu o dell'amicizia, Appunti dalle meditazioni di L.
Giussani per gli Esercizi della Fraternità, suppl. a «Litterae Communionis - Tracce»,
n. 6, giugno 1997.4 Cfr. Sal 51, 5; 61, 5; Is 59, 3; Ger 6, 13; 8, 10; 9, 4.5 «Il n'est
pas d'idéal auquel nous puissions nous sacrifier, car des tous nous connaissons les
mensonges, nous qui ne savons point ce qu'est la vérité» (A. Malraux, La Tentation
de l'Occident, Bernard Grasset, Paris 1926, p. 216).6 Cfr. Dt 6, 6-9.7 Cfr. Rm 14, 8;
1 Cor 10, 31; 1 Ts 5, 10. 8 Cfr. Gv 14, 6.9 Cfr. L. Giussani, «Tu» (o dell'amicizia),
BUR, Milano 1997, p. 329.10 Cfr. Es 15, 2; Sal 117, 14; Is 12, 2.11 Tu o
dell'amicizia, Appunti dalle meditazioni di L. Giussani per gli Esercizi della Fraternità,
op. cit., pp. 17-18.12 Sal 4, 9.13 Cfr. Gv 5, 17.14 Ef 1, 16-23.15 Didachè, IV, 2, in I
padri apostolici, Città Nuova editrice, Milano 1978, p. 32.16 Cfr. L. Giussani, Si può
(veramente?!) vivere così?, BUR, Milano 1996, p. 137.17 «Christe cunctorum», Inno
della dedicazione del tempio, in Analecta Hymnica Medii Aevi, vol. 27, a cura di C.
Blume, Leipzig 1897, p. 265.18 Cfr. Tu o dell'amicizia, Appunti dalle meditazioni di L.
Giussani per gli Esercizi della Fraternità, op. cit., p. 31.19 Cfr. Sal 89, 9.20 Cfr. Mt 24,
36; Mc 13, 32.21 Cfr. Gen 3, 8.22 Cfr. L. Giussani, «Tu» (o dell'amicizia), op. cit., pp.
52-53.23 Cfr. San Gregorio Nazianzeno, «Carmina» II/I, carme LXXIV, vv. 4-12, in
Patrologia Graeca, XXXVII, Paris 1862, coll. 1421-1422.24 M. Vittorino, In epist. ad
Ephesios, libro II, cap. 4, v. 14, in Marii Victorini Opera exegetica, vol. II, ed. F. Gori,
Vindobone 1986, p. 16.25 Cfr. A.J. Möhler, Dell'unità della Chiesa, Tipografia e
libreria Pirotta e C., Milano 1850, p. 52.26 Cfr. Sal 138, 13.

regorio Nazianzeno, «Carmina» II/I, carme LXXIV, vv. 4-12, in Patrologia Graeca,
XXXVII, Paris 1862, coll. 1421-1422.24 M. Vittorino, In epist. ad Ephesios, libro II,
cap. 4, v. 14, in Marii Victorini Opera exegetica, vol. II, ed. F. Gori, Vindobone 1986,
p. 16.25 Cfr. A.J. Möhler, Dell'unità della Chiesa, Tipografia e libreria Pirotta e C.,
Milano 1850, p. 52.26 Cfr. Sal 138, 13.

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