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PAOLO SPINICCI

LEZIONI SULLE PROPRIET ESPRESSIVE




Universit degli Studi di Milano,
Corso di filosofia teoretica I, Laurea Magistrale, anno accademico 2013-2014

AVVERTENZA. Questa la prima versione di queste lezioni. Contiene certamente refusi
ed in pi punti lacunosa e inesatta. La rendo disponibile in rete da oggi per coloro che
debbono sostenere lesame nel primo appello di giugno. Una seconda versione corretta e,
spero, migliorata sar disponibile a partire dal 15 giugno.
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Sommario
Lezione prima ................................................................................................................... 5
Considerazioni introduttive ........................................................................................... 5
Seconda lezione ................................................................................................................. 6
1. Uno sguardo allindietro ........................................................................................... 6
2. Un giudizio senza concetti ...................................................................................... 13
Lezione terza ................................................................................................................... 16
1. Un compiacimento disinteressato ed un giudizio universale .................................. 16
2. La conformit a scopi senza scopi e la necessit del giudizio di gusto ................... 20
Lezione quarta ................................................................................................................. 26
1. Considerazioni critiche ........................................................................................... 26
2. Quello che ci aspetta ............................................................................................... 30
Lezione quinta ................................................................................................................. 33
1. Le teorie causalistiche ............................................................................................. 33
2. Considerazioni critiche ........................................................................................... 38
Lezione sesta ................................................................................................................... 41
1. Le teorie proiettive: un nesso associativo? .............................................................. 41
2. Meditazioni sulla colonna: Theodor Lipps e la teoria dellempatia ........................ 48
Lezione settima ............................................................................................................... 61
1. Una teoria della corrispondenza .............................................................................. 61
2. Considerazioni critiche ........................................................................................... 66
Lezione ottava ................................................................................................................. 72
1. Uno sguardo allindietro ......................................................................................... 72
2. Peter Kivy e la teoria del contorno .......................................................................... 76
Lezione nona ................................................................................................................... 82
1. La teoria del profilo: considerazioni critiche .......................................................... 82
Lezione decima ............................................................................................................... 89
1. La scatola nera ........................................................................................................ 89
2. Un ricordo kantiano: cose di cui non si pu disputare, ma si pu discutere ........... 91
Lezione undicesima ......................................................................................................... 99
1. Il carattere fenomenico delle propriet espressive .................................................. 99
2. Le propriet espressive senza espressione sono propriet intuitive ...................... 102
Lezione dodicesima ....................................................................................................... 109
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1. Esperienze contestuali e a-contestuali ................................................................... 109
2. Un accenno ad un insieme di problemi assai vasto ............................................... 112

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LEZIONE PRIMA
Considerazioni introduttive
1. Il tema delle propriet espressive. 2. Le propriet espressive e la loro connessione con
il mondo della soggettivit. 3. Le propriet espressive come determinazioni del compor-
tamento che a sua volta ci riconduce alla dimensione della soggettivit. 4. Accadi-
menti, azioni, comportamenti. 5. Una voce fuori dal coro: parliamo di colori lugubri e
vivaci, di melodie allegre e tristi, della malinconia del crepuscolo e della dolcezza di una
serata estiva. 6. Lelefante e il topolino: un mare di teorie per un problema marginale. 7.
Esistono problemi marginali in filosofia? 8. Il nostro primo compito: cercare di riacquisire
il respiro ampio dei problemi. 9. Uno sguardo indietro: la Critica della facolt del giudizio
di Kant.

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SECONDA LEZIONE
1. Uno sguardo allindietro
Nelle nostre considerazioni introduttive abbiamo cercato di chiarire quale fosse la natura
del nostro problema e ora dobbiamo cercare invece di raccogliere qualche considerazione
per capire quale sia il luogo che lo ospita. Anche i problemi hanno un luogo che rende pi
o meno urgente la loro natura, perch definisce le circostanze nelle quali ci imbattiamo in
essi. Ora, il problema delle propriet espressive che non esprimono un vissuto effettivo
ha un suo luogo particolare: vi penetriamo quando ci ricordiamo che la nostra vita per-
vasa dalla presenza percettiva di unespressivit diffusa che si radica nelle cose e che ce
le fa apparire come un teatro singolarmente adatto al nostro vivere. Una giornata ci sem-
bra uggiosa, le sere destate accoglienti e serene, la luce del crepuscolo malinconica, ed
anche se nel dir cos non pretendiamo di asserire che vi sia nel mondo che ci circonda una
trama emotiva ed affettiva, non per questo saremmo disposti a mutare il nostro vocabola-
rio. Non solo una questione di parole; non abbiamo a che fare soltanto con metafore che
impieghiamo per abbellire i nostri discorsi, ma con una dimensione della nostra esperienza
cui non sappiamo rinunciare: non ci sembra possibile fare a meno della scenografia con-
sueta che fa da sfondo alla nostra vita e che fa s che il mondo che la ospita ci appaia come
il nostro mondo. Sappiamo bene che la natura soltanto natura, che suoni e colori sono
soltanto suoni e colori, ed in un certo senso questo sapere fa parte della dimensione feno-
menologica della nostra esperienza e non poggia su atteggiamenti culturali o filosofici
presupposti. Su questo punto dovremo in seguito soffermarci, e tuttavia non possiamo fare
a meno di cogliere che di questo sapere e del suo effettivo radicarsi nella dimensione
fenomenologica della nostra esperienza non possiamo avvalerci per cancellare la sensa-
zione che tutto questo gioco di espressivit appartenga indissolubilmente allo scenario
della nostra vita, quasi si trattasse di unillusione di cui non sappiamo e forse non pos-
siamo liberarci.
Unillusione cui non credere, ma di cui impossibile liberarsi sono queste, per Kant,
le parole che ci aiutano a comprendere la natura della metafisica e questa piccola coinci-
denza ci chiama ad una digressione inattesa da cui forse possiamo imparare qualcosa. La
metafisica, per Kant, unillusione o, come si legge in una sua piccola opera tante volte
citata, un sogno ad occhi aperti ed un errore da cui emendarsi e tuttavia di questillusione
non possiamo semplicemente sbarazzarci, cos come ci si libera da un abbaglio quando ci
si rende conto di esservi caduti perch alla sua origine vi , per Kant, una verit certa,
inscritta nelle profondit del nostro animo: non possiamo tracciare il disegno di un mondo
razionale che risponda alle nostre esigenze intellettuali e spirituali, ma dobbiamo egual-
mente riconoscere che vi una dimensione del sovrasensibile, e che questa dimensione
che si fa avanti nella sfera dei concetti puri della ragione e dellintelletto implicata
tanto della possibilit della nostra conoscenza della natura, quanto dalla rete di concetti
su cui poggia la dimensione morale cui la nostra esistenza comunque vincolata.
Su questo punto, per Kant, non lecito dubitare e la prospettiva del razionalismo filo-
sofico che ci ripete che vi sono forme a priori dellintelletto e della ragione non pu essere
dimenticata. Tuttaltro: occorre riconoscere che ragione e intelletto sono il titolo generale
cui ricondurre un insieme di nozioni pure e a priori su cui poggia la possibilit della co-
noscenza e della morale. I concetti a priori dellintelletto circoscrivono lidea puramente
formale di natura e ci consentono di pensare nella massima astrattezza e purezza il disegno
di un sistema coerente di oggetti, le cui relazioni sono interamente determinate da rapporti
necessari di natura causale. Pensare, tuttavia, non significa conoscere, e lidea vuota della
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natura come universo della causalit non ha in s un valore conoscitivo se non diventa la
forma astratta entro cui organizzare il materiale fenomenico. La metafisica razionalistica
che pretende che i concetti puri dellintelletto ci consentano di andare al di l della scorza
dei fenomeni per conoscere un universo puramente razionale non pu, in questo caso,
insegnarci nulla poich non comprende che nel loro uso conoscitivo i concetti non sono
nomi che denotino oggetti di un mondo in s sussistente e sito al di sotto della superficie
dei fenomeni, ma forme che organizzano i dati fenomenici della nostra esperienza, fun-
zioni che proiettano un insieme di regole sulle nostre sensazioni, attribuendo cos un si-
gnificato obiettivo a ci che esperiamo.
Ai concetti puri dellintelletto fanno eco le massime della ragione ed anche in questo
caso il filosofo razionalista da un lato ha ragione perch individua nel sistema a priori
della razionalit il fondamento della morale, dallaltra ha torto perch ritiene possibile che
questi stessi concetti disegnino limmagine di un mondo conoscibile e insieme conforme
ad una regola della ragione, ad una interna compiuta e razionale sensatezza. Di qui la
necessit di distinguere anche in questo caso, il fondamento sensato della metafisica dalle
sue pretese infondate: la ragione ci conduce sul terreno del sovrasensibile e ci costringe a
rapportare le nostre azioni ad un fondamento che va al di l dei fenomeni questo per
Kant certo perch il dovere morale non pu essere ricavato empiricamente dagli eventi
che accadono e che non possono prescriverci nulla, ma ci non toglie che il suo disporci
sul terreno di un ordine puramente razionale lordine noumenico della libert e della
moralit debba essere in qualche modo pagato, rinunciando ad attribuire un qualsiasi
significato conoscitivo alla legislazione razionale. La ragione ha leggi e concetti a priori,
ma le sue regole non possono in linea di principio trovare un qualsiasi riempimento
nellintuizione e ci quanto dire che non possono parlarci di oggetti.
Di questa distinzione profonda che separa la legislazione dellintelletto da quella della
ragione si deve, per Kant, sottolineare innanzitutto la rilevanza dal punto di vista teorico:
solo perch ragione e intelletto dispongono le loro regole su piani differenti possibile
poi che di uno stesso accadimento il mio agire in un certo modo si possa discorrere
ora rilevandone la rispondenza ad un ordine naturale di cause e di effetti, ora la pertinenza
etica il suo essere unazione che dipende dalla nostra libera volont e che pu essere
proprio per questo valutata in ragione di un codice etico. Intelletto e ragione esercitano
dunque la loro legislazione su uno stesso ambito i fenomeni ma in forme profonda-
mente differenti:
La legislazione mediante concetti della natura avviene mediante lintelletto, ed teo-
retica. La legislazione mediante il concetto della libert avviene mediante la ragione,
ed soltanto pratica []. Intelletto e ragione hanno quindi due legislazioni diverse
in un unico e medesimo territorio dellesperienza, senza che luna pregiudichi laltra.
Ch il concetto della natura ha tanto poca influenza sulla legislazione dovuta al con-
cetto della libert, quanto poco questultimo disturba la legislazione della natura. La
Critica della ragione pura ha dimostrato la possibilit di pensare almeno senza con-
traddizione la coesistenza di entrambe le legislazioni e delle facolt ad esse pertinenti
nel medesimo soggetto, avendo demolito le obiezioni avverse con il rivelare in esse
la parvenza dialettica. (I. Kant, Critica della facolt del giudizio, a cura di E. Garroni
e H. Hohenegger, Einaudi, Torino, 2011, pp. 10-11)
Riconoscere che da questa distinzione dipende la comprensibilit della relazione tra na-
tura e libert non significa, tuttavia, rinunciare alla prospettiva dellunit. Ancora una
volta, sono le esigenze della metafisica a farsi avanti: per la metafisica del razionalismo
il cosmo non pu essere pensato soltanto alla luce del concetto di natura, e cio come una
connessione sistematica di cause e di effetti, ma deve essere anche compreso come leco
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di un progetto razionale e ricco di senso. Il mondo deve essere un mondo per noi deve
essere comprensibile e sensato e deve lasciar intravedere un disegno razionale, che ci con-
senta di intenderlo alla luce delle nostre esigenze morali e intellettuali. In una parola: ci
che la metafisica del razionalismo pretende lidea di un mondo in cui natura e libert si
fondano in ununica trama, restituendo cos alla nostra vita un terreno in cui dispiegarsi.
Nel linguaggio kantiano, questa pretesa si esprime nella tesi dellunit del sovrasensibile
ma si tratta di ununit che necessariamente ci sfugge e che non pu essere conosciuta;
il territorio del sovrasensibile ci appare cos come una realt pratica che non possiamo
tuttavia penetrare teoreticamente. C nellagire morale, ma non si lascia intuire e c nel
conoscere, ma solo come funzione di ordinamento dei fenomeni. Natura e libert sono
dunque domini toto coelo distinti:
Ma che questi due diversi domini, che continuamente si limitano non, certo, nelle
loro legislazioni, ma nei loro effetti nel mondo sensibile, non ne costituiscano uno
solo, dipende dal fatto che il concetto della natura pu, s, rendere rappresentabili i
suoi oggetti nellintuizione, non per come cose in se stesse, ma come semplici fe-
nomeni, mentre al contrario il concetto della libert pu, s, rendere rappresentabile
nel suo oggetto una cosa in s, ma non nellintuizione, e di conseguenza nessuno dei
due pu fornire una conoscenza teoretica del proprio oggetto (e perfino del soggetto
pensante) come cosa in s, ci che sarebbe il soprasensibile, la cui idea si deve, s,
porre alla base della possibilit di tutti quegli oggetti dellesperienza, ma senza che
essa possa mai essere elevata ed estesa fino a farne una conoscenza (ivi, p. 11).
La filosofia deve prendere atto di questo abisso, e deve riconoscere che non si pu sensa-
tamente sperare di afferrare teoreticamente la dimensione del soprasensibile. Labisso c,
e non pu essere tolto su questo punto Kant non ha dubbi, e tuttavia riconoscere che non
possibile una comprensione metafisica dellunit del sovrasensibile non significa ancora
rinunciare allesigenza che, sia pure in una forma distorta, si esprime nelle pretese meta-
fisiche. Questesigenza legittima ed alla radice della possibilit della morale, poich
ogni agire pratico pur sempre calato nella realt fenomenica. Agire moralmente significa
orientare le proprie azioni verso la realizzazione di scopi: ne segue che deve essere possi-
bile un modo di pensare al (anche se non di conoscere il) mondo della nostra esperienza
come ad un terreno che possa essere conforme ai nostri fini e che possa ospitarli. Un modo
di pensare questo il punto:
Ora, sebbene ci sia, ben fermo, un immenso abisso tra il dominio del concetto della
natura, il sensibile, e il dominio del concetto della libert, il soprasensibile, tale che
non possibile al passaggio dalluno allaltro (vale a dire, mediante luso teoretico
della ragione), proprio come se fossero mondi tanto diversi, di cui il primo non pu
avere alcuna influenza sul secondo, questo tuttavia deve avere uninfluenza su
quello, cio il concetto della libert deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo
assegnato dalle sue leggi, e di conseguenza la natura deve poter essere pensata anche
in modo che la conformit a leggi della sua forma si accordi almeno con la possibilit
degli scopi da realizzare in essa secondo leggi della libert. Ma allora deve esserci
un fondamento dellunit del soprasensibile che sta a fondamento della natura con
quello che il concetto della libert contiene praticamente, e il cui concetto, se pure
non giunge n teoreticamente n praticamente a una sua conoscenza, e perci non
ha alcun dominio proprio, rende tuttavia possibile il passaggio dal modo di pensare
secondo principi della natura al modo di pensare secondo principi della libert (ivi,
pp. 11-12).
di qui che la Critica della facolt del giudizio prende le mosse. Kant non cerca un prin-
cipio che ci consenta di unire natura e libert sul piano obiettivo perch un simile principio
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non pu darsi, ma ritiene che sia possibile pensare la loro relazione in una forma che sia
consona alla nostra vita e che insieme ci consenta di supporre (anche se non di affermare)
che la natura sia attraversata da una legalit che non si esaurisce nellorizzonte delle cause.
Ci che sul terreno obiettivo non pu realizzarsi, deve valere insomma soggettivamente
come unipotesi inverificabile, come una prospettiva teorica che allude ad un compito che
non pu essere realizzato, ma che ci comunque utile per poter vivere e agire come sog-
getti morali.
Ora, per venire a capo di questo modo di pensare Kant segue un cammino che non deve
stupirci. Se deve sussistere una relazione tra natura e libert, allora necessario supporre
che vi sia un termine medio tra intelletto e ragione. Questo termine medio per Kant c,
ed la facolt del giudizio poich ad essa spetta in generale il compito di trovare una
relazione tra il particolare e luniversale.
Ora, in questo suo istituire una relazione tra termini, il giudizio pu assumere due di-
verse forme, a seconda che ad essere dato sia luniversale o lindividuale, il predicato o il
soggetto. Nel primo caso, il giudizio pu dirsi determinante: la sua funzione consiste in-
fatti nel muovere dalluniversale per farne la regola che deve consentirci di determinare
lindividuale e di pensarlo alla luce del concetto come se fosse una sua possibile esempli-
ficazione. Non vi dubbio che in questo suo procedere dal concetto allesperienza, il giu-
dizio ci riproponga la via che scandisce la Critica della Ragion pura, e che cos stiano le
cose lo si legge con chiarezza quando Kant osserva che la facolt del giudizio stabilisce a
priori le condizioni secondo le quali soltanto lindividuale pu essere sussunto sotto
quelluniversale.
Quali siano le condizioni cui Kant allude presto detto: si tratta del problema che Kant
discute sotto il titolo generale dello schematismo, poich il compito dello schematismo
trascendentale consiste propriamente nellindicare quali siano le condizioni di applicabi-
lit di ogni singola categoria allesperienza e quindi anche i requisiti che ogni singola
datit fenomenica deve soddisfare per poter essere pensata secondo un determinato
schema categoriale. Le categorie devono potersi applicare allesperienza e lo schematismo
il luogo in cui debbono poter essere indicate le condizioni che il pensiero detta allintui-
zione per rendere possibile lapplicazione del concetto stesso.
possibile tuttavia che la facolt del giudicare debba procedere nel verso opposto: pu
darsi infatti che alla via dallalto verso il basso che caratterizza la procedura dello sche-
matismo si sostituisca la via che dal basso risale verso lalto, in una sorta di schematismo
rovesciato. In questo caso non si prendono le mosse dal concetto per determinare il parti-
colare, ma al contrario si muove dallindividuale per cercare di trovare il concetto che lo
determina. Parleremo, in questo secondo caso, di giudizio riflettente. Un punto deve es-
sere subito sottolineato: per Kant, sostenere che il giudizio riflettente muove dallindivi-
duale per cercare di cogliere luniversale che lo spiega non significa affatto rinunciare alla
tesi secondo la quale la facolt del giudizio ha una sua dimensione trascendentale e a
priori. Anche in questo suo procedere dallindividuale alluniversale il giudizio non pro-
cede infatti alla cieca, ma si lascia guidare da unipotesi che non chiede di essere verificata
poich la condizione di possibilit sia pure soltanto soggettiva della prassi del giudi-
zio: lipotesi che nella loro molteplicit i dati debbano tuttavia convergere verso ununit
che li spiega. Che cosa Kant intenda dire presto detto: quando riflettiamo su ci che
individuale per giungere alluniversale dobbiamo fare affidamento sul fatto che sia lecito
pensare ci che individualmente dato come se fosse ordinabile secondo un concetto
come se, in altri termini, si potesse pensare allindividuale come se fosse il frutto di un
disegno razionale, come se si trattasse di qualcosa che ha in s il principio della sua com-
prensibilit. Si tratta ben inteso solo di unipotesi: in questo il giudizio riflettente non fa
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che avanzare una regola che deve guidare la sua prassi, ma che non pu pretendere di
determinare di per s i fenomeni. In questo senso il giudizio riflettente appunto sogget-
tivo: avanza una regola a priori del suo operare, ma la rivolge a se stessa e non alloggetto
su cui verte.
Per venire a capo di queste considerazioni Kant si avvale di un concetto che merita di
essere qui introdotto: il concetto di scopo. Kant ritiene che si possa parlare di scopo
quando il concetto che definisce un determinato oggetto racchiude in s le ragioni della
realt delloggetto stesso. Se qualcosa uno scopo, il concetto che lo definisce coincide
insomma con il progetto che ci consente di realizzarlo. Ne segue che se qualcosa con-
forme ad uno scopo determinato, allora ha una forma che sembra possibile comprendere
solo mettendola in relazione ad un artefice che labbia appunto realizzata in vista del fine
cui quelloggetto rimanda. Un coltello pu essere compreso nella sua forma soltanto in
relazione allo scopo rispetto al quale la sua forma lo rende conforme: un coltello serve per
tagliare e questo sua funzione rende da un lato comprensibile la sua forma, dallaltro ci
invita a pensarlo come un oggetto il cui scopo racchiude in s il progetto cui si deve la sua
realizzazione.
Si tratta di una constatazione relativamente ovvia che tuttavia racchiude uno sviluppo
importante in cui ci imbattiamo non appena pensiamo che la natura s determinata nella
sua mera forma dalle categorie, ma ci si d nellesperienza come un insieme di leggi che
chiedono di essere ulteriormente strutturate e comprese. Farlo significa lasciarsi guidare
da un molteplicit di criteri di carattere generale che debbono poter guidare la nostra prassi
conoscitiva e orientarla alla luce di unipotesi: dobbiamo pensare la natura come se fosse
conforme allo scopo della sua conoscibilit, come se per dirla con Kant un intelletto
contenesse il fondamento dellunit del molteplice delle sue leggi empiriche (ivi, p. 16).
Su questo punto forse opportuno indugiare un poco e per farlo Kant ci invita nellin-
troduzione alla Critica della facolt del giudizio a percorrere alcune rapidissime conside-
razioni di ordine epistemologico. Kant muove innanzitutto da una constatazione che ci
riconduce allorizzonte teorico della prima Critica: lintelletto racchiude in s un insieme
di funzioni trascendentali, di concetti a priori che da un lato debbono trovare nellintui-
zione sensibile un contenuto, dallaltro circoscrivono lidea astratta e formale di natura
lidea di un sistema di sostanze, di accadimenti e di eventi causalmente determinati. Pos-
siamo anche pensare questa astratta forma concettuale nel suo rapporto di determinazione
delle forme dellintuizione e avremo in questo caso una natura pensata temporalmente e
spazialmente, un sistema causale di fenomeni, per loro natura matematizzabili, ma non
avremo ancora questa nostra natura che determinata da questi fenomeni e delle loro
effettive relazioni. Il sistema delle categorie dellintelletto e delle forme dellintuizione
traccia, per cos dire, la grammatica di una scienza della natura, ma non dice ancora (n
pu concretamente anticipare) come si configuri una scienza empiricamente data cui
spetta il compito non di descrivere lidea stratta e formale di natura, ma questa nostra
natura fattuale. Il nesso categoriale ci vincola ad una comprensione di natura causale, ma
non pu concretamente anticipare come la relazione causale debba configurarsi e come
possano connettersi in un tutto strutturato le leggi naturali cui perveniamo concretamente.
Ogni ulteriore determinazione deve apparirci quindi come contingente, cos come contin-
gente sembra essere anche la possibilit effettiva di una loro armonica connessione nel
tutto della natura in fondo che cosa ci garantisce che le leggi empiriche, che sono in s
contingenti, debbano connettersi in un sistema di conoscenze organiche? Lidea formale
di natura necessaria, ma la molteplicit delle leggi empiriche contingente, ma appunto
questo il problema: ci che per noi contingente non lo necessariamente e questo ci
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invita in generale a prendere in considerazione la possibilit che possa esserci una neces-
sit dietro la contingenza delle leggi empiriche e che la loro unit non sia soltanto un caso,
ma che luna e laltra debbano essere parte dellipotesi che ci guida nelle nostre analisi.
Quale sia il contenuto di questipotesi dovrebbe esserci ormai chiaro: il pensiero che deve
orientare le nostre analisi il principio trascendentale del giudizio riflettente, il suo invi-
tarci a pensare sia pure solo soggettivamente che la natura sia conforme a scopi e che,
proprio per questo, possa essere pensata come se fosse conforme ad un ordine che la rende
dispiegabile conoscitivamente e che ci sostiene nella nostra capacit di conoscere. Scrive
Kant:
poich le leggi universali della natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto,
che le prescrive alla natura (sebbene solo secondo il concetto universale di essa in
quanto natura), le particolari leggi empiriche, rispetto a ci che vi lasciato indeter-
minato da quelle, debbono essere considerate secondo ununit tale, come se, anche
qui, lavesse data a vantaggio della nostra facolt conoscitiva un intelletto (sebbene
non il nostro), per rendere possibile un sistema dellesperienza secondo leggi parti-
colari della natura. Non: come se in questo modo un tale intelletto dovesse essere
ammesso effettivamente (poich solo alla facolt riflettente di giudizio che questa
idea serve come principio, per il riflettere, non per il determinare); con ci piuttosto
questa facolt d solo a se stessa una legge e non alla natura (ivi, p. 16).
Di qui la possibilit di restituire un significato alle massime della metafisica che ci assi-
curano che la natura non fa salti, che prende il cammino pi breve, che gli enti non deb-
bono essere moltiplicati o che la specie si incardina sempre in un genere superiore. Di
queste regole non possiamo avvalerci come se si trattasse di principi di natura psicologica
che ci parlano della nostra natura fattuale; ma non possiamo nemmeno credere che si tratti
di proposizioni che davvero descrivono la forma della natura: nulla parla in loro favore e
nulla ci garantisce che le cose debbano stare cos. La contingenza obiettiva di questi prin-
cipi, tuttavia, non esclude la loro necessit trascendentale: non abbiamo a che fare con
proposizioni che descrivono la natura o che le impongono una norma che la determini
nella sua forma obiettiva, ma con massime trascendentali del giudizio, con ipotesi che
sorreggono la ricerca e la indirizzano verso ci che richiesto comunque da una nostra
esigenza di razionalit.
Ci che conforme a scopi risponde in generale a unesigenza, e che vi sia unesigenza
di razionalit lo si comprende per Kant non appena riflettiamo sulla differenza che
contraddistingue lapplicarsi delle categorie allesperienza dalla funzione che compete
alle regole del giudizio riflettente. Lapplicazione delle categorie al materiale sensibile
semplicemente necessario. Non possiamo pensare la natura se non in virt delle forme
categoriali che lintelletto le prescrive perch senza tali forme lesperienza non avrebbe
un significato obiettivo e non parlerebbe di un mondo. Ma ci quanto dire che nellap-
plicazione delle categorie allesperienza lintelletto non soddisfa un suo bisogno, poich
di unesigenza si pu parlare solo se possibile che le cose stiano altrimenti, ed unespe-
rienza che non obbedisca alle regole categoriali non nemmeno pensabile. Diversamente
stanno le cose quando ci disponiamo sul piano del giudizio riflettente. Il giudizio riflet-
tente su muove sul piano della contingenza poich ci spinge a cercare un ordine inatteso
nella natura e ci costringe a sperare che sia possibile (anche non necessario) che vi sia
ununica legalit che attraversi e ordini la molteplicit varia delle regolarit empiriche.
Qui ha senso parlare di un bisogno razionale proprio perch vi la consapevolezza che
non necessario che cos stiano le cose e che lordine cui aspiriamo potrebbe non essere
di fatto raggiungibile:
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Tale accordo della natura, nella molteplicit delle sue leggi particolari, rispetto al
nostro bisogno di trovare per essa universalit dei principi, deve essere giudicato,
secondo ogni nostro modo di intendere, come contingente, e tuttavia come indispen-
sabile per il bisogno del nostro intelletto, e quindi come conformit a scopi, per cui
la natura si accorda con il nostro intento, ma solo in quanto indirizzato alla cono-
scenza. Le leggi universali dellintelletto, che sono insieme leggi della natura, sono
appunto tanto necessarie ad essa (sebbene siano originate da spontaneit), quanto le
leggi del movimento della materia, e la loro produzione non presuppone alcun in-
tento per ci che riguarda le nostre facolt conoscitive, poich innanzi tutto noi ot-
teniamo solo per mezzo di esse un concetto di ci che conoscenza delle cose (della
natura), ed esse spettano necessariamente alla natura, quale oggetto della nostra co-
noscenza in genere. Ma che lordine della natura secondo le sue leggi particolari, in
tutta la loro molteplicit ed eterogeneit, almeno possibili, tali da superare ogni no-
stra capacit di afferrarlo, sia per a questa effettivamente adeguato , per quanto
possiamo intendere, contingente; il loro rinvenimento un ufficio dellintelletto che
viene compiuto in riferimento a un suo scopo necessario, vale a dire: introdurre in
esse ununit dei principi; il quale scopo poi la facolt di giudizio deve attribuire alla
natura, ch lintelletto non pu prescriverle alcuna legge al proposito(ivi, p. 22).
Ora, il soddisfacimento di unesigenza porta con s lesperienza del piacere ed anche in
questo caso possibile sottolineare una radicale asimmetria tra lapplicazione delle cate-
gorie e la dimensione del giudizio riflettente. Non possiamo provare piacere per la deter-
minazione categoriale dellesperienza perch in questo caso non ha luogo la realizzazione
di un intento, ma di una necessit inderogabile. Quando invece giungiamo a constatare un
ordine razionale inatteso nella natura e siamo insieme consapevoli della sua contingenza
e della sua capacit di venire incontro alle nostre esigenze, allora avvertiamo un senti-
mento profondo di piacere:
In effetti, seppure non riscontriamo in noi, e neppure possiamo riscontrare, il minimo
effetto sul sentimento del piacere a partire dalla concordanza delle percezioni con le
leggi secondo concetti universali della natura (le categorie), poich con ci lintel-
letto necessariamente procede in modo inintenzionale, secondo la propria natura,
daltra parte la scoperta dellunificabilit di due o pi leggi empiriche eterogenee
della natura sotto un principio che le comprende entrambe motivo di un piacere
assai notevole, spesso perfino di unammirazione, addirittura unammirazione tale
che non viene meno anche se si gi abbastanza familiari con il suo oggetto. Certo,
non proviamo pi un piacere avvertibile nellafferrabilit della natura e nella sua
unit dellarticolazione in generi e specie, per cui, soltanto, sono possibili concetti
empirici, con i quali la conosciamo secondo le sue leggi particolari; ma un piacere
c stato certamente a suo tempo e, solo perch la pi comune esperienza non sarebbe
possibile senza di esso, si mischiato via via con la semplice conoscenza e non
stato pi particolarmente notato. Si richiede quindi qualcosa, nel giudicare la natura,
che renda attenti alla sua conformit a scopi rispetto al nostro intelletto, cio lo stu-
diarsi di riportare leggi eterogenee della natura, quando possibile, sotto leggi su-
periori, pur sempre empiriche, cos da provare piacere, se ci riesce, in questo suo
accordarsi, che vediamo come semplicemente contingente, rispetto alla nostra fa-
colt conoscitiva. Invece ci dispiacerebbe affatto una rappresentazione della natura
con la quale ci si predicesse che, nella minima ricerca al di l della pi comune espe-
rienza, urteremmo con una eterogeneit delle sue leggi che renderebbe impossibile
per il nostro intelletto lunione delle sue leggi particolari sotto leggi empiriche uni-
versali, perch ci confligge con il principio, soggettivamente conforme a scopi,
della specificazione della natura nei suoi generi e con la nostra facolt riflettente di
giudizio riguardo a questi ultimi (ivi, p. 23).
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Di qui il percorso che Kant ci invita a seguire. La via del giudizio riflettente si
configurata come un tentativo volto a problematizzare il nesso che lega luno allaltro
lindividuale e luniversale. Questo nesso ci apparso innanzitutto nella forma di
unipotesi che sorregge la nostra prassi conoscitiva e il cui contenuto in ultima analisi
consiste in una supposizione che ci invita a fare come se la dimensione fenomenica
fosse attraversata da una sua interna legalit e fosse per questo conforme alle esi-
genze del conoscere in generale. possibile tuttavia una diversa forma del giudizio
riflettente una forma che ci consente di osservare lattivit del giudizio non gi nel suo
risultato o nelle massime che la guidano, ma nel suo stesso sviluppo. Vogliamo in altri
termini rivolgere lo sguardo al giudizio riflettente statu nascendi e coglierlo nel suo farsi
avanti sul terreno percettivo.
Che cosa Kant intende presto detto. Ogni esperienza si orienta necessariamente verso
la sua comprensione intellettuale, ma il processo in cui limmaginazione dispone il mate-
riale percepito sotto la luce delle categorie intellettuali pu essere caratterizzato da una
maggiore o minore armonia, da una maggiore o minore concordanza del materiale sensi-
bile con le esigenze che lintelletto come sistema delle regole avanza. Ne segue che prima
ancora di aver ricondotto ci che percepiamo al concetto che lo comprende, la sua forma
pu rivelarsi consona ad una comprensione intellettuale: abbiamo allora ci che Kant
chiama un giudizio di gusto un giudizio particolare in cui una rappresentazione data
viene colta nel suo essere adeguata alle nostre facolt conoscitive, suscitando in noi quel
senso peculiare di piacere che accompagna il nostro trovare bello qualcosa. Kant scrive
cos:
Se alla semplice apprensione (apprehensio) della forma di un oggetto dellintui-
zione, senza riferimento di essa a un concetto per una conoscenza determinata,
legato un piacere, allora la rappresentazione viene riferita con ci non alloggetto,
ma esclusivamente al soggetto; e il piacere non pu esprimere nientaltro che lade-
guatezza delloggetto rispetto alle facolt conoscitive che sono in gioco nella facolt
riflettente di giudizio, e in quanto sono in gioco, quindi semplicemente una formale
conformit a scopi soggettiva delloggetto. Infatti quellapprensione delle forme
nellimmaginazione non pu mai avvenire senza che la facolt riflettente del giudi-
zio almeno la compari, pur inintenzionalmente, con la sua facolt di riferire intui-
zioni a concetti. Ora, se in questa comparazione limmaginazione (in quanto facolt
delle intuizioni a priori) viene messa in accordo inintenzionalmente, mediante una
rappresentazione data, con lintelletto (in quanto facolt dei concetti), e ne suscitato
con ci un sentimento di piacere, allora loggetto deve essere riguardato come con-
forme a scopi per la facolt riflettente di giudizio. Un tale giudizio un giudizio
estetico sulla conformit a scopi delloggetto, che non si fonda su un concetto gi
disponibile delloggetto e non ne fornisce alcuno. La forma di tale oggetto [] viene
giudicata, nella semplice riflessione su di essa (senza riguardo a un concetto che se
ne debba ottenere), come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un
tale oggetto: e questo piacere viene giudicato anche come legato necessariamente
con la sua rappresentazione[]. Loggetto allora si chiama bello, e gusto la facolt
di giudicare (quindi anche in modo universalmente valido) mediante un tale piacere
(ivi, pp. 25-26).
Vi dunque un giudizio di gusto, sulla cui natura dobbiamo ora soffermarci.
2. Un giudizio senza concetti
Vi dunque un giudizio di gusto, e tuttavia le prime parole con cui Kant apre la sua ana-
litica della facolt estetica del giudizio non possono per certi versi non lasciarci perplessi.
Vi un giudizio di gusto, ma dobbiamo in primo luogo sottolineare che si tratta di un
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giudizio che non ha natura concettuale e che non intende subordinare il concetto del sog-
getto al concetto del predicato, ma che mira soltanto a legare una rappresentazione intui-
tiva al sentimento del piacere:
per distinguere se qualcosa bello o no, noi riferiamo la rappresentazione non allog-
getto mediante lintelletto, per la conoscenza, ma al soggetto e al suo sentimento del
piacere o del dispiacere mediante limmaginazione (ivi, p. 39).
Non facile capire di primo acchito perch si possa parlare a questo proposito di giudizio
e non soltanto perch il giudicare sembra essere per sua natura una prassi che si muove
sul terreno logico e concettuale, mentre in questo caso siamo invitati esplicitamente a
parlare di giudizio per intendere unattivit che non si prefigge lo scopo di conoscere e
che si situa in linea di principio al di qua della sfera dei concetti. La perplessit sembra
tuttavia mutarsi necessariamente in fastidio quando leggiamo che Kant ci invita a consi-
derare un giudizio latto in cui ad una rappresentazione si lega non gi un concetto, ma un
sentimento di piacere. Certo, quando si stanchi dopo una lunga camminata, la vista della
porta di casa pu destare piacere, ed certo possibile trovare esempi in cui il ripetersi di
questa connessione crea unabitudine percettiva che lega ad una rappresentazione data in
modo durevole un sentimento di piacere, ma in nessuno di questi casi sembrerebbe lecito
scomodare il concetto di giudizio. Non ci sembrerebbe giusto farlo ma perch? Io credo
che per rispondere a questa domanda sia innanzitutto necessario riflettere su ci che il
giudizio fa: si giudica quando si dice qualcosa di qualcosa daltro. E anche se non affatto
chiaro come si possa predicare qualcosa senza avvalersi di concetti, almeno questo
chiaro: un nesso associativo non dice nulla di ci che lega ed quindi un nesso troppo
estrinseco perch si possa parlare di un giudizio. Di qui sembra possibile trarre una prima
conclusione: perch di un giudizio si possa parlare necessario che il legame che si viene
stringendo tra la percezione e il piacere che proviamo ci consenta di dire qualcosa di ci
che abbiamo percepito, poich giudicare significa appunto questo asserire qualcosa di
qualcosaltro. Ne segue che se vi un giudizio di gusto, il piacere che avvertiamo deve
rivelarci qualcosa che non concerne soltanto il nostro stato individuale, ma anche log-
getto che percepiamo. Proprio questa via deve apparirci tuttavia fin da principio sbarrata,
perch il giudizio di gusto non un giudizio conoscitivo e il piacere un principio di
determinazione che si limita a rendere manifesto il modo nel quale il soggetto sente
stesso secondo il modo in cui affetto dalla rappresentazione (ivi, p. 39).
Per venire a capo di questa difficolt necessario riflettere un poco e distinguere fin da
principio due differenti prospettive che si possono assumere rispetto al concetto di piacere.
Il piacere mi parla di uno stato soggettivo: questo indubbio. tuttavia possibile che il
sentimento del piacere non sia colto nella sua dimensione soltanto soggettiva come una
voce che ci parla del nostro stato che occasionato da una qualche esperienza sensibile
ma venga colto come indice di una conformit delloggetto ad un nostro bisogno. Ora,
questo bisogno pu essere occasionale e pu dirci delloggetto solo che ha una forma che
conforme ad un bisogno momentaneo ed questo il caso della porta di casa quando
torniamo da una lunga passeggiata o di un bicchiere d. In questo caso, il piacere non ci
parla delloggetto, ma solo di una circostanza che gli si lega occasionalmente e acciden-
talmente. Le cose mutano se la sensazione di piacere si lega non ad un bisogno occasionale
che illumina in modo estrinseco una propriet del fenomeno percepito, ma ci costringe a
focalizzare una relazione che lega la sua forma a un momento che deve necessariamente
caratterizzare il soggetto percipiente. E tuttavia proprio questa richiesta sembra difficile
da soddisfare. Il piacere uno stato soggettivo che parla del soddisfacimento di un bisogno
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soggettivo: come pu allora dire qualcosa delloggetto che , per sua stessa natura, indi-
pendente dalle inclinazioni che provoca in una soggettivit determinata? Kant d una ri-
sposta acuta a questa domanda: il sentimento di piacere pu dirci qualcosa delloggetto
rappresentato (e pu a pieno titolo dirsi un giudizio) se il bisogno che la sua forma soddi-
sfa appartiene per essenza alla sua percezione e non quindi indice di una relazione
occasionale con uno stato della soggettivit. In questo caso il piacere non ci parlerebbe
esclusivamente del nostro stato, ma anche della relazione che lo lega alla forma del feno-
meno in quanto un fenomeno per noi. Il piacere diviene cos la forma in cui la soggetti-
vit diviene consapevole di qualcosa che appartiene al fenomeno in quanto un nostro
fenomeno: nel sentimento di piacere il fenomeno si rivela nel suo essere bello e bello un
fenomeno quando le condizioni del suo manifestarsi mettono in scena il libero e armonico
gioco delle nostre facolt.
Di qui la risposta che Kant propone per venire a capo della contraddittoria natura del
giudizio di gusto. Il giudizio di gusto un giudizio soggettivo e ha il suo principio di
determinazione in uno stato soggettivo: nel piacere che proviamo nella percezione
delloggetto. Il piacere non ha natura concettuale, e tuttavia in questo caso non parla solo
di uno stato soggettivo dellio, ma di quello stato che gli appartiene in quanto il fenomeno
percepito si rivela adeguato alle condizioni del suo manifestarsi come fenomeno per una
soggettivit razionale. La percezione del bello ci si rivela cos come una bella percezione
e il giudizio di gusto come un giudizio in cui si attribuisce ad un fenomeno nullaltro se
non questo: il suo essere tale da manifestarsi felicemente ad una soggettivit. questa,
certo, una propriet soltanto soggettiva, ma qualcosa che spetta insieme al soggetto e al
fenomeno perch una propriet del suo manifestarsi. In questo senso il giudizio di gusto
ci dice qualcosa di ci che percepiamo: ci dice che bello, anche se dire di un fenomeno
che bello non significa conoscere qualcosa che appartenga al suo contenuto, ma solo
mettere in luce una condizione generale del suo manifestarsi.
Una volta compreso in che senso il giudizio di gusto sia un giudizio sia pure sui generis,
Kant ci invita a seguirlo lungo un cammino che ricalca le strutture formali della Critica
della ragion pura. Comprendere la natura della facolt estetica del giudizio significa in-
fatti, a suo avviso, tracciare le linee essenziali di unanalitica del giudizio di gusto e ci
significa che necessario ricondurre la problematica generale della bellezza sotto le quat-
tro forme in cui si articola la tavola del giudizio. Dovremo chiederci allora come lattri-
buzione della bellezza ad un fenomeno determinato si articoli rispetto alle forme della
qualit, della quantit, della relazione e della modalit. Si tratta, a ben guardare, di unesi-
genza sistematica che non strettamente connessa con la natura dei problemi che Kant
intende discutere, ma qualche volta la grandezza dei filosofi si misura anche nella capacit
di rinchiudere uninfinit di osservazioni interessanti in una cornice che sembra fatta ap-
posta per soffocarle. Dobbiamo quindi piegare il capo e accettare di seguire Kant lungo
un percorso in cui tutto sembra obbedire ad un gioco di rimandi e di interne simmetrie,
che si rivelano talvolta fuorvianti e che rischiano di farci smarrire la trama interna del
discorso che tuttavia c e che si dipana al di l dello schema in cui le pagine kantiane
sembrano soffocarla.
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LEZIONE TERZA
1. Un compiacimento disinteressato ed un giudizio universale
La prima mossa che Kant ci invita a compiere nella sua analitica della facolt del giudizio
estetico chiama in causa il tema della qualit del giudizio e quindi il suo legare ad una
rappresentazione data un compiacimento o, come potremmo anche dire, un dispiacimento.
Il compiacimento, tuttavia, ha diverse forme perch solitamente il compiacimento si lega
allesistenza delloggetto di cui ci rallegriamo. Kant parla a questo proposito di interesse
ed osserva che, in questo caso, il compiacimento si lega direttamente alla facolt del de-
siderare: se abbiamo interesse allesistenza di qualcosa in quanto per noi fonte di un
compiacimento, allora desideriamo che esista e ci sforziamo di eventualmente di procu-
rarcela.
Diversamente stanno le cose nel caso del giudizio di gusto. In questo caso il compiaci-
mento non nasce dal fatto che loggetto possa agire su di noi o dal suo essere qualcosa la
cui esistenza rivesta per noi un ruolo importante, ma esclusivamente determinato dalla
contemplazione delloggetto, dalla sua specificit fenomenica. Sappiamo gi la ragione.
Dire di qualcosa che bella significa soltanto questo: asserire che le condizioni del suo
manifestarsi nellesperienza sono in linea di principio tali da armonizzarsi con le condi-
zioni che determinano in generale la sua riconducibilit alle norme dellintelletto e della
ragione. Ora, una simile armonia non implica nulla di pi di un rapporto tra le forme del
conoscere e la forma di una determinata configurazione fenomenica ed un simile rap-
porto non implica altra connessione con il mio vivere se non quella che occorre tra la
forma del fenomeno e la forma richiesta dal sistema delle mie facolt.
Su questo punto opportuno insistere. Si tratta infatti, di primo acchito, di una consta-
tazione che sembra essere senzaltro condivisibile e che pu essere accettata senza troppe
preoccupazioni:
Se qualcuno mi domanda se trovo bello il palazzo che vedo dinanzi a me, mi certo
lecito rispondere che non amo simili cose, fa solo per lasciare a bocca aperta, oppure
al modo di quel sacher irochese: che a Parigi niente gli piaceva di pi delle trattorie;
di pi posso ancora deprecare in buono stile rousseauiano la boria dei grandi, che
impiegano il sudore del popolo in cose tanto superflue; infine posso addirittura con-
vincermi assai facilmente che se mi trovassi su unisola disabitata, senza speranza di
ritorni mai tra gli uomini, e potessi far apparire dincanto, esprimendo semplice de-
siderio, un tale sontuoso edificio, non mi darei ne pure questa briga, se gi avessi
una capanna per me abbastanza moda. Si pu concedermi e approvare tutto ci; solo
che ora non si tratta di questo. Si vuole sapere soltanto se la semplice rappresenta-
zione delloggetto sia accompagnata in me da compiacimento, non importa quanto
indifferente io possa essere nei riguardi dellesistenza delloggetto di questa rappre-
sentazione. Per dire che un oggetto bello e dimostrare che ho gusto, si vede subito
che importa ci che io faccio in me stesso di questa rappresentazione, e non ci per
cui io dipendo dallesistenza delloggetto. Chiunque deve ammettere che quel giu-
dizio sulla bellezza in cui si mischi il minimo interesse assai parziale e non un
giudizio di gusto puro. Si deve essere non minimamente presi dallesistenza della
cosa, ma del tutto indifferenti al proposito, per fare da giudici in questioni di gusto
(ivi, pp. 40-41).
La relativa ovviet di queste considerazioni non deve tuttavia farci dimenticare che il ri-
mando al tema della contemplazione disinteressata si comprende in tutta la ricchezza del
suo senso solo se, messe da canto le considerazioni pi ovvie, chiamiamo ancora una volta
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in causa la specificit del compiacimento del bello. Per dire che un oggetto bello, scrive
Kant, importa ci che io faccio in me stesso di questa rappresentazione e non ci per cui
io dipendo dallesistenza delloggetto (ivi, p. 41) ed il senso di questasserzione relati-
vamente chiaro. Dipendo dallesistenza di un oggetto se il compiacimento di cui parlo si
caratterizza nel suo essere qualcosa che determina il mio stato presente: se, in altri termini,
si tratta di un piacere che qualcosa provoca in me in virt del suo esistere e non soltanto
del suo essere percepita cos e cos da me. Per Kant questo significa mettere da canto i
piaceri sensibili perch in generale per Kant le sensazioni sono soltanto affezioni del no-
stro corpo e sono di per s prive di ogni ulteriore determinazione conoscitivo, ma la di-
stinzione cui si allude in realt solo in parte coincidente con la svalutazione kantiana
della dimensione della sensibilit. A questo ordine di considerazione se ne intreccia infatti
un secondo su cui opportuno riflettere: la tesi secondo la quale chiamiamo bello solo ci
che si dispone sul terreno di un apprezzamento del fenomeno in quanto tale. Se il vino
delle Canarie mi piacesse solo per il suo sapore, il piacere che ne provo coinciderebbe con
il fatto che cos percepisco sarebbe insomma un piacere fondato esclusivamente sullap-
prezzamento del fenomeno, ma normalmente un cibo o un vino piacciono anche perch
ho ragione di credere che agiranno su di me, sostentandomi o rendendomi pi allegro.
Diversamente stanno le cose per la contemplazione disinteressata di una bella forma: le
linee armoniche di una bella architettura piacciono solo perch il modo del loro manife-
starsi fenomenico nel mio apprenderle tale da ridestare un compiacimento che per sua
stessa natura coincide con il percipi e non va al di l di esso. Cos, quando Kant ci invita
a trarre una prima definizione del bello a partire dal momento della qualit del giudizio
Gusto la facolt del giudicare un oggetto o un modo rappresentativo mediante un
compiacimento o un dispiacimento senza alcun interesse. Loggetto di un tale com-
piacimento si chiama bello (ivi, p. 46).
sta insieme invitandoci a definire una forma particolare di compiacimento una forma di
piacere che non va al di l della manifestazione di qualcosa e non implica un qualche
interesse per la sua esistenza.
Alle considerazioni volte a far luce sul momento della qualit seguono quelle che chia-
mano in causa il momento della quantit. Kant ci avvisa subito che la tesi che si vuol
sostenere che il bello ci che viene rappresentato senza concetti come oggetto di un
compiacimento universale strettamente coerente con quanto abbiamo appena detto.
Che cos effettivamente stiano le cose non difficile comprenderlo. Il compiacimento che
proprio del giudizio di gusto poggia interamente sulla relazione che lega il contenuto
del fenomeno alle condizioni della sua esperienza e non chiama in alcun modo in causa la
dimensione individuale dellesistenza. Bello un oggetto non perch instaura una qualche
relazione individuale ed effettiva con un soggetto reale, ma perch la forma della sua
manifestazione tale da accordarsi immediatamente con le condizioni, esse pure formali,
della possibilit di una sua comprensione. Labbiamo gi osservato: il sentimento di pia-
cere pu dirci qualcosa delloggetto rappresentato (e pu a pieno titolo dirsi un giudizio)
se il bisogno che la sua forma soddisfa appartiene per essenza alla sua percezione e non
quindi indice di una relazione occasionale con uno stato della soggettivit. Ma ci
quanto dire che il suo compiacimento non in alcun modo vincolato a condizioni indivi-
dualizzanti, ma poggia esclusivamente su una relazione interna tra la forma del fenomeno
e le condizioni formali della sua esperienza: ne segue che il compiacimento che egli prova
e che lo pervade deve poter essere pensato come un compiacimento che chiunque do-
vrebbe di necessit provare di fronte al manifestarsi di quello stesso contenuto. Dire di un
oggetto che bello significa dunque avanzare un giudizio che si ritiene che chiunque
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debba in linea di principio condividere.
Non facciamo che approfondire queste considerazioni se seguiamo Kant nel suo con-
sueto raffronto con le forme del compiacimento sensibile e morale. Vediamo innanzitutto
che cosa accade quando ci disponiamo sul terreno della mera piacevolezza. Beviamo un
bicchiere di vino delle Canarie e lo troviamo piacevole. Ma ci significa, almeno per Kant,
affermare soltanto che il vino delle Canarie agisce piacevolmente sulla mia persona: di-
cendo che il vino delle Canarie mi piace dico dunque qualcosa che concerne il mio stato
reale e quindi affermo soltanto qualcosa che mi riguarda. Certo, se il vino delle Canarie
agisce cos su di me, ho buone ragioni per pensare che cos agisca anche sugli altri, perch
vi di fatto una certa uniformit della natura umana. Sarebbe tuttavia assurdo pretendere
che a tutti piaccia il vino delle Canarie e questo proprio perch non vi qui alcuno spazio
per avanzare una pretesa: non posso chiederti di trovare piacevole un vino, se la piacevo-
lezza soltanto leffetto che quella causa provoca in te e non qualcosa di cui tu possa
convincerti.
Non posso chiederti di trovare piacevole ci che non agisce cos su di te e non crea in
te uno stato di quella natura, ma posso invece pretendere che tu trovi bello quello che
considero bello, perch in questo caso, cos facendo, non faccio altro che richiamare la
tua attenzione su una conformit che devi poter cogliere e che chiama in causa da un lato
il contenuto formale delloggetto, dallaltro la dimensione invariante e non accidentale
del conoscere, e cio linsieme di quelle facolt che ne determinano la grammatica. In
questo caso ha senso dunque pretendere ununiversalit del gusto:
Per ci che riguarda il piacevole a ciascuno basta che il suo giudizio, che egli fonda
su un sentimento privato e con il quale dice di un oggetto che gli piace, si limiti
anche semplicemente alla sua persona. Perci, se egli dice: il vino delle Canarie
piacevole, accetta volentieri che un altro corregga la sua espressione e gli faccia no-
tare che dovrebbe dire: piacevole per me; e cos non solo per il gusto della lingua,
del palato e della gola, ma anche per ci che pu essere piacevole agli occhi e agli
orecchi di ciascuno. Per uno il colore violetto gentile e amabile, per un altro
smorto e senza vita. Uno ama il suono degli strumenti a fiato, un altro quello degli
strumenti a corda. Da questo punto di vista sarebbe follia discutere su tali questioni,
al fine di riprovare come non giusto il giudizio dellaltro, che diverso dal nostro,
come se esso gli fosse logicamente contrapposto, ch in riferimento al piacevole vale
il principio: ciascuno ha il suo proprio gusto (dei sensi). Con il bello le cose stanno
in modo del tutto diverso. Sarebbe (proprio al contrario) risibile se uno, che presu-
messe di essere qualcuno in fatto di gusto, pensasse di legittimarsi in questo modo:
Questo oggetto (ledificio che stiamo vedendo, labito che quello indossa, il concerto
che stiamo ascoltando, la poesia che deve essere giudicata) bello per me. Ch, se
semplicemente gli piace, non deve chiamarlo bello. Molte cose possono avere per
lui attrattiva e piacevolezza, e di ci non importa a nessuno; ma, se egli d per bello
qualcosa, allora attribuisce agli altri il medesimo compiacimento: giudica non sem-
plicemente per s, ma per ciascuno, e parla quindi della bellezza come se essa fosse
una propriet delle cose. Dice perci: questa cosa bella; n per questo conta, nel
suo giudizio di compiacimento, sul consenso degli altri, per il fatto che pi volte li
ha trovati consenzienti con esso, ma piuttosto lo esige da loro. Li biasima se giudi-
cano altrimenti e nega loro il gusto, pur pretendendo che essi debbano averlo, e in
questo sen so non si pu dire: ciascuno ha il suo gusto particolare. Il che equivar-
rebbe a dire che non c affatto un gusto, cio che non c alcun giudizio estetico che
possa avanzare una legittima esigenza di, accordo da parte di ciascuno (ivi, pp. 47-
48).
Il giudizio di gusto deve essere dunque universale, anche se luniversalit di cui qui si
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discorre non tocca affatto la quantit del giudizio ogni giudizio di gusto in questo
senso singolare perch verte su una singola percezione: sul mio sentimento di piacere
ma la sua validit: ci che Kant intende affermare che quando diciamo di un oggetto che
bello, diciamo qualcosa che vale per noi e che, proprio per questo, pretendiamo valga
per ciascuno. Che una simile considerazione non abbia molto a che fare con il tema della
quantit del giudizio relativamente ovvio: ogni giudizio, singolare o generale che sia,
pretende di valere per chiunque. Ma vi egualmente una ragione che rende interessante
la scelta kantiana di discorrere delluniversalit del giudizio, disponendola in questo qua-
dro cos sistematico e rigido, ed che siamo invitati a chiederci che cosa fondi laccordo
universale cui il giudizio di gusto pretende.
Ora, che a fondare questa pretesa universalit non sia una regola di carattere concettuale
un fatto su cui, per Kant, opportuno riflettere e chi si manifesta con chiarezza nel fatto
che ciascuno di noi pretende che anche gli altri trovino bello ci che cos giudica, ma non
pu tuttavia dare ragioni cogenti per convincere della sua tesi chi avesse un parere op-
posto. Si pu discutere del bello, ma non si pu disputarne scrive Kant, e la ragione
ben chiara: non abbiamo un insieme di regole che ci consentano di decidere che un oggetto
fatto cos e cos debba piacere e non le abbiamo perch la bellezza non una determina-
zione concettuale che riposi sulla possibilit di constatare la subordinazione di un indivi-
duale ad un universale. Si pu appunto discutere del bello, ma non si pu pretendere di
dimostrare che qualcosa sia bella, perch la bellezza non una determinazione di natura
concettuale.
Nel rifiuto di delineare una qualche regola generale del bello, si esprime il rifiuto kan-
tiano per le estetiche precettistiche, ma si fa avanti, ancora una volta, una determinazione
che ci invita riflettere sul luogo che al bello in generale compete. Dire che il bello non
riconducibile ad una regola intellettuale significa, per Kant, sottolineare volta che il giu-
dizio di gusto un giudizio estetico: non ha a che fare con concetti, ma solo con la forma
generale della conoscenza. Nel giudizio di gusto una rappresentazione intuitiva viene
colta nel suo armonizzarsi con le forme del conoscere, ma non viene subordinata ad un
concetto determinato. Se cos accadesse, nota Kant, verrebbe meno il libero gioco dellim-
maginazione e non si avrebbe lesperienza estetica della bellezza, ma solo il vincolo con-
cettuale della comprensione. Di qui appunto il luogo che spetta alla bellezza in generale:
in essa non si fa avanti un tratto che garantisca la subordinazione di una rappresentazione
sensibile ad un concetto, ma si manifesta sensibilmente la possibilit generale di ricon-
durre lesperienza allintelletto come sistema delle regole nella loro indeterminata univer-
salit. Il bello una cifra delladeguatezza dellesperienza sensibile allordine intellet-
tuale, unesibizione della sua astratta comprensibilit: ci che piace nellesperienza del
bello il libero gioco dellimmaginazione in cui si manifesta che ci che sensibilmente
afferriamo ha una sua logica apparente ed , proprio per questo, animato da una sua ap-
parente teleologia.
Negare il carattere concettuale del giudizio di gusto, tuttavia, non significa solo ribadire
il suo carattere intuitivo e nemmeno sottolineare soltanto il libero gioco delle facolt che
si accompagna al piacere estetico: vuol dire anche disporsi nella giusta prospettiva per
comprendere quale sia la natura delluniversalit dei giudizi di gusto. I giudizi di gusto
sono giudizi che riguardano la soggettivit di chi li enuncia e non vi un concetto che li
fondi e che sia a fondamento della loro universalit. Ne segue che se pretendo che chiun-
que trovi bello ci che a me piace, ci accade perch insieme presuppongo una natura
comune, un comune sentire che ci accomuna e che deve accomunarci, poich tutti siamo
non gi uomini che hanno accidentalmente una stessa natura, ma soggetti che non possono
essere diversi da quello che sono.
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2. La conformit a scopi senza scopi e la necessit del giudizio di gusto
Il terzo momento su cui lanalitica del giudizio di gusto ci invita a riflettere chiama in
causa il concetto di relazione e ci significa, per Kant, discutere del nesso che lega la
rappresentazione al piacere che la soggettivit prova. Tale nesso riveste evidentemente
unimportanza centrale, perch la rappresentazione pu piacerci solo se tale da apparirci
come se fosse conforme ad un disegno che ne garantisse lastratta conoscibilit. Ora, que-
ste considerazioni ci riconducono come sappiamo al concetto di scopo, perch lo scopo
loggetto di un concetto in quanto questo stesso concetto viene considerato come il fon-
damento reale della sua possibilit (ivi, p. 55). Si tratta di una definizione su cui ci siamo
gi soffermati e che di fatto vincola ci che chiamiamo scopo ad un progetto che deve
aver orientato la volont di qualcuno: vi sono scopi perch li abbiamo voluti e pensati in
conformit ad un concetto. Proprio per questo, tuttavia, il giudizio di gusto non pu im-
plicare il rimando alla nozione di scopo perch ogni scopo implica una dimensione con-
cettuale: il progetto rispetto al quale qualcosa pensato. Ma se le cose stanno cos, se il
giudizio di gusto non pu implicare il rimando a concetti e quindi a scopi, non dobbiamo
sostenere che per un simile giudizio non vi spazio?
Rispondere a questa domanda significa, per Kant, sottolineare ancora una volta la di-
mensione particolare del giudizio di gusto, il suo essere prima di ogni determinazione
concettuale. Nel giudizio di gusto non pu essere implicata la rappresentazione di uno
scopo, ma possibile tuttavia la constatazione di unarmonia tra ci che esperiamo e ci
che dobbiamo conoscere unarmonia che ci spinge a sentire un determinato vissuto come
se appartenesse allorizzonte di una volont possibile. Nel giudizio di gusto constatiamo
che ci che percepiamo sembra essere attraversato da una progettualit indefinita: ri-
sponde ad un ordine che non si specifica in un concetto, ma nella conformit generale a
concetti. Non abbiamo bisogno di pensare per percepire una conformit a scopi, perch
ci che richiesto non ancora la subordinazione dellindividuale alla dimensione del
concetto, ma solo (e non poco) la riconduzione dellesperienza sensibile nello spazio
logico della comprensibilit. Kant parla a questo proposito di una conformit a scopi
senza scopo e il senso di questa nozione che suona cos apertamente ossimorica in fondo
chiaro: se lo rapportiamo con lorizzonte di una volont che si lascia determinare da con-
cetti, ci che percepiamo ci appare sensibilmente come se fosse attraversato da un pro-
getto possibile, ma non afferrabile intuitivamente. E ci quanto dire: bello ci che ci
appare come se fosse voluto, anche se sul terreno dellapparenza non possibile specifi-
care un contenuto concettuale che dia alla dimensione della progettualit che abbiamo
ravvisato sensibilmente una sua forma determinata ed effettiva.
La tesi secondo la quale la bellezza la struttura formale della conformit a scopi di
un oggetto in quanto essa vi percepita senza rappresentazione di uno scopo (ivi, p. 72)
ha tuttavia un prezzo che Kant ritiene senzaltro possibile pagare: la riconduzione dellam-
bito del bello alla dimensione puramente formale. Bello ci che in una rappresentazione
intuitiva pu apparirci in un accordo apparente con la dimensione del sovrasensibile, ma
ci che pu consentirci di intravedere la dimensione del sovrasensibile nel sensibile
soltanto la sua forma. Di qui la riconduzione del bello al disegno e la riconduzione del
colore e dei suoni e, in generale, della materia delle rappresentazioni sotto la cifra generale
delle attrattive sensibili:
Nella pittura, nella scultura, anzi in tutte le arti figurative, nellarchitettura, nellarte
dei giardini, in quanto sono belle arti, lessenziale il disegno, nel quale non ci che
diletta nella sensazione, ma soltanto ci che piace mediante la sua forma costituisce
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il fondamento di ogni attitudine al gusto. I colori che danno luce allabbozzo appar-
tengono allattrattiva; possono, s, rendere vivace loggetto stesso per la sensazione,
ma non degno dintuizione e bello: piuttosto sono limitati fortemente nella maggior
parte dei casi da ci che richiede la bella forma e, perfino dove ammessa lattrat-
tiva, questa nobilitata solo da quella. Ogni forma degli oggetti dei sensi (dei sensi
esterni, cos come mediatamente anche dei sensi interni) o figura o gioco: nellul-
timo caso o gioco di figure (nello spazio: la mimica e la danza) o semplice gioco di
sensazioni (nel tempo). Lattrattiva dei colori o dei suoni piacevoli di uno strumento
pu aggiungervisi, ma il disegno nel primo caso e la composizione nel secondo co-
stituiscono loggetto vero e proprio del giudizio puro di gusto; e che la purezza, sia
dei colori, sia dei suoni, o anche la loro molteplicit e il loro risaltare, sembri contri-
buire alla bellezza, vuol dire non tanto che essi rappresentano, per cos dire, unag-
giunta omogenea al compiacimento della forma perch sono di per s piacevoli, ma
piuttosto perch rendono la forma intuibile in modo pi preciso, pi determinato e
pi completo, e inoltre ravvivano la rappresentazione con la loro attrattiva, destando
e mantenendo lattenzione sulloggetto stesso. Anche ci che chiamiamo ornamenti
(parerga), vale a dire ci che appartiene non intimamente, al modo di parte costitu-
tiva, allintera rappresentazione delloggetto, ma solo estrinsecamente, al modo di
aggiunta, e aumenta il compiacimento del gusto, lo fa per solo in virt della sua
forma, come le incorniciature dei quadri, o i drappeggi nelle statue, o i colonnati
intorno ai palazzi. Ma, se lornamento non consiste esso stesso nella bella forma e,
come le cornici dorate, aggiunto semplicemente per raccomandare con la sua at-
trattiva il quadro allapprovazione, allora si chiama decorazione, e pregiudica la
schietta bellezza.. (ivi, pp. 60-61).
La dinamica generale del giudizio di gusto si lega cos ad una poetica di stampo tenden-
zialmente formalistico e il tentativo di rendere meno rigide le tesi sostenute, cercando
nelle riflessioni di Eulero sulla natura ondulatoria del colore e del suono un mezzo per
strapparli alla mera materialit della sensazione e per renderli apprezzabili come forme
non mutano il quadro che resta comunque troppo angusto per venire a capo dello spettro
dellespressione artistica.
Sarebbe tuttavia un errore non osservare come, anche in questo caso, alle considerazioni
particolari si leghi un discorso pi generale. Il rifiuto della materia della sensazione non
infatti soltanto determinato da considerazioni di poetica e nemmeno soltanto dalla consta-
tazione della necessaria formalit dellaccordo che lintuizione pu stringere con le forme
pure del sovrasensibile: determinato anche dal fatto che la sensazione ci riconduce, per
Kant, ad una modificazione del nostro stato ed , come tale, un accadimento fattuale. Sot-
tolineare la natura formale del giudizio di gusto vuol dire anche comprendere il fonda-
mento della sua universalit e della sua necessit, cui dobbiamo ora tornare per far luce
sullultima delle voci in cui si articola lanalitica del giudizio di gusto.
Affermare che il giudizio di gusto , per ci che concerne la relazione con le modalit,
necessario significa, ancora una volta, confrontarsi con il significato che lo stesso Kant
attribuisce ai termini logici. Necessario un giudizio quando il nesso tra soggetto e pre-
dicato di natura analitica e abbiamo in questo caso la necessit formale o conforme
alle regole che lintelletto impone ai fenomeni, ma che n luna n laltra forma di neces-
sit possa darsi sul terreno del giudizio di gusto fin da principio evidente, poich il giu-
dizio di gusto ha natura estetica e a legare soggetto e predicato non vi una regola intel-
lettuale, n tanto meno una relazione analitica tra concetti. Ci troviamo cos, ancora una
volta, costretti ad una mossa che, di primo acchito ci lascia perplessi: Kant ci invita infatti
a parlare di una necessit estetica che non pu dirsi apodittica, proprio perch non ha un
fondamento concettuale, ma poggia su una consapevolezza immediata che ci spinge a
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considerare ogni nostro giudizio di gusto come se fosse un giudizio esemplare, che chiun-
que dovrebbe condividere. Un giudizio esemplare, ma ancora una volta la constatazione
dellesemplarit si lega ad una tesi che sembra negarla alla radice poich di esemplarit e
di esempi si pu parlare solo in relazione ad una regola. In questo caso, tuttavia, di regole
non si pu certo parlare e lesempio di cui discorriamo deve apertamente porsi come
esempio di una regola che tuttavia non si pu addurre:
del bello si pensa che abbia un riferimento necessario al compiacimento. Ora, questa
necessit di un tipo speciale: non una necessit teoretica oggettiva, in cui possa
essere riconosciuto a priori che ciascuno sentir questo compiacimento per loggetto
da me detto bello; e neppure una necessit pratica, in cui, mediante concetti di una
volont razionale pura, che serve da regola per un essere che agisce liberamente,
questo compiacimento sia la conseguenza necessaria di una legge oggettiva e non
significhi altro se non che si deve assolutamente agire in un certo modo (senzaltro
intento). Ma pu essere chiamata, in quanto necessit che pensata in un giudizio
estetico, soltanto esemplare, vale a dire: una necessit dellaccordo di tutti in un giu-
dizio che viene considerato come esempio di una regola universale che non si pu
addurre. Poich questa necessit, non essendo un giudizio estetico un giudizio og-
gettivo e conoscitivo, non pu essere derivata da concetti determinati, e quindi non
apodittica. Ancora meno pu essere inferita dalla generalit dellesperienza (di una
completa concordanza dei giudizi sulla bellezza di un certo oggetto). Infatti non solo
lesperienza difficilmente produrrebbe attestazioni in quantit sufficiente in questo
senso, ma nessun concetto della necessit di tali giudizi pu essere fondato su giudizi
empirici. (ivi, pp. 72-73).
Non vi dubbio che il discorrere di una necessit estetica e di qualcosa che esempio di
una regola che non si pu addurre non possa non lasciarci perplessi, e tuttavia il senso
delle considerazioni kantiane , ad un primo livello, facile da comprendere e ricalca il
cammino che abbiamo seguito per venire a capo della tesi delluniversalit del giudizio di
gusto. Allora avevamo osservato che ogni giudizio di gusto ha natura soggettiva, ma che
il suo fondamento il suo consistere in un accordo tra la dimensione formale del feno-
meno percepito e la struttura formale delle facolt fa s che io possa pretendere che
chiunque condivida il mio giudizio poich non possibile che si differisca nella struttura
che ci caratterizza come soggettivit trascendentali. Di qui luniversalit peculiare del
giudizio di gusto e di qui anche la sua necessit che passa attraverso la certezza che la
nostra voce sia, nella sua singolarit, universale e che vi sia una dimensione del mio ego
che necessariamente condivido con gli altri.
Sin qui appunto le considerazioni che avevamo gi esposto e che Kant ci ripresenta nei
19 e 20. Nel 21, tuttavia, Kant sente di dover tornare sul problema, per approfondire
meglio il suo discorrere di un senso comune che si porrebbe come condizione della ne-
cessit che attribuiamo al senso comune. Il senso delle considerazioni che Kant raccoglie
in questo paragrafo muove da una prima constatazione importante: se lo scetticismo ha
torto e se, in generale possibile una conoscenza, allora conoscenze e giudizi devono
essere comunicabili. Ora, al momento del giudizio corrisponde un momento sensibile:
ci che Kant chiama lauto-affezione dellio. Nel giudizio la soggettivit presente nella
forma dellio penso che fa da sfondo alle rappresentazioni, pensandole nellunit catego-
riale del giudizio. questo stesso io che diviene, sia pure solo empiricamente, consape-
vole di s come ununit che attraversa il tempo e che rimanda a quella funzione trascen-
dentale senza la quale in generale il giudizio non sarebbe pensabile.
Anche questo momento deve essere comunicabile o almeno: questo quanto Kant ci
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invita a sostenere. E per una ragione che forse possibile intuire: se devo poter comuni-
care le mie conoscenze e i miei giudizi, debbo poter supporre che sia identica in tutti la
prassi del giudizio e quindi anche lo stato soggettivo che laccompagna Ma se cos stanno
le cose, allora deve poter essere comunicabile, e quindi anche essere necessariamente con-
divisibile, lo stato danimo che accompagna la semplice possibilit del conoscere e quindi
la disposizione delle singole facolt allaccordo con il contenuto intuitivo di una rappre-
sentazione data. dunque legittimo supporre un senso comune che, in questo caso, con-
dizione necessaria della comunicabilit dello stato danimo che accompagna laccordo tra
le facolt che a fondamento del conoscere stesso:
Conoscenze e giudizi, insieme alla convinzione che li accompagna, si debbono poter
comunicare universalmente, ch altrimenti non spetterebbe loro alcun accordo con
loggetto: sarebbero tutti insieme un gioco semplicemente soggettivo delle facolt
rappresentative, proprio come pretende lo scetticismo. Ma se le conoscenze si deb-
bono poter comunicare, allora si deve poter comunicare universalmente anche lo
stato dellanimo, vale a dire la disposizione allaccordo delle facolt conoscitive per
una conoscenza in genere, e precisamente quella proporzione che si addice a una
rappresentazione (mediante cui ci dato un oggetto), per farne una conoscenza, per-
ch senza questa proporzione, come condizione soggettiva del conoscere, la cono-
scenza, quale effetto, non potrebbe nascere. E ci accade effettivamente ogni volta
che un oggetto dato muove, per mezzo dei sensi, limmaginazione alla composizione
del molteplice, e questa a sua volta lintelletto allunit della composizione" in con-
cetti. (ivi, p. 74).
Ora, questo rapporto si manifesta sensibilmente in diverso modo e ci quanto dire che
vi una diversa disposizione in cui si rende manifesto al soggetto il proprio stato rappre-
sentativo, il proprio essere un io penso che cerca di subordinare alla norma dellintelletto
un materiale sensibile recalcitrante:
Tuttavia ce ne deve essere una, in cui questo interno rapporto per il ravvivamento
(delluna facolt con laltra) sia il pi favorevole possibile per entrambe le facolt
dellanimo rispetto a una conoscenza (di oggetti dati) in genere; e questa disposi-
zione allaccordo non pu essere determinata altrimenti che mediante il sentimento
(non secondo concetti). (ivi, p. 74).
Nel giudizio di gusto si fa dunque avanti la coscienza di un io felice, di una soggettivit
che si scopre nella sua immediata consonanza con il contenuto intuitivo che esperisce.
Di qui la necessit del giudizio di gusto almeno per Kant. Che si tratti davvero di una
deduzione valida lecito dubitarne. Kant ragiona cos: se devo poter comunicare le mie
conoscenze e i miei giudizi, allora debbo poter supporre che sia identico il nodo delle
facolt su cui il giudizio poggia e di qui si pu muovere per sostenere che identica deve
essere anche la sensazione che fa da controcanto sensibile del giudizio. Ma appunto questa
mossa sembra essere infondata perch la comunicabilit dei giudizi non implica necessa-
riamente lidentit dei vissuti che li accompagnano. Potremmo avere sensazioni differenti,
eppure usare tutti le stesse parole: potremmo dire di qualcosa che rosso e trovarci dac-
cordo sulluso di quel termine, ma allo stesso tempo avere sensazioni non coincidenti. E
ci quanto dire che la pretesa di un senso comune non fondata.
Kant, tuttavia, ritiene che essa sia una delle caratteristiche importanti del giudizio di
gusto e in questo, credo, abbia ragione: vogliamo che anche gli altri ritengano bello ci
che a noi piace e questo accomunamento cui miriamo non un accomunamento dettato
dallobiettivit del concetto e nemmeno dalla mera fattualit di un accordo, ma dalluni-
versalit su cui sembra poggiare il giudizio di gusto, dal suo essere qualcosa in cui ci
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impegniamo come soggetti in generale e non come questo soggetto concreto che siamo.
Ancora una volta: il bello non un fatto, ma non nemmeno un concetto, ma il correlato
di una sensazione che rimanda ad un accordo tra ci che intuito e le condizioni della sua
pensabilit.
Potremmo fermarci qui nelle nostre considerazioni che non mirano certo a far luce sulla
complessit dellintera Critica della facolt del giudizio, ma solo a gettare uno sguardo
su un insieme di problemi che Kant affronta e che sono in qualche misura connessi con il
tema di cui discorriamo. E tuttavia, prima di disporci sul terreno di alcune rapide consi-
derazioni critiche cui spetter il compito di gettare un poco di luce sulle ragioni di questa
digressione, forse opportuno soffermarsi almeno su un punto: sullimportanza che nelle
pagine di questa terza Critica svolge il tema dellindeterminatezza. Si tratta di un tema
che attraversa in profondit le pagine kantiane e che si concretizza nel rifiuto dellestetica
precettistica. Per Kant, il bello non pu sottostare a regole e questo non soltanto perch il
giudizio di gusto non ha natura concettuale, ma perch per sua essenza indeterminato.
Bella non la subordinazione dellintuizione ad un concetto determinato, ma il gioco
dellimmaginazione che saggia la conoscibilit del materiale sensibile un gioco che deve
essere libero e che pu esserlo solo se non vi un concetto che detti la sua regola allim-
maginazione, piegandola ad un compito determinato.
Il tema dellindeterminatezza del resto ci riconduce anche alla tematica del genio e alla
riflessioni, cos caratteristiche dellimpianto kantiano di questa terza Critica, volte a far
luce sul nesso che lega genio e natura. Certo, si deve essere consapevoli che unopera
darte frutto di unintenzione e non natura, e tuttavia la sua apparente conformit a
scopi deve essere cos libera da costrizioni e da regole imposte da sembrarci naturale.
Larte deve celare con arte il suo essere frutto dellarte:
Quindi la conformit a scopi nei prodotti dellarte bella, pur se intenzionale, deve
parere tuttavia non intenzionale; vale a dire: si deve guardare allarte bella come se
fosse natura, sebbene si sia consapevoli di essa in quanto arte. Ma un prodotto
dellarte appare come natura per il fatto che viene, s, trovato in tutta la sua puntualit
laccordo con le regole secondo le quali soltanto il prodotto pu diventare ci che
deve essere; ma senza pignoleria, senza che traspaia la forma scolastica, vale a dire:
senza mostrare traccia che la regola stata davanti agli occhi dellartista e ha messo
ceppi alle sue facolt dellanimo. (ivi, p. 142).
Di qui appunto ci che dobbiamo intendere con genio. Il genio scrive Kant un dono
naturale (un talento,) mediante il quale la natura d la regola allarte, ed ancora una volta
ci imbattiamo in una definizione ossimorica. Il genio natura, poich di fatto non pos-
siamo pensare al talento come se fosse riconducibile ad una qualche regola intellettuale.
E tuttavia una forma dellingegno poich deve comunque dare una regola. Ci troviamo
cos di fronte ad un nodo che rammenta da vicino quello che stringe la nozione di sche-
matismo una nozione essa pure radicata in profondit nella natura dellanimo umano. E
non un caso che questa connessione si faccia nuovamente strada: in fondo il genio la
capacit di piegare limmaginazione verso le forme dellintelletto, in un processo che non
dissimile a quello che vincola le categorie pure allimmaginazione. Vi qui un nodo che
insito nella nostra natura e questo rende lesperienza del bello ancora pi caratteristica
del nostro essere soggetti che hanno unesperienza sensibile.
Non difficile scorgere proprio in queste considerazioni che abbiamo appena svolto una
nuova e pi profonda radice del tema dellindeterminatezza. In fondo, il carattere ossimo-
rico che caratterizza cos in profondit lapparato teorico della terza Critica ha qui la sua
radice: nel suo tentativo di mostrarci la coscienza sensibile e soggettiva dellistituirsi di
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quellaccordo su cui si fonda la possibilit del conoscere. Lesperienza del bello lespe-
rienza di una possibilit che non pu essere tradotta in una determinazione positiva: la
possibilit di un accordo tra la dimensione intuitiva e la dimensione sovrasensibile, av-
vertita prima ancora della subordinazione del dato alla legge del concetto. La felicit di
questo accordo potenziale avvertita sensibilmente nel giudizio di gusto, ma proprio per-
ch deve essere coscienza di questa possibilit generale e non di una subordinazione con-
cettuale effettiva, il giudizio di gusto deve sottrarsi a regole e non pu diventare manife-
stazione di un ordine concettuale compiuto. La noia, che fa da contraltare al godimento
estetico, ci appare cos come la cifra sensibile che accompagna il piegarsi dellintuizione
ad una norma che le viene imposta: il concetto chiude il movimento dellimmaginazione
e fissa il suo libero gioco.
Di qui lultimo nesso che lega lesperienza estetica allindeterminatezza. Proprio perch
il bello esperienza di un indeterminato, diviene possibile poi farne il terreno su cui si
esercita il libero gioco della comprensione. Nelle forme incompiute dellimmaginazione
e nellaccordo indeterminato che si viene istituendo con il sovrasensibile si crea lo spazio
per un processo di riflessione intellettuale, per un tentativo di comprensione che non riesce
a fissarsi in un concetto dato e proprio per questo costretto a muovere da concetto a
concetto, da nozione a nozione, senza solidificarsi in una effettiva sussunzione. Larte non
riconducibile al concetto, ma un gioco che si dipana tra concetti: larte ci d da pen-
sare. questo il tema, cos ricco, delle idee estetiche, cui Kant dedica alcune pagine molto
belle che gli consentono di aprire lo spazio dellarte a temi e a problemi che vanno al di
l della dimensione meramente formale in cui le considerazioni sul giudizio di gusto sem-
brano rinchiudere lo spazio dellarte. Kant si esprime cos:
Spirito, nel suo significato estetico, si dice il principio vivificante dellanimo. Ma
ci per cui questo principio vivifica lanima, la materia che a quel fine esso adopera,
ci che d impulso, conformemente a scopi, alle facolt dellanimo, cio le pone
in un gioco che si mantiene da se stesso e anzi rafforza, a quel fine, le facolt. Ora,
sostengo che questo principio non nientaltro che la facolt dellesibizione di idee
estetiche; ma per idea estetica intendo quella rappresentazione dellimmaginazione
che d occasione di pensare molto, senza che per un qualche pensiero determinato,
cio un concetto, possa esserle adeguato, e che di conseguenza nessun linguaggio
possa completamente raggiungere e rendere intelligibile. Si vede facilmente che
essa il correlato (pendant) di unidea della ragione, che viceversa un concetto cui
non pu essere adeguata alcuna intuizione (rappresentazione dellimmaginazione).
(ivi, p. 149).
Come ho dianzi osservato, si tratta di un tema estremamente ricco e interessante, ma noi
dobbiamo semplicemente accennare alla sua presenza e avviarci a qualche considerazioni
conclusiva che ci consenta di tornare sui nostri passi che abbiamo abbandonato anche per
troppo tempo.
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LEZIONE QUARTA
1. Considerazioni critiche
Nelle precedenti lezioni ci siamo soffermati su alcuni dei temi pi rilevanti della prima
parte della Critica della facolt del giudizio. Questo tuttavia non significa che il nostro
tema o che la linea delle nostre considerazioni si muova in prossimit della prospettiva
kantiana. Tuttaltro. Nonostante la ricchezza e la sottigliezza di questo testo cos bello,
molte sono le cose che ci dividono dalle pagine kantiane.
Da Kant, in primo luogo, ci divide la posizione stessa del problema. Il nostro problema
verte sulla natura delle propriet espressive e di questo tema, che pure si intreccia con le
ragioni che ci consentono di dire che una linea ornamentale bella, Kant parla solo occa-
sionalmente. Certo, nel tentativo di rendere pi persuasivo il nesso analogico che tuttavia
lega il giudizio di gusto allambito della morale, Kant osserva:
noi spesso chiamiamo gli oggetti belli della natura o dellarte con nomi che sembrano
porre a fondamento un giudizio morale. Diciamo maestosi e sontuosi edifici o alberi,
oppure ridenti e lieti i campi; perfino i colori vengono detti innocenti, modesti, deli-
cati, dal momento che suscitano sensazioni che contengono qualcosa di analogo alla
coscienza di uno stato dellanimo provocato da giudizi morali (ivi, p. 188).
Si tratta tuttavia di unosservazione marginale, e per Kant non vi dubbio che il tema
dellespressivit sia sovrastato dal tema della bellezza e che sia questultimo il tema che,
nelle sue pagine, occupa il luogo centrale della riflessione sullarte. Che al bello debba
spettare una posizione centrale una tesi che Kant non discute e che gli appare in un certo
senso ovvia, nonostante le molte aperture della Critica della facolt del giudizio ad argo-
menti che esorbitano da questo tema tra queste un posto particolare spetta alla riflessione
sul sublime e alle idee estetiche, su cui ci siamo cos brevemente soffermati nella scorsa
lezione. Una tesi ovvia almeno per la filosofia settecentesca, ma che ci appare oggi
tuttaltro che scontata e, in fondo, piuttosto limitata.
Sappiamo quale sia la ragione di questa scelta kantiana: la tematica del bello , per Kant,
cos rilevante soprattutto perch gli consente di affrontare in una prospettiva nuova un
insieme di problemi che si aprono nel cuore della riflessione critico-trascendentale. Per
Kant si deve parlare del bello e della sua riconducibilit al problema della buona forma
perch nel gioco dellimmaginazione che scaturisce dalla percezione di simili forme si
deve cogliere il realizzarsi di un accordo insperato con le richieste della ragione e dellin-
telletto. In fondo la bellezza rilevante perch assolve ad un compito filosofico cui Kant
sente di dover dare una risposta: il compito di dimostrare che la pretesa metafisica che vi
sia un mondo in cui scorgere immediatamente realizzate le esigenze dellintelletto e della
ragione non del tutto priva di una sua sensatezza. Certo, Kant sa bene che la metafisica
un sogno, ma la contemplazione della natura e dellarte sembra consentirci di sognarlo
felicemente: la bellezza si pone infatti come la forma intuitiva in cui si recita la dimen-
sione sovrasensibile della soggettivit, che ci appare questa volta libera tanto dalla seriet
delle pretese conoscitive, quanto dalla coercizione che si lega agli imperativi morali e
tuttavia capace di manifestarsi e di permeare di s il libero gioco dellimmaginazione in
virt del quale le possibile ritrovarsi senza sforzo nel mondo sensibile. Nella forma
tenue ed effimera del bello il mondo torna ad essere intuitivamente la dimora di una sog-
gettivit razionale, lo specchio in cui le possibile riconoscersi.
Si tratta di un disegno teorico che esercita un suo fascino rilevante da cui difficile
sottrarsi per intero, ma questo non toglie che non sia facile non avvertirne le forzature che
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sono almeno in parte connesse con il quadro generale entro il quale Kant pretende di rac-
chiudere il problema: il quadro determinato dalla convinzione che il bello debba avere un
posto nello spazio del trascendentale e che non possa non trovarsi lungo il cammino che
dal sensibile conduce al sovrasensibile e pi propriamente nel luogo fissato dallavverti-
mento intuitivo di una indeterminata ed inattesa conformit dei contenuti intuitivi dellim-
maginazione allintelletto come facolt universale del pensare secondo regole. Il bello si
pone cos come la soglia che conduce alla concezione kantiana dellesperienza come sin-
tesi tra intelletto e sensibilit.
Si tratta di una tesi impegnativa, ma discutibile: Kant vincola la teoria del bello allac-
cettazione del linguaggio teorico della Critica della ragion pura, cosa questa che avanza
unipoteca rilevante sulla natura dellesperienza del bello perch proietta su questo terreno
le stesse difficolt che caratterizzano in generale la concezione dellesperienza che in
quellopera si fa avanti. Quale sia questa concezione dellesperienza presto detto, al-
meno nelle sue linee generali. Nella Critica della ragion pura lesperienza ha un ordine
solo perch il concetto detta la alle sensazioni sua regola; pu farlo, tuttavia, perch solo
limmaginazione produttiva predispone gli schemi in virt dei quali le forme pure dellin-
telletto determinano sul terreno intuitivo le condizioni della loro applicazione: si tratta
appunto dello schematismo cui affidato il compito di indicare come un insieme di con-
cetti puri e a priori possano applicarsi allesperienza, subordinandola alla loro legge. Cos
appunto nella prospettiva della Critica della ragion pura; sul terreno della Critica della
facolt del giudizio le cose mutano perch il cammino che deve essere seguito procede in
questo caso nella direzione inversa: ora muoviamo dalla rappresentazione sensibile e af-
fidiamo allimmaginazione produttiva il compito di risalire verso il concetto, mostrando
in questo modo non come il concetto determini la dimensione intuitiva, ma come questul-
tima sia in linea di principio determinabile dallintelletto. Sul terreno della Critica della
ragion pura questo cammino non poteva non lasciarci perplessi: se la sensibilit in se
stessa priva di forma, come possono le forme pure dellintelletto applicarsi alla struttura
dellesperienza sensibile? Le categorie intellettuali devono insegnarci un modo per pen-
sare secondo concetti la successione temporale che tuttavia in se stessa indeterminata;
se le cose stanno cos, tuttavia, che cosa pu autorizzarci a pensare la successione tempo-
rale ora nella forma di una successione causale (il susseguente in virt dellantecedente),
ora in un nesso additivo (il susseguente nel suo sommarsi allantecedente) ora in uno qual-
siasi dei diversi modi che le categorie rendono di fatto possibile? Se le successioni tem-
porali debbono attendere il concetto per ricevere una forma, che cosa pu giustificare la
nostra attribuzione di un concetto categoriale determinato ad una qualsiasi successione
temporale? Se davvero le categorie sono ci che d forma allesperienza, allora la loro
applicazione al materiale sensibile non pu che apparirci priva di un fondamento e di una
giustificazione effettiva.
Le cose non mutano se ci disponiamo nella prospettiva del giudizio riflettente. Se la
forma sensibile non ha in s alcuna forma, che cosa pu rendere possibile il suo armoniz-
zarsi con le regole dellintelletto? Se lesperienza ha una forma, allora non ha bisogno del
concetto; se informe, allora non si vede come possa accordarsi con le strutture formali
dellintelletto. Se poi limmaginazione dispone lesperienza in una forma leggendola alla
luce di un qualche ordinamento intellettuale, allora in che senso si pu parlare di unar-
monia antecedente la determinazione del concetto? Per venire a capo di questo nodo teo-
rico dovremmo poter supporre che qualcosa ha gi una forma adatta al concetto prima di
essere pensato dal concetto stesso, ma riconoscere che cos stanno le cose significherebbe
negare alla radice il carattere che Kant attribuisce al concetto: il suo essere una forma che
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attribuisce un ordine ad un materiale amorfo. Kant sembra tentare di eludere questo pro-
blema invitandoci a disporre lesperienza del giudizio di gusto sul crinale di un rapporto
tra facolt, colto nel momento del loro reciproco prendere le misure luna sullaltra, ma
non chiaro in che senso questa sia una risposta al nostro problema: non basta porsi in
una prospettiva genetica perch la difficolt cui alludiamo venga meno.
Il quadro non muta anche se disponiamo il giudizio di gusto sul terreno di unesperienza
gi formata categorialmente e cerchiamo di situare laccordo tra immaginazione e con-
cetto sul terreno dei concetti empiricamente determinati. Se ci si pone su questo piano
possibile comprendere in che cosa potrebbe consistere laccordo qualcosa potrebbe ap-
parirci come se fosse facilmente comprensibile come un oggetto di un certo tipo, anche
se non possiamo pensarlo propriamente come un oggetto di quel tipo. Tuttavia, se anche
questa fosse la via che Kant ci suggerisce di seguire (cosa che non sembra in fondo pos-
sibile sostenere), ci troveremmo egualmente in difficolt. Una linea pu dirsi bella perch
ci appare animata, quasi fosse viva, anche se vediamo che non viva questo vero. Non
chiaro invece perch in questo caso sarebbe lecito parlare di un accordo tra facolt e non
di unoscillazione nella determinazione concettuale. Qualcosa ci appare ora animata, ora
inanimata perch la pensiamo ora in un modo, ora in un altro, ma in un simile oscillare
non vi spazio per supporre una qualche armonia tra le facolt. Perch la discussione
kantiana acquisti davvero un senso necessario pensare diversamente le cose: dobbiamo
supporre che qualcosa ci sembri gi sul piano intuitivo in un qualche modo determinato
(per esempio che ci appaia animato) senza che lo si sia pensato cos, ma non difficile
comprendere che anche in questo caso il problema si riproporrebbe, perch se qualcosa
pu apparirci adatto ad esser compreso in un certo modo, allora ha gi in s la forma e
non chiede di riceverla dal concetto. Se invece la riceve dal concetto, allora non vi ra-
gione per parlare di un giudizio di gusto.
A questa problema di carattere generale si affiancano due ulteriori difficolt che ren-
dono la lettura del testo kantiano ora ardua, ora insoddisfacente. E non un caso che sia
cos, perch difficile liberarsi dallimpressione che il testo kantiano ci costringa a dare
allesperienza estetica una forma ora indeterminata, ora troppo angusta.
Le attribuisce una forma che resta vaga e indeterminata: per quanti sforzi Kant faccia
per muoversi nel gioco delle molte espressioni ossimoriche che si affastellano nella Cri-
tica della facolt del giudizio resta comunque difficile comprendere che cosa voglia esat-
tamente dire che qualcosa conforme al concetto senza essere subordinato ad un concetto.
La linea che tracciamo su un foglio ha una forma determinata ed sempre, come tale,
riconducibile ad una regola concettuale: al concetto che le si applica. Certo, non neces-
sario pensare una forma alla luce della funzione che la determina ed in questo senso si
pu parlare di un ordine che non implica ancora una comprensione, ma questo equivale
semplicemente a riconoscere che vi sono forme che esibiscono un ordine che non ha an-
cora nulla di concettuale. Una bella forma (questo termine assunto nellaccezione kan-
tiana) non una forma in cui si avverta intuitivamente che limmaginazione si gi aperta
al concetto, senza per questo asservirsi ad esso, ma solo una forma che esibisce un ordine
intuitivamente afferrabile. Kant oscilla tra due poli da un lato lidea di una sensibilit
senza forma e dallaltro lidea di una forma senza intuizione e per questo costretto a
pensare che ogni struttura che esibisca un ordine che si manifesta al di qua della dimen-
sione concettuale debba comunque parlarci di un qualche accordo con la facolt del giu-
dizio, di un qualche nascosto bench ancora indeterminato operare dellintelletto. Si
tratta tuttavia di una tesi che resta oscura, e necessariamente perch non affatto chiaro
che cosa voglia dire parlare di un accordo tra intuizione e intelletto che non assuma la
forma di una subordinazione concettuale.
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Il quadro kantiano tuttavia anche, e per molte ragioni, troppo angusto e lo si com-
prende non appena si tenta di venire a capo della sfera espressiva dellarte. Per rendersene
conto sufficiente gettare uno sguardo alla riconduzione kantiana del bello alla bella
forma. Si tratta di una mossa che nel testo kantiano ha molte ragioni su cui ci siamo gi
soffermati nel corso delle nostre lezioni e tuttavia Kant ritiene che lunica via per garantire
un simile risultato consista nel tracciare un discrimine tra la natura empirica delle sensa-
zioni e la natura a priori delle relazioni formali che legano limmaginazione della forma
alla sua riconducibilit astratta e generale allintelletto come sistema formale delle regole.
E non un caso che cos stiano le cose: per Kant, la giusta preoccupazione volta a ribadire
il carattere disinteressato del giudizio di gusto si lega alla tesi secondo la quale una rela-
zione dellimmaginazione con il sistema delle facolt sovrasensibili possibile solo sul
piano delle pure forme. Non difficile, tuttavia, rendersi conto che le cose non stanno cos
e che non possibile espungere il colore o la forma dallambito delle considerazioni este-
tiche. Vi sono, vero, musiche e dipinti in cui la forma pi importante del colore o della
determinatezza qualitativa e timbrica dei suoni, ma le cose non stanno necessariamente
cos: un conto ascoltare un concerto di Telemann, un altro un Notturno di Debussy e
simili considerazioni valgono anche sul terreno pittorico. Posso forse pensare che i colori
non siano cos rilevanti in un dipinto di Drer, ma non in un quadro di Gauguin, ed
anche troppo evidente che con buona pace di Kant non si possa venire a capo di questa
difficolt sostenendo che colori e suoni sono importanti ma solo perch ci consentono di
evidenziare le forme che si rivelano attraverso la loro disposizione. Un suono pu essere
bello in s e un colore pu piacerci senza per questo distoglierci dalla dimensione del
giudizio di gusto: Kant non se ne avvede perch costretto da ragioni di principio, prima
ancora che di gusto, a rinchiudere la sfera del bello nellambito di ci che meramente
formale.
Del resto, anche la tesi cos ricca di aspetti interessanti secondo la quale il bello non
pu essere vincolato da precetti non sembra facilmente riconciliabile con la tesi della ne-
cessaria armonia tra le facolt. Certo, Kant intende sottolineare il carattere estetico del
giudizio di gusto e vuole prendere le distanze dalla tesi secondo la quale vi sono regole
per decidere se qualcosa bello, ma non chiaro perch la conformit a scopi di cui Kant
ci parla non abbia regole che la definiscano: dire che il bello non concettuale non la
stessa cosa che negare che vi siano regole che fissano laccordo armonico tra intelletto e
immaginazione. Kant parla di conformit a scopi senza scopo e non si vede perch non
sia possibile definire meglio questo concetto, indicando quali sono le sue condizioni di
applicazione. Insomma: la posizione kantiana nella Critica della facolt del giudizio sem-
bra sospesa tra unindeterminatezza che la rende difficilmente afferrabile e una serie di
tensioni interne che Kant sembra saper comporre in unit, ma che tuttavia sfuggono al
tentativo di una comprensione pi approfondita.
Dobbiamo dunque prendere commiato dalla prospettiva della Critica della facolt del
giudizio, e tuttavia se ci siamo soffermati su queste considerazioni kantiane non certo
perch volessimo tentare di confutare le sue tesi in poche battute; al contrario: ci che ci
interessa in Kant, messa da parte ogni ipotesi di carattere interpretativo, cogliere con
tutta libert alcune suggestioni che le sue pagine ci offrono e che credo debbano essere
rammentate perch ci consentono inaspettatamente di trarre alcune .
Credo che vi siano almeno cinque tesi che meritano di essere rammentate e che ci con-
sentono in qualche modo di orientare le nostre analisi. Vorrei formularle cos:
1. Il giudizio di gusto non ha natura concettuale, ma non per questo riconducibile alla
dimensione causale delle modificazioni sensibili. Anche se di fatto Kant ritiene di
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poter ricondurre sotto legida della distinzione tra piacevole e bello la tesi secondo
la quale suoni e colori non possono essere oggetto di un giudizio di gusto, le sue
riflessioni mirano a sottolineare come si possa trovare bello qualcosa solo se il pia-
cere che proviamo in sua presenza non un effetto causalmente determinato, ma
passa attraverso unattenta valutazione percettiva e cognitiva delle qualit della rap-
presentazione. Certo, la bellezza non pu essere argomentata: non oggetto di una
disputa, ma se ne pu discutere perch comunque frutto di unesperienza che ha
una sua rilevanza cognitiva.
2. La bellezza una propriet strettamente fenomenica e non implica in nessun modo
un giudizio sullesistenza delloggetto rappresentato, n una qualche considerazione
che vada al di l di esso. Bello ci che conforme ad uno scopo, anche se di uno
scopo che stia a fondamento di quella conformit non in alcun modo necessario
parlare.
3. Il piacere estetico si avverte, ma non si prova: non una sensazione che attribuiamo
a noi stessi e che ci parla di una qualche modificazione del nostro stato, ma lav-
vertimento di una forma.
4. La bellezza non ha carattere concettuale: una propriet esperita e non pu essere in
alcun modo ricondotta ad una comprensione confusa di un qualche concetto. La bel-
lezza non la cifra di un ordine concettuale che comprendiamo a fatica.
5. Per Kant discorrere dellesperienza del bello significa in fondo rivolgere lattenzione
a ci che fa s che questo mondo ci appaia come il nostro mondo, come uno spetta-
colo in cui si manifesta unimmediata adeguatezza a quellordine sovrasensibile che
ci caratterizza e che ci piacerebbe ritrovare come una presenza immediata nel vivere.
Si tratta, come sappiamo, di una tesi che rimanda, per Kant, ad unesigenza che
strettamente connessa con quei sogni della metafisica da cui ci si pu svegliare, ma
non liberarsi. E tuttavia, se abbandoniamo la dimensione metafisica e ci disponiamo
sul terreno del giudizio estetico, le richieste della metafisica sembrano trovare una
loro parziale soddisfazione.
Di queste tesi di carattere generale in cui ci siamo passo dopo passo imbattuti nelle pagine
che abbiamo dedicato alle riflessioni kantiane, io credo che si possa avvalere per far luce
almeno in parte sul nostro problema. Dimentichiamoci allora del problema della bellezza
e chiediamoci se questi cinque punti (che abbiamo formulato con una certa libert) non
possano aiutarci a comprendere la natura di quelle propriet fenomeniche che non ci par-
lano di un vissuto o di uno stato danimo, ma che tuttavia inscenano una dimensione
espressiva. Che a questa domanda si possa dare una risposta affermativa una supposi-
zione della cui plausibilit dovremo cercare di convincerci nel corso di queste lezioni.
2. Quello che ci aspetta
Le riflessioni che abbiamo raccolto nella nostra lunga digressione kantiana ci consentono
di tornare al nostro problema con unaccresciuta consapevolezza. In modo particolare, le
analisi kantiane ci consentono di mettere da canto ogni tentativo di vincolare in modo
troppo stretto le propriet espressive di cui dobbiamo discorrere ed il loro occorrere nei
contesti intenzionali dellarte. Certo, quando ascoltiamo un brano musicale dobbiamo es-
sere consapevoli che quelle note sono state scelte in ragione di un progetto espressivo
determinato, ma che cos stiano le cose che allespressivit dei suoni corrisponda un
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intento espressivo della soggettivit che li ha scelti per un qualche motivo non pu of-
frirci una spiegazione complessiva del fenomeno delle propriet espressive perch, come
Kant ci ha mostrato, il fenomeno dellespressivit attraversa larte come la natura e non
pu essere discusso separatamente. Possiamo insomma pensare che in un brano musicale
lespressivit derivi da unintenzionalit che la precede e la attraversa, ma nel caso della
serenit che pervade una sera destate non possiamo non riconoscere che lespressivit
un dato originario che pu forse essere il fondamento di una finzione di intenzionalit, ma
che non pu essere spiegata su quella base.
Le propriet espressive sono un dato originario: di qui che, credo, dobbiamo muovere
per venire a capo del nostro problema. Un tuono ci appare minaccioso prima di ogni altra
considerazione: qualcosa che ci si d in questa peculiare modalit. Il tuono lo incon-
triamo cos con questa particolare e caratteristica minacciosit che non ha nulla a che
fare con il fatto che ad esso segua la grandine o il temporale. Il tuono ci appare minaccioso
perch non possiamo non sentirlo se non in questo modo, anche se naturalmente questo
non significa che si debba per questo credere che il tuono ci stia minacciando e che il suo
squassare laria con un boato valga come per noi come un gesto di intimidazione. Nel
mondo della nostra esperienza quotidiana le cose si danno insieme alle loro propriet
espressive: le incontriamo appunto cos. Ma questo non significa che valga per noi un
animismo ingenuo; il tuono suona minaccioso, ma non minaccia nessuno, anche se ci fa
sobbalzare: lo percepiamo proprio cos, come un suono minaccioso che non racchiude una
minaccia, proprio come una sera destate la incontriamo nella sua serenit che pu perva-
derci e rasserenarci, ma non convincerci a mettere da canto le nostre eventuali preoccu-
pazioni. Il punto qui: incontriamo le cose insieme ad una miriade di propriet espressive
che non possiamo tuttavia intendere come se fossero manifestazione di uno stato danimo
o come se fossero parte di una gestualit intenzionalit. Una giornata di primavera ri-
dente, ma non sorride proprio a nessuno anche se pu rasserenare chi la vive ed per
questo che necessaria una finzione poetica per chiedersi a quale suo dolce amore la
primavera sorrida.
Di qui il problema che dobbiamo affrontare e che avevamo gi indicato nelle prime
battute del nostro corso: vi sono propriet espressive che incontriamo nel mondo e che
esperiamo e viviamo, ma che evidentemente non ci consentono di attribuire uno stato
danimo agli eventi o alle cose cui si legano: una successione di suoni malinconica senza
esserlo affatto, e se le cose stanno cos se la malinconia di un adagio c perch lavver-
tiamo e non c perch non lavvertono i suoni e non possiamo attribuirla al loro risuonare
allora evidente che siamo in debito di una chiarificazione che ci consenta di chiarire
meglio questa contraddizione apparente.
Credo che ci siano almeno quattro differenti vie che possono essere seguite per cercare
di venire a capo di questo nodo quattro vie che ci occuperanno nelle prossime lezioni
poich dovremo cercare di spiegarle, di renderle in qualche modo persuasive, per poi ten-
tare di decidere quale sia la via che dobbiamo seguire. Vediamole:
1. La teoria causalistica. Vi sono determinati contenuti che in soggetti normali e in
circostanze normali ridestano determinati vissuti affettivamente determinati. Come la
mano del pianista, schiacciando i tasti, produce una successione di note, cos le note
toccano le corde sensibili della soggettivit e determinano causalmente un succedersi
di stati affettivi. Altro da spiegare non vi , se non la tendenza ad imputare alla causa
ci che compete alleffetto diciamo impropriamente malinconica la musica che ascol-
tiamo, mentre malinconica solo la reazione che causalmente ne deriva;
2. La teoria della proiezione. Le propriet espressive sono frutto di una proiezione
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soggettiva di cui occorre cercare di rendere conto, perch solo se si riesce a far luce
sulle motivazioni di varia natura che determinano la proiezione di ci che la soggettivit
prova sul contenuto rappresentativo cui si rapporta diviene possibile poi comprendere
pienamente la natura delle propriet espressive;
3. La teoria dellassimilazione. Le propriet espressive sono frutto di un falso rico-
noscimento: un tratto fenomenicamente rilevante le accomuna a situazioni in cui pos-
sibile unattribuzione effettiva dello stato danimo che traspare nella scena esperita e
questo determina da un lato un falso riconoscimento, dallaltro lattribuzione sia pure
erronea di un vissuto affettivo a ci che propriamente non pu averne esperienza.
Avvertiamo la malinconia delladagio che ascoltiamo perch qualcosa nelladagio ram-
menta nella sua struttura fenomenologica lespressione umana della malinconia,
quellespressione che solo pu dirsi appropriata;
4. La prospettiva fenomenologica. Le propriet espressive, anche quando non si le-
gano ad un contesto umano o animale e non ci consentono di attribuire uno stato
danimo corrispondente, sono propriet che incontriamo e che vanno descritte nella
specificit della loro natura. Di qui si dovr muovere per indicare le ragioni che impe-
discono allesperienza di determinate propriet espressive di caratterizzarsi come pro-
priet che legittimano lattribuzione di un determinato stato danimo.
Dobbiamo muovere di qui, per cercare di comprendere quale di queste vie sia davvero
percorribile.
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LEZIONE QUINTA
1. Le teorie causalistiche
Vogliamo innanzitutto prendere le mosse di qui, da unanalisi di quelle teorie che ci invi-
tano a sostenere che quando affermiamo che qualcosa un colore, una successione di
suoni, un evento ha una certa propriet espressiva anche se non un soggetto animato
ci che vogliamo propriamente sostenere soltanto che esso, in circostanze normali, su-
scita in un soggetto percipiente normale un determinato stato affettivo che nella norma
connesso con la propriet espressiva che si crede di ravvisare. Cos, dire di un paesaggio
collineare che sereno non significa altro che affermare che quel paesaggio solitamente
suscita in uno spettatore normale una certa sensazione affettiva che di fatto si accompagna
alla serenit. Certo, per ragionare cos dobbiamo innanzitutto chiudere gli occhi sul fatto
che una simile teoria ci invita a trasporre quello che di fatto proviamo in una qualche
caratteristica delloggetto poich almeno di primo acchito ci sembra che ad essere sereno
sia davvero il paesaggio e non chi si lascia rasserenare dallo spettacolo del suo manife-
starsi, ma in fondo queste considerazioni sembrano essere meno cogenti di quanto sem-
brino. Non si potrebbe rammentare che anche i colori li collochiamo nelle cose, anche se
abbiamo buone ragioni per sostenere che le cose colorate non sono, ma suscitano in noi
le sensazioni che ce le fanno apparire tali? Insomma: se ci disponiamo sul terreno causale
non sembra essere difficile trovare una spiegazione per venire a capo della localizzazione
delle propriet espressive poich non difficile trovare situazioni di natura percettiva in
cui si proiettano gli effetti sulle cause, lo stato psicologico indotto sulla realt che lha
suscitato. Diciamo sereno un paesaggio perch ci rasserena, proprio come diciamo giallo
un limone perch determina in noi proprio questa sensazione cromatica ecco tutto. Cer-
care invece la causa del giallo che percepisco nel limone nellessere giallo del limone o
del mio rasserenarmi di fronte ad un paesaggio nel suo essere sereno vorrebbe dire per-
dersi in considerazioni oziose. Se vedo giallo il limone non a causa del suo essere giallo,
ma perch la sua scorza riflette certe onde luminose cui il mio sistema percettivo reagisce
proprio cos facendomi avere proprio questa percezione determinata. Ed uno stesso di-
scorso vale per la serenit del paesaggio che mi rasserena non in virt del suo essere se-
reno, ma perch ha un insieme di propriet fisiche che evidentemente cos agiscono sul
mio sistema nervoso.
Come dobbiamo reagire a queste considerazioni? Riconoscendo, io credo, che vi un
senso in cui esse sono banalmente vere. Certo, un paesaggio sereno , tra le altre cose, un
paesaggio che in certe circostanze sa rasserenarci, e se ci accade deve anche accadere
qualcosa di rilevante sul terreno dei nessi causali. Forse si potr obiettare che il nesso
pi complesso di come labbiamo indicato, che il mio rasserenarmi ha per causa la perce-
zione di quel paesaggio e non direttamente il paesaggio stesso, ma in un qualche senso del
termine di queste considerazioni possiamo disinteressarci e osservare che ovvio che le
cose stiano cos: se qualcosa accade, deve esserci una causa e se ci che accade che la
percezione di x determina lo stato affettivo y, allora y in qualche modo causalmente
connesso a x e alle propriet reali che lo determinano.
ovvio, appunto: gli eventi hanno una causa e tra questi eventi debbono esserci anche
gli accadimenti psichici che animano la soggettivit. Che poi sul terreno delle cause ci si
imbatta in una nozione di realt che in linea di principio sorda alle determinazioni dei
nostri vissuti soggettivi un fatto relativamente ovvio, di cui non poi il caso di lamen-
tarsi o di stupirsi. Le cose stanno appunto cos, e tuttavia sarebbe un errore credere che
questo sia sufficiente per riconoscere la validit della teoria causalistica. Ci che essa
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afferma non il fatto, in s ovvio, che se qualcosa ci appare in un certo modo, allora vi
sono cause del suo apparirci cos, ma che non abbiamo altro modo di parlarne se non
alludendo a quelle cause e che non possibile addurre una qualche diversa ragione per
giustificare il nesso che sussiste tra ci che avvertiamo e ci che si manifesta.
Vorrei chiarire questo punto con un esempio che ha una sua origine illustre. C un
passo nel Fedone in cui Socrate, per rispondere a Cebete, sente il bisogno di avanzare una
critica alle teorie naturalistiche di Anassagora e lo fa tracciando una distinzione impor-
tante: la distinzione tra lordine delle ragioni e lordine delle cause. Anassagora parla di
una ragione che tutto guida, ma sembra poi essere cieco a questa distinzione:
mi pareva che egli facesse precisamente come uno che, mentre dice, per esempio,
che Socrate, tutto quel che fa, lo fa con la mente, quando poi si tratta di spiegare le
cause di ogni mio gesto, se ne esce col dire che io sto seduto perch il mio corpo
fatto di ossa e di muscoli e che le ossa son rigide e hanno le articolazioni che le
separano le une dalle altre, mentre i muscoli son fatti in modo che si possono tendere
e allentare, che essi circondano le ossa insieme alla carne e alla pelle che tutto rac-
chiude e che, quindi, grazie alle ossa che fanno leva sulle loro giunture e ai muscoli
che si tendono e si allentano, io ho la possibilit di piegare le membra e che, quindi,
per questo motivo, ora sto qui seduto con le gambe piegate. E del fatto che io ora sto
parlando con voi, potrebbe tirare in ballo un sacco di cause simili, la voce, per esem-
pio, laria, ludito e altre del genere, ma non quelle che sono le vere ragioni, cio
che, siccome gli ateniesi han pensato bene di condannarmi, io, a mia volta, ho rite-
nuto che fosse pi opportuno restarmene seduto qui e pi giusto subire la pena che
essi hanno decretato. Ah, vi assicuro, perdinci, che queste ossa e questi muscoli sa-
rebbero, a questora, gi a Megara o in Beozia, sicure che l sarebbero state certo
assai meglio, se io non avessi, invece, ritenuto pi giusto e pi bello, anzich tagliare
la corda e fuggire, pagare alla patria qualunque pena essa mi avesse inflitto. Chia-
mare cause tutte queste cose, mi sembra proprio unassurdit: al massimo uno pu
dire che, senza ossa, senza muscoli e tutto il resto, io non potrei fare ci che voglio,
ed avrebbe ragione, ma affermare che di tutto ci che faccio che pure il frutto di
un mio pensiero la causa sono i muscoli e le ossa e non la conseguenza di una
scelta del meglio, proprio un voler deformare il senso delle parole. Perch questo,
infatti, significa non capire che una cosa la causa vera e propria e unaltra la
condizione senza la quale la causa non potr mai essere tale (Platone, Fedone, ).
Platone distingue tra cause e condizioni, ma forse farebbe meglio a distinguere tra ragioni
e cause se non lo fa perch il ragionamento in cui si imbatte gli appare in una luce
particolare che determinata dallincontrastata priorit della dimensione ideale delle ra-
gioni su quella reale delle cause. Si tratta tuttavia di una distinzione importante: vi sono
cause per le quali accade che Socrate sia seduto (muscoli e tendini e ossa disposte in un
certo modo) e vi sono ragioni della sua scelta (il suo accettare le leggi della patria), cos
come ci sono cause del mio dire che 4 il risultato della somma di due a due (una certa
successione di stati cerebrali) e ragioni per giustificare una simile asserzione. Ora ricono-
scere che ci sono cause non significa negare che vi siano ragioni: le une e le altre appar-
tengono ad ordini profondamente distinti e non vi nulla di contraddittorio nel riconoscere
che vi sono ragioni che giustificano le nostre decisioni e cause di cui esse sono gli effetti.
Daltro canto, affermare che possono esservi ragioni di un accadimento non significa che
debbano esservi necessariamente: il calore fa espandere il mercurio che si innalza nella
cannula del termometro e questo un accadimento per cui vi appunto una causa, ma
non avrebbe senso cercare anche una ragione. Gli accadimenti fisici hanno solo cause:
cercare ragioni sarebbe in questo caso del tutto fuori luogo.
di qui che dobbiamo muovere per comprendere il nerbo della teoria causalistica. Chi
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sostiene che una melodia musicale sia malinconica perch capace di ridestare in chi
lascolta uno stato affettivo corrispondente non si limita a sostenere che vi un piano
causale questa appunto unovviet ma ritiene che si possa anche affermare che non
ha senso cercare altra spiegazione se non questa. Posso dire perch mi rallegro se tu sei
felice, ma non posso dire perch provo malinconia quando sento un adagio: qui non c
spazio per ragioni, ma solo per cause, laddove nel primo caso alla dimensione causalistica
sembra legittimo affiancare una considerazione tutta interna allo spazio logico delle ra-
gioni.
Per rendere plausibile questa tesi forse opportuno mostrare, in primo luogo, che non
affatto vero che la sfera delle nostre emozioni si rapporti agli oggetti della nostra espe-
rienza attraverso la mediazione di unistanza cognitiva e razionale che, attestata la pre-
senza e lesistenza di un determinato oggetto, lo pone come motivo di un atto emotivo
determinato. Certo, posso aver paura di un cane feroce e questo timore evidentemente
legato al mio credere che quel cane esista, ma sarebbe sbagliato credere che le cose stiano
sempre cos. Le emozioni sono spesso sganciate da qualsiasi valutazione razionale e pos-
siamo provare paura anche quando sappiamo che non ci sono ragioni per temere alcunch:
posso avere paura anche se cammino vicino a un precipizio ben recintato, anche se so che
non c nessun pericolo e le fobie ci mostrano che vi sono paure irrazionali che non pos-
sono essere analizzate come risposte razionali a ci che ci cognitivamente dato. E gioie
irrazionali: qualche volta siamo felici senza averne alcun motivo.
Del resto, che non si possa venire a capo della dimensione emozionale semplicemente
rammentando la relazione razionale che lega le emozioni ai contenuti cognitivi che le
sorreggono un fatto in cui ci imbattiamo quando riflettiamo sul fatto che in una poesia
o in un film non sono certo solo le proposizioni espresse a veicolare emozioni: anche il
ritmo o la musica o la scelta delle luci e delle ombre ridesta sensazioni che determinano
la nostra vita emozionale. Di qui la conclusione verso cui convergono queste considera-
zioni su cui Derek Matravers si soffermato in un bel libro, intitolato Art and Emotion.
Le rappresentazioni, per Matravers, ridestano emozioni in chi ne fruisce, ma le suscitano
non soltanto in virt del loro contenuto, ma anche in ragione dei loro aspetti non rappre-
sentazionali: un testo pu emozionarci per la sua forma, per il suono delle parole, per il
ritmo del loro incedere o per la loro musicalit, e per molte altre determinazioni che non
appartengono al contenuto proposizionale dellopera. Si tratta di unovviet, che deve tut-
tavia essere sottolineata perch ci consente di constatare come le emozioni debbano essere
caratterizzate nel loro aspetto complessivo non solo da credenze, ma anche da una dimen-
sione affettiva: ogni emozione dunque caratterizzata anche da stati affettivi (feelings)
che ne determinano la natura e ne definiscono lidentit:
as an emotion is partly constituted by a feeling, and as a feeling can be affected
directly by properties other than a representations representational properties, these
properties will affect the identity of the resultant emotion. The lighting and music of
a Dracula film might cause a feeling of disgust. This feeling, together with various
propositions the observer is caused to imagine by the film, might cause revulsion.
The propositions, however, might not have been sufficient to cause revulsion; they
might equally have caused fear. Hence, the non-cognitive reaction, disgust, has par-
tially determined the identity of the felt emotions (D. Matravers, Art and Emotion,
At the Clarendon Press, Oxford 1998, p. 92).
Il senso di queste considerazioni relativamente chiaro. Il carattere di unemozione di-
pende in linea di principio dal carattere peculiare degli stati affettivi che la determinano.
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Vi sono tuttavia stati affettivi che non traggono la loro origine da contenuti rappresenta-
tivi, ma da componenti come la sonorit o il ritmo o il colore: ne segue, per Matravers,
che le emozioni che unopera darte ridesta non possono essere interamente comprese
disponendosi sul terreno cognitivo. Un racconto pu sembrarci triste e dimesso non solo
per il suo contenuto, ma anche per la sua forma; la forma tuttavia non ci sembra triste
perch ha un contenuto triste, ma solo perch sostiene Matravers sa ridestare in noi il
carattere della tristezza. Un ritmo lento non ha una connessione razionale con la tristezza,
ma la ridesta in noi; di qui, per Matravers, la necessit di abbandonare una concezione
cognitivista e di abbracciare accanto ad essa una teoria del ridestamento, una arousal
theory.
Va da s che la musica sembra essere il terreno pi indicato per mostrare che cos stanno
le cose perch la musica non ha, in generale, un contenuto semantico determinato, non ci
parla di persone e accadimenti e non descrive paesaggi o citt lontane. Certo, qualche
volta accade cos e qualche volta i musicisti si avvalgono di titoli allusivi Debussy inti-
tola una sua opera famosa Il mare e vi sono Notturni e Pastorali ma spesso si tratta
soltanto di suggestioni e nella norma la musica non n descrittiva, n tanto meno narra-
tiva. Ma se la musica non pu avere un carattere espressivo in virt di quello che dice,
sembra necessario riconoscere che per il filosofo cognitivista resta aperta solo una via per
eludere unimpostazione causalistica: deve sostenere che il carattere espressivo di un
brano musicale poggia su un falso riconoscimento. Deve in altri termini riconoscere una
qualche somiglianza tra strutture del linguaggio musicale e ci che pi propriamente ci
consente di applicare il linguaggio delle emozioni e cio il comportamento umano: una
musica triste dovr essere allora simile ad un lamento, un ritmo malinconico ad una ge-
stualit esangue, e cos di seguito. Ma si tratta di una tesi che sembra essere non soltanto
vaga, ma decisamente poco plausibile perch sembra vincolare lafferramento della di-
mensione espressiva della musica ad una somiglianza che non abbiamo affatto limpres-
sione di cogliere. Di qui la proposta di Matravers, una proposta che ci invita a dimenticare
la dimensione cognitiva e a sostenere che se percepiamo come triste un brano musicale o
una poesia e come serena una notte destate solo perch luna e laltra ridestano in noi
determinati vissuti che, a loro volta, determinano causalmente linsorgere di quelle cre-
denze che ci consentono di attribuire ad una musica o ad un paesaggio un insieme di
emozioni di rappresentarcele appunto come tristi o come serene:
the alternative account [] is that our application of an emotion term to a poem is
grounded in the fact that the poem arouses feeling similar to those which we would
feel were we confronted with a person expressing that emotion. Art is expressive
because it arouses feelings characteristic of our reactions to people who are express-
ing emotion. The arousal of these feelings causes the belief that the work expresses
that emotion to which these feelings form part of the characteristic response (ivi, p.
98).
Di qui Matravers trae alcune considerazioni di carattere generale. La prima concerne la
natura delle emozioni che la musica pu in generale esprimere. Per Matravers non vi sono
dubbi: queste emozioni devono essere caratterizzate da una certa astratta generalit poich
di fatto sorgono non da una comprensione di un evento, ma dal riconoscimento di una
sensazione la sensazione che le accompagna. Insomma: se una musica ci sembra malin-
conica solo perch ridesta causalmente un certo vissuto che solitamente si accompagna
alla malinconia. Ad una malinconia prototipica e inarticolata:
If the arousal theory were correct, then, we would expect expressive judgments
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to describe works in fairly general terms. This is, in fact, what we do find. As Mal-
colm Budd says, musics ability to express emotion should not be exaggerated: the
scope of the musical expression of emotion is not the complete field of the emotions,
and unless a literal conception of states that involve emotion is adopted the list of
kinds of emotion that musicthe music we are familiar withcan express is em-
barrassingly short. (Budd 1989: 129) The main point here is that the list of kinds
of emotion that music can express is embarrassingly short. A brief and unsystem-
atic review of music criticism (on the program note level, these being descriptions
intended to capture the experience of music) supports this view. Certain emotion
terms occur with much greater frequency than others. Among the most popular
we find terms such as: melancholy, gay, gloomy, joyful, and calm. Thus the problem
for the arousal theory is not as might have been supposed. If there are only a
small number of kinds of expressive judgment, there need be only a small number
of distinct kinds of feeling aroused by music. This, it seems to me, is very probably
true. In brief, the central case provides us with characteristic links between emotions
expressed and emotions aroused at a level of generality characteristic of expressive
judgments (ivi, p. 153).
Una seconda caratteristica su cui opportuno richiamare lattenzione , per Matravers, il
carattere pragmatico della prassi artistica. In fondo, il musicista che opera con le note non
fa altro che aggiungere ingredienti al suo prodotto, sino a quando il risultato gli sembra
apprezzabile. Certo, il musicista ha imparato per esperienza quale effetto solitamente si
lega ad un suono piuttosto che a un altro, ma questo non toglie che la sua prassi resta in
un certo senso cieca: non pu dire perch le note agiscono cos, ma pu constatare la loro
specifica azione. I suoni sono sostanze che agiscono in un certo modo e cos come ab-
biamo imparato per prove ed errori che una certa erba aveva un potere rilassante ed unal-
tra un potere digestivo, cos lartista deve scoprire che effetto fanno suoni e colori, oppor-
tunamente mescolati:
The artist presents a prima facie problem for the arousal theory which we are now in
a position to solve. The problem is that if the basic properties which make a work of
art express an emotion can only be defined by the fact that they cause certain emo-
tional experiences, how can anybody know what those properties are in advance of
their causing those experiences? In other words, how would it be possible for an
artist to know in advance what properties to put into a picture in order to make it
express a certain emotion, if knowing that it did so depended on its being experi-
enced ?The analogy with secondary qualities shows why this is not a problem in
principle for the arousal theory, merely a problem in practice for the artist. For we
saw, when considering colour, how it is possible for someone to know that a primary
property causes (or primary properties cause) a particular secondary quality, and
then to use that knowledge to produce something with that quality. That is, a colour
chemist is someone who knows how to produce an object which will cause a partic-
ular colour experience by reflecting, emitting, or transmitting light of the right fre-
quency; and there is nothing mysterious about the inductive processes by which paint
manufacturers and others come by such knowledge. A colour chemist is, in this re-
spect, analogous to someone who is able to create an emotionally expressive work
of art. Part of being a skilled artist is knowing how to manipulate the medium in
which you are working so as to cause the right kind of emotional experiences in a
qualified observer in perceptually normal conditions. This is not, of course, to deny
that this process will differ significantly from the much simpler process of producing
red paint. In particular, artists may not need to be self-consciously aware of what
they are doing in creating a certain work: it is no part of my claim that the artists
knowledge must be propositional knowledge that as opposed to knowledge how
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(ivi, pp. 216-217).
Non c insomma un progetto espressivo che si legga nei suoni e nei colori, ma c un
agire cos, di cui si deve semplicemente prendere atto. I suoni agiscono cos: un adagio di
Bach ci rende malinconici, ma avrebbe potuto andare diversamente ed per questo che il
pittore, il poeta e il musicista debbono assaggiare spesso la loro opera, per controllare che
cosa accaduto.
Vi poi una terza conseguenza che opportuno trarre e che Matravers non trae, anche
se tutto fa pensare che la consideri ovvia. Unopera darte agisce su di noi e il suo senso
si esaurisce proprio in questo: nel suo essere un dispositivo che determina certi stati emo-
tivi. In questo senso il paragone con lerborista davvero calzante. Un quadro fa un certo
effetto, proprio come possono farlo certe erbe o certi funghi che ci fanno provare per un
certo tempo certe sensazioni. Il poeta prepara la sua pozione e il lettore la legge e si lascia
travolgere dalle emozioni, finch rime e metro fanno il loro effetto. Di pi non si pu
chiedere, ed in effetti in linea di principio possibile pensare di sostituire una sinfonia
con una droga: se il compito quello di ridestare in noi determinati stati sensibili e, me-
diatamente, determinate emozioni elementari, allora ci che conta soltanto il risultato.
Un brano musicale un kit per emozioni che potremmo procurarci anche altrimenti, se
solo ne fossimo capaci o se solo avessimo le sostanze giuste a portata di mano.
Colori, suoni e forme scriveva Kandinsky in Lo spirituale nellarte sono mezzi che
ci consentono di esercitare un influsso diretto sullanima che possiamo proprio rappresen-
tarci come un pianoforte dalle molte corde che vengono sollecitate dai tasti e dai martel-
letti della nostra sensibilit. E ci che un suono esprime pu essere espresso da un colore
o da una forma o da unimmagine poetica o da un passo di danza una specificit delle
arti e della loro valenza espressiva non vi : ci che conta per Kandinsky il suono
interiore, la corda toccata e fatta risuonare, non la mano che ha toccato il tasto. Ma se per
Kandinsky questa concezione causalistica dellagire dellarte si legava al progetto di
unarte totale in cui suoni, colori, forme, corpo e parola poetica si fondessero in unico
disegno, in Matravers lidea causalistica si traduce in una sostanziale negazione della sen-
satezza dellarte cui non si chiede di farci comprendere nulla, ma solo di farci provare
degli stati affettivi non importa come.
2. Considerazioni critiche
Nella prima parte di questa lezione abbiamo cercato di rendere conto della tesi causali-
stica, ma il nostro sforzo di natura espositiva si passo dopo passo caricato di accenti
critici. In modo particolare, nelle ultime osservazioni sul testo di Matravers mi sembrato
necessario indicare un punto di dissenso su cui vi invito a riflettere. Io non credo che un
quadro o un brano musicale o un balletto possano essere intesi soltanto cos come stru-
menti che ridestano una qualche emozione. In un certo senso, non questa lesperienza
dellarte che mi sono fatto. Certo, un quadro sollecita delle emozioni e ci fa sentire qual-
cosa, ma questo non significa che non si possa dire nullaltro se non questo: che agisce su
di me, come una sostanza chimica che fa sorgere in noi determinati stati affettivi. I colori
e le forme non sono il martelletto che fa risuonare la corda, con buona pace di Kandinsky,
ma sono innanzitutto parte della nostra esperienza del mondo che risuona e traluce in essi.
Non so perch il paracetamolo sia un antipiretico, ma non c bisogno di saperlo perch
possa usarlo quando ho la febbre, ma mi sembra di sapere bene perch un adagio di Bach
malinconico e mi sembra, ascoltandolo, di capire molte cose sulla malinconia e sui pen-
sieri che possono motivarla. Kant aveva ragione: la dimensione espressiva dellarte non
pu essere assimilata alla dimensione causale. Il vino delle Canarie piacevole perch
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suscita in me uno stato piacevole, ma proprio perch il piacere suscitato in questo caso
(almeno per Kant) secondo il nesso di causalit, non possibile scorgere nello stato che
proviamo una regola che ci insegni un nuovo atteggiamento rispetto al nostro mondo e
alla nostra vita. Per Matravers accade cos: un minuetto causa un certo stato danimo di
serenit, ma non c nulla di pi di questo. Non c nulla da capire e non c nulla da
pensare. E sarebbe evidentemente sciocco cercare di convincere qualcuno del fatto che un
adagio di Bach esprime una malinconia diversa (e direi pi profonda) di uno di Liszt
sarebbe sciocco, perch non ha alcun senso chiamare in questo caso in causa il linguaggio
della persuasione. Ancora una volta forse opportuno rammentare la distinzione kantiana
tra discutere e disputare. Non si pu disputare dellarte perch non abbiamo argomenti
cogenti per dimostrare che le cose stanno cos come riteniamo che stiano, ma possiamo
egualmente discuterne perch ascoltare un brano musicale significa lasciarsi pervadere da
molti pensieri e per quanto questi pensieri siano sfuggenti e concrescano sui suoni, questo
non toglie che sia possibile parlare di unopera musicale, indicare un modo per ascoltarla
e per intenderla. Discutere di unopera darte significa questo: invitare ad ascoltare o a
guardare meglio un passaggio o un gioco di forme, vuol dire fare attenzione a certi mo-
menti, ed eventualmente anche provare a coglierli alla luce di un qualche contesto di pen-
sieri e di idee. Del resto, ci che vero per lascoltatore, vale anche per chi esegue un
brano musicale o per chi lo legge ad alta voce: lesecutore ci insegna un modo per inter-
pretare ci che abbiamo di fronte e unesecuzione o una lettura ci sembra pi appropriata
o pi scadente non in ragione delle emozioni che sorgono in noi ascoltandola, ma alla luce
del senso che attribuiamo a ci che ascoltiamo.
Non solo. Per Matravers unopera darte x ha un valore espressivo peculiare p se e solo
se in condizioni normali ridesta in uno spettatore competente una sensazione o una serie
di sensazioni determinate. Diciamo in altri termini che una musica triste se e solo se un
ascoltatore esperto prova le stesse sensazioni che, in circostanze normali, proverebbe
quando, si trovasse di fronte ad una persona triste. Si tratta di una definizione relativa-
mente ovvia e necessaria se vogliamo poter parlare del valore espressivo per esempio di
questa sonata e non solo delleffetto che provoca in me, ma si tratta egualmente di una
considerazione che non pu non lasciare perplessi perch in un certo senso non affatto
chiaro che cosa voglia dire ascoltatore competente in questo contesto poich compe-
tente sembra essere una caratteristica che si attaglia ad un nesso cognitivo, non ad una
mera relazione causale. Una medicina non ha un effetto curativo solo su pazienti compe-
tenti: il detto evangelico medice cura te ipsum non significa davvero questo!
E ancora. Se qualcuno ritenesse che abbiamo mal compreso un quadro, ci inviterebbe
a guardare con pi attenzione quel gioco di colori, quel movimento di linee e di corpi - ci
inviterebbe, insomma, a guardare meglio, ma non affatto chiaro che cosa possa voler
dire nel contesto delle considerazioni di Matravers un simile discorso. Se il nesso mera-
mente causale pu certo capitare che, nel tempo, muti anche la percezione che di qualcosa
abbiamo: ascoltando sempre di nuovo la stessa melodia, pu accadere che il suo effetto
cambi, un po come cambia leffetto della caffeina, quando ci siamo abituati ad essa. Se
ci si pone in questa prospettiva, tuttavia, non avrebbe alcun senso dire che, dopo averla
sentita e risentita, abbiamo compreso meglio una qualche sonata: dal punto di vista cau-
sale, ogni nuovo ascolto un nuovo evento e proprio per questo non pu porsi come una
critica o come una correzione o anche solo una conferma di un altro precedente accadi-
mento. Ora un brano fa su di me questeffetto, ora ne fa un altro, ma le piccole differenze
che si susseguono non possono insegnarci nulla: sono soltanto eventi diversi. Le gocce
che cadono da un rubinetto che perde fanno ciascuna un rumore un poco diverso, ma
sarebbe privo di senso chiedersi se nel ripetersi, recitano e interpretano sempre meglio
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uno stesso copione.
Disporsi in una prospettiva causalistica e intendere le opere darte come se fossero sol-
tanto dei dispositivi per ridestare unemozione determinata vuol dire anche rendere diffi-
cilmente comprensibile la ragione per la quale dovremmo sottoporci ad opere darte che
suscitano in noi sensazioni sgradevoli. Perch mai dovremmo guardare un quadro come
Lurlo di Munch o come la gara di flauto tra Marsia e Pan di Tiziano? Nessuno si mette
volontariamente un sassolino nella scarpa per avvertire il fastidio che provoca e non esi-
stono medicine per farsi venire il mal di testa. Si cerca di procurarsi uno stato piacevole,
ma tutti invece vogliamo procedere nella lettura dellEdipo anche se sappiamo che ci rat-
trister lo sappiamo, ma siamo insieme sicuri che impareremo qualcosa dei sentimenti,
della vita, del nostro mondo. Ed uno stesso ordine di considerazioni vale per la musica o
per la pittura.
Vi infine una difficolt su cui opportuno soffermarsi. Kandinsky e la poetica del
colore. Una versione monolitica. Il dogmatismo implicito nella prospettiva causalistica.
Le variazioni sul bianco. Nella prospettiva causalistica difficile capire come possa ac-
cadere. Guardare alla stessa cosa con diverse prospettive. Ora come lo dici anche questa
via sembra preclusa alla arousal theory.
Credo che il senso di queste considerazioni sia ben chiaro. Tutte convergono verso
ununica meta: se ci poniamo nella prospettiva delle teorie causalistiche dobbiamo rinun-
ciare senzaltro al linguaggio cognitivo di cui normalmente ci avvaliamo quando ci rap-
portiamo ad unopera darte. Non possiamo chiedere di guardare meglio o di ascoltare pi
attentamente, cos come non possiamo ricrederci su unopera o convincerci sempre di pi
della sua bellezza. Non possiamo insomma comprendere un brano musicale o un quadro,
ma possiamo solo sperare che ci piaccia proprio come quel vino delle Canarie di cui
Kant ci parlava.
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LEZIONE SESTA
1. Le teorie proiettive: un nesso associativo?
Le considerazioni che abbiamo appena svolto ci hanno mostrato quali siano le ragioni che
rendono poco persuasiva la tesi secondo la quale le propriet espressive sarebbero deter-
minate causalmente e non vi sarebbe nullaltro da dire se non prendere atto che le cose
stanno cos che le note di un concerto ci rendono tristi o che i colori e le forme di un
dipinto sollecitano in noi un umore allegro. Da queste tesi abbiamo ritenuto fosse neces-
sario prendere commiato per diverse ragioni, ma soprattutto perch rendono inapplicabile
un linguaggio che ci sembra invece accompagnare necessariamente la nostra esperienza
di spettatori attenti di un quadro o di un concerto: il linguaggio cognitivamente atteggiato
che ci consente di dire che abbiamo ascoltato meglio un certo brano o che abbiamo com-
preso pi approfonditamente un dipinto il linguaggio insomma che non risolve la di-
mensione espressiva in un effetto da constatare, ma ne fa piuttosto un obiettivo da rag-
giungere.
Di qui la mossa che sembra necessario compiere: se vogliamo restituire la sfera delle
propriet espressive ad un linguaggio cognitivamente atteggiato sembra necessario porre
la loro genesi su un terreno che non sia meramente causale, ma appartenga al terreno delle
dinamiche dellesperienza. Le propriet espressive devono essere spiegate su un terreno
che da un lato non ci costringa a sostenere che una musica sia davvero triste e un paesaggio
davvero sereno, ma che dallaltro ci consenta di giustificarle come momenti della nostra
vita desperienza. di qui che le teorie proiezionistiche sembrano trarre la loro giustifi-
cazione: se percepiamo una dimensione affettiva anche l dove non crediamo che vi sia
propriamente spazio per emozioni e per affetti, allora questo segno del fatto che la sog-
gettivit proietta sulle cose le emozioni e gli affetti che prova e ci quanto dire che alla
domanda sul perch un brano musicale o un paesaggio ci appare ricco di una sua valenza
espressiva si pu rispondere indicando quale sia la ragione che spinge lio a proiettare
sulle cose le propriet espressive di cui facciamo esperienza.
Ora il modo pi semplice per giustificare una attribuzione proiettiva ci riconduce alla
tematica dei nessi associativi: se un paesaggio ci sembra sereno, ma non possibile pen-
sare che lo sia realmente e se non ci si vuole limitare ad asserire che il vissuto affettivo
della serenit ridestato causalmente in noi dallesperienza percettiva di cui siamo testi-
moni, allora perch non sostenere che la serenit che avvertiamo soltanto il frutto di un
nesso associativo, di un rimando che nel tempo si venuto consolidando e che ora lega
nelle maglie strette dellabitudine ci che vediamo a ci che abbiamo tante volte provato
in circostanze simili. In fondo, che cos stiano le cose ci sembra essere qualche volta del
tutto evidente: ci sono luoghi che ci sembrano lieti e sereni perch vi abbiamo serenamente
trascorso momenti felici e ora non possiamo rivederli senza che si faccia avanti non gi il
ricordo effettivo di ci che un tempo accaduto, ma solo laura emotiva che ha accompa-
gnato le nostre vicende passate. Certi luoghi ci predispongono ad essere sereni, e questo
fatto che abbiamo sperimentato tutti pi volte sembra essere un segno evidente della pos-
sibilit di interpretare in una chiave proiettivo-associativa le propriet espressive di cui
discorriamo. Del resto, a tutti capitato che una serie di eventi sgradevoli abbiano can-
cellato il carattere lieto di un luogo o di un posto: quella casa ci era cara, ma adesso ci
parla di ricordi tristi; quella strada che abbiamo percorso mille volte ci era indifferente e
ora invece ci sembra sgradevole e deprimente. Accade cos, ma se cos pu accadere
solo perch di per s una casa o una via non hanno un loro carattere espressivo, ma lo
ricevono perch si legano associativamente ad una serie di vissuti che hanno altrove la
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loro origine. Ora, il legame associativo si fonda sullabitudine; labitudine, tuttavia, per
sua natura un meccanismo umbratile che chiede di operare solo quando la soglia della
consapevolezza si ottunde. Le abitudini ripetono da sole la loro cantilena e non vi biso-
gno di partecipare attivamente alle loro operazioni. Di qui la loro capacit di ingannarci:
ci che suggeriscono alla nostra mente ci sembra di trovarlo direttamente negli oggetti
perch non siamo consapevoli di ci che ci accade: vediamo un paesaggio e ci sentiamo
pervasi da uno stato danimo peculiare. Lassociazione che labitudine stringe in un nodo
inconsapevole diviene cos una proiezione inavvertita: crediamo di trovare nelle cose di
cui abbiamo esperienza ci che vi abbiamo inconsapevolmente messo.
Non difficile scorgere dietro queste forme argomentative uneco humeana. Un nesso
obiettivo apparente deve rivelarsi infine un nesso soggettivo di cui labitudine nasconde
lorigine psicologica: cos che Hume spiega i nessi causali. Sul piano obiettivo inutile
cercare cause ed effetti perch un simile nesso non vi o comunque non dato esperirlo:
di qui la necessit di cercare una genesi della causalit sul terreno immanente della co-
scienza. Se ci poniamo in questa prospettiva non difficile dire che cosa per Hume carat-
terizzi il nesso causale. Per farlo del resto sufficiente descrivere accuratamente un pos-
sibile esempio:
Here is a billiard ball lying on the table, and another ball moving towards it with rapidity. They strike;
and the ball which was formerly at rest now acquires a motion. This is as perfect an instance of the
relation of cause and effect as any which we know, either by sensation or reflection. Let us therefore
examine it. It is evident that the two balls touched one another before the motion was communicated,
and that there was no interval betwixt the shock and the motion. Contiguity in time and place is therefore
a requisite circumstance to the operation of all causes. It is evident, likewise, that the motion which was
the cause is prior to the motion which was the effect. Priority in time is therefore another requisite
circumstance in every cause. (D. Hume, An Abstract of a Treatise of human nature) .
Sul tavolo ci sono due biglie e la seconda si muove quando la prima la urta: gli eventi
debbono dunque essere contigui, altrimenti dovremmo accettare che vi sia un nesso cau-
sale anche quando il movimento delluna si origina prima che laltra labbia raggiunta.
La contiguit spaziale, tuttavia, non basta: perch si possa parlare di una relazione di
causalit necessario che gli eventi esibiscano una peculiare forma di ordinamento tem-
porale ed in modo particolare ci che chiamiamo causa deve accadere prima di ci che
chiamiamo effetto. Dunque contiguit e priorit temporale: questo ci che possiamo
cogliere nellesempio che abbiamo proposto. Da un punto di vista fenomenologico di pi
non vi :
Avendo cos scoperto, o supposto, che le due relazioni di contiguit e di successione
sono essenziali a quella di causalit, mi accorgo che sono costretto a fermarmi e che,
quale che sia il caso particolare di causalit, non posso aggiungere altro. Il movi-
mento di un corpo considerato come la causa, in seguito a un urto, del movimento
dun altro corpo. Considerati questi oggetti con la massima attenzione, trovo che
luno si avvicina allaltro, e che il suo movimento precede quello dellaltro, sebbene
senza un sensibile intervallo. inutile torturarsi con ulteriori pensieri e riflessioni:
qui tutto quello che si pu osservare in questo caso. (D. Hume, Trattato sulla na-
tura umana, op. cit., p. 89; - libro I, parte III, 2).
A queste due condizioni di carattere generale se ne deve affiancare una terza che tuttavia
non si radica nella dimensione fenomenologica di un evento causale, ma emerge quando
ci chiediamo quale altra condizione debba essere rispettata perch si possa parlare di cau-
salit e non di una qualsiasi successione di eventi. Per Hume la risposta a portata di
mano:
But this is not all. Let us try any other balls of the same kind in a like situation, and we shall always
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find that the impulse of the one produces motion in the other. Here, therefore, is a third circumstance,
viz. that of a constant conjunction betwixt the cause and effect. Every object like the cause produces
always some object like the effect. Beyond these three circumstances of contiguity, priority, and con-
stant conjunction, I can discover nothing in this cause. The first ball is in motion; touches the second;
immediately the second is in motion: and when I try the experiment with the same or like balls, in the
same or like circumstances, I find that upon the motion and touch of the one ball, motion always follows
in the other. In whatever shape I turn this matter, and however I examine it, I can find nothing farther
(D. Hume, An Abstract..).
Si tratta di una constatazione plausibile. In effetti, se fosse accaduto soltanto una volta che
un corpo in movimento ne urtasse uno fermo e determinasse poi il movimento di questul-
timo, noi non parleremmo di una relazione causale. Perch si possa dire di due eventi che
sono causalmente connessi non basta la contiguit spaziale e la priorit temporale delluno
rispetto allaltro: necessario anche che il loro essere in questo modo congiunti esibisca
una manifesta ripetibilit. La congiunzione deve essere costante perch il concetto di
causa non tollera eccezioni: in circostanze simili debbono accadere eventi simili.
Debbono appunto: la relazione causale sembra racchiudere in s lidea di un vincolo che
la natura pone allaccadere, di una regola che sottrae al divenire temporale la sua apertura,
per ancorarlo ad un corso stabile e prevedibile degli eventi. Il vincolo causale un vincolo
necessario questo il punto, e il rimando alla necessit come caratteristica implicita
nella struttura di ogni relazione causale evidentemente il fondamento del carattere infe-
renziale della causalit. Hume sembra dunque ragionare cos: il nesso causale implica la
ripetibilit senza eccezioni; la ripetibilit senza eccezione indice della necessit; la ne-
cessit a sua volta sostiene la possibilit dellinferenza ed per questo che la causalit ci
consente di inferire dallaccadere di un evento lesserci stato della sua causa o il futuro
esserci di un suo effetto.
Questo modo di argomentare , credo, del tutto plausibile, ma ci pone egualmente un
problema perch non affatto chiaro quale possa essere il fondamento su cui tale necessit
poggia. Non si tratta di una necessit che possa ricondurci, come sappiamo, ad una qual-
che ipotesi metafisica concernente la struttura profonda della realt: la necessit di cui
discorriamo deve giustificare la nostra inferenza e ci quanto dire che deve in linea di
principio appartenere allo spazio logico delle ragioni. Una necessit inattingibile non vale
come giustificazione di uninferenza. Ma se le ragioni della metafisica non possono gui-
darci, non lecito nemmeno tentare di venire a capo del problema di cui discorriamo
assimilando le inferenze causali alle inferenze logiche. Inferire causalmente non significa
dedurre logicamente e per rendersene conto sufficiente riflettere sul fatto che il legame
causale non razionalmente perspicuo. Del resto, che non si tratti di uninferenza logica
lo si coglie non appena richiamiamo lattenzione sul fatto che non vi nulla che ci impe-
disca di pensare che un evento accada senza una causa. Possiamo immaginare che le cose
stiano proprio cos che ci che ora accade sia semplicemente accaduto e che sia sorto
senza dover nulla a nessuno. Posso, in altri termini, separare lidea di un accadimento da
ogni domanda sulla sua origine e da ogni idea di una causa che labbia posto in essere e
ci quanto dire che il legame causale pu essere infranto senza che per questo si dissolva
unimmagine possibile del mondo.
A queste considerazioni di natura argomentativa, Hume sente il bisogno di affiancare
una sorta di esperimento mentale in cui non difficile scorgere il fascino settecentesco
per largomento delle origini. Immaginiamoci allora Adamo e, accanto a lui, un tavolo da
biliardo, anche se lecito dubitare che davvero ve ne fosse uno nellEden almeno prima
che il peccato originale fosse stato compiuto. Poi alle fantasie del primo uomo affian-
chiamo il racconto fantastico della prima partita a biliardo e chiediamoci se Adamo poteva
davvero attendersi che cosa sarebbe accaduto ad una delle sue biglie subito dopo lurto.
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A questa domanda si deve rispondere negativamente:
Were a man, such as Adam, created in the full vigour of understanding, without experience,
he would never be able to infer motion in the second ball from the motion and impulse of the
first. It is not anything that reason sees in the cause which makes us infer the effect. Such an
inference, were it possible, would amount to a demonstration, as being founded merely on
the comparison of ideas. But no inference from cause to effect amounts to a demonstration
(D. Hume, An Abstract...)
una constatazione importante che ci costringe a leggere pi attentamente ci che rac-
chiuso nella terza condizione cui vincolata lattribuzione di un nesso causale ad una
determinata successione di eventi: se Hume parla di esperienza ripetuta non soltanto
perch intende sottolineare che la causalit un legame che non tollera eccezioni, ma
anche perch vuole farci riflettere sul fatto che abbiamo bisogno di fare appello allespe-
rienza passata per poter scorgere il carattere coercitivo delle relazioni causali. Adamo
deve invecchiare per poter cogliere negli accadimenti del mondo il loro essere conformi
al corso del mondo:
It would have been necessary, therefore, for Adam (if he was not inspired) to have
had experience of the effect which followed upon the impulse of these two balls. He
must have seen, in several instances, that when the one ball struck upon the other,
the second always acquired motion. If he had seen a sufficient number of instances
of this kind, whenever he saw the one ball moving towards the other, he would al-
ways conclude without hesitation that the second would acquire motion. His under-
standing would anticipate his sight and form a conclusion suitable to his past expe-
rience (ivi).
Siamo giunti cos, dopo aver compiuto pochi ragionevoli passi, ad una conclusione che
sembra gettarci nelle reti di un paradosso. Per cogliere una relazione causale abbiamo
bisogno di averla esperita pi volte perch solo la ripetizione ci insegna ci che non pu
essere colto al suo primo manifestarsi: Adamo non pu vedere che la biglia A urta e muove
la biglia B, ferma sul tavolo, perch solo il ripetersi dellesperienza pu insegnargli a dare
un significato a quei termini che contengono il riconoscimento implicito di un nesso cau-
sale.
Basta tuttavia riflettere un poco per rendersi conto che la ripetizione di un evento non
pu in linea di principio aggiungere nulla al suo senso. Un evento ripetuto resta appunto
lo stesso evento e la ripetizione in quanto tale non pu modificarne la natura: per quanto
invecchi, Adamo vedr ripetersi sempre le stesse cose e se non vi era necessit nel primo
urto che ha visto non potr nemmeno scorgerla nellultimo cui gli sar dato di assistere:
Dalla semplice ripetizione, anche allinfinito, di impressioni passate, non sorger
mai unidea nuova, originale, come quella della connessione necessaria, e in questo
caso il numero delle impressioni non conta pi di una sola. E tuttavia, per quanto
questo ragionamento possa sembrare giusto e chiaro, sarebbe follia disperare cos
presto. Meglio continuare il filo del nostro discorso; e avendo veduto come dal
costante congiungimento di due oggetti noi inferiamo luno dallaltro, esaminiamo
ora la natura di questa inferenza e del passaggio dallimpressione allidea. Forse ap-
parir in ultimo che la connessione necessaria si fonda proprio su tale inferenza, e
non questa su quella (D. Hume, Trattato sulla natura umana, op. cit., pp. 101-102
libro I, parte III, 6).
La ripetizione ininfluente eppure solo dalla ripetizione sembra sorgere la necessit
ecco il paradosso cui alludevo.
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La soluzione, tuttavia, a portata di mano, anche se non meno paradossale del para-
dosso da cui trae origine. Il rimando allesperienza passata e alla ripetizione degli eventi
non pu certo creare nulla di nuovo sul versante obiettivo poich il ripetersi di una suc-
cessione di eventi non pu in linea di principio aggiungere nulla al loro contenuto: un
nesso che in s contingente non pu che rimanere tale a dispetto del suo ripetersi.
Le cose mutano se dalla dimensione obiettiva dei contenuti muoviamo alla dimensione
soggettiva della mente; qui la ripetizione pu dire la sua perch pu tradursi in unabitu-
dine che ci costringe a ripetere un cammino molte volte intrapreso, a ripeterlo non ap-
pena vediamo compierne i primi passi. La ripetizione non aggiunge nulla alla successione
in se stessa, ma modifica il nostro modo di esperirla perch pu rendere inevitabile lin-
ferenza che dallapparire di un evento conclude allaccadere di un altro, secondo un cam-
mino molte volte percorso nella nostra passata esperienza. La ripetizione crea unabitu-
dine percettiva e labitudine predispone la strada che la mente segue nelle sue inferenze,
costringendoci ad immaginare unidea determinata non appena si manifesta sensibilmente
unimpressione che rammenta un decorso percettivo che si pi volte realizzato.
Uno stesso ordine di considerazioni deve valere anche per le propriet espressive cui
dobbiamo ora senzaltro tornare. Anche in questo caso dobbiamo negare che vi sia un
nesso obiettivo tra la cosa e la propriet espressiva che le attribuiamo: il tramonto non
triste, il minuetto non allegro, ma questo non toglie che a queste scene percettive possano
legarsi nel tempo determinati scenari emotivi che limmaginazione ha imparato a richia-
mare in virt di un nesso sancito dallabitudine. Un nesso obiettivo di causa e di effetto
non vi , ma limmaginazione sembra capace di proiettare sulle cose stesse il suo operare
nascosto. Perch stupirsi allora che le emozioni che abbiamo provato pi volte ascoltando
una musica o guardando un paesaggio finiscano col sembrarci aderenti agli oggetti che
esperiamo? Anche in questo caso ha luogo una sintesi che labitudine cela ai nostri occhi
ed anche in questo caso ci sembra di ritrovare negli oggetti ci che si invece costituito
passo dopo passo nella nostra soggettivit.
Non credo che considerazioni di questa natura possano davvero consentirci di venire a
capo del nostro problema. A renderle poco plausibili sono innanzitutto gli argomenti che
minano alla radice la credibilit delle stesse tesi humeane da cui cos chiaramente deri-
vano. Si potrebbe in primo luogo obiettare che il rimando associativo che dovrebbe con-
sentirci di risalire dal simile al simile e che dovrebbe potersi ripetere tuttaltro che ovvio,
perch di fatto la ripetizione degli eventi non mai esatta e vi sono sempre piccole varia-
zioni che possiamo ritenere irrilevanti solo perch sappiamo gi che cosa rilevante dal
punto di vista del nesso causale. Del resto questa stessa considerazione deve essere fatta
valere anche quando cerchiamo di spiegarci come sia possibile che due idee si leghino
luna allaltra nella memoria. Quando la palla da biliardo urta e mette in movimento una
seconda biglia lidea delluna si lega allaltra come lantecedente al conseguente, ma
quante altre cose potrebbero pretendere lo stesso ruolo se ci accontentassimo delle argo-
mentazioni humeane? Per ogni evento vi sono tante cose che sono contigue nello spazio
e nel tempo, ma noi le escludiamo ed proprio e solo per questo che possiamo trovare
nellesperienza che verr una ripetizione perch abbiamo in qualche misura gi raccolto
in unit il nucleo di quel fenomeno che diciamo ripetersi. E lo abbiamo fatto, in questo
caso, perch ci sembra di sapere che quei due eventi il muoversi delluna e dellaltra
biglia sono connessi in ununica vicenda causale. Proprio questo sapere, tuttavia, do-
vrebbe esserci precluso perch di fatto negato dallargomento di Hume: la relazione di
causa ed effetto implica il rimando allesperienza passata e non si dischiude allo sguardo
innocente di un qualche Adamo. E ancora: vi sono infiniti eventi che si succedono costan-
temente anche se non attribuiamo nessuna inferenza causale. Quando metto la sveglia per
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un viaggio, non so perch ma mi ridesto sempre poco prima che la sveglia suoni; accade
sempre, ma non per questo mi accade di pensare che vi sia tra questi due eventi un rapporto
di causa e di effetto la sveglia non suona perch mi sono appena svegliato. Simili consi-
derazioni valgono anche per il nostro problema. Quando ho visto quel paesaggio mi sono
sentito sereno questo certo; ma certo anche che ero vestito in un certo modo o che era
sera o che avevo da poco cenato e cos via. Tutte queste cose sono certe, ma a quale di queste
infinite circostanze dovrebbe legarsi il mio stato danimo? Non si tratta di una domanda
oziosa: se non percepiamo la serenit del paesaggio, ma solo la serenit e il paesaggio per
quale motivo dovrebbe poi accadere che queste due esperienze si leghino luna allaltra nella
memoria, visto che vi sono infinite altre circostanze che potrebbero pretendere un eguale
riconoscimento? E ancora: se vi fosse qualcuno che inforcasse gli occhiali sempre e solo
quando vuol godere di un paesaggio che lo rasserena, non per questo credo attribuirebbe
agli occhiali una qualche propriet espressiva. Direbbe sereno il paesaggio, non le lenti
ma perch? La risposta sembra del tutto ovvia. Direbbe che sereno il paesaggio perch
non ha dubbi sul contenuto della sua esperienza: perch vede la serenit proprio nel paesag-
gio, e non altrove. Il nodo tra quello che vede e quello che prova non deve stringersi nel
tempo grazie allabitudine, poich fin da principio stretto dal legame dellevidenza.
Del resto, se fosse labitudine che associa casualmente le propriet espressive alle cose
non dovrebbe forse accadere che, con il tempo, ogni nesso si ottunda e venga meno?
davvero pensabile che sia sempre dello stesso umore quando vedo una stessa cosa se non vi
nella cosa stessa il fondamento del mio stato danimo? Dalle finestre di casa mia si vede
un malinconico paesaggio di binari e di treni che a me tuttavia piace e che trovo, strana-
mente, consolante; posso dire tuttavia di averlo sempre osservato quando ero preda della
malinconia? O di averlo anche solo prevalentemente osservato quando ero di quellumore?
E posso dire di aver sempre provato, stranamente, una qualche consolazione? Non credo
che le cose stiano cos e sembrerebbe piuttosto evidente che la maggior parte delle volte in
cui ho osservato quella scena mi sono limitato a guardarla, senza avvertire una qualche
emozione. Ma al venir meno dellabitudine non sembra corrispondere il venir meno della
mia constatazione: i binari che si affiancano gli uni agli altri, in un gioco di arrivi e partenze
mi sembrano malinconici, anche se non provo pi di norma nessuna malinconia quando li
vedo. E che dire quando una stessa scena un paesaggio, il susseguirsi dei movimenti di
una sonata, ci appare in certe parti sereno e in altre inquietante? Come potrebbe, in
questo caso, fissarsi una proiezione associativa che presupporrebbe la ripetizione di un al-
ternarsi casuale di emozioni secondo un ordine definito? Cercare di spiegare unesperienza
cos banale richiamandosi ad una molteplicit di nessi istituiti dallesperienza passata sem-
bra privo di senso.
Basta del resto riflettere un poco per rendersi conto che la spiegazione che abbiamo ap-
pena proposto soffre di unulteriore difetto: proprio perch vincola le propriet espressive
alla storia individuale di chi le osserva, le racchiude nella sua vicenda individuale e le rende
meramente soggettive. In generale, tuttavia, le cose non sembrano affatto stare cos: nella
norma attribuiamo alle stesse scene le stesse valenze espressive. Davanti al sole che tra-
monta proviamo tutti la stessa malinconia, ma ciascuno ha la sua vita e la sua storia ed
davvero poco plausibile pensare che per tutti si sia formato nel tempo uno stesso nodo di
esperienze. Non solo: se non fosse possibile trovare nelle cose un appiglio che sostenga la
nostra reazione affettiva ed emotiva, non sarebbe pi comprensibile la stessa prassi artistica:
perch riflettere sulla necessit di aggiungere quella pennellata al dipinto o quellaccordo
alla sonata se poi il nesso tra le datit espressive e le datit percettive del tutto vincolato
alla storia accidentale ed individuale dello spettatore? Cos, sembra davvero privo di senso
voler negare che qualcosa nella scena che osserviamo, determini il tratto emotivo che ci
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sembra di scorgervi.
Le difficolt che abbiamo messo in luce sono, io credo, tanto evidenti da rendere in realt
poco credibile una formulazione rigorosa della teoria associazionistica. Di fatto, quando il
filosofo associazionista nega che vi sia una relazione obiettiva tra lesperienza di A e il
carattere espressivo B che ci sembra di dovergli attribuire, di fatto intende soltanto sostenere
che quel nesso non in linea di principio afferrabile e che se attribuiamo a una cosa certe
propriet solo perch labitudine cementa la nostra reazione che tanto costante, quanto
priva di una ragione fenomenologicamente evidente. Un nesso obiettivo deve dunque sus-
sistere altrimenti sarebbe inspiegabile il fatto della ripetizione costante, ma la sua natura
imperscrutabile almeno sino a che ci disponiamo sul terreno descrittivo dellesperienza: ci
che su questo piano si d solo il fatto che certe emozioni e certe esperienze si accompa-
gnano le une alle altre, senza che si possa dire nulla di pi e non difficile scorgere dietro
questa formulazione della teoria associazionistica una somiglianza tuttaltro che casuale con
le tesi fondamentali della teoria causalistica di cui abbiamo dianzi discusso. Anche in questa
formulazione pi debole la teoria associazionistica resta tuttavia poco plausibile perch ci
impedisce in linea di principio di distinguere tra esperienze molto diverse: lesperienza in
cui unemozione si associa ad un luogo o a un evento da quella in cui sorge da esso. Si tratta
di una distinzione ovvia che sappiamo tracciare con estrema facilit. Quando era bambino,
la fine dei cartoni animati alla televisione era definitivamente segnata da una musica molto
bella il Largo del Serse di Hndel che faceva da sigla ad una trasmissione di carattere
religioso. Una musica bellissima, che per non posso non ascoltare con una punta di fastidio
che tuttavia non posso certo imputare alla musica, ma solo a quello che si lega in me al suo
ascolto. Non abbiamo, insomma, a che fare con una propriet della musica, ma con una
connotazione che si lega al suo ascolto. E pu ben accadere che ci che esperiamo come
propriet della musica e ci che alla musica si lega non vadano affatto daccordo. La scena
finale di Full metal jacket di Kubrick ci mostra una citt vietnamita in fiamme e, accanto ad
essa, la lunga fila dellesercito americano che marcia, mentre sullo sfondo, accanto alla voce
fuori campo del personaggio principale che parla della Storia e della Vita, risuonano le note
di Mickey mouse, che restano infantili e allegre, anche se, dopo averle colte in quel conte-
sto, il loro ascolto sembra portare con s un tratto espressivo di tuttaltro segno.
E tuttavia vogliamo davvero negare che talvolta accada proprio cos che ci siano musi-
che e odori e sapori che sembrano dirci qualcosa solo perch li abbiamo legati associativa-
mente ad altre esperienze? Naturalmente no, non vogliamo negarlo: si tratta di unesperienza
molto comune e di fatto innegabile. Un sapore ci ricorda un piatto che un tempo si cucinava
in casa, un odore i vicoli della cittadina dove andavi destate, e immemore delle riflessioni
sul kitsch linnamorato pu dire di una musica che risuona nellaria che la nostra can-
zone!: sono appunto esperienze comuni. dubbio, tuttavia, che la teoria associazionistica
sappia davvero far luce fino in fondo anche soltanto di queste esperienze che dovrebbero
costituire il suo fondamento pi proprio: anche quando ad una esperienza percettiva si le-
gano emozioni e vissuti affettivi che traggono la loro origine da altro, sarebbe sbagliato, io
credo, parlare soltanto di unassociazione e non vedere gli intrecci che legano le une alle
altre le esperienze che sono qui in gioco. Certo, pu accadere che talvolta unemozione si
proietti sulle cose e le colori di s. Possiamo trovare sereno un paesaggio solo perch era-
vamo sereni quando labbiamo visto e non ci stupiremmo se in un diverso contesto non ci
apparisse pi in questa luce, ma questa constatazione ovvia che richiama la nostra attenzione
su un fatto cos risaputo non pu farci dimenticare che in un caso e nellaltro qualcosa deve
aver consentito alle nostre emozioni di far presa sul paesaggio: quando ero sereno, in quel
paesaggio ho ritrovato la mia serenit, ma lho ritrovata in quelle colline e in quel loro dolce
succedersi, non in un posto qualunque e non nel ciglio della strada su cui si ammassavano
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le auto parcheggiate. Quando siamo di buon umore, le cose ci appaiono sotto una diversa
luce, ma questo non vuol dire che tutto ci appaia indiscriminatamente felice: vuol dire solo
che la nostra attenzione volta a scorgere ci che trova in sintonia con il nostro umore e
proprio per questo trascura ci che altrimenti ci apparirebbe malinconico o doloroso. Lin-
namorato pu guardare negli occhi lamata e, prendendole le mani, esclamare: la nostra
canzone! quando si sente risuonare lontana una musica romantica che parla damore, ma
sarebbe strano e anche un poco inquietante se si esprimesse cos, ascoltando il Lacrimosa
della Messa da Requiem di Mozart. Le emozioni non si associano, ma cercano un appiglio
questo il punto. Ma se le cose stanno cos, allora non ha senso cercare di venire a capo
delle propriet espressive semplicemente chiamando in causa il costituirsi di un nesso asso-
ciativo tra esperienze del tutto distinte e autonome.
Queste considerazioni sembrano tutte convergere verso una stessa meta che possiamo for-
mulare cos: se anche fosse lecito intendere le propriet espressive come frutto di una proie-
zione, ci nonostante non sarebbe davvero possibile anche solo tentare di sganciarle intera-
mente dalla natura delloggetto in cui ci sembra di ritrovarle. Il nesso associativo un nesso
troppo povero e non pu in linea di principio mantenere quel che gli si chiede di promettere.
Dobbiamo dunque cercare di legare alla nozione di proiezione un qualche fondamento nella
cosa stessa ed questo che accade nelle teorie di Lipps e di Wollhem.
2. Meditazioni sulla colonna: Theodor Lipps e la teoria dellempatia
La colonna si raccoglie in se stessa nella dimensione della larghezza e proprio per questo
si slancia verticalmente. in questo che consiste la sua attivit specifica cos scrive
Theodor Lipps in un saggio intitolato Estetica dello spazio e illusioni ottico-geometriche
pubblicato a Lipsia nel 1897. Si tratta di unosservazione che da un lato ci costringe a
riflettere e che, dallaltro, non pu non stupirci per due differenti ragioni. La prima risulta
con chiarezza dalla scelta dei termini di cui Lipps si avvale per descrivere quale sia lim-
pressione che in noi si lega alla percezione di una colonna: la colonna, leggiamo, si rac-
coglie in se stessa, come se dovesse fin da principio reagire ad una forza il peso che
la minaccia e che sembra spingerla a cedere nella direzione della larghezza. A questa
minaccia, tuttavia, la colonna reagisce, stringendosi in s e questo movimento (cui per
Lipps siamo chiamati ad assistere) deve insieme apparirci come un agire che ha una meta:
proprio perch si raccoglie e reagisce alla tendenza ad allargarsi, la colonna ci appare nel
suo tendere verso lalto. Si tratta, non difficile rendersene conto, di un linguaggio dina-
mico, che sembra attribuire ad una cosa alla colonna gravata dal peso dellarchitrave
una vita propria, una prassi ricca di senso, a dispetto della nostra consapevolezza che le
colonne sono cose, realt inanimate che non possono patire e reagire. Potremmo forse
esprimerci cos: Lipps descrive una colonna come se fosse un corpo vivo che agisce e
reagisce allurgenza del peso, anche se non intende affatto negare che la colonna sia sol-
tanto una cosa, priva di vita.
A questa prima ragione di stupore deve subito affiancarsene, come abbiamo osservato,
unaltra: Lipps ci invita a parlare di colonne, ma lo fa in un testo che ha come suo tema
pi autentico lanalisi delle illusioni ottico-geometriche di quelle illusioni che si danno
quando determinate configurazioni visive ci appaiono diverse per dimensione, o per forma
o per orientamento da ci che realmente le caratterizza. Questo fatto non pu di primo
acchito non lasciarci perplessi, anche perch Lipps non sembra affatto indugiare sul tema
delle correzioni ottico-geometriche dei colonnati, su cui si erano affaticati molti autori
nellOttocento e tra questi un matematico come Guido Hauck e non discute della curvatura
convessa dello stilobate o della trabeazione. Tuttaltro: Lipps ci parla della colonna nella
sua singolarit, e ce ne parla senza preoccuparsi di fissare il punto di vista di uno spettatore
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ideale che guardi il tempio da una certa distanza e secondo un certo taglio prospettico.
Restiamo di primo acchito stupiti, eppure basta riflettere un poco per rendersi conto che i
due temi di cui abbiamo fatto cenno e che avevano suscitato la nostra perplessit ci ricon-
ducono ad un unico disegno teorico: Lipps ritiene infatti che la dimensione espressiva
della spazialit lestetica dello spazio, appunto si sveli nel suo fondamento solo quando
si ancora la dimensione delle proiezioni soggettive che ci costringono a parlare degli og-
getti dello spazio in un linguaggio carico di espressivit al gioco delle dinamiche rappre-
sentative che responsabile delle illusioni percettive.
Il punto su cui Lipps ci invita a riflettere questo: se le forme ci appaiono animate da
una loro interna espressivit perch, rappresentandocele, riviviamo come se fosse un
agire corporeo quel gioco di tendenze e controtendenze che anima la rappresentazione
della forma e che si manifesta in modo esemplare sul terreno delle illusioni ottico-geome-
triche quando la dinamica rappresentazionale diviene la ragione occulta dello scarto che
separa la realt effettiva della scena dal risultato fenomenico cui perveniamo.
Su questo punto opportuno indugiare un poco e questo significa, innanzitutto, rivol-
gere la nostra attenzione alle illusioni ottico-geometriche, su cui Lipps ci chiede innanzi-
tutto di riflettere. Guardiamone alcune. La prima ben nota lillusione di Mller-Lyer.
Non facile dire a che cosa si debba questillusione. Nel 1889 Mller-Lyer aveva avan-
zato unipotesi di carattere generale e
aveva sostenuto che, in analogia a
quanto accade nel campo della perce-
zione dei colori e dei suoni, cos anche
nel campo delle figure geometriche
potessero valere i principi generali del
coinflusso [Konfluxion] e del contra-
sto [Kontrast]. Nel caso dellillusione
si tratterebbe di un caso di coinflusso:
la superficie dellangolo delimitato dai
due segmenti obliqui viene in qualche
modo fusa (o confusa), nella perce-
zione, alla dimensione effettiva del
segmento orizzontale, determinandone
una sopravvalutazione nel caso dei
segmenti divergenti, una sottovaluta-
zione nel caso delle linee convergenti.
Si tratta di una spiegazione di cui
oggi nessuno pi parla, ma che ci inte-
ressa perch sembra in qualche modo alludere ad un tema che per Lipps centrale: se vi
illusione perch per Mller-Lyer la scena percettiva animata da una dinamica
interna che determina in qualche modo il risultato della percezione.
Per rendersi conto di ci che Lipps intende forse opportuno rivolgere lo sguardo a
qualche altro esempio. Guardiamo per esempio lillusione scoperta da Ewald Hering nel
1861: due linee parallele sono attraversate da una molteplicit di segmenti rettilinei che si
dipartono ora (a) da un punto che si trova a met strada tra le due rette, ora (b) da due
punti situati luno a sinistra laltro a destra di entrambe (la variante b dellillusione di
Hering stata messa in luce da Wilhelm Wundt).
Il risultato percettivo particolarmente evidente: nel caso (a) le due rette parallele ci
appaiono lievemente arcuate verso lesterno, mentre nel caso (b) le due rette sembrano di
fatto incurvarsi verso linterno. Nelluno e nellaltro caso difficile sottrarsi ad unipotesi
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di natura dinamica: guardiamo questo duplice disegno e ci sembra quasi di vedere in un
caso (a) le due parallele cedere sotto la spinta dei segmenti che da un centro comune si
irradiano verso lesterno, mentre
nel secondo caso (b) ci sembra
di assistere alla scena opposta:
in questo caso i segmenti che si
irradiano da due centri diversi
sembrano costringere le due
rette a incurvarsi, agendo con
forza tanto maggiore, quanto pi
il loro impatto con la retta che
intersecano avviene in
prossimit del centro vivo da cui
si irraggiano.
Uno stesso discorso sembra
valere per una nuova illusione
ottico-geometrica: lillusione
scoperta nel 1860
dallastrofisico Johann Karl
Friedrich Zllner, cui
probabilmente si deve anche la
scoperta dellilusione nota con il nome di un suo allievo lillusione di Poggendorf. Basta
uno sguardo per rendersi conto che le 10 linee obiettivamente parallele che il disegno ci
propone non ci appaiono orientate tutte nella stessa direzione, ma sembrano invece
disporsi secondo due direzioni differenti: le linee dispari sono parallele alle dispari, le pari
con le pari. La ragione sembra svelarsi subito alla percezione e sembra parlarci ancora
una volta nel linguaggio di
una dinamica delle
rappresentazioni: a piegare in
una direzione o nellaltra le
linee sono i piccoli segmenti
che le intersecano e che ora le
piegano in una direzione,
ora nellaltra. E del resto: se
guardiamo lillusione di
Mller-Lyer da cui abbiamo
preso le mosse, non
potremmo sostenere che in un
caso le alette convergenti
sembrano comprimere il
segmento tra cui occorrono, mentre nellaltro caso le alette divergenti sembrano
esercitare una vera e propria trazione? Insomma: se mettiamo da canto le interpetazioni
che ci invitano a leggere le illsuioni ottico-geometriche come frutto di una lettura
tridimensionale di rappresentazioni bidimensionali e che sono storiamente pi recenti,
sembra possibile sostenere che ci che le illusioni ci insegnano che il risultato delle
nostre esperienze il frutto di una molteplicit di forze che agiscono sui materiali
sensibili, determinandone la configurazione complessiva.
di qui, da queste considerazioni di carattere generale, che possibile comprendere
quale sia la ragione per le quali Lipps ritiene opportuno stringere in un unico nodo la
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dimensione estetico-espressiva dello spazio e la riflessione sulle illusioni ottico-
geomteriche. Per Lipps la percezione , in se stessa, univocamente determinata dalla
dimensione dello stimolo ed quindi, in linea di principio, incapace di mettere capo ad
illusioni sitematiche. Le illusioni ottico-geometriche sono tuttavia illusioni sistematiche e
ci mostrano quindi che vi qualcosa nella nostra esperienza percettiva che non possibile
ricondurre esclusivamente ad una mera ricezione di stimoli. Se possiamo ingannarci,
lesperienza percettiva non pu consistere solo nella ricezione passiva dei dati di senso,
ma deve rimandare anche ad un processo di natura rappresentativa che la metta in
movimento e che interpreti i dati sensibili, determinandoli in una direzione di senso
determinata. Le rette dellillusione di Hering sono parallele e proiettano sulla retina
immagini parallele: se ci sembra che siano costrette ad arcuarsi dal gioco dei segmenti
che le intersecano, ci deve parlare in favore di un procedimento rappresentativo che si
sovrappone alla mera ricezione dei dati sensibili, interpretandoli.
Ora, come questo processo rappresentativo possa animare la percezione e condurla al di
l del mero dato sensibile ce lo mostrano con chiarezza proprio le illusioni ottiche:
nellevidenza di un inganno di cui diveniamo consapevoli, le illusioni ottico-geometriche
mostrano loperare della dinamica delle rappresentazioni e ci rivelano che ogni nostra
esperienza percettiva deve essere pensata come il risultato di tendenze e controtendenze
che si danno sul terreno rappresentativo e che orientano il dato sensibile in una direzione
determinata. Gli esempi che abbiamo discusso lo mostrano con chiarezza: se le parallele
di Hering ci appaiono incurvarsi perch non possiamo non rappresentarcele alla luce
delle forze che in una direzione o nellaltra promanano dai fasci di segmenti che le
intersecano. Lipps parla a questo proposito di uninterpretazione meccanica e dinamica
dei dati sensibili e ritiene che questa sia la base su cui possa fondarsi linterpretazione
estetico-espressiva dei fenomeni percettivi. le illusioni ottico-geometriche possono
insegnarci il fondamento su cui poggia lestetica dello spazio perch il parlare di una
dinamica rappresentativa insita nelle nostre esperienze percettive significa allo stesso
tempo indicare quale sia il fondamento che deve poter consentire al soggetto di ritrovarsi
nei fenomeni e di proiettare su di essi la regola del proprio agire. Linterpretazione
meccanica e dinamica del materiale sensibil deve diventare cos il termine medio che ci
consente di immedesimarci nei fenomeni e di leggere nella loro struttura le forme sensate
del nostro agire.
Di qui, da queste considerazioni di carattere generale, possiamo muovere per cercare di
dare una forma pi determinata alle considerazioni che Lipps ci propone sulla natura della
colonna e su cui ci siamo soffermati nelle battute introduttive di questa lezione. Come
abbiamo osservato, Lipps muove da una constatazione di carattere generale: se si vuole
descrivere limpressione che su di noi fanno le colonne di un tempio dorico non ci si pu
limitare ad un linguaggio che resti aderente alla natura materiale e priva di vita del suo
oggetto, ma necessario avvalersi di termini che sembrano presupporre una realt
dinamica e viva. Le colonne non sono soltanto disposte verticalmente, ma si ergono verso
lalto e non sono soltanto il necessario sostegno dellarchitrave, ma sorreggono attiva-
mente una forza contrapposta, resistendole e vincendola. Per Lipps non ci sono dubbi: il
fascino estetico della colonna prende forma non appena sappiamo renderci conto della sua
interna vitalit e assistiamo al suo vincere felicemente lostacolo della pesantezza.
Non vi dubbio: Lipps sceglie bene il proprio esempio perch la tesi secondo la quale
le colonne debbono essere pensate alla luce di questo gioco di tendenze e di dinamismi
che ci spinge ad assimilarle alla vita ha un suo posto rilevante nella storia dellarchitettura.
La colonna innanzitutto un tronco di legno il grande albero che sorregge la costru-
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zione della capanna primordiale, e nelle pratiche costruttive della Grecia arcaica era rac-
chiusa lusanza di piantare a testa in gi i grandi tronchi sfrondati dei rami, per evitare che
la colonna mettesse radici, restituendo alla natura la violenza architettonica della costru-
zione.
La colonna dunque un tronco vivo, che doveva mantenere la sua forma e la sua rico-
noscibilit e che non doveva essere eccessivamente snaturata nella sua forma almeno
per il purismo un po rozzo della cultura architettonica spartana. Plutarco narra che Age-
silao, re di Sparta, ospite in Anatolia in un palazzo signorile, con finto stupore doman-
dasse, guardando i pilastri squadrati che sorreggevano il tetto, se mai in quelle terre cre-
scessero alberi di quella forma e alla risposta che no, non ne nascevano di tal fatta, avesse
risposto: e se mai nascessero quadrati, li rendereste per questo rotondi?
La metafora della colonna come un grande albero non pu tuttavia nascondere un di-
verso riferimento implicito nella sua forma: la colonna infatti e fin da principio un
corpo umano, e il colonnato non soltanto un bosco, ma anche una schiera di uomini
volti tutti ad uno stesso scopo. La colonna poggia su un basamento e si erge verso lalto,
come il corpo degli uomini, poich innanzitutto questo ci che distingue gli uomini dagli
animali: la loro stazione eretta. Di questumanizzazione della colonna si possono trovare
una molteplicit di indizi che vanno dal nostro discorrere di capitelli per indicare la parte
terminale della colonna, alle fantasie sul loro genere
la colonna dorica maschile, quella ionica femminile
alla tendenza a far valere anche per le colonne stesse
la teoria delle proporzioni elaborata per il corpo
umano.
Del resto, questanalogia tra il corpo umano e le co-
lonne si manifesta visibilmente nel bisogno di avvol-
gere il corpo di queste in una veste che ha le stesse pie-
ghe e le stesse fattezze delle tuniche della statuaria
femminile. E ancora: limmagine del figlio maschio o
del padre che sorregge il peso della casa come una co-
lonna sorregge il tempio un luogo letterario estrema-
mente diffuso nella Grecia antica: cos che Clitem-
nestra Agamennone di ritorno da Troia, dicendo che
come la stabile colonna che sorregge lalto tetto o
come la gomena che tiene ancorata la nave. Ma il nesso
pi ovvio che sembra rendere immediatamente visibile
questa possibile identificazione tra la colonna e la no-
stra corporeit di uomini ovviamente racchiusa nella
scelta di sostituire con statue maschili e femminili le
colonne dei templi, in un artificio architettonica che
racconta ad alta voce unimmaginazione tacita.
Vi erano, innanzitutto, i Telamoni, le gigantesche figure maschili che dovevano fungere
da colonne nel tempio dorico di Zeus ad Agrigento: se ne vedono ancora oggi i resti,
adagiati sul terreno. Ma vi erano anche le cariatidi che ornano ancora la loggia dellEretteo
nel tempio ionico dedicato ad Atena Poliade nellAcropoli di Atene. Su questa creatura
architettonica cos particolare le cariatidi forse opportuno soffermarsi un poco, per
cercare di comprendere il progetto immaginativo che le ha create. Perch porre sul capo
di una schiera di statue femminili il peso del tetto di un tempio?
Nelle pagine di Vitruvio questa domanda si fa strada nelle pieghe di un racconto che si
lascia guidare dalla convinzione antica che lorigine dei nomi possa spiegarci molte cose
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sulla natura degli oggetti. Cos, per capire quale sia la natura delle cariatidi e quale il
progetto immaginativo cui si deve la loro creazione, dobbiamo secondo Vitruvio in-
terrogarci sulla ragione per la quale cos si chiamano le statue dellEretteo: le cariatidi
prendono il loro nome dalle donne di Caria, una citt del Peloponneso i cui abitanti si
erano schierati con il nemico durante le guerre persiane. Sconfitti i Persiani, i Greci fanno
i conti con gli avversari interni e non sono certo molto teneri: la citt di Caria fu rasa al
suolo, gli uomini uccisi e le donne fatte schiave. Le cariatidi sarebbero dunque un monito
e insieme un segno per ricordare una colpa inestinguibile. Costrette ad un peso da cui non
posso liberarsi, sarebbero proprio per questo un simbolo della schiavit. Scrive Vitruvio:
Quemadmodum si quis statuas marmoreas muliebres stolatas, quae cariatides
dicuntur, pro columnis in opere statuerit et insuper mutulos et coronas conlocaverit,
percontantibus ita reddet rationem Caria, civitas Peloponnensis, cum Persis hostibus
contra Graeciam consensit. Postea Graeci per victoriam gloriose bello liberati
communi consilio Cariatibus bellum indixerunt. ltaque oppido capto, viris
interfectis, civitate declarata matronas eorum in servitutem abduxerunt, nec sunt
passi stolas neque ornatus matronales deponere, uti non una triumpho ducerentur,
sed aeterno, servitutis exemplo gravi contumelia pressae poenas pendere viderentur
pro civitate. Ideo qui tunc architecti fuerunt aedificiis publicis designaverunt earum
imagines oneri ferundo conlocatas, ut etiam posteris nota poena peccati Cariatium
memoriae traderetur (Vitruvio, De Architettura, I, I, 4).
dubbio che le cose stiano cos e in un suo libro La colonna danzante Rikwert sug-
gerisce implicitamente una diversa etimologia che sembra confermata dai volti sereni
delle cariatidi che sembrano camminare calzando sandali con passo leggero, quasi dan-
zassero:
il paesino di nome Caria era in realt famoso in tutta la Grecia per qualcosa di ben
diverso dalla disgraziata partecipazione alla guerra persiana. Era la sede del culto di
Artemide Carneia o Cariatide, il cui rito principale consisteva in una danza solenne
di devote intorno a un sacro noce. Lo stesso verbo karuatisein, che significa danzare
solennemente, danzare in circolo era usato correntemente (J. Rjkwert, La colonna
danzante, Scheiwiller, Milano 2010, p. 101).
Quando ci si dispone sul terreno del mito o delle leggende, accade spesso che le spiega-
zioni abbondino. Eccone unaltra. Caria era il nome di una giovane donna, figlia di Dione
di Laconia. Se ne invaghisce Dioniso ed un guaio, perch gli dei mal sopportano il ri-
fiuto: Caria non si concede al desiderio del dio che, per questo, la trasforma in un albero
di noce che viene consacrato ad Artemide, la dea della verginit e cos un racconto si
intreccia allaltro e la colonna danzante si trasforma nuovamente in un tronco in cui pulsa
una vita umana e il tronco a sua volta ritorna a prendere forma di colonna.
Che siano un simbolo di schiavit o colonne danzanti o che siano il ricordo di una ra-
gazza trasformata in noce, le cariatidi rappresentano in una forma esemplare il nesso che
stringe la colonna alla forma viva del corpo. Questo nesso, del resto, doveva essere ulte-
riormente sottolineato dalla struttura portante della colonna, dal suo effettivo sorreggere
che esso pure cos evidente nellimmaginazione plastica delle cariatidi.
Che si potesse pensare il sorreggere della colonna alla luce del concetto metafisico di
volont era stato Schopenhauer a dirlo nelle pagine de Il mondo come volont e come
rappresentazione. Qui Schopenhauer ci invita a pensare allarte come al luogo in cui la
volont si manifesta esemplarmente, anche se ogni arte deve apparirci disposta secondo
un criterio di crescente ricchezza e articolazione. Allarchitettura spetta il gradino pi
basso: le spetta il compito elementare di mostrare la dialettica tra peso e sostegno. qui
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che per Schopenhauer necessario discutere della colonna, poich nella sua forma si rende
manifesto lo scontro tra peso e sostegno, tra la volont che si esprime nel cieco tendere
delle cose verso terra e la volont che ci parla nella resistenza della materia che fa da
sostegno:
perfino in questo basso grado delloggettit della volont noi vediamo gi rivelarsi
la sua essenza in maniera conflittuale, poich propriamente la lotta fra il peso e la
staticit il solo contenuto estetico della bella architettura; compito di questa ren-
derlo manifesto in vario modo con perfetta chiarezza. Essa assolve tale compito,
impedendo a quelle forze indistruttibili la via pi breve al loro soddisfacimento e
ritardandole per vie traverse, per cui la lotta viene prolungata e diviene visibile in
vario modo linesauribile tensione di entrambe le forze. Lintera massa delledificio,
abbandonata alla sua tendenza originaria, rappresenterebbe un semplice ammasso,
legato al suolo il pi saldamente possibile, verso il quale il peso (come tale appare
qui la volont) preme incessantemente, mentre la staticit, anchessa oggettit della
volont, oppone resistenza. Proprio questa tendenza, per, questa tensione, viene
impedita dallarchitettura a trovare un appagamento diretto, ma consentito loro di
trovarne uno indiretto, per vie traverse. La travatura, ad esempio, pu gravare sulla
terra soltanto tramite la colonna; la volta deve sostenere se stessa, e soltanto per
mezzo di pilastri pu acquietare la sua tensione verso la massa terrestre e cos via;
ma proprio per queste estorte vie traverse, proprio mediante questi ostacoli si dispie-
gano nel modo pi evidente e pi vario quelle forze insite nella bruta massa di pietra:
oltre non pu andare il fine puramente estetico dellarchitettura (A. Schopenhauer,
Il mondo come volont e come rappresentazione, a cura di A.Vigliani, Mondadori,
Milano ).
sullo sfondo di queste considerazioni di carattere generale che le analisi di Lipps si
sviluppano. Sappiamo gi quale debba essere la sua prima mossa. Se per descrivere lim-
pressione estetica di una colonna non possiamo fare a meno del linguaggio che si attaglia
alla vita e alle sue azioni, allora dobbiamo in primo luogo chiederci quale sia linterpreta-
zione dinamico-meccanica che alla colonna si addice e che ci consente di ritrovare, proiet-
tandolo, il nostro io corporeo in essa.
Per venire a capo di questa domanda dobbiamo disporci su un terreno di considerazioni
che sembrano voler proiettare fin da principio la riflessione sulla forma in un ambito este-
tico-espressivo. Questo significa, innanzitutto, che dobbiamo pensare alle forme non
come a un dato, ma come ad un risultato e allo spazio non come una struttura di ordina-
mento, ma come ad una dimensione acquorea in cui ogni parte tende a rifluire nel tutto.
in questo spazio come fluido che deve essere disposto il pensiero della forma che deve
apparirci cos come un tentativo di circoscrivere e di separare un luogo o un oggetto dal
tutto della spazialit che lo attornia. E se ci poniamo in questa prospettiva, la forma dovr
apparirci in primo luogo come contorno, come un attivo dar forma e confine ad un luogo
che tenderebbe di per s a rifluire nella totalit indistinta dello spazio.
Dire cos significa tuttavia sottolineare che alla base della forma vi un contrasto che
ne determina intimamente la natura. La forma si comprende se ne cogliamo la tendenza
primaria, il suo darsi come un attivo trattenere una porzione chiusa di spazio trattenerla
dal suo volersi perdere nella totalit. Questa forza di contenimento agisce anche sulla co-
lonna la cui forma, per Lipps, dobbiamo innanzitutto vedere alla luce di questo gioco di
forze. La colonna ha una forma particolare: disposta prevalentemente sullasse verticale,
verso il quale si orientano perpendicolarmente la maggior parte de vettori dinamici che
determinano la forma rappresentativa della colonna. Ora, verso questasse convergono
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perpendicolarmente i vettori delle forze che contengono orizzontalmente il suo espan-
dersi: la colonna dunque innanzitutto caratterizzata dal suo raccogliersi verso il suo asse
centrale, dal suo contrapporsi al diffondersi in larghezza dello spazio che essa racchiude.
Proprio per questo, tuttavia, sotto il gioco delle spinte che le impediscono di cedere nella
dimensione della larghezza, la colonna sembra espandersi lungo lasse verticale, come si
espanderebbe un fluido che si trovasse in un cilindro compresso ai lati. Non un caso
allora se, osserva Lipps, tendiamo a sopravvalutare laltezza delle colonne e a sottovalu-
tare la loro larghezza: le vediamo alla luce di un dinamismo di forze che ci costringe
allerrore.
La colonna, tuttavia, non ha soltanto una forma determinata dalla sua configurazione
spaziale: anche una struttura di sostegno, su cui grava un peso. Ora, il peso ci appare
esso pure come una forza che vorrebbe schiacciare la colonna, costringendola ad espan-
dersi in larghezza lentasi rende visibile questa tensione. La rende visibile, tuttavia, solo
per superarla: lentasi ci appare cos solo come un piccolo riconoscimento della grandezza
delle forze nemiche un riconoscimento utile perch ci consente di celebrare meglio la
grandezza della vittoria (T. Lipps, Raumsthetik und geometrisch-optische Tuschungen,
op. cit., p. 8). Cos, anche se vediamo la colonna nella sua realt effettiva, non possiamo
non rappresentarla sotto lurgere di quella tensione che, come racconta Hegel nella sua
Estetica, ha fatto s che le colonne nella storia dellarchitettura divenissero sempre pi alte
e slanciate, rispondendo cos ad una legge che insita nella natura del concetto che le
determina. Scrive Lipps:
La colonna si raccoglie in se stessa nella dimensione della larghezza e proprio per
questo si slancia verticalmente. in questo che consiste la sua attivit specifica.
La colonna non una cosa che, a causa della pesantezza, sprofondi in se stessa e che
si diffonda in larghezza. Al contrario: un costrutto che, a dispetto del peso e nel
superamento di esso, si raccoglie e si slancia in altezza (ivi, p. 5).
Vediamo la colonna come una cosa, ma non possiamo non rappresentarcela come un co-
strutto, animato da uninterna dinamicit. La percezione un fatto passivo, ma sa ridestare
uninterpretazione dinamica che non sorge per capriccio o per arbitrio, poich accompa-
gna necessariamente i materiali sensibili, prima di qualsiasi riflessione:
la forma della colonna, che di fatto presente come un che di dato, si fa strada nella
nostra rappresentazione sul fondamento di alcune condizioni meccaniche. La forma
non soltanto, ma diviene, e non una volta soltanto, ma in ogni istante da capo. In
una parola: noi facciamo della colonna loggetto di uninterpretazione meccanica.
Che questo accada non frutto del nostro arbitrio e non vi bisogno di alcuna rifles-
sione: insieme alla percezione della colonna data anche linterpretazione mecca-
nica (ivi, p. 5).
E tuttavia, disporsi sul terreno di uninterpretazione meccanica delle colonne e cogliere
lintenso dinamismo che agita la sua forma e ne fa un risultato che sempre di nuovo si
consolida e si manifesta, non significa ancora aver giustificato sino in fondo il vocabolario
di cui Lipps ci invita ad avvalerci. Quel vocabolario ha un tratto su cui dobbiamo riflettere,
ed il suo ricondurre le tensioni della forma ad una soggettivit, il suo interpretarle come
se avessimo a che fare con un agire: non parliamo solo di forze e di resistenza, di tendenze
e di controtendenze, ma anche di uno sforzarsi e di un resistere, di un agire e di un patire.
Alla forma come espressione di un equilibrio meccanico tra le forze fa cos da controcanto
la forma come espressione di un agire soggettivo: non ci rappresentiamo pi la tensione
della colonna verso lalto in contrapposizione al peso, ma siamo spinti a immaginare il
suo tendersi verso lalto, il suo resistere al peso, contrastandone la forza.
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Quale sia il fondamento su cui poggia questa diversa lettura dei fenomeni percettivi
presto detto. sufficiente dare ai fenomeni uninterpretazione meccanica perch si faccia
avanti in modo immediato e diretto unanalogia che ci invita a leggere quegli accadimenti
che ci rappresentiamo e che determinano la forma come costrutto rappresentativo alla luce
del nostro umano agire e patire. Il processo in cui la forma si mette in scena per noi assume
cos un senso nuovo e ci appare alla luce di unimmedesimazione radicale: il suo tendersi
per contrastare il peso ci appare alla luce della nostra diretta esperienza di corpi vivi che
vincono la fatica della stanchezza e si alzano, resistendo al peso e allo sfinimento. In-
somma: linterpretazione meccanica e dinamica deve rivelarsi cos come un aspetto di un
pi ampio processo di vivificazione immaginativa della realt un processo che presup-
pone una proiezione soggettiva ed unimmedesimazione della nostra corporeit viva nella
dinamica dei fenomeni:
ogni vivificazione della realt circostante giunge a compimento, e pu giungere a
compimento, solo perch noi proiettiamo nelle cose fuori di noi o negli eventi che le
concernono o le riguardano ci che noi viviamo in noi stessi, il nostro sentimento
dello sforzo, il sentimento del tendere e del volere, dellattivit o della passivit (ivi,
p. 6).
Non ci siamo imbattuti sin qui in un termine che forse ci aspettavamo di leggere il ter-
mine empatia [Einfhlung] ma il concetto labbiamo formulato egualmente: se vi una
capacit di attribuire una dimensione espressiva ai fenomeni, se possiamo cogliere nelle
cose una molteplicit di caratteristiche espressive solo perch possiamo proiettare su ci
che esterno a noi la trama articolata dei vissuti che ci animano. Non li proiettiamo, tut-
tavia, a caso, ma lasciandoci guidare da uno spartito che dettato dalle cose stesse: ogni
accadimento meccanico scrive Lipps ha un suo contorno determinato che pu fluire
senza intoppi o procedere di ostacolo in ostacolo, pu procedere lentamente o giungere in
un attimo solo a compimento. Pu chiedere uno sforzo continuo o pu dipanarsi autono-
mamente, pu arenarsi o liberarsi da ci che gli impediva di tendere alla meta, e ciascuna
di queste infinite modalit di decorso ci parla di noi in virt di unanalogia strutturale con
le forme molteplici del nostro comportamento e proprio per questo ridesta in noi le emo-
zioni e i vissuti che normalmente ci pervadono quando il nostro agire si libera di ci che
lo ostacola o rimane impaniato nelle difficolt o ci chiede altri sforzi per condurlo a ter-
mine. La forma dei processi meccanici si pone cos come il termine medio che ci consente
di ritrovarci nei fenomeni e, ritrovandoci, di proiettare in essi quella trama di vissuti che
solo noi proviamo e che caratterizza esclusivamente la nostra vita psichica.
Di ritrovarci, opportuno aggiungerlo, senza esserci volontariamente cercati. Anche in
questo caso, infatti, non vi bisogno di alcuna riflessione perch sul fondamento della
interpretazione meccanica si faccia avanti linterpretazione empatica di cui abbiamo ap-
pena discusso. Accade cos, perch siamo fatti cos perch non possiamo sottrarci a
questo nostro proiettare nelle cose la nostra vita. Cos, la stessa piega immaginativa che
ci spinge a mettere in scena il dramma della forma e a sopravvalutare laltezza delle co-
lonne e a sottovalutarne la larghezza diviene il fondamento di una proiezione empatica
che ci costringe a immedesimarci nella colonna e a rallegrarci per la sua capacit di sfi-
dare, e vincere, il peso.
Ogni godimento che abbia per oggetto forme spaziali e, pi in generale, ogni godi-
mento estetico un sentimento gioioso di simpatia scrive Lipps, invitandoci cos a
cogliere la bellezza delle forme in quelle strutture sensibili che sollecitano unimmedesi-
mazione positiva e che promettono il benessere della soggettivit che le rivive. Nel dire
cos, Lipps era in buona compagnia sul finire del XIX secolo. Considerazioni del tutto
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simili le troviamo in un testo che davvero molto vicino alle tesi di Lipps i Prolegomeni
ad una psicologia dellarchitettura (1886) di Wlfflin poich anche Wlfflin ci invita a
pensare che la bellezza debba essere ricondotta ad unimmedesimazione felice, ad un be-
nessere che le cose ci promettono e mettono in scena. Ma gli esempi che si possono fare
sono molteplici, e in autori diversi troveremmo uno stesso fondersi di considerazioni ge-
nerali sullempatia, sulla psicologia e sullarte.
Su questo e su altri temi vi sarebbero molte altre cose da dire ed in particolar modo
sarebbe opportuno mettere un poco sullo sfondo il nome di Lipps e rivolgere lattenzione
ad un dibattito il dibattito sullempatia che ha molte altre voci che meriterebbero di
essere ascoltate. Andrea Pinotti ha scritto su questi temi un bel libro che si legge, tra lal-
tro, volentieri e che si intitola Empatia. Storia di unidea da Platone al postumano (2011):
chi fosse interessato a questi temi pu leggerlo con profitto. Noi invece possiamo fermarci
qui perch ci che ci interessa non tanto seguire nel dettaglio lestetica dello spazio di
Lipps o approfondire la storia di un concetto: ci basta avere chiarito un modello di inter-
pretazione proiettiva delle propriet espressive un modello che non rinuncia a collocare
stabilmente la dimensione dellespressivit nel cuore della soggettivit umana, ma che
cerca tuttavia di ancorare la dimensione empatica della proiezione ad un fondamento og-
gettivo, a qualcosa che non la renda arbitraria e che ci consenta di considerarla come un
tratto cui tutti siamo in qualche misura vincolati. Abbiamo dunque a che fare con una
teoria della proiezione che non cade sotto le critiche che abbiamo formulato nelle nostre
precedenti considerazioni, anche se questo ancora non significa che si tratti di una teoria
davvero soddisfacente.
E in effetti che non si tratti di una teoria soddisfacente lo si comprende proprio se ram-
mentiamo il camino che abbiamo percorso sin qui. Lobiettivo delle riflessioni di Lipps
ci parso chiaro fin da principio: Lipps intende mostrare che vi un nesso tra la proiezione
soggettiva di determinate propriet espressive e la presenza, sul terreno oggettivo, di un
fondamento che le sorregge. In questo, senso le indagini raccolte in Raumsthetik sono
esemplari: lidea, che ci era sembrata di primo acchito cos strana, di stringere in un unico
nodo la teoria delle illusioni ottico-geometriche e unestetica dello spazio, ha evidente-
mente di mira il tentativo di ancorare la dimensione espressiva ed emotiva della spazialit
alla percezione, senza tuttavia dover pagare lo scotto di affermare che simili propriet
sono gi date sul terreno obiettivo. Non vi sono tensioni nella colonna e non vi un gioco
espressivo di azioni e di reazioni, e tuttavia non possiamo che immaginare cos le colonne
ed per questo che talvolta la dimensione rappresentativa si sovrappone alla dimensione
puramente percettiva, costringendoci allerrore, allillusione percettiva.
Su questi temi ci siamo gi soffermati. Ora, tuttavia, dobbiamo chiederci sino a che
punto le indagini di Lipps siano davvero in grado di sciogliere i nodi che il nostro pro-
blema pone. Io non credo che le cose stiano davvero cos e per quattro differenti ordini di
ragioni su cui dobbiamo riflettere un poco. Il primo problema ci riconduce alla dimensione
della proiezione che dobbiamo evidentemente pensare come un fatto inconscio, sia perch
non siamo di fatto consapevoli di leggere i fenomeni alla luce della trama di analogie di
cui Lipps ci parla, sia perch uninterpretazione meccanica che non fosse inconscia po-
trebbe difficilmente tradursi in una falsificazione illusionistica. Solo se la dinamica delle
rappresentazioni opera a mia insaputa, posso spiegarmi perch posso poi confondere il
risultato del loro operare con il dato che credo di percepire. Ora, non vi ragione di cre-
dere che ogni processo psicologico debba necessariamente muoversi sul terreno della con-
sapevolezza: questo chiaro. E tuttavia se la proiezione si dispone sul terreno dei mecca-
nismi occulti, difficile poi sostenere che abbia una giustificazione indipendente dalle
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considerazioni di natura ontologica che dovrebbero convincerci che pu esservi una di-
mensione affettiva solo l dove vi una soggettivit animale. In altri termini: se fosse
possibile sostenere che linterpretazione empatica dei dati sensibili del tutto inconsape-
vole, non potremmo poi porla tra quei tratti che caratterizzano la nostra esperienza di una
musica malinconica o di un paesaggio cupo, anche se potremmo sostenere che qualcosa
del genere deve esserci stato perch, per ragioni di ordine ontologico, dovremmo soste-
nere che un paesaggio cupo e una musica malinconica non possono esistere realmente
a dispetto delle apparenze.
A questa prima difficolt, se ne affianca una seconda che potremmo formulare cos: le
teorie empatiche sembrano costringerci a pensare che io possa ritrovare negli oggetti solo
propriet espressive che io stesso provo attualmente, ma se questo fosse vero dovremmo
in ultima istanza sostenere che ogni volta che sentiamo una musica malinconica proviamo
effettivamente malinconia. Le cose dovrebbero stare cos perch di fatto, per le teorie
proiezionistiche, ci che avvertiamo nelloggetto non che una eco di ci che noi stessi
avvertiamo. dubbio, tuttavia, che le cose stiano davvero cos e la distinzione che ab-
biamo a suo tempo tracciato tra avvertire e provare unemozione dovrebbe mostrarci con
relativa chiarezza che una simile tesi insostenibile. Una musica malinconica (e lav-
verto come malinconica) anche quando sono di ottimo umore e il mio trovare sereno un
paesaggio non certo sufficiente per cancellare ogni mia preoccupazione. Del resto, che
la distinzione tra avvertire e provare sia legittima lo si deduce dal fatto che pu capitare
che si provino emozioni diverse da quelle che si avvertono. Che cos stiano le cose nel
caso delle relazioni umane fin troppo evidente: posso provare piet perch avverto il tuo
dolore o invidia perch colgo bene la gioia da cui sei pervaso, e in generale la nostra
capacit di simpatizzare con le emozioni degli altri non si traduce in uneffettiva condivi-
sione della stessa emozione. Ci accordiamo alle emozioni degli altri, senza ripeterle
questo il punto. Ma ci che vale per le relazioni con le persone, si d anche quando ci
rapportiamo a quelle situazioni in cui si d (come ci siamo espressi pi volte) una propriet
espressiva senza espressione. In un passo famoso, Eliot scrive che aprile il pi crudele
dei mesi, ma sarebbe del tutto privo di senso voler cogliere questemozione che Eliot
prova senza volerla legare a ci che non pu non avvertire: la gioiosit di un mese che
restituisce spazio alla vita. Aprile il pi crudele dei mesi perch genera lill da terra
morta, confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della
primavera e ci quanto dire: aprile ci fa provare dolore perch ci fa avvertire la sua
gioia. E ancora: quando Dante dice Lo giorno se nandava, e laere bruno /toglieva li
animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / mapparecchiava a sostener la
guerra / s del cammino e s de la pietate sta ancora una volta mostrandoci come si possa
reagire ad una situazione espressiva che si avverte quietamente rasserenante, provando un
senso di accresciuta tensione che si fa tanto pi aspra quanto pi si lega alla dimensione
della solitudine. Si tratta di considerazioni ovvie, e tuttavia non chiaro come si possa
venirne a capo se ci si pone nella prospettiva delle teorie dellempatia. Ci che avvertiamo
non ci che proviamo, ma dovrebbe esserlo se dipendesse proiettivamente dalle nostre
emozioni.
Non facciamo che approfondire queste considerazioni se osserviamo che la prospettiva
di Lipps dovrebbe costringerci a sostenere che non in fondo possibile imparare nulla
dalle esperienze di natura espressiva, poich in linea di principio non possiamo che incon-
trare noi stessi. La teoria dellempatia sotto il segno di Narciso: ci costringe a credere
che si possa soltanto ritrovare sempre da capo noi stessi in ci che amiamo e temiamo,
nelle scene che troviamo serene e in quelle che ci sembrano malinconiche, nella dolcezza
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e nella sofferenza. Nellaltro possiamo sempre e solo specchiarci e trovare la nostra im-
magine, deformata quel tanto che ci consente di non riconoscerla. Eppure a me non sem-
bra che le cose stiano cos. Mi sembra di imparare di continuo, e non soltanto dalle vicende
umane, ma anche dallespressivit che si d nella natura e per cui non sempre facile
trovare le parole pi adatte a descriverla. Pu darsi che possa leggere lespressivit che si
nasconde nelle lente onde del mare, nel loro avanzare e retrocedere sempre con infinita
pazienza solo perch, come tutti, anche io partecipo della vita, ma mi sembrerebbe sem-
plicemente riduttivo volerle leggere alla luce della mia esperienza del movimento, come
se io davvero avessi gi avuto esperienza di un simile lento incedere e ritrarsi, il cui valore
espressivo tutto nel suo essere cos difficilmente assimilabile allambito di ci che vivo
o di ci che morto. E in ogni caso: quando anche fosse vero che io riesco a leggere i
fenomeni espressivi in virt della mia partecipazione alla vita, questo ancora non signifi-
cherebbe che io possa metterli in ogni forma e in ogni misura. Dire che posso leggere solo
ci che conosco non significa ancora dire che debbo aver scritto quello che riesco a leg-
gere.
Queste ultime considerazioni ci riconducono in prossimit di un tema ulteriore che me-
rita di essere discusso. Come abbiamo osservato, lo sforzo pi rilevante di Lipps consiste
nel cercare di ancorare la proiezione empatica ad una qualche caratteristica delloggetto
stesso. Le indagini sul significato espressivo delle colonne da questo punto di vista par-
lano chiaro: Lipps ci propone un insieme di tesi che sembrano poggiare direttamente sulle
propriet della colonna, sulla sua forma sensibile. Non vi dubbio che ci sia in parte
vero, e tuttavia dubbio che il modo in cui Lipps imposta il problema sia davvero suffi-
ciente. Lipps ragiona cos: attribuisce alla percezione il compito di acquisire i dati, nella
loro semplice realt, ma ad essa affianca la capacit rappresentativa limmaginazione,
insomma cui spetta il compito di arricchire la scena, ora proiettando su di essa una di-
namica, ora unaffettivit che non le compete. Il punto tutto qui: che cosa giustifica
limmaginazione nel suo operare? Lipps piuttosto vago su questo punto: ci dice che
possiamo proiettare sulla forma, colta immaginativamente nella sua dimensione dinamica,
il nostro vissuto corporeo, fondandoci su unanalogia, ma non ci dice in primo luogo che
cosa ci consente di interpretare dinamicamente ci che statico. Ci dice che siamo co-
stretti ad immaginare il contorno delle cose come se fosse un confine che dobbiamo dina-
micamente contrattare con lo spazio vuoto, ma questa necessit non sembra spiegabile.
Che cosa mi costringe a immaginare cos? A questa domanda sembra possibile rispondere
solo se possiamo individuare sul terreno percettivo quella stessa dinamica che Lipps sem-
bra invece voler espungere esplicitamente da ci che propriamente dato ed esperito. Ma
se nulla in ci che esperito pu contenere effettivamente percepito pu contenere una
dimensione dinamica, allora non si vede in che senso questa dimensione possa essere ag-
giunta necessariamente dallimmaginazione. Se nella percezione del contorno di un og-
getto non vi nulla che ci costringa ad intenderlo come un equilibrio dinamico tra forze
perch mai dovremmo necessariamente immaginarlo cos e non diversamente? E perch
in generale saremmo costretti a immaginare qualcosa? Un discorso analogo vale per ci
che Lipps chiama linterpretazione empatica. Se nella scena cui assisto e che vedo non vi
nulla che io colga come vivo e se non vi nulla che mi si dia percettivamente come se
fosse animato da una sua interna vitalit perch mai dovrei attribuirgli immaginativamente
una vita? Che cosa mi dovrebbe spingere a quellimmedesimazione radicale in virt della
quale colgo nella colonna il suo ergersi e il suo sforzarsi di vincere la schiavit del peso?
Se ci che vedo per sua natura altro e se non vi nulla che mi si dia come se fosse un
gesto, perch dovrei immedesimarmi in esso? E perch dovrei immedesimarmi proprio
cos? In sostanza: Lipps ci invita a pensare alla dimensione dellempatia come ad una
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prassi immediata, necessaria e irriflessa che dona senso e che attribuisce a ci che perce-
piamo una forma che di per s non ha. Ma se cos stanno le cose, se non vi nulla in un
decorso fenomenico che mi costringa a coglierlo come parte di un comportamento espres-
sivo perch mai dovrei essere costretto a immaginare che cos stanno le cose? Certo, posso
immaginare che la Luna che compare e scompare nel cielo nellarco di un mese sia una
divinit che inscena la vicenda ciclica del nascere e del morire, ma non sono costretto a
immaginare cos perch non vedo cos: il succedersi delle fasi lunari troppo lento nel
tempo perch si possa assistere allo spettacolo del suo dipanarsi. Al contrario davvero
difficile (se mai possibile) tacitare il carattere di minaccia che si fa avanti con tanta
protervia nei tuoni, ma dobbiamo davvero sostenere che difficile farlo perch siamo
costretti a immaginare cos? E da che cosa siamo costretti se non dal fatto che la minac-
ciosit del tuono la sentiamo e con estrema chiarezza?
Su queste ultime considerazioni dovremo in seguito ritornare, quando dovremo discu-
tere in generale della plausibilit delle teorie proiezionistiche. Ora dobbiamo invece chie-
derci se non sia possibile per una teoria proiezionistica venire a capo almeno di alcune
delle critiche che abbiamo proposto per contrastare la posizione di Lipps. Io non lo credo,
ma Richard Wollheim ha pubblicato in Mind and its Depth (1994) un saggio interessante,
intitolato Correspondence, projective properties and expression su cui vale la pena indu-
giare un poco poich di fatto lidea da cui queste pagine sono mosse che sia in fondo
possibile dimostrare che possiamo unire senza contraddizione le linee generali di una teo-
ria proiettiva con il mantenimento della distinzione tra avvertire e provare unemozione
che abbiamo dapprima ravvisato nelle pagine kantiane e cui abbiamo dato un peso cos
rilevante in queste nostre considerazioni.
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LEZIONE SETTIMA
1. Una teoria della corrispondenza
Dobbiamo partire di qui: da un saggio di Richard Wollheim che ci invita innanzitutto a
riflettere sul fatto che, talvolta, attribuiamo predicati psicologici a stati di cose che non li
possono pienamente sorreggere, come accade quando di un paesaggio urbano diciamo che
malinconico o di un prato primaverile che gioioso. Si tratta di affermazioni che hanno
una loro natura particolare, e tuttavia Wollheim ci invita innanzitutto a chiederci se non
sia lecito sostenere che quando ci esprimiamo in questo modo vi comunque qualcosa
nelloggetto che corrisponde a ci che asseriamo, proprio come accade nelle forme con-
suete della sintesi predicativa. Quando dico che questo foglio di carta bianco dico di
questo foglio di carta che bianco: sostengo cio che vi sia una qualche propriet nel
foglio che giustifica il mio dire cos del foglio. Al predicato nel giudizio deve dunque
corrispondere una propriet nelloggetto. Ora, come stanno le cose quando ci muoviamo
sul terreno delle attribuzioni di propriet espressive a stati cose come un paesaggio o una
successione di suoni? Possiamo davvero dire, seguendo Baudelaire, che vi nella natura
uninfinit di corrispondenze, di propriet che sorreggono le nostre attribuzioni di pro-
priet espressive?
Per Wollheim a questa domanda si deve dare una risposta affermativa, ma questo signi-
fica in primo luogo mettere da parte un possibile errore lerrore di chi crede di dover
negare la teoria della corrispondenza sul fondamento della constatazione ovvia secondo
la quale solo una soggettivit pu avere effettivamente uno stato danimo. Si tratta di un
errore che ha alla sua radice unincomprensione linguistica: chi nega che sia lecito parlare
di una corrispondenza obiettiva sembra non avere compreso che parole come malinco-
nia o serenit significano cose diverse quando sono volte ora a denotare un vissuto,
ora una propriet nelle cose. Ne segue che quando asseriamo che un paesaggio malin-
conico non intendiamo affatto asserire che possa provare proprio quel vissuto che talvolta
sa ridestare in chi lo osserva; tuttaltro: significa solo riconoscere che alla malinconia
come stato danimo corrisponde qualcosa anche se certo non un vissuto:
What is given as a reason for this, and what is undoubtedly true, is surely irrelevant.
This is that there is no psychological property of the object to which we thereby
refer: we do not, in this kind of predication, refer to a property that could be pos-
sessed only by the possessor of a psychology. That is true, but it is irrelevant, because
it is perfectly possible that the psychological predicates that we apply to correspond-
ing nature refer to properties, but not to the properties that they refer to in their stand-
ard use. In other words, we could hold the view that there is what philosophers call
a fact of the matter to correspondence without believing in animism or committing
the Pathetic Fallacy. In fact I believe that such a view is right, even though it does
require invoking a notion that I believe we should in general try to avoid: ambiguity.
Psychological predicates that double up are ambiguous (R. Wollheim, Correspond-
ence, Projective Properties, and Expression, in The Mind and its Depth, Harvard,
1995, pp. 146-147).
Ma se cos stanno le cose, se possiamo proporre una teoria della corrispondenza solo a
patto di riconoscere che vi unambiguit di fondo nei nostri usi linguistici, allora diviene
necessario innanzitutto chiedersi quale possa essere la natura di quelle propriet obiettive
che corrispondono alle determinazioni psicologiche che attribuiamo alle cose. Un fatto
chiaro: per Wollheim deve trattarsi di propriet molto peculiari poich non possiamo
certo pensare che siano n vissuti, n mere propriet obiettive. Non possono essere
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vissuti: un paesaggio non pu essere malinconico. Ma non possono essere nemmeno
propriet materiali, come il peso o la forma o anche una qualsiasi configurazione fe-
nomenica delloggetto stesso. Di qui la soluzione che Wollheim ci propone e che ri-
calca una via che conosciamo bene le propriet di cui discorriamo debbono essere
propriet proiettive:
When psychological predicates are applied to nature for reasons of correspondence,
what they refer to I call projective properties. [].
Wollheim ritiene che per venire a capo della natura di queste propriet sia innanzitutto
necessario riflettere sul modo in cui ne abbiamo esperienza. Ora, le propriet proiettive
sono innanzitutto causa dei nostri vissuti: la malinconia del tramonto pu appunto de-
terminare il mostro stato danimo, proprio come una musica allegra pu allietarci. Lo
stato danimo che proviamo, tuttavia, non soltanto leffetto soggettivo di quelle pro-
priet obiettive, ma ne anche lesperienza che ci consente di identificarle, un po come
il rosso che noi avvertiamo da un lato leffetto di un potere insito nelle cose, dallaltro
il modo in cui veniamo a consapevolezza di quel tratto obiettivo delloggetto. In questo
dunque le propriet proiettive rammentano le propriet secondarie, ma se ne differen-
ziano innanzitutto per la loro specifica complessit. Wollheim ritiene che vi siano due
differenti aspetti di questa complessit su cui necessario riflettere un poco:
There are two aspects to this experience that account for its complexity. For, on the
one hand, though the experience is a perceptual experience, it is not a wholly per-
ceptual experience. It is a partly affective experience, but the affect that attaches to
the experience is not affect directed towards the property itself, or, at any rate, not
exclusively directed towards it. It is affect directed partly towards older or more
dominant objects. When a fearful object strikes fear into an observer, as it does, it is
not solely fear of that object. On the other hand, the experience reveals or intimates
a history. It is not so much that each individual experience intimates narrowly its
own history: that is true only of the formative experiences in the life-history of the
person. What later experiences do is to intimate how the sort of experience they
exemplify comes about. Such experiences occur originally in the aftermath of pro-
jection, and the fact that later experiences intimate this origin, and do so even when
they do not themselves originate in this way, is the reason why I call them experi-
ences of projective properties. (ivi, p. 149).
Cerchiamo di chiarire che cosa Wollheim intende quando si riferisce a questi due mo-
menti.
1. Unesperienza a due livelli. Per Wollheim lesperienza delle propriet proiettive
unesperienza complessa perch abbiamo a che fare con unesperienza percettiva che, tut-
tavia, insieme anche unesperienza colorata affettivamente. Percepiamo qualcosa, ma
insieme lo percepiamo nel suo corrispondere ad un qualche stato danimo determinato. E
ci significa: non abbiamo semplicemente esperienza di un oggetto caratterizzato da una
propriet naturale N, ma cogliamo questultima nel suo corrispondere ad una determinata
emozione E.
Ora cogliere la propriet di un oggetto nel suo corrispondere ad unemozione vuol dire
coglierla cos come ci apparirebbe se la esperissimo alla luce di quella stessa emozione:
la possibilit di cogliere una propriet che nelloggetto corrisponda ad uno stato affettivo
fa dunque tuttuno con il carattere proiettivo della propriet che garantisce la corrispon-
denza. Che cosa Wollheim intende dire presto detto: ci che trasforma una propriet
meramente obiettiva N in una propriet proiettiva P il fatto che N ci appare alla luce di
una determinata emozione E che la trasforma in P in una propriet che corrisponde
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allemozione E, ma che si d nelloggetto esperito. Ma ci appunto quanto dire che ci
che trasforma N in P il suo essere colta alla luce di una proiezione determinata.
Certo, perch sia possibile che vi sia corrispondenza, necessario che loggetto abbia
gi una sua determinata configurazione materiale che non in un rapporto meramente
estrinseco con la propriet proiettiva che chiamata a sorreggere. Una propriet proiettiva
appunto una propriet complessa e non pensabile che qualcosa nella natura ci appaia
corrispondere ad un nostro stato danimo, se essa non gi di per s caratterizzata da una
qualche interna analogia con ci la dimensione affettiva che la determina proiettivamente.
Un tramonto potr racchiudere una propriet proiettiva come la malinconia (come ci che
corrisponde alla nostra malinconia) solo perch ha un certo andamento fenomenico per-
ch i colori si vanno lentamente spegnendo, perch il Sole scompare dietro lorizzonte, e
cos di seguito e sarebbe in linea di principio sbagliato credere che sia possibile proiet-
tare qualsiasi cosa su qualsiasi sostrato.
Su questo punto, che ricorda cos da vicino tesi che abbiamo a suo tempo discusso, le
analisi di Wollheim sono per certi versi pi ricche, per altri pi povere di ci che Lipps
aveva a suo tempo sostenuto. Sono, in un certo senso, pi ricche: Wollheim muove da un
contesto teorico fortemente permeato dal freudismo e proprio per questo ritiene che il
fenomeno della proiezione abbia una sua ragion dessere nelle dinamiche conflittuali e
pulsionali che agitano la soggettivit e che determinano la natura della sua vita psichica.
Di qui la distinzione tra proiezione semplice e proiezione complessa. La proiezione sem-
plice caratteristica della vita psichica del bambino e si configura come una strategia per
esternalizzare una pulsione sgradita: il bambino si sente malinconico, ma proietta la sua
malinconia su persone o su accadimenti, liberandosi della responsabilit del proprio stato
e attribuendolo ad una soggettivit esterna o a un evento che viene momentaneamente
animato. Nel caso della proiezione semplice, tuttavia, non si pu ancora parlare di pro-
priet proiettive, e per due differenti ordini di ragioni. In primo luogo, la tonalit affettiva
attraverso la quale le cose ci appaiono deve essere in atto e non capace di trovare una
nicchia nelle cose stesse e di ancorarsi stabilmente in esse. In secondo luogo, poi, qualcosa
ci appare connotato affettivamente solo perch abbiamo proiettato nella cosa il nostro
stato danimo, vivificandola anche solo se per un attimo. La proiezione infantile appunto
una proiezione semplice che non crea propriet nuove perch vive momentaneamente in
unillusoria animazione del mondo che le consente di ritrovare in ci che esperisce ci
che vive:
The infant projects feelings, welcome and unwelcome, on to random parts of the
environment, without any concern for, or interest in, what the environment is like.
But, as a corollary, projection at this stage of development has only a transient effect.
It may momentarily relieve anxiety, but it has no enduring influence upon the way
in which the infant continues to perceive the environment. However, as the psychol-
ogy matures, projection becomes more orderly, and those parts of the environment
upon which feelings are projected are now selected because of their affinity to their
feelings. And in consequence they can continue to be experienced as of a piece with
those feelings. What I called the formative experiences or instances of projection can
occur only after this developmental stage has been reached (ivi, p. 152).
Sarebbe tuttavia un errore credere che sia sufficiente una qualche analogia tra la natura e
lo stato psicologico perch la propriet proiettiva prenda forma. Ovviamente le cose non
stanno cos: necessario infatti che una proiezione abbia luogo. Si tratta, per Wollheim,
di un punto essenziale che sembra assumere un carattere quasi definitorio. Di per s, la
congruit della natura non basta perch altrimenti non ci sarebbe bisogno di parlare di
propriet proiettive: deve dunque esserci qualcosa che va al di l della natura stessa e che
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rende le corrispondenze propriet di un genere particolarissimo. Non solo: la stessa pos-
sibilit di tratteggiare con maggiore precisione la natura di queste connessioni analogiche
deve essere, per Wollheim, senzaltro messa da canto e su questo punto le analisi che ci
vengono davvero pi povere delle riflessioni di Lipps che abbiamo dianzi discusso. Certo,
anche per Wollheim debbono esserci analogie tra le propriet naturali e le propriet proiet-
tive che ne derivano, ma di queste analogie non si pu dire nulla al di l del loro necessario
sussistere perch ogni tentativo di essere pi esatti si scontrerebbe con la sostanziale ne-
gazione della necessit del momento proiettivo:
It might seem a lacuna in this account that I have said nothing informative about the
affinity between psychological conditions and parts of nature on to which we are
inclined to project them. But what more is wanted? If what is wanted is information
about how exactly nature has to look in particular cases if it is to be apt for the pro-
jection of this rather than that feeling, then this demand must surely go unsatisfied.
For how could we convincingly describe what it is about some aspect of nature that
makes it suitable for the projection of some particular feeling without upgrading the
mere affinity into the projective properties of which it is at any rate, on my view
the mere substrate? (ivi, p. 152).
Di qui appunto la specificit della proiezione complessa: da un lato presuppone negli og-
getti una qualche analogia che li renda assimilabili alla nostra vita affettiva, dallaltra non
assume la forma di unanimazione ingenua del mondo. La proiezione complessa non trova
nel mondo uneco immediata e non si perde in uningenua consonanza affettiva, ma co-
struisce una propriet nuova che solo simile, ma non identica al nostro vissuto. La proie-
zione complessa crea le propriet proiettive che sono dunque propriet di secondo livello:
sono nelle cose solo in quanto ci appaiono alla luce di una proiezione che deve esservi
stata in un qualche tempo:
With complex projection, the property that some natural part of the environment is
experienced as having is not the same as the property that the person originally had.
How could it be, given that nature has no psychology? A blanket-phrase, a made-up
locution, for saying how the two properties are related would be this: that nature, in
its relevant parts, is felt to be, not actually melancholy, but of a piece with the per-
sons melancholy. A deceptive feature, which could misguidedly be seized on as an
instructive feature, is that, although, in the case of complex projection, the two prop-
erties involved are different, in certain circumstances someone might use the same
predicate to pick out both: as indeed I did, a few moments ago in introducing com-
plex projection. This is a practice of which the doubling-up in correspondence is a
special case (ivi, pp. 151-152).
2. Siamo giunti cos in prossimit della seconda caratteristica peculiare delle proiezioni
complesse: il loro rimandare ad un passato che li qualifica appunto per quello che sono
proiezioni. Le proiezioni complesse ci propongono una propriet obiettiva: qualcosa, nel
mondo, ci appare caratterizzato da uneffettiva corrispondenza con una qualche nostra
emozione. Le corrispondenze, tuttavia, ci si danno fenomenologicamente come propriet
proiettive e questo significa che per noi esperirle significa anche coglierle nel loro riman-
dare ad un passato in cui la proiezione o deve essere avvenuta. Le corrispondenze sono
propriet che ci parlano della loro storia e questo significa, in alcuni casi prototipici, che
la loro apprensione ci riconduce al ricordo dellesperienza proiettiva da cui hanno tratto
origine. Non posso non vedere la malinconia di quel paesaggio, ma coglierla significa
anche per me ritornare nel ricordo allesperienza della proiezione, un po come accade
quando guardando la parete sbrecciata non possiamo fare a meno di rammentare quel
chiodo che non voleva entrare:
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The first part of the claim was that a number of such experiences intimate their own
actual history: they intimate, in other words, that they derive from an instance of
projection. Consider then the case of someone who has just projected his feelings on
to the environment: say, melancholy. Now if this person perceives the relevant part
of nature as of a piece with his melancholy, what will lead him to do this is, in addi-
tion to the affinity of one to the other, a memory of the projection. This memory will
organize or structure the perception in a way that should be familiar to us from anal-
ogous cases. So, for instance, a persons pain in his thumb might well be stabilized
by the memory that he has just grazed his thumb in the course of paring a carrot (ivi,
p. 153).
Ma le cose non stanno sempre cos: non sempre accade che ad una qualche propriet
proiettiva si leghi il ricordo determinato della proiezione da cui pure deve avere avuto
origine. Talvolta semplicemente troviamo nelle cose una corrispondenza, senza rammen-
tare unesperienza passata cui ricondurre ci che va al di l della mera determinatezza
naturale delloggetto. Ora, che una proiezione debba aver luogo sembra essere, in primo
luogo, una tesi che ha un suo fondamento ontologico: in un paesaggio non pu esserci
nulla che possa propriamente corrispondere alla malinconia che, guardandolo, potremmo
provare e ci deve valere come un segno del fatto che una qualche proiezione deve aver
avuto luogo. Wollheim, tuttavia, non si accontenta di questa giustificazione ontologica,
ma ritiene che sia possibile sostenere anche da un punto di vista descrittivo che una proie-
zione deve aver avuto luogo. Quando vedo la malinconia del tramonto non rammento,
certo, la prima volta in cui ho provato malinconia guardandolo: la malinconia del tramonto
c al di l del mio avvertire ora malinconia e, anche, del mio rammentare di avere un
tempo provato proprio quello stato danimo. E tuttavia, cogliere la malinconia del tra-
monto significa anche, per Wollheim, cogliere una propriet che non posiamo non rico-
noscere come frutto di un atteggiamento proiettivo. Cogliere la malinconia del tramonto
significa riconoscere in una propriet la sua origine significa vedere che ci che fa del
calare del Sole una scena che ci commuove deve infine ricondurci ad un modo in cui
quella scena stata interpretata dai vissuti affettivi della soggettivit:
A natural suggestion is that this intimation takes the form of a recognitional capacity
we have. In other words, we recognize parts of nature as those on which we might
have, or could have, projected this or that kind of feeling. Indeed we might think that
such a recognitional capacity is part and parcel of the ability to project. If, then, we
do have such a capacity, this capacity seems fully competent to extend the explana-
tion of our perception of projective properties beyond the narrow base provided by
what I have called the aftermath of projection (ivi, p. 153).
Il senso di queste considerazioni relativamente ovvio. Wollheim parla di una capacit
di riconoscimento e ci invita a sostenere che non possiamo cogliere la malinconia del
tramonto senza afferrare insieme il rimando ad una qualche proiezione di sorta. Insomma:
le propriet proiettive avrebbero nella loro stessa natura un rimando alla loro origine. Che
cosa questo significhi lo si pu comprendere forse con un esempio. Un bambino prende
un ramo e lo usa come una spada, per sfidare altri bambini a duello. Il ramo pu essere in
parte adattato allo scopo: qualche foglia secca pu essere rimossa, limpugnatura pu es-
sere migliorata, e cos via. Non si tratta di una prassi inessenziale, ma di un momento che
ha una sua valenza costitutiva: un pezzo di natura diviene un manufatto e acquista cos un
carattere culturale. Ora quel ramo avr una forma che rammenta insistentemente una
spada e questa forma aiuter il bambino a non aver pi bisogno di pensare quale sia il
gioco migliore per quel pezzo di legno: la forma dice ad alta voce che cosa si deve fare di
quel ramoscello e questa funzione ludica si lega nel tempo a quel pezzo di legno che
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diviene un giocattolo ed un giocattolo resta anche se, dopo qualche mese, ci si dimentica
del fatto che tale diventato solo in virt di una prassi ludica che ha proiettato sulla de-
terminatezza naturale del ramo una propriet innaturale. Il punto qui: qualcosa diventa
un giocattolo perch lo usiamo come un giocattolo. Una volta che la prassi si sedimenta
in una propriet, tuttavia, accade qualcosa di nuovo: abbiamo davanti a noi un oggetto che
un giocattolo, che ha la propriet proiettiva che deriva dalla prassi ludica. Far luce su
questa propriet significa tuttavia coglierne un tratto importante: per imparare a coglierla
dobbiamo imparare a riconoscerla come il correlato di una prassi. Lo stesso accade per le
propriet proiettive: ci sembra di trovarle negli oggetti, ma possiamo trovarle solo se le
riconosciamo come correlato di uno stato danimo che dobbiamo avere un tempo vissuto
e alla luce del quale debbono esserci apparse in una forma carica di affettivit le propriet
che nelloggetto sussistono naturalmente, prima di ogni determinazione psicologica.
Possiamo fermarci qui nellesposizione delle tesi di Wollheim. Al di l della loro bre-
vit e della relativa oscurit di alcuni passaggi, lobiettivo cui Wollheim ben chiaro:
Wollheim intende mostrare che possibile per una teoria proiezionistica rendere conto
del fatto che vi una differenza irriducibile tra lavvertire la malinconia del crepuscolo e
provarla. Il crepuscolo ha una propriet che avvertiamo e che non coincide con il nostro
sentirci pi o meno toccati dal fenomeno di cui siamo testimoni. Di qui la tesi di Wol-
lheim, che ci invita a porre nel catalogo delle realt nelle quali ci imbattiamo nella no-
stra esperienza del mondo un nuovo e particolare tipo di propriet: le propriet proiettive.
Le propriet proiettive le troviamo nel mondo, ma riconoscerle significa cogliere ci che
propriamente o impropriamente ci rammentano: il loro essere frutto di una proiezione che
deve pure un tempo esserci stata. Ci sono apparse cos quelle propriet perch le ab-
biamo viste alla luce di unemozione che ne ha modificato laspetto. E non importa se non
ci ricordiamo affatto di questa proiezione: deve esserci comunque stata, che la ricordiamo
o no, cos come deve esserci stata un tempo la percezione di quella scena passata che ora
ricordiamo, senza tuttavia rammentare di averla un tempo esperita.
2. Considerazioni critiche
Come dobbiamo reagire a queste considerazioni che cercano di stringere in un unico nodo
la teoria proiezionistica delle propriet espressive e la tesi obiettivistica secondo la quale
le propriet espressive si avvertono, anche senza provarle? Cos, io credo: chiedendoci da
un lato se la teoria proiezionistica davvero in grado di mantenere ci che ci promette e
se, dallaltro, ci che ci promette davvero sufficiente per venire a capo del nostro pro-
blema.
Affrontiamo innanzitutto la prima domanda. Wollheim ragiona cos: se deve essere pos-
sibile imbattersi in propriet espressive se pu capitarci di trovare malinconico il tra-
monto quando siamo tuttaltro che cupi dumore ci deve accadere perch le proiezioni
si stabilizzano nelle cose lasciando in esse quella coloritura particolare che trasforma le
propriet naturali in corrispondenze in propriet espressive, dunque. Queste propriet di
fatto le troviamo nelle cose, ma per coglierle in tutta la ricchezza del loro senso dobbiamo
essere in grado di ascoltare ci che in qualche modo ci dicono: le propriet espressive ci
dicono la loro origine e per coglierle siamo costretti a vedere nella loro dimensione affet-
tiva il segno di una proiezione che deve esserci stata, anche se forse ora non la rammen-
tiamo. Wollheim dice cos, e ci invita a pensare che le propriet espressive alludano nel
loro stesso senso ad un istante passato al momento in cui unemozione che provavamo
ha rotto gli argini della soggettivit e si diffusa sulle cose, rendendole cariche di un
significato espressivo inatteso.
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difficile cogliere con esattezza ci che Wollheim ci dice, ma forse se vogliamo inten-
dere le sue riflessioni che sono ora troppo rapide, ora non sempre lineari possiamo la-
sciarci guidare da un modello che pu meglio far luce sul nostro problema: il modello
degli oggetti culturali. Le ragioni di questa analogia sono ovvie. Gli oggetti culturali sono
oggetti che in qualche modo dipendono da noi e che ci sono solo perch ci sono uomini
che hanno una vita in comune e che agiscono nelle forme di una cultura: ci sono libri solo
perch ci sono uomini che sanno leggere, che hanno bisogno di fissare sulla carta quello
che la memoria da sola non pu salvare, e cos via. Ma gli oggetti culturali non sono
soltanto cose che dipendono nel loro esserci dal nostro stile di vita: sono anche cose che
possiamo trovare nel mondo che ci circonda, anche se per riconoscerli necessario co-
glierli alla luce di una prassi che determina il loro senso. Un giocattolo un oggetto tra
gli altri: un pezzo di materia del mondo. Cogliere quel pezzo di mondo come un giocat-
tolo, tuttavia, significa avere esperienza di un oggetto che appartiene alla nostra vita: non
esperiamo un oggetto qualsiasi, ma una cosa che appartiene alla nostra cultura e che ha
propriet che si attagliano ad una prassi che ci appartiene essenzialmente la prassi ludica.
Ora, dire che un giocattolo qualcosa che ha propriet che lo rendono esperibile come un
oggetto della nostra cultura vuol dire anche sostenere che qualcosa si stabilmente ag-
giunto al legno o alla plastica di quel pezzo di mondo e ne ha fatto ai nostri occhi un
oggetto che appartiene al nostro mondo e che non riducibile alla realt fattuale delle
cose della natura.
Per i giocattoli le cose stanno cos, ma un modello che pu essere davvero fatto valere?
Io non credo. Una prima differenza balza agli occhi: qualcosa un giocattolo (o un libro
o un tavolo o un cacciavite ) se da un lato possibile utilizzarlo in un certo modo e se
dallaltro stato fatto per utilizzarlo in quel modo ed proprio a questa duplice condi-
zione cui alludeva la nostra storiella del bambino che strappa le foglie dal ramo per poterlo
usare come una spada. Ma appunto: perch qualcosa sia un giocattolo deve essere un
oggetto costruito allo scopo poich questa la specificit dei giocattoli il loro essere
non soltanto oggetti atti ad essere usati in un certo modo, ma anche cose che sono state
costruite per quel fine. Ne segue che se per un caso un oggetto avesse tutte le propriet di
un giocattolo, ma non fosse stato fatto come uno strumento per un possibile gioco, non
sarebbe un giocatolo. Non lo sarebbe per definizione questo il punto: un giocattolo
non un giocattolo se non stato fatto per giocare ed dunque parte della sua natura
lessere stato costruito secondo uno scopo. Ora ci chiediamo: le cose stanno cos anche
nel caso delle propriet espressive? La risposta mi sembra essere, in questo caso, negativa:
non c nulla nella natura della malinconia del tramonto che mi costringa a pensare che
sia stata un tempo capace di provocare in chi lha esperito un certo stato danimo. Un
oggetto un oggetto culturale perch stato fatto proprio per quello scopo; un tramonto,
invece appare malinconico a noi uomini, ma non malinconico perch labbiamo visto
un tempo alla luce della nostra malinconia. Certo, Wollheim avrebbe ragione di osservare
che il nostro avvertire la malinconia del tramonto connessa con la nostra capacit di
sentire emozioni, ma questo ancora non significa che da un lato ogni propriet espressiva
sia stata un tempo non soltanto avvertita, ma anche provata e che dallaltro si possa soste-
nere che ogni emozione provata sia stata lorigine di una proiezione soggettiva. In altri
termini: non sembra esserci una ragione che ci costringa a sostenere che il cielo possa
sembrarmi minaccioso solo perch un tempo mi sono sentito spaventato e ho trovato nel
cielo scuro di nuvole un sostegno per proiettare le mie ansie nel mondo. Perch non dire
il contrario? Perch non sostenere che ho innanzitutto avvertito il carattere minaccioso del
cielo e che lho avvertito con tanta forza e con tanta determinatezza da provare io stesso
paura. Sarebbe contraddittorio dire cos? A me non pare. Mi sembra invece che non vi sia
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un ordine necessario che ci costringa a sostenere che non c emozione avvertita nelle
cose che non sia stata un tempo provata nella soggettivit e questo rende il paragone che
abbiamo proposto zoppicante perch un oggetto un oggetto culturale solo se stato co-
struito per un certo scopo. In altri termini: il paragone con gli oggetti culturali non regge
perch non c nulla nella natura delle propriet espressive che ci costringa a pensarle
come frutto di una proiezione nulla se non la tesi filosofica secondo la quale un tramonto
pu dirsi triste solo se labbiamo a suo tempo inteso alla luce di questa nostra emozione.
Possiamo tuttavia spingerci un passo in avanti ed osservare che per vedere qualcosa
come un giocatolo sufficiente imparare a volgere la nostra attenzione per cogliere certi
tratti determinati delloggetto quelli che da un lato garantiscono un possibile impiego
ludico e, dallaltro, ci permettono di cogliere il suo carattere di manufatto costruito per un
certo scopo. Che qualcosa sia o non sia adatto per giocarci qualcosa che non difficile
vedere e non certo unaura particolare quella che in questo caso siamo chiamati a scor-
gere per cogliere in ci che vediamo un giocattolo, ma un insieme di tratti caratteristici
che potrebbe essere elencati con una certa facilit: i
giocattoli sono fatti cos imitano gli oggetti della
vita reale e consentono di ripetere la vita adulta, senza
doverne condividere la seriet e la pesantezza. Cos,
un martello giocattolo deve poter essere impugnato e
lo si deve poter brandire per poter inscenare lavori im-
maginari, ma non deve essere troppo pesante e, so-
prattutto, non deve avere una testa di ferro: un mar-
tello giocattolo lo vediamo, se abbiamo imparato a
guardare nella direzione giusta in quella direzione
che ci insegnata dal fatto che abbiamo visto usare un
martello reale e che abbiamo imparato che cosa dob-
biamo e possiamo farcene di una cosa fatta cos. Di
una cosa fatta cos, appunto: abbiamo imparato anche a vedere che un oggetto stato
costruito per uno scopo. Questo un cavallino per giocare, che risale a quasi duemila anni
fa. grande quel tanto che basta perch un bambino di pochi anni lo possa maneggiare
tranquillamente e siccome un cavallo innanzitutto qualcosa che corre e galoppa al nostro
comando ha in sella un cavaliere bambino e quattro piccole ruote e un foro poco sopra la
bocca, per farvi correre un filo, cos che lo si possa trainare e portare a spasso, a piacere.
Lo vediamo e sapremmo subito come giocarci, se solo ne avessimo ancora voglia. Ma
vediamo anche che si tratta di un manufatto: lo vediamo nella pertinenza delle forme allo
scopo, ma anche nella loro corrispondenza ad una tecnica di costruzione determinata: ri-
conosciamo nella forma i segni della prassi costruttiva i segni dello scalpello che ha
cavato la forma dalla pietra e le soluzioni tecniche che sono state adottate e che sono
tutte coerenti con un disegno e con un insieme di abilit presupposte. Queste cose le ve-
diamo, perch abbiamo imparato a guardarle, mentre giocavamo o mentre costruivamo o
riparavamo giocattoli ma le vediamo perch ci sono e sono disponibili al nostro sguardo.
Per vederle non dobbiamo proiettare alcunch: dobbiamo invece guardarle nel modo giu-
sto e alla luce di una competenza che, sola, le illumina. Che cosa questo significhi presto
detto. In quel piccolo cavallo con cavaliere pu vedere un giocattolo solo chi sa giocare e
ha un corpo simile al nostro e prova piacere nellavere qualcosa che lo segua. Ma ci
quanto dire: per vedere qualcosa come un giocattolo necessario una competenza che ci
consente di applicare qualcosa di molto simile ad un concetto. Significa imparare a vedere
i tratti che ci consentono di applicare alla scena percettiva la regola che permette un rico-
noscimento. Ci che in un giocattolo vi di pi della mera materia di cui fatto il suo
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essere riconoscibile come un oggetto di un certo tipo: come un oggetto con cui si pu
giocare e che stato costruito per questo scopo.
Nel quadro che Wollheim traccia le cose stanno invece assai diversamente. Per Wol-
lheim, le propriet espressive sono propriet percepibili e non possibile in nessun modo
renderne conto nei termini di ci che si aggiunge ad unesperienza determinata quando la
riconosciamo alla luce di una possibile forma della nostra prassi e della sua dipendenza
da un qualche modo del nostro operare: le propriet espressive sono infatti propriet sen-
sibili che si aggiungo alla determinatezza puramente percettiva della cosa, alterandola.
proprio per questo che Wollheim sostiene che si tratti di propriet proiettive: la peculiare
coloritura affettiva che le caratterizza deve derivare dal loro essere state colte da una sog-
gettivit che, vivendo determinate emozioni, le proietta sul mondo. Per Wollheim, di per
s il Sole al tramonto non malinconico: lo solo perch vi proiettiamo la nostra malin-
conia. Ne segue che per la teoria di Wollheim non si tratta di imparare a riconoscere nel
tramonto del Sole ci che dovrebbe consentirci di vederne la malinconia perch se
stiamo a ci che Wollheim ci dice nel Sole la malinconia non possibile riconoscerla,
visto che non c nulla di simile. Certo, per cogliere la malinconia del tramonto neces-
saria una competenza affettiva: devo avere imparato che cosa la malinconia e quali sono
le forme in cui si manifesta, e posso averlo fatto solo perch sono cresciuto in una comu-
nit di persone, di uomini che conoscono anche troppo a fondo questa possibilit emotiva.
Sostenere tuttavia che una propriet pu essere colta solo da un soggetto che abbia una
competenza emotiva, acquisita nel contesto umano di una comunit di persone, non signi-
fica sostenere che le propriet espressive siano propriet proiettive, proprio come ricono-
scere che qualcosa un giocattolo solo per chi sa come si gioca e per chi in qualche misura
ci assomiglia, non significa asserire che le determinazioni che fanno di un pezzo di pietra
scolpita un cavalluccio siano propriet proiettive che, giocando, debbano essere aggiunte
a quel pezzo di mondo. Se ci mettiamo invece nella prospettiva di Wollheim dobbiamo
sostenere che ogni volta che percepiamo una propriet proiettiva qualcosa deve aggiun-
gersi alla percezione del sostrato naturale di quella propriet e questo qualcosa appunto
la determinazione espressiva: quella coloritura affettiva che alla cosa deriva dal suo essere
colta da un soggetto mosso da unemozione particolare. Ora, se ci interroghiamo sullori-
gine di questa coloritura affettiva in ogni singola esperienza di propriet espressive siamo
evidentemente ricondotti ad un qualche stato reale della soggettivit esperiente: se il Sole
al tramonto mi appare cos perch vi proietto la mia malinconia. Ma ci quanto dire
che la condizione per poter cogliere una propriet proiettiva fa tuttuno con il trovarsi,
consciamente o inconsciamente, in uno stato emotivo che possa proiettare sulle propriet
naturali delloggetto la luce che dovrebbe renderle propriet espressive. Delle due luna:
o si sostiene che le propriet espressive non sono una coloritura peculiare che alle cose
deriva dal nostro essere di un umore determinato o si sostiene che quellumore determi-
nato deve esserci se il mondo ci appare in un certo modo. Non posso imputare alle mie
lenti colorate il colore del mondo se non ho dimenticato di inforcare gli occhiali. Di qui
la conseguenza che dobbiamo trarre: a dispetto di ci che lo stesso Wollheim vorrebbe
sostenere, siamo ricondotti dalle sue pagine a dover ricondurre ogni propriet espressiva
ad una proiezione attuale, sia essa consapevole o inconsapevole, qualunque cosa questul-
tima ipotesi significhi.
Le riflessioni di Wollheim tuttavia non sono soltanto incapaci di mantenere ci che pro-
mettono: anche se sapessero giungere alla meta cui tendono, sarebbero comunque insuf-
ficienti per rispondere effettivamente al problema cui tentano di dare risposta, e per tre
differenti ragioni.
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La prima ci riconduce ad un fatto su cui ci siamo gi soffermati: per Wollheim, possiamo
avvertire una propriet espressiva solo perch abbiamo gi provato lemozione che le cor-
risponde e abbiamo proprio per questo proiettato sulle cose la luce soggettiva che di qui
trae origine. Questo ordine di priorit non sembra tuttavia affatto necessario: davvero
necessario che una musica mi abbia effettivamente commosso perch io possa trovarla
triste? Non potrei avvertirne la tristezza e solo in seguito essere commosso da quello che
ascolto? A questa domanda sembra necessario rispondere affermativamente. Ma se cos
stanno le cose, le analisi di Wollheim falsano il quadro descrittivo e ci costringono a pen-
sare che le propriet espressive siano, per lor natura, leco di ci che avvertiamo. Ma
questo sembra essere falso proprio a partire da una considerazione che lo stesso Wollheim
mette in luce, seppure per un differente motivo. Wollheim osserva cos:
For instance, nature can be found to correspond to depression and to terror as well
as to melancholy and to happiness: but, though we can call nature melancholy and
happy, we cannot call it depressed or terrified or, more precisely, we cannot
call it depressed or terrified for the reason that it corresponds to depression or
terror: and there is no apparent explanation why this should be so (ivi, p. 146).
Una ragione, tuttavia, sembra esserci e ci riconduce al fatto che la nostra reazione alle
propriet espressive non deve affatto essere necessariamente una mera ripetizione di ci
che esperiamo, ma nella norma uno stato danimo che si rapporta al proprio oggetto,
lasciandosi motivare da esso. Una natura deprimente non natura depressa: una natura
senza attrattive; un paesaggio che ci riempie di terrore non a sua volta terrorizzato, ma
cupo, angosciante, orrido, e cos via. Ma se le cose stanno cos, allora non si pu affatto
sostenere che la relazione che lega il soggetto alloggetto espressivo una relazione
espressiva di proiezione: non cerchiamo nella natura ci che esprime il nostro stato
danimo e non facciamo delluno leco dellaltra, ma troviamo invece in ci che esperiamo
il motivo che determina il nostro umore.
La seconda ragione cui alludevo ci consente di approfondire ulteriormente questo tema.
Wollheim ci invita a ricondurre le propriet espressive che avvertiamo nelloggetto alle
emozioni e agli stati danimo che proviamo soggettivamente, ma pu senzaltro accadere
che si diano situazioni in cui ci che si prova non si accorda affatto con ci che avverto.
Capita cos a Orlando, quando la favola dellamore di Angelica e Medoro che un vecchio
pastore gli racconta per consolare la sua visibile tristezza e cha molti dilettevole fu a
udire, lo precipita di contro in un dolore insopportabile. Nelle parole del vecchio pastore
Orlando avverte e non pu non avvertire la gioia di Medoro e di Angelica per il loro
amore e non pu non vedere la bellezza del luogo dei loro incontri, ma proprio questo lo
fa soffrire ancora di pi e il letto dei loro amori in cui ora egli stesso giace, gli sembra pi
duro di un sasso e pi pungente dellortica: quello che avverte diverso da quello che
prova, ma prova esattamente quello che prova, proprio perch avverte che quel luogo
stato per altri felice. E anche senza scomodare il paladino Orlando e Ariosto, tutti sap-
piamo che qualche volta si pu essere di cattivo umore alle feste, proprio perch tutto si
accorda ad unallegria di cui non ci si sente parte. Si avverte la gioia, ma non la si prova
una situazione che accade mille volte, ma che non sembra possibile spiegare se si ritiene
che le propriet espressive siano la coloritura specifica che le cose assumono in virt della
proiezione soggettiva dei nostri umori. Vi , per il vero, una possibile risposta che il filo-
sofo proiezionista potrebbe tentare di far valere: potrebbe argomentare infatti che tutte le
volte in cui il provare si distingue dallavvertire debba aver luogo una proiezione incon-
scia. Proviamo tristezza perch ci sentiamo esclusi dallallegria che condivisa dagli altri,
ma questo nostro stato danimo non ci trattiene dal proiettare sulla scena che esperiamo e
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sullatmosfera del luogo una gioia che tuttavia non ci sembra di avere vissuto. Proiettiamo
sulla natura che ad aprile rinasce la nostra gioia, eppure viviamo questa rinascita come
unillusione insopportabile che ci fa capire che aprile il pi crudele dei mesi o almeno
questo quanto Eliot ritiene di comprendere e di capire.
La terza ragione ci riconduce apparentemente ad un problema pi circoscritto. Torniamo
al saggio di Wollheim. Nelle sue considerazioni conclusive, Wollheim osserva che, per
quanto possa sembrare paradossale, latto creativo dellartista non poi propriamente di-
verso dal gesto dello spettatore. Creare, in fondo, significa prestare ascolto a quello che si
fa e scegliere in base ad un disegno espressivo: il musicista si mette al pianoforte e prova
le note e, insieme alle note, saggia le emozioni che i suoni ridestano in lui, scegliendo
passo dopo passo un percorso espressivo. Lopera nasce proprio cos, in un processo in
cui lartista il primo spettatore di se stesso:
That expression in art, though it derives from a creative act, is nevertheless borne by
strictly perceptible properties receives confirmation from an impeccable source: that
is, the nature of the creative act itself, regarded as a piece of behavior. For across the
visual arts the creative act always finds physical realization in a posture that allows,
that encourages, the artist to attend to his work even as he makes it. It ensures that
the artist is the original spectator of his work. But, if this is what he is, it is important
to see why. He is so, not just in order to discover what he has made, but, crucially,
in order to make it. The painter paints (partly) with his eyes: the sculptor carves or
models (partly) with his eyes: the draughtsman draws (partly) with his eyes. In other
words, if, as I have contended, correspondence in art derives from the artistic pro-
cess, the process itself anticipates this dependence through its physical or behavioral
realization. For, by compelling the artist to take stock of the works it comes into
being, the posture that he assumes permits him to see whether the work corresponds
to the inner condition that be all the while has had in mind. He can, while making
the work, note the experience that it causes in him, and he can then regulate, by what
he does to the work, the experience it may be expected to cause in others (ivi, p.
156).
Non mi sembra una conclusione paradossale: probabile che le cose stiano proprio cos
e che lartista veda o senta in ci che produce ladeguatezza complessiva ad un disegno
espressivo che non se non nel suo farsi. Mi sembra paradossale invece una seconda e
diversa tesi che si fa strada nelle pagine di Wollheim ed la tesi secondo la quale ogni
volta che avvertiamo la malinconia del tramonto o la serenit di una notte destate ci tro-
veremmo in una situazione molto simile a quella dellartista che cerca un materiale adatto
per esprimere al meglio una nostra emozione preesistente. In fondo non troveremmo af-
fatto malinconico il tramonto, ma dovremmo in fondo sostenere che il nostro umore che
trova ci che cerca per esprimersi. Malinconico come sono, mi ci vorrebbe proprio un
bel tramonto cos che dovremmo esprimerci, se Wollheim avesse ragione. Ma direi
che ha torto perch non vero che ad ogni situazione espressiva si possa far precedere un
desiderio di espressione. Non cerchiamo un tramonto per la nostra malinconia, ma sem-
plicemente ci accade di imbatterci in scene malinconiche ed anche allegre, per fortuna.
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LEZIONE OTTAVA
1. Uno sguardo allindietro
Nelle lezioni precedenti abbiamo cercato di far luce sulla natura delle teorie proiettive ed
abbiamo mostrato quali fossero le ragioni che sembrano motivare una simile posizione
teorica, per poi cercare di mostrare quali fossero le ragioni che a mio parere rendono
poco persuasive le teorie di Lipps e di Wollheim le uniche su cui ci siamo soffermati
effettivamente. Ora, anche se questo comporta una qualche ripetizione, credo che sia op-
portuno volgere nuovamente lo sguardo allindietro per cercare di mostrare quali siano le
difficolt contro le quali si scontra ogni teoria di carattere proiettivo. opportuno farlo
perch vedere chiaro su questo punto dovrebbe consentirci di fissare alcune condizioni di
carattere generale cui una teoria delle propriet espressive in generale deve poter far
fronte.
Una prima difficolt ci riconduce al problema della localizzazione delle propriet
espressive. Si tratta di un problema complesso cui nessuna delle posizioni che abbiamo
analizzato sin qui sembra capace di dare una risposta soddisfacente. Nel caso dei teorici
di stampo causalistico non difficile capire quale sia la soluzione che a questa difficolt
deve essere data: le propriet espressive sono nella soggettivit che le prova poich di
fatto non sono nullaltro che leffetto psichico di una causa reale. Certo, vi una tendenza
a porre nella causa ci che si d nelleffetto, ma si tratta in fondo soltanto di un errore, di
una sorta di metonimia cui non sappiamo facilmente sottrarci, anche se sarebbe opportuno
farlo. Sono triste quando guardo il tramonto sarebbe insomma la descrizione corretta di
ci che intendiamo quando, meno appropriatamente, parliamo della malinconia del cre-
puscolo.
Si tratta di una risposta semplice che, tuttavia, non sembra particolarmente vicina al dato
descrittivo. Vediamo la malinconia del tramonto proprio nel tramonto e sentiamo la dol-
cezza di una canzone proprio nel succedersi delle note e se diciamo del tramonto che
malinconico o della canzone che dolce non intendiamo affatto parlare di quel che ci
accade, guardandoli o ascoltandoli, ma vogliamo dire qualcosa della loro natura. Vo-
gliamo, in altri termini, descrivere qualcosa che li caratterizza. Se dico che una canzone
dolce, voglio dire qualcosa di quella canzone e non di ci che mi accade quando la sento,
ed per questo che ha senso che tu faccia valere la tua opinione se non sei daccordo con
me: se dici che a te sembra malinconica, non intendi affermare che sei diverso da me e
che su di te quella canzone fa un diverso effetto, ma mi inviti ad ascoltare meglio qualcosa
che, a tuo parere, ho ascoltato distrattamente. Se tu dici malinconica la canzone che a me
sembra dolce non siamo diversi: siamo in disaccordo, proprio come lo siamo quando tu
dici che una stoffa ti sembra porpora e io dico che mi sembra cremisi. Del resto, che le
propriet espressive si localizzino descrittivamente sul terreno obiettivo un fatto difficile
da negare. Apro la porta di una casa e avverto il grigiore che ne pervade le stanze, vedo
che ogni cosa al suo posto e questo eccesso di ordine mostra che nessuno sa pi cosa
farsene delle cose riposte sugli scaffali e sulle mensole; vedo tutto questo e mi rendo conto
che richiudere la porta e tornare sui miei passi lunico modo per non lasciarmi contagiare
dalla tristezza: chiudo la porta e la tristezza la lascio alle spalle, chiusa in quelle camere.
Certo, per il partigiano delle teorie causalistiche la risposta sembra essere a portata di
mano: chiudendoci la porta alle spalle, rimuoviamo la causa della tristezza che, se mai
c, in noi. Sarebbe tuttavia sbagliato, io credo, ragionare cos e per due differenti ra-
gioni. In primo luogo non affatto detto che io provi lo stato affettivo che avverto e
lesempio che abbiamo appena proposto lo dice con chiarezza: posso reagire in molti e
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diversi modi allo spettacolo di quelle stanze troppo ordinate posso reagire con un pizzico
di fastidio, con un atteggiamento in cui lironia si fa malinconica o con una tristezza che
si lega al timore che quelle stanze al passato possano assomigliare alla mia casa in futuro
ma la variet delle reazioni non cambia affatto la natura di quello che avverto. In se-
condo luogo, poi, la malinconia delle stanze di cui abbiamo appena discorso non mi si d
affatto come la causa di ci che provo, ma come il suo motivo. Il grigiore delle stanze non
la causa di un evento psichico, ma il motivo del mio rispondere alle propriet espres-
sive che esperisco assumendo un determinato atteggiamento. Una causa legata al suo
effetto da un nesso reale che sussiste necessariamente, ma che non pu essere ulterior-
mente interrogato; un motivo invece un nesso di carattere intenzionale che non ha ne-
cessariamente una consistenza reale, ma che per sua natura ci consente di rendere conto
della sensatezza di un comportamento: se reagisco con una punta di timore allo spettacolo
di una casa in cui ogni cosa sembra essere stata dimenticata esattamente al suo posto
perch vedo in quella disposizione delle cose lingrigirsi della vita nella vecchiaia e penso
che gli anni passano pi in fretta di quanto vorresti. Ma se ci che proviamo non causato
da ci che esperiamo, ma vi si rapporta in un nesso di motivazione, allora sembra neces-
sario sostenere insieme che ci allorigine della nostra reazione emotiva non una causa
cieca, ma una propriet espressiva in grado di determinare e sorreggere il nostro compor-
tamento.
Di qui la posizione delle teorie proiezionistiche. Le teorie proiezionistiche muovono da
una constatazione importante: dalla tesi secondo la quale la percezione delle propriet
espressive ha, spesso, una duplice localizzazione: se ascolto un adagio, posso lasciarmi
commuovere dalla malinconia della musica, ma la mia commozione risponde ad una ma-
linconia che avverto nei suoni stessi. Ora, per il teorico proiezionistico le propriet espres-
sive che hanno una localizzazione obiettiva debbono essere interpretate alla luce della loro
presunta dipendenza dai vissuti soggettivi che loro corrispondono: sento proprio l, in
quella successione di note, la malinconia di quelladagio, ma se ci accade solo perch
ho proiettato ci che io propriamente provo su una successione di materiali di per s privi
di espressione. Si tratta di una tesi che, ancora una volta, non sembra vicina alla dimen-
sione descrittiva dei fenomeni, per un insieme di ragioni che abbiamo gi osservato: non
siamo in primo luogo consapevoli di proiettare i nostri stati danimo sulle scene che ci
sembrano espressive, ma non siamo nemmeno in secondo luogo mossi sempre dagli
stessi vissuti che ci sembra di trovare nelle cose che motivano la nostra reazione emotiva
che, del resto, pu essere anche del tutto assente. Guardo la malinconia del crepuscolo,
ma non per questo mi lascio commuovere dalla scena che osservo e resto indifferente di
fronte ad una scena di cui pure avverto la dimensione espressiva.
Vi , tuttavia, una ragione che ci spinge a prendere le distanze dalle teorie proiezionisti-
che e che verte direttamente sul problema della localizzazione. Certo, il teorico dellem-
patia o delle corrispondenze sostiene che vi siano propriet espressive nelle cose, anche
se crede che dipendano esclusivamente da una proiezione soggettiva che si aggiunge alle
cose, facendocele apparire sotto una diversa luce. Ma ci quanto dire che il modo in cui
le propriet espressive ineriscono alle cose e si localizzano in esse dovrebbe essere carat-
terizzato da una relativa estrinsecit: se si trattasse di una proiezione, il carattere espres-
sivo dovrebbe essere relativamente indipendente dalle variazioni delloggetto che non pu
essere altro che unoccasione per proiettare un vissuto determinato piuttosto che un altro.
Al contrario, la propriet proiettiva dovrebbe avere un nesso con lo stato danimo della
soggettivit da cui propriamente dipende: la relazione proiettiva una relazione che si
fonda nella soggettivit e che ha nelloggetto trova solo lo spunto per la sua applicazione.
Ne segue che la variazione delloggetto dovrebbe solo indirettamente e accidentalmente
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determinare una variazione nella realizzazione di una propriet proiettiva, mentre le va-
riazioni dellumore soggettivo dovrebbero in qualche modo riverberarsi sul modo in cui
gli oggetti ci appaiono. Le cose tuttavia non stanno cos. Ascolto un adagio e ne avverto
la malinconia, ma insieme avverto anche il suo dipendere essenzialmente dalla natura dei
suoni che si susseguono: non decido nulla, ma semplicemente ascolto e a ogni nuovo
movimento si fa avanti accordo dopo accordo un diverso carattere espressivo che si im-
pone e che guida il mio ascolto, senza chiedermi nulla. Del resto, per modificare la pro-
priet espressiva che ora si impone al mio ascolto basta ben poco: sufficiente alterare
qualche accordo, rendere pi celere il ritmo o variare la dimensione timbrica e il carattere
malinconico dei suoni viene meno e al suo posto s fa strada una diversa espressivit.
Come abbiamo osservato, basta variare di poco la struttura dei suoni perch mutino le
propriet espressive che in quei suoni manifestano. Una simile variazione, invece, pu
essere del tutto insufficiente per variare lumore che provo: la musica che ho sentito mi
ha scosso, ma non basta che ora risuonino altre note perch il mio umore repentinamente
cambi. Viceversa, al variare del mio umore non varia affatto la percezione del carattere
espressivo delloggetto. Se entro da solo in un bosco di piante scheletrite la sera tardi
potrei sentirmi pervadere da un vivo senso di disagio e forse anche di timore che potrei
tuttavia tacitare ripetendomi a voce sommessa quello che so bene e cio che non vi
ragione di avere paura, che conosco la strada e non corro il rischio di perdermi e che
qualche ramo e qualche tronco dalle forme bizzarre non rappresentano certo un pericolo.
Posso tranquillizzarmi ripetendomi da solo questa strana cantilena di ovviet, ma il mio
sentirmi tranquillo non cancella la dimensione espressiva che appartiene a quel bosco e
che continuo ad avvertire, anche se ora la paura passata e non mi lascio pi smuovere
da quel che vedo. Certo, se sono impaurito mi sar pi facile cogliere laspetto inquietante
del bosco, ma questo ancora una volta non significa che abbia luogo una proiezione: vuol
dire solo . Se cerco per casa la mia matita, il mio sguardo cadr su astucci e su penne e su
tutto ci che di primo acchito sembra avere a che fare con la mia ricerca, ma il fatto che
io possa stupirmi di quante matite ci sono per casa non significa certo che le abbia proiet-
tivamente create: vuol dire solo che se la percezione animata da un interesse determi-
nato, si lascer guidare da esso e dar peso a tutti gli indizi che sembrano prometterle di
poter giungere alla meta. Lo stesso accade quando mi addentro nel bosco: se sono in-
quieto, facile che il mio sguardo cerchi e in qualche misura trovi nei tronchi e nei
rami, nelle rocce e nelle voci che si alzano nelloscurit una conferma del mio stato
danimo, ma questo ancora non vuol dire che abbia luogo necessariamente una proiezione:
vedo quello che cerco, ma non basta cercare per riuscire a vedere.
Non solo il problema della localizzazione che sembra tuttavia costringerci ad abban-
donare la prospettiva del proiezionismo: anche limpossibilit di venire a capo del nesso
che lega le nostre reazioni emotive alle cose che esperiamo. Questo nesso duplice: ci si
pu infatti interrogare sulle ragioni per le quali possiamo avvertire malinconico il crepu-
scolo o allegro un movimento di una sonata, ma ci si pu interrogare anche sulle ragioni
per le quali reagiamo alluna e allaltra in modi differenti. dubbio che si possa sempre
rispondere in modo univoco alla prima domanda: possiamo davvero dire per quale motivo,
per dirla con Paolo Bozzi, sentiamo ragricciante il suono di una settima diminuita? E c
una ragione che ci consenta di dire davvero perch un mattino sereno ci sembra allegro?
Su questo punto dovremo tornare, ma credo che sia lecita qualche perplessit che si ma-
nifesta del resto non appena cerchiamo di venire a capo con esattezza di queste ragioni e
abbandoniamo il terreno vago di analogie che ci sembrano suggerire qualcosa, ma non
sembrano in grado di spiegare alcunch. Diversa la situazione quando ci interroghiamo
sulle ragioni per le quali un cielo sereno ci mette allegria. A questa domanda una risposta
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c ed la pi banale: ci mette allegria, perch ci sembra allegro. E cos accade quando
sentiamo un adagio malinconico: se ci sentiamo pervadere da un indicibile struggimento
sappiamo bene il perch. Il motivo del nostro stato danimo labbiamo chiaro davanti a
noi: reagiamo a ci che esperiamo.
appena il caso di dire che, nella prospettiva del proiezionismo, questo duplice nesso
deve essere ricondotto ad ununica relazione che a sua volta deve necessariamente appa-
rirci insondabile: ci che osservo non pu di per s giustificare la mia reazione emotiva
perch di per s privo di qualsiasi determinazione espressiva. Certo, tanto Lipps quanto
Wollheim ci invitano a rammentare che il nesso proiettivo avanza delle richieste ai mate-
riali percettivi e sarebbe sbagliato sostenere che, a loro avviso, una propriet espressiva
qualunque pu diffondersi su un qualunque contenuto sensibile. Il borbottio sordo di un
tuono non si lascia interpretare in molti modi e sarebbe difficile proiettarvi unespressivit
diversa da quella che gli attribuiamo. Riconoscere questo nesso non significa tuttavia so-
stenere che si dia anche un nesso di motivazione: il materiale empirico sorregge la proie-
zione emotiva, ma non pu motivare ci che io provo. Il tramonto pu essere adatto a
sorreggere la proiezione che ce lo fa trovare malinconico, ma di per s non affatto ma-
linconico e non pu quindi giustificare il fatto che qualcuno provi malinconia, guardan-
dolo. Un nesso che ci consenta di giustificare quello che proviamo non c perch non
pu sussistere una relazione di motivazione tra ci che proviamo e ci che esperiamo; ne
segue che ogni proiezione deve apparirci nella sua essenza ultima ingiustificata. Eppure,
come abbiamo osservato, non questa la relazione che ci sembra sussistere tra lemozione
che ci cattura e il carattere espressivo della scena cui assistiamo.
Di queste considerazioni io credo si debba tenere conto e ci significa che una teoria
delle propriet espressive deve prendere atto di alcune tesi di carattere generale.
1. Deve riconoscere, in primo luogo, che le propriet espressive le esperiamo nella
loro inerenza agli oggetti: ci sembra di trovarle nel mondo e non di proiettarle su di
esso;
2. In secondo luogo, deve riconoscere che le propriet espressive dipendono stretta-
mente dalla variazione del decorso fenomenico. Variazioni anche minime del contesto
fenomenico alterano radicalmente la valenza espressiva di un determinato evento;
3. Deve, in terzo luogo, essere possibile distinguere tra lesperienza del carattere
espressivo di un determinato evento e la condivisione del tratto emotivo di cui espres-
sione o, come ci siamo espressi pi volte, deve essere possibile rendere conto della di-
stinzione tra avvertire e provare;
4. Deve, in quarto luogo, consentirci di cogliere il nesso di motivazione che lega la
nostra reazione alle propriet espressive.
Una teoria delle propriet espressive deve, io credo, saper soddisfare queste quattro con-
dizioni, senza per questo ricadere nelle difficolt di cui abbiamo precedentemente di-
scusso.
in questa luce che diviene opportuno cercare di far luce sulle riflessioni che Peter Kivy
ha dedicato al tema dellespressivit nella musica, in una serie di saggi che vanno da The
Corded Shell (1980) alla Introduction to Philosophy of Music (2002) di cui dobbiamo ora
brevemente parlare.
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2. Peter Kivy e la teoria del contorno
Il tema su cui Peter Kivy ci invita a riflettere ci riconduce sul terreno dellanalisi musicale.
Kivy muove infatti da alcune possibili analisi del fatto musicale che, per varie ragioni,
ritiene essere insoddisfacenti. Un tratto le accomuna: che ci si sforzi di leggere nelle sin-
fonie di Beethoven le vicende della sua vita, che si cerchi nella Sinfonia n. 83 di Haydn
una lode alla tolleranza e quindi una tesi filosofica di carattere generale o che ci si limiti
a sostenere che per comprendere una sonata si debbono chiamare in causa le immagini e
i pensieri che animano le rverie dellascoltatore, in tutti questi casi ci che passa in se-
condo piano la musica nella sua specificit. Cercare in una sinfonia un messaggio na-
scosto di natura autobiografica, cercare di leggere nei suoni tesi filosofiche o credere che
note e accordi siano parole di un linguaggio che ridesta in ciascuno di noi un diverso
universo di immagini significa andare al di l del fatto musicale e dimenticarsi del fatto
che la musica deve bastare a se stessa. Si tratta di un punto che , per Kivy, della massima
importanza e che in qualche modo dimostrato dalla possibilit stessa della musica asso-
luta: una sonata ha un senso non perch rappresenti qualcosa o perch ci dica qualcosa
che potrebbe essere detto a parole, ma perch fatta proprio di quei suoni, disposti proprio
in quellordine. Se c un significato della musica, si deve cercare nella musica stessa e
non altrove, ed per questo che Kivy ci invita a riconoscere le ragioni profonde del for-
malismo musicale:
La migliore definizione di formalismo, inizialmente, negativa: cio spiega ci che
la musica non . Secondo il credo formalista, la musica assoluta non possiede con-
tenuto semantico o rappresentazionale. Non si riferisce a nulla; non rappresenta og-
getti, non racconta storie, non fornisce argomentazioni, non espone alcuna filosofia.
Secondo il formalista, la musica pura struttura sonora; e per questa ragione tale
dottrina a volte chiamata purismo musicale (P. Kivy, Filosofia della musica.
Unintroduzione, Torino, Einaudi, 2004, p. 82).
La musica basta a se stessa: non rappresenta nulla e non ha un contenuto semantico. I
suoni non sono parole e la musica non un linguaggio: comprenderla, non significa capire
che cosa vogliano dire i suoni e per che cosa stiano le loro sintassi. Su questo punto Kivy
insiste molto, e tuttavia, tra le interpretazioni dei fatti musicali da cui Kivy ci invita a
prendere le distanze, vi sono anche letture che sono improntate al pi rigido formalismo.
Dire che la musica basta a se stessa non significa che se ne possa parlare soltanto nei
termini dotti di unindagine che si muova esclusivamente allinterno delle regole del lin-
guaggio musicale e non significa, per Kivy, espungere dal vocabolario dellanalisi e della
riflessione sulla musica il vocabolario delle emozioni e delle passioni. Cos, anche se il
musicologo ha ragione ad impiegare un linguaggio tecnico e anche se sbaglia chi crede di
poter sostituire al fatto musicale una narrazione di eventi biografici o di teorizzazioni fi-
losofiche, resta comunque vero che lascolto musicale non pu prescindere da una com-
prensione del fatto musicale che possa esprimersi nel linguaggio consueto delle emozioni
e delle passioni. Ora, una prima ragione di questo fatto ci riconduce, per Kivy, ad una
constatazione importante. Dire che la musica non ha un contenuto semantico non significa
infatti rescindere interamente ogni nesso con la dimensione dialogica e narrativa. La mu-
sica non racconta nulla, ma ha egualmente la forma di una narrazione anche se si tratta
di una narrazione che non racconta una storia e che non ci parla di eventi che stiano al di
l del succedersi stesso dei suoni. Che cosa questo significhi presto detto: ogni narra-
zione ha una struttura formale e consiste, al di l del suo contenuto effettivo, in una strut-
tura sintattica, in un alternarsi di arsi e di tesi, di domande e di risposte che scandiscono
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il ritmo narrativo, determinandone il senso. In fondo, il narrare nella sua forma pi sem-
plice significa propriamente questo: dare una forma umana al tempo, trasformare la sua
successione di istanti in un gioco di domande e di risposte, di inquietudini e di risoluzioni.
Potremmo forse esprimerci cos: la musica ha una sua trama, proprio come ogni narra-
zione, anche se si tratta di una trama senza contenuto. Di una trama fatta soltanto di suoni
e della struttura ordinata della loro successione:
Il punto a cui voglio arrivare il seguente. Cos come durante la lettura di un ro-
manzo noi pensiamo a ci che stiamo leggendo, formuliamo ipotesi su ci che
accadr in seguito, abbiamo aspettative alcune delle quali verranno frustrate,
mentre altre invece si avvereranno, e cos via, allo stesso modo ci compor-
tiamo anche nellascoltare seriamente, con concentrazione, la musica assoluta. Le
opere musicali hanno trame: ovviamente non trame con personaggi in azione;
ma piuttosto trame puramente musicali; eventi sonori che accadono, come aveva
sostenuto Hanslick, con una logica o un senso musicale che producono una
connessione. Quando seguiamo queste trame, facciamo quasi la stessa cosa di
quando seguiamo la narrativa di finzione. Giochiamo con esse al gioco della do-
manda e risposta. (ivi, p. ).
Sostenere che la musica una narrazione senza contenuto vuol dire insieme riconoscere
che fa parte del nostro ascolto dei fatti musicali il seguire il loro dipanarsi con trepidazione
o con timore, con speranza o con gioia proprio come accade quando leggiamo un rac-
conto, anche se nel caso della musica abbiamo a che fare solo con un racconto di suoni.
Ma se cos stanno le cose, aderire alla dimensione del formalismo non potr significare
mettere da canto il linguaggio delle emozioni e degli affetti, ma riconoscere che la musica
ha una dimensione espressiva proprio in quanto musica proprio in quanto fatta di
suoni disposti secondo un insieme complesso di regole. Ci che i teorici del formalismo
nella loro polemica contro la dimensione emozionale ed espressiva della musica dimo-
stravano di non avere compreso proprio questo: che le propriet espressive non debbono
essere intese come se stessero al di l dei suoni, come se fossero ci che la musica rappre-
senta e per cui i suoni stanno, ma come qualcosa che inerisce ai suoni stessi e che carat-
terizza la forma del loro succedersi. Per dirla in breve: se con formalismo si intende un
atteggiamento teorico che bandisce, tra le altre cose, ogni rimando al linguaggio delle
emozioni musicali, allora per Kivy necessario parlare di un formalismo arricchito
che sappia rendere conto del fatto che lespressivit non al di l della musica e dei suoni,
ma parte della sua descrizione. Scrive Kivy:
il credo del primo formalismo di Hanslick e Gurney era inoltre rinforzato nel suo
rifiuto delle emozioni in musica da una scelta davvero limitata di opzioni relati-
vamente alle modalit in cui la musica pu essere descritta in termini emotivi. Le
possibilit a disposizione erano che la musica fosse triste, per esempio, o in un
senso disposizionale, per il fatto di avere la propriet di rendere tristi gli ascoltatori;
o che la musica fosse triste in maniera rappresentazionale, per il fatto di rappre-
sentare la tristezza nel modo in cui un dipinto rappresenta i fiori o i frutti. A non
essere contemplata era la possibilit che la musica sia triste in virt del fatto di
possedere la tristezza come una propriet acustica, allo stesso modo in cui una palla
da bigliardo possiede la rotondit e lessere-rossa come una propriet visiva. Ma,
una volta concepita la possibilit delle propriet emotive come propriet acustiche
della musica, diviene allora immediatamente evidente che le descrizioni emotive
della musica sono compatibili con il formalismo, inteso ampiamente come la dot-
trina, delineata nel capitolo precedente, secondo cui la musica una struttura di
eventi sonori senza contenuto semantico o rappresentazionale. Infatti, se le propriet
emotive come la tristezza sono propriet acustiche della musica, sono semplicemente
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propriet della struttura musicale; pertanto dire che un passaggio musicale triste o
allegro non significa descriverlo in termini semantici o rappresentazionali pi che
descriverlo come turbolento o tranquillo. Un passaggio musicale tranquillo non
rappresenta la tranquillit n significa tranquillo. Esso semplicemente tran-
quillo. E lo stesso vale per un passaggio musicale malinconico. Non significa l
malinconia n rappresenta la malinconia. semplicemente melanconico, e que-
sto tutto (ivi, pp. 108-109).
Si tratta di un punto importante su cui opportuno soffermarsi un poco. Conciliare un
atteggiamento formalistico e cio un atteggiamento di analisi dei fatti musicali capace
di non travalicarne la specificit con la tesi secondo la quale lascolto musicale non pu
liberarsi del vocabolario delle passioni significa sostenere, per Kivy, che le emozioni deb-
bono far parte della musica che debbono essere parte della descrizione effettiva del ma-
teriale sonoro e delle sue sintassi. Per dirla altrimenti: riconoscere le ragioni del formali-
smo arricchito vuol dire insieme prendere commiato da quelle teorie che ci invitano a
pensare che le propriet espressive non appartengano al fatto musicale, ma abbiano la loro
origine nella soggettivit.
sufficiente sottolineare questo punto perch si facciano avanti unobiezione cui ne-
cessario rispondere e che potremmo formulare cos: sostenere che nella musica si danno
propriet espressive non significa insieme necessariamente alludere ad un insieme di vis-
suti psicologici che debbono considerarsi espressi dalla musica stessa? E se le cose stanno
cos, se il parlare di propriet espressive significa insieme alludere ad una molteplicit di
vissuti, non dovremmo riconoscere che lespressivit della musica fa tuttuno con il suo
rappresentare determinati vissuti? E questo non equivale a sostenere che il formalismo
arricchito non in linea di principio conciliabile con una concezione che metta in luce la
centralit della dimensione affettiva ed espressiva dei fatti musicali?
Venire a capo di questa difficolt significa, per Kivy, tracciare una distinzione impor-
tante: la distinzione tra un impiego transitivo ed un impiego intransitivo del verbo espri-
mere. Che cosa Kivy intende presto detto. Del concetto di espressione possibile unac-
cezione transitiva: in questo caso, parlare di espressione significa anche necessariamente
alludere a qualcosa che viene espresso e che sta allespressione come ci che denotato
sta al nome che lo significa. Gli esempi sono a portata di mano: il sorriso esprime la gioia,
il grido sta per il terrore, il pugno agitato per la collera, e ciascuna di queste forme espres-
sive pu dirsi tale se e solo se sussiste lo stato psichico che grazie ad esse giunge ad
espressione. Ma le cose non stanno sempre cos; talvolta ci avvaliamo del verbo espri-
mere in unaccezione intransitiva. In questo caso abbiamo a che fare con un contenuto
fenomenico di cui non si pu dire che espressione di un qualche vissuto particolare, ma
di cui lecito invece affermare che espressivo-di un certo carattere. Il ruggito del leone
espressione della sua ferocia; il rombo del tuono invece non espressione di qualcosa,
poich non c alcun vissuto per cui il tuono stia. Eppure, ascoltandolo, avvertiamo chiara
una minaccia che tuttavia non sta al tuono come il denotato sta al segno che lo denota, ma
come un avverbio allagire di cui forma. Il tuono non esprime una minaccia, ma la mi-
nacciosit la forma del suo fragoroso espandersi come unonda rovinosa nel cielo; il
tuono non esprime nulla, ma , ci nonostante, espressivo-di-qualcosa: della collera o
della minaccia che avvertiamo con tanta chiarezza nel tuono. Lesempio su cui Kivy ci
invita a riflettere ha le forme malinconiche del muso di un San Bernardo:
But contrast this with another case. The Saint Bernard has a sad face. We do not
mean to say by this that the Saint Bernards face expresses sadness. For certainly the
Saint Bernard is not always sad. And for her face to always be appropriately de-
scribed as expressing sadness, that is just what would have to be the case: the poor
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creature would have to be in a continual state of sadness. When, therefore, we de-
scribe the Saint Bernards face as a sad face, we are not saying that it expresses
sadness, but, rather, that it is expressive of sadness. Let this stand as the paradigm of
being expressive of , where is the name of an emotion or mood (like anger
or melancholy) (P. Kivy, Sound Sentiment. An Essay on the Musical Emotions,
Temple University Press, Philadelphia, 1989, p. 12).
Ora, non difficile rendersi conto che laccezione intransitiva dipende nel suo senso dalla
dimensione transitiva. Il muso del San Bernardo pu sembrarci triste ed essere quindi
espressivo-della-tristezza solo perch possibile riconoscere nel suo aspetto le stesse
forme che accompagnano la tristezza effettiva di una persona: il suo muso espressivo di
tristezza solo perch ricorda il volto di una persona che esprime tristezza. In un certo senso
si tratta di unovviet. Kivy ci invita a sostenere che le forme che sono espressive-di-
qualcosa sono forme soltanto derivative: di per s non stanno per un significato il volto
del San Bernardo non esprime, in senso proprio, nulla ma possono avere una loro sen-
satezza apparente perch possibile coglierle in analogia con le forme originarie e tran-
sitive dellespressione. Il riconoscimento di questovviet si deve tuttavia legare ad una
distinzione sottile. Si potrebbe infatti sostenere che le forme espressive-di- sono, in
fondo, frutto di una falso riconoscimento che tuttavia non sfocia in una falsa credenza e,
proprio per questo, assume una forma dichiaratamente intransitiva: nel volto del San Ber-
nardo riconosciamo lespressione della tristezza, ma poich non crediamo che quel povero
cane sia costantemente affranto ed anzi ne cogliamo in infiniti casi lallegria, impariamo
a leggere intransitivamente lespressione del suo muso e a dare alla tristezza che vediamo
un significato nuovo: non la cogliamo pi come un vissuto che deve albergare dietro ai
fenomeni, ma come una determinazione che caratterizza un certo peculiare tipo di decorsi
fenomenici che sono tristi non gi perch soffrano, ma solo perch manifestano una certa
struttura. Ma non questa la tesi che Kivy ci invita a sostenere, almeno nelle pagine di
The Corded Shell. A suo avviso, un falso riconoscimento non ha affatto luogo: ha luogo
invece un riconoscere che ha per oggetto solo ed unicamente la forma fenomenica di de-
corso. Non riconosciamo falsamente una tristezza cui non crediamo, ma riconosciamo in
modo veridico unicona della tristezza. E la riconosciamo sulla base di un comportamento
che ci noto e che potrebbe essere diverso, anche se di fatto nel nostro mondo cos.
Scrive Kivy:
Let us determine, then, to begin with, just what we are recognizing when we recog-
nize sadness in the Saint Bernards face. We are not, it must be remembered, recog-
nizing that the Saint Bernard is sad; for the Saint Bernards face being expressive of
sadness is invariant with the emotional state of the Saint Bernard: it does not express
the Saint Bernards sadness. Nevertheless, it does have something to do with the way
we normally express sadness. That we normally frown, let our mouths droop, and
assume a "hang dog" expression when we are sad of course makes the face of the
Saint Bernard seem peculiarly appropriate to the expression of sadness. And were
there a place, or a planet where creatures with faces like ours frowned and let their
mouths droop to express their joy, their Saint Bernards faces (if they had Saint Ber-
nards with faces) would be described by them as expressive of joy. Perhaps, too,
their willows wouldnt weep even though they drooped. Thus, what we see as, and
say is, expressive of is parasitic on what we see as, and say is, expressing ; and
to see X as expressive of , or to say X is expressive of , is to see X as appropriate
to expressing , or to say that it is appropriate to such expression. (ivi, p. 50).
Una volta che si sia chiarita la natura delle forme intransitive di espressione, la teoria del
profilo [contour theory] che Kivy ci propone risulta necessariamente come un correlato
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della tesi del formalismo arricchito. Per Kivy la musica esprime passioni e stati danimo.
Una concezione formalistica e, quindi, rispettosa della specificit della musica e del suo
carattere eminentemente non semantico e non rappresentativo non pu tuttavia sostenere
che i suoni stiano per emozioni o che rappresentino una trama che ha un suo contenuto
emotivo. Ne segue che la musica pu essere espressiva solo nellaccezione intransitiva
del termine. Laccezione intransitiva tuttavia dipendente nella sua possibilit dallacce-
zione transitiva poich la prima poggia sul riconoscimento di unanalogia tra le forme che
esprimono determinati vissuti e quelle che sono espressive-di-quei-vissuti. Di qui la con-
clusione di tutte queste premesse: se la musica deve essere espressiva-di, allora deve es-
sere possibile ritrovare nelle strutture di decorso dei suoni unanalogia con le forme che
sono, in senso proprio e transitivo, espressione di emozioni e di stato danimo.
appunto questo ci che la teoria del contorno sostiene. Allinterno di un discorso di
cui innanzitutto opportuno sottolineare il respiro storico e culturale, Kivy ci invita a
seguire due differenti vie per raggiungere la meta che si prefigge. La prima ci riconduce
mediatamente alla connessione tra canto e musica e al nesso che necessariamente sussiste
tra la struttura musicale e la dimensione ritmica e sonora delle voci umane delle passioni
e delle emozioni. Un brano pu avere un carattere lamentoso o un tono sussurrato, pu
innalzarsi come un grido o fermarsi in una pausa dattesa questo lo sappiamo, ed suf-
ficiente rifletterci per sostenere che se sappiamo leggere immediatamente il carattere la-
mentoso di un movimento musicale perch abbiamo imparato a leggere il dolore
espresso dalle lamentazioni umane.
Alla via che sollecita il nesso che lega la musica alla voce umana Kivy affianca quella
che mette in luce la relazione analogica che lega landamento sonoro alla struttura formale
del comportamento. Ci siamo gi soffermati, almeno in parte, su questo punto quando
abbiamo osservato che la musica pu avere la forma vuota di una narrazione: possiamo,
in altri termini, riconoscere nella struttura dei fatti musicali le forme che caratterizzano la
struttura dialogica della domanda e della risposta, dellintreccio e della sua soluzione. Il
punto che Kivy vuol fare, tuttavia, pi generale:
Tuttavia oltre al fenomeno della musica che suona come le espressioni vocali
delle persone malinconiche o allegre, molti ascoltatori percepiscono anche unana-
logia tra le propriet udite della musica e il comportamento umano visibile. La mu-
sica comunemente descritta in termini molto simili a quelli che usiamo per descri-
vere il movimento del corpo umano sotto linflusso di emozioni come la melanconia
e lallegria. Pertanto una frase musicale pu saltare gioiosamente o abbassarsi o va-
cillare, come una persona in movimento. Per dirla in modo pi generale, la musica
comunemente descritta in termini di movimento; e cos le stesse descrizioni che uti-
lizziamo per caratterizzarla sono frequentemente quelle che utilizziamo per descri-
vere i movimenti visibili del corpo umano quando esprime le emozioni comuni. In
The Corded Shell, chiamai questa teoria dellespressivit musicale la teoria del pro-
filo (contour theory) (P. Kivy, Filosofia della musica, op. cit., p. ).
Si tratta di una tesi relativamente semplice che Kivy sa rendere tuttavia persuasiva, ac-
compagnandola con una serie ricca di esempi e mostrando la sua genesi nella storia della
riflessione sulla musica, dalla cultura cartesiana a Schopenhauer. Leroe in questo per-
corso Mattheson, lautore di Der vollkommene Kappelmeister (1739) unopera in cui
lautore riconduce espressamente la dimensione espressiva della musica ad un fatto co-
gnitivo: alla nostra capacit di riconoscere nella struttura musicale il profilo dei compor-
tamenti umani, la loro astratta forma di decorso.
Molte altre cose andrebbero dette per rendere conto nel dettaglio della ricchezza delle
analisi di Kivy, ma qui per noi sufficiente delineare il contorno esteriore della sua teoria,
81


per chiederci se le sue analisi sappiano far fronte alle condizioni su cui ceravamo poco
fa soffermati.
Credo che a questa domanda si debba dare una risposta positiva. Per Kivy, in primo
luogo, le propriet espressive appartengono a ci che esperiamo ed ineriscono alla strut-
tura del fatto musicale. Su questo punto Kivy ben chiaro: lunica possibilit per una
teoria formalistica della musica di riconoscere un ruolo alla dimensione affettiva ed emo-
tiva passa per il riconoscimento che tristezza e gioia, malinconia e inquietudine sono pro-
priet della struttura musicale e non vissuti che la musica saprebbe in qualche modo rap-
presentare o suscitare. Sottolineare il carattere intransitivo dellespressivit musicale si-
gnifica dunque proprio questo: mettere fin da principio da canto i presupposti su cui pog-
giano le teorie causalistiche e proiezionistiche delle propriet espressive. Quanto poi, in
secondo luogo, alla tesi secondo la quale variazioni anche minime del contesto fenome-
nico alterano radicalmente la valenza espressiva di un determinato evento, questa una
tesi che sembra coerente con la teoria del profilo: un passaggio musicale esprime gioia
perch possibile riconoscere in esso gli accenti e i comportamenti umani in virt dei
quali la gioia si manifesta; alterare la struttura musicale vorr dire allora cancellare quel
nesso e alterare la valenza espressiva di quei suoni. Quanto alla terza condizione che ave-
vamo sottolineato, evidente che la posizione di Kivy non ci costringe affatto a sostenere
che per cogliere la malinconia di un adagio necessario provare effettivamente
quellemozione e sentirsi malinconici. Tuttaltro: allorigine della comprensione del ca-
rattere espressivo della musica vi, per Kivy, un fatto eminentemente cognitivo che non
chiama necessariamente in causa la dimensione della partecipazione emotiva. Un adagio
non malinconico perch vi proietto la mia malinconia, n perch capace di suscitare
in me un simile stato danimo: malinconico perch ha una certa forma che riconosco
bene e che ora richiama la struttura delle voci e degli accenti umani della malinconia, ora
il comportamento umano di chi di quellumore. Infine, nella sua esplicita polemica alle
posizioni causalistiche, la teoria di Kivy sembra evidentemente aprire lo spazio per una
considerazione motivazionale: chi ascolta una sonata, comprende le propriet espressive
che la caratterizzano e il suo accordare il proprio umore a ci che trova nei suoni che
ascolta pu essere compreso ed inteso alla luce della dinamica dei nessi motivazionali.
Si pu forse aggiungere un punto: la teoria del profilo che Kivy ci invita a condividere
in The Corded Shell sembra inoltre capace di spiegare come possa accadere che la capacit
della musica di esprimere emozioni e stati danimo si leghi alla dimensione culturale e
storica dellascolto. La musica non una raccolta di stimoli che agiscano causalmente,
ma un succedersi di suoni che hanno una loro complessit che si dipana con maggiore o
minore perspicuit allorecchio di chi lascolta a seconda delle abitudini percettive che gli
sono proprie. E quanto diverse sono le abitudini di ascolto, tanto differente sar la capacit
di scorgere quel gioco di forme allinterno delle quali soltanto pu prendere corpo lana-
logia che lega una successione di suoni alle forme del comportamento umano e agli ac-
centi che accompagnano i suoi gesti linguistici.
Infine, sembra evidente che anche se Kivy ci parla esclusivamente di musica, la sua
teoria sembra essere facilmente generalizzabile in modo da rendere conto anche delle pro-
priet espressive di un paesaggio, di un disegno, di una disposizione di colori. Anche un
paesaggio ha un suo profilo e lo stesso pu dirsi per il gioco dei colori che ci sembra felice
in un dipinto o in un prato. Anche in questi casi avremmo a che fare con unespressivit
intransitiva e anche in questi casi dovremmo poter ricondurre il gioco delle forme al gioco
dei comportamenti espressivi umani al fondamento stabile di una espressivit transitiva.
Siamo arrivati allora ad una teoria pienamente soddisfacente?
Io non lo credo.
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LEZIONE NONA
1. La teoria del profilo: considerazioni critiche
Quando nel 2002 Peter Kivy pubblica la sua An Introduction to Philosophy of Music, la
teoria del profilo gli sembra per molti versi criticabile ed alcune delle ragioni che egli
illustra e cui solo in parte ritiene di poter rispondere coincidono almeno parzialmente con
le perplessit che io credo che le pagine di Kivy suscitino.
La prima enunciata a chiare lettere da Kivy e concerne il carattere espressivo che di
fatto attribuiamo a propriet elementari della musica: al timbro, agli accordi, ad un singolo
suono. S tratta evidentemente di un problema per la teoria del profilo perch ci che la
caratterizza , kantianamente, la centralit della struttura. Proprio come, per Kant, il bello
possibile solo l dove si d un disegno ed una struttura di ordinamento che suggerisca
lidea di una conformit a scopi senza scopo, cos per Kivy lespressivit chiama in causa
unanalogia strutturale con il comportamento umano e presuppone quindi che ci sia qual-
cosa un disegno comune che ci consenta di coglierla. Kivy scrive cos, eppure evi-
dente che una settima diminuita ha una sua peculiare nota espressiva e che se dalla
musica muoviamo alla sfera dei colori non certo possibile attribuire una qualsiasi nota
espressiva ad un colore qualsiasi. Quando Ulisse giunge allisola dei Cimmeri e scende
nellErebo, nel regno dei travolti da morte, vede infiniti guerrieri con i corpi straziati dalle
lance e vecchi che avevano molto sofferto e fanciulle tenere dal cuore nuovo al dolore
vede tutto questo e sente le grida raccapriccianti dei corpi esangui che gli si accalcano
intorno e non pu proprio per questo restare indifferenti ad uno
spettacolo cos spaventoso: verde orrore mi prese cos
che dice Omero. O pi precisamente: Omero dice clwrn doj
un orrore verde-giallastro. Lorrore, per Omero, ha proprio il
colore di questo rettangolo. Si pu forse restare perplessi leg-
gendo queste parole, ma difficile negare che qualcosa in que-
sta descrizione ci sembra davvero persuasivo. Se mai avesse
un colore, lorrore dovrebbe proprio apparirci cos: verde
cloro. Non capiremmo invece se qualcuno ci dicesse che
lorrore color verde mare o che azzurro carta da zuc-
chero. Non lo capiremmo perch questi colori ci sembrano
inconciliabili con quelle valorizzazioni espressive. Ma se
cos stanno le cose, se non possibile negare che anche co-
lori e suoni di per s presi hanno una loro valenza espressiva
come pu Kivy chiudere gli occhi di fronte a queste ovviet e proporre una teoria che
rende conto dellespressivit riconducendola al momento del disegno e della struttura?
Forse, per rispondere a questa domanda, sembra lecito avanzare una supposizione che
sembra essere suffragata dalla grande mole degli esempi che Kivy ci propone esempi
che appartengono tutti alla grande stagione della musica europea dal seicento alla fine
dellOttocento. Certo, dietro questa scelta vi con tutta probabilit una questione di sen-
sibilit estetica e di competenza specifica una competenza che nel caso di Kivy dav-
vero rilevante. Non pu tuttavia non sorgere il dubbio che il disinteresse per la musica
novecentesca consenta a Kivy di distogliere lo sguardo da tutto ci che appartiene ad un
rinnovato sforzo di scoperta per la natura del suono, per la sua singolarit e per la mate-
rialit dei suoi aspetti timbrici, al di l della specificit delle strutture compositive allin-
terno delle quali chiamato a fungere. Proprio come Kant, anche Kivy sembra pagare sul
terreno dellestetica un prezzo alla determinatezza dei suoi gusti musicali.
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Forse le cose stanno anche cos, e tuttavia non difficile rendersi conto che Kivy
costretto a sottovalutare la dimensione espressiva dei materiali dalla prospettiva cogniti-
vistica che attraversa per intero la sua riflessione teorica. Labbiamo dianzi osservato: per
Kivy, la possibilit di unaccezione intransitiva dellespressivit fa tuttuno con la possi-
bilit di riconoscere unanalogia tra la forma di un determinato decorso fenomenico e la
manifestazione di una qualche emozione sul terreno del comportamento umano. Ma se le
cose stanno cos, allora fin da principio evidente che lespressivit deve necessariamente
fare tuttuno con la dimensione strutturale del disegno, perch solo lidentit di struttura
che pu accomunare un comportamento ad una successione di suoni o di colori. Posso
riconoscere nellandamento del secondo movimento del primo concerto brandeburghese
unanalogia di struttura con il comportamento che caratteristico della malinconia, ma
non posso trovare un elemento che accomuni il verde giallastro al terrore. Un simile ele-
mento non c, e questo rende difficilmente comprensibile non soltanto come si possa
venire a capo di una simile forma di espressivit a partire dalla teoria del profilo, ma anche
che cosa ci consenta di parlare di espressivit intransitiva per il materiale sonoro o cro-
matico. Lespressivit intransitiva per sua natura derivata poich trae il suo senso
dallanalogia che la lega ad un decorso fenomenico che stia per un vissuto emotivo o
affettivo. Ma ci quanto dire che di unespressivit intransitiva si pu parlare solo per
ci che pu stare in una relazione di analogia con unespressione in senso proprio e tran-
sitivo. Ne segue che linapplicabilit della teoria del profilo si traduce immediatamente
nellimpossibilit di parlare di una espressivit intransitiva: il carattere espressivo dei co-
lori e dei suoni non dunque, per Kivy, solo difficile da spiegare nei termini della teoria
del profilo anche incomprensibile alla luce della teoria dellintransitivit dellespres-
sione.
Riconoscere questa difficolt vuol dire del resto richiamare lattenzione sul nesso che
Kivy stringe tra espressivit intransitiva e riconoscimento. Questo nesso per molti versi
problematico, ma lo innanzitutto perch ci costringe a vincolare lafferramento di una
propriet espressiva ad un riconoscimento che non sembra affatto aver luogo, almeno in
una prospettiva fenomenologica. Come abbiamo appena osservato, in certi casi un rico-
noscimento sembra essere di fatto impossibile: che cosa posso riconoscere in una settima
diminuita? O nel verde giallastro? Ma anche l, dove un riconoscimento in linea di prin-
cipio possibile, non sembra essere affatto vero che esso abbia propriamente luogo perch
non sembra vero che si sia effettivamente consapevoli di ci che pure dovremmo aver
riconosciuto. Normalmente le cose non stanno cos: se nelle sconnessure dellintonaco di
un vecchio muro vedo un volto sono anche consapevole di avere riconosciuto in quel
gioco di linee un volto. Cos dovrebbe accadere anche sul terreno musicale: se avverto la
malinconia di una successione di accordi dovrei avere riconosciuto anche la forma di quel
comportamento umano in virt del quale mi appare malinconico ci che sento come ma-
linconico ma le cose stanno davvero cos? Nel secondo movimento del primo concerto
brandeburghese riconosco davvero la struttura che caratterizza i gesti e il comportamento
di una persona profondamente malinconica? Non credo che nessuno possa dire cos: nella
norma ascoltiamo quelladagio e lo troviamo malinconico senza che ci sia alcun bisogno
di scorgere lanalogia in virt della quale soltanto dovremmo sostenere che ha proprio
quel carattere emotivo. In altri termini: se la teoria del profilo fosse vera, dovrebbe essere
banalmente vera, ma non lo e questa una buona ragione per supporre che sia falsa.
Certo, se qualcuno mi dicesse, per farmi avvertire con maggiore chiarezza la malinconia
di quelladagio, che come se quelle note descrivessero il tentativo sempre di nuovo fru-
strato di liberarsi da una forza che ci trascina verso il basso, forse capiremmo meglio quale
sia la malinconia che pervade quegli accordi e non troveremmo fuori luogo una simile
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descrizione. Possiamo ascoltare quelladagio alla luce di questanalogia, ma nel proporla
non stiamo affatto indicando un aspetto che dovremmo poter percepire nei suoni liden-
tit di struttura con una certa forma del comportamento umano ma suggeriamo invece
un possibile contesto immaginativo che potrebbe aiutarci a determinare lorientamento di
senso che avvertiamo in quei suoni. Cos, chi ascolta Il mare di Debussy pu lasciarsi
orientare dal titolo generale della composizione e dai titoli delle tre parti che lo compon-
gono e pu ascoltare meglio ci che sente, ora pensando allalba e al mezzogiorno, ora al
gioco delle onde, ora al vento e al mare e al loro strano dialogo, ma sarebbe falso sostenere
che per sentire lespressivit di quei brani dobbiamo saper scorgere lanalogia che li lega
al mare e che lega il mare a chiss quale vicenda umana. Un titolo suggerisce una possibile
interpretazione: ci aiuta ad ascoltare, proprio come un titolo di una quadro astratto non
dice che cosa il quadro significa, ma continua a parole il gioco che limmagine suggerisce.
Un quadro di Paul Klee, dipinto nel 1929, si intitola
Fuoco nella sera e noi, guardandolo, potremmo di
fatto esclamare: ecco il fuoco il suo centro il ret-
tangolo centrale arancione, ma lo vedi anche nelle
sue propaggini meno vive e forse anche nelle mac-
chie nere di fuliggine, ed ecco la sera una sera
destate con i suoi colori sereni, nonostante il fumo
ed il fuoco. Potremmo reagire cos a quel titolo, ma
non per questo crederemo di vedere davvero in quei
rettangoli un fuoco la sera e ci sbaglieremmo se pen-
sassimo anche solo per un istante che quel titolo
fosse una descrizione effettiva della scena. Quel ti-
tolo non ci dice che cosa dobbiamo vedere; non ci
invita a riconoscere qualcosa l dove non possibile riconoscere nulla, ma ci suggerisce
un gioco che continua le fantasie del quadro: ci dice come possiamo immaginare quel che
vediamo, lungo quali direttrici di senso possiamo far risuonare i colori di quello che , e
deve restare, un quadro astratto, privo di un contenuto di mondo determinato. Lo stesso
accade quando cerchiamo di scorgere unanalogia tra un brano musicale e le forme del
nostro comportamento: non indichiamo il fondamento in virt del quale soltanto una suc-
cessione di suoni pu acquisire un valore espressivo, ma suggeriamo un contesto imma-
ginativo che ci consente di orientare in una direzione determinata le emozioni e le deter-
minazioni espressive che comunque avvertiamo. Quando diciamo ascoltalo cos: come
se quelle note mettessero in scena il tentativo sempre di nuovo frustrato di liberarsi da una
forza che ci trascina verso il basso non ripetiamo qualcosa che non pu essere sfuggito a
chi ha colto la malinconia di quel movimento, ma suggeriamo una narrazione minimale
che ci aiuta a immaginare il senso di quegli accordi, ma che non pu sostituirli e non deve
nemmeno legarsi ad essa in un nodo troppo difficile da slegare. Insomma: la teoria del
profilo che Kivy ci propone sembra da un lato essere priva di un fondamento fenomeno-
logico e, dallaltro, sembra confondere la dinamica delle suggestioni immaginative con il
problema di un fondamento delle propriet espressive.
Cercare di ricondurre lafferramento delle propriet espressive ad un riconoscimento
tuttavia discutibile per unaltra, differente ragione che ci riconduce ad una piega intellet-
tualistica del discorso di Kivy. Allorigine di questo atteggiamento di carattere generale
vi , io credo, unesigenza che non pu essere semplicemente messa da canto: Kivy in-
tende prendere le distanze da ogni concezione causalistica della musica e ritiene che sia
della massima importanza sottolineare quanto lascolto musicale sia guidato dalla nostra
capacit di cogliere strutture e forme e non sia il risultato di un nesso causale che vanifica
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ogni dimensione cognitiva. Ci non toglie, tuttavia, che la soluzione che Kivy ci propone
resti insoddisfacente. Per cogliere il carattere espressivo di una successione di accordi
devo, per Kivy, poter scorgere la somiglianza che lega quella forma sonora ad una forma
determinata del comportamento umano: devo afferrare ci che Kivy chiama licona emo-
tiva che la musica in s racchiude. Licona emotiva tutto questo molto ben detto, ma
proprio per questo ci costringe a comprendere che qui ha luogo un fraintendimento de-
scrittivo che deve essere messo in luce. Quando ascolto una musica e ne avverto la ma-
linconia questo quello che sento: il suo essere malinconica, e non la sua somiglianza con
un lamento. La somiglianza con un lamento un fatto tra gli altri: implica un afferramento
puramente cognitivo e ci restituisce un dato affettivamente neutro, perch la somiglianza
di per s non n malinconica, n felice. Ci si pu compiacere di avere scoperto una
somiglianza o si pu dolersene, ma la somiglianza di per s un fatto che non ha valenza
espressiva.
Certo, se ci si pone in questa prospettiva, sembra possibile venire a capo con relativa
facilit di uno dei problemi cui per le teorie proiezionistiche cos arduo far fronte: il
problema della distinzione tra lavvertire il carattere espressivo di una successione di ac-
cordi e il provare lemozione che a quella musica corrisponde. Sembra possibile, ma
dubbio che le cose stiano davvero cos. Per Kivy, avvertire la malinconia di un adagio
significa riconoscere una certa struttura e non vi dubbio che questo non comporti af-
fatto il dover provare malinconia. Ma avvertire la malinconia di qualcosa ben diverso
dal riconoscere unidentit di struttura: la prima unesperienza emotivamente carica, la
seconda non lo affatto. Quando sento una musica malinconica, posso mantenere il mio
umore sereno questo certo, ma ci non toglie che io avverta che vi in ci che sento
uno stato doloroso. Non si tratta, insomma, di unesperienza puramente cognitiva, ma di
unesperienza emotivamente determinata. Kivy invece ci invita a tradurla in un linguaggio
troppo asettico e ritiene che si possa ricondurre la distinzione tra avvertire e provare alla
distinzione tra riconoscere e provare dove il riconoscere un atto cognitivo che ha per
oggetto una somiglianza. Ma se le cose stanno cos, se parlare di espressivit intransitiva
significa sostenere che la nostra esperienza di propriet espressive coincide con il ricono-
scimento veridico di unidentit di struttura, allora non affatto chiaro che cosa voglia
dire sostenere che una musica malinconica o allegra e che queste propriet sono pro-
priet del decorso sonoro. In quella successione di suoni la malinconia non c: c solo
una somiglianza rilevante con un momento della nostra prassi umana che accompagna un
determinato stato effettivo. Ma chiamare malinconia questa struttura non sembra legit-
timo, se poi si sostiene che lespressivit intransitiva dipende dallaccezione transitiva
dellesprimere. Delle due luna: o si sostiene che un comportamento malinconico e si
rinuncia alla tesi secondo la quale lespressivit intransitiva dipende nel suo senso
dallespressivit transitiva o si riconosce che il parlare di malinconia per una successione
sonora solo avvalersi di unespressione equivoca, poich in questo caso il parlare di
propriet espressive vorrebbe dire in realt soltanto parlare di identit o di somiglianze di
ordine strutturale.
Queste considerazioni ci inviano a dubitare che Kivy abbia davvero soddisfatto la prima
e la terza delle condizioni cui avevamo dianzi fatto cenno e a ben guardare, dubbio che
anche la seconda condizione sia stata effettivamente soddisfatta. Certo, se deve sussistere
una somiglianza tra la struttura di una melodia e un qualche aspetto del comportamento
umano perch si possa parlare di espressivit, sia pure intransitiva, indubbio che piccole
variazioni sul piano strettamente sonoro potranno determinare variazioni del carattere
espressivo che loro proprio. E tuttavia il criterio che dovrebbe decidere se questo adagio
resta malinconico quando ne altero la forma sonora il permanere di una qualche analogia
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con la struttura del nostro comportamento della malinconia, e non credo che sia difficile
riconoscere che non affatto detto che i limiti di alterazione entro cui una somiglianza
permane coincidano con i limiti di alterazione del materiale sonoro entro cui avvertiamo
ancora la stessa valenza espressiva.
Infine, anche la dimensione della motivazione in qualche misura problematica. Se ci
che cogliamo in una successione di accordi solo una determinata struttura e la sua somi-
glianza con un momento del nostro comportamento espressivo, non si vede perch do-
vremmo sentirci motivati ad assumere un atteggiamento emotivo qualsiasi. Ancora una
volta: Kivy assume una posizione intellettualistica che mi sembra incapace in linea di
principio di spiegare come possa accadere che talvolta non ci si limiti ad avvertire ci che
la musica esprime, ma ci si senta costretti a condividerne le emozioni e le passioni.
Forse chi ha letto la Filosofia della musica riterr che queste considerazioni non rendano
affatto merito al tentativo di Kivy, e non vi dubbio che in quelle pagine si faccia avanti
una diversa lettura della relazione che lega le propriet espressive del fatto musicale alla
percezione del profilo che le lega al comportamento umano. In questa sua ultima opera
Kivy insiste, in primo luogo, sullimmediatezza con la quale avvertiamo le caratteristiche
espressive dei fatti musicali e, in secondo luogo, ci invita a sostenere apertamente che
lavvertimento della concordanza avviene ad un livello subliminale e ci guida verso una
lettura immediata dei fatti musicali alla luce di una famiglia di somiglianze peculiari
quella che ha a che fare con le emozioni che sono importanti per noi. Insomma, Kivy ci
invita a leggere la teoria del profilo in una chiave nuova che da un lato riconosce aperta-
mente che non vi traccia sul terreno fenomenologico del riconoscimento su cui si fonda
lafferramento delle propriet espressive e che, dallaltro, ci invita a sostenere che lana-
logia sorregge e guida una percezione orientata in senso espressivo. Che poi a farsi avanti
sia solo la somiglianza con il comportamento espressivo e non le altre infinite possibili
somiglianze che possono occorrere tra una successione di suoni e qualsiasi altro evento
nel mondo, lo si deve per Kivy alla centralit evolutiva che rivestono le nostre espe-
rienze emotive. Leggiamo, anche a costo di fare una citazione un po lunga quello che
Kivy ha da dirci in proposito:
La teoria del profilo dell'espressivit musicale si imbatte immediatamente in alcune
difficolt. Tanto per cominciare, non deve diventare una teoria rappresentazionale;
non deve cio essere costruita come la teoria secondo cui la musica rappresenta la
voce e la gestualit dell'espressione umana, allo stesso modo in cui un dipinto su tela
rappresenta i tratti visibili del mondo. Infatti la rappresentazione non cattura il modo
con cui esperiamo le qualit emotive della musica. Ci significa che non udiamo i
suoni come rappresentazioni del comportamento malinconico e allegro, nel modo in
cui vediamo un dipinto su tela come una rappresentazione di uomini e donne malin-
conici e allegri, e poi, in virt di tali rappresentazioni, udiamo la musica come ma-
linconica e allegra. Udiamo immediatamente la malinconia e l'allegria della musica,
nella musica, e possiamo essere del tutto ignari delle caratteristiche della musica in
virt delle quali essa malinconica o allegra. E persino se siamo consapevoli delle
caratteristiche che rendono espressiva la musica, e frequentemente lo siamo, non le
percepiamo come rappresentazione di alcunch. Inoltre, ci deve essere una qualche
spiegazione, in difesa della teoria del profilo, del perch a giocare un ruolo cos im-
portante nell'esperienza dell'ascolto sia la somiglianza strutturale tra la musica e il
comportamento espressivo. Dopotutto, il profilo della musica probabilmente si-
mile, a livello strutturale, ai suoni inanimati e agli oggetti naturali, cos come simile
al comportamento espressivo umano. Che cosa ha di tanto speciale il comportamento
espressivo da essere preferito a queste altre cose? Infine, la teoria del profilo dav-
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vero migliore rispetto a una teoria rappresentazionale per cogliere la nostra espe-
rienza delle qualit espressive della musica ? Pu far comprendere il modo in cui
esperiamo le emozioni in musica, vale a dire come qualit percettive di cui si ha
esperienza diretta? Affinch l'analogia tra il profilo musicale e il profilo del compor-
tamento espressivo umano funzioni in modo non-rappresentazionale, essa deve fun-
zionare a livello subliminale: vale a dire, dobbiamo non essere completamente con-
sapevoli di ci che sta accadendo; dobbiamo non essere consapevoli dell'analogia.
Assumiamo per il momento che questo quanto realmente accade. Ma perch do-
vremmo udire emozioni nella musica a causa di questa percezione subliminale, e non
qualcos'altro? Credo che una possibile risposta a questa domanda possa essere tro-
vata in un ben noto fenomeno percettivo. Quando ci imbattiamo in figure ambigue
tendiamo a vederle come forme animate anzich come forme inanimate: come esseri
viventi piuttosto che non-viventi. Tendiamo a vedere forme viventi nelle nuvole,
nelle macchie sui muri, cos come nelle cose che si celano ombrose nei boschi. Ve-
diamo il bastone come un serpente. Perch ? Forse perch l'evoluzione ci struttura
cos per selezione naturale. L'Evoluzione dice: Meglio sicuri che sofferenti. Meglio
errare che essere mangiati. Gli esseri viventi possono essere nocivi. E meglio ve-
dere il bastone, immediatamente, erroneamente, come un serpente, che essere morsi
dal serpente mentre si riflette sul problema, se alla fine quella cosa risulta essere
proprio un serpente (ivi, pp. 50-51).
Cos appunto Kivy. E ci quanto dire: chi vede un bastone come un serpente commette
un errore: riconosce qualcosa per quello che non . Cos dovrebbe accadere anche sul
terreno di quelle che abbiamo chiamato propriet espressive senza espressione ed in par-
ticolar modo sul terreno musicale. Si deve tuttavia riflettere bene sul senso di queste con-
siderazioni perch se ha luogo un falso riconoscimento, allora non ha alcun senso chia-
mare in causa la nozione di espressivit intransitiva: si dovrebbe pensare piuttosto ad
unerronea attribuzione di una espressivit in senso proprio. Chi confonde un bastone con
un serpente, crede di avere davanti a s un serpente e si comporta di conseguenza e lo
stesso dovrebbe accadere a chi confonde (dovremmo proprio scrivere cos) un brano mu-
sicale con un lamento: dovrebbe farsi presso loboe e consolarlo, cosa che per non ac-
cade. Le cose tuttavia non soltanto non stanno cos, ma non potrebbero nemmeno stare
cos: se si trattasse di un falso riconoscimento, dovremmo presto accorgercene e questo
dovrebbe portare con s il venir meno della dimensione espressiva. Credo che un ramo-
scello sia un minaccioso serpente e lo evito, ma appena mi rendo conto di essermi sba-
gliato che cosa potrebbe mai trattenermi dal prendere atto del fatto che ci che vedo
soltanto un ramo, per giunta innocuo? Questo dovrebbe accadere anche con i suoni: i falsi
riconoscimenti sono emendabili e i fraintendimenti cui mettono capo dovrebbero dissol-
versi come neve al sole. Kivy ritiene di avere una risposta per questo problema una
risposta che si avventura ancor di pi nella dimensione dei giudizi inconsapevoli:
Incombe per un'altra questione. Nel caso di fenomeni visivi ambigui, siamo co-
scienti di quello che stiamo vedendo (o che pensiamo di vedere). Prendo il bastone
per un serpente e corro via. Questo non sembra per essere quanto succede nella
musica. Siamo consapevoli della propriet espressiva, dell'emozione; non siamo
per coscienti di prendere il profilo musicale per un enunciato espressivo o un com-
portamento umano. Perch accade questo? E possibile avanzare una qualche plausi-
bile ragione? Affinch la nostra teoria funzioni non possiamo semplicemente pre-
supporre che le cose stanno cos. S consideri allora quanto segue. Il senso della vista
senso primario per la sopravvivenza degli esseri umani (e di altri primati su-
periori). Il senso dell'udito non lo , sebbene possa benissimo esserlo stato per i
nostri avi nel corso della catena evolutiva. Pertanto non abbiamo alcun bisogno
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di udire consapevolmente le cose come minacciose allo stesso modo in cui con-
sapevolmente vediamo le cose come minacciose. Perci non del tutto insensato
supporre che quella che potrebbe davvero essere stata una propensione a udire
consapevolmente suoni ambigui come animati e come (potenzialmente) minac-
ciosi in noi si sia atrofizzata, come l'appendice, e rimanendo soltanto una reliquia
vestigiale di un passato che dipendeva maggiormente dal suono. Per dirla diver-
samente, non completamente insensato, per ragioni evolutive, pensare che, men-
tre il vedere forme ambigue come animate rimane un fenomeno cosciente della
percezione umana, l'udire suoni in questo modo sia un fenomeno ricaduto nella
semi-incoscienza come una sorta di rumore di fondo (ivi, pp. 52-53).
Dovremmo allora sostenere questo: che ha luogo un riconoscimento inconsapevole che
produce unacquisizione solo in parte inconsapevole. Sentiamo i suoni come minacciosi,
ma allo stesso tempo non li sentiamo consapevolmente come una minaccia ed per
questo che non fuggiamo anche se ne avvertiamo il carattere emotivo. Il riconoscimento
sarebbe abbastanza inconsapevole da sfuggire al gioco delle verifiche e abbastanza con-
sapevole da produrre un effetto avvertibile.
Pu darsi che si possa tentare di seguire questa via. Ma a me sembra davvero un sentiero
poco promettente. Cos com, tuttavia, non sembra facile criticarlo soprattutto perch
non facile comprendere bene che cosa davvero significhi.
Vi , per il vero, un accenno di Kivy che sembra muoversi in una direzione differente.
Nel suo primo libro, infatti, ci invita di fatto a sostenere che se leggiamo in una chiave
espressiva una successione di suono , ci accade perch non possiamo fare a meno di
intenderla cos, proprio come non possiamo fare a meno di vedere come vediamo le stan-
ghette della Mller-Lyer. Credo che qui Kivy abbia ragione, ma credo anche che questo
ordine di considerazioni ci conduca ad una tesi che non coincide con quella che Kivy ci
propone la tesi secondo la quale semplicemente ci accade di percepire cos. Non pos-
siamo fare a meno di sentire malinconici certi accordi e non possiamo fare a meno di
sentire allegro il duetto tra Papageno e Papagena nel Flauto magico. Non possiamo farlo,
come non possiamo vedere diversamente quello che vediamo ma questo appunto ci in-
vita a sostenere che la percezione delle propriet espressive un dato primario che non
forse opportuno cercare di giustificare, poich potrebbe non avere alcuna motivazione,
ma solo una causa. Siamo fatti cos, sentiamo certe musiche malinconiche e altre allegre
e se dobbiamo chiederci di che colore lorrore che potrebbe prenderci sulle porte
dellErebo diremo che lorrore proprio verde-giallastro, e non carta da zucchero. Siamo
fatti cos, ed da qui che dobbiamo partire.
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LEZIONE DECIMA
1. La scatola nera
Lo abbiamo gi osservato: nella sua Filosofia della musica, Peter Kivy ritorna critica-
mente sulla sua teoria del profilo e dopo aver avanzato una serie di osservazioni critiche
e dopo aver tentato di rispondere ad una serie di dubbi e di perplessit, ci invita infine a
mettere da canto le supposizioni teoriche avanzate in The Corded Shell per prendere sem-
plicemente atto che anche se non sappiamo trovare una spiegazione convincente della
nostra capacit di trovare espressive certe sequenze di suoni, un fatto che le cose stiano
proprio cos. Le cose stanno cos perch siamo fatti cos e perch la musica fatta cos:
quando ascoltiamo un Notturno di Chopin sentiamo nella norma certe emozioni e non
altre, e le sentiamo come una propriet che attribuiamo al fatto sonoro. Siamo una scatola
nera in cui difficile guardare, ma ci non toglie che anche se non sappiamo che cosa
accada in noi, possiamo egualmente volgere lo sguardo a ci che proviamo e constatare
che vi sono strutture fenomeniche che hanno una loro determinata connotazione espres-
siva:
Consideriamo dunque la musica, sotto questo rispetto, come una scatola
nera, come dicono gli scienziati: vale a dire, come una macchina di cui ci
ignoto il funzionamento interno. Sappiamo che cosa vi entra e che cosa ne
esce, ma ignoriamo che cosa sia a causare che ci che vi entra produca quello
che ne esce. Rispetto al modo in cui la musica riesce a esibire le emozioni
comuni come qualit percettive, essa per noi una scatola nera. Sappiamo che
cosa vi entra: le qualit musicali che, per tre secoli, sono state associate con
le emozioni particolari di cui la musica espressiva. E sappiamo che cosa ne
esce: le qualit espressive che sono udite come espresse dalla musica. E piut-
tosto che farci prendere dall'ossessione di penetrare dentro questa scatola
nera, dovremmo, o per lo meno alcuni di noi dovrebbero, tenere presenti le
implicazioni che questo nuovo modo di considerare le qualit espressive della
musica (infatti davvero un modo nuovo) ha per la nostra comprensione com-
plessiva della musica. (P. Kivy, Filosofia della musica, op. cit., p 59).
Forse si pu rimanere stupiti di fronte ad una rinuncia cos radicale, ma io credo che vi
sia un senso in cui lipotesi della scatola nera meriti di essere davvero presa sul serio e
generalizzata. Ci che dice in fondo soltanto questo: ci invita a prendere atto che vi
una dimensione descrittiva del problema espressivo e che non affatto necessario vinco-
lare una riflessione fenomenologica sulla natura delle propriet espressive ad una qualche
teorizzazione che verta sulle ragioni occulte che determinano il nostro avvertire il nero
come lugubre e il rosso porpora come solenne. Accade cos, cos come accade che una
certa successione di suoni ci sembri serena e il tramonto triste. Guardiamo il tramonto e
sentiamo la malinconia del Sole che cala allorizzonte, in un gioco di colori che ci toccano
profondamente. Il fatto di non sapere perch ci accada non poi cos rilevante. Anche
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se non riusciamo a cogliere nel tramonto unicona emotiva che lo riconduca ad una qual-
che vicenda umana, sentiamo egualmente la sua malinconia e questo, in un certo senso,
pu bastarci almeno da un punto di vista fenomenologico
1
.
Da un punto di vista fenomenologico, appunto. Se ci ponessimo sul terreno di uninda-
gine di carattere esplicativo non avrebbe alcun senso discorrere dellinsondabilit della
scatola nera e non sarebbe lecito fermarsi al contenuto manifesto della nostra espe-
rienza: sul terreno esplicativo siamo infatti invitati a riconnettere gli eventi alle loro cause
e a trovare in queste le ragioni di quelli. Cos, se qualcuno ci chiedesse perch vediamo
rosse le fragole avrebbe senso tentare di dare una risposta: chiameremmo in causa la luce,
il fatto che la superficie di quei frutti assorbe la luce e restituisce solo certe lunghezze
donde e poi ci soffermeremmo sulla capacit dei differenti tipi di coni di attivarsi o non
attivarsi a seconda delle lunghezze donda della luce che giunge alla retina, per poi im-
mergerci in unindagine di natura neurofisiologica, secondo un percorso tanto complesso,
quanto aperto. Ragioneremmo insomma secondo uno stile causale, che ci consentirebbe
di ricondurre la nostra esperienza ad una successione di nessi reali, potenzialmente aperta
allinfinito.
Ragioneremmo cos se qualcuno ci chiedesse una risposta che si dipani sul terreno espli-
cativo, ma non sapremmo davvero che cosa dire se qualcuno pretendesse che rispondes-
simo a quella domanda senza abbandonare il terreno descrittivo. Se ci manteniamo sul
terreno fenomenologico alla domanda perch vediamo rosse le fragole? non possiamo
semplicemente rispondere. Le fragole le vediamo rosse perch sono rosse ma che questa
non sia una risposta ma solo un modo per scrollare le spalle di fronte ad una domanda
insensata, lo si comprende bene quando si rammenta che, su questo piano, dire che una
cosa rossa non significa altro che dire che la vediamo cos in circostanze normali.
Non facciamo altro che ribadire questo ordine di considerazioni se osserviamo che al-
meno in parte le cose stanno cos anche per le propriet espressive. Non so dirti perch il
nero mi appaia lugubre o quale sia la ragione per la quale una settima diminuita mi appare
inquietante: mi appaiono cos e basta, anche se questo evidentemente non ancora un
motivo sufficiente per escludere che indagini di carattere esplicativo di natura psicologica
o neurofisiologica possano spiegarci il perch delle nostre reazioni. E ci quanto dire:
anche sul terreno delle propriet espressive necessario riconoscere che vi sono propriet
elementari immediate di cui non possiamo fare altro che prendere atto. Il giallo limone ci
fa unimpressione diversa dal viola e non sappiamo dire per quale motivo ci accada.
Dal punto di vista descrittivo, tuttavia, non c nessuna ignoranza di cui ci si debba emen-
dare: le ragioni finiscono dove i fatti si impongono e non ha senso domandare oltre. Non
ha senso chiedere perch il giallo lo avvertiamo in un modo e il viola in un altro: accade
cos. Di qui, da questi dati elementari, inizia il gioco con le propriet espressive ed ogni

1
Si badi bene: questo non significa negare che vi siano relazioni di somiglianza tra i fenomeni che
troviamo espressivi e le manifestazioni sensibili espressive del comportamento umano. Un simile
nesso di somiglianza potrebbe sussistere sempre e spesso possibile coglierlo con relativa facilit.
Il punto non questo: che si falsificherebbe il contenuto descrittivo della nostra esperienza se si
sostenesse che percepiamo triste una successione di suoni o una qualche composizione cromatica
perch in qualche modo cogliamo una somiglianza con la struttura esteriore del comportamento
umano. Dal punto di vista descrittivo una percezione di somiglianza non si d, e anche se si potesse
davvero affermare della somiglianza che la causa che determina la nostra esperienza delle pro-
priet espressive, dovremmo comunque tacerne: di ci che accade nella scatola nera opportuno
tacere perch non appartiene al senso vissuto della nostra esperienza.
91


domanda che pretenda di chiedere conto del perch ci accade, contiene un rimando ad
una dimensione esplicativa che in questo caso deve essere semplicemente messa da parte.
Credo che queste considerazioni debbano essere condivise. E tuttavia una perplessit
resta: riconoscere che le propriet espressive sono un dato elementare non significa in
fondo alludere ad una dimensione di passivit che sembra ricondurci agli esiti da cui ave-
vamo preso le distanze quando avevamo discusso delle teorie causalistiche?
Su questo punto opportuno riflettere con un po di calma.
2. Un ricordo kantiano: cose di cui non si pu disputare, ma si pu discutere
Se dovessimo raccogliere le considerazioni che abbiamo appena esposto sotto un unico
titolo, potremmo forse sostenere che la tesi secondo la quale abbiamo unesperienza di-
retta e intuitiva delle propriet espressive fa tuttuno con il riconoscimento del loro im-
porsi alla soggettivit, proprio come si impongono alla soggettivit le propriet in senso
stretto percettive di un oggetto. La percezione, si diceva una volta, appartiene alla dimen-
sione della recettivit: un fatto passivo che si impone al soggetto percipiente, il quale
non pu fare altro che percepire quello che gli si offre. Non posso decidere di vedere
diversamente da quello che vedo: se ho davanti a me un cesto di fragole rosse non posso
decidere di vedere qualche cosa di diverso, cos come non posso decidere di vederle di un
altro colore. E non posso nemmeno decidere di non vederle affatto: la percezione pu
implicare una serie di movimenti e po assumere la forma di una prassi, ma non per questo
pu fare a meno di apparirci come un processo in cui lattivit si subordina infine ad una
passivit dominante al fatto che percepiamo quello che c e che non possiamo non
percepirlo se si impone alla nostra attenzione. Questo stesso ordine di considerazioni vale
evidentemente anche per le propriet espressive. Cammino per le strade di una citt
destate e sento che da qualche casa giungono le eco di una melodia malinconica. Non
vorrei ascoltare quello che sento, ma non posso farne a meno, cos come non posso fare a
meno di sentire che quello che sento malinconico. Le propriet espressive le esperiamo
e le esperiamo innanzitutto mentre percepiamo gli oggetti cui ineriscono, e proprio come
la percezione di quegli oggetti passiva, cos passiva anche lesperienza delle propriet
espressive che loro ineriscono.
Non posso decidere di vedere diversamente da come vedo, eppure a tutti noi capitato
di trovarci in situazioni in cui la scena che avevamo sotto gli occhi poteva essere colta in
differenti modi. Alziamo lo
sguardo al cielo e vediamo qua e
l nellazzurro qualche nuvola
bianca. Vediamo cos e non ci
sembra che ci sia proprio nullal-
tro da vedere, finch la voce di un
amico non ci invita a guardare
meglio perch nella parte infe-
riore di quella nuvola si pu ve-
dere un volto e insieme a quel
volto si pu leggere unespres-
sione: vediamo la testa di un
uomo che spalanca la bocca, at-
territo. Guardiamo meglio e forse,
di primo acchito, continuiamo a vedere quello che vedevamo: non vediamo nulla se non
la nostra nuvola. Poi ascoltiamo pazientemente le istruzioni che ci vengono date: ci si
chiede di guardare una linea ben precisa e ci si dice che possiamo scorgervi il disegno
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della fronte e del naso; poco pi in basso si apre la bocca, spalancata per il terrore ed
ecco che ora vediamo anche noi quel volto e anzi ci chiediamo come abbiamo fatto a non
vederlo prima. Anche prima guardavamo proprio quella nuvola, ma ora ci sembra incre-
dibile di non aver visto quello che pure si poteva cogliere cos bene. Qualcosa cambiato:
prima vedevamo ununica nuvola bianca, sfilacciata nei suoi contorni e dispersa dal vento.
Ora si staglia invece una figura che impone con chiarezza i suoi contorni e che ha acquisito
un orientamento spaziale particolare: vediamo una testa reclinata, che guarda in una dire-
zione particolare, mentre della nuvola che prima vedevamo non avrebbe certo avuto alcun
senso sostenere che era reclinata o che era rivolta in una direzione particolare.
Qualcosa cambiato, ma sarebbe davvero un modo infelice di descrivere la scena che
abbiamo davanti agli occhi il sostenere che abbiamo ascoltato attentamente quel che il
nostro amico ci diceva e abbiamo, proprio per questo, deciso che volevamo vedere anche
noi un volto e non soltanto una nuvola. Le cose non stanno affatto cos e per rendersene
conto sufficiente rammentare che in quella nuvola non possiamo affatto vedere quel che
vogliamo. Non riusciamo, per esempio, a vedere un cane, proprio come non riusciamo a
vedere un volto sereno e la giusta constatazione secondo la quale ci che vediamo il
volto atterrito dipende in qualche modo dal nostro aver prestato attenzione a ci che ci
veniva detto, non significa affatto che possiamo vedere quello che vogliamo. E la ragione
ovvia: in quella nuvola possiamo vedere un volto atterrito perch si pu vedere un volto
atterrito, anche se per scorgerlo necessario guardare con attenzione e assoggettare la
nostra prassi percettiva ad un percorso particolare quel percorso che scandito passo
dopo passo dalle richieste che il nostro amico formula. Del resto, potrebbe anche accadere
che quel volto ci sfugga: ascoltiamo quel che il nostro amico ci dice, fissiamo gli occhi in
una direzione particolare e guardiamo ora in alto, ora poco pi in basso, tentando i rico-
noscimenti che lamico ci suggerisce, eppure non vediamo affatto il volto che ci si chiede
di cogliere. Guardiamo, ma la rete della percezione non si chiude sulloggetto che cer-
chiamo: vediamo ancora una nuvola, anche se cerchiamo un volto. Decidiamo di dar retta
al nostro amico e cerchiamo di trovare un volto, ma questa decisione non ancora suffi-
ciente perch si possa vedere: il vedere, banalmente, non dipende da noi. Possiamo forse
esprimerci cos: non possiamo decidere di vedere, ma possiamo scegliere come guardare
e il modo in cui di fatto guardiamo non senza conseguenze rispetto a ci che vediamo.
Questa distinzione pu essere ulteriormente approfondita, osservando in primo luogo
che posso imparare a guardare qualcosa e che, correlativamente, possibile anche inse-
gnare a qualcuno a guardare in un certo modo: posso volgere gli occhi nella direzione che
tu mi indichi e posso guardare come tu mi chiedi. Non posso invece imparare a vedere:
che io veda questo o quello un fatto che accade se vi sono le
condizioni per le quali pu accadere. Puoi insegnarmi come
devo guardare quella nuvola e posso obbedirti passo dopo
passo, ma questo non basta ancora perch io riesca a vedere
quello che mi chiedi. Il vedere un verbo che indica un acca-
dimento e tutti abbiamo qualche volta dovuto constatare che ci
si dice che in un disegno si pu vedere qualcosa e ci si spiega
anche come dobbiamo fare per vederla. Ci si dice di guardare
cos e noi obbediamo, ma non vediamo lo stesso quel che ci era
stato promesso. In questa fotografia (che tratta da un libro di
Gregory) si pu vedere un cane dalmata, ma che cosa diremmo
se, nonostante questa indicazione e nonostante laiuto di un
amico che ci invita a guardare ora un contorno, ora una macchia pi scura, invitandoci ad
un riconoscimento, noi dovessimo confessare che un cane tra questa miriade di punti non
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riusciamo affatto a vederlo? Accadrebbe, io credo, solo questo: che dovremmo ricono-
scere una cosa che, per altro, sappiamo gi molto bene, e cio che non basta sapere come
dobbiamo guardare e che cosa dobbiamo cercare per riuscire a vederla. Lavevo davanti
al naso e non riuscivo a vederla una frase che ci capitato di dire e di sentire molte
volte.
Non si tratta tuttavia di una peculiarit del vedere: anche le altre modalit della nostra
esperienza percettiva sembrano consentirci la dualit di forme dellesperienza in cui ci
siamo appena imbattuti. Posso udire una successione di note e posso cercare di ascoltarla
meglio perch mi sfuggita una qualche loro relazione di cui tu mi parli. Ed anche in
questo caso, ci che odo dipende anche da come ascolto, ma sarebbe privo di senso soste-
nere che sento quello che voglio o che il mio ascoltare cos sia capace di creare un mio
peculiare modo di sentire. In un suo libro Le sorgenti della musica Kurt Sachs racconta
laneddoto di un musicista popolare albanese che, udita la Nona sinfonia di Beethoven, la
giudica senza appello troppo semplice, anche se in fondo bella. Ecco la prova che unabi-
tudine di ascolto determina interamente ci che sentiamo verrebbe da dire, perch nes-
suno di noi, cresciuti nella nostra cultura musicale si stupirebbe della semplicit ritmica
di quella sinfonia e si lascerebbe colpire dalla complessit della struttura melodica e dalla
sua profonda bellezza. Solo chi cresciuto nella nostra cultura pu apprezzare queste
forme di bellezza, proprio come per noi preclusa una volta per tutte la bellezza per
noi inattingibile dei canti esquimesi, delle musiche africane, delle armonie indiane. Per
afferrarle, avremmo dovuto crescere in quei mondi, imparare le loro lingue, vivere le loro
vite ma cos non stato: solo cos avremmo potuto acquisire quelle lenti che colorano e
deformano il loro e il nostro mondo secondo quella cifra che sola ci appartiene.
Sembra necessario concludere cos, ma si tratta ancora una volta di una conclusione
affrettata che nel tentativo di riconoscere la differenze delle culture e forse anche di pren-
dere commiato, una volta per tutte, dagli errori delleurocentrismo, le rinchiude in se
stesse, invitandoci in fondo a disinteressarcene. Non potremo mai sentire quel che ha udito
quel musicista albanese perch non siamo nati e cresciuti in quelle terre in cui la cultura
occidentale si incontrata e scontrata con il mondo islamico: non andata cos, e ora
siamo costretti con rammarico rinunciare a comprendere quel che ci dice. A queste con-
siderazioni si deve semplicemente contrapporre quel che gi sappiamo, liberandoci una
volta per tutte dalla metafora ingannevole delle lenti colorate che ci costringerebbero a
vedere il mondo secondo una tonalit inaccessibile a chi le indossa. Le cose non stanno
cos. Alla metafora delle lenti si deve sostituire il riconoscimento che sono possibili molti
e diversi modi di articolare il nostro mondo percettivo. Vediamo quello che c ed per
questo che possiamo decidere che vi questo e quello sulla base della nostra percezione,
ma questo non toglie che il nostro percepire sia comunque orientato dalle nostre abitudini
percettive. Forse, nessuno di noi avrebbe detto che la Nona sinfonia di Beethoven dav-
vero troppo semplice perch non si anima di strutture ritmiche complesse, ma questo si-
gnifica forse che non possiamo sentire la semplicit di quel ritmo?
Allorigine di queste posizioni teoriche si celano, io credo, due colpe da cui necessario
emendarsi. La prima un errore teorico. La metafora delle lenti colorate ci invita a pensare
che appartenere ad una cultura significhi avere un mondo chiuso il nostro cui si po-
trebbe accedere solo precipitandovi alla nascita. Una cultura una decisione gi presa:
una decisione che determina alla radice quel che esperiamo, modificandone i contenuti.
difficile comprendere davvero che cosa questa tesi voglia dire. Non pu voler dire che per
percepire qualcosa necessario possederne la parola perch non possiamo certo pensare
che una qualche felice trib che non conoscesse la parola dolore reagisse entusiastica-
mente alla trapanazione di un dente. Ma non pu nemmeno significare che il dolore sia
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proprio questo dolore che provo a seconda della parola che lo concettualizza: non c un
modo tipicamente italiano di sentire il dolore ad un dente, perch il dolore ai denti non lo
sentiamo attraverso le parole. E non vi nemmeno un modo tipicamente albanese di sen-
tire il ritmo, anche se vi una sensibilit acquisita attraverso unabitudine allascolto che
privilegia certi aspetti delloggetto, piuttosto che altri. Non possiamo decidere quello che
si percepisce, anche se possiamo imparare ad ascoltare, dando peso a certe strutture piut-
tosto che ad altre. Possiamo tendere lorecchio per cogliere quello che siamo abituati a
cogliere e questo pu evidentemente farci fraintendere il senso di unopera, ma non per
questo non ci insegna nulla su di essa. In fondo, il musicista albanese, cresciuto in una
cultura che privilegia la dimensione ritmica, pu forse cercare qualcosa una complessit
ritmica che non opportuno cercare nella Nona sinfonia di Beethoven, ma non per que-
sto lamenta qualcosa che per noi impossibile sentire e comprendere. Ora che ci facciamo
caso, possiamo rendercene conto anche noi, anche se non questo che di primo acchito
ci colpisce
2
. Di qui il secondo errore cui alludevo un errore che ha una piega morale e
di cui forse sarebbe opportuno dire che un vizio che ha un nome antico la pigrizia. Il
musicista che lamenta lincomprensibilit dei canti esquimesi e che si ritrae dallimpres-
sione di disordine e di insensatezza di quelle musiche cos diverse dalle nostre e confessa
addolorato la sua incapacit di comprenderle, non ha il diritto di rifugiarsi nella concla-
mata diversit delle forme di vita, come se non ci fosse pi niente da fare. C da fare
eccome, ed tanto un errore, quanto una forma di pigrizia e la pigrizia figlia del di-
sinteresse il lamentare unincomprensibilit di principio che si radicherebbe in una totale
alterit dello stesso evento percettivo. Non posso sentire quel che sente il cacciatore esqui-
mese perch non ho mai temuto di morire sui ghiacci cacciando le foche ma via! Non si
pu ragionare cos. E se si ragiona cos , in fondo, perch non ci interessa nulla di quei
canti e non abbiamo voglia di fare quel che basterebbe fare: ascoltarli da capo, lasciandosi
eventualmente guidare dalle parole di qualche esperto, proprio come facciamo quando
vogliamo ascoltare la Nona sinfonia di Beethoven e vogliamo capirla meglio, anche se
non siamo cresciuti nella Germania di fine settecento e i nostri nonni non erano contadini
del Brabante e non abbiamo bevuto birra e vino del Reno. Ascoltali di nuovo e stai attento
a queste strutture ritmiche e ai timbri di quelle voci e capirai, col tempo. C un passo
dellOdissea che mi commuove da quando ero bambino. Polifemo ormai cieco e Ulisse
si aggrappato al ventre lanoso dellariete pi grande e forte del gregge. Il ciclope, che
cerca a tentoni chi lha privato della vista per ucciderlo, sente infine giungere lariete che
tutte le mattine per primo correva a mordere i teneri frutti dellerba e Polifemo, questo
bestione feroce e crudele, si intenerisce e lo accarezza e gli parla e trova conforto nel
pensiero che lariete prediletto abbandoni per ultimo lantro perch prova affetto e tene-
rezza per il padrone ferito. Lo accarezza sulla schiena, e sotto il ventre vi Ulisse il cui
peso soltanto ha reso lento lincedere di quellanimale: lo sospinge addirittura, come si
farebbe con un amico che si attarda troppo per farci un piacere. Accade cos: quando sof-
friamo per un torto subito, abbiamo pi bisogno di conforto che di vendetta, e questo
anche se siamo adulti e non possiamo pi indulgere nella compassione e nella tenerezza
degli altri. Lo capiamo, anche se non siamo mai stati ciechi e se non siamo ciclopi, e
nemmeno greci del IX secolo avanti Cristo.
Non difficile rendersi conto che le cose stanno cos anche nel caso delle propriet
espressive. Delle propriet espressive abbiamo unesperienza immediata e intuitiva, e la
malinconia del tramonto o la serena pacatezza di una sera destate si danno o non si danno

2
Lesempio di Sachs e la sua discussione sono tratti da G. Piana, Filosofia della musica, Guerini,
Milano 199, pp. 38-45.
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cos come accade agli oggetti della nostra percezione. Vediamo che le fragole sono rosse,
proprio come vediamo vivace il loro colore che ci sembra cos coerente con il loro sapore:
le vediamo cos e le esperiamo cos, senza bisogno daltro. Sottolineare questo fatto
importante, ma non significa negare che anche in questo caso la dialettica che abbiamo
visto caratterizzare la nostra esperienza percettiva non abbia un suo spazio di gioco. Ogni
esperienza percettiva molteplice ed ogni esperienza percettiva pu essere orientata in
una direzione particolare. Posso sentire aspro il limone ed cos che nella norma lo
sente un bambino, ma posso avere imparato a discernere in quel sapore la continuazione
di un profumo e forse anche di un colore, e posso assaporarne la freschezza e la pulizia e
forse persino la raffinatezza. Cos, posso vedere lugubre il nero, ma posso anche imparare
a scorgerne altri aspetti: posso trovare nitida e un po autoritaria la sicurezza con cui il
nero separa ci che ha il suo colore dallo sfondo e forse questa una delle caratteristiche
che possono piacere nel nero come colore di abiti, borse e vestiti. E posso anche essere
attratto dalla freddezza del nero, dal suo aristocratico contegno che non sollecita il nostro
sguardo con un colore particolare, ma sembra piuttosto sottolineare una distanza e un mo-
derato disprezzo per il chiacchiericcio dei colori.
E ci che vale per la vista e per ludito, vale anche per i sapori, in cui pure si possono
imparare molte e diverse cose. Per i greci il vino era buono perch era dolcezza di miele
e sono queste le stesse parole che la madre di Ulisse, Anticlea, pronuncia quando
nellErebo gli confessa che solo il rimpianto del figlio lha strappata alla vita, dolcezza di
miele; per Dino Campana, invece, il vino laspro succo della verde vite e lasprezza
una promessa di seriet e di sincerit del vivere: laspro vino che mi ha riconfortato
e sarebbe un errore credere che si tratti soltanto di vini diversi o dellabitudine antica di
speziarli e di addolcirli o della qualit incerta del vino di Marradi. Non si tratta solo di
vini diversi: diverso anche il modo di berli e la cultura che accompagna quel bere, e
luno e laltra orientano il nostro modo di assaggiarli e quindi di sentirli. Fanno variare
ci che percepiamo in essi e, di conseguenza, fanno cambiare anche le ragioni per cui li
apprezziamo e li viviamo in un certo modo. E forse ci sono certi momenti in cui ci sembra
vero che il vino abbia sapore di miele e altri in cui ci sembra vero che sia il succo aspro
della verde vite. Ci lasciamo convincere ora dalluna, ora dallaltra voce e scopriamo in
uno stesso sapore sfumature che comunque si possono scoprire per la buona ragione che
quelle sfumature vi sono.
Possiamo imparare: questo il punto, anche se imparare non significa affatto assumere
un atteggiamento volontaristico, ma vuol dire impegnarsi in unesplorazione percettiva
che si lascia guidare dalle parole nel suo essere una prassi, ma che non pu che affidarsi
al risultato cui giunge nel suo essere un accadimento. Posso guardare come tu mi chiedi
il nero e posso trovarlo lugubre ma posso farlo solo perch lugubre, anche se non
soltanto lugubre. Puoi, insomma, insegnarmi a cercare qualcosa, ma non puoi insegnarmi
a trovarlo perch qualcosa si pu cercare se abbiamo tempo e voglia per farlo, ma si pu
trovare soltanto se c.
Su questo punto importante insistere anche perch ci consente di ritornare sui nostri
passi e di leggere sotto una diversa luce una considerazione kantiana su cui ceravamo a
suo tempo soffermati: la tesi secondo la quale si pu discutere, ma non si pu disputare
del bello. Si tratta, lo avevamo osservato, di unosservazione che mette egualmente lin-
dice su un problema su cui vale la pena di riflettere, anche se non facile comprendere
fino in fondo il testo kantiano.
Non facile comprenderlo sino in fondo perch non ben chiaro che cosa nelle sue
pagine voglia dire discutere e non disputare del bello, ma se ci concediamo qualche
libert interpretativa e facciamo di questa osservazione kantiana un motto che possa essere
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adattato ai nostri bisogni, io credo che si possa leggervi in controluce il risultato cui siamo
giunti e insieme la necessit di arricchirlo in uno sviluppo ulteriore.
Quel detto ci invita innanzitutto a tenere conto del fatto che le propriet espressive sono
propriet di cui abbiamo diretta esperienza e, come tali, si danno intuitivamente: non sono
il frutto di un ragionamento e non possiamo quindi dimostrarle. Le propriet espressive si
danno alla percezione: non possiamo argomentarle, proprio come non possiamo dimo-
strare che qualcosa ha un colore piuttosto che un altro. Proprio come, per Kant, accade
per la bellezza, anche le propriet espressive hanno dunque natura intuitiva e non pos-
siamo fare altro che scorgerle. Dire che non possibile disputare e decidere argomentati-
vamente se il nero sia lugubre o aristocratico significa dunque soltanto questo: che si tratta
di qualcosa che dobbiamo vedere ed esperire nel nero e che non ci basta capire le ragioni
degli altri per vedere quello che gli altri ci dicono. Se un ipotetico musicista albanese ci
dicesse che le strutture ritmiche di Messiaen sono troppo semplici faremmo fatica a se-
guirlo: argomentare non basta.
Ci tuttavia non significa che non sia possibile guidare la nostra esperienza percettiva,
sino a condurla ad afferrare ci che altrimenti ci sarebbe sfuggito. Qualche volta accade
cos: per riuscire a cogliere quello che tu hai colto ho bisogno di lasciarmi convincere e
di farmi guidare, perch non sempre facile cogliere quello che tu hai colto. Qualche volta
necessario, insomma, discutere, e discutere significa persuadere e indirizzare, ma non
per questo pretendere di argomentare, perch lultima parola spetta a una percezione senza
parole. Prova a guardare cos il bianco: come se fosse innanzitutto silenzioso questo
quello che Kandinsky ci dice, e non affatto detto che sia questo il modo in cui innanzi-
tutto il bianco ci colpisce. Paul Klee di un altro avviso: del bianco ci dice che innanzi-
tutto privo di vita. Non cos Melville che nel suo Moby Dick dedica un capitolo al bia3nco
che gli appare in fondo disumano, proprio perch svela lessenza incolore, il suo essere
misteriosamente bianco al di l ogni colorata illusione:
E forse perch con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensit disumane
delluniverso e, in tal modo, ci colpisce alle spalle con il pensiero dellannullamento,
quando contempliamo le bianche profondit della Via Lattea? O forse perch, nella
sua essenza, il bianco non tanto un colore quanto lassenza visibile del colore e, al
tempo stesso, la fusione di tutti i colori; forse per questi motivi che c una cos
muta vacuit, piena di significato, in un vasto paesaggio nevoso un incolore onni-
colore dateismo dal quale rifuggiamo? e quando consideriamo quellaltra teoria de-
gli scienziati, secondo la quale ogni diversa tinta terrena ogni imponente o aggra-
ziata coloritura i dolci riflessi dei cieli e dei boschi al tramonto; si, e i velluti dorati
delle farfalle, e le guance di farfalla delle giovanette, non sarebbero altro se non
inganni sottili, non veramente inerenti alle sostanze, ma deposti su di esse
dallesterno, cos che ogni cosa la natura che abbiamo deificata dipinge n pi n
meno che una prostituta, i cui allettamenti non fanno altro che nascondere lintimo
corrompimento; e quando, procedendo oltre, consideriamo che il mistico cosmetico
il quale produce ciascuna tinta, il grande principio della luce, rimane perennemente
bianco e incolore in s, e che, ove operasse senza tramiti sulla materia, toccherebbe
ogni oggetto, persino i tulipani e le rose, con la sua tinta senza colore quando con-
sideriamo tutto questo, luniverso ammorbato sembra disteso sotto i nostri occhi
come un lebbroso; e come il viaggiatore ostinato in Lapponia, che rifiuta di portare
occhiali colorati e coloranti, allo stesso modo il povero infedele perde la luce degli
occhi fissando il monumentale sudario bianco che avvolge ogni aspetto del mondo
che lo circonda. E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo. Vi stupisce
dunque la caccia accanita? (H. Melville, Moby Dick, cap. XLII).
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Tra questi molteplici modi di riferirsi al bianco per scoprirne la nascosta espressivit non
avrebbe senso chiedersi quale sia quello vero. Labbiamo osservato: non possiamo argo-
mentare nulla, ma questo non significa che non sia possibile discutere, perch anche se
infine qualcosa deve colpirci nella sua datit percettiva anche se infine dobbiamo riu-
scire a scorgere nel bianco ci che lo fa apparire silenzioso, privo di vita o disumano ci
non toglie che possa essere necessario, per riuscirci, ascoltare le parole di chi sa guidarci
verso quellesperienza. Possiamo discuterne, perch qualche volta necessario lasciarsi
guidare verso una scoperta che possibile solo se accettiamo di disporci in una prospettiva
di ascolto dei fenomeni che diversa dalla nostra e che ci parla attraverso le voci di un
modo di pensare e di immaginare che profondamente differente dal nostro. Faccio fatica
a cercare nel bianco ci che Melville vi scorge, perch per me il bianco ha la forma serena
e ricca di promesse delle cose allinizio: la tovaglia bianca che si stende sul tavolo prima
del pranzo ed il foglio su cui si spera ancora che le idee trovino presto il loro posto. Ma
anche se talvolta facciamo fatica, possiamo egualmente lasciarci persuadere, nella cer-
tezza che comunque non perdiamo nulla del nostro se accettiamo di guardare diversa-
mente. Prova a guardare cos! insomma la prima mossa di un nuovo gioco che non
esclude altri giochi; tuttaltro: ci insegna a capire come le propriet espressive che co-
gliamo nelle cose ci parlino anche della prospettiva da cui le abbiamo guardate. Ci insegna
che sono a portata di mano possibilit differenti, se abbiamo la pazienza e la voglia di
accettare altri giochi che ci invitano ad assumere altre e diverse prospettive.
Richiamarsi al detto kantiano, tuttavia, non significa solo rammentare che la nostra ca-
pacit di cogliere le diverse propriet espressive che si legano ad uno stesso fenomeno
pu implicare il rimando ad una pratica persuasiva che ci invita ad appropriarci di un
insieme di abitudini di ascolto e di contesti immaginativi differenti che ci consentono di
cogliere ci che comunque possibile trovare, ma vuol dire anche sottolineare che nel
fuoco di questo processo le propriet espressive smettono di apparirci come un dato bruto
ed entrano a far parte della nostra vita e del nostro mondo. Se ti chiedo di guardare cos
quello che hai di fronte a te perch voglio cercare di persuaderti che possibile trovare
quello che ho colto se solo accetti di condividere un qualche tratto della forma di vita che
mi propria. Le propriet espressive si trovano, ma se possiamo trovarle perch impa-
riamo a illuminarle con la giusta luce e a cercarle, assumendo la giusta prospettiva. Per
vedere nel bianco il silenzio in cui ci si rifugia dopo che si tacitato ogni chiacchiericcio
esteriore necessario condividere la prospettiva interioristica che Kandinsky formula
nelle pagine del suo Lo spirituale nellarte, ed un discorso analogo vale ovviamente per
le premesse che ci consentono di vedere in quel colore in quellassenza di colore ci
di cui Klee o Melville ci parlano.
Non vi dubbio che a partire di qui si intraveda un discorso pi ampio che ci invita a
pensare alla natura e alla funzione dellarte al suo porsi come un grande gioco che ci
insegna a guardare alle cose, disponendole lungo quella connessione di pensieri e di im-
magini, di abitudini e di forme del vivere che ci dispongono nella prospettiva che sola
consente di ritrovare nel mondo quelle propriet espressive che lo rendono a vario titolo
nostro. E vice versa: di ritrovare nelle propriet espressive di un mondo il punto di vista
che meglio ci consentiva di dischiuderle. Si tratta di temi che, ancora una volta, ci ricon-
ducono ad un orizzonte kantiano, ma prima di tentare di dire qualcosa anche su questo
tema dobbiamo insistere ancora sulle nostre considerazioni fenomenologiche. In modo
particolare, dobbiamo interrogarci sulla natura delle propriet espressive, su questa carat-
teristica prospetticit che le rende pienamente visibili solo per chi le cerca nella direzione
giusta, illuminandole con una luce adeguata. Per cercare di comprendere come questa
prospetticit sia possibile dobbiamo addentrarci un poco nella natura delle propriet
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espressive dobbiamo in altri termini cercare di dire che cosa sono a partire dal modo in
cui appaiono.
Lo faremo nella prossima lezione.


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LEZIONE UNDICESIMA
1. Il carattere fenomenico delle propriet espressive
Nella lezione precedente abbiamo cercato di far luce sul fatto che le propriet espressive
sono strettamente legate alla nostra esperienza percettiva e ne condividono il destino: ci
si danno come qualcosa che possiamo cercare, ma che pu essere trovata soltanto se c.
In questo appunto le propriet espressive sono riconducibili alle caratteristiche percettive
degli oggetti: posso sentire una successione di quinte solo se qualcuno la suona, anche se
pu certo accadere che io senta risuonare una successione di suoni senza rendermi conto
di quello che ho udito.
Su questo punto ci siamo gi soffermati, ma necessario ora approfondire le nostre
analisi descrittive e questo significa innanzitutto chiedersi in che misura si possa sostenere
che le propriet espressive sono propriet che percepiamo, come percepiamo i colori e le
forme. Una prima considerazione credo si imponga: anche se le propriet espressive le
incontriamo nel mondo come incontriamo forme e colori, sarebbe tuttavia sbagliato so-
stenere che la malinconia di un brano musicale o lallegria di una mattina destate le per-
cepiamo come percepiamo le altre propriet sensibili. Quando vediamo un tramonto che
ci sembra malinconico non per questo vediamo la malinconia come se fosse una sua qua-
lit sensibile che, per cos dire, si trovasse accanto al colore o al ritmo degli eventi. In un
certo senso la malinconia la sentiamo, ma non la vediamo affatto: anche se non la pro-
viamo come se fosse un nostro stato danimo, si tratta pur sempre si unesperienza emotiva
che non pu essere trasformata in una mera percezione. Non si tratta di unesperienza
cognitiva, ma di unesperienza emotiva: la malinconia del tramonto non loggetto di
unesperienza di natura cognitiva e non qualcosa di cui ci limitiamo a prendere atto,
come potremmo prendere atto della posizione del sole rispetto ad una determinata collina
o a un paese che vediamo in lontananza. Della malinconia del tramonto non prendiamo
atto: la viviamo emotivamente. E tuttavia, la viviamo come qualcosa che esperiamo in
altro: non siamo necessariamente malinconici e non facciamo della malinconia che avver-
tiamo uno stato danimo che proviamo. Su questo punto sarebbe necessario essere molto
pi chiaro di quello che sono, ma su un punto almeno mi sembra che si possa tentare di
dire qualcosa di definito: vi una differenza molto netta tra lavvertire la tristezza di qual-
cosa e il provare tristezza per qualcosa, ma sarebbe un errore io credo tentare di venire
in chiaro di questa distinzione affiancando unesperienza cognitiva ad unesperienza emo-
tiva. Si avverte la tristezza di un brano musicale avvertendo comunque qualcosa: anche
se non nostra la tristezza che sentiamo risuonare in quelle note, lavvertiamo come si
sente qualcosa di triste come una limitazione dolorosa che risuona anche in noi. Le
emozioni hanno un loro centro: possono avere in noi il loro punto di ancoraggio o possono
averlo in unaltra persona o in una scena cui assistiamo. E le emozioni si provano quando
hanno il loro centro in noi, si avvertono invece quando le troviamo nelle cose o negli altri.
Vi tuttavia una diversa ragione che ci spinge a sostenere che non vediamo la malinco-
nia del tramonto come ne vediamo i colori o le forme, ed una ragione che traspare in una
forma linguistica che ci d da pensare: la malinconia del tramonto la vediamo nei colori e
nelle forme del tramonto e questo modo cos particolare di esprimersi vale come un indice
della particolarit della situazione fenomenologica che dobbiamo cercare di descrivere.
Una prima ragione di questo particolare modo di esprimerci riposa sulla peculiare loca-
lizzazione delle propriet espressive: anche se quando guardiamo il tramonto avrebbe
senso sostenere che la malinconia la incontriamo proprio l, dove c il Sole, ci sembre-
rebbe difficile precisare ulteriormente il luogo in cui si d. Posso dire che esattamente in
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un punto c un riflesso di luce particolare, ma avrebbe senso dire che esattamente in quel
punto c, per esempio, una peculiare piega della tristezza? Lo stesso accade quando
ascolto un allegro che sento pieno di gioia: posso, certo, dire che un certo passaggio mi
sembra pieno di gioia non senti qui come allegro?, qualche volta ci esprimiamo cos
ma sarebbe privo di senso indicare esattamente un punto, un istante di suono e dire che
qui c allegria. Insomma: le propriet espressive sono propriet globali che sembrano
pervadere un certo decorso fenomenico e
diffondersi in esso. Non un caso allora se
le propriet espressive ci appaiono in una
loro tendenziale olisticit. Guardiamo que-
sti due ritratti di uno stesso volto: si tratta
in realt della stessa fotografia, solo che in
una delle due la bocca stata modificata
almeno un poco quel tanto che basta per
accennare un sorriso. Ora unallegria sot-
tile anima quel volto e ci sembra di vederla
riflettersi nello sguardo che ci sembra pi
luminoso anche se lo stesso di prima.
Vediamo un volto allegro e lallegria si diffonde nelle pieghe di quel volto, animandolo
complessivamente. Lallegria l, in quel volto, ma non possibile fermarla in un punto,
perch non una propriet che abbia una sua collocazione precisa e che si dia come un
plenum della res extensa.
Di questa localizzazione sui generis ci accorgiamo del resto anche se riflettiamo sul
fenomeno del contrasto. Se accosto luno allaltro dei colori su una superficie avr davanti
a me una certa configurazione percettiva che tuttavia pu essere scandita nella successione
cromatica che la compone. Che dire invece della propriet espressiva che caratterizza
quella scena? davvero possibile analizzarla parte
per parte? Guardiamo questo quadro di Klee: piccoli
rettangoli di colore si accalcano su una superficie. Al-
cuni si dividono a loro volta in parti, secondo un di-
segno che rende visibile un insieme di lettere. Ora,
ogni colore ha una sua tendenziale propriet espres-
siva, ma sarebbe davvero insensato cercare di dire
punto per punto quale impressione ci fa questimma-
gine. C invece unimpressione complessiva, cos
come c unimpressione complessiva di un certo mo-
vimento musicale, e non avrebbe senso cercare di
spingere lanalisi al di l di una certa soglia. Per dirla
in breve: le propriet espressive sono propriet glo-
bali e permeano di s una scena fenomenica. Non sono analizzabili punto per punto perch
ci appaiono invece come un tratto unitario che caratterizza il modo in cui un verto feno-
meno si manifesta.
Su questo punto necessario riflettere un poco. Sottolineare la localizzazione sui gene-
ris delle propriet espressive significa anche mettere in luce un aspetto della particolarit
delle propriet espressive il loro porsi come propriet che non sembrano dire qualcosa
delloggetto, ma della sua manifestazione. Quando dico di un oggetto che ha una certa
forma o un certo colore metto in luce propriet che spettano alla cosa, sia pure in modo
differente. La forma di un oggetto una sua propriet primaria: vedo la superficie del
tavolo e la vedo proprio come la sento al tatto liscia, rettangolare e grande cos e cos.
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Che abbia questa forma, del resto, lo si pu vedere da molte altre cose: dal suo poter essere
accostato ad un angolo della stanza, per esempio. Nel caso del colore le cose stanno altri-
menti: che abbia questo colore e non un altro qualcosa che vedo e che si pu soltanto
vedere. Il colore appunto una propriet secondaria: spetta alloggetto, ma una propriet
che si rivela soltanto allo sguardo. La vivacit di un colore, il suo tono allegro o lugubre
sono invece propriet che non sembrano caratterizzare loggetto in se stesso, ma il modo
in cui di volta in volta si manifesta. Sono in questo senso propriet terziarie che apparten-
gono non alla cosa, ma al modo della sua manifestazione.
Si tratta, a ben guardare, di una considerazione a cui siamo gi giunti nelle nostre pre-
cedenti riflessioni, quando abbiamo osservato che una stessa cosa pu apparirci alla luce
di propriet espressive differenti. Il nero non lugubre nel senso in cui unarancia
rossa o sferica, perch non vi contraddizione nellaffermare che uno stesso nero pu
apparirci alla luce di altre propriet espressive. Su questo punto ci siamo gi soffermati e
abbiamo osservato che un gioco espressivo non toglie gli altri e che possiamo imparare a
scorgere in una stessa realt differenti connotazioni espressive. Ora, uno stesso oggetto
pu apparirci in forme differenti: possiamo per esempio vedere una stessa moneta da dif-
ferenti punti di vista e ciascuno disegner quelloggetto in un modo differente avremo
ora unellisse, ora un cerchio ora un segmento di un certo spessore. Ciascuna di queste
forme di manifestazione ha la sua ragion dessere nella forma delloggetto e manifesta un
oggetto che ha unidentica forma, ma appunto la forma di manifestazione varia al variare
del punto di vista. Ma se un identico oggetto pu avere infinite forme di manifestazione,
non per questo pu avere pi di una forma: il gioco di variazione delle propriet espressive
non pu dunque parlarci di una molteplicit di caratteri oggettivi, pena il farsi avanti di
un nodo di contraddizioni. Ma se cos stanno le cose, allora evidente che le propriet
espressive competono alla manifestazione della cosa e non alla cosa che si manifesta.
Di questa natura fenomenico-manifestativa delle propriet espressive ci rendiamo conto
del resto non appena ci soffermiamo sul carattere di prospetticit che caratterizza il lin-
guaggio delle propriet espressive. Se qualcuno dicesse che le dita della mia mano destra
sono sette non risponderei certo dicendo che a me sembrano cinque: un simile modo di
esprimersi suonerebbe ironico oppure semplicemente ridicolo. Non ci sarebbe invece
nulla da ridire se dicessi che a me sembra in fondo triste la melodia che tu trovi allegra:
qui il verbo sembrare si trova a suo agio. E non a caso: quel verbo non d espressione
ad un dubbio o a unincertezza e non intende nemmeno, io credo, invitarci a sostenere che
ogni attribuzione di propriet espressive meramente soggettiva: ci dice invece che le
propriet espressive sono propriet che ci parlano del modo di manifestazione di qualcosa
e sono, come tali, intrinsecamente prospettiche, ma non per questo sono meramente sog-
gettive. Tuttaltro: si tratta di propriet obiettive, anche se prospetticamente caratterizzate.
Su questo punto forse opportuno indugiare un poco. Muoviamo da un esempio. Una
moneta ha un profilo ellittico se la guardi da questa prospettiva appare cos, ma neces-
sario che cos appaia e non vi in questo proprio nulla di soggettivo, anche se evidente-
mente si tratta di una propriet che ha a che fare con il modo di manifestazione della cosa
e non con la cosa che si manifesta. Lo stesso accade nel caso delle propriet espressive:
se ti dico che il nero mi sembra lugubre non faccio altro che attestare che possibile
vederlo cos e che lo vedrebbe cos chiunque assumesse la prospettiva che caratterizza il
mio generale punto di vista sulle cose. Ancora una volta possiamo ricordarci di Kant e
delle sue considerazioni sullobiettivit del giudizio di gusto. Kant scriveva cos:
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il giudizio di gusto non postula laccordo di ciascuno (ch questo pu farlo solo un
giudizio logicamente universale in quanto pu addurre ragioni); solo richiede da cia-
scuno questo accordo [] rispetto al quale si aspetta la conferma non da concetti,
ma dalladesione degli altri (I. Kant, Critica della facolt del giudizio, op. cit., p.
51).
Kant scriveva cos e ancora una volta possiamo avvalerci di quel che dice, sia pure con
qualche libert. Non possiamo dare per scontato laccordo sulle propriet espressive non
possiamo perch non sono propriet che spettino agli oggetti in se stessi; possiamo invece
chiedere a ciascuno la pazienza e la disponibilit necessarie per assumere il nostro punto
di vista e per cogliere ci che noi abbiamo potuto cogliere: una certa particolare manife-
stazione della cosa.
Di qui, da queste considerazioni di carattere generale, si pu intendere in che senso
anche per noi le propriet espressive siano appunto propriet fenomeniche.
2. Le propriet espressive senza espressione sono propriet intuitive
Le considerazioni che abbiamo sin qui proposto si prefiggevano un obiettivo determinato:
volevano far luce su quelle propriet espressive senza espressione che in qualche modo
caratterizzano la nostra esperienza del mondo e ci consentono di riconoscerci in esso. Che
un simile terreno vi sia difficile negarlo e credo che le diverse esperienze di cui abbiamo
discusso settimana per settimana in questi tre mesi di corso siano sufficienti per mostrarlo.
E tuttavia, basta riflettere un poco sul titolo sotto il quale abbiamo ritenuto possibile rac-
cogliere queste esperienze un titolo che evidentemente ricalca nella sua forma quella
conformit a scopi senza scopo che per Kant circoscrive lesperienza del bello per ren-
dersi conto di un problema su cui ancora necessario riflettere un poco. Parliamo di
unespressivit senza espressione, ma ha senso farlo? Non dovremmo semplicemente ri-
conoscere che non vi alcuna autentica espressivit quando parliamo di ci che non ha
una dimensione psichica? Il Sole tramonta e lo spettacolo ci sembra malinconica ma
perch non riconoscere che malinconico non lo affatto, che lo sembra soltanto sino a
quando la piega sentimentale che talvolta prende il sopravvento non si placa. In fondo, la
formula espressivit senza espressione davvero ossimorica e nasconde solo per un
attimo la difficolt che si cela dietro alla nostre considerazioni.
Non si tratta di un problema facile ed ancora una volta devo chiedervi di muovervi tra
distinzioni sottili, e di accontentarvi di un discorso che si limita ad indicare la via da se-
guire, ma non la percorre fino in fondo senza esitazioni. Il primo passo che dobbiamo
compiere consiste nel rammentare una discussione in cui ci eravamo imbattuti, esponendo
le tesi di Kivy: la distinzione tra unaccezione transitiva ed unaccezione intransitiva del
verbo esprimere. Si tratta di una distinzione importante che ci invita in primo luogo ad
osservare che vi sono casi in cui attribuiamo unespressivit ad una determinata situa-
zione, senza per questo pretendere di attribuire un vissuto a qualcosa o a qualcuno.
Lesempio che Kivy ci propone ha una vena domestica. Kivy ci invita a immaginare il
muso di certi cani un San Bernardo, per esempio per constatare che non sappiamo non
vederli come se fossero tristi. Eppure sappiamo bene che non sono tristi e non pensiamo
nemmeno un attimo che lo siano: il muso di un San Bernardo ci sembra che esprima tri-
stezza ma la esprime solo intransitivamente: non triste, ma indossa perennemente la
maschera di una tristezza apparente. Non possiamo non vedere disegnata sul suo muso la
maschera della tristezza, ma non gli attribuiamo transitivamente lo stato danimo della
tristezza: ci limitiamo a cogliere nel suo muso licona della malinconia, le sue forme este-
riori della tristezza ci limitiamo a vedere una manifestazione espressiva senza espres-
sione.
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Si tratta, io credo, di una distinzione importante e tuttavia io non credo che sia suffi-
ciente per venire a capo del nostro problema. Certo, il muso di certi animali ci sembra
triste, ma questesperienza sembra essere accompagnata dalla consapevolezza che le cose
non stanno cos: non c nulla che sappia commuoverci nelle guance cascanti di un San
Bernardo e nei suoi occhi languidi, ed anzi c qualcosa di intrinsecamente comico nel
suo aspetto. Vediamo la caricatura della tristezza disporsi come un velo apparente sopra
il comportamento giocoso di quellanimale e non possiamo non scorgere lo scarto che si
apre tra luno e laltro come un fatto che ci fa sorridere, come uno strano scherzo davanti
al quale difficile rimanere seri. E non un caso che le cose stiano cos. La bocca piegata
allin gi, come la piega degli occhi e le orecchie a ciondoloni sembrano essere infatti la
moneta corrente per ridestare limmagine della tristezza: non sono soltanto espressivi
della tristezza, ne sono direttamente lespressione. Non possiamo guardarli senza essere
chiamati ad attribuire uno stato danimo quello stato danimo che non c nel caso del
San Bernardo che sembra, proprio per questo, essere uscito di casa con la faccia sbagliata.
Insomma: il muso del San Bernardo esprime tristezza ma solo in un senso minimo del
termine e la tristezza apparente del suo volto non facilmente disgiungibile dallespe-
rienza del suo contrario. Quando ascoltiamo un adagio e lo troviamo malinconico le cose
non stanno cos e non ci sembra di trovare nulla di comico nel fatto che quelle note osten-
tino una malinconia che non provano.
Forse, di fronte a queste considerazioni, la nostra prima reazione sar quella di alzare le
spalle un poco infastiditi: davvero il caso di perdere del tempo su un esempio sbagliato,
che sembra per giunta avere la funzione di alleggerire il tono del discorso? Io credo di s.
In realt non si tratta soltanto di un esempio, ma del modo in cui Kivy intende venire a
capo del nostro problema un modo che in fondo ancora una volta indice della piega
intellettualistica delle sue riflessioni. Kivy parla del muso del San Bernardo perch di fatto
ritiene che il problema cui si deve dare risposta propriamente questo: come possibile
che qualcosa abbia la forma esteriore di una manifestazione espressiva anche quando non
esprime alcunch? A questa domanda si pu rispondere con chiarezza mostrando il muso
di un cane: quel muso unicona della malinconia, anche se non esprime transitivamente
malinconia. La esprime intransitivamente leggiamo, ma lungi dallessere chiaro che
cosa questo significhi. In fondo, le analisi di Kivy non sembrano dirci nulla pi di questo:
davanti ai segni della malinconia reagiamo cos rammentandoci di quella malinconia
che tuttavia non possiamo attribuire realmente a ci che esperiamo. Ascoltando un adagio
di Bach ci ricordiamo della malinconia, mentre ci ricordiamo della gioia quando vediamo
il cielo sereno di una giornata primaverile. Questo quello che dovremmo dire ed
davvero ben poco.
Il punto qui: non si tratta di un esempio mal scelto, ma del modo in cui Kivy ritiene di
dover analizzare le propriet espressive senza espressione. A suo parere, sono icone
dellemozione che rammentano, ed unicona appunto questo un segno che rimanda ad
altro. Kivy muove da qui, da una discussione dei segni espressivi, ma si tratta di una mossa
sbagliata perch un segno c ed efficace solo quando sta davvero per qualche cosa. Il
sorriso o le sopracciglia aggrottate non sono una qualunque forma espressiva, ma sono un
segno della dellallegria o del fastidio: dicono che cos stanno le cose e ci costringono a
prenderne atto. Quelle espressioni sono diventate parole che possiamo esibire volontaria-
mente sul nostro volto e che stanno per un vissuto: se quel vissuto non c diventano una
maschera priva di senso, unicona che non pu fare altro che ricordarci quei vissuti cui di
solito legata, un poco come il riassestarsi delle assi di un pavimento pu ricordarci il ru-
more dei passi di un visitatore inatteso.
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Insomma: Kivy muove dai segni espressivi e proprio per questo ci invita a pensare alle
forme espressive senza espressione alla luce del concetto di icona e ad intenderle come se
fossero un guscio esteriore che ricorda a sproposito quello che non c un certo stato
danimo.
Non credo che le cose stiano cos e vorrei cercare di mostrarlo, invitandoci innanzitutto
a distinguere quelli che chiamo segni espressivi da quelle che chiamo propriet espres-
sive.
Chiamo segno espressivo una certa configurazione fenomenica che chiamata in causa
esclusivamente come criterio per lattribuzione di un certo stato emotivo, ma non parte
della sua descrizione.
Chiamo invece propriet espressiva una certa configurazione fenomenica che pu es-
sere chiamata in causa dallattribuzione di un certo stato emotivo, ma anche parte della
sua descrizione.
Un esempio pu chiarire che cosa intendo. Le orecchie abbassate di un cane possono
significare timore ne sono un segno espressivo, ma questo non significa che nella de-
scrizione del timore (di ci che noi chiamiamo timore) vi sia qualcosa che concerna la
posizione delle orecchie. Il timore non si rivela nella sua natura in quel gesto, anche si
svela nel suo esserci, perch il fatto che le orecchie siano abbassate si accompagna nella
norma a quel vissuto, cos che noi possiamo fare delluno lindice della presenza dellal-
tro. Certo, pu darsi che le orecchie abbassate siano funzionali ad un qualche comporta-
mento che si lega al timore ed persino possibile sostenere che meri segni espressivi non
si danno, ma in qualche misura credo che la distinzione possa essere tracciata e sia per-
spicua: posso dire che un cane ha paura perch abbassa le orecchie, ma non posso spiegare
che cos la paura, mostrando quelle orecchie abbassate. Al contrario, il salterellare fe-
stoso intorno al padrone parte della descrizione della gioia di quel cane abbiamo a che
fare in questo caso con una propriet espressiva poich ci che osserviamo mette in scena
un certo stato emotivo, non un comportamento esteriore che lo accompagna costante-
mente e che, solo per questo, pu fungerne da segno. La gioia del cane anche questo
salterellare proprio cos. In questo caso, se qualcuno mi chiedesse di spiegare che cosa
la gioia potrei additare un comportamento proprio cos.
Della plausibilit di questa distinzione ci si convince, io credo, se ci si sofferma su due
differenti constatazioni.
1. Qualche volta le emozioni si celano persino a chi le vive e posso scoprire di essere
inquieto se qualcuno mi fa notare che non so darmi pace nei miei gesti e nei miei com-
portamenti: mi scopro inquieto perch mi agito sulla sedia, mi alzo di continuo, cambio
occupazione, e cos via. Non posso invece scoprirmi felice guardandomi allo specchio e
vedendo che ho la bocca atteggiata in un certo modo: il sorriso un criterio che ci consente
di asserire che qualcuno felice, ma non parte della descrizione della sua felicit.
2. Non facciamo che sviluppare queste considerazioni se osserviamo che non pos-
siamo dire di una bocca piegata in un certo modo che un sorriso se non effettivamente
segno di gioia (o se non pretende di esserlo): ci che fa di una bocca atteggiata in un certo
modo un sorriso solo il suo essere segno naturale dellesserci di un certo stato danimo.
Nel caso delle propriet espressive le cose non sembrano stare cos. In questo caso il no-
stro discorrere di un carattere espressivo di una determinata scena non vincolato allat-
tribuzione effettiva di uno stato emotivo ad una soggettivit determinata e di fatto diciamo
che un certo modo di fare resta inquieto anche se chi si comporta in quel modo tranquillo
ed anche se non intende ingannare nessuno comportandosi cos.
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Credo che, ad un primo livello, non sia difficile comprendere la ragione di questo fatto.
Essere segno di qualcosa una relazione estrinseca che pu essere attribuita ad un certo
oggetto, senza per questo incidere sulla sua configurazione fenomenica: una certa piega
della bocca un sorriso solo se possiamo coglierlo come un segno di gioia. Diversamente
stanno le cose quando abbiamo a che fare con le propriet espressive. Un gesto resta cauto
anche al di l delle intenzioni di chi lha compiuto ed anche se a rigore non affatto un
gesto perch pu sembrarci cauto anche il movimento di una cosa e questo perch ci che
si manifesta non segno di uno stato danimo timido o timoroso, ma coincide almeno in
parte con la descrizione di ci che per noi vuol dire essere timidi o timorosi. E questo
significa: nel momento in cui cogliamo la cautela di quel gesto non stiamo dicendo che
segno di un certo stato danimo, ma stiamo descrivendo il modo in cui quel gesto ci appare
stiamo dicendo che un gesto che ha una certa configurazione sensibile che non pos-
sibile descrivere se non nelle forme di un linguaggio carico di espressivit. Ne segue che
dire che qualcosa ha una propriet espressiva non significa attribuirle anche uno stato
emotivo determinato; ma non significa nemmeno sostenere che ci che esperiamo ci ri-
corda qualcosa: vuol dire invece asserire che ci che vediamo ha le forme della tristezza,
della gioia o della malinconia. Vediamo in quel comportamento la malinconia perch
parte di ci che chiamiamo malinconia labbiamo colto appunto in quei gesti e in quei
movimenti.
Vorrei provare a chiare ci che intendo con unanalogia che pu forse insegnarci qual-
cosa. Se osserviamo una stoffa, possiamo vederne la morbidezza cos come possiamo ve-
dere la pesantezza di un macigno che si oppone alla forza di chi tenta di smuoverlo. Non
credo che si tratti di espressioni soltanto metaforiche, n che si possa renderne conto di-
cendo che abbiamo a che fare con caratteri che si accompagnano alla percezione tattile
della morbidezza o della pesantezza e ne sono quindi divenuti i segni. La situazione feno-
menologica sembra essere unaltra: c qualcosa in ci che vediamo che possiamo descri-
vere solo cos, parlando ora di morbidezza, ora di pesantezza. C qualcosa nella morbi-
dezza di un tessuto che si vede e che non si tocca, ed anche se al tatto che spetta lultima
parola, ci che vediamo appartiene comunque alla descrizione di quella qualit, anche se
non ne mette in luce il nucleo centrale. Cos, se anche dovessimo venire a scoprire che il
macigno di cartapesta o che la stoffa che ci sembra cos delicata spessa e infeltrita,
morbidezza e pesantezza resterebbero comunque tratti che appartengono a ci che ve-
diamo: vediamo la morbidezza della stoffa e la pesantezza del macigno anche se non pos-
siamo per altre ragioni attribuire realmente quelle propriet agli oggetti che abbiamo
sottocchio.
Qualcosa di simile accade appunto anche nel caso delle propriet espressive. Che cosa
sia la tristezza e che cosa lallegria lo sappiamo perch lo viviamo: tristezza e allegria
sono stati nei quali tutti siamo passati, infinite volte. Questo tuttavia non significa che dire
di una persona che sia triste o allegra voglia sempre e necessariamente dire che prova quei
vissuti che abbiamo provato poco fa o che stiamo provando ora: un comportamento pu
essere allegro anche se chi lo mette in scena non prova un vissuto determinato. La mattina,
quando mi sveglio, sono di solito di buon umore e lo si vede dai gesti e dai modi in cui
mi comporto, ma se qualcuno mi chiedesse che vissuto provo, forse non saprei affatto
come rispondere. Certo, ora che me lo chiedi, ti potrei rispondere che sono allegro, ma
questo non significa necessariamente che avverta qualcosa dentro di me, ma solo che fac-
cio tante cose, che mi preparo volentieri il caff, che penso a quello che devo fare, che
scendo a due a due i gradini per salutare chi sta uscendo, e cos via. Il mio umore lo vedi
tu, come lo vedo io e pu talvolta capitare che ci si accorga dellumore di un altro ben
prima che questi se ne renda consapevole. E lo stesso accade con la tristezza: si pu essere
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tristi anche senza che si avverta un vissuto particolare, ed anzi forse questa tristezza
quella che non si annuncia in una sofferenza avvertita quella che pi ci spaventa. In
un film di Uberto Pasolini, Still life, si narra la vita silenziosa e meticolosa di un impiegato
comunale che deve preoccuparsi di ritrovare per le persone che sono morte in solitudine
una famiglia o dei conoscenti che possano conservarne il ricordo. John May, cos si
chiama il personaggio di questo film, un uomo meticoloso e paziente, ed ogni suo gesto
della sua vita lascia intravedere malinconia che soffoca ogni desiderio di felicit e un
restringersi doloroso dei suoi orizzonti di vita, ma non vi davvero bisogno anche soltanto
di pensare che di tanto in tanto ne soffra. Ad essere malinconici sono i suoi gesti, il suo
paziente incollare su un grande album che tiene in casa le fotografie e le lettere dei morti
che sono rimasti senza un nome: di altro non c davvero bisogno.
Discorrere di propriet espressive e non di meri segni importante perch ci consente
di mettere da canto una falsa immagine delle propriet espressive senza espressione: lim-
magine che ci spinge a pensarle come se fossero maschere mute che rammentano per
errore unespressivit appresa altrove. Di contro a una simile immagine, dobbiamo invece
sostenere che le propriet espressive senza espressione inscenano ci che esprimono per-
ch sono parte della definizione di ci che esprimono: proprio come vediamo la gioia nel
cane che salta intorno al padrone, cos sentiamo la dolcezza di una sera destate. Una
musica malinconica non ha una forma che ci ricorda la malinconia, ma mette in scena ci
che chiamiamo malinconia la differenza qui.
A partire di qui sembra possibile tracciare un quadro relativamente definito del nostro
problema. Quando guardo un tramonto avverto la sua malinconia, ma questo non significa
che io ritenga che il sole debba essere compatito o che provi davvero le emozioni che si
impongono alla nostra percezione: perch una propriet espressiva possa essere anche una
propriet che esprime un certo stato danimo e che ci consente di attribuire ad un soggetto,
reale o immaginario che sia, un certo vissuto, alcune determinazioni contestuali debbono
essere soddisfatte. Un sorriso ride soltanto in un volto umano, scriveva Wittgenstein e
per quanto diverse siano qui le nostre considerazioni da quelle che animano questosser-
vazione wittgensteiniana, su un punto mi sembra possibile concordare: noi vediamo le
propriet espressive e ne cogliamo la determinatezza, ma per poterle cogliere come
espressione di un vissuto particolare necessario un contesto che le motivi e che le sor-
regga. Laccartocciarsi della foglia riarsa e il rivo strozzato che gorgoglia rendono visibile
il male di vivere cos almeno scriveva Montale, ma di per s non ci porgono il contesto
adeguato su cui lattribuzione di quello stato danimo possa far presa: il male di vivere
non qualcosa che possa davvero caratterizzare lo stato di una foglia o lo scorrere dellac-
qua perch non possiamo intendere le ragioni di quellaccartocciarsi come se fossero an-
che i motivi del suo esser cos. E tuttavia, il venir meno del contesto che ci consente di
attribuire sensatamente uno stato danimo reale sul fondamento delle propriet espressive
che percepiamo non modifica la configurazione fenomenica di ci che abbiamo di fronte
agli occhi e non lo rende per questo descrivibile se non cos come una scena espressiva-
mente carica. Nella foglia accartocciata vediamo una sofferenza che non possiamo attri-
buirle. Dobbiamo dunque concludere che afferrare una propriet espressiva in quanto
tale e attribuire uno stato emotivo sono due cose distinte. Una propriet espressiva una
propriet puramente fenomenica: non si pu attribuirla a torto, anche se si pu sbagliare
nellattribuirla perch si pu veder male. Uno stato emotivo, invece, uno stato reale: c
o non c, e si pu quindi aver torto nellattribuirlo anche se non sbagliamo nellattribuirlo.
E viceversa. Cos, diciamo di avvertire la malinconia del crepuscolo non perch la confi-
gurazione fenomenica del sole che lentamente scivola sotto lorizzonte ci consenta di at-
tribuire immaginativamente uno stato emotivo di cui il tramonto sarebbe il segno, ma
107


perch la descrizione complessiva di quel fenomeno ci costringe almeno in parte a mettere
in luce quegli stessi tratti di cui ci avvaliamo per descrivere la tristezza. Il tramonto ci
sembra triste perch la tristezza fatta almeno in parte cos perch vediamo la tristezza
nel sole che cala allorizzonte, anche se poi il contesto complessivo cui quella scena ap-
partiene ci impedisce di affermare che sia una tristezza effettiva. Il lento calare del sole
non ha motivi che ne spieghino la malinconia e il suo lento spegnersi non si lascia com-
prendere come parte di un agire. Non si lascia comprendere cos, anche se ne ha la forma.
Ma il punto, come avrebbe detto Kant per il giudizio di gusto, che le propriet espressive
non si muovono sul terreno del concetto e si danno prima di una qualche subordinazione
concettuale. Viviamo la malinconia che si esprime nel tramonto, anche se sappiamo che
non c, proprio come possiamo avere paura di camminare su una lastra di vetro che spa-
lanca visivamente sotto di noi labisso, anche se sappiamo che sosterr senzaltro il nostro
peso.
Vorremmo fermarci qui, ma i nostri problemi non sono ancora del tutto risolti. Certo, la
malinconia del sole al tramonto la viviamo perch si tratta di unesperienza che cresce
sulla passivit della percezione e non di un concetto: non ha bisogno di giustificazioni per
farsi avanti. E tuttavia riconoscere che cos stanno le cose non significa ancora avere
sciolto il nodo intorno a cui ci affatichiamo. Dire che un comportamento espressivo
anche senza che vi sia bisogno, o possibilit, di accedere alla dimensione psichica di chi
lo compie non significa sostenere che non abbia senso interrogarsi sulla sua veridicit.
Tuttaltro: ci chiediamo molto spesso come stiano le cose quando vediamo qualcuno com-
portarsi in un certo modo, e ha sempre senso chiedersi se un gesto sia davvero inquieto o
aggressivo e se chi agisce cos davvero felice o finge di esserlo. La via per farlo ci ben
nota: ci conduce da quel gesto al contesto di cui parte e ci invita a comprenderlo meglio,
a coglierne le motivazioni, a renderlo esplicito nei suoi nessi esplicativi. Le propriet
espressive si danno nella percezione come una voce istintiva che non pu essere tacitata,
ma si dispiegano solo in una prassi percettiva sorretta da credenze, da interessi di varia
natura e da pensieri. Non posso non vedere la malinconia dei gesti di una persona triste,
ma questimmediatezza si approfondisce e si fa ricca e piena solo quando quei gesti si
dispiegano alla luce delle motivazioni che li sorreggono. Se questi motivi non ci si danno
e se lespressivit non trova conferma nel suo contesto, possiamo s viverla, ma non ac-
cordarle un significato particolare. In un certo senso, tutto gi racchiuso nellesempio di
cui ci siamo avvalsi poco fa. Possiamo avere paura di camminare su una lastra di vetro
anche se sappiamo che ci sosterr, ma questo non toglie che lemozione che proviamo
in qualche misura addomesticata dalla ragione ed priva della sua seriet: una paura
immotivata, ed una paura senza motivi non solo una paura che si rivela irrazionale, ma
una paura che si esaurisce nel brivido che ci percorre la schiena. La sentiamo senza
avvertirla e la viviamo sullo sfondo della ragione che la nega. Quello che resta una
parvenza priva di seriet.
Queste considerazioni sembrano essere necessariamente chiamate in causa quando ab-
biamo a che fare con le propriet espressive senza espressione. In questo caso, infatti,
sembra essere non soltanto falso, ma addirittura impossibile prendere sul serio il compor-
tamento che ci sembra espressivo. Vediamo nel rivo strozzato la fatica di vivere, ma che
cosa potrebbe farci dimenticare che un ruscello non pu essere stanco di vivere? Posso
davvero dimenticarmi, anche se solo per un attimo, che lacqua non viva e che, proprio
per questo, non pu sentire il male di vivere? La risposta sembra ovvia: non posso dimen-
ticarmelo, perch il contesto della mia esperienza lo ripete a chiare lettere, cos come mi
ripete che il sole non malinconico al tramonto o che le sere destate non sono colme di
un appagamento sereno.
108


Di qui il problema che dobbiamo affrontare: che cosa ci consente di avvertire le pro-
priet espressive senza espressione, senza svuotarle, sin da principio, del loro senso e della
loro seriet?
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LEZIONE DODICESIMA
1. Esperienze contestuali e a-contestuali
Per venire a capo del nostro problema forse opportuno lasciarci innanzitutto guidare da
unanalisi fenomenologica che ci indichi un possibile percorso e che ci consenta di avvi-
cinarci, passo dopo passo, alla nostra meta. Muoviamo allora in primo luogo da un genere
peculiare di esperienze in cui siamo costretti a modificare la nostra attribuzione di espres-
sivit dal rimando ad una dimensione contestuale: la situazione del mentitore. capitato
a tutti almeno una volta: qualcuno si finge addolorato per un danno che ci ha arrecato e
allora si scusa e si accusa, si agita e si lamenta e mostra tutti i segni esteriori di un penti-
mento cui tuttavia non possiamo credere, perch mentre lo vediamo strapparsi le vesti nel
tentativo di rendere scusabili le sue gesta sappiamo che sta continuando a fare ci di cui
ora si dichiara pentito. Non gli crediamo, e basta sottrarre la fiducia che stavamo per ac-
cordargli e in cui, nella norma, viviamo perch quei gesti rivelino la loro vera natura e ci
appaiano per quello che sono: sullo sfondo di un contesto che ci impedisce di compren-
derle per quel che pretendono di essere, vediamo farsi avanti piccole sfumature di com-
portamento che svuotano del loro senso apparente i gesti che vengono compiuti davanti
ai nostri occhi. Ora che so che non sei affatto pentito, vedo bene la natura dei tuoi gesti e
colgo ci che forse avrebbe potuto sfuggirmi: la piega insincera di un movimento, il tono
troppo umile della voce, lassenza di pause che fa pensare ad un discorso mandato a me-
moria. Le cose stanno appunto cos. Quando vogliamo capire davvero il senso di un com-
portamento cerchiamo di scorgere le sfumature di senso che lo caratterizzano e di ricolle-
garle alla situazione cui appartengono; in un senso ampio del termine, contestualizziamo
lazione cui assistiamo, cercando di vedere come reagisce al tutto di cui una parte. Chi
mente, di solito, esagera perch non ha la misura del contesto: la gentilezza diventa un-
tuosa, un fare ben disposto nei confronti dellaltro assume le forme di una sottomissione
ipocrita e servile.
Diversamente stanno le cose quando qualcuno apertamente recita un comportamento
determinato. Un attore non ci sembra untuoso quando mette in scena la gentilezza e non
lo troviamo ipocrita, a meno che non reciti la parte di un ipocrita come Tartufo. La diffe-
renza, tuttavia, riposa pi dalla parte dello spettatore che dellattore. Un attore non ripete
esattamente il comportamento di chi realmente mosso da una certa passione e se lo spet-
tatore cercasse davvero di saggiare la bont del suo dire e gestire, riconducendolo al con-
testo reale in cui si trova, non sarebbe difficile mettere in luce una serie di incongruenze.
Tuttaltro: quelle incongruenze sono talmente evidente che lo spettatore non ha nemmeno
bisogno di cercarle. Levidenza dellinconciliabilit di principio del contesto teatrale con
luniverso che lo ospita si traduce tuttavia nel venire meno della prassi volta a saggiare la
veridicit della scena e ad accettare come un fatto evidente che ci che si recita non avanza
una pretesa di realt, ma chiede solo di divenire tema del nostro interesse di spettatori.
Il punto questo: chi guarda uno spettacolo teatrale in linea di principio non avanza alla
scena quelle domande che lo costringerebbero a stravolgerne il senso. Lo spettatore si
accontenta di quello che vede e non chiede come sia possibile che recita dopo recita Otello
non si sia convinto della onest di Desdemona e non si domanda come possa accadere che
Adelchi, ferito a morte, abbia il tempo e la lucidit per spiegare al padre che cos la storia
e quale la radice feroce e ingiusta del potere. Lo spettatore non si pone queste domande
perch non ha alcun interesse ad ascoltare la risposta: guarda lo spettacolo e lo coglie nella
sua esplicita a-contestualit. Certo, lo spettatore percepisce la differenza che separa i la-
menti di un uomo che muore realmente dal farsi via via pi franta della sintassi di Adelchi
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e non pu non rendersi conto della differenza che separa ci che accade sul terreno della
realt da ci che si recita nello spazio finzionale del palcoscenico, ma questo non significa
che debba per questo riconoscerne la falsit. Lo spettatore sente che la morte di Adelchi
recitata, ma non costretto a sentirla falsa: falsa sarebbe se pretendesse di essere vera
e di avere un suo spazio reale nel mondo quello spazio cui rinuncia in virt della sua a-
contestualit. Ci che recita sulla scena teatrale non ci vuole ingannare e non una men-
zogna perch non pretende di essere vero e non pretende di essere vero perch accetta la
misura che gli imposta dal carattere stesso della recitazione e dalla chiusura esemplare
dello spazio scenico: assistiamo ad uno spettacolo che accetta di essere privo di una pre-
tesa veritativa e che rinuncia fin da principio ad avere un posto nella storia e nel tempo
obiettivo del mondo. Ne segue che se tentiamo di descrivere ci che sulla scena si recita
dobbiamo mettere da canto il linguaggio reale delle emozioni e degli eventi e questo si-
gnifica che dobbiamo da un lato riconoscere che ci che accade sulla scena non pretende
di essere vero nel mondo, ma non pu nemmeno essere inteso come se fosse qualcosa di
falso. Non si pu dire che nellOtello si insceni una gelosia reale, ma non si pu nemmeno
sostenere che quella gelosia che vediamo recitare di fronte a noi sia parte di un inganno e
che debba essere negata come se si trattasse di unapparenza ingannatrice: lo spettatore di
quel dramma assiste infatti ad un evento sui generis e ad una gelosia sui generis che non
possono essere misurate con il metro della realt, poich si tengono intenzionalmente di-
stinte da quella. Per dirla in breve: una gelosia recitata non una gelosia reale, ma non
nemmeno una falsa gelosia, perch il predicato recitata si pone come un indice che
determina non loggetto cui si applica, ma la natura che gli propria. Una gelosia recitata
una gelosia che appartiene alla dimensione a-contestuale della finzione scenica
3
.
Qualcosa di simile accade quando ci imbattiamo nelle propriet espressive senza
espressione. C un tratto che accomuna luna allaltra la percezione di uno spettacolo
teatrale e lafferramento delle propriet espressive senza espressione, ed che queste ul-
time si danno allinterno di un contesto che esclude fin da principio la loro realt. Unespe-
rienza ingannevole unesperienza che si inscrive nellordine del possibile: posso fingere
di essere addolorato per quello che ti accaduto perch in generale posso provare com-

3
Chi guarda unimmagine vede aprirsi davanti a s una profondit apparente, ma questo non
significa affatto che nella norma si inganni. Lo spettatore guarda limmagine ed ben consapevole
del carattere peculiare di quella profondit, del suo essere presente come uno spettacolo che deve
essere tenuto separato dalla profondit reale dello spazio che la ospita. La profondit raffigurata
appunto una profondit apparente, ma questo non significa che sia una profondit che abbiamo
creduto reale e che, proprio per questo, dobbiamo riconoscere ora nel suo carattere illusorio. Le
cose non stanno cos: la profondit raffigurata apparente perch limmagine ci appare fin da
principio come uno spazio a se stante che non pu e non deve essere commisurato con il mondo e
con lo spaio reali. Se la saggiamo con il metro della realt, limmagine si rivela per quello che :
una superficie bidimensionale. Nessuno, tuttavia, ci costringe a farlo; nessuno ci costringe a toccare
la tela o a porre in contrasto lincedere reale della profondit con il passo incerto della sua ripro-
duzione figurativa; tuttaltro: quando guardiamo unimmagine dobbiamo, per un attimo, lasciarci
guidare dalle regole di uno spazio a-contestuale e accettare di attribuire al linguaggio della spazia-
lit una forma sui generis quella che ci consente di dire di figure che appartengono ad uno stesso
piano che sono una davanti allaltra. Lo stesso accade con le propriet espressive senza espressione:
averne esperienza significa disporsi in una dimensione a-contestuale e accettare il linguaggio sui
generis delle propriet espressive senza espressione il loro parlarci seriamente di unespressivit
che, a rigore, non ha luogo.

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passione per gli altri e posso provare dolore. Le cose non stanno cos nel caso delle pro-
priet espressive senza espressione che sembrano fin da principio poggiare su un vero e
proprio errore categoriale: si impongono alla percezione e le viviamo nel loro senso, ma
non possiamo coglierle attribuendo loro uneffettiva realt. Ma ci che non pu avere un
posto reale nel mondo pu guadagnare una sua seriet quanto pi sa porsi come tema di
unesperienza che si fa a-contestuale. Esperienze come la malinconia del tramonto, lin-
quietudine di una forma o la dolcezza di un suono sono propriet che si impongono alla
percezione e che non sono tacitate dal si danno con crescente chiarezza e pienezza quanto
pi sanno segregarsi dal contesto di mondo cui appartengono ed assumere la forma di uno
spettacolo, cui assistiamo. C nel farsi avanti delle propriet espressive senza espressione
un vero e proprio retrocedere del contesto di mondo cui appartengono e tanto pi viva
lespressivit che ci sembra di scorgere, tanto pi esile si fa il nesso che lega al contesto
la scena che osserviamo. unesperienza che abbiamo fatto tutti: per potere apprezzare
la vitalit di un temporale estivo dobbiamo starcene ben chiusi in casa o almeno dobbiamo
aver trovato rifugio dentro un portone perch solo quando troviamo rispetto agli eventi
una posizione che li mette a distanza possibile indugiare sul fenomeno della loro espres-
sivit. Ed un discorso analogo vale per un paesaggio che ci pare tanto pi espressivo,
quanto pi sappiamo coglierlo nella sua separatezza dal contesto di mondo cui appartiene.
Possiamo trarre allora una prima conclusione di carattere generale. Le propriet espres-
sive senza espressione si fanno vive per noi quanto pi si ottunde la coscienza della realt.
Si manifestano quando concediamo loro uno spazio autonomo e ci immergiamo in una
percezione che sconfina nella rverie. Victor Hugo la definisce cos:
Tutto questo non era n una citt, n una chiesa, n un fiume, n colore, n luce, n
ombra; era rverie. Sono rimasto a lungo immobile, lasciandomi dolcemente pe-
netrare da questo insieme inesprimibile, dalla serenit del cielo, dalla malinconia
dellora. Non so che cosa capitava nel mio spirito e non potrei dirlo, era uno di que-
gli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che si sveglia (G. Bachelard,
Poetica della rverie, a cura di G. Silvestri Stevan, Dedalo, Bari 1975, p. 19).
Hugo scrive cos: uno di quegli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che
si sveglia e questaffermazione sulla cui rilevanza attira la nostra attenzione Gaston
Bachelard deve essere spiegata, perch la rverie sembra invece per sua natura ricon-
durci in prossimit di una sorta di sogno ad occhi aperti. Ma una cosa non contraddice
laltra: nella rverie la realt nella sua determinatezza che viene messa a tacere e, corre-
lativamente, lio della vita concreta che si assopisce per dare spazio ad un io che fanta-
stica e che si perde nella contemplazione sognante di un fenomeno. Nella rverie si desta
lio che fantastica e sogna; e il suo destarsi coincide con lassopirsi della coscienza della
realt.
Vorrei sostenere che qualcosa del genere accade quando ci immergiamo sino in fondo
nella contemplazione di un tramonto o ci lasciamo catturare dalla luminosit gioiosa di
un mattino primaverile: per un breve arco di tempo prendiamo commiato dalla realt e ci
immergiamo nella scena che ci si presenta, mettendo da canto ogni domanda che pretenda
di superarla, invitandoci a connetterla ad un contesto. Cos facendo, la scena guadagna
una su indipendenza dal mondo e non ci chiede di saggiare la plausibilit del suo conte-
nuto espressivo: rinunciamo a vagliarne la realt e possiamo proprio per questo salvare il
suo manifestarsi dalla voce critica della ragione che ci costringerebbe a riconoscere che
di fatto non vi nulla che nel mondo corrisponda a quellesprimere. Non abbiamo bisogno
di dimenticarci nemmeno per poco che la malinconia realmente di casa solo l dove vi
un soggetto, ma non per questo siamo invitati a ricordarcene e a prenderne atto: ci basta
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lo spettacolo cui assistiamo e il suo mettere in scena una propriet espressiva che non ci
chiede di attribuire uno stato danimo a nulla, ma che egualmente si mostra e si rende
esperibile.
Che la a-contestualit delle propriet espressive senza espressione abbia come suo con-
trocanto latteggiamento sognante della rverie non difficile comprenderlo, cos come
non difficile comprendere il nesso che lega la a-contestualit delle propriet espressive
senza espressione ad un atteggiamento in senso lato immaginativo. Le cogliamo e le ap-
prezziamo davvero quanto pi accettiamo di dare alla nostra esperienza una piega imma-
ginativa quando accettiamo che la presa sulla realt si allenti e lesperienza si leghi ad
un fantasticare ad occhi aperti, che mette da canto il problema della realt per limitarsi
alla dimensione spettacolare dellesperienza, al compiersi della sua recita. Insomma: le
propriet espressive senza espressione si incontrano lungo il cammino che conduce lespe-
rienza verso limmaginazione.
La contemplazione estetica, scriveva Kant, non implica lesistenza delloggetto e anche
in questo caso, sia pure secondo una prospettiva di cui opportuno sottolineare la diver-
sit, possiamo condividere la tesi kantiana. Le propriet espressive senza espressione sono
propriet intuitive che semplicemente percepiamo, ma per poterle cogliere in tutta la loro
seriet necessario disporsi in una forma di esperienza che sconfina con limmaginazione.
Le propriet espressive senza espressione si pongono cos come forme di unesperienza
che prende progressivamente commiato dalla realt.
2. Un accenno ad un insieme di problemi assai vasto
Nelle riflessioni che abbiamo appena proposto ci siamo soffermati sul nesso che lega le
propriet espressive senza espressione alla dimensione immaginativa. Di qui si dipartono
molte strade che andrebbero sviluppate e discusse in modo approfondito. Non ne abbiamo
pi il tempo e possiamo semplicemente formularle, per ricordarci che ci sono e che do-
vremo discuterle, prima o poi.
Una prima direzione di analisi ci riconduce al terreno dellimmaginazione artistica e
mitica. In fondo c qualcosa che accomuna mitri e riti alle molteplici valorizzazioni che
si danno sul terreno dellimmaginazione artistica ed il fatto che nelluno e nellaltro caso
le propriet espressive senza espressione trovano una loro motivazione immaginativa.
Nelluno e nellaltro caso le propriet espressive trovano un contesto che ci consente di
articolarle, una narrazione che ci permette di intenderle in un significato pi ricco e defi-
nito.
Cos stanno le cose nel caso del mito. Pensiamo ancora una volta al sole e al suo tra-
montare e pensiamo a quanti riti e miti ci insegnano a dipanare la malinconia che si im-
pone alla nostra percezione, disponendola in un contesto che non il contesto mondano
della realt. Il mito ci insegna a trovare una ragione per la fine del giorno e per la sua
evidente malinconia e ci invita a credervi sia pure nella forma peculiare in cui si crede
ai miti e in generale alle forme dellimmaginazione religiosa. E ci che vale per limma-
ginazione mitica, vale anche per limmaginazione artistica che di fatto ricrea un contesto
che ci consente di cogliere la malinconia del tramonto alla luce di una molteplicit di
ragioni che la motivano e che da un lato ci permettono di leggerla come se fosse immagi-
nativamente presente nelle cose stesse e, dallaltro, ci invitano ad intenderla in una dire-
zione determinata: non pi una malinconia generica e priva di ogni ulteriore determina-
zione, ma questa peculiare malinconia che si dispiega in questa situazione determinata e
che veicola questi pensieri e queste decisioni di fondo. Cos se guardiamo il tramonto che
Bellini dipinge sullo sfondo della Imago pietatis di Brera non possiamo non renderci conto
che quella scelta non soltanto motivata dalla natura di quel dipinto un Vesperbild,
113


appunto ma da unistanza espressiva evidente: dobbiamo immaginare che la tristezza di
quel tramonto sia una forma in cui si manifesta la partecipazione cosmica al dramma che
si consuma nel primo piano del quadro. Al dolore chiuso di Maria e alla protesta dolorosa
di Giovanni che distoglie lo sguardo dal corpo morto di Ges, fa eco la malinconia onni-
pervasiva e profonda del tramonto che in questo caso possiamo comprendere solo se la
leggiamo alla luce di un progetto immaginativo che sorretto, tra le altre cose, dalla con-
vinzione che il creato partecipi al dramma del creatore. Non un tramonto qualsiasi e non
una malinconia generica, ma una sofferenza carica di implicazioni religiose. Gli esempi
potrebbero essere moltiplicati. Potremmo soffermarci sul tramonto come constatazione
malinconica ed esemplare della finitezza della vita ed il caso di Friedrich o potremmo
cercare nellinquietudine del tramonto limmagine onirica di una minaccia velata, come
accade in un quadro enigmatico di Redon, ma vorrei concludere invece con un rimando
pi leggero a una poesia di Heine che sembra riflettere, con lironia che lo contraddistin-
gue, sulla distinzione che stiamo tracciando. Heine ci propone dapprima una descrizione
del tramonto del tramonto proprio cos come immediatamente lo percepiamo, nella sem-
plicit un po kitsch del suo carattere espressivo. Le propriet espressive ci appaiono in-
nanzitutto cos nella astratta semplicit che deriva dal loro essere necessariamente prive
di un contesto che le articoli e le giustifichi. Le cose mutano quando le propriet espres-
sive vengono disposte in un contesto immaginativo nuovo che, per Heine, implica una
riflessione pi generale sulla nostra moderna incapacit di avvertire la dimensione co-
smica degli eventi, sul nostro essere in generale chiusi in una dimensione privata e irri-
mediabilmente borghese ed cos che nella seconda parte della sua poesia Heine ci
invita a leggere la malinconia del tramonto: alla luce domestica di una vita familiare priva
di passione e insterilita dagli anni. Quanto allamico che nella poesia suggerisce al poeta
il racconto che deve guidarlo nel costruire un contesto narrativo alla cui luce leggere il
carattere espressivo del tramonto sappiamo bene come intendere la sua voce: la voce
dellopera darte, il suo porsi come una realt intenzionale e comunicativa che ci invita a
costruire immaginativamente un contesto che dia un senso e uno sfondo di pensieri e di
decisioni alle propriet espressive che gi percepiamo.
A questo tema se ne aggiunge un altro su cui ci siamo soffermati varie volte, ma che
non abbiamo mai discusso approfonditamente ed il nesso che lega le propriet espres-
sive senza espressione alla nostra convinzione, tanto radicata quanto in fondo difficil-
mente comprensibile, che questo mondo sia nostro e che sia conforme alla nostra vita. In
fondo proprio cos: ci sembra ovvio che le giornate inizino e finiscano e che ci sia il
ciclo dei giorni e il ciclo delle stagioni, quasi che ci fosse bisogno di far girare tanti astri
nel cielo per ricordarci che il nostro tempo ha proprio questa forma. E tutto questo ci
sembra tanto pi ovvio, quanto pi ci sembra di trovare uneco delle nostre emozioni nel
mondo. Lalba ha i toni pedagogici di un crescendo: ci rassicura sul giorno che verr e
inscena il trionfo della luce sul buio. Il tramonto ha un copione meno ottimistico e ci
racconta la fine della giornata con una didascalia appropriata: recita la malinconia delle
cose che finiscono. E il mare, il vento, e gli alberi che hanno radici che si immergono
nella terra e chiome che vanno verso il cielo hanno anchessi una loro esemplare espres-
sivit che ci sembra in qualche modo aiutarci a radicarci a nostra volta nel mondo. Ci
ritroviamo nel nostro mondo perch lo troviamo nel suo recitare le nostre stesse emozioni,
nel suo partecipare alla sua vita come noi partecipiamo alla nostra. Per dirla in breve: le
propriet espressive che ritroviamo nelle cose si pongono cos come i mattoni con i quali
ci sembra possibile costruire la nostra immagine del mondo. Limmagine di un mondo
nostro. Avremmo dovuto discuterne a lungo se solo ne avessimo avuto il tempo.

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