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c’è detta estensione se non come colorata. Si ha, dunque, che solo
per quello che dipende da me la presentazione visiva diventa com-
posta, in quanto, cioè, io pensi a suoi elementi costitutivi (appunto
l’estensione superficiale e il colore).
Ora, se chiudo gli occhi, posso ben ricordare la presentazione del-
la mela che mi era presente un istante prima che li chiudessi. Tale
ricordo è costituito non già da un’immagine sensibile, ma, come
dirò, “pura”, pura nel senso che detta immagine si pone come una
copia illanguidita, come una riproduzione, più o meno simile, della
presentazione predetta e che, a differenza di questa, che m’appare
data, da me patita, viene del tutto dalla mia mente. Ora, a tale im-
magine pura posso assegnare, da un lato, il valore di un ricordo, os-
sia, appunto, di essere un’imma-gine che riproduce una presenta-
zione passata del corpo considerato ; dall’altro lato, il valore di una
“anticipazione”, se si vuole, di una prefigurazione della stessa pre-
sentazione considerata. In altri termini, ho o posso ben avere l’esi-
genza che quella immagine pura costituisca un’an-ticipazione, nel
senso che essa debba trovare corrispondenza, se io apra nuova-
mente gli occhi, in una futura presentazione della mela stessa. E, in-
fatti, può ben accadere che, se riapra gli occhi, mi si presenti di
nuovo una presentazione della mela identica a quella che avevo
avuta prima di chiuderli e che corrisponde all’immagine pura che,
poco fa, ritenevo costituire un’anticipazione di quella presentazione
stessa. Si intenda, dunque, per “anticipazione”, ogni immagine pura
od ogni serie di immagini pure di cui si reputi di sapere come otte-
nere corrispondenti immagini empiriche. Ad esempio, sto tenendo
sospeso in aria un certo corpo. Ebbene, posso darmi immagini pure,
secondo le quali mi prefiguro la caduta di esso sul pavimento già
sapendo che, se mollerò la presa, dette immagini pure troveranno
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“due” parti di uno medesimo (ossia di quello mio), per cui posso
ben affermare che tali corpi o tali parti non si offrono affatto in se
stessi e da se stessi alla mia conoscenza. Potrò, anzi, anche qui so-
stenere, che solo in quanto la mia mente assegni ad esso determi-
nate forme singolari, il sentire anzidetto potrebbe essere ritenuto
manifestare un contatto tra il mio e l’altro corpo (o tra due parti del
primo). Solo grazie a ciò quel sentire diventa sensazione tattile e,
più esattamente, diventa “presentazione (tattile)” dell’uno e dell’al-
tro dei corpi (o delle parti) considerati. Chiamo, infatti, “presenta-
zione tattile” una sensazione tattile in quanto entri come parte em-
pirica nell’idea in atto di un determinato corpo. In altre parole, il
consistere delle due presentazioni, che vengono poste in relazione a
una sensazione tattile (grazie all’assegnazione a questa di idee), è
il medesimo, ossia quello della sensazione tattile stessa; quest’ulti-
ma, tuttavia, diventa presentazione dell’uno o dell’altro corpo, se-
condo che sia presa particolarmente quale parte empirica dell’idea
del primo o del secondo. Insomma, nemmeno tattilmente si può ri-
tenere che le presentazioni dei corpi siano date e, dunque, che lo
siano i corpi medesimi.
Per questo posso ben sostenere che l’interrogativo di fondo al
quale si riduce il “problema della conoscenza” può essere così
espresso: perché esigiamo che i corpi siano cose, ossia esistenze in
sé, sebbene si risolvano sempre in nostre idee, ossia in qualcosa
che ci appartiene, per cui non possono in alcun modo essere indi-
pendenti dalla conoscenza che ne abbiamo?
