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Auto – etero rappresentazione della cultura Bororo e riposizionamento

emotivo della ricerca etnografica


Mato Grosso, Brasile

Riccardo Esposito
Lo so, forse rischio di attirare su di me l’invidia di qualcuno se dico che la mia prima esperienza etnografica l’ho vissuta
in Mato Grosso, Brasile, presso un villaggio di indios Bororo. Nella primavera del 2007, infatti, ho superato le selezioni
della cattedra di Antropologia Culturale della facoltà di Scienze della Comunicazione (La Sapienza Università di Roma)
e, insieme al prof. Massimo Canevacci ed altri nove ragazzi, il 5 dicembre del 2007 sono partito per São Paolo, prima
tappa della spedizione, come componente del progetto di ricerca ribattezzato in seguito “Frammenti etnografici”. Il
nostro obiettivo era quello di esplorare, nei limiti di un periodo di tempo pari a 5 giorni, le possibili occasioni di auto ed
etero rappresentazione dei Bororo – indios del Mato Grosso centrale con una popolazione stimata di circa 1.000
individui (3.000 nel 1960), divisi in otto villaggi e in un’area di circa 350.000 km – del villaggio di Garças , utilizzando
una serie di strumenti (macchine fotografiche, registratori audio, videocamere) per comprendere come queste culture si
relazionano con gli strumenti della comunicazione digitale.
La nostra presenza nel villaggio è stata possibile grazie ai contatti che il prof. Canevacci aveva sviluppato nel corso
delle sue precedenti ricerche, in particolar modo quella che gli ha permesso di partecipare ad un funerale Bororo e
descriverlo nella sua ultima opera etnografica La linea di Polvere: i miei tropici tra mutamento e autorappresentazione
(Meltemi Editore, 2007). Grazie a Sergio, un ragazzo che da diversi anni svolge le sue ricerche di dottorato nell’aldeia
di Garças proprio sul tema dell’auto rappresentazione, Aivone, un’antropologa che collabora con la missione dei
Salesiani di Meruri, e Kleber, il figlio di un capo politico Bororo, abbiamo avuto modo di contrattare il dono da portare
a Garças, un generatore di corrente elettrica da 3.500 euro.
Diversi mesi prima della data di partenza, oltre a risolvere questa spinosa problematica del generatore, abbiamo
intrapreso un percorso preparativo – e soprattutto autogestito – relativo alla rilettura dei classici dell’antropologia, al
perfezionamento della lingua portoghese e all’utilizzo dei diversi strumenti della comunicazione che si sarebbero
utilizzati una volta sul campo (macchine fotografiche, registratori audio, videocamere). Infine, con il coordinamento del
prof. Canevacci, ci siamo divisi in microgruppi di 2-3 persone specializzati nelle diverse aree di interesse (fotografia,
audio, video, scrittura). Nella fattispecie io mi sarei occupato della musica Bororo, interfacciandomi con gli altri ragazzi
che gestivano le registrazioni audio, anche se, come si evince dal testo che segue, eventi inaspettati e destabilizzanti
hanno fatto saltare tutte le precedenti schematizzazioni e organizzazioni in gruppi di lavoro, proponendo – almeno per
quanto concerne il mio punto di vista – del materiale diverso ma altrettanto ricco e stimolante sul quale imperniare la
nostra riflessione etnografica.

11/12/07 - L’arrivo a Garças


Siamo partiti. Ci siamo lasciati São paolo alle nostre spalle. Appena usciti dall’aeroporto di Goiânia, capitale dello stato
brasiliano centro-occidentale di Goiás, troviamo l’autista del minivan che ci attende sorridendo. Ci saluta, carica i
bagagli e ci invita a salire a bordo: sono le ore 12.45 e alle 20.00 abbiamo appuntamento con Sergio – il dottorando
amico di Massimo già conosciuto a São Paolo – a Barra do Garças. Il viaggio, tra scenari mozzafiato e strade dissestate
è durato circa sette ore. Ho impegnato tutto questo tempo a leggere, a riposare, ma soprattutto a riflettere su quello che
stavo vivendo. Ero in procinto di trascorrere cinque giorni nell’aldeia (villaggio) Bororo di Garças, Mato Grosso, in
coincidenza con le fasi conclusive di un funerale, un rituale fondamentale per la cultura Bororo, oggetto di grandi
attenzioni da parte di numerosi antropologi (tra i quali ricordiamo Lévi-Strauss) e che consiste fondamentalmente in un
enterro secondario (Canevacci 2004, 146). Ovvero in una inumazione e in una esumazione. Quando un Bororo muore,
il suo cadavere viene seppellito a poche decine di centimetri e ricoperto di terra, foglie buriti e brotos (gemme) di
babuçu (piccola palma), nei pressi del baitemmannageo, una costruzione che indica il centro geografico, cosmologico e
sociale dell’intero villaggio. Il tumulo viene irrorato di acqua quotidianamente per favorire la decomposizione del
cadavere che, dopo un periodo di tempo relativo (da uno a tre mesi), viene riesumato. A questo punto inizia la fase
conclusiva del rituale, che dura tre notti e quattro giorni. Si tolgono con cura i brandelli di carne da ogni osso, grazie
anche all'aiuto delle foglie di buriti (un palmizio che cresce nel Brasile centrale) con le quali è composto anche il cesto
dove si raccolgono tutte le ossa. Il teschio, invece, viene dipinto con l’urucum, una pianta dai cui semi si produce una
tinta color rosso vivo, e sulla sua superficie liscia vengono collocate piume di arara, il pappagallo sacro alla cultura
Bororo che rappresenta gli spiriti degli antenati, la chiave di volta di una cosmologia ciclica che permette ai Bororo di
vincere la morte fisica. Come sostiene Robert Hertz, l’ultima parola deve restare alla vita: “in forme diverse, il defunto
uscirà dal mondo angoscioso della morte per rientrare nella pace della comunione umana” (Hertz 1978, 87; in Fabietti
2001, 69). E quindi, solo quando il teschio – il morto – si trasformerà in totem – antenato, arara – il lutto sarà
definitivamente risolto.

Arriviamo a Barra do Garças con un’ora di anticipo rispetto all’appuntamento fissato con Sergio. Approfittiamo della
sua assenza per fare scorta di acqua, giacché durante i cinque giorni di permanenza nel villaggio non avremo altre fonti
di sostentamento idrico. L’acqua dell’aldeia potrebbe essere nociva per noi. Del cibo non abbiamo bisogno: ne
avevamo fatto scorta già a São Paolo ed ognuno di noi, negli zaini o nelle borse a tracolla, porta lo stretto necessario per
nutrirsi. Personalmente mi sono sbilanciato verso la carne in scatola – delle terribili lattine con sopra un’etichetta bianca
e rossa –, il tonno senza olio e le gallette. Per la colazione ho acquistato biscotti di vario tipo e delle capsule di miele.
Decidiamo di esplorare un po’ la zona in cui ci troviamo. Nella piazza principale di Barra do Garças dei bambini –
probabilmente organizzati da una scuola – si esibiscono in balli e canti, indossando cappelli natalizi. Anche se le
temperature sfiorano costantemente i trentacinque gradi, si avvicina il Natale. Un bambino povero ci segue ovunque, nel
supermercato, per strada, vicino al furgone: siamo occidentali, bianchi. A São Paolo questo forse era meno evidente ma
qui, nel cuore del Brasile, la nostra provenienza sembra scritta nera su bianco. Strana sensazione… non mi era mai
capitata.

Carichiamo i circa 6-7 litri di acqua a testa sul furgone e sistemiamo i viveri alimentari. Ricontrolliamo, per sicurezza,
anche le carte che certificano l’acquisto del generatore elettrico. Nella cultura Bororo, infatti, l’arrivo di uno straniero
dev’essere accompagnato da un dono concordato in precedenza: quando Massimo è andato per la prima volta
nell’aldeia di Garças portò con sé una mucca, mentre nel nostro caso la richiesta si è spostata su un generatore elettrico
di grossa portata. Sfortunatamente non siamo stati in grado di portarlo con noi (è un generatore di notevoli dimensioni e
necessita di un trasporto particolare) ma abbiamo le fatture dell’avvenuto acquisto e le foto. Finalmente arrivano i nostri
contatti a bordo di una jeep completamente coperta di fango. Salutiamo Sergio che subito ci presenta Paulinho, un
ragazzo Bororo appassionato di tecnologie digitali che, insieme a Sergio, porta avanti il suo progetto di auto
rappresentazione della sua cultura. Quando me lo presentano come “video maker” penso a tutte le persone che a Roma,
prima di partire per il Mato Grosso, mi chiedevano come mi sarei comportato di fronte a cerbottane, gonnellini di
paglia, riti di iniziazione stravaganti. Visioni di un presente distorto da un’informazione romanzata e colonialista:
Paulinho è un Bororo, ma anche un video maker, e veste con t-shirt e bermuda. Ceniamo abbondantemente e ci
rimettiamo in viaggio al seguito della jeep verde militare. Dopo un’ora e mezza abbandoniamo la strada asfaltata per
immetterci in un sentiero sterrato. Negli ultimi giorni c’erano state abbondanti piogge e la strada era diventata una sorta
di pantano rossiccio, ma la cosa che più mi colpisce, guardando fuori dal finestrino, è il buio che circonda la nostra
vettura. Mai visto un buio così fitto. Sono molto emozionato, cerco di dormire ma non ci riesco.

Finalmente arriviamo nell’aldeia di Garças, un tempo chiamata Jakoréuge E-iào Bororo (Bordignon 1986, 51). Scendo
dal minivan quasi in uno stato confusionale. Come mi dovrò comportare? Che cosa dovrò dire? Non importa, penso,
ormai sono qui ed è quello che più volevo. Appena metto i piedi a terra, non riconosco altro che le schiene e le teste dei
miei compagni di viaggio. Il buio che prima avvolgeva la vettura adesso avvolge noi e i suoni dei mille animali che
vivono nel cerrado (nome regionale dato alla savana brasiliana) sono talmente forti che quasi mi impediscono di
pensare. Ecco finalmente Sergio che, dinanzi alla luce della sua jeep, saluta Josè Carlos Kuguri, il mestre dos cantos di
Garças. Questa figura rappresenta un vero e proprio archivio dei complessi canti rituali Bororo, ma si distingue dal pajé,
l’intermediario tra i Bororo, i vivi, e gli spiriti, i morti. La figura più vicina a quello che possiamo immaginare come
sciamano. Solitamente in un’aldeia Bororo dovrebbe esserci un cacique – il capo politico – e il pajé,. Nel caso in cui
nel villaggio non ci sia una persona adatta a tale ruolo – come è accaduto qui a Garças – si contatta quello che abita
nell’aldeia più vicina: infatti, a differenza del cacique, nessun Bororo può scegliere di fare il pajé di sua volontà, salvo
che non sia chiamato dallo spirito. La sua autorità è relativa alla concordanza tra il futuro e le sue precedenti visioni,
all’accompagnare il morto durante il suo funerale, e soprattutto alla cura dei rapporti tra i vivi e i morti attraversando il
regno spirituale per salvare – anche a costo della sua – la vita del singolo e dell’intera comunità dal concetto stesso di
morte.

Altri uomini affianco a noi ci porgono il loro saluto. Frastornato, ricambio con gentilezza anche se non riesco a mettere
a fuoco i loro visi. Sergio parla con alcuni Bororo e indica la fattura del generatore. La illumina con una grande torcia e
ne spiega tutti i dettagli. Si sentono voci di approvazione. Poi Josè Carlos ci invita presso la sua maloca, la sua capanna,
e alcune donne preparano delle stuoie per farci sedere. Ci sistemiamo a terra, raggruppati, con le gambe incrociate.
Intravedo all’interno dell’abitazione un pariko appeso al muro, il classico diadema Bororo costruito con piume di arara
(uccello sacro) che, nei suoi colori, rispecchia l’appartenenza a un determinato clan. Josè Carlos prende i bapo (le
maracas) e inizia a cantare. È l’awanaregge, ci dicono, il canto di benvenuto per chi viene da lontano. Nel buio del
Mato Grosso sentiamo solo il suono circolare ed ipnotico delle cucurbitacee e la voce profonda di Josè Carlos che si
prolunga, si smorza, quasi si rompe, ma che ricomincia sempre in un continuo assolo vocale. Lui è il maestro dei canti
di quest’aldeia. Quante volte Massimo ci ha fatto sentire le registrazioni dei canti Bororo a lezione? Tante, ma ora sono
qui e ascolto. Fagocito con le orecchie. Mi balza alla mente Walter Benjamin e l’aura dell’opera d’arte che si perde
nella riproduzione tecnica. Difficile da spiegare: già dalle registrazioni sentivo la forza e la profondità della voce di Josè
Carlos, ma ascoltarla a un metro di distanza, hic et nunc, è molto diverso. Fa quasi paura.

Dopo un quarto d’ora il mestre si avvicina e a ognuno di noi tocca con i due pollici prima la fronte, il capo e il collo, e
infine soffia sui nostri capelli. Un gesto che permette a “coloro che vengono da aldeie lontane” (così ci ha definito) di
abbandonare la stanchezza del viaggio. Probabilmente è solo suggestione ma funziona. Nel rialzarci da terra notiamo
con stupore che in tutto ciò anche l’autista del nostro minivan aveva partecipato, emozionatissimo, a questo rituale di
benvenuto. Lo salutiamo e insieme a Sergio e Josè Carlos ci avviciniamo al nostro alloggio. Sembra un normale
prefabbricato, con tre stanze un bagno e addirittura un letto (senza materasso però). Manca energia elettrica e acqua
corrente, di conseguenza il bagno è inutilizzabile. Queste cose, però, già le sapevamo. Torce alla mano, sistemiamo i
sacchi a pelo, le provviste, i bagagli e torniamo sul cortile della nostra abitazione. Riusciamo a distinguere ben poco di
quello che c’è fuori, nel cerrado. Mi ripeto: quello del Mato Grosso è un buio che non ho mai visto in vita mia,
profondo, ricco di suoni estranei ma graffiato dalle scie delle lucciole. Salutiamo Sergio che domani tornerà a São Paolo
(ritornerà a Garças tra un paio di giorni) e scambio qualche opinione con i miei compagni di viaggio, per poi stendermi
sul sacco a pelo. È quasi l’una di notte ed è stata una giornata molto dura. Ho bisogno di riposare.

12/12/07 - Primo giorno


Mi sveglio alle sette del mattino, quando tutti gli altri dormono ancora. Voglio togliermi dal pavimento: ho dormito
male e mi sento la schiena a pezzi. Ci avevano avvistato delle terribili zanzare che infestano la zona del Mato Grosso,
così la mia prima notte l’ho passata nel sacco a pelo – a terra, completamente vestito – coperto di autan blu e una
zanzariera di plastica. Troppe precauzioni, ho sofferto un caldo infernale. Fortunatamente, però, nessuna puntura di
zanzara. Quando esco dal mio alloggio, mi ritrovo uno scenario che non ero stato in grado di percepire di notte. La
nostra abitazione, un prefabbricato che inizialmente doveva servire da ambulatorio ma che poi non è stato mai utilizzato
(immagine 1), è posizionata a circa 20 metri dal centro del villaggio, leggermente distaccata dal resto delle abitazioni.
Noto che oltre alle tre porte relative ai nostri alloggi ce n’è una quarta, leggermente più piccola, chiusa a chiave. A circa
venti metri dall’ingresso ci sono due strutture – una vecchia capanna semidistrutta e una struttura prefabbricata che
funge da scuola – e un grande albero di mango: l’intera aldeia ne è circondata in quanto, oltre a fornire di ottimi frutti,
proteggono il villaggio dai fuochi che gli Xavante – popolazione indios limitrofa ai Bororo, considerati da quest’ultimi
come kaiamo, nemici (Canevacci 2007, 109) – appiccano durante le loro battute di caccia. Nella veranda, invece,
proprio sopra le nostre teste, c’è un piccolo alveare. Leggermente intimorito da questa scoperta, faccio colazione con
dei biscotti al cioccolato e un succo di frutta liofilizzato, mentre aspetto il risveglio dei miei compagni di viaggio.
Quando siamo ormai tutti operativi si avvicina Josè Carlos che ci saluta affettuosamente e lentamente. Ripete i nomi di
ognuno, prolungando l’ultima vocale. Inizia a parlare con Massimo: il rapporto tra i due è molto stretto, dato che
Massimo era già stato ospite dell’aldeia di Garças proprio durante il funerale della moglie di Josè Carlos. Ci
incamminiamo, sotto invito di Josè Carlos, verso il villaggio.

Illustrazione 1: Il nostro alloggio


Le condizioni meteorologiche non promettono nulla di buono, la strada è fangosa e piena di pozzanghere dovute alla
pioggia dei giorni precedenti. Attraversata una serie di alberi di mango riusciamo finalmente a scorgere le caratteristiche
del villaggio di Garças. La sua struttura è quella circolare classica dei villaggi Bororo, con le malocas – le case degli
indios – che ne delineano il perimetro (Immagine 2). Alcune di esse sono state ricostruite con il tetto in lamiera e le
pareti di legno, mentre altre sono interamente in foglie intrecciate di buriti, le cui fronde, una volta lavorate, vengono

Illustrazione 2: Taccuino

utilizzate dai Bororo per scopi architettonici (pareti, tetti), la costruzione di oggetti di uso comune (stuoie, ventagli) ed
anche rituali (copertura del tumulo e cesta dove vengono raccolte le ossa del defunto riesumato). Noto alcuni scheletri
di abitazione, ancora in fase di costruzione. Le malocas che compongono la circonferenza del villaggio sono quelle di
riferimento dei diversi clan che compongono la popolazione dell’aldeia: dietro di esse ne sorgono molte altre,
appartenenti alle generazioni successive, ai figli o ai nipoti. Al centro del villaggio troviamo il baitemmannageo (o
anche baito), la “casa degli uomini”, che con la imponente struttura e i due varchi d’ingresso sottolinea l’organizzazione
dualista (Fabietti 2001, 186) che vige all’interno dell’aldeia e che è relativa alle due metà esogamiche Ecerae e
Tugarege divise in otto clan. Lo stesso Claude Lévi-Strauss, uno dei primi antropologi che si è occupato della cultura
Bororo, inizia la descrizione dell’aldeia di Kejara sottolineando la presenza di questa struttura all’interno del villaggio:
“Tutto intorno sono disposte le capanne – 26 esattamente – simili alla mia e disposte in cerchi, su una sola fila. Al
centro, una capanna, lunga circa 20 metri e larga 8, quindi molto più grande delle altre: è il baitemmannageo, casa
degli uomini, dove dormono i celibi e dove la popolazione maschile passa la giornata quando non è occupata alla
pesca o alla caccia, o in qualche pubblica cerimonia sul terreno di danza, spazio ovale delimitato dai pioli, sul fianco
ovest della casa degli uomini” (Lévi-Strauss 2004, 206).

Josè Carlos ci invita a entrare al suo interno. Il pavimento è liscio, le pareti sempre in buriti e il tetto in lamiera. Al
centro del baito c’è un palo che coincide con il centro esatto dell’intero villaggio e rappresenta, allo stesso tempo, il
fulcro dell’intera cosmologia Bororo. Intorno al perimetro c’è un rialzo in cemento che ci permette di sederci. Josè
Carlos, invece, si accomoda sul pavimento. Rimaniamo mezz’ora quasi in silenzio, con il mestre dos cantos che di tanto
in tanto pronuncia il nome di Massimo e prende qualche tiro dalla sua sigaretta. Con stupore noto che quest’ultima è
confezionata con un foglio di quaderno, con tanto di righe in inchiostro blu. L’unica cosa a cui riesco a pensare è la
pacatezza della figura di Josè Carlos, la sua seraficità. Iniziamo a parlare della musica Bororo, dell’abilità di Josè Carlos
con i canti e le maracas e Massimo invita Martina a prendere il suo flauto traverso. Martina si esibisce in una melodia
abbastanza complessa e Josè Carlos la osserva interessato: quando termina la sua esecuzione lo chiede in prestito. Vuole
provare anche lui. Purtroppo dal flauto non escono che pochi suoni sordi che suscitano l’allegria di tutti noi, compresa
quella di Josè Carlos e dei Bororo che curiosavano timidamente nel baito. Dalla porta d’ingresso, infatti, iniziano ad
affacciarsi alcuni volti di bambini, ragazzi, adolescenti, e se l’episodio del flauto era servito per sciogliere il ghiaccio
con il mestre dos cantos, il loro arrivo sembra mettere fine all’iniziale situazione di stallo e di silenzio in cui ci siamo
trovati. Appaiono subito incuriositi dal suono del flauto e ognuno vuole provare a suonarlo. Corro nel nostro alloggio:
voglio prendere anche gli altri strumenti che ho portato con me (uno scacciapensieri e due kazoo). Al mio ritorno
l’interesse si era già profuso alle macchine fotografiche, in particolar modo da quelle professionali con lunghi obiettivi.
Gliele cediamo, e li coinvolgiamo nel nostro primo utilizzo del registratore binaurale (Immagine 3). Per loro è solo un
gioco divertente, un qualcosa mai visto prima. Personalmente temevo questa prima fase della discesa sul campo,
pensavo che sarebbe stato difficile entrare in contatto con gli indios e invece in poco più di un’ora eravamo diventati i
beniamini di mezzo villaggio. I bambini si fiondano su di noi per giocare con le macchine fotografica, lo
scacciapensieri, il microfono e il registratore, facendosi accompagnare da ragazze adolescenti. Inizialmente, essendo
molto giovani, pensavo che fossero le sorelle maggiori, invece scopro che in molti casi sono le mamme. I ragazzi e gli
uomini invece rimangono in disparte, lanciano timide occhiate ma sostanzialmente ci evitano. Tutti tranne Marçiano, un
ragazzo di ventuno anni che ci viene incontro dallo sguardo arcigno. Non sembra incuriosito ma piuttosto infastidito
dalla nostra presenza, e nonostante ciò non ci evita ma ci chiede di non fotografare il tumulo fuori dal baito.

Illustrazione 3: Bambini e il registratore

Il tumulo. Venendo dalla nostra abitazione l’avevamo appena scorto. Marçiano ci aggiorna sul fatto che due mesi prima
era morta sua sorella (poi si coregge e dice “fratello”) di sedici anni, affogata in un fiume. Sembra sia affogata per
andare a prendere la cachaça, l’acquavite, ma non si capisce bene. Ci rammarichiamo dell’accaduto e assicuriamo a
Marçiano che eviteremo quel genere di foto. Sarà stato il senso di solidarietà che abbiamo espresso, o il più concreto
fascino delle attrezzature che avevamo con noi, ma anche Marçiano si avvicina cautamente alle nostre macchine
fotografiche. Lui però vuole il registratore (Immagine 4) e la telecamera. Usciamo dal baito, e andiamo incontro a
Sergio, appena arrivato a bordo della sua jeep. Con lui c’è sempre Paulinho e un altro studente di São Paolo. Sono
venuti per assicurarsi che stiamo bene, che non ci manchi nulla, prima di partire per São Paolo come aveva detto la sera
precedente. Sembra di no, stiamo bene. Passiamo un po’ di tempo a chiacchierare ed anche Josè Carlos sembra
interessato. Fuma di continuo le sue sigarette arrotolate in fogli di quaderno e chiede di poter fare alcune foto con la
macchina di Luca, una Pentax professionale. A un tratto subentra un evento inatteso. Sergio e Massimo ci suggeriscono
di tornare nel nostro alloggio perché stanno arrivando dei Bororo ubriachi. Massimo, durante il tragitto, ci aveva parlato
di questa eventualità, soprattutto in vista del funerale, quando gli animi sono decisamente più turbati e nell’aldeia
arrivano Bororo di altri villaggi, svincolati dal controllo dei contatti che noi avevamo a Garças. L’uomo che si avvicina
a noi barcollando e con gli occhi gonfi, però, è Apollonio, il cacique, il capo politico del villaggio. Ci saluta in modo
approssimativo e freddo, ricambiamo in maniera opposta ma senza risultato. Inizia a chiedere a Sergio il motivo della
nostra presenza e mentre i due parlano decidiamo di seguire il precedente consiglio.

Mentre torniamo nei pressi dell’alloggio, mi soffermo a riflettere su quello che è successo durante la mattinata, sulla
nostra discesa sul campo e – soprattutto – sul comportamento di Apollonio. Sembrava ostile, ma non ne comprendo le
motivazioni. Noi avevamo portato un dono, un generatore da 3.500 euro. Forse sono troppo legato a un concetto
occidentale di reciprocità decisamente schematico e che ignora la continua contrattazione con cui può essere inteso qui,
in un’aldeia Bororo, un rapporto di scambio. O forse quello di Apollonio è solo un caso isolato. Ad ogni modo siamo di
nuovo nell’alloggio e consumiamo il nostro primo pasto a base di gallette e carne in scatola. Con estrema coralità ci
scambiamo cibarie, facendo quasi a gara a chi ha comprato l’alimento più disgustoso. È un momento allegro, anche se il
cielo nuvoloso lascia spazio al sole e la temperatura aumenta. Fa caldo, sudo, e c’è una quantità infinita di moscerini e
zanzare. Siamo costretti a indossare magliette e pantaloni lunghi per evitare di essere punti in continuazione ma questa
scelta ci fa soffrire ancora di più il caldo. Decidiamo di riposare un po’, chi nelle stanze, chi fuori nel cortile.
Aggiorniamo i nostri diari e scattiamo foto. Io mi rilasso con il mio tabacco, appoggiato al muretto della veranda del

Illustrazione 4: Marçiano

nostro alloggio. A un tratto arriva un ragazzo Bororo che avevo già intravisto durante la mattinata. Lo saluto ma lui non
risponde: piuttosto afferra un pacchetto di sigarette vuoto lasciato sul muretto, ci guarda dentro e lo butta alle sue spalle.
Con gesto amichevole gli offro quindi il mio tabacco, ma questi si prende tutto il pacco e se lo porta via, scomparendo
nella stanza del prefabbricato alla quale non avevamo accesso. Arrivano altri ragazzi che entrano ed escono da quella
porta, tra i quali anche Marçiano: intravedo una specie di radio per comunicazioni ma non ci fanno accedere in quel
locale. Al di là di quello che poteva essere un probabile segno di ostilità o un semplice malinteso, nel pacco di tabacco
c’erano tutte le cartine per la preparazione delle sigarette. Senza di esse non sarei stato più in grado di fumare. Mi
rivolgo a Federica, più ferrata di me con il portoghese, per farmi aiutare a riavere almeno le cartine. Ci proviamo ma
inutilmente: alla parola “papeu” il ragazzo torna con un foglio di carta da quaderno. L’episodio suscita l’ilarità di tutti i
miei compagni di viaggio, ed anche la mia, nonostante l’evidente problema delle cartine ormai scomparse.

Anche il ragazzo che si era appena rubato il mio tabacco inizia, però, a chiedere insistentemente il motivo della nostra
presenza a Garças, una domanda che si alterna a strambe richieste di beni e materiali e alla sua volontà di scrivere sui
nostri taccuini. Riporta su di essi più volte la frase Bacebo Bororo, ovvero “nativo Bororo”. Alle nostre domande sul
significato di questa frase spiega e sottolinea il fatto che lui è (o si sente) un vero Bororo, non piegato alla missione dei
salesiani di Meruri. A pochi chilometri dall’aldeia di Garças, infatti, sorge un secondo villaggio Bororo, assimilato a
una missione salesiana e il rapporto che si instaura tra i Bororo e i religiosi di questo ordine, fondato da Don Bosco e
presente in 126 nazioni, è molto complesso. I due villaggi – l’aldeia e la missione – sotto un certo punto di vista
sembrano uniti, ma rispetto a tanti altri si distaccano, alla ricerca di una reciproca identità (Canevacci 2007, 48). Se da
un lato, infatti, i Bororo godono della possibilità economica e della protezione dei salesiani nei confronti dei
fazendeiros (proprietari terrieri), politicanti e dalle missioni cristiano-cattoliche più rigide come quelle degli evangelici,
dall’altro subiscono un processo di evangelizzazione teso ad eliminare in maniera graduale ogni tratto culturale
autonomo, a partire dalla stessa conformazione circolare dell’aldeia, specchio dell’intera cosmologia Bororo (Immagine
5, Canevacci 2007, 48-49).
Illustrazione 5: Mappa villaggio

Di tanto in tanto arrivavano altri Bororo ubriachi che sotto le loro gentili presentazioni nascondono richieste materiali
sempre più assurde. Alcuni vogliono che regaliamo loro una macchina, altri chiedono un trattore. Fortunatamente i
bambini si limitano alle biciclette, e comunque sono meno insistenti con le loro richieste. Preferiscono giocare con noi.
Non riuscivo a capire, però, cosa stesse succedendo. Non erano soddisfatti del generatore? Ma l’avevamo concordato,
ce l’avete detto voi che vi serviva il generatore. Era evidente che c’erano degli equilibri di cui ancora non ero a
conoscenza. Tra tutti questi uomini che si accalcavano nei pressi della nostra abitazione, arriva Marçiano con la moglie
e i figli. Lui è sobrio, con lo sguardo sempre duro e severo, e ci propone di seguirlo per un’escursione al fiume, il Rio
do Garças, perché “è un posto più sicuro”. Più sicuro? Perché, questo non è sicuro, mi chiedo? Non importa, per ora.
Approfittiamo dell’occasione propostaci per esplorare la zona intorno all’aldeia, per stringere i rapporti con Marçiano e,
perché no, per rinfrescarci nelle acque del fiume (Immagine 6). Passiamo diverse ore in allegria, con i bambini che ci
hanno accompagnato, circondati continuamente con la loro energia e voglia di giocare. Marçiano inizialmente sembrava
schivo, guardingo, ma poi si è lanciato anche lui in una divertente gara di tuffi con tutti noi. Sulle rive del fiume mi
guardo intorno: spero di trovare il camelote, quella pianta acquatica dalle radici non fisse sul fondo del fiume che
permettono al vegetale di essere mobile, itinerante, o la taiquara, un arboscello longilineo che cresce sulle rive dei corsi
d’acqua e che racchiude il mito dell’intera cosmologia Bororo. Questo arbusto filiforme, infatti, nel suo rigenerare
continuamente intorno a sé i suoi semi, mette in atto un processo di continuo riciclo e si presenta sempre rigoglioso.
Illustrazione 6: Fiume

Il ritorno al villaggio è più faticoso del previsto e il peso dell’assenza di un bagno e un cambio di abiti decente si fanno
sentire. È tardo pomeriggio e le zanzare aumentano il ritmo delle loro incursioni. Ci ricomponiamo al meglio, stanchi
ma felici dell’esperienza. Sembra che Marçiano sia ben disposto nei nostri confronti, interessato alle nostre parole. È un
informatore ideale, penso, inserito nelle dinamiche del villaggio e nel funerale che sta per concludersi. Un uomo magro,
con baffi e cappellino da baseball, giunge nei pressi della nostra abitazione. È Emilio, il responsabile della salute del
villaggio. Massimo lo saluta, evidentemente già lo conosce. I toni sembrano amichevoli, ma qualcosa mi lascia
intendere che la conversazione non è proprio all’insegna della concordia. Emilio fa notare a Massimo che appena
arrivati c’eravamo messi subito a scattare foto e che non era opportuno che continuassimo a farlo, così come non era
opportuno che andassimo in giro per il villaggio a prendere appunti e a fare riprese video. Ci avviciniamo ai due e
appoggiamo Massimo quando dice che se non è un problema limitarci a scattare foto. Le parole di Emilio sono confuse.
Alla nostra disponibilità di non scattare più foto non esprime soddisfazione ma continua a sottolineare che non
dobbiamo per forza limitarci, anche se non possiamo fare tutto ciò che vogliamo. In sostanza non esprime un secco
divieto. Continuo a non capire. Josè Carlos, l’unica figura finora riconosciuta come amica, non sembra poterci aiutare e
gli uomini adulti del villaggio non sono propensi ad accettare la nostra presenza nell’aldeia. Bambini e donne
continuano a venire vicino al nostro alloggio per giocare, parlare e chiedere qualche regalo inverosimile, ma l’unica
cosa chiara è che non possiamo spostarci dalle nostre camere. Ceniamo con le torce accese, seduti sui nostri tappetini, e
discutiamo sull’accaduto quando a un tratto sentiamo in lontananza delle voci. Sono i canti preparativi del funerale:
riusciamo a distinguere le diverse intonazioni, i controcanti e i suoni dei bapo. È questo strumento, infatti, che
costruisce la base ritmica di ogni canto (Canevacci 2007, 127) e le sue dimensioni cambiano in base alla solennità del
rito (grande per i funerali, durante i quali possono anche essere presenti otto paia di bapo, piccolo per riti connessi alla
caccia e alla pesca).

È frustrante per noi trovarci in questa situazione, ma all’improvviso avviene qualcosa di inatteso. Dal buio che circonda
il nostro alloggio appare Marçiano che chiama il nome di Massimo. Lo salutiamo con affetto. Lui ricambia e ci
ragguaglia sulla difficile situazione nei nostri confronti, sul fatto che gli uomini stavano discutendo sulla nostra
presenza in aldeia e sull’impossibilità per noi di raggiungere il baito e ascoltare i canti. Bene, penso io, ancora un passo
indietro e senza sapere ancora il motivo per cui siamo destinati a muoverci solo in questa direzione. Marçiano, però,
sembra comprendere lo stato in cui ci troviamo e ci chiede di usare il grabador: si propone, cioè, di portare con sé il
nostro registratore binaurale e registrare per noi i canti della serata che fanno parte dei preparativi del funerale. In
quanto parente del defunto dovrà cantare e danzare, ma deve nascondere il registratore sotto la maglia perché gli altri
Bororo non ci vogliono nel baito e non accetterebbero un comportamento simile da parte sua. Come leggere questo
episodio? Chi è Marçiano? Un ragazzo come noi, che percepisce la nostra situazione di disagio o un indios Bororo che
vuole conservare la sua identità, registrandola su un dispositivo elettronico? Forse entrambe le opzioni o forse nessuna
delle due. Forse vuole solo vantarsi con i suoi pari di possedere, almeno per poche ore, il nostro registratore o
dimostrare, a chi è più in alto di lui, di riuscire a instaurare un rapporto contrattuale privilegiato con gli occidentali.
Difficile ragionarci in questo momento. Guardiamo Marçiano allontanarsi nel buio. Mentre discutiamo dell’accaduto
sentiamo i canti nella notte, alternati da grida e rumori convulsi. Discutono animatamente, forse a causa nostra. Dopo un
paio di ore, verso l’una di notte, scorgiamo di nuovo la figura di Marçiano. È tornato indietro per restituirci il
registratore. Ci dice che è dispiaciuto per non aver registrato tutti i canti ma la situazione nel baito era complicata,
c’erano molti Bororo ubriachi di cachaça (acquavite) e stavano iniziando a sospettare di un qualche accordo tra lui e
noi. Appare realmente costernato e in me prende piede la prima ipotesi, quella di un semplice aiuto dato nei nostri
confronti. Lo rassicuriamo sul fatto che aveva fatto già tanto per noi e lo salutiamo. Decidiamo di andare a dormire,
anche se alcuni di noi rimangono svegli a discutere sull’accaduto. Io sono troppo stanco. La giornata ha offerto molti
punti di riflessione ma è stata sicuramente impegnativa, e, anche se è tremendamente scomodo, il sacco a pelo mi
appare invitante. A differenza della sera precedente decido di togliermi i vestiti, fa troppo caldo. Contro le zanzare
confido nell’Autan e nella zanzariera.

13/12/07 - Secondo giorno


Oggi il cielo è sereno già dalle prime luci dell’alba e la temperatura, alle nove del mattino, raggiunge i 35 gradi.
Almeno così mi sembra. Come al solito sono il primo ad alzarmi. Faccio colazione con i soliti biscotti al cacao (inizio a
sentire la mancanza del caffè) e provo a dedicarmi alla pulizia personale con le salviettine umidificate. Nel villaggio c’è
una specie di condotta dalla quale tutti i Bororo si riforniscono di acqua, ma non riteniamo abbastanza sicuro utilizzarla,
né per lavarci né tantomeno per bere, e questo solo perché rischiamo di incorrere in gravi patologie, non essendo
assolutamente abituati a essa. Ad un tratto sento dei rumori, delle grida, come se qualcuno stesse litigando. Infatti, a
circa dieci metri dall’alloggio ci sono due Bororo che si azzuffano. Con discrezione osservo la scena: uno dei due mi
sembra Marçiano, ma non ne sono sicuro. La conferma mi viene offerta poco dopo, quando quello che ha avuto la
peggio nel combattimento, da terra, grida proprio il suo nome. Accorrono altri Bororo, lo aiutano a rialzarsi. Si
mantiene la testa con una mano e corre verso la sua maloca. Esce con una specie di zappa in mano, un attrezzo lungo
circa un metro, e continua a gridare il nome di Marçiano. Nel frattempo corro a chiamare Nadir e Massimo. Gli
racconto l’accaduto e ci sporgiamo di nuovo fuori dalla veranda del nostro alloggio ma tutto sembra finito. Ci dirigiamo
verso l’albero di mango di fronte alla nostra abitazione (eletto già dal primo giorno come più fresco dell’intera aldeia)
per parlare dell’accaduto insieme anche a coloro che nel frattempo si erano svegliati.

Credevo di aver visto qualcosa da raccontare (la zuffa) e scopro, invece, di essere io quello da ragguagliare. Dopo che
ero andato a dormire, infatti, Marçiano era tornato verso il nostro alloggio, sconvolto, visibilmente ubriaco e con delle
frecce in mano. Sua moglie era scappata e sosteneva che si fosse nascosta nelle nostre stanze. E che noi stessimo
facendo il suo gioco. Data la situazione, i miei compagni di viaggio ancora svegli hanno pensato di assecondarlo e di
fargli vedere le stanze nelle quali c’eravamo solo noi che dormivamo a terra, raggomitolati nei nostri sacchi a pelo.
Marçiano si scusa e, quasi come una sorta di risarcimento, inizia a mostrare le posizioni della caccia all’arara. Se ne va,
ma dopo un’altra mezz’ora arriva una donna in lacrime. Cerca di aprire con forza la porta che conduce alla stanza della
radio: era stata picchiata – almeno questo sosteneva – e vuole chiamare aiuto. Torna Marçiano con un’amica della
donna e la portano via, cercando di farla ragionare, tranquillizzandola. Notte turbolenta, insomma. Non devo andare a
dormire così presto la sera. Cerchiamo di collegare i due eventi riguardanti Marçiano, quello della sera precedente e
quello di stamattina, ragionando sulle possibili cause che avevano provocato in quel ragazzo due accessi d’ira così
evidenti. La causa di tutto ciò poteva essere la nostra stessa presenza in aldeia, ma non ne potevamo essere sicuri.

D’altro canto si stava profilando un nuovo problema per me e, indirettamente, per tutti i fumatori del gruppo: le
sigarette scarseggiavano ed io avevo definitivamente finito le cartine per il tabacco. Apparentemente può sembrare una
sciocchezza ma purtroppo io ho questa necessità. Cerco di resistere ma è inutile: alla fine provo a rullarmi una sigaretta
con un foglio di taccuino. Pessima. Riprovo con i fogli di taccuini differenti quando mi rendo conto che quelli del block
notes di Paolo hanno un sapore molto simile a quello di una cartina comune. In più non hanno le righe, quindi non c’è
inchiostro su di essi. È andata, penso, fumerò così. La cosa suscita l’ilarità del gruppo e anche gli altri fumatori, data la
scarsità di sigarette, provano a fumare in questo modo. Il generale stato di allegria, però, viene turbato da una nuova
visita di Emilio, accompagnato dal figlio. Saluta, si reca nella sala radio, parla un po’ attraverso il microfono. Sta
comunicando con le aldeie limitrofe per chiamare a raccolta altri clan in vista del funerale. Si ferma a parlare con
Massimo. Lo chiama nella stanza e poi chiude la porta. Poi la riapre e chiama tutti noi: continua a sottolineare il fatto
che non è opportuno che noi stiamo in aldeia a scattare foto e a prendere appunti. Vuole vedere le foto che abbiamo
scattato e minaccia addirittura di sequestrare le macchine e stracciare i taccuini. Rimango perplesso. Perché nessuno si
avvicina più a noi e l’unico che lo fa si presenta in modo ostile? Continuo a non capire dov’era l’errore, dove avevamo
sbagliato. Avevamo acquistato il dono, il generatore, e sarebbe arrivato in aldeia tra un paio di giorni. Emilio continua a
inibirci, a consigliarci di non scattare foto e, al nostro celere obbedire, continua a non accettare la nostra
accondiscendenza. In sintesi, non ci vieta di utilizzare le macchine fotografiche né di muoverci liberamente all’interno
dell’aldeia, ma ci consigliava di non farlo. Non capisco.
Ci riuniamo in una stanza per discutere dell’accaduto e Massimo ci comunica che la situazione gli sembra strana e che
non è chiaro quello che sta succedendo. I nostri contatti sarebbero dovuti arrivare in serata: decidiamo di allontanarci
per un po’ dall’aldeia e sperare nella loro presenza al ritorno, in modo da essere più tranquilli. Partiamo così
nuovamente per recarci al fiume e ci rimaniamo diverse ore. La situazione è diversa rispetto a quella del giorno
precedente: non siamo euforici ma turbati, quasi spaventati da questa situazione di non accettazione che stavamo
attraversando. Stavamo andando al fiume, da soli, solo perché non avevamo altro posto dove andare. Torniamo al
villaggio, sudati e coperti di sabbia. Mi chiudo in camera e con le salviettine umidificate cerco di rendere significativo il
cambio di biancheria, quando sento delle voci. Sono appena arrivati Josè Carlos, Apollonio ed Ernesto, le tre autorità
del villaggio. Vogliono conferire con noi. Ci sediamo a terra e Josè Carlos prende parola. Parla la sua lingua, la lingua
Bororo, e noi ovviamente non capiamo nulla. Ernesto traduce per noi e ci dice che dobbiamo contribuire con un
secondo dono perché siamo capitati a ridosso di un funerale. Il generatore, cioè, vale solo per l’accesso nell’aldeia: per
assistere alla fase conclusiva del rito dobbiamo dare altri cinquanta reais. Meno di venticinque euro. Apollonio non dice
nulla. Accettiamo l’offerta e ci viene assicurato libertà di spostamento e di azione in tutto il villaggio. Ottimo risultato,
penso, finalmente siamo liberi dal peso della ghettizzazione. Ma che senso ha questa richiesta? Cinquanta reais sono
una somma ridicola se si pensa a quanto abbiamo speso per l’acquisto del generatore, sicuramente più utile ai fini della
qualità della vita in aldeia. E poi perché non dirlo in anticipo, perché non accennare subito al fatto che bisogna pagare
un surplus per assistere al funerale, in modo tale da risparmiarci 24 ore di totale isolamento? Probabilmente il motivo di
questo comportamento si trova nella complicata gestione delle dinamiche sociali all’interno dell’aldeia, nella difficile
situazione in cui gli stessi Bororo si sono trovati nel momento in cui siamo giunti nel loro villaggio. Per un attimo –
sembra stupido ma è cosi – ci siamo illusi di essere invisibili, di essere riusciti a entrare in sintonia con le persone
dell’aldeia e, in virtù dei nostri contatti, di essere completamente estranei alle loro decisioni in merito al peso di una
presenza tanto invasiva come la nostra. Tanto più che questa soluzione è avvenuta proprio nel momento in cui si stava
avvicinando il ritorno di Kleber e Sergio per i preparativi del funerale.

Decidiamo di non forzare la mano e di recarci in aldeia domani, con la luce del sole, e rimanere un’altra sera nei pressi
del nostro alloggio. La vita notturna è particolarmente turbolenta e preferiamo essere sicuri della nostra posizione, del
parere che prevede una nostra piena autonomia all’interno del villaggio. È buio, e la quantità di stelle che riesco a
vedere è impressionante. Mai viste tante in vita mia. Prendiamo teloni, impermeabili e coperte e ci stendiamo sul prato
di fronte al nostro alloggio. Dopo solo due minuti arriva Marçiano, gridando e agitando le braccia. È felice di vederci
ma ci rimprovera: nel cerrado ci sono serpenti molto velenosi – tra i quali il mortale cobra corao – e stesi così per terra
ne potremmo incrociare facilmente qualcuno. Una brutta esperienza, senza dubbio alcuno. Seguiamo il suo consiglio e
cerchiamo di intavolare una conversazione, ma Marçiano sembra più schivo del solito. Si allontana quasi subito.

14/12/07 – Terzo giorno


Come al solito la stanchezza ha vinto e mi sono addormentato poco dopo la mezzanotte, proprio quando è arrivato
Kleber che ha invitato tutti noi ad assistere ai canti nel baito. Io e altri due componenti del gruppo stavamo dormendo
ed abbiamo perso un’occasione preziosa. Penso che gli altri avrebbero potuto anche svegliarci e avvisarci che stavano
andando via, ma alla fine non rimprovero nessuno se non me stesso per essermi arreso troppo presto alla stanchezza.
D’altro canto questo è un segnale molto importante: il secondo dono elargito sembra aver funzionato e con Kleber in
aldeia possiamo stare tranquilli. Cogliamo i frutti di questa situazione favorevole e ci immergiamo, per la prima volta in
effetti, nella vita quotidiana del villaggio Bororo. Durante la mattinata sostiamo nell’area delle malocas più vicine al
nostro alloggio, dove abita anche Josè Carlos. Proprio dietro la sua abitazione – che costituisce uno degli edifici che
compone la circonferenza principale dell’aldeia – troviamo uno slargo adibito a cucina e un pezzo di carne enorme
appeso a un albero. Una donna era intenta alla preparazione del riso, assistita da un uomo sui 50-60 anni che non avevo
mai visto prima. Si avvicina a noi e, con grande gentilezza, ci saluta chiedendo il nome di ognuno. Se dovessi indicare il
tratto fondamentale di questo mio quarto giorno in aldeia, sottolineerei – almeno a quanto accaduto finora – il mutato
atteggiamento di comportamento nei nostri confronti. I bambini continuano a voler giocare appassionatamente con noi,
ma gli adulti sembrano molto più disposti a entrare in contatto con noi, a parlare, a condividere la loro quotidianità.
D’altro canto abbiamo anche la “non presenza” di Marçiano. Personaggio sempre in vista, particolarmente attivo nelle
nostre conversazioni e disposto ad accompagnarci alla scoperta dei diversi luoghi dell’aldeia, ma del tutto assente in
questa giornata. Chiedo informazioni su di lui ai miei compagni e mi dicono che già la sera precedente si era
comportato in maniera strana nei nostri confronti. Nel baito, infatti, ci aveva accusato pubblicamente di essere
irrispettosi nei confronti del suo lutto e di fare un chiasso inaccettabile per la sua situazione (un episodio ovviamente
non vero). Ora siamo giunti alla vigilia della fase finale del funerale e rimane rinchiuso nella sua maloca.
Evidentemente è una prassi da rispettare. I figli di Marçiano, invece, sembrano ignorare questo vincolo e si scatenano,
coinvolgendoci nei loro giochi.

Scopriamo che, seppur affascinati dalle nuove tecnologie, dalle macchine fotografiche e dalle videocamere, i bambini
dell’aldeia di Garças sono ben disposti a utilizzare i nostri taccuini, a disegnare e a scrivere su di essi. È affascinante
scoprire come, attraverso un disegno, riescano a rielaborare e rappresentare la loro realtà, a imprimerla su carta con
semplicità ed efficienza. Autorappresentazione, sì, ma non per forza attraverso foto digitali: visi segnati da maschere
funeree e simboli clanici, pariko, arara che sorgono dagli alberi (Immagine 7 – 8 - 9). Ma anche oggetti di uso
quotidiano e indumenti. La tradizione disegnata dai bambini Bororo è viva, è rielaborata ed è rappresentata con
semplicità. La concezione dell’essere Bacebo Bororo è mescolata con elementi non tradizionali, occidentali. Come a
dire, sono un “vero Bororo”, ma posso comunque indossare un pantalone con le tasche e la cintura. Mi colpisce però il
totale inutilizzo della struttura scolastica, quella che sorge di fronte la nostra abitazione. I bambini ci dicono che adesso
è chiusa per rispettare il periodo di lutto.

Illustrazione 7: Disegni

Illustrazione 8: Disegno Illustrazione 9: Disegno

Si avvicinano alcune donne. Parliamo con loro, e scopriamo che una di esse è malata perché “beve troppo”. Cirrosi
epatica, almeno così dicono. La cachaça sembra essere il vero male dei Bororo. La donna malata afferma che vuole
andarsene dall’aldeia, che vuole sposare un occidentale. A un tratto arriva un pick-up della FUNAI (Fundação
Nacional do Índio), l’organo ufficiale del governo nato nel 1910 per mano di Candido Rodon, un ufficiale dell'esercito
brasiliano ed esponente Bororo, per proteggere i diritti dei popoli indigeni. Sono in tre, due uomini e una donna.
Scendono dalla vettura, si guardano intorno. Si dirigono verso un albero di mango e ne prendono uno a testa. Noi ci
avviciniamo, attraversando tutta l’aldeia, salutiamo e diamo le nostre credenziali. Nessun onore per noi, ci ignorano
quasi: sanno che domani avrà inizio il funerale e sono qui solo per controllare che tutto stia andando per il verso giusto.
Mi guardo intorno: nell’avvicinarci al minivan della FUNAI siamo giunti in un punto dell’aldeia che fino a quel
momento ci era stato vietato. La donna malata a causa del troppo bere si avvicina. Sembra sconvolta. Appena vede i
funzionari della FUNAI inizia a gridare e a piangere, buttandosi a terra e aggrappandosi alle gambe delle persone
presenti. Alcuni Bororo la aiutano a rialzarsi e la tranquillizzano. Non capisco il motivo di tutto ciò ma immagino sia
legato alla sua malattia. Quello della FUNAI non danno troppo peso all’accaduto: rientrano nel pick-up, ognuno con il
proprio mango, e se ne vanno. Me li ero immaginati più simpatici ma, d’altro canto, il loro arrivo ci spinge a esplorare
quel versante dell’aldeia che avevamo ignorato. Scopriamo che, in effetti, lo spazio del villaggio è molto più ampio di
quello che ci potevamo immaginare e iniziamo a interagire con persone che fino a quel momento non avevamo mai
visto. Mentre torniamo nei pressi del nostro alloggio ci imbattiamo in un altro evento inatteso, decisamente più
pericoloso: sulla soglia di una delle nostre camere (la terza) c’è un serpente. È fermo, immobile, tanto che in un primo
momento pensiamo ad uno scherzo. Quando caccia la lingua biforcuta e alza la testa per controllare i nostri movimenti
ci rendiamo conto che non è così. Non è un serpente molto grande, probabilmente è una comune biscia, ma solo la sera
precedente Marçiano ci aveva messo in guardia da serpenti molto velenosi e non credo sia il caso rischiare. Lo
accompagno fuori dal perimetro della nostra abitazioni con un ramo piuttosto lungo, non senza qualche difficoltà.

La giornata, comunque volge al termine e nonostante la situazione si sia tranquillizzata, c’è qualcosa che mi lascia
perplesso, che mi impedisce di concentrarmi su altri aspetti della ricerca. È forse l’accondiscendenza con la quale ci
hanno trattato oggi i Bororo, quasi come se avessero preso coscienza del fatto che ci dovevano accettare, che mi turba.
Sembra quasi che, pagato il “biglietto”, adesso abbiamo diritto ad attraversare l’aldeia, a scoprire i suoi segreti. Come
sostiene Massimo, il dono è solo la dichiarazione visibile e drammatica della separazione tra noi e loro: non si tratta di
scambio, che prevede reciprocità, ma di prezzo, di una nostra unidirezionalità nel donare a chi sa che la nostra
esperienza, una volta tornati a Roma, in occidente, frutterà molto e a loro niente (Canevacci 2007, 96). Continuo a non
capire, però, per quale motivo un generatore da 3.500 non è sufficiente, mentre con cinquanta reais tutto è stato risolto.
Perdo completamente di vista i miei impegni originari – e posizionati – rispetto all’analisi etnomusicologica e cerco di
concentrarmi – riposizionarmi – su quella seconda richiesta di denaro, motivata dal fatto che assistere al funerale
comporta un’ulteriore spesa. Nel frattempo però prendiamo confidenza con un ulteriore aspetto della cultura Bororo:
l’aleatoria concezione del tempo. Nei giorni passati, infatti, ci era stato detto che nel pomeriggio del nostro quarto
giorno di permanenza sarebbe iniziato il funerale. Quest’occasione ci emozionava, poiché in questo modo avremmo
potuto assistere all’intero secondo giorno di rito, durante il quale sarebbe avvenuta la trasfigurazione del teschio del
defunto in arara, in antenato. D’altro canto scorrono gli ultimi minuti di sole e del rito ancora nessuna traccia. È
evidente che la nostra concezione di “oggi”, “domani”, non combacia con quella dei Bororo. D’altro canto, perché
dovrebbe? Giornata impegnativa anche quest’ultima, comunque, senza più alcun timore ma con grossi interrogativi
aperti.

15/12/07 – Quarto giorno


Ultimo giorno in aldeia. L’appuntamento con l’autista del nostro pick-up è fissato a mezzanotte. Nella calda mattinata
di Garças, durante la colazione, riflettiamo sull’eventualità di rimanere un giorno in più per assistere alla fase principale
del funerale Bororo. Siamo ad un passo dall’assistere a uno dei rituali più affascinanti mai osservati dall’occhio
antropologico, e nessuno vuole rinunciare. Vorremmo spostare i biglietti, intercedere con le agenzie che ci hanno
prenotato i biglietti, ma purtroppo le date del nostro trasferimento sono fissate e non si possono modificare, a causa
anche dell’essere tagliati fuori da ogni linea telefonica. Si rischia di far saltare ogni prenotazione anche quella del
ritorno a Roma. Decidiamo quindi di accontentarci. A malincuore. Nel pomeriggio arrivano nubi gonfie di pioggia,
trascinate da un vento caldo che mi ricorda lo scirocco. Ogni tanto penso a casa, ma senza tanta nostalgia. Arrivano
delle jeep: in una ci sono Sergio, Aivone, l’antropologa amica di Massimo, e la sua assistente. Sono qui per il funerale
e hanno portato una notevole quantità di generi alimentari. Evidentemente anche a loro è stato chiesto un dono per
partecipare. L’altra jeep, invece, è quella di un certo Bordignon, un salesiano che Massimo ha già conosciuto in passato.
È un uomo robusto, sui cinquant’anni, con un po’ di barba e delle mani enormi. Non so perché ma mi balzano agli occhi
quelle. Parla un po’ con Massimo e ci invita all’aldeia di Meruri, che si trova a sei chilometri da quella di Garças. Ci
accompagnerà lui, con il suo pick-up, insieme a Sergio. Noi maschi siamo costretti a sederci dietro, nello spazio vuoto
del furgone riservato al trasporto di materiale. Il viaggio è scomodissimo ma divertente. Piove e dobbiamo coprirci con
buste di plastica nera.

Arriviamo a destinazione e la delusione che leggo nello sguardo dei miei compagni è simile alla mia. L’aldeia di
Meruri, quella gestita dalla missione dei salesiani, somiglia a un sobborgo di una grande città: semplicemente un
insieme di case tutte uguali, affiancate, semplici. Hanno tutte la parabola e sono circondate da un recinto. L’eidetica
delle case conferma quanto letto in precedenza: i salesiani rompono lo spazio circolare dell’aldeia, elemento
fondamentale per la cosmologia Bororo, a favore di una conformazione a “L” del villaggio. Al centro il baito, più simile
ad un deposito che alla casa degli uomini di Garças. A sinistra abbiamo la missione vera e propria. Nel suo cortile
troneggia un crocifisso alto 5-6 metri. Certe cose, penso, non basta leggerle sui libri: bisogna vederle con i propri occhi.
Bordignon sembra molto felice della nostra presenza (e forse lo è veramente) e ci invita a visitare la struttura.
Frettolosamente però. Sa che tra poco inizieranno i rituali del funerale a Garças e che non abbiamo alcuna intenzione di
perderceli. Ci conduce alla cappella, il cuore dell’intera missione. Il suo lato spirituale. Ed è qui che vedo una delle cose
più assurde della mia esistenza: un affresco che riproduce un uomo con un pariko Bororo che, dalla posizione delle
braccia e delle gambe sospese dal terreno, richiama la posizione crocifissa di Cristo. Tutto ciò con uno sfondo simile al
paradiso terrestre biblico, con un ragazzo e una ragazza (Adamo ed Eva?) che passeggiano, arara e, sulla sinistra, un
crocifisso con al suo fianco la scritta in lingua bororo “Mato itae – imode taro rakado”. Miti fondatori a confronto,
mescolati, ma sigillati da un unico simbolo. Sempre quello. In maniera un po’ ipocrita mi faccio il segno della croce.
Non bado agli altri se lo fanno o meno. Questo posto mi ricorda una chiesa cristiano-cattolica. È un gesto istintivo,
retaggio di un sentimento religioso passato che ha perso ogni tipo di mordente su di me, ma che mi obbliga ad ogni
modo a rispettare un luogo sacro. Se entrassi in una moschea, mi toglierei le scarpe e mi inginocchierei, pur non
essendo musulmano. È una questione di rispetto, credo.

Il tour di Bordignon continua nella biblioteca e ci illustra un’altra prospettiva di quello che è il potere salesiano in Mato
Grosso. Qui troviamo, infatti, una collezione incredibile di libri, riviste, tesi di laurea, nastri audio e video, CD e DVD
sui Bororo. Bordignon ci spiega che adesso stanno portando tutto il materiale in digitale. Hanno la tecnologia per farlo.
Hanno computer, masterizzatori professionali, videocamere, scanner. Anche i Bororo possono accedere a queste
tecnologie ma a determinate condizioni, sulle quali Bordignon non è molto chiaro a proposito. Ci spostiamo in una sala
limitrofa, dove si trova una sorta di magazzino dell’oggettistica Bororo. Armi, strumenti musicali, orpelli, suppellettili:
Bordignon afferra due maracas e inizia a suonare. Ci spiega che la coppia di maracas Bororo è formata da due strumenti
di dimensioni e caratteristiche differenti. Questo perché una è destinata a un uso solista e l’altra all’accompagnamento.
Avrei voluto approfondire questo argomento, farmi spiegare la natura di queste differenze e del relativo suono, ma non
c’è tempo. Dobbiamo ancora visitare il museo gestito da Aivone. Forse intendo male le loro intenzioni, ma nel
camminare tra quegli oggetti etichettati, ripuliti e appesi al muro, non posso far altro che pensare a una condanna – e
non a una preservazione – della cultura Bororo. L’unico modo per proteggerla, a mio avviso, è lasciarla vivere nelle sue
evoluzioni, nei suoi mutamenti di itinerari e radici che si intrecciano. Mi viene in mente il camelote ed è così che mi
immagino (ci immaginiamo) la cultura Bororo, libera di mescolare e rielaborare le proprie tradizioni. Qui, a Meruri, i
Bororo vengono convertiti, trasferiti in case accoglienti e misere allo stesso tempo, privati dei loro miti e della loro
cultura, la quale trova spazio solo in un museo. Viene bandito il funerale bororo e, come ha più volte ricordato Kleber,
“acabou o funeral, acabou o Bororo”. Se non si celebra più il funerale non esisteranno più i Bororo. Non è sbagliato
mettere dei bapo appesi a un muro, se non nel momento in cui questo è l’unico spazio che i bapo trovano nella realtà
vissuta. Questa è quello che penso. Forse sbaglio, o forse sono troppo critico, ma Meruri mi dà l’impressione di un
posto dove l’essere Bororo vuol dire affrontare un duro compromesso con la propria identità. Adesso capisco cosa
voleva dire quel ragazzo quando scriveva e declamava “Bacebo Bororo”. Nativo Bororo. Lui si sentiva un “vero”
Bororo e forse il confronto era rispetto a quelli dell’aldeia di Meruri e tutti quei Bororo che accettano il compromesso
delle missioni salesiane.

Prima di andare via approfittiamo di una toilette dignitosa e della cucina della missione. Bordignon ci regala dei libri
relativi alla cultura Bororo scritti da lui (ecco la figura del missionario antropologo) e invita a salire sul pick-up. Dopo
un viaggio simile a quello dell’andata siamo di nuovo a Garças. Quasi come se stessero aspettando proprio noi, appena
arriviamo in aldeia iniziano i canti rituali della fase finale del funerale, mentre Sergio e Paulinho sono già con le
telecamere in mano per riprendere ogni istante del rito. Sono tutti riuniti nella maloca di Josè Carlos, che siede sul
pavimento e fuma una lunga sigaretta e lascia quasi subito la conduzione dei canti a Joaquin Cabeza, proveniente da
un’aldeia limitrofa. Non sappiamo esattamente quale: in questa circostanza gli animi sono inquieti ed è difficile
chiedere informazioni. Quello che però notiamo subito è che la sua voce e le braccia che muovono le maracas creano un
canto diverso da quello che abbiamo ascoltato al nostro arrivo, forte e malinconico allo stesso tempo, e che si avvale del
controcanto femminile. Un lamento, un pianto (choro) più che un vero e proprio elemento di accompagnamento ma che
in ogni caso non trova soluzione di continuità con esso. È un pianto musicale. Le donne, riunite in gruppo, si trovano
alle spalle di Joaquin Cabeza, che canta e suona le maracas rivolto al muro di buriti della maloca, sul quale sono
adagiati tutti gli oggetti che verranno utilizzati nel corso del funerale, tra i quali anche la cesta dove verranno raccolte le
ossa del defunto e i diversi pariko. È la prima volta che riusciamo a vedere questi straordinari diademi che tanto
caratterizzano la cultura Bororo e, nello stesso momento, assistiamo anche alla loro costruzione (Immagine 10). Fuori
dalla maloca, infatti, si trova un anziano intento alla costruzione di un diadema piumato che evidentemente utilizzerà
nei giorni successivi. La cura e la precisione con le quali alterna l’inserimento di piume di diversa misura e colore sopra
il bastoncino di legno flessibile mi cattura: alla base troviamo quelle più piccole, morbide e bianche, sovrastate da un
secondo tipo di colore scuro, notevolmente più lunghe e rigide. Questi due tipi di piume servono da base a quelle che
sono le coloratissime e lunghissime (misurano circa quanto un avambraccio di uomo adulto) piume di arara che, grazie
al loro colore, definiscono l’appartenenza a un clan.
Illustrazione 10: Pariko e Bororo

Dalla maloca di Josè Carlos, Marçiano guida un piccolo corteo verso il baito. Suona l’Ika, il flauto traverso dal suono
greve, ed è accompagnato dal padrasso (il padrino). Il rito si sposta al tumulo: vengono posizionati otto pariko e
altrettante coppie di bapo ai piedi del tumulo e, sempre sotto la guida di Joaquin Cabeza, i rappresentanti dei principali
clan Bororo iniziano a cantare, vestiti con i propri colori e accompagnati sempre dallo choro femminile, di fronte alle
foglie di buriti che coprono la salma ormai decomposta del defunto (Immagine 13). Le donne e i bambini sono
posizionati alle loro spalle, seduti vicino al baito. Sul tumulo adesso è stata messa un’asta costellata di piccole piume
bianche e i marriddo (i cilindri di buriti compressi che prima si trovavano in posizione verticale ai lati del tumulo) sono
stati adagiati a terra. È impressionante la potenza del canto, l’articolazione melodica con lo choro femminile, la potenza
con la quale Joaquin Cabeza, anche attraverso una cinetica diversa dagli altri componenti del gruppo, riesce ad imporre
la sua voce. Vicino al baito sono posizionate delle panche di legno molto semplici per permettere a tutti di ascoltare il
canto, ed è proprio qui che avviene quella che percepisco come una nuova rielaborazione del nostro status di “ospiti”
all’interno dell’aldeia. Paolo si siede sulla panca e scatta un paio di foto, come avevamo fatto tutti fino a quel momento,
quando un ragazzo Bororo si avvicina e gli dice – in maniera piuttosto aggressiva – che non può usare la macchina
fotografica in quella circostanza. E per rendere il suo invito più consistente lancia una palla di fango sulla Nikon del
mio compagno. Al di là del fatto che in quel momento c’erano una mezza dozzina di persone che scattavano foto e
Sergio che filmava con la sua videocamera professionale – e quindi non si capisce perché attaccare solo ed
esclusivamente Paolo –, ma questo episodio rimette in discussione ancora una volta, seppur parzialmente, gli accordi
stabiliti riguardo le nostre possibilità di azione all’interno dell’aldeia. C’eravamo impegnati nell’elargire un secondo
dono e ci era stata assicurata massima tranquillità operativa, eppure a livello individuale c’erano ancora delle falle. La
nostra completa accettazione, rispetto alle micro-dinamiche sociali del villaggio, ancora non era avvenuta. Ad ogni
modo la cerimonia funebre continua, e si sposta all’interno del baito. Ci sistemiamo sugli scalini di pietra che
costeggino il perimetro della struttura scambiandoci sguardi emozionati anche se un po’ guardinghi, memori di quello
che è accaduto poco fa. È un momento importantissimo per noi e per i Bororo e vogliamo evitare nuovi momenti di
attrito. Joaquin Cabeza è senza maglietta, a dorso nudo, il che dona al suo pariko un’aria ancora più nobile. Canta e
suona i bapo prima in piedi e poi seduto (Immagine 11), di fronte al palo centrale del baito – centro geografico e
cosmologico dell’aldeia – ai piedi del quale sono sistemati sempre gli oggetti che verranno utilizzati nel corso del
funerale. La sua voce è sempre possente, nonostante le tre ore passate a cantare senza sosta. Sergio e il giovane video
maker Bororo non hanno perso un solo istante dei canti, e anche se la presenza dei faretti è indiscutibilmente invasiva
nessuno sembra far caso a loro. Josè Carlos, Marçiano e il suo padrasso siedono dietro Joaquin Cabeza, insieme a tutti
coloro che prima erano stati intorno al tumulo. Noto anche la presenza di un ragazzo che suona il panna, un flauto
composto da tre zucche essiccate. Le donne, invece, sono sistemate vicino all’uscita del baito, obliquamente rispetto ad
essa e al palo centrale. Tutti gli altri Bororo – compreso noi, Aivone e la sua assistente – sono sistemati sullo scalone
che costeggia il baito, o seduti a terra.
Illustrazione 11: Baito

Improvvisamente il canto si interrompe e tutti si alzano. “Le donne devono nascondersi – ci dicono – stanno arrivando
gli aijè.” Ci avevano già parlato di questa eventualità. Tecnicamente gli aijè – un termine che per i bororo ha diversi
significati, come “spirito terrifico”, “mostro”, “essere che popola il fango degli acquitrini”, “strumento di legno”
“momento rituale” – potrebbero essere definiti degli strumenti musicali, appartenenti alla famiglia degli aerofoni, ma mi
piace più definirli “strumenti sonori”. In buona sintesi sono semplicemente dei rombi di legno molto affusolati, legati a
una cordicella. Il movimento rotatorio nell’aria di questo legno, che può avvenire attraverso un’asta flessibile o il
semplice movimento del braccio, permette all’aije di muoversi circolarmente nell’aria. L’unico vero dettaglio consiste
nel lasciare la possibilità al pezzo di legno di girare non solo intorno all’asta (o al braccio) che lo sorregge, ma anche su
se stesso. Il suono prodotto è difficile da descrivere, simile a quello delle pale di un elicottero ascoltate al rallentatore.
Le dimensioni del legno influiscono sulla tonalità del suono – un aijè più grande (30-40 cm) produrrà un suono greve,
profondo; uno piccolo (10-20 cm), invece, darà vita ad un suono sottile, acuto – mente la velocità con la quale viene
fatto roteare determina il ritmo. Quello che però caratterizza l’aijè, più che il corollario di suoni che può creare, è il
significato socio-culturale che detiene all’interno della società Bororo. L’aijè, infatti, rappresenta lo spirito malvagio
che viene dal fiume, laddove sono seppellite le ossa dei defunti, e che divorava i corpi dei Bororo prima del funerale –
trovo singolare che degli spiriti malvagi provengano proprio dalle acque dove sono state tumulate le ossa degli stessi
antenati che si sono trasfigurati in arara ed hanno dato la possibilità ai propri figli, fratelli, amici di rientrare, in futuro,
nell’infinito circolo dell’apparato cosmologico bororo. Solo attraverso il coraggio degli adolescenti – che incorporano e
combattono questi spiriti, dimostrando il valore necessario per acquisire lo status adulto – è possibile salvare il
villaggio. In realtà gli aijè vengono costruiti stesso dagli adolescenti e dagli uomini adulti in riva al fiume, lontano da
occhi indiscreti, proprio perché donne e bambini non devono scoprire il segreto che si cela dietro il mito degli spiriti
terrifici che si aggirano di notte, nel villaggio, a ridosso di un funerale. Di notte i ragazzi roteano i pezzi di legno
nell’area, producendo il terribile suono, gridando e lanciando palle di fango sui tetti delle maloca, e donne e bambini
sanno che non posso assolutamente entrare in contatto con questi che credono spiriti terrifici, pena l’annientamento.

Le ragazze del nostro gruppo vengono invitate ad allontanarsi, a rinchiudesi negli alloggi. Lì, ci dicono, saranno al
sicuro. Noi possiamo rimanere nel baito ma usciamo all’aria aperta per ascoltare meglio il suono degli aijè. Giuseppe si
allontana: vuole camminare insieme ai ragazzi e registrare il rombo degli “spiriti terrifici” da vicino. Chiediamo a Josè
Carlos cosa sarebbe successo di lì a poco e lui ci risponde semplicemente: ”fate attenzione, arrivano gli aijè, gli spiriti”.
Questo è il punto. Non ha detto “sta per iniziare il rituale degli aijè” ma ci ha risposto come se lui ci credesse veramente
agli spiriti terrifici, o meglio, come se dovesse difendere anche con noi il segreto che si nasconde dietro di essi, che non
sono nient’altro che pezzi di legno che girano. Non credo sia così semplice. Non lo è mai e soprattutto non lo è stato
mai in questi giorni. La risposta di Josè Carlos può essere interpretata in mille modi diversi e non mi sento di poter
azzardare nulla, in questo momento. Il suono degli aijè inizia a farsi sentire. È intermittente, in diverse tonalità, ed è
accompagnato da forti grida. I ragazzi sono all’altezza dell’abitazione dove sono rinchiuse le nostre amiche. Sanno che
sono lì dentro e credo che si stiano divertendo molto a farle spaventare. Quando iniziano a dirigersi verso il baito, però,
capiamo che è meglio rientrare: il suono degli aijè e le grida diventano sempre più forti e il fango arriva sempre più
vicino a noi. Sul tetto in lamiera del baito rimbombano le pietre e i pezzi di legno mentre le pareti di buriti lasciano
passare il terriccio delle manate di fango gettate con forza. Il rumore è assordante. Ad un tratto mi rendo conto di un
particolare molto strano: Aivone e la sua assistente sono con noi nel baito. Sono le uniche donne presenti, ma nessuno
ha protestato. Anche sotto preghiera, le donne del nostro gruppo hanno dovuto raggiungere l’abitazione
inderogabilmente mentre, evidentemente, per loro c’era stato un trattamento diverso.

Gli aijè si allontanano e noi possiamo finalmente uscire dal baito. Una delle sue pareti è stata danneggiata dal lancio del
fango. Anche Giuseppe ritorna al baito, emozionatissimo per l’esperienza vissuta. Inizialmente eravamo scettici
riguardo la disponibilità dei ragazzi di farsi registrare mentre suonavano gli aijè ma Giuseppe ci assicura che non ci
sono stati problemi. Ci dirigiamo verso la nostra abitazione, per avvisare le ragazze che possono finalmente uscire, ma
le troviamo già in veranda, con la porta aperta. Sono le 23.00 e tra un’ora e mezza abbiamo appuntamento con il
pulmino che ci riporterà a Goiânia. Siamo tentati di rimanere, ma sappiamo che non possiamo. Il pick-up arriva
puntuale: l’autista ci saluta e ci invita a salire. Il viaggio è lungo e alle undici di mattina del giorno dopo da Goiânia
parte il nostro aereo per San Paolo. Gli aijè hanno costretto tutti i bambini nelle loro maloca, non possiamo salutarli.
Marçiano ed Emilio invece ci vengono a salutare. Chiedono i nostri numeri di telefono e le nostre e-mail, come se
potessero usare tutti i giorni telefono e computer. Non ci chiameranno mai, già lo sappiamo. Ma per loro questo gesto
ha un significato. È come se volessero in qualche modo confermare il rapporto tra noi e loro. Forse anche solo per una
loro convenienza. Prima di entrare sul furgone salutiamo calorosamente Marçiano, il quale ci chiede – per un presunto
dono extra in quanto persona che sta vivendo un lutto – un ulteriore dono. In reais. È una questione politica, qui in
Mato Grosso. Noi siamo bianchi e occidentali, nulla cambierà in nostro status. Noi interpretiamo loro e lo stesso
avviene per noi: quello che immagino è che questo processo interpretativo avvenga attraverso un prospettiva prismica,
sfaccettata, non universale. Il nostro essere bianchi ed occidentali può rappresentare solo una delle interpretazioni che
un Bororo può fare di noi. Questa è una speranza, più che una certezza. Il tempo che abbiamo trascorso in aldeia non ci
ha dato la possibilità di confermare la natura e le dinamiche di questo processo. È qui che si capisce quando si è limitati
di fronte alla complessità della ricerca, ma quanto si è fortunati ad aver avuto la possibilità di comprendere tutto ciò.

Il ritorno in Italia
Tornati a São Paolo, abbiamo avuto modo di discutere su quanto accaduto. Molto tempo. Così come abbiamo avuto
ancor più tempo una volta tornati in Italia. Credo nella possibilità che siamo stati “usati”, che il nostro dono sia stato un
mezzo per creare un nuovo vincolo tra salesiani e Bororo. Ne abbiamo discusso, abbiamo messo le nostre relazioni a
confronto. Un generatore che ci viene consigliato di acquistare, i salesiani che vincolano i Bororo con la promessa di
una vita (terrena e ultra terrena) migliore, l’ulteriore richiesta di un dono per assistere al funerale: sono tutti elementi
che si legano, che si interpolano attraverso un percorso molto sottile che, probabilmente, ci vede attori inconsapevoli di
un’ulteriore stadio del complicato rapporto politico-economico-religioso che ancora oggi si consuma in Mato Grosso.
Ovviamente il punto principale è che il generatore di energia elettrica era l’ultima cosa che i Bororo potessero
desiderare. Sapevano che non l’avrebbero potuto utilizzare senza pagarne le conseguenze. Forse siamo stati ingenui,
pensavamo che saremmo arrivati con il generatore in braccio e avremmo regalato l’energia elettrica all’aldeia di Garças
come dei moderni Prometeo. E dove avrebbero preso il combustibile per farlo funzionare? Chi avrebbe attrezzato
l’impianto nell’intera aldeia? Ho paura di concentrarmi su dei dettagli fuorvianti, ma se i tasselli del mosaico sono solo
questi – il che può essere o non essere così – la soluzione è semplice. Il generatore serve solo a creare un ulteriore
vincolo di dipendenza tra l’aldeia di Garças e quella di Meruri. Tra i Bororo e i salesiani. Volete la luce, fate come
diciamo noi. Appendete i vostri pariko ai chiodi e seppellite i vostri morti una sola volta, in un feretro e sotto una croce.
Mi sembra troppo banale ma forse è così. Non ne avremo mai la certezza, purtroppo. D’altro canto Kleber ci scrive
delle e-mail di tanto in tanto. Ci dice che, a distanza di diversi mesi, il generatore è fermo, non funzionante, nella casa di
Josè Carlos che, giustamente, non sa che farsene.

Tutto ciò è stato spunto di ampia riflessione. Il 5 marzo 2008, presso l’aula Magna della facoltà di Scienze della
Comunicazione (La Sapienza), è stato presentato il seminario dal titolo “FRAMMENTI ETNOGRAFICI: esperienze
mix-mediali di studenti presso un villaggio Bororo (Mato Grosso, Brasile)”. Tra maggio e giugno dello stesso anno
sono iniziate le lezioni e, proprio sulla base delle esperienze vissute, ho scelto di occuparmi del tema “Etnografia ed
Emotività”. Ovvero dell’importanza dell’apporto soggettivo del ricercatore all’interno della ricerca etnografica, di come
il bagaglio emotivo dell’etnografo debba essere valorizzato piuttosto che mortificato nell’illusione di raggiungere il
miraggio della completa oggettività. Forse le mie conclusioni a proposito di una possibile manipolazione rispetto al
nostro dono non corrispondono a verità o forse ne può essere un lato, sempre se siamo disposti ad accettare la
possibilità che la “verità” non sia un concetto monodimensionale. In ogni caso, però, rappresentano la chiave di volta
attraverso la quale può essere letto il mio passaggio da una fase di primo posizionamento (durante la quale mi sentivo
forte delle nozioni acquisite e del mio ruolo all’interno del gruppo) a una di spaesamento (che mi ha visto intimorito di
fronte a processi sconosciuti e dubbioso nei confronti di qualsiasi cosa), attraverso la quale mi sono riposizionato in
maniera critica, sia nei confronti di me stesso che delle dinamiche che mi circondavano.

I miei ringraziamenti vanno a Massimo Canevacci, prof. di Antropologia Culturale della cattedra di Scienze della
comunicazione (La Sapienza Università di Roma), all’intero gruppo di ricerca Kuoiwo e a tutti gli amici e i
collaboratori della cattedra. Un particolare ringraziamento, però, vorrei esprimere nei confronti dei compagni di viaggio
Giuseppe Bilardi, Maria Elena Indelicato e Paolo Sutera per il prezioso giudizio che hanno espresso nella revisione del
seguente saggio e per avermi agevolato nel reperire materiale fotografico.

Bibliografia

Bordignon M. E. 1986. Os Bororos na Història do Centro Oeste Brasileiro 1716-1986, Grafica e Editoria Cedro,
Campo Grande, Brasile.
Canevacci M. 2007. La linea di polvere, Meltemi, Roma.
Canevacci M. 2004. Sincretismi. Una esplorazione sulle ibridazioni culturali, Costa&Nolan, Milano.
Fabietti U. 2001. Storia dell’Antropologia, Zanichelli, Bologna.
Lévi-Strauss C. 2004. Tristi Tropici. L’avventura dell’antropologo, Il Saggiatore, Milano

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