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Turchia ERDOGAN: CHE LO SHOW ABBIA INIZIO Turchia STORIA DI UNA RIFUGIATA POLITICA Qatar CALCIATORI CONTRO LEMIRATO

SCHIAVISTA Israele QUANDO LEMERGENZA PRENDE IL POSTO DELLA DEMOCRAZIA Libano IL FALSO MITO DELLA GUERRA DI RELIGIONE Algeria DON CHISCIOTTE AD ALGERI

NUMERO SPECIALE/2 GIUGNO 2013

Foto di copertina: Marco Di Donato Marcello Canepa

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INDICE
Turchia ERDOGAN: CHE LO SHOW ABBIA INIZIO
di Emanuela Pergolizzi

Turchia STORIA DI UNA RIFUGIATA POLITICA


di Marcello Canepa

Qatar CALCIATORI CONTRO LEMIRATO SCHIAVISTA


di Jacopo Granci

Israele QUANDO LEMERGENZA PRENDE IL POSTO DELLA DEMOCRAZIA

di Stefano Nanni

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Libano IL FALSO MITO DELLA GUERRA DI RELIGIONE

di Marco Di Donato

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Algeria DON CHISCIOTTE AD ALGERI

di Jacopo Granci

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approfondimenti

TURCHIA
ERDOGAN: CHE LO SHOW ABBIA INIZIO
di Emanuela Pergolizzi

Domenica 16 giugno: fin dalle prime ore della mattina decine di autobus del comune hanno riversato nel quartiere periferico di Kazlicesme, a Istanbul, migliaia di persone per la manifestazione indetta dal premier Erdogan. Un palco allestito davanti al mare. A sinistra, la bandiera turca a destra, una sua gigantografia: la cronaca di quel discorso.
Anche i vapur, i battelli che ogni giorno portano la popolazione da una sponda allaltra del Bosforo, sono stati decorati da bandiere del partito e utilizzati per raggiungere il luogo della manifestazione dal mare. Mentre nel quartiere popolare di Besiktas, nella lussuosa zona di Nisantas e nella storica Istiklal, continuano gli scontri con la polizia, Erdogan mostra alle telecamere uno scenario completamente diverso. Un palco allestito davanti al mare. A sinistra, la bandiera turca a destra, una sua gigantografia. Al centro, decine di migliaia di manifestanti (un milione, secondo il premier - 200 mila, secondo altre stime), centinaia di bandiere e - a met discorso - un grandissimo telo con la sua immagine che ha ricoperto lintera piazza. Il protagonista, invece, indossa la stessa camicia a quadri che in passato gli aveva valso lappellativo di uomo di Kasimpasa, il povero quartiere di Istanbul da cui Erdogan proviene. Come riportano i manifestanti, appare proprio biz den biri, ovvero uno di loro. Molti gli argomenti, almeno quanti sono stati i bersagli del suo discorso fiume di quel pomeriggio. Sinizia con una precisazione : Questa non una primavera turca. La primavera turca, s, c stata, ma ha come data il 12 novembre 2002, quella della prima vittoria del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp). E prosegue con unaltra avvertenza: Qui non vedrete molotov, non vedrete scontri. Ci che abbiamo da dire, noi, lo diciamo in modo democratico, nei luoghi dove la legge ce lo consente. Noi - e qui fa una lunga pausa non andiamo contro la legge Il premier contrappone alla violenza degli scontri limmagine di un leader dialogatore, quasi pacificatore: Li ho ascoltati, sono venuti con le loro delegazioni i dimostranti del parco. Ed allora che comincia la retorica del tutti contro, paragonandosi a Menderes, primo ministro negli anni cinquanta, ucciso per impic-

cagione dal colpo di Stato militare del 1960. A coloro che si oppongono al suo governo, il premier promette una resa dei conti, partendo dai social media, che non saranno in grado di rendere malata la nazione. Poi lEuropa e le sue ingerenze (il riferimento alla risoluzione della scorsa settimana del Parlamento Europeo), laddove Erdogan ricorda a Bruxelles che la Turchia non membro dellUnione. Infine la stampa internazionale: Cieca davanti ai massacri in Palestina, disinteressata a ci che sta succedendo a Gaza ma - e qui la retorica del vittimismo - attenta agli scontri di Taksim, minuto per minuto. Chi sono i veri capulcu (vandali)?. Alle immagini dei cinque morti e degli oltre settemila feriti Erdogan oppone unaltra Turchia, quella dei 150 veicoli della polizia bruciati, delle oltre 200 auto distrutte e delloccupazione del centro culturale Ataturk . Sono entrati con le scarpe nelle nostre moschee, hanno attaccato le nostre sorelle velate, afferma il premier. La dura reazione della polizia appare quindi dovuta: Non dovevano usarli gli spray al peperoncino? Certo che dovevano usarli, la polizia ha lautorit per usarli. Questo succede anche in molti altri paesi avanzati. Sotto accusa anche lopposizione del Chp: Alla manifestazione di Ankara, ieri sera, cerano dei parlamentari del Chp. Che roba questa? I parlamentari non offrono pretesto a chi vuole portare il terrore. Non scampano nemmeno i nazionalisti, colpevoli di aver giustap-

posto la bandiera di un terrorista a quella di Ataturk, riferendosi al leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Parole dure, pericolose, che rischiano di fare vacillare le sorti dello storico processo di pace in atto con la minoranza curda. Non sono un dittatore. Nel suo discorso di domenica alla folla oceanica dei suoi sostenitori, il premier si smarca dalle accuse di autoritarismo: Che genere di dittatore permette agli ambientalisti di protestare?. Dieci anni fa, dice, non erano possibili queste manifestazioni e sempre dieci anni fa prosegue - i giornalisti non potevano scrivere liberamente. Noi abbiamo rimosso queste pressioni. Il paese con lui, dice, in quella piazza: Se volete capire veramente la Turchia, se volete una vera fotografia di questo paese dovete capire lAkp - il suo partito - e solo allora capirete la verit. Mentre si alza il vento che scuote le centinaia di bandiere rosse in piazza, il premier chiede di concludere con un canto: Unica nazione, unica bandiera, unico governo, ripetono in coro i manifestanti. Avete sentito?, si rivolgere alla telecamera e chiude con: Inshallah, lavranno sentito.