Occorre ora considerare, proprio in relazione a ciò, che, circa i
corpi stessi, nasce anche la seguente difficoltà: non si può separa-
re la loro esistenza dalla conoscenza che ne abbiamo, perché l’una
cosa è la stessa che l’altra. Infatti, non potremmo mostrare che essi
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mentate, dei corpi (ossia quelle che si hanno quando i nostri sensi
sono attivi) sono soggettive, ossia proprie del singolo soggetto, poi-
ché appartengono soltanto a lui. Si riconoscerà, perciò, che la filoso-
fia deve comunque tener fermo, senza mai contraddirlo, il principio
secondo cui le percezioni sono soggettive. Tale principio è inoppu-
gnabile e ognuno ne riconosce la validità appena lo intende. La filo-
sofia moderna, da Cartesio a Berkeley, ha portato a consapevolezza
detto principio. Schopenhauer iniziava la sua opera principale con
questa affermazione : <<Il mondo è la mia rappresentazione>>.
Giovanni Gentile, a sua volta, diceva : <<Qualunque sforzo si faccia
per pensare o immaginare altre cose o coscienze, al di là della no-
stra coscienza, quelle cose o coscienze rimangono dentro di essa,
per ciò, appunto, che sono poste da noi, sia pure come esterne a
noi>> (Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sanso-
ni, 1939, p.32) . Quelle cose o coscienze, insomma, costituirebbero
comunque termini del nostro personale pensiero, cioè quello di cui
avremmo coscienza. Del resto, se niente è più certo del fatto che
nessuno può uscire fuori di sé per raggiungere cose o coscienze che
siano fuori dalla sua coscienza, vuol dire che il suo ritenere che del-
le cose o coscienze ne siano fuori è, in effetti, il frutto di una sua
esigenza, di un suo mero pretendere.
Si deve accettare, poi, un secondo insegnamento della filosofia
moderna, ossia quello stabilito da J. Locke, per il quale nessuna no-
stra conoscenza, circa i corpi o ciò che li concerne, è innata, anche
se la mente ha una disposizione innata alla conoscenza, disposizio-
ne, tuttavia, che può manifestarsi solo condizionatamente rispetto a
qualcosa che sia dato alla mente stessa. Negare tale insegnamento,
ossia che in quanto nessuna conoscenza può essere innata per cui,
onde la mente possa concepire oggetti, qualcosa deve essere dato
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della mia mano, che ritengo entri nel contatto (ed è, invero, in rela-
zione a ciò che assegno l’estensione anche alla parte dell’altro cor-
po che entra nel contatto stesso). Similmente dicasi della localizza-
zione della predetta sensazione. Così, senza l’idea di quella mia
parte, come determinatamente estesa e localizzata, neanche la
sensazione tattile potrebbe avere un’estensione e una localizzazio-
ne determinate. Ne consegue, allora, che, togliendo ciò che le deri-
va da me, ossia di segnare un contatto, di essere localizzata ed
estesa, la sensazione tattile si ridurrebbe al mero sentire inesteso e
non localizzato, che è senza dubbio presente in essa, ossia ad esse-
re, come dirò, ”sensazione pura”. Cose simili si possono dire anche
circa gli altri dati sensibili, ovviamente relativi ai corpi o a qualcosa
che li concerne. Togliendo, così, le idee dei corpi stessi, tali dati si ri-
durrebbero tutti a semplici sentire non localizzati ed inestesi e, in
atto, finirebbero per costituire un sentire unitario, inesteso, non lo-
calizzato e di per se indifferenziato. Ed è, appunto, un simile sentire,
che abbiamo chiamato “senso puro” e che costituirebbe la materia
sensibile data in atto al nostro spirito, quale sua modificazione.
