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Sulla sola possibile soluzione del


problema della conoscenza.
(Erminio Rizzi)

Conviene chiedersi, innanzi tutto, che cos’è, in che cosa consiste


un corpo nell’atto stesso in cui lo percepiamo. Considererò, ad
esempio, quella mela che, oltre ad altri corpi, mi sta dinanzi. Mi ri-
ferirò, in particolare, alla percezione visiva, ma si intenda che quan-
to dirò e concluderò vale anche per la percezione tattile. Ora, direi
di vedere la mela, ma, in effetti, il dato visivo ad essa relativo non
presenta l’unità della mela stessa, ché di quest’ultima v’è una parte
che vedo e una parte che, in atto, non vedo. Non potrò negare, cioè,
che quello che potrei lecitamente ritenere dato circa la mela, non
esaurisce affatto la consistenza di quest’ultima. In altre parole, la
mela mi si presenta limitatamente a quella porzione della sua su-
perficie esterna rivolta verso di me, ossia a quello che di essa, at-
tualmente e strettamente, vedo e che mi si pone come un’immagi-
ne sensibile, concreta. Tale immagine chiamo “presentazione
visiva”. Potrò dunque ritenere, quale apporto oggettivo, ossia a me
dato, da me patito, solo tale presentazione e non anche quello che,
al di là di essa, ho l’esigenza che completi la mela, ossia quella par-
te di quest’ultima che in atto non vedo. Occorre anche osservare
che la presentazione visiva, benché io distingua in essa una certa
estensione (superficiale) e un certo colore, è, in se medesima, asso-
lutamente unitaria, nel senso che, tra l’altro, si mostra inscindibil-
mente secondo l’una e l’altro di quelli : non c’è colore se non come
espandentesi secondo l’estensione della presentazione stessa e non
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c’è detta estensione se non come colorata. Si ha, dunque, che solo
per quello che dipende da me la presentazione visiva diventa com-
posta, in quanto, cioè, io pensi a suoi elementi costitutivi (appunto
l’estensione superficiale e il colore).
Ora, se chiudo gli occhi, posso ben ricordare la presentazione del-
la mela che mi era presente un istante prima che li chiudessi. Tale
ricordo è costituito non già da un’immagine sensibile, ma, come
dirò, “pura”, pura nel senso che detta immagine si pone come una
copia illanguidita, come una riproduzione, più o meno simile, della
presentazione predetta e che, a differenza di questa, che m’appare
data, da me patita, viene del tutto dalla mia mente. Ora, a tale im-
magine pura posso assegnare, da un lato, il valore di un ricordo, os-
sia, appunto, di essere un’imma-gine che riproduce una presenta-
zione passata del corpo considerato ; dall’altro lato, il valore di una
“anticipazione”, se si vuole, di una prefigurazione della stessa pre-
sentazione considerata. In altri termini, ho o posso ben avere l’esi-
genza che quella immagine pura costituisca un’an-ticipazione, nel
senso che essa debba trovare corrispondenza, se io apra nuova-
mente gli occhi, in una futura presentazione della mela stessa. E, in-
fatti, può ben accadere che, se riapra gli occhi, mi si presenti di
nuovo una presentazione della mela identica a quella che avevo
avuta prima di chiuderli e che corrisponde all’immagine pura che,
poco fa, ritenevo costituire un’anticipazione di quella presentazione
stessa. Si intenda, dunque, per “anticipazione”, ogni immagine pura
od ogni serie di immagini pure di cui si reputi di sapere come otte-
nere corrispondenti immagini empiriche. Ad esempio, sto tenendo
sospeso in aria un certo corpo. Ebbene, posso darmi immagini pure,
secondo le quali mi prefiguro la caduta di esso sul pavimento già
sapendo che, se mollerò la presa, dette immagini pure troveranno
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corrispondenza in future presentazioni.


Occorre ora considerare particolarmente il fatto che della mela,
come “oggetto”, ossia come termine di una mia conoscenza in atto,
c’è la parte che non vedo. E detta parte che non vedo in che senso
e in che modo mi è presente? Da che cosa è costituita? Essa si co-
stituisce, più o meno esplicitamente e determinatamente, di imma-
gini pure aventi il valore di anticipazioni, ossia, come ho detto, di
prefigurazioni di future presentazioni della mela, in particolare di
quelle secondo cui ritengo che quest’ultima si concluda (o possa
concludersi) nella sua consistenza estensiva, al di là della presenta-
zione in atto. Tale parte della mela, che, in atto, non vedo, ma che
mi prefiguro (o posso comunque prefigurarmi), chiamo “parte antici-
patrice”. La mela, dunque, come oggetto, come termine della mia
conoscenza in atto, consiste dell’unità di una “parte empirica” (la
presentazione), ben determinata nella sua consistenza, e di una
parte anticipatrice, più o meno esattamente ed esplicitamente de-
terminata. Posso ben dire, quindi, che la mela mi si presenta come
“idea”, ossia che, in atto, percepisco (visivamente) l’idea singolare
della mela stessa, quale unità delle due parti predette (tutto ciò
vale, analogamente, per ogni corpo, compreso quello in cui mi rico-
nosco).
E’ importante rilevare, ora, che, seguendo quello che chiamo
“atteggiamento naturale”, noi consideriamo ogni corpo, al tempo
stesso, sia come “oggetto” sia come “cosa”: come oggetto, in quan-
to lo riteniamo termine di una nostra conoscenza in atto, che si con-
trappone a noi quali soggetti del conoscere stesso ; come cosa, in
quanto lo riteniamo permanente e, pertanto, esistente in sé, dotato
di un’esistenza autonoma, indipendente dal nostro conoscerla. In al-
tre parole, ho l’esigenza che l’idea della mela abbia un valore che
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chiamo “oggettivo”, secondo il quale essa si porrebbe sì come mio


oggetto, ma, al tempo stesso, salvo quanto vedremo, avrebbe come
controparte una “cosa” (la mela stessa come tale). In conseguenza
del predetto valore oggettivo, ritengo che la parte empirica dell’idea
(la presentazione visiva) segni la presenza della mela come cosa e
che la parte anticipatrice, più o meno determinata ed esplicita, pre-
figuri, più o meno esattamente, della cosa medesima, la consisten-
za estensiva che va al di là di detta presentazione. Ritengo, infatti,
che tale parte, che attualmente non vedo, esista, in quanto sono
certo che le considerate immagini pure costituiscono
“anticipazioni”, cioè che sono tali da trovare o da poter trovare cor-
rispondenza, più o meno esatta, in presentazioni che di detta parte
avrò o potrò avere in futuri momenti. In verità, poter constatare che
le predette immagini pure troveranno corrispondenza in future im-
magini empiriche della parte che in atto non vedo (e, com’è ovvio, il
discorso vale, analogamente, per quelle che chiameremmo parti in-
terne di un dato corpo, come, ad esempio, il torso di una mela) non
prova affatto che detta parte vi sia nell’atto in cui, grazie alla parte
anticipatrice, viene prefigurata. In altre parole, il fatto che posso
prefigurarmi validamente che ad una presentazione in atto seguono
o possono seguire altre (quelle, tra l’altro, che otterrei spostandomi
in un certo modo), non prova che esiste la mela come cosa, prova
soltanto che conosco o posso conoscere l’ordine secondo il quale le
presentazioni, che ho l’esigenza di riferire a uno stesso corpo, pos-
sono succedersi, cosicché, essendomi presente una determinata,
posso prefigurarmi, più o meno esattamente, con immagini pure,
quella o quelle che ad essa possono seguire. Certo, siamo convinti
che l’esistenza di un mondo di “cose” costituisca la migliore spiega-
zione dei legami di contiguità, compresenza e successione che ci
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sembrano legare le presentazioni in idee di corpi. Non si può nega-