EMANUELA PERGOLIZZI Laureata in Relazioni Internazionali allUniversit di Bologna, ha vissuto la sua vita tra Turchia, Francia e Italia. Nel 2012 ha pubblicato con la casa editrice Odoya un saggio intitolato La politica estera AKP: una sintesi neo o post ottomana?. Per saperne di pi: http://manupergolizzi.wordpress.com/ FOTO: Marcello Canepa

voci dal campo

STORIA DI UNA RIFUGIATA POLITICA


Vedere le bandiere di Ocalan e di Ataturk vicine stata una delle cose pi belle successe a Taksim. Curdi e turchi sono riusciti a dare uno schiaffo morale a coloro che in questi lunghissimi anni hanno attuato ed ancora promuovono politiche divisioniste e di non inclusione. Intervista a Gulistan Yalci, esule curda in Italia.

TURCHIA

di Marcello Canepa

Vedere le bandiere di Ocalan e di Ataturk vicine stata una delle cose pi belle successe a Taksim. Curdi e turchi sono riusciti a dare uno schiaffo morale a coloro che in questi lunghissimi anni hanno attuato ed ancora promuovono politiche divisioniste e di non inclusione Gulistan Yalci, di origine curda, ha diciotto anni e da ormai dieci vive in Italia. Il suo nome significa terra delle rose e purtroppo di rose al suo paese natale se ne vedono poche. Originaria di Mardin, citt nel sud est turco a poco meno di 50 chilometri dal confine siriano, emigrata in Italia nel lontano 2004 per sfuggire alla repressione del governo turco. Allepoca suo padre, poco pi che diciottenne,

decise di disertare il servizio militare perch sarebbe stato come tradire chi fino al giorno prima era stata la sua famiglia. Parole forti quelle usate dalla ragazza che ha ben chiaro cosa significhi non essere i benvenuti a casa e che sogna una Turchia uguale per tutti nella quale la lingua e la cultura curda non siano pi soggette a privazioni e a continui ammutinamenti da parte del governo di Ankara. Dove comincia la tua storia? Ero molto piccola quando io e la mia famiglia abbiamo deciso di scappare dalla Turchia. Ricordo ancora la polizia che entrava casa per casa, ricordo le intimidazioni e i pestaggi. Ricordo che un pomeriggio i poliziotti entrarono in casa

nostra e non trovando nessun motivo per poterci punire, ruppero tutte le cassette di musica curda che avevo in camera. Io allepoca non capivo il perch di tutto quellodio e passavo le giornate a giocare con i miei tre fratelli ignara della gravit della situazione. Quando mio padre venne chiamato alle armi, si rifiut perch non poteva sopportare lidea di combattere contro la sua gente e cos per noi lunica opportunit fu quella di fuggire dalla nostra terra. Nel 2004 siamo arrivati in Italia alla fine di un viaggio doloroso e difficile fatto di barche e camion.

Qual stato il primo impatto? Mi sento in dovere di ringraziare tutte le persone che ci hanno aiutato da subito. In Puglia, dove abbiamo vissuto per i primi due anni, ho trovato nei vicini e nelle organizzazioni impegnate ad assistere chi come noi gode dello status di rifugiato politico, una seconda famiglia. Tra i primi ricordi che ho dellItalia, ci sono le feste organizzate per noi bambini e le torte che ci faceva la nostra vicina di casa. Dopo due anni appunto, abbiamo deciso di trasferirci ancora una volta, di lasciare la Puglia per cercare fortuna a Borgo San Lorenzo, dove viviamo tuttora. La Turchia brucia. Cosa significa per te? Quello che sta succedendo oggi in Turchia qualcosa di insperato. Le rivolte di piazza Taksim e di Gezi Park sono riuscite a risvegliare il popolo turco tutto. Finalmente la gente ha tolto le bende dagli occhi e ha capito che da anni i nostri governanti ci stanno prendendo in giro. Come ho gi detto, la cosa pi bella stata vedere turchi e curdi camminare uniti e cantare insieme chiedendo le dimissioni di Erdogan ed il rispetto delle libert personali da troppo tempo soggette a restrizioni e giri di vite. Non dimentichiamo per che solo oggi la questione turca arrivata a far parlare di s mentre da pi di 30 anni la questione curda passa inosservata. Ancora oggi il PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) internazionalmente considerato unassociazione terroristica e al popolo curdo non sono riconosciute lingua, cultura e tradizioni. Quali le possibili conseguenze? Lironia con la quale i manifestanti hanno risposto alle provocazioni ed agli attacchi della polizia qual-

cosa di veramente rivoluzionario. Credo che nessuno si sarebbe mai aspettato un tale risvolto e questo ha costretto Erdogan a mostrare la sua vera faccia. Come ho gi ripetuto pi volte, per le strade la lotta non pi tra turchi e curdi. La societ sta evolvendo rapidamente e secondo me, pi che parlare di possibili conseguenze di quello che sta accadendo, dovremmo analizzare i cambiamenti in atto, prenderne coscienza e lavorare su questi. Allo stato attuale delle cose, la rivolta interessa pi la parte occidentale della Turchia mentre nellest la situazione sembra ancora calma. Dipender da come verr affrontata la questione del progetto di pace avviato da Ocalan ed Erdogan e da quali saranno in generale gli sviluppi. In che modo affrontate la questione in famiglia? Non posso negare il fastidio di vedere che solo ora il mondo parla della Turchia, di Taksim, del malcontento generale mentre pochi o nessuno ha mai parlato di noi. Per fare un esempio, posso citare il massacro di Uludere del 28 dicembre 2011 nel quale hanno perso la vita 34 curdi per colpa di un errore tecnico del governo impegnato in alcuni azioni militari. Anche in quel caso la notizia non fece scalpore pi di tanto e i media che se ne interessarono furono davvero pochi. Comunque devo ammettere che tutti appoggiamo e siamo solidali con i manifestanti perch credo che la prima prerogativa di un popolo, sia quella di essere ascoltato. A quando la libert per il popolo curdo? Per rispondere a questa domanda

