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Chiaromonte il comunista atipico

(Andrea Geremicca) Gerardo Chiaromonte è scomparso il 7 aprile del 1993. Sono trascorsi
quindici anni da allora e rimane ancora straordinariamente vivo il ricordo della sua carica umana e
della sua passione politica. Anche chi non ha avuto la ventura di conoscerlo personalmente,
leggendo i suoi scritti (cosa che consiglierei, specie in questi tempi e specie ai più giovani) non può
non rimanere colpito dalla lucidità e dall’attualità delle sue idee e delle sue battaglie. Specie sulle
questioni di Napoli e del Mezzogiorno ma non solo, dal momento che fu tra i maggiori esponenti
del Pci a livello nazionale: ed è stato un grande meridionalista anche per questo, perché è stato un
grande italiano. In uno degli ultimi suoi scritti poneva un problema che ci poniamo ancora oggi: «Il
posto che la questione meridionale ha nelle proposte politiche e programmatiche dei partiti e dei
sindacati e nelle riflessione della intellettualità italiana - scriveva - è sempre più marginale e
residuale. Il Mezzogiorno è stato lasciato solo a vedersela con i suoi problemi, a cavarsela da solo.
La politica e la cultura nazionale hanno disertato, o non si sono impegnate come sarebbe stato
necessario e doveroso». E confessava un desiderio: «Non riesco a nascondere che negli ultimi tempi
mi è accaduto spesso di pensare all’esigenza di una rivista capace di guardare criticamente e di
commentare da un punto di vista meridionalistico i fatti politici, le impostazioni e le posizioni non
solo dei governi e delle classi dirigenti ma delle opposizioni, dei vari movimenti, dei sindacati». In
effetti pensava alla opportunità di una nuova edizione di «Cronache meridionali» come una
esigenza politica, non come «una malinconica velleità di tornare ad esperienze felici di un passato
che concise con la giovinezza». Col trascorrere del tempo sentiva che la vita lo stava lasciando,
giorno dopo giorno, ma continuava a lavorare, a progettare, a immaginare il futuro: «Spero di avere
la forza e la capacità di tornare sopra le difficoltà del momento con una specifica riflessione che
possa essere di qualche utilità e riaprire un discorso meridionalistico all’altezza dei drammatici
tempi attuali». Ma la morte ha spezzato quel progetto. Ed ha fermato la sua mano sulle bozze di un
volume (pubblicato incompleto e postumo) sulla intensa esperienza degli anni alla Commissione
parlamentare antimafia: una riflessione rigorosa e appassionata sulla lotta alla criminalità
organizzata, sugli intrecci tra politica e società civile, sui danni provocati da posizioni sommarie e
giustizialiste, che lui combatteva con fermezza, al prezzo spesso di incomprensioni e amarezze.
D’altronde le posizioni di Chiaromonte furono quasi sempre controcorrente, fuori dal coro, libere,
in polemica, quando necessario, col suo stesso partito, con la sinistra, con i sindacati. Nessun
argomento era per lui tabù. Dal referendum sulla scala mobile, che non condivise pur dovendo
riferire in Parlamento il giudizio positivo del Pci, a quello sull’abolizione dell’intervento
straordinario nel Mezzogiorno, che considerò sin dalla sua convocazione «una sciagura, in quanto
egemonizzato al nord in funzione razzista nei confronti del Mezzogiorno, e utilizzato al sud per
difendere qualcosa di indifendibile». Al «mostruoso blocco per la gestione della spesa pubblica», un
blocco sociale «assai variegato, con implicazioni politiche, sociali e culturali gravi, fino a forme di
collusione con forze camorristiche o mafiose». Al deflusso (per la verità parlò di «decadimento»)
delle Regioni meridionali, «che vivacchiano, e vivacchiano male, e c’è perfino da chiedersi se la
loro esistenza abbia rappresentato o meno, negli ultimi tempi, un fattore positivo per la battaglia
meridionalistica». Al «meridionalismo accattone: tutti uniti per chiedere qualche diecina di miliardi
in più», e ad una tendenza opposta, di tipo massimalistico e parolaio: «Quella di mettere tutti gli
altri in un solo sacco, di dichiarare totalmente corrotti i partiti politici, di definire mafiosi o
camorristi la maggioranza degli imprenditori». Queste cose Chiaromonte le sosteneva e le scriveva
con severità e rigore, ma con grande apertura politica e culturale, senza voler dare i voti a nessuno:
«Se ci sono, nel Mezzogiorno, questioni che non vanno - diceva - abbiamo un po’ fallito tutti. Non
credo che vi sia qualcuno che possa tirarsi fuori di fronte alla gravità della questione meridionale di
oggi». Ho già avuto modo in qualche altra occasione di ricordare l’incontro che ebbi a Roma con
Chiaromonte pochissimi giorni prima della sua morte. Era stata convocata a Napoli un’assemblea
pubblica del partito nei giorni più dolorosi di una temperie giudiziaria risoltasi poi per il meglio.
Gerardo non stava bene, anzi stava decisamente male, e io insistevo perché non si esponesse alla
fatica emotiva e fisica di quell’iniziativa. Ma lui era deciso e ostinato. «No, voglio andare
all’”Adriano” come vecchio militante. Per esprimere la mia convinzione sulla totale estraneità del
partito in quanto tale dal comitato di affari che ha governato Napoli negli ultimi anni». Andò, disse
queste cose, e aggiunse: «Questo però non ci consente di chiamarci fuori e basta da quello che è
successo in questi anni. Dobbiamo scavare dentro i limiti anche nostri, recuperare misura,
compostezza e rigore nella vita personale e pubblica di ciascuno di noi e di tutto il partito. Ve lo
dico con l’amore e la passione che mi lega a voi, a questo nostro partito, a questa straordinaria
città». Era il 7 aprile, una tiepida mattina di primavera. Due giorni dopo Chiaromonte se n’è andato.
Ha lasciato i suoi cari, i suoi amici e Napoli, questa «straordinaria città» che ha amato sopra ogni
altra cosa, e che lo ha amato. Ora riposa nel cimitero di Vico Equense. Fianco a fianco con Carlo
Fermariello e Pietro Valenza.

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