re, tuttavia, che ogni corpo (od ogni più piccola parte in cui può
scindersi) si risolve sempre in ciò che ci appartiene, ossia in un’i-
dea in atto, come unità di una parte empirica e di una parte antici-
patrice.
Diremo, infatti, con riferimento ai corpi, che le presentazioni (vi-
sive o di altro genere) sono loro immagini “empiriche” (o sensibili, o
sperimentate, o concrete), ossia quelle che di essi percepiamo e
che reputiamo segnino una loro presenza. Quando i corpi non sono
percepiti in atto, possiamo pensare ad essi solo grazie ad immagini
“pure”, ossia quelle che si pongono o possono porsi come copie più
o meno simili di quelle empiriche o come frutto di una capacità ri-
produttiva e immaginativa della nostra mente. Ciò si può ben rileva-
re col riferimento a quella che, circa i corpi stessi, chiamo “cono-
scenza immaginativa” (potremmo parlare anche di una conoscenza
“discorsiva”, ossia dell’uso significativo di successioni di suoni - o,
quanto ai sordomuti, di gesti - per rappresentare, in accordo inter-
soggettivo, in primo luogo, i corpi medesimi e ciò che li concerne).
Diremo che si ha la conoscenza immaginativa “in atto” di un deter-
minato corpo, quando di questo si ha l’idea in atto e, quindi, una
presentazione visiva e/o di altro genere (accenneremo in seguito, in
particolare, a presentazioni tattili). La intendiamo come conoscenza
nel senso che reputiamo che quel corpo medesimo (quale esistenza
in sé, quale controparte dell’idea) ci è presente per come lo è, in
modo assolutamente certo, poiché riteniamo, appunto, che la pre-
sentazione visiva appartenga ad esso e che, quindi, ne mostri la
presenza. Diremo che di un determinato corpo si ha la conoscenza
immaginativa “anticipatrice”, quando questa si risolve in anticipa-
zioni, ossia, come abbiamo detto, in immagini pure che esigiamo
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trovino o possano comunque trovare corrispondenza, più o meno


esatta, in future presentazioni di quel corpo stesso. Ovviamente, si
ha una simile conoscenza anche circa la parte anticipatrice dell’idea
in atto di esso, tuttavia, si intenda, più propriamente, per cono-
scenza anticipatrice circa un dato corpo, quella che si ha quando
questo ci è presente in atto non secondo presentazioni, ma soltanto
grazie ad immagini pure, quali anticipazioni che circa esso ci possia-
mo dare (è il caso, ad esempio, del tavolo che attualmente non
vedo, perché si trova nella stanza accanto a quella in cui mi trovo,
ma del quale posso ben darmi anticipazioni, ossia immagini pure, di
cui so come, spostandomi opportunamente, poter ottenere corri-
spondenti presentazioni). Diremo che si ha la conoscenza immagi-
nativa “regressiva” quando, circa un determinato corpo, abbiamo
dei ricordi. La intendiamo come conoscenza in quanto riteniamo che
le immagini pure, in cui detti ricordi consistono, abbiano trovato cor-
rispondenza in presentazioni passate di quel medesimo corpo.
Risulta, quindi, come abbiamo detto, che ogni corpo si risolve
sempre in immagini empiriche o pure, che ci appartengono, e ciò si-
gnifica che non incontriamo mai corpi come cose, ossia non trovia-
mo mai nulla di essi che ci sia dato e che vada al di là delle nostre
idee, ossia che li concerna come esistenze, indipendentemente dal
nostro averli in atto come oggetti. Si può validamente sostenere,
pertanto, che il valore oggettivo, che abbiamo l’esigenza di asse-
gnare alle nostre idee in atto, può essere o “reale”, nel caso che
esse avessero davvero come controparti cose, oppure “formale” (se
si vuole, “mentale”), nel caso che i corpi si risolvessero nelle idee
stesse, cioè che fossero nostri meri oggetti, soltanto da noi pensati
e ritenuti essere cose e, in tal senso, “esistenze formali”. Ebbene,
chiediamoci: il valore oggettivo delle idee è reale o formale?
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Possiamo già osservare che, se detto valore fosse reale, do-


vremmo poter sostenere che ciò che, in particolare, si presenta alla
vista ed al tatto, consiste in presenze di corpi i quali, in tal caso, si
offrirebbero in se stessi e da se stessi alla nostra conoscenza. Ma
ciò non è affatto sostenibile. Consideriamo, infatti, quello che, alme-
no immediatamente, potremmo riconoscere come apporto oggetti-
vo visivo, come ciò che si presenta alla nostra vista. Occorre subito
osservare che oltre alla presentazione del libro che, ammettiamolo,
state leggendo, voi avrete dinanzi, probabilmente, anche quella del
tavolo su cui esso poggia e, comunque, quelle di altri corpi (compre-
so quello in cui vi riconoscete), più o meno vicini o lontani. Così, non
potrete dire che v’è data la presentazione del libro e non ogni altra
che vi sia presente in atto, ma che, invero, vi sono date l’una e le al-
tre unitariamente. Se chiudete gli occhi, non scompare soltanto la
presentazione del libro, ma anche quella di ogni altro corpo che rite-
nevate presente, ossia scompare l’insieme dell’una e dell’altra; se
riaprite gli occhi (e nulla si sia mosso e non siano variate le condi-
zioni di luce), vi si presentano unitariamente presentazioni identiche
a quelle che erano scomparse al vostro chiuderli. Il dato visivo in
atto, che chiamo “sensazione visiva”, quindi, è costituito dall’unità-
continuità delle presentazioni in atto. Dovremo riconoscere, in altre
parole, che l’effettivo dato della vista, almeno immediatamente
apparente, è la sensazione visiva, che via via in atto abbiamo di-
nanzi, e non le presentazioni visive in cui riteniamo che essa sia ri-
solvibile. E’ evidente, insomma, che solo grazie a forme singolari,
che vengano dalla nostra mente, potremmo individuare presenta-
zioni di corpi nell’ambito della sensazione visiva in atto. A parte
quanto vedremo, potrebbe aversi, infatti, solo grazie a ognuna di
tali forme non solo l’individuazione, nell’ambito della sensazione vi-
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siva in atto, della presentazione di un determinato corpo, ma anche


l’unione a detta presentazione di una parte anticipatrice, ché solo
così potrebbe aversi l’idea in atto del corpo predetto. Non si può
certo sostenere, dunque, che i corpi, nella percezione visiva, che si
costituisce di sensazioni visive, ognuna unitariamente continua, si
presentano in se stessi e da se stessi, non essendo affatto date le
loro presentazioni, che, invero, vanno individuate all’interno delle
sensazioni predette.
Noi riferiamo ai corpi, oltre ad altre, la qualità della “solidità”,
la quale è nulla più che un nostro sentire, che, come diremmo, se-
gna la resistenza che incontra la pressione dei muscoli ogni volta
che, ad esempio, spingiamo una mano che sia in contatto con qual-
che corpo. Non potremmo riferirci, tuttavia, all’accennata qualità
dei corpi, se, innanzi tutto, non avvertissimo, anche in quei casi,
una sensazione tattile. Chiamiamo, infatti, “sensazione tattile” ogni
sentire che ci appare essere localizzato, esteso e manifestante un
contatto tra il nostro e un altro corpo o tra due parti del primo. Oc-
corre subito rilevare, intanto, il carattere unitario di ogni sensazione
tattile. Ad esempio, posso ritenere che questo corpo, che sto toc-
cando, sia caldo (o freddo), liscio (o ruvido), ecc. Ebbene, nell’atto
in cui ho toccato detto corpo, che cosa si è introdotto di nuovo?
Dico che è stata un’unica affezione, che è stato un unico sentire.
Osservo, cioè, che il sentire è “uno” e che, in effetti, non c’è un sen-
tire che manifesti il contatto, un altro che segni che quel corpo è
caldo, un altro ancora che quel corpo è liscio. Quel sentire, dunque,
essendo “uno”, non può mostrare per se stesso quelle distinzioni al
proprio interno, ma solo da me esse possono venire. Ma interessa
ancor più rilevare che quel sentire, proprio in quanto è “uno”, non
può affatto mostrare il contatto (la presenza) di “due” corpi o di
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“due” parti di uno medesimo (ossia di quello mio), per cui posso
ben affermare che tali corpi o tali parti non si offrono affatto in se
stessi e da se stessi alla mia conoscenza. Potrò, anzi, anche qui so-
stenere, che solo in quanto la mia mente assegni ad esso determi-
nate forme singolari, il sentire anzidetto potrebbe essere ritenuto
manifestare un contatto tra il mio e l’altro corpo (o tra due parti del
primo). Solo grazie a ciò quel sentire diventa sensazione tattile e,
più esattamente, diventa “presentazione (tattile)” dell’uno e dell’al-
tro dei corpi (o delle parti) considerati. Chiamo, infatti, “presenta-
zione tattile” una sensazione tattile in quanto entri come parte em-
pirica nell’idea in atto di un determinato corpo. In altre parole, il
consistere delle due presentazioni, che vengono poste in relazione a
una sensazione tattile (grazie all’assegnazione a questa di idee), è
il medesimo, ossia quello della sensazione tattile stessa; quest’ulti-
ma, tuttavia, diventa presentazione dell’uno o dell’altro corpo, se-
condo che sia presa particolarmente quale parte empirica dell’idea
del primo o del secondo. Insomma, nemmeno tattilmente si può ri-
tenere che le presentazioni dei corpi siano date e, dunque, che lo
siano i corpi medesimi.
Per questo posso ben sostenere che l’interrogativo di fondo al
quale si riduce il “problema della conoscenza” può essere così
espresso: perché esigiamo che i corpi siano cose, ossia esistenze in
sé, sebbene si risolvano sempre in nostre idee, ossia in qualcosa
che ci appartiene, per cui non possono in alcun modo essere indi-
pendenti dalla conoscenza che ne abbiamo?
Occorre ora considerare, proprio in relazione a ciò, che, circa i
corpi stessi, nasce anche la seguente difficoltà: non si può separa-
re la loro esistenza dalla conoscenza che ne abbiamo, perché l’una
cosa è la stessa che l’altra. Infatti, non potremmo mostrare che essi
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esistono senza poter mostrare che possiamo conoscerli e non po-