utilizzo le parole dello scrittore curdo Yashar Kemal: Il mondo un giardino di culture. Ci sono mille fiori ed ogni fiore ha un odore ed un colore propri. Distruggere una cultura significa distruggere un pezzo della nostra umanit. Dopo una guerra lunga anni difficilmente una pace scritta potr portare ad un pieno riconoscimento dei nostri diritti. Quando sradichi un albero, ci vorranno anni prima che un altro possa prendere il suo posto e non potrai mai sapere se dar frutti oppure no... Unultima domanda, qual il tuo sogno nel cassetto? Spero un giorno di riuscire a tornare a casa senza la paura di essere imprigionata. A Mardin ho ancora dei parenti e degli amici e mi piacerebbe avere la possibilit di andarli a trovare. Mi piacerebbe poter rivedere i posti nei quali sono cresciuta e rivivere le storie che spesso mio padre ci racconta. Probabilmente non riuscirei a vivere l: nonostante tutto, io adesso mi sento europea, ma nella vita non si pu mai sapere.

MARCELLO CANEPA Prima collaboratore di Novara Oggi, poi corrispondente esterno di Orizzonteuniversitario.it, per Osservatorio Iraq segue gli eventi turchi. FOTO: Marcello Canepa

approfondimenti

CALCIATORI CONTRO LEMIRATO SCHIAVISTA


La mancanza di diritti e garanzie per i lavoratori stranieri nel paese del Golfo non una novit, come illustrano i rapporti e le denunce di alcune ong internazionali. Abusi e violazioni, tuttavia, non risparmiano neanche il settore sportivo, fiore allocchiello dello sceicco al-Thani che si visto assegnare i Mondiali del 2022. Lo dimostrano i casi di Abdeslam Oaddou e Zahir Belounis.
Difensore della nazionale marocchina con una lunga carriera nei club europei (Fulham, Rennes, Olympiakos), ormai trentaquattrenne, Abdeslam Ouaddou pensava forse ad una pensione dorata nel ricco emirato quando ha accettato, come tanti famosi colleghi prima (e dopo) di lui, il contratto offertogli nel 2010 da una squadra locale, il Lekhwiya dello sceicco alThani (proprietario, tra laltro, del Paris Saint Germain). Ma lesperienza, dopo pochi mesi, si trasforma in un incubo, nonostante la vittoria del campionato - alla prima stagione in Qatar - per il club del capitano Ouaddou. Al rientro nel 2011 il giocatore si vede trasferito senza spiegazioni ad unaltra squadra di calibro minore per poi essere privato dello stipendio dal luglio 2012, con un anno di anticipo rispetto allaccordo originario. Nel paese funziona cos - riferisce il calciatore al sito Jeune Afrique i lavoratori, di qualsiasi tipo, sono delle semplici pedine di cui ci si pu disfare a piacimento, a dispetto di contratti e diritti. Ma Ouaddou non ci sta e denuncia laccaduto alla federazione internazionale di categoria (FIFA) per chiedere il rispetto delle clausole rescissorie. Cos inizia il suo calvario. Per arrivare in Qatar, infatti, i lavoratori stranieri devono essere in possesso di una sponsorizzazio-

QATAR

di Jacopo Granci

ne anticipata (kafalah). Di solito si tratta dello stesso datore di lavoro, che recluta nei rispettivi contesti di appartenenza con false promesse e facili prospettive di guadagno, e diventa responsabile del loro status legale: senza il permesso dello sponsor non si pu cambiare impiego, affittare una casa, aprire un conto corrente o ottenere i visti, n di entrata n di uscita. Dopo lappello allarbitrato della FIFA, il difensore marocchino rimane bloccato con la famiglia nellemirato, senza la possibilit di lasciare il paese. Niente visto fino a quando non rinuncer al ricorso alla federazione internazionale, che pregiudica limmagine promossa dallo sceicco al-Thani a suon di miliardi.

Hanno chiamato per dire che mi stavo confrontando con gente molto potente e che dovevo fare attenzione, racconta Ouaddou. Nonostante le minacce il vice-campione dAfrica del 2004 non cede, anzi, rilancia. Il passo successivo - fa sapere - interpellare le ong per i diritti umani e mediatizzare al massimo la vicenda. Solo a questo punto mi hanno lasciato partire, ma non senza un ultimo avvertimento. Il loro peso allinterno della FIFA sarebbe stato sufficiente a bloccare la mia richiesta di indennizzo. In totale mi devono un anno di stipendio. E assurdo, sono pronti a sborsare somme ingenti per fare marketing e oliare le loro influenze e poi si rifiutano di onorare contratti dove le cifre in ballo, se paragonate, sono minime. A sostenere il calciatore marocchino di fronte alla federazione si schierato anche lInternational Trade Union Confederation (ITUC) - la pi importante organizzazione sindacale su scala mondiale, da tempo impegnata nel supporto alla lotta dei lavoratori nellemirato - che nei giorni scorsi ha inviato una lettera al presidente della FIFA Joseph Blatter chiedendo una reazione immediata sul caso Ouaddou e sulla vicenda speculare in cui coinvolto un altro giocatore, Zahir Belounis. Di esempi ce ne sono molti, ricorda il difensore, ma le persone difficilmente osano parlare per paura di rimanere intrappolate. Alcuni preferiscono lasciar perdere o accontentarsi di una piccola riparazione amichevole pur di prendere il volo senza ostacoli. Non questa la situazione del franco-algerino Belounis, sotto contratto fino al 2015 ma senza stipendio da quasi due anni. Per questo ha portato in tribunale i

responsabili della sua squadra - alJaish - nella speranza di ottenere giustizia. Ma il processo sembra ad un punto morto e a Belounis viene tuttora negato il permesso di uscita, senza il ritiro della querela, nonostante lintervento del Consolato francese. Pensavo che le buone relazioni tra i due paesi potessero favorire una soluzione; pi passa il tempo, per, e pi evidente che il mio dossier resta ad un punto fermo, proprio perch il mio caso non arrivi a compromettere tali relazioni. Intanto Abdeslam Ouaddou, raggirato, privato dei propri diritti ma non rassegnato, si fatto portavoce di una campagna di denuncia internazionale del metodo Qatar per mettere in guardia, tra gli altri, i calciatori dei campionati europei che pensano di trovare leldorado sbarcando nel Golfo. Se questo metodo non cambier, quelli del 2022 a Doha saranno i Mondiali della vergogna, dello schiavismo e della violazione dei diritti umani, ha affermato il giocatore in una recente intervista diffusa dallITUC. Le premesse, ancora una volta, non sembrano incoraggianti. La correttezza del voto con cui stata decisa lassegnazione della competizione in terra qatariota ha sollevato pi di un dubbio, soprattutto dopo che alcune inchieste condotte dalla stampa inglese e francese - ribattezzate Qatargate - avevano svelato la presenza di manovre occulte e corruzione in seno alla commissione FIFA per far finire nelle mani degli emiri, dietro lauto compenso, la Coppa del mondo. Ma non abbastanza, almeno fino ad ora, per rimetterne in discussione lattribuzione dellevento e gli investimenti in programma. Lo svolgimento della competizione dovrebbe garantire infatti

un giro daffari di circa 30 miliardi di dollari, mentre per costruire i nuovi stadi le autorit di Doha hanno gi annunciato un ulteriore ricorso massiccio alla manodopera straniera. Proprio gli stranieri costituiscono gi il 94% di tutta la forza lavoro dellemirato, oltre che l80% dellintera popolazione. Peccato che la maggior parte di essi viva e lavori in condizioni deplorevoli, di moderna schiavit, come denunciato dal calciatore Ouaddou e come ribadito da alcune note istanze internazionali. Basta leggere lultimo rapporto di Human Rights Watch (HRW) sullargomento, uscito a met 2012, in cui si parla di abusi e soprusi di ogni tipo: dalla confisca del passaporto allo strettissimo controllo a cui sono sottoposti gli impiegati, senza contare le enormi difficolt per i lavoratori nel comunicare lamentele o querele ai servizi governativi o alle autorit. E ancora: stipendi non pagati, ritenute dacconto illegali, luoghi di lavoro sovraffollati e insalubri, mancanza di qualsiasi copertura sanitaria. Anche lITUC, da inizio anno in trattativa con il governo di Doha per consentire la creazione di un sindacato dei salariati stranieri e per ottenere una revisione del sistema di sponsorizzazione kafalah, si dice delusa dalla mancanza di progressi in merito e ha chiesto ai vertici del calcio mondiale, anche alla luce della vicenda Ouaddou e di altri casi simili emersi ultimamente, di revocare al Qatar lassegnazione del Mondiale. Almeno fino a quando i lavoratori, dai calciatori ai manovali, non avranno garanzie. Ai primi, che godono in ogni caso di uno status privilegiato e non sono costretti a vivere in piccoli tuguri fatiscenti, possiamo se non altro dare un vol-

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to e risonanza mediatica; i secondi invece, circa 1.200.000 tra pachistani, filippini, nepalesi, siriani e iracheni, restano (per il momento) soltanto dei numeri.

JACOPO GRANCI Dottorando in Scienze Politiche allUniversit di Montpellier e al Centre Jacques Berque di Rabat, attualmente vive in Marocco. Per Osservatorio Iraq copre le vicende marocchine con un occhio di riguardo a tutta larea nord africana. FOTO: Marco Di Donato

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approfondimenti

QUANDO LEMERGENZA PRENDE IL POSTO DELLA DEMOCRAZIA


di Stefano Nanni

ISRAELE

Il disegno di legge presentato dal governo sul terrorismo rischia di legalizzare lo stato di emergenza permanente che vige nel paese sin dal 1948. Eppure a cambiare sar la forma, ma non la sostanza: in 65 anni di storia Israele ha dimostrato che in nome della sicurezza la discrezionalit della sua azione pu diventare la regola, non leccezione.
Non sostenete quella legge pericolosa. E pi che eloquente il titolo delleditoriale del quotidiano israeliano Haaretz, che lo scorso 9 giugno ha rivolto un appello ai 120 membri della Knesset (il Parlamento) affinch non votino il cosiddetto Terrorism bill: un disegno di legge del governo che include importanti modifiche allintera legislazione relativa allo stato di emergenza e alla sicurezza. In realt, sottolinea leditoriale, questi provvedimenti implicheranno una non necessaria espansione della responsabilit penale, cos come delle definizioni di pericoli per la sicurezza e terrorismo, e un rafforzamento indefinito dei poteri dellesecutivo. Tutte queste misure sono indegne per una democrazia. Ma ad opporsi a questa legge, che potrebbe incentivare luso gi diffuso della detenzione amministrativa da parte dello Stato, e che si aggiunge al pacchetto di altre leggi anti-democratiche presentate dal governo nei suoi primi quattro mesi di vita, non ci sono soltanto le voci che provengono dal mondo liberal. Oltre allopposizione e alle organizzazioni per la tutela dei diritti umani, a criticare il ministro della Giustizia Tzipi Livni, proponente della legge, si sono aggiunti anche membri della stessa coalizione di centro-destra. essere iscritto ufficialmente allordine del giorno, il documento denominato Lotta contro il Terrorismo stato approvato allunanimit lo scorso 11 giugno. Lobiettivo dichiarato del governo, secondo il ministro della Giustizia, quello di sostituire lo stato di emergenza che vige in Israele sin dal momento della sua fondazione (1948) con una legislazione in linea con le pi moderne misure in materia di antiterrorismo. Come riportato in un comunicato dell Associazione per i diritti civili in Israele (ACRI), due sono gli assunti alla base del progetto: la detenzione amministrativa ovvero larresto ingiustificato e senza processo , che di fatto passer sotto la legislazione ordinaria; e la discrezionalit con la quale gli

TERRORISMO PIGLIATUTTO Presentato nella Commissione ministeriale per la legislazione senza

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organi dellesecutivo, ovvero governo, polizia, servizi segreti ed esercito stabiliranno il significato di espressioni come organizzazione terroristica, terrorismo, membro di unorganizzazione terroristica e atto terroristico. Perch nelle 107 pagine che compongono il testo della legge non si rileva alcuna definizione che restringa o chiarisca la loro portata. Partendo da queste premesse, si stabilisce che in casi eccezionali - non meglio definiti - un sospetto terrorista in attesa di giudizio potr incontrare il suo avvocato non prima di 30 giorni dal suo arresto, un prolungamento di 9 giorni secondo quanto attualmente previsto. Sar introdotta una pena di tre anni per chiunque esprima pubblicamente un atto di solidariet nei confronti di un gruppo terrorista, incluso un elogio, un frase di sostegno o simpatia, mostrando la loro bandiera o il loro stemma, recitando il loro slogan o cantando il loro inno. Inoltre, nellambito di un processo, qualora dovesse avere luogo, potranno essere prese in considerazione le testimonianze rilasciate da persone non incluse nelle indagini e che resteranno anonime per ragioni di sicurezza. Infine, le legge incrementer da 30 a 40 anni la durata minima di un ergastolo comminato per fatti di terrorismo. Provvedimenti che lACRI definisce senza mezzi termini chiare violazioni delle libert fondamentali dei cittadini e un rafforzamento draconiano della discrezionalit delle forze di sicurezza. Secondo lavvocato dellassociazione, Lila Margalit, questa legge, invece di rappresentare una riforma non fa altro che legalizzare e rendere permanente lo stato di emergenza stabilito 65 anni fa. In pratica, continua lavvocato, queste misure consentiranno al governo di violare sistematica-

mente i diritti di milioni di innocenti. Oltre al contenuto, tuttavia, a far discutere sono anche le modalit e le circostanze con cui il disegno di legge si ritrover sui banchi dei membri della Knesset nelle prossime settimane. E stata una vergogna, ha rivelato un anonimo ministro ad Haaretz riferendosi allo svolgimento della votazione della proposta in seno alla Commissione ministeriale. La discussione durata appena 15 minuti. Ma non sarebbero bastate neanche due ore data la sensibilit dei contenuti e la lunghezza del testo. A sostenere il disappunto espresso da queste dichiarazioni cera la richiesta presentata dai ministri del partito centrista Yesh Atid a Tzipi Livni di concedere due settimane per studiare il testo. Richiesta prontamente rifiutata perch, secondo lentourage del ministro, le circostanze richiedevano tempi brevi, cosa che non toglie che in futuro, qualora ce ne fosse bisogno, si potr organizzare una sessione speciale per discutere di eventuali modifiche. Una giustificazione che per non servita a placare le polemiche. Oltre alla mancanza di discussione e di trasparenza, a preoccupare i membri della coalizione di governo c la poca chiarezza che aleggia intorno ai termini relativi alla parola terrorismo. E un altro editoriale, ma del quotidiano conservatore Jerusalem Post, a riportare timori analoghi di alcuni esponenti di governo sul fatto che la legge potrebbe finire per coinvolgere gruppi interni agli insediamenti illegali. Tra questi Naftali Bennet, ministro dellEconomia, e Uri Ariel, ministro dellEdilizia, entrambi ap-

partenenti al partito nazionalista di coalizione HaBayit HaYehudi (la Casa Ebraica), che si considera apertamente un protettore degli interessi delle colonie. Tra i movimenti che potrebbero essere dichiarati terroristi figura, ad esempio, la Hilltop Youth, responsabile in pi occasioni dei cosiddetti price tag attacks, atti vandalici o criminali in risposta a decisioni del governo avverse agli interessi delle colonie. Azioni violente che possono variare da scritte offensive contro lIslam o il Cattolicesimo a incendi di autovetture o interi uliveti appartenenti a cittadini arabo-israeliani o palestinesi residenti in Cisgiordania, in numerose occasioni oggetto di attacchi fisici. Azioni che, non pi tardi dello scorso anno, furono incluse per la prima volta nei Country Reports on Terrorismdel Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Il premier Netanyahu tuttavia corso ai ripari, chiarendo allesecutivo che la questione rester fuori dallo spettro di questa legge. Il 16 giugno, durante una riunione del Consiglio dei ministri, ha dichiarato che i price tag attacks non possono essere equiparati al terrorismo di Hamas, piuttosto i gruppi responsabili saranno considerati organizzazioni illegali. Una mossa riuscita solo in parte la maggioranza ha finito per votare a favore della sua dichiarazione e mirata ad evitare una spaccatura allinterno della coalizione, che non ha comunque evitato il voto contrario di Livni e Moshe Yaalon (Difesa). Sintomo di una questione tuttaltro che risolta.

EMERGENZA PERENNE Come ricordato dallACRI, una delle conseguenze della legge sul

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terrorismo sar quella di rendere ordinario lo stato di emergenza che vige dal 1948. E da allora che, in nome della sicurezza dei propri cittadini, lo Stato si avvalso di quella facolt di cui solitamente le democrazie si dotano solo in casi rari ed eccezionali: trattenere sospettati a tempo indeterminato sulla base di prove segrete che la pubblica accusa militare non mette a disposizione degli interessati n dei loro avvocati. Nonostante lo strumento della detenzione amministrativa sia stato (e sia tuttora) utilizzato quasi esclusivamente nei confronti della popolazione palestinese nei Territori Occupati, come forma di punizione collettiva condannata da pi parti a livello internazionale, in teoria applicabile a chiunque risieda seppure temporaneamente in Israele o nei Territori. Israeliani e stranieri inclusi. Secondo i dati forniti da Addameer, la principale organizzazione palestinese di sostegno a detenuti e prigionieri politici, dal 1948 il numero degli israeliani arrestati con questa modalit corrisponde a 9 (tutti provenienti dalle colonie), mentre non ci sono dati certi per quanto riguarda gli stranieri (il pi delle volte libanesi). Incrociando le cifre di Addameer con quelle della Ong israeliana BTselem, si nota invece che ogni anno sono centinaia i palestinesi che passano (o sono passati) per la detenzione amministrativa dalla fondazione dello Stato di Israele. Ma con lo scoppio della seconda Intifada che i numeri diventano impressionanti: se nel 2000 i detenuti secondo il regime amministrativo erano 12, allinizio del 2003 erano 1.007. Durante il biennio 2005-2007 si registrata una media di 765 incarcerati (palestinesi) al mese. Poi, con il placarsi dello scontro in Cisgiordania e il blocco totale imposto su Gaza, gli

arresti sono progressivamente diminuiti. Secondo gli ultimi dati, ad aprile 2013 i palestinesi sottoposti a detenzione amministrativa sono 155. Numeri che, per, rivelano solo una parte del problema. Mentre a livello di legislazione interna Tel Aviv applica la detenzione amministrativa secondo tre leggi distinte (lOrdine militare 1651 in Cisgiordania, la legge sui poteri di emergenza che nel 1979 ha aggiornato lo stato di emergenza del 1948 risalente al mandato britannico, e rivolta a tutti i residenti sul suolo israeliano; e la legge sui combattenti illegali del 2002 che si applica alla Striscia di Gaza), lunica base legale a livello internazionale larticolo 78 della IV Convenzione di Ginevra. questo a stabilire che listituto giuridico sia valido soltanto in territori sottoposti ad occupazione e in casi eccezionali, qualora si verifichino ragioni imperative di sicurezza. Una volta fatto proprio questo strumento, per, lo Stato ha lobbligo di garantire ai prigionieri alcuni standard minimi di tutela dei loro diritti sanciti dal Diritto Internazionale Umanitario, tra laltro richiamati dagli articoli 49 e 76 della stessa Convenzione. Dietro la storia di ognuno dei prigionieri palestinesi, tuttavia, si celano spesso casi di torture, abusi e negazione dei diritti umani. Nel corso degli anni gli appelli rivolti alle autorit israeliane affinch rimuovessero la pratica della detenzione amministrativa si sono moltiplicati, cos come le richieste di sottoporre i detenuti ad un equo e regolare processo. Lultimo in ordine di tempo quello lanciato lo scorso aprile da Amnesty International per la liberazione di Ahmed Qatamesh, colpevole di aver espresso le sue opinioni

politiche sul contesto israelo-palestinese ed essersi dichiarato a favore di uno Stato bi-nazionale. Per questo Ahmed, in carcere dal 2011, stato dichiarato prigioniero di coscienza, cos come tanti altri. Alcuni di loro, per cercare di difendersi da accuse infondate o ignote, negli ultimi due anni hanno fatto ricorso allunica arma a loro disposizione: lo sciopero della fame. Uno strumento che si rivelato indubbiamente pi efficace degli appelli internazionali, che Israele continua a ignorare: nel 2012 i prigionieri palestinesi lanciarono un digiuno di massa ad oltranza che costrinse le autorit israeliane ad acconsentire al rilascio di 1027 di loro.

LA LINEA DEL GOVERNO Non deve sorprendere che la proposta del Terrorism bill, con la sua incompatibilit ai principi democratici, sia stata presentata da questo governo. A quattro mesi dal suo insediamento lesecutivo guidato da Netanyahu ha gi proposto una serie di provvedimenti che, nonostante la variet delle questioni trattate, hanno in comune un filo rosso: il contrasto con un sistema democratico. Come la proposta di riforma della Basic Law, legge fondamentale che definisce lidentit dello Stato israeliano, allinterno della quale sintende far prevalere il carattere ebraico a discapito di quello democratico. Il prolungamento (gi approvato) del divieto di ricongiungimento tra palestinesi e israeliani. La legge anti-diffamazione dellesercito, che se approvata consentirebbe a qualsiasi soldato, se si ritiene offeso, di denunciare chiunque esprima una critica nei

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confronti del suo operato. O ancora le misure ribattezzate di anti-opposizione, che riducono le possibilit di presentare mozioni di sfiducia nei confronti del governo e innalzano la soglia di sbarramento elettorale dal 2 al 4%. In caso di approvazione da parte della Knesset, la proposta di legge sul terrorismo permetter di eliminare le tre leggi attualmente vigenti che definiscono lunico strumento legale in materia di emergenza e sicurezza. Ma a cambiare probabilmente sar la forma, non la sostanza. Nei suoi 65 anni di storia Israele ha dimostrato che in nome della sicurezza la discrezionalit della sua azione pu diventare la regola. E non quasi mai uneccezione.

STEFANO NANNI Collaboratore nellarea Palestina/Israele, con un occhio di riguardo alle questioni interne israeliane. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche allUniversit di Bologna, si occupato, oltre alla questione palestinese, della corruzione nellambito delle ricostruzione post-conflitto in Iraq e Afghanistan. Collabora con Osservatorio Iraq da marzo 2012. FOTO: Marco Di Donato

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analisi

IL FALSO MITO DELLA GUERRA DI RELIGIONE


di Marco Di Donato

LIBANO

Spesso in Libano religione e politica si intersecano, si toccano, si sovrappongono, eliminando ogni forma di confine. Molti oggi vorrebbero rappresentare la crisi libanese come uno scontro fra gruppi confessionali ispirato da una logica religiosa, ma la realt decisamente pi complessa.

Hezbollah non combatte fianco a fianco con i militari dellesercito regolare siriano solo ed esclusivamente per motivi religiosi, per un sostegno alla compagine alawita. Lo shaykh Ahmed Assir non ha emesso una fatwa contro il Partito di Dio per contrastarlo sul piano della dottrina religiosa, bens su quello militare. I sunniti e gli sciiti libanesi non si scontrano per una diversa visione di Dio o dei suoi dettami, ma per motivazioni ben pi terrene: politiche, militari, sociali ed economiche. La religione fornisce la giustificazione, la consunta patina dietro la quale celare le proprie reali intenzioni. In Libano la religione al servizio della politica, non il contrario.

La situazione del resto talmente complessa da non poter essere letta ed interpretata per tramite di una unica categoria, tanto meno quella del rapporto con Dio. Se fosse solo la fede, come spiegare gli scontri tribali in corso nella Valle della Beqaa fra i vari clan locali che storicamente si spartiscono i traffici illeciti dellarea? Nel caso specifico non si tratta di sunniti di Arsal contro sciiti di Hermel, quanto piuttosto di diversi clan che si combattono per il controllo del territorio, per il denaro, per il potere. Anche perch, leggendo ed ascoltando le dichiarazioni che vorticosamente si rincorrono nellarena politica e mediatica libanese, al momento i pi moderati sembra-

no essere proprio i leader religiosi libanesi. Lo shaykh sunnita Muhamamd Rashid Qabbani si recentemente espresso sulla crisi che sta investendo la Valle della Beqaa chiedendo alle famiglie coinvolte di non cercare vendetta e di provare a preservare la calma. Nel caso del patriarca maronita Bechara Rai si andati addirittura oltre, con lesponente cristiano che ha duramente attaccato la politica locale (nello specifico il 14 e l8 Marzo) incapace di trovare una soluzione comune da proporre per evitare che il conflitto attualmente in corso in Siria dilaghi allinterno dello scenario libanese. Ma se gli esponenti religiosi libanesi sono rimasti cauti nelle loro

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dichiarazioni altri, si legga alla voce shaykh Yusuf al-Qaradawi, si sono lasciati andare a dichiarazioni decisamente pi forti. Anche qui una fatwa contro Hezbollah definito come Hizb al-Shaytan (Partito del diavolo), ma anche qui lo strumento religioso sembra rispondere a criteri decisamente politici. Anche gli scontri di Tripoli si combattono essenzialmente fra chi sostiene il regime di al-Asad e chi lo avversa foraggiando i ribelli. Non solo. A Tripoli la battaglia limmagine di una societ giovane, disoccupata e senza speranza. Abbandonati dallo Stato lunico rifugio possibile rappresentato dalle offerte dei vari gruppi armati che operano in citt. La comunit sunnita locale stata dimenticata dalle istituzioni e cooptata dai facoltosi politici locali sono in occasione delle varie tornate elettorali. Il punto che, almeno nelle dichiarazioni, la politica libanese non vuole accompagnare il paese in un conflitto interno su larga scala. Tuttavia, rimanendo deficitaria nella ricerca di una soluzione, la politica stessa che incoraggia, nei fatti, lo sviluppo di nuove tensioni. Tensioni che non sono presenti solo ed esclusivamente come contrasti e dissidi immaginari o verbali, ma che tracimano in fatti concreti e reali. Da settimane, il sito di informazione Naharnet.com abbonda di lanci di agenzie di stampa che informano il lettore di scontri a Tripoli, recentemente nei pressi di Syria Street. Il Daily Star Lebanon ha pubblicato gli articoli relativi ai funerali nella Valle della Beqaa, nei giorni passati ha mostrato le strade di Beirut bloccate a causa della manifestazione di alcuni sciiti che incendiavano pneumatici per protestare contro

larresto dello shaykh Bilal Jezzini, cos come i residenti di Akkar hanno inscenato il medesimo tipo di protesta per attirare lattenzione in merito alle loro sempre pi difficili condizioni di vita. Allo stesso modo i residenti di Tripoli sono stanchi di essere coinvolti in un conflitto a bassa intensit che assedia la citt da mesi: anche loro sono scesi in piazza per protestare contro i mancanti indennizzi per i danni subiti. Questo per non parlare dei numerosi rapimenti che interessano tanto cittadini locali quanto stranieri (si veda il caso di un cittadino del Kuwait recentemente scampato ad un tentativo di rapimento). E lelenco potrebbe continuare ancora per molte righe, se non pagine. Questi piccoli, ma certamente significativi, momenti di tensione e di scontro potrebbero rappresentare (sul lungo periodo) il causus belli necessario per la deflagrazione delle violenze su larga scala. Del resto a livello microscopico (si veda Tripoli) la situazione degenerata gi da tempo. La volont politica di scatenare o meno la violenza potrebbe essere oltrepassata dagli eventi i quali potrebbero portare la nazione nel baratro della guerra civile molto pi velocemente di quanto si creda. O forse no. E forse proprio questo clima di incertezza che rende la politica locale ancora pi responsabile della situazione. Qualora lincertezza politica fosse stemperata da una architettura statale solida, il Libano potrebbe reggere limpatto della crisi siriana. Tuttavia non si sono tenute elezioni ed i termini del Parlamento sono stati prolungati vista lincapacit i trovare un accordo sulla leggere elettorale con gli esponenti politici che continuano a darsi battaglia sullargomento. Ma cosa accadr se la corte costituzionale, la cui sentenza attesa

nel fine settimana, dovesse decretare come inammissibile tale estensione? Ed anche nel caso in cui si riuscisse a far approvare il prolungamento dei termini parlamentari, i problemi non sarebbero certo finiti. Come sottolinea una accurata analisi di Jean Aziz per al-Monitor, se il parlamento dovesse effettivamente essere autorizzato ad estendere i suoi termini oltre la sua data di scadenza naturale gli attuali parlamentari siederebbero al loro posto sino al novembre 2014. Tuttavia proprio questi parlamentari sarebbero poi chiamati nel maggio 2014 allelezione del presidente della repubblica. Si domanda Jean Aziz: perch mai coloro i quali sono stati incapaci di trovare un accordo in merito alla legge elettorale nel 2013 dovrebbero essere in grado di accordarsi su una questione cos delicata come lelezione della pi alta carica statale? Un interrogativo pi che logico al quale tuttavia non esiste alcuna risposta rassicurante per la futura stabilit del paese.

MARCO DI DONATO Dottore di ricerca presso lUniversit degli Studi di Genova e presidente del Centro Italiano di Studi sullIslam Politico CISIP, per Osservatorio Iraq segue gli eventi in Egitto e in Libano. FOTO: Adrin Carreras Rabasco

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cultura e dintorni

DON CHISCIOTTE AD ALGERI


di Jacopo Granci

ALGERIA

Un lontano discendente di Miguel de Cervantes, una ricerca del proprio passato e delle proprie radici nel Mediterraneo. Sullo sfondo di una metropoli ostile, si dipana la vicenda di questo moderno Don Chisciotte ad Algeri, di Waciny Larej.
Il Don Chisciotte protagonista del romanzo dellalgerino Waciny Larej (tradotto in italiano dalla casa editrice Mesogea) non il cavaliere errante che tutti conosciamo, ma un giornalista spagnolo, odierno discendente di Cervantes. Del personaggio letterario creato dal suo avo ha ereditato il nome e la leggendaria ostinazione. deciso infatti a ricostruire la memoria del grande scrittore, inseguendone le tracce lungo le rotte del Mediterraneo. Questa la ragione che nei primi anni novanta lo guida in quello che lautore definisce un viaggio iniziatico - fino ad Algeri, dove Cervantes trascorse cinque anni di prigionia, catturato dai corsari turchi al servizio del Dey nel 1575 (mentre stava rientrando in Spagna dopo aver preso parte alla Battaglia di Lepanto). Ad Algeri il Don Chisciotte moderno incontra Hsissen, funzionario ministeriale responsabile delle relazioni ispano-algerine. I due si mettono alla ricerca di un passato che a poco a poco scoprono di condividere. Lattaccamento alla memoria e la passione per la cultura come elementi di un umanesimo universale. Sullo sfondo rimane una citt inghiottita da uno sviluppo urbano soffocante. Mentre il fondamentalismo dilaga, le bande criminali imperversano e il sistema politico - corrotto e repressivo - si dimostra inefficiente, una nuova giungla di cemento sembra risucchiare lumanit di Algeri. Nella capitale post-coloniale regnano distese infinite di palazzi, ma allinterno si ha quasi limpressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli. Per Larej manca completamente il fascino della citt, al contrario di quella costruita in epoca coloniale, mancano i luoghi che la rendono viva, dove si possano condividere esperienze, emozioni ed interessi. Il solo spazio comune la moschea. Non deve sorprenderci la crescita dellislamismo: quanto di pi normale possa succedere in queste condizioni. Non mi riferisco solo allaspetto esteriore della citt, ma alla maniera stessa di pensare, di dare un senso allo spazio che si ha a disposizione. Sono molti i tratti autobiografici che lo scrittore algerino, in esilio a Parigi dal 1994, ha disseminato in questopera. Prima di tutto lelemento attorno al quale ruota tutta la vicenda - Cervantes - che

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rispecchia il profondo interesse di Waciny Larej verso questa figura, fondamentale nella sua formazione. Poi Hsissen, la voce narrante del romanzo, ha lontane origini andaluse, proprio come Laredj. Laccanimento dei militanti islamisti sui due protagonisti ci riporta al clima di terrore e violenza che costrinse lautore a lasciare il paese. E infine lamore, sincero, nei confronti di una citt che sembra aver perduto il fascino e la ricchezza di un tempo. I miei primi contatti con Algeri furono brevi, ero quasi sempre di passaggio. Ma quando terminai gli studi in Siria mi ritrovai a lavorare nella capitale e da quel momento il mio rapporto con la citt cambiato. Non la conoscevo bene e a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; per esempio, ho iniziato a frequentare la casbah, cercando di andare al di l del mito che la riveste. Ho iniziato ad approfondirne la storia, racconta lautore, nato e cresciuto a Tlemcen ma capace di maturare un sentimento di appartenenza molto forte nei confronti de La Blanche. Quando si ama qualcosa significa che ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace. E proprio in virt del nostro sentimento siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica. Per Larej lAlgeria rappresenta un crogiuolo mediterraneo dove culture e influenze differenti (berbera, araba, turca, ebraica, europea) hanno convissuto lungo secoli e secoli di storia. Un meticciato di cui Algeri resta il simbolo indiscusso. Con il suo Don Chisciotte lo scrittore ha voluto far riemergere almeno una piccola parte di questo passato. Ignorato - prima - da trentanni di miopia nazionalista, poi occultato dal dogma integralista.

Larej andato a riscoprire i luoghi abbandonati al degrado e caduti nelloblio, come la grotta dove Cervantes rimase prigioniero - prima di ottenere una certa libert di movimento - oggi sommersa dai rifiuti. Pagina dopo pagina, si battuto per difendere la memoria di una citt che sente ancora sua nonostante la lontananza forzata. Il romanzo si apre su un personaggio che sta scrivendo a macchina, in un ambiente cupo e solitario. Non ha pi la lingua, mozzata da misteriosi personaggi barbuti, come pure altre parti del corpo. Lunica possibilit che gli resta per esprimersi, comunicare e far conoscere il suo vissuto quella di scrivere. Si tratta di un richiamo simbolico allesperienza vissuta dallautore prima del trasferimento in Francia, quando laumento delle violenze e degli omicidi mirati - il pi doloroso per Laredj quello dellamico e scrittore Tahar Djaout - lo costrinse a nascondersi e a rifugiarsi in una sorta di esilio psicologico, prima ancora che fisico. Lunica ancora di salvataggio in quei mesi stata la scrittura - spiega Larej -. Per fortuna, seppur recluso, potevo ancora scrivere ed grazie a questo se sono riuscito ad evitare la follia e la morte. Non era solo un modo per riflettere, ma un vero e proprio spazio di evasione. Ogni mattina, quando mi svegliavo, potevo vedere il sole splendere, e poi al tramonto potevo osservare i colori del mare mutare lentamente, il blu dellacqua divenire sempre pi intenso. Vedendo questo spettacolo mi ripetevo: non arriveranno mai a cambiarli, questi colori resteranno l e niente diventer nero. E partendo da queste considerazioni che ho deciso di lottare e di resistere, aggrappandomi ad elementi semplici. In quel momento bisognava pur restare attaccati a qualche cosa per non sprofondare ed io mi sono aggrappato ai colori, alla bellezza

della loro luminosit e della loro variet, per arrivare a dire che la vita non poteva e non doveva finir l, che cera ancora una vita, una vita bella che meritava di essere vissuta.

Waciny Larej Don Chisciotte ad Algeri Mesogea, Messina, 1999 220 pagine Isbn: 978-88-469-2003-4

JACOPO GRANCI Ricercatore in Scienze Politiche allUniversit di Montpellier e al Centre Jacques Berque di Rabat, attualmente vive in Marocco. Per Osservatorio Iraq copre le vicende marocchine con un occhio di riguardo a tutta larea nord africana. FOTO: Jacopo Granci

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www. osservatorioiraq.it NUMERO SPECIALE GIUGNO 2013/2

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