Così, tornando a Kant, se, ad esempio, il qualcosa che, nella perce-
zione visiva in atto, si presenta del singolo corpo (ossia ciò che noi
abbiamo chiamato “presentazione visiva”), è sintesi di materia (per
Kant “impressioni” o “sensazioni”) e di forma (per Kant, le forme
della sensibilità, ossia lo spazio ed il tempo, e le forme dell’intellet-
to, ossia le categorie) del conoscere, occorre chiedersi se l’estensio-
ne e la localizzazione del predetto qualcosa dipendano dalla mate-
ria oppure dalla forma predette. Ebbene, non potremo dire che di-
pendono dalla materia, poiché questa, per se stessa (ossia prima
che ad essa si applichi, come Kant vuole, la forma dello spazio), sa-
rebbe inestesa e non localizzata. D’altra parte, quella estensione e
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la conoscenza dei corpi (o, ciò che per lui è lo stesso, dell’esperien-
za) qualcosa è a priori, cioè indipendente dall’esperienza (e, per
conseguenza, apporto soggettivo), e qualcosa a posteriori, ossia di-
pendente dall’esperienza stessa (e, per conseguenza, apporto og-
gettivo). Se esperienza e conoscenza dei corpi sono la stessa cosa,
non ha senso parlare di conoscenze a priori e di conoscenze a po-
steriori. La conoscenza non può né dipendere né non dipendere dal-
l’esperienza se essa coincide con l’esperienza. Per questo Kant non
ha dimostrato l’esistenza e la consistenza né dell’a priori, né dell’a
posteriori, né, quindi, che i corpi sono esistenze formali, ossia deri-
vanti dalla sintesi di un apporto oggettivo e di un apporto soggetti-
vo. Kant, comunque, tolti i corpi come “noumeni” (come cose in sé),
non ha avvertito che si potevano rendere possibili i “fenomeni” (i
corpi come esistenze formali, ossia quali nostri meri oggetti), posto
che l’apporto oggettivo consista in una materia sensibile inestesa,
solo grazie all’appli-carsi a quest’ultima di forme singolari (ovvia-
mente, dovendosi accettare l’insegnamento di Locke, non innate).
Kant, sicuramente, non ha parlato di tali forme singolari, in quanto
supponeva che la stessa impressione (o sensazione) fosse di per sé
segno dell’esistenza singolare. Così, non avendo compreso che, in
verità, i corpi non esistono come “noumeni” (come cose in sé), non
ha avvertito che si potevano rendere possibili i “fenomeni” (i corpi
come esistenze formali), posto che l’apporto oggettivo consista in
una materia sensibile inestesa, solo grazie all’applicarsi a quest’ulti-
ma, come abbiamo detto, di forme singolari, che chiameremo “idee
formali potenzali”. Del resto, come poter non riconoscere che, per
ciascuna presentazione che ci sia presente in atto, vi sia una forma
singolare ad averne rese possibili la particolare estensione, la parti-
colare localizzazione e, in primo luogo, il riferimento ad un determi-
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venzioni che utilizziamo per gli scopi più diversi. Ora, si supponga
d’avere dinanzi tutte le predette scoperte e invenzioni e di doverle
disporre secondo l’ordine in cui si sarebbero verificate nel tempo :
sono certo che tutti concorderemmo nel porle secondo uno stesso
ordine, poiché dovremmo riconoscere che ciascuna si pone dopo le
sue antecedenti e prima delle sue susseguenti.
Ora, l'importanza della scoperta che ogni nostro concetto si
lega ad altri secondo rapporti di antecedenza o di susseguenza an-
drebbe del tutto perduta se non approfondissimo il significato di tali
relazioni e non traessimo quello che criticamente consegue.
Ricordo, in primo luogo, che un concetto implica, cioè coinvolge,
impegna, più o meno manifestamente, ogni suo antecedente pro-
prio per il fatto di esserne condizionato. Penso che, riprendendo
esempi già fatti, sarò più chiaro ed efficace. Il concetto di triangolo
implica, tra altri, quello di retta, cosi come quello di centauro impli-
ca, tra altri, quello di uomo. Perché? In tali casi la risposta appare
evidente: quei concetti (rispettivamente “triangolo” e “centauro”) si
costituiscono per una sintesi di concetti antecedenti, per cui non po-
tremo non ritrovare nei primi i secondi. Abbiamo notato che il con-
cepimento di questa o quella specie di microbi implica il microsco-
pio. Qui il rapporto di condizionamento si rivela col fatto che noi, in
alcun modo, potremmo osservare dei microbi se non grazie al mi-
croscopio. Un fanciullo, tuttavia, potrebbe non sapere che, ad esem-
pio, per ottenere il vetro è necessario il fuoco; non resta men vero,
per altro, che, ripartendo dai contenuti immediatamente dati dalla
natura, egli potrebbe ottenere del vetro solo valendosi del fuoco. Gli
esempi di quest'ultimo genere, cioè di concezioni che, in apparenza,
non si legano alle loro antecedenti, sono moltissimi. Basterà consi-
derare gli apparecchi o le macchine che usiamo quotidianamente
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farlo la filosofia?
E’ evidente che la filosofia, per costituirsi come pensiero fondati-
vo, non potrebbe stare che “prima” e non “dopo” le conoscenze
speciali delle diverse scienze, ossia come conoscenza che mostra il
fondamento delle altre e rende esplicita la loro metodologia. La filo-
sofia invece, sembra porsi tuttora dopo le conoscenze speciali pre-
dette, per cui, così facendo, non potrà mai aggiungere qualcosa di
distinto e di valido a ciò che con quelle è stato o verrà raggiunto.
Così, poiché il sapere scientifico appare essere l’unico munito di
quelle garanzie e modalità di controllo che caratterizzano quella che
chiamiamo conoscenza, il discorso filosofico, ponendosi dopo, non
potrà mai andare oltre le determinazioni della scienza, se non come
un discorso caratterizzato da tratti più immaginari che critici. Per
questo il sapere filosofico potrebbe avere senso e valore solo poten-
do costituirsi come un sapere “critico”, cioè come un sapere sul sa-
pere scientifico, ossia solo essendo capace di stabilire di quest’ulti-
mo le condizioni di possibilità e il valore. Ma ciò, in quale esatto sen-
so? Conviene qui ricordare F. Bacone, che ha introdotto la nozione di
“filosofia prima”, quale <<scienza universale, che sia madre di tut-
te le altre e costituisca, nel progresso delle dottrine, la parte della
via comune prima che le vie si separino e disgiungano>> (De digni-
tate et augmentis scientiarum, III, 1). . Ebbene, in che modo vi può
essere “la parte della via comune” alle scienze tutte, prima che le
vie si separino e disgiungano? Cerchiamo di stabilirlo.
E’ facile riconoscere che tutte le scienze presuppongono come già
concepiti i corpi, ché esse nascono, più o meno immediatamente,
prendendoli come loro oggetti. E, muovendo tutte dai corpi stessi, le
scienze naturali si distinguono tra loro solo in quanto ognuna pren-
de, circa essi, come suoi propri, contenuti di studio diversi da quelli
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di ogni altra (questi o quei determinati corpi, questi o quei loro stati
o qualità o variazioni, queste o quelle loro relazioni, ecc.). Così,
data la diversità degli oggetti iniziali di ogni scienza, non sembra af-
fatto esistere la parte di una via comune alle diverse scienze, la
quale segni il progresso di ciascuna, prima che esse si separino e di-
sgiungano. Non è quindi accettabile il concetto proposto da Baco-
ne, il quale, del resto, intendeva la “filosofia prima” come una scien-
za madre che deve trattare non delle intime ragioni del mondo dei
corpi, ma delle forme più generali secondo cui i corpi stessi sono da
noi conosciuti (come il più e il meno, l’unità e la differenza, l’essen-
ziale e il non essenziale, il possibile e l’impos-sibile), come se fosse-
ro dette forme a condizionare la nostra conoscenza dei corpi singo-
lari e non valesse, invece, il contrario. In effetti, presupponendo già
dati i corpi (e la conoscenza discorsiva che li concerne) e tenuto
conto della diversità di ciò che, relativamente ad essi, ognuna pren-
de come suo proprio termine di studio, le scienze nascono e cresco-
no già separate e disgiunte. Così, un concetto di filosofia prima,
quale scienza madre di tutte le altre, potrebbe valere solo se tale
scienza rendesse ragione, in primo luogo, del nostro concepimento
dei corpi. Solo in tal caso, infatti, vi sarebbe una via che, avendo
condotto al nostro concepimento dei corpi medesimi, tutte le scien-
ze richiederebbero che fosse già stata percorsa, potendo, poi, ognu-
na, scegliere il suo particolare oggetto. Questo vuol dire che la
scienza che determinasse tale via sarebbe possibile solo se i corpi
non costituissero, come appare, le nostre concezioni iniziali, ma
concezioni susseguenti rispetto ad altre, ossia se i corpi stessi, per
come si hanno nella percezione, si ponessero a un grado piuttosto
avanzato del progresso conoscitivo. E, in tal caso, ovviamente, i cor-
pi non sarebbero dati, non si offrirebbero in se stessi e da se stessi
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