tremmo mostrare che li conosciamo senza poter mostrare che esi-
stono. Infatti, non potremmo sostenere che i corpi esistono e che,
quindi, si può mostrare che possiamo conoscerli, poiché per poter
sostenere che esistono occorrerebbe averne già la conoscenza, la
quale, dunque, verrebbe presupposta come già acquisita. Così, non
potendo far vedere che i corpi esistono indipendentemente dalla
nostra conoscenza stessa (ossia, in certo modo, come tali da stare
prima di quest’ultima), non potremmo nemmeno far vedere che
giungiamo a conoscerli. Non potremmo sostenere che conosciamo i
corpi e che, quindi, si può mostrare che essi esistono, poiché soste-
nere che li conosciamo significa sostenere che la nostra è conoscen-
za di corpi, la quale, dunque, non sarebbe tale se essi non esistes-
sero. Infatti, altrimenti, dovremmo poter far vedere che tale cono-
scenza può darsi indipendentemente da quella esistenza (vale a
dire come tale da stare prima di quest’ultima). Ma, ovviamente, in
tal caso, non potremmo affatto sostenere che la nostra (stando, an-
cora, priva di essi) è conoscenza di corpi, né, quindi, si potrebbe
mostrare che essi esistono. Insomma, posto che sono la stessa
cosa, si potrebbero chiarire l’esistenza e la conoscenza dei corpi
solo legando la possibilità dell’una a quella dell’altra.
Per poter dare tale chiarimento e una risposta all’interrogativo con-
cernente il valore oggettivo delle idee dei corpi, credo che non si
possa prescindere da certi insegnamenti che sono stati dati nel-
l’ambito della filosofia moderna. Tali insegnamenti appaiono essere
inconfutabili e mostrano, a conforto di quanto abbiamo sopra affer-
mato, che i corpi non sono affatto cose, non si offrono affatto in se
stessi e da se stessi alla nostra conoscenza. Secondo il primo inse-
gnamento, che troviamo in Cartesio, le immagini sensibili, speri-
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mentate, dei corpi (ossia quelle che si hanno quando i nostri sensi
sono attivi) sono soggettive, ossia proprie del singolo soggetto, poi-
ché appartengono soltanto a lui. Si riconoscerà, perciò, che la filoso-
fia deve comunque tener fermo, senza mai contraddirlo, il principio
secondo cui le percezioni sono soggettive. Tale principio è inoppu-
gnabile e ognuno ne riconosce la validità appena lo intende. La filo-
sofia moderna, da Cartesio a Berkeley, ha portato a consapevolezza
detto principio. Schopenhauer iniziava la sua opera principale con
questa affermazione : <<Il mondo è la mia rappresentazione>>.
Giovanni Gentile, a sua volta, diceva : <<Qualunque sforzo si faccia
per pensare o immaginare altre cose o coscienze, al di là della no-
stra coscienza, quelle cose o coscienze rimangono dentro di essa,
per ciò, appunto, che sono poste da noi, sia pure come esterne a
noi>> (Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sanso-
ni, 1939, p.32) . Quelle cose o coscienze, insomma, costituirebbero
comunque termini del nostro personale pensiero, cioè quello di cui
avremmo coscienza. Del resto, se niente è più certo del fatto che
nessuno può uscire fuori di sé per raggiungere cose o coscienze che
siano fuori dalla sua coscienza, vuol dire che il suo ritenere che del-
le cose o coscienze ne siano fuori è, in effetti, il frutto di una sua
esigenza, di un suo mero pretendere.
Si deve accettare, poi, un secondo insegnamento della filosofia
moderna, ossia quello stabilito da J. Locke, per il quale nessuna no-
stra conoscenza, circa i corpi o ciò che li concerne, è innata, anche
se la mente ha una disposizione innata alla conoscenza, disposizio-
ne, tuttavia, che può manifestarsi solo condizionatamente rispetto a
qualcosa che sia dato alla mente stessa. Negare tale insegnamento,
ossia che in quanto nessuna conoscenza può essere innata per cui,
onde la mente possa concepire oggetti, qualcosa deve essere dato
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ad essa, significa cadere nel solipsismo, che è tesi, senza dubbio,


inaccettabile.
Come abbiamo già detto, noi consideriamo un corpo, che ci stia
dinanzi, sia come “oggetto”, cioè come termine di una nostra cono-
scenza in atto, sia come “cosa”, cioè come esistente in sé, vale a
dire capace di un’esistenza autonoma, indipendente dalla nostra e
dal nostro conoscerla. Ebbene, G. Berkeley e D. Hume (il primo, col
suo esse est percipi, l’altro, parlando delle “impressioni”, ossia degli
atti del sentire, come degli unici contenuti di conoscenza effettiva)
hanno dato questo insegnamento: è lo stesso corpo percepito, ossia
come nostro oggetto, che viene ritenuto essere cosa (la quale, dun-
que, come tale, non esisterebbe). Così, non accettare tale insegna-
mento, significa dover mostrare, circa un corpo percepito in atto,
quello in cui consiste la differenza tra la consistenza di esso quale
nostro oggetto e la consistenza di esso quale cosa. Credo che tale
differenza non sia assolutamente determinabile, per cui può rima-
nere sicuramente soltanto il corpo come oggetto, anche se resta da
chiarire per quale ragione sia ritenuto essere cosa. Possiamo esclu-
dere, insomma, che esistano corpi come cose, ossia che il valore
oggettivo delle idee dei corpi sia reale.
Del resto, Kant, che si pone al vertice della filosofia moderna, ci
insegna, salvo quanto vedremo, che, appunto, i corpi che conoscia-
mo non possono essere cose in sé, poiché per essere possibili, come
nostri oggetti (fenomeni), debbono derivare da leggi provenienti dal
soggetto umano, che stabiliscano tra i molteplici dati dei sensi dei
rapporti che permettano di percepire e di comprendere gli oggetti
medesimi.
Conviene qui ricordare F. H. Jacobi, che esprimeva la situazione
filosofica del tempo, notando che senza la cosa in sé, non si può en-
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trare nel criticismo, ma che, mantenendola, non si può restare in


