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Nella casa di Pitodoro, in cui si trovano riuniti Parmenide con l'allievo Zenone, il giovane Socrate, il giovanissimo Aristotele (quello

che divenne uno dei Trenta, allora undicenne) e altri due ospiti anonimi, Zenone d lettura di un proprio scritto in cui, difendendo le affermazioni del maestro, attacca quanti ammettono la molteplicit degli enti: se infatti gli enti fossero molteplici, sorgerebbero infinite contraddizioni, col risultato che di ogni ente si dovrebbe dire che al tempo stesso uno e molteplice, simile e dissimile, e via discorrendo. A tale conclusione Socrate per obietta che i molti possono s esistere, se partecipano di alcune unit da cui traggono il nome: per esempio, diciamo simili tutte le cose che partecipano di unidea della "somiglianza". Non ha dunque senso meravigliarsi che le cose, i molti, siano simili e dissimili allo stesso tempo; piuttosto ci si dovrebbe meravigliare se il simile in s diventasse dissimile, e viceversa (129a). Parmenide tuttavia non tarda a mostrare al proprio giovane interlocutore alcune difficolt che sorgono da quanto ha appena detto. Non infatti da escludesi che Platone abbia voluto rappresentare, per bocca del giovane Socrate, alcune istanze giovanili della propria filosofia, di cui analizza le possibili contestazioni. Una prima obiezione, di carattere generale, riguarda la natura delle idee: l'eleate infatti immagina la possibilit che, accanto alle idee di giusto e bene, uguaglianza e grandezza, esistano anche quelle di uomo e acqua, o addirittura quelle decisamente ridicole di capello o fango. Socrate si dice sicuro dell'esistenza delle idee di bont e grandezza - affermando quindi la natura assiologia delle idee -, mentre esprime perplessit circa le idee di uomo e acqua, e riconosce l'assurdit delle idee di capello o fango. Parmenide prosegue allora con altre tre obiezioni pi specifiche: Prima obiezione La prima difficolt riguarda la partecipazione ( mtexis) dell'idea con l'oggetto sensibile: ciascun oggetto che partecipa [di un'idea] partecipa dell'intera idea o di una parte? Socrate tenta di proporre un paragone con il giorno, che pur essendo uno illumina varie terre, oppure con un lenzuolo che copre vari uomini. Tuttavia, nel caso del lenzuolo, esso non potr essere per intero su ciascun uomo, ma solo per una sua parte. Se ne deduce che anche per quanto riguarda l'idea, essa dovr essere divisa in tante parti, quante gli oggetti che ne partecipano (130e4-131e9). Seconda obiezione Parmenide pone a Socrate una seconda difficolt, che il filosofo Aristotele successivamente definir "del terzo uomo"[3]. Se si pensa che tutte le cose grandi, tra di loro, abbiano qualcosa che le accomuni, ovvero la partecipazione al grande in s, allora plausibile pensare anche che tutte le cose grandi, a loro volta, abbiano qualcosa in comune con il grande in s: ecco allora apparire una seconda idea di grandezza, di cui partecipano sia gli oggetti grandi sia l'idea di grande. Allo stesso modo, per possibile ipotizzare che vi sia qualcosa che accomuni il grande in s, gli oggetti grandi e la nuova essenza appena trovata, ipotesi che porterebbe alla comparsa di un'ulteriore idea di grandezza, innescando cos un processo infinito (132a1-b2). A nulla giova l'ipotesi di Socrate per cui le idee potrebbero esistere solo nel pensiero; da ci infatti Parmenide conclude che o ciascuna cosa consiste di pensieri e tutte pensano oppure esse, pur essendo pensieri, sono prive di pensiero (132b3-c11). Socrate ipotizza allora che le idee possano essere modelli fissi, di cui le cose sensibili sono solo copie. In questo caso la partecipazione delle cose alle idee altro non sarebbe che l'essere foggiate come immagini di esse Tuttavia in questo modo si ricade nell'obiezione del "terzo uomo" (132b4-133a10). Terza obiezione

Si tratta della pi pesante teoreticamente. Se le idee sono veramente entit in s, aventi sostanza in rapporto a se stesse, esse diventano allora per noi inconoscibili, in quanto occuperebbero un piano ontologico a se stante rispetto a quello umano/sensibile. Stando cos le cose non solo sarebbe per noi impossibile conoscere il bello o il bene in s, ma accadrebbe che persino gli di, detentori della scienza in s ( episteme), non sarebbero in grado di conoscere gli oggetti sensibili presenti nel mondo degli uomini - conclusione a dir poco assurda (133a11-135c3).

l'uno La dottrina delle idee comporta dunque varie difficolt teoriche all'apparenza quasi insormontabili, ultima delle quali l'impossibilit da parte degli uomini di poter coltivare una scienza delle cose soprasensibili, ovvero lepisteme. Tale conclusione induce Parmenide a porre al suo giovane interlocutore la domanda: Che farai allora della filosofia? (135c5). A detta di Parmenide, il principale problema di Socrate l'essere troppo giovane e poco allenato nell'esercizio dell'indagine filosofica. Per porvi rimedio il vecchio filosofo delinea al proprio interlocutore un metodo di indagine basato su ipotesi da verificare attraverso il ragionamento (136a4-c5). Tale metodo cos riassumibile: a proposito di qualsiasi oggetto o argomento, si prendono due ipotesi tra di loro contrarie e opposte, una che dica "che " e laltra "che non ", e se ne svolgono tutte le conseguenze possibili e immaginabili. Valutando alla fine i risultati di questa indagine dialettica, possibile scoprire quale delle due ipotesi sia veritiera quale no. Solo con un simile allenamento si pu apprendere il modo per discernere la verit ed evitare che essa sfugga da sotto gli occhi. Si noti che tale esercizio riprende il metodo dialettico e argomentativo di cui Zenone ha dato prova all'inizio del dialogo, spostando per l'oggetto di indagine dalle cose sensibili alla metafisica. Per far comprendere meglio lesercizio appena descritto, Parmenide decide di darne prova con laiuto di Aristotele, brillante ragazzino l presente. Da questo punto in avanti, il dialogo prender la forma del discorso diretto, in cui quello che si potrebbe sostanzialmente definire un monologo di Parmenide viene intervallato dalle frasi di assenso del suo giovanissimo interlocutore. Oggetto di un'analisi accurata e dettagliatissima sar l'uno, svolgendo dapprima lipotesi che lo afferma, e in seguito quella che lo nega. Per ogni ipotesi verranno dedotte quattro conseguenze, per un totale di otto di deduzioni (tutte aporetiche), di seguito schematizzate secondo l'analisi di Migliori.[4] Se l'uno (137c4-160b1) L'uno in s. Se l'uno uno, non ammetter nessuna forma pluralit, sia essa interna o esterna. L'uno quindi non composto di parti, non in nessun luogo, e non n in movimento n in quiete, ed esterno al tempo. Tuttavia in questo modo, nessun altro ente potr esistere allinfuori dell'uno, nemmeno l'essere stesso. Ma non esistendo lessere, nemmeno l'uno sar (137c4-142a8). L'uno in rapporto agli altri dall'uno. Se l'uno , dovr partecipare dell'essere. Ma non coincidendo, l'uno e l'essere costituiranno due parti di un tutto, e per renderli fra loro diversi, si dovr introdurre anche il diverso. Viene introdotto il due, e di conseguenza anche il numero. Pertanto l'uno non uno, ma un insieme di parti: l'uno contiene in s la molteplicit (142b1-157b5).

Gli altri dall'uno in rapporto all'uno. Se l'uno , gli altri dall'uno, in quanto ad esso partecipi, cio in quanto parti del Tutto, si troveranno ad essere allo stesso tempo infiniti (in quanto molteplici) e limitati (in quanto parti). Essi cio saranno un insieme molteplice composto di unit, trovandosi ad essere tra di loro simili e dissimili (157b6-159b1). Gli altri dall'uno considerati in s. Se l'uno , gli altri dall'uno considerati in se stessi come separati dall'uno, non parteciperanno dell'uno e pertanto, privi dell'uno, non potranno essere composti di unit, e quindi non saranno molti (159b2160b1). Se luno non (160b5-166c2) Luno in rapporto agli altri dalluno. Se luno non , esso diverso dagli altri, in quanto "non essere" qui significa semplicemente "essere diverso da". In questo caso luno si pone in relazione col molteplice, e a loro volta gli altri dall'uno parteciperanno delle loro affezioni (160b5-163b6). Luno in s. Se luno non , e se "non essere" indica lassenza dellessere, esso sar privo di caratteri, e perci non sar n uno n molti (163b7-164b4). Gli altri dalluno considerati in s. Se luno non , gli altri dall'uno, rispetto a se stessi, non possederanno nessuna delle affezioni delluno, e nemmeno saranno molti, ma lo sembreranno soltanto. Infatti, ogni singolo ente di cui la molteplicit si compone, potr solo apparire uno, senza esserlo, poich luno non esiste (164b5-165e1). Gli altri dalluno in rapporto alluno. Se luno non , gli altri dalluno rispetto alluno che non , non parteciperanno di ci che non , e non saranno n uno n molti n niente di determinato (165e2-166c2). Lanalisi di Parmenide risulta dunque alla fine completamente aporetica. Il discorso attorno alluno, con cui si aperto il dialogo, si mostra in tutti i proprio limiti, e la teoria monistica di Parmenide ne esce di fatto confutata (166c2-5). La pratica platonica dellelenchos si coniuga qui con la reductio ad absurdum, ma questo metodo non autosufficiente, poich non in grado di giungere ad una verit definitiva e inattaccabile. Non infatti ben chiaro quale sia lo scopo effettivo di tale metodo e la critica divisa secondo diversi interpretazioni. Migliori ha comunque fatto notare che molte delle aporie presenti nei ragionamenti di Parmenide sono in realt dovuti alla polisemia dei termini utilizzati, i cui significati non vengono mai definiti in maniera univoca, ma anzi lasciati nel vago.

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