esso. In verità, da un lato, Kant non poteva non ammettere le cose
in sé. Occorre rilevare, infatti, che egli riteneva di dover stabilire le
condizioni che rendono possibili giudizi universalmente validi (e
non, invece, come ogni singolo soggetto giunga all’esigenza di po-
ter porre giudizi siffatti). Ed è, appunto, in relazione a tali giudizi che
Kant ha fissato la tabella delle categorie, ritenendo, poi, che queste
costituiscano una struttura eterna ed immodificabile del pensare,
sulla quale si fonda la struttura della stessa realtà fenomenica. At-
traverso lo schematismo trascendentale, infatti, egli ha cercato di
mostrare che l’oggetto d’esperienza deve assumere la forma dell’in-
telletto. Ed è evidente che non poteva non ritenere che tale forma
(in quanto desunta da giudizi ritenuti universalmente validi) doves-
se essere la medesima, sempre e per tutti (allo stesso modo che il
tempo e lo spazio sono forme necessarie e universali dell’intui-zio-
ne). Così, ogni corpo (fenomeno) è, secondo Kant stesso, un mate-
riale empirico raccolto in unità, che non è quella della semplice as-
sociazione psicologica (soggettiva), ma quella che connette quel
materiale in una struttura che vale per tutti allo stesso modo e che,
in tal senso, è oggettiva. Ma chiedo: se i dati sensibili che si presen-
tano al singolo soggetto non fossero omogenei, simili e coordinati,
rispetto a quelli che si presentano a ogni altro soggetto, in che
modo le forme della sensibilità e dell’intelletto potrebbero applicar-
si, unificandoli, a dati sensibili non omogenei, dissimili e non coordi-
nati, dando luogo, tuttavia, ad oggetti (fenomeni) simili per tutti i
soggetti medesimi, senza di che non si potrebbero avere, da parte
di questi ultimi, riferimenti empirici che consentissero di giungere a
giudizi da tutti condivisibili? In altre parole, anche se le forme della
sensibilità e dell’intelletto valessero per tutti, ciò sarebbe comunque
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vano se i dati sensibili che si presentano al singolo soggetto non


fossero omogenei, simili e coordinati rispetto a quelli che si presen-
tano o possono presentarsi ad ogni altro. Ecco, quindi, per quale ra-
gione Kant non avrebbe potuto non ammettere l’esistenza di cose in
sé: ritenendo egli che il problema fondamentale fosse quello di chia-
rire come si abbiano conoscenze universalmente valide, tolte le
cose, che cosa rimarrebbe, nella teoria kantiana, a garantire l’omo-
geneità, la somiglianza e la coordinazione dei dati sensibili ai singoli
soggetti?
Dall’altro lato, Kant non avrebbe potuto nemmeno escludere l’esi-
stenza di cose in sé. Supponendo ora che, appunto, le cose in sé (i
noumeni) non esistano, occorrerebbe in tal caso chiarire come di-
ventino possibili i singoli corpi quali nostri meri oggetti (in tal senso,
come abbiamo detto, “esistenze formali”, anche se da noi pensati
essere cose, esistenze in sé). E Kant, sicuramente, non ha dato tale
chiarimento. Occorre notare, infatti, che egli parla di “sensazioni” o
di “impressioni”, senza, per altro, precisarne la consistenza. Affer-
ma, tuttavia, che potrebbe ben darsi che la nostra conoscenza em-
pirica, ossia dei corpi, sia un composto di ciò che noi riceviamo dalle
impressioni sensibili e di ciò che la nostra propria facoltà di cono-
scere vi aggiunge da sé (stimolata soltanto dalle impressioni sensi-
bili). Possiamo intendere, così, salvo quanto vedremo, che le im-
pressioni (o sensazioni), una volta tolto ciò che la nostra facoltà di
conoscere vi aggiunge da sé, costituiscano la materia data del co-
noscere. Ora, secondo Kant, che cosa aggiunge il nostro spirito alla
materia sensibile che gli è data? Innanzi tutto le forme della sensibi-
lità (ossia lo spazio e il tempo), poiché la riceve secondo esse. Ma
che cosa consegue da questo? Se, come Kant vuole, lo spazio è
una rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fonda-
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mento di tutte le intuizioni esterne, se è la condizione di possibili-


tà dei fenomeni, non una determinazione dipendente da essi, vale
a dire che è quella forma grazie a cui si hanno “presentazioni”
estese, ne segue che le sensazioni (o impressioni), che Kant stesso
sembra considerare quale materia data sensibile, sono, per se stes-
se, inestese, poiché potrebbero diventare estese solo con l’applicar-
si ad esse della forma dello spazio. Ogni sensazione o impressione,
quindi, per se stessa, si ridurrebbe ad essere un mero sentire: tolta
ad essa la forma spaziale, infatti, qualcosa rimarrebbe comunque e
ciò non potrebb’essere, appunto, che un mero sentire inesteso. Con-
viene anche aggiungere che se, come dice Kant, affinché noi pos-
siamo rappresentarci le sensazioni come esterne e accanto le une
alle altre, quindi non solo differenti, ma anche in luoghi differenti,
deve esserci già a fondamento la rappresentazione dello spazio, ne
consegue che, tolta tale forma, le diverse localizzazioni e le diversi-
tà tra le sensazioni medesime scomparirebbero, nel senso che le
sensazioni in atto si fonderebbero in un sentire inesteso, unitario
e indifferenziato, che chiameremo “senso puro”. Cerchiamo di chia-
rire.
Per quanto abbiamo detto in precedenza, se tocco con la mano
un determinato corpo, solo da me può venire che la sensazione tat-
tile, che avverto, manifesti la presenza della mia mano e dell’altro
corpo (di una certa parte di quest’ultimo). Ne consegue che, se det-
ta sensazione tattile, in quanto “una”, non mostra, per se stessa, la
presenza della mia mano, non può mostrare nemmeno la propria lo-
calizzazione, né la propria estensione, le quali io stesso dovrò asse-
gnare ad essa, in relazione a quelle che reputo essere proprie della
mia mano medesima. La sensazione tattile, infatti, è per me estesa
per come e per quanto reputo che lo sia la presenza superficiale
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della mia mano, che ritengo entri nel contatto (ed è, invero, in rela-
zione a ciò che assegno l’estensione anche alla parte dell’altro cor-
po che entra nel contatto stesso). Similmente dicasi della localizza-
zione della predetta sensazione. Così, senza l’idea di quella mia
parte, come determinatamente estesa e localizzata, neanche la
sensazione tattile potrebbe avere un’estensione e una localizzazio-
ne determinate. Ne consegue, allora, che, togliendo ciò che le deri-
va da me, ossia di segnare un contatto, di essere localizzata ed
estesa, la sensazione tattile si ridurrebbe al mero sentire inesteso e
non localizzato, che è senza dubbio presente in essa, ossia ad esse-
re, come dirò, ”sensazione pura”. Cose simili si possono dire anche
circa gli altri dati sensibili, ovviamente relativi ai corpi o a qualcosa
che li concerne. Togliendo, così, le idee dei corpi stessi, tali dati si ri-
durrebbero tutti a semplici sentire non localizzati ed inestesi e, in
atto, finirebbero per costituire un sentire unitario, inesteso, non lo-
calizzato e di per se indifferenziato. Ed è, appunto, un simile sentire,
che abbiamo chiamato “senso puro” e che costituirebbe la materia
sensibile data in atto al nostro spirito, quale sua modificazione.
Così, tornando a Kant, se, ad esempio, il qualcosa che, nella perce-
zione visiva in atto, si presenta del singolo corpo (ossia ciò che noi
abbiamo chiamato “presentazione visiva”), è sintesi di materia (per
Kant “impressioni” o “sensazioni”) e di forma (per Kant, le forme
della sensibilità, ossia lo spazio ed il tempo, e le forme dell’intellet-
to, ossia le categorie) del conoscere, occorre chiedersi se l’estensio-
ne e la localizzazione del predetto qualcosa dipendano dalla mate-
ria oppure dalla forma predette. Ebbene, non potremo dire che di-
pendono dalla materia, poiché questa, per se stessa (ossia prima
che ad essa si applichi, come Kant vuole, la forma dello spazio), sa-
rebbe inestesa e non localizzata. D’altra parte, quella estensione e
17

quella localizzazione non potrebbero derivare, come invece Kant


vorrebbe, nemmeno dallo spazio stesso (quale forma della sensibi-
lità). Grazie a che cosa, infatti, l’intuizione pura dello spazio, nel ri-
cevere la materia sensibile inestesa, potrebbe ripartirsi in tante fra-
zioni per dar luogo a quante sono o possono essere le presenze
estese (presentazioni ) dei corpi in atto percepiti? Non v’è nulla, in
Kant, che chiarisca tale ripartirsi della forma dello spazio in forme
singolari. Tale chiarimento, poi, non può essere trovato né, ovvia-
mente, nell’altra forma della sensibilità (ossia il tempo), né nelle ca-
tegorie di cui parla Kant : non nel tempo, che non può dar luogo a
nulla di esteso e di localizzato ; non nelle categorie, che richiedono
già dati dei contenuti per poter attuare collegamenti tra di essi. Per
questo Kant avrebbe dovuto ammettere, piuttosto che negare, l’esi-
stenza dei noumeni (dei corpi quali cose in sé).
E’ ora importante rilevare, anche in relazione a quanto abbiamo
detto, che Kant non ha affatto chiarito, onde si avessero i fenomeni,
come fosse possibile l’accordo tra la materia e la forma di cui parla-
va. Egli riteneva, senza darne una accettabile dimostrazione, che la
forma fosse innata (un modo funzionale innato del nostro spirito),
andando, con ciò, contro l’insegnamento di Locke. Si tratta, ovvia-
mente, della questione dell’“a priori”, con cui Kant designava la co-
noscenza indipendente dall’esperienza, ma non precedente (in sen-
so cronologico) l’esperienza stessa. In verità, Kant stesso, ove si
consideri il suo concetto di “esperienza”, non ha stabilito, né avreb-
be potuto stabilire, alcuna prova decisiva circa l’esistenza di un a
priori. Egli parla, infatti, di <<quella conoscenza degli oggetti che
chiamasi esperienza>>. E’ vero che Kant non tiene sempre fermo il
concetto di “esperienza”, ma non possiamo non notare che in base
ad esso, egli non avrebbe potuto affatto provare che all’interno del-
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la conoscenza dei corpi (o, ciò che per lui è lo stesso, dell’esperien-
za) qualcosa è a priori, cioè indipendente dall’esperienza (e, per
conseguenza, apporto soggettivo), e qualcosa a posteriori, ossia di-
pendente dall’esperienza stessa (e, per conseguenza, apporto og-
gettivo). Se esperienza e conoscenza dei corpi sono la stessa cosa,
non ha senso parlare di conoscenze a priori e di conoscenze a po-
steriori. La conoscenza non può né dipendere né non dipendere dal-
l’esperienza se essa coincide con l’esperienza. Per questo Kant non
ha dimostrato l’esistenza e la consistenza né dell’a priori, né dell’a
posteriori, né, quindi, che i corpi sono esistenze formali, ossia deri-
vanti dalla sintesi di un apporto oggettivo e di un apporto soggetti-
vo. Kant, comunque, tolti i corpi come “noumeni” (come cose in sé),
non ha avvertito che si potevano rendere possibili i “fenomeni” (i
corpi come esistenze formali, ossia quali nostri meri oggetti), posto
che l’apporto oggettivo consista in una materia sensibile inestesa,
solo grazie all’appli-carsi a quest’ultima di forme singolari (ovvia-
mente, dovendosi accettare l’insegnamento di Locke, non innate).
Kant, sicuramente, non ha parlato di tali forme singolari, in quanto
supponeva che la stessa impressione (o sensazione) fosse di per sé
segno dell’esistenza singolare. Così, non avendo compreso che, in
verità, i corpi non esistono come “noumeni” (come cose in sé), non
ha avvertito che si potevano rendere possibili i “fenomeni” (i corpi
come esistenze formali), posto che l’apporto oggettivo consista in
una materia sensibile inestesa, solo grazie all’applicarsi a quest’ulti-
ma, come abbiamo detto, di forme singolari, che chiameremo “idee
formali potenzali”. Del resto, come poter non riconoscere che, per
ciascuna presentazione che ci sia presente in atto, vi sia una forma
singolare ad averne rese possibili la particolare estensione, la parti-
colare localizzazione e, in primo luogo, il riferimento ad un determi-
19

nato corpo? Si può ben dire, insomma, che il trascendentalismo di


Kant (anche se questi parlava di forme della sensibilità, di forme
dell’intelletto e di concetti di oggetti in generale) non risolve il pro-
blema gnoseologico, poiché non sono resi possibili, grazie ad appor-
ti soggettivi, corpi singolari (o, meglio, le loro idee in atto).
Pare, dunque, tenuto conto dei sopra precisati insegnamenti della
filosofia moderna e una volta corretto Kant, che si debba riconosce-
re che i corpi, per essere possibili come nostri meri oggetti, richie-
dono di derivare dalla sintesi di una materia data sensibile, quale
apporto oggettivo, costituito da “sensi puri”, e di una forma quale
apporto soggettivo non innato, costituito da “idee formali
potenziali” (di cui resterebbe da stabilire come diventino possibili).
Tutto ciò significa (essendo le percezioni soggettive e nessuno po-
tendo uscire fuori di sé per raggiungere le cose, né queste offrendo-
si in se stesse e da se stesse alla nostra conoscenza) che le presen-
tazioni (visive o di altro genere) dei corpi, ossia le immagini sensibi-
li della percezione, debbono emergere dal fondo di ognuno di noi.
Non si tratterebbe, insomma, di rendere possibile qualcosa che stia
fuori di noi, ma qualcosa che emerge dal nostro fondo. Del resto
non vi potrebbe essere altra possibile spiegazione del fatto che ciò
che deriverebbe dal nostro interno, ossia le idee formali potenziali
dei corpi, potesse valere per quello che appare essere a noi esterno,
in particolare le sensazioni tattili e visive (che si mostrano risolvibili
in presentazioni dei corpi stessi).
Per soddisfare i propositi che ci siamo prefissi, è ora necessario
considerare quello che appare essere il carattere peculiare del pro-
gresso conoscitivo umano, cioè di essere “intensivo”. Chiamo “con-
cepire” il mio essere o il mio diventare consapevole di quello che, in
qualche modo, via via mi si presenta, si tratti di qualcosa che repu-
20

to essere da me dipendente o indipendente, a me interno oppure


esterno, per cui tutto ciò che per me, sotto qualsivoglia modalità,
esiste, si pone come termine di un mio concepire. Ogni cosa (imma-
gini, sentimenti, volizioni, concetti, proposizioni e, ovviamente, cor-
pi o loro qualità, stati, variazioni, azioni, ecc.) che si ponga (o si sia
posta) come termine di un mio concepire, chiamo “concezione”. Oc-
corre ora fare riferimento a quel concetto di “condizione” (e di
“condizionato”) che chiamo “critico”, cioè il seguente : se una con-
cezione può stare o essere stata, può darsi o essersi data senza una
diversa concezione, ma non viceversa, dirò che la prima è “condi-
zione” della seconda (o “antecedente” rispetto a questa) e la secon-
da “condizionata” dalla prima (o “susseguente” rispetto a questa).
In altre parole, se è concepito il condizionato, lo è anche la condizio-
ne, ma, se è concepita questa (non come tale, ma come semplice
concezione), ciò non comporta affatto che anche quello lo sia. La
condizione, insomma, è una concezione che si ritiene dovesse es-
sere già acquisita affinché un’altra determinata potesse esserlo a
sua volta. Una condizione può essere tale rispetto a più termini e un
termine può essere condizionato da più antecedenti. Facciamo qual-
che esempio. La visione dei microbi (e, quindi, il nostro concepirli)
ha comunque richiesto come già dato il microscopio, poiché essa è
possibile solo grazie a quest’ultimo ; tuttavia, se è dato il microsco-
pio, non per ciò stesso è data la visione dei microbi (cioè il primo
può essere stato o stare senza la seconda, ma non viceversa). Così,
il microscopio si pone come condizione rispetto ai microbi e questi
come condizionati rispetto ad esso. Il microscopio, a sua volta, im-
plica come già date le lenti e queste implicano come già dato il ve-
tro, cosicché questo è condizione rispetto alle lenti e queste sono
condizioni rispetto al microscopio. Ognuno riconoscerà che senza i
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concetti di “uomo” e di “cavallo” non si può concepire quello di


“centauro”, per cui i primi saranno condizioni rispetto al secondo.
Infatti, gli uni possono stare senza l’altro, ma non viceversa. Insom-
ma, più in generale, ognuno di noi riconoscerà che, senza aver con-
cepito già il proprio corpo, non avrebbe affatto potuto concepire l’e-
sistenza di altri corpi; che, senza corpi, non si possono concepire
loro variazioni (nelle qualità, negli stati, nei luoghi,ecc.); che, senza
corpi o loro variazioni non si possono concepire quei nessi causali
che paiono legarli. Basta valersi del concetto critico di condizione
per riconoscere che il progresso conoscitivo umano è “intensivo”,
ossia tale che, muovendo da una o più concezioni determinate, pas-
sa ad altre, condizionate dalle prime, quindi ad altre, condizionate
dalle seconde, e così via. In certo senso, il progresso delle cono-
scenze umane è simile al crescere di un albero: dal tronco nascono
due o più rami, da ognuno di questi ne spuntano altri, quindi altri
ancora, in un processo ovviamente finito. Le nostre concezioni, co-
munque, s’affacciano alla nostra mente in un seguito di cui non
scorgiamo la fine e, una volta concepite, ci possiamo riferire a cia-
scuna indipendentemente o quasi da ogni altra, per cui sembrano
perdere quei rapporti che presiedettero al loro concepimento. Ciò
non significa, tuttavia, che, ad un’attenta considerazione, esse non
manifestino quei rapporti stessi e, con questi, l’ordine secondo cui
furono concepite. Infatti, come riconosciamo che un certo ramo del-
l’albero è nato dopo un altro per il fatto che spunta da questo, così
possiamo ben riconoscere che una certa concezione è nata dopo
un’altra perché la implica e non potrebbe stare senza di essa. In
conclusione, si può ben sostenere che tutto il progresso conoscitivo
umano si compendia, via via, nelle leggi e nelle teorie che le diverse
scienze riconoscono valide e si concreta nelle scoperte e nelle in-
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venzioni che utilizziamo per gli scopi più diversi. Ora, si supponga
d’avere dinanzi tutte le predette scoperte e invenzioni e di doverle
disporre secondo l’ordine in cui si sarebbero verificate nel tempo :
sono certo che tutti concorderemmo nel porle secondo uno stesso
ordine, poiché dovremmo riconoscere che ciascuna si pone dopo le
sue antecedenti e prima delle sue susseguenti.
Ora, l'importanza della scoperta che ogni nostro concetto si
lega ad altri secondo rapporti di antecedenza o di susseguenza an-
drebbe del tutto perduta se non approfondissimo il significato di tali
relazioni e non traessimo quello che criticamente consegue.
Ricordo, in primo luogo, che un concetto implica, cioè coinvolge,
impegna, più o meno manifestamente, ogni suo antecedente pro-
prio per il fatto di esserne condizionato. Penso che, riprendendo
esempi già fatti, sarò più chiaro ed efficace. Il concetto di triangolo
implica, tra altri, quello di retta, cosi come quello di centauro impli-
ca, tra altri, quello di uomo. Perché? In tali casi la risposta appare
evidente: quei concetti (rispettivamente “triangolo” e “centauro”) si
costituiscono per una sintesi di concetti antecedenti, per cui non po-
tremo non ritrovare nei primi i secondi. Abbiamo notato che il con-
cepimento di questa o quella specie di microbi implica il microsco-
pio. Qui il rapporto di condizionamento si rivela col fatto che noi, in
alcun modo, potremmo osservare dei microbi se non grazie al mi-
croscopio. Un fanciullo, tuttavia, potrebbe non sapere che, ad esem-
pio, per ottenere il vetro è necessario il fuoco; non resta men vero,
per altro, che, ripartendo dai contenuti immediatamente dati dalla
natura, egli potrebbe ottenere del vetro solo valendosi del fuoco. Gli
esempi di quest'ultimo genere, cioè di concezioni che, in apparenza,
non si legano alle loro antecedenti, sono moltissimi. Basterà consi-
derare gli apparecchi o le macchine che usiamo quotidianamente
23

senza conoscere la serie degli antecedenti che ne hanno condizio-


nato il concepimento o, come diremmo, l'invenzione. È necessario
però riconoscere che, se non appartenessero già al progresso cono-
scitivo umano, noi non potremmo in nessun modo realizzare quegli
stessi apparecchi o quelle stesse macchine se non percorrendo di
nuovo l'accennato progresso. È sempre possibile, dunque, mostrare
che una concezione implica le sue antecedenti.
In secondo luogo, potrò notare che una concezione induce alle
sue susseguenti, nel senso che, attraverso ed oltre la prima, non
possiamo non trovare le seconde. Dati, ad esempio, i concetti di
uomo e di cavallo, questi non mostrano per se stessi che è già av-
venuto il concepimento del concetto di centauro, ma, attraverso
essi, secondo quella loro determinata sintesi, nessun altro concetto
può sortire come susseguente al di fuori di quello indicato. Parimen-
ti, riferirsi al microscopio non significa ancora potersi riferire a que-
sta o quella specie di microbi, ma è certo che il microscopio, in rap-
porto a ciò che esso è come strumento, ha costretto entro un certo
ambito la possibilità di un avanzamento nel concepire, cioè l'ha di-
retta soltanto in una direzione determinata, poiché non può non
aver aperto la via che al concepimento di cose determinate. Si ha,
quindi, che un concetto può aver indotto solo a quelli che gli sono
susseguenti, cioè che sono da esso condizionati, e proprio per tale
ragione. È possibile, così, mostrare sempre che una concezione in-
duce alle sue susseguenti. Risulta in questo modo stabilito che al-
l'interno del progresso del concepire è possibile individuare di ogni
concezione sia le sue antecedenti sia le sue susseguenti, poiché
essa, necessariamente, non può non implicare le prime e non indur-
re alle seconde. È evidente che ogni concezione, tranne quella o
quelle iniziali, avrà ammesso, al grado del suo concepimento, degli
24

antecedenti, ma non ancora dei susseguenti. In tal senso, a quel


certo momento, la concezione considerata avrà costituito un termi-
ne di “vertice” del progresso intensivo del concepire. È ovvio, inol-
tre, che quella concezione, in quanto susseguente rispetto ad una o
più altre, all'atto del concepimento di queste ultime, non appartene-
va ancora a quel progresso stesso.
Siamo ora in grado di trarre, circa i rapporti tra le nostre conce-
zioni, conclusioni critiche fondamentali. Innanzi tutto occorre ricono-
scere che, in quanto una concezione nell'atto del suo concepimento
implicava le sue antecedenti, non poteva in alcun modo averne reso
possibile il concepimento, né ora potrebbe, per la stessa ragione,
consentire di spiegare la loro possibilità. Il motivo è evidente: in
quanto le richiedeva già concepite, per poterlo essere a sua volta,
non entrava per nulla tra ciò che le aveva rese possibili. Il concetto
di triangolo non può rendere ragione del concepimento di quello di
retta, in quanto lo presuppone già concepito per poterlo essere a
sua volta; il concepimento del vetro non può rendere ragione del
concepimento del fuoco, poiché la possibilità di ottenere il vetro ri-
chiede già dato il fuoco stesso. Ripeto, poi, che ogni concezione
(tranne quella o quelle iniziali), all'atto del suo concepimento, pote-
va ammettere soltanto concezioni antecedenti, ma non ancora con-
cezioni susseguenti. Da ciò discende una seconda fondamentale
conclusione critica: nessuna concezione potrebbe per se stessa ren-
dere possibili le sue susseguenti, cioè rendere ragione del loro con-
cepimento. Anche qui il motivo è chiaro: se il concepimento di una
concezione realizzasse con se medesimo tutto ciò che si richiede
per il concepimento di quelle susseguenti rispetto ad essa, non po-
trebbe darsi progresso, intensivo o meno, nelle nostre concezioni, in
quanto queste sarebbero già tutte concepite o concepibili nell'atto
25

del concepimento di quella o quelle iniziali. Risulterà evidente, in-


somma, che, per esempio, il concepimento di tutti i concetti antece-
denti, rispetto a quello di triangolo, non è il concepimento di que-
st'ultimo e non ne rende ragione. Il passaggio dai primi al secondo
richiede un salto creativo che non trova la sua possibilità in quegli
antecedenti stessi, anche se li presuppone per potersi dare. Sarà fa-
cile riconoscere, poi, che il concepimento del fuoco non poteva af-
fatto, per se stesso, portare a quello del vetro, o il concepimento di
questo a quello del microscopio, o di quest'ultimo a quello dei mi-
crobi.
Per quanto precede, si ha, dunque, che nessuna concezione
rende possibili, per se stessa, né le sue antecedenti, né le sue sus-
seguenti. Ciò significa, tra l’altro, che la scienza, in quanto muove,
secondo quanto appare, dai corpi, e va, per poter crescere, verso
concezioni via via susseguenti rispetto ai corpi medesimi, non potrà
mai chiarire di questi ultimi, malgrado ogni suo possibile progresso,
né l’esistenza né la conoscenza che ne abbiamo. Così, coloro che
sostengono che la filosofia, per essere filosofia, deve assumere l’a-
teismo come proprio presupposto critico, o coloro che ritengono che
la selezione naturale sia a tal punto potente da accrescere la nostra
fiducia nella capacità della scienza di spiegare, prima o poi, tutto ciò
che circa la natura e la presenza dell’uomo in essa ci appare ancora
misterioso, dovranno correggere le loro convinzioni. Non possono
proprio sostenere che il progenitore dell’uomo sia la scimmia, non
possono proprio escludere il “disegno intelligente” (o, meglio, l’esi-
stenza di un Dio Creatore), non possono proprio sostenere il natura-
lismo filosofico, ossia la posizione metafisica secondo cui la natura
materiale è tutto ciò che esiste. Ebbene, se non la scienza può chia-
rire l’esistenza, né, per ciò stesso, la conoscenza dei corpi, potrà
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farlo la filosofia?
E’ evidente che la filosofia, per costituirsi come pensiero fondati-
vo, non potrebbe stare che “prima” e non “dopo” le conoscenze
speciali delle diverse scienze, ossia come conoscenza che mostra il
fondamento delle altre e rende esplicita la loro metodologia. La filo-
sofia invece, sembra porsi tuttora dopo le conoscenze speciali pre-
dette, per cui, così facendo, non potrà mai aggiungere qualcosa di
distinto e di valido a ciò che con quelle è stato o verrà raggiunto.
Così, poiché il sapere scientifico appare essere l’unico munito di
quelle garanzie e modalità di controllo che caratterizzano quella che
chiamiamo conoscenza, il discorso filosofico, ponendosi dopo, non
potrà mai andare oltre le determinazioni della scienza, se non come
un discorso caratterizzato da tratti più immaginari che critici. Per
questo il sapere filosofico potrebbe avere senso e valore solo poten-
do costituirsi come un sapere “critico”, cioè come un sapere sul sa-
pere scientifico, ossia solo essendo capace di stabilire di quest’ulti-
mo le condizioni di possibilità e il valore. Ma ciò, in quale esatto sen-
so? Conviene qui ricordare F. Bacone, che ha introdotto la nozione di
“filosofia prima”, quale <<scienza universale, che sia madre di tut-
te le altre e costituisca, nel progresso delle dottrine, la parte della
via comune prima che le vie si separino e disgiungano>> (De digni-
tate et augmentis scientiarum, III, 1). . Ebbene, in che modo vi può
essere “la parte della via comune” alle scienze tutte, prima che le
vie si separino e disgiungano? Cerchiamo di stabilirlo.
E’ facile riconoscere che tutte le scienze presuppongono come già
concepiti i corpi, ché esse nascono, più o meno immediatamente,
prendendoli come loro oggetti. E, muovendo tutte dai corpi stessi, le
scienze naturali si distinguono tra loro solo in quanto ognuna pren-
de, circa essi, come suoi propri, contenuti di studio diversi da quelli
27

di ogni altra (questi o quei determinati corpi, questi o quei loro stati
o qualità o variazioni, queste o quelle loro relazioni, ecc.). Così,
data la diversità degli oggetti iniziali di ogni scienza, non sembra af-
fatto esistere la parte di una via comune alle diverse scienze, la
quale segni il progresso di ciascuna, prima che esse si separino e di-
sgiungano. Non è quindi accettabile il concetto proposto da Baco-
ne, il quale, del resto, intendeva la “filosofia prima” come una scien-
za madre che deve trattare non delle intime ragioni del mondo dei
corpi, ma delle forme più generali secondo cui i corpi stessi sono da
noi conosciuti (come il più e il meno, l’unità e la differenza, l’essen-
ziale e il non essenziale, il possibile e l’impos-sibile), come se fosse-
ro dette forme a condizionare la nostra conoscenza dei corpi singo-
lari e non valesse, invece, il contrario. In effetti, presupponendo già
dati i corpi (e la conoscenza discorsiva che li concerne) e tenuto
conto della diversità di ciò che, relativamente ad essi, ognuna pren-
de come suo proprio termine di studio, le scienze nascono e cresco-
no già separate e disgiunte. Così, un concetto di filosofia prima,
quale scienza madre di tutte le altre, potrebbe valere solo se tale
scienza rendesse ragione, in primo luogo, del nostro concepimento
dei corpi. Solo in tal caso, infatti, vi sarebbe una via che, avendo
condotto al nostro concepimento dei corpi medesimi, tutte le scien-
ze richiederebbero che fosse già stata percorsa, potendo, poi, ognu-
na, scegliere il suo particolare oggetto. Questo vuol dire che la
scienza che determinasse tale via sarebbe possibile solo se i corpi
non costituissero, come appare, le nostre concezioni iniziali, ma
concezioni susseguenti rispetto ad altre, ossia se i corpi stessi, per
come si hanno nella percezione, si ponessero a un grado piuttosto
avanzato del progresso conoscitivo. E, in tal caso, ovviamente, i cor-
pi non sarebbero dati, non si offrirebbero in se stessi e da se stessi
28

alla nostra conoscenza, in quanto cose in sé (ossia come esistenze


indipendenti da detta conoscenza), ma andrebbero resi possibili
come nostre concezioni, come nostri meri oggetti, che si pongono
come esito di un progresso intensivo del nostro concepire. Ecco in
quale senso la filosofia potrebbe costituirsi come scienza “critica”,
ossia capace di chiarire la possibilità (e, quindi, il valore) delle altre
scienze.
Ebbene, abbiamo rilevato che la filosofia moderna, da Cartesio
a Kant, afferma che i corpi non sono cose, non sono esistenze in sé,
per cui non possono essere che esistenze formali. Ne viene che, in
quanto tali, debbono derivare dalla sintesi di una materia data sen-
sibile e di una forma. Abbiamo anche considerato che all’inizio del
progresso conoscitivo, dovendo tener conto dell’insegnamento di
Locke, secondo cui non vi sono conoscenze innate, può stare soltan-
to la materia data predetta. Ciò comporta che a tale grado iniziale
non vi siano ancora idee di corpi e, quindi, che queste debbono es-
sere concepite a gradi più avanzati. Ebbene, poiché il progresso del
concepire umano è intensivo, si può ben ammettere che esso abbia
per termine assolutamente iniziale la sola materia data e che i cor-
pi, nell’atto stesso in cui, a gradi susseguenti, vengono concepiti, o,
meglio, posti, siano, per ciò stesso e in pari tempo, anche conosciu-
ti. Inoltre, dal fatto che il progresso conoscitivo è intensivo, resta
giustificata anche la pretesa della filosofia di poter essere scienza
critica, nel senso che abbiamo sopra stabilito. Infatti, se il progresso
del conoscere è intensivo potrà opporsi ad esso un “regresso espli-
cativo“. Con ciò intendo dire che, valendoci del principio critico se-
condo il quale ogni termine del progresso intensivo implica i suoi
antecedenti, potremo risalire i gradi del progresso predetto. In altre
parole, se consideriamo l'accumulazione attuale delle nostre cono-
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scenze, o più semplicemente, dei nostri concetti, sarà possibile ordi-


nare questi ultimi secondo l'ordine di antecedenza. In certo senso,
dar luogo al regresso esplicativo significa prendere coscienza di
come il progresso intensivo si è svolto, determinare i gradi secondo
cui si è concretato, riportare alla luce il percorso che la mente ha
compiuto, muovendo dalla materia sensibile che le è data.
Cerchiamo di chiarire. Accade frequentemente, come notava J.
Dewey, che vengano usati, per una certa indagine, contenuti che
sono intesi come esistenti o reali, indipendentemente dalle indagini
precedenti di cui sono il frutto. Tali contenuti, invero, sono indipen-
denti dall'indagine in cui ora entrano, ma sono oggetti solo in virtù,
appunto, delle indagini precedenti predette. Così, può ben darsi
che i corpi siano il frutto di un'indagine, originale e creativa, che la
nostra mente ha compiuto circa un dato antecedente (o, meglio,
originario, vale a dire la materia sensibile), anche se i corpi stessi
vengono ora assunti dalle diverse scienze come dati e come conte-
nuti di un'indagine tendente a determinare, tra l'altro, ciò in cui essi
si risolvono (si pensi alle molecole, agli atomi, ecc.). Ebbene, si po-
trà ben ammettere che la materia data sensibile (risolventesi, come
abbiamo ammesso, nel senso puro via via in atto), in quanto appor-
to oggettivo, da lui indipendente, induca il soggetto conoscente ad
aprire un’indagine al fine di chiarire come essa sia possibile. Si po-
trà anche ammettere che la materia data stessa (ogni senso puro
via via in atto) si manifesti risolvibile in elementi che si ripetono o
possono ripetersi identicamente, legandosi o potendo legarsi secon-
do determinati rapporti di compresenza e di successione. Tali ele-
menti sono quelle (salvo quanto resterebbe ancora da precisare)
che abbiamo chiamate “sensazioni pure” (abbiamo fatto l’esempio
di come una “sensazione tattile” possa essere ridotta alla sua corri-
30

spondente “sensazione pura tattile”).


Si avrebbe, dunque, che la forma (ovviamente non innata) fini-
rebbe per essere concepita come tale da segnare ciò (vale a dire
corpi come esistenze in sé, estese e materiali) che la materia sensi-
bile deve essere ritenuta comportare per essere possibile in quanto
tale da risolversi in elementi che, come abbiamo detto, si ripetono o
possono ripetersi identicamente, secondo rapporti di compresenza
e successione determinati. La forma, comunque, verrebbe concepi-
ta intensivamente, ossia tenendo conto delle mutevoli consistenze
in cui la materia sensibile viene via via data e in dipendenza dei
problemi che la mente avverte, anche legandosi alle interpretazioni
che, grazie alla forma già concepita al fine di giustificarla, essa ab-
bia applicata alla materia sensibile stessa. Così, una volta concepite
le idee formali potenziali, la materia sensibile data in atto verrebbe
immediatamente interpretata come segno della presenza di corpi,
così facendo emergere, dal nostro fondo, presentazioni di questi ul-
timi. Circa la predetta immediatezza, possiamo riferirci alla lettura: i
segni scritti diventano, secondo la nostra interpretazione, segni di
successioni di suoni e queste parole, a loro volta significative di con-
cetti; ebbene, nessuno potrà negare che l’interpretazione sia di
quei segni sia di quelle parole dipendono da regole di cui, con la
lettura, si ha un’applicazione istantanea. E’ inutile osservare, poi,
che è alle idee formali potenziali, che, ovviamente, si legherebbe la
nostra esigenza che il valore oggettivo delle idee dei corpi stessi sia
reale, ossia che dette idee abbiano come controparti cose in sé. In
particolare, dovrebbe risultare stabilito anche per quale ragione il
soggetto conoscente finisca per reputarsi esistente secondo un de-
terminato corpo, rispondente ad atti volontari del soggetto stesso.
Si avrebbe, in definitiva, che le idee formali potenziali costituireb-
31

bero le condizioni formali di possibilità delle sensazioni pure, ossia


ciò grazie a cui tali puri sentire si avrebbero e si ripeterebbero o po-
trebbero ripetersi. Facciamo un esempio. Consideriamo una deter-
minata sensazione tattile, quella, ad esempio, che ora avverto, in
quanto sto toccando con la palma della mano il piano del tavolo a
cui sto lavorando. Abbiamo stabilito che, nell’ambito di tale sensa-
zione tattile, ciò che si deve riconoscere come materia sensibile ori-
ginaria è la sensazione pura, ossia il puro sentire, inesteso e non lo-
calizzato, presente nella sensazione tattile stessa. Ora, ritengo che
quest’ultima ( prescindendo dalle considerazioni critiche fatte in
precedenza) sia un sentire esteso e localizzato, che manifesta il
contatto tra la palma della mia mano e il piano del tavolo. Ebbene,
ciò che in tutto questo va oltre il puro sentire (cioè la sensazione
pura tattile) costituirebbe le stesse condizioni formali di possibilità
di esso. Quel puro sentire, cioè, sarebbe diventato esteso, localizza-
to e manifestante quel certo contatto, in quanto la mia mente
avrebbe applicate ad esso le idee formali potenziali del mio e del-
l’altro corpo: quel sentire, di per sé sensazione pura, sarebbe stato
così trasformato nella sensazione tattile considerata. In altri termini,
la mia mente, con l’assegnare le forme predette, avrebbe ritenuto
di determinare ciò (vale a dire quelle due esistenze in contatto, se-
condo certe parti) che detto sentire comporta per essere possibile.
Chi non riconoscerebbe, appunto, che, senza il contatto della mia
mano con l’altro corpo, il sentire puro, presente nella sensazione
tattile considerata, non sarebbe in alcun modo possibile? E che cosa
significa questo se non che, con tale contatto, sono dati del sentire
puro stesso, le condizioni di possibilità e, quindi, di ripetibilità (nel
senso che, quando esso non è in atto, si richiede, per ottenerlo nuo-
vamente, che si rinnovi quel contatto medesimo) ?
32

Posti i corpi come esistenze estese e in sé, resterebbe ancora


da chiarire come il soggetto medesimo possa poi inferire, per giu-
stificarne certi aspetti problematici, che i corpi stessi sono soggetti
a variazioni legate da nessi causali e tali da risolversi in ciò che la
scienza, progressivamente, stabilisce. Si deve intendere, insomma,
che ogni nostro concepire empirico, ossia quello in cui è comunque
presente materia sensibile, è condizionato, infine, da quest’ultima e
che, ovviamente, ogni nostro concepire costituito da immagini pure,
è condizionato da quello empirico stesso. Resterebbe anche da chia-
rire come ognuno di noi giunga a concepire la lingua, ossia l’uso si-
gnificativo di successioni di suoni, avendo così l’esigenza di poter
comunicare con altri soggetti a lui simili.
Ora, considerato che i corpi sono non esistenze in sé, ma esisten-
ze formali, per ciò stesso poste da noi come estese e materiali, sarà
esistenza formale anche il corpo in cui ognuno riconosce se stesso
(ché anche l’idea di detto corpo risulterà dall’applicarsi di un’idea
formale potenziale alla materia sensibile data in atto). Così, né l’e-
stensione, né la materialità possono attenere all’essere dal quale
derivano, per cui ognuno di noi, come esistenza in sé, deve essere
qualcosa di spirituale, ossia, appunto, di inesteso, di immateriale,
vale a dire un’anima. E’ un’anima, dunque, non certo un cervello,
ciò a cui può essere data una materia sensibile (quale puro sentire),
ciò che produce la forma, ciò che attua la sintesi dell’una e dell’al-
tra, dando luogo alla percezione di corpi, in primo luogo quello per-
sonale in cui ognuno di noi si riconosce. Proprio per questo, lo si può
ben affermare, si deve ammettere che l’anima può essere immorta-
le: è essa che può stare senza il corpo (già prima di giungere a con-
cepirne l’idea), non questo senza di essa.
Ora, è facile riconoscere che l’anima non può essere condizione di
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possibilità della sua propria esistenza, né delle sue modificazioni (le


quali, per quanto precede, non possono derivare da corpi come
cose in sé, poiché essi, come tali, non esistono). E’ necessario am-
mettere, così, l’esistenza di una diversa condizione, che chiamo
“Dio”, implicata, sicuramente, dall’esistenza e dalle modificazioni
dell’anima, e, quindi, tale da giustificare detta esistenza e dette mo-
dificazioni. In relazione a tutto ciò, dunque, diventa ammissibile una
metafisica “critica”, volta, tra l’altro, a determinare quello che pos-
siamo lecitamente pensare di Dio e dell’anima. Occorre rilevare, in-
fatti, che Dio e l’anima non costituiscono termini del progresso del
concepire, ma stanno a fondamento di quest’ultimo (in tal senso
sono “condizioni trascendentali”) per cui non sono conoscibili in ciò
che sono in se stesse. Si ha, comunque, che mentre Dio potrebbe
essere stato o stare senza i corpi (ed, ovviamente, senza le nostre
anime), non potrebbe in alcun modo essersi dato o darsi il contrario.
Così, se l’anima è condizione trascendentale condizio-nata (nella
sua esistenza e nelle sue modificazioni sensibili), Dio è condizione
trascendentale incondizionata, ossia è, ed è ciò che è, incondiziona-
tamente rispetto ad altro, vale a dire che porta in se stesso la ragio-
ne del proprio essere e dell’essere ciò che Egli è.
Conviene ora che ci chiediamo quale sia il valore della scienza
in relazione al fatto che essa considera i corpi quali cose, quali esi-
stenze in sé. Ebbene, abbiamo stabilito che l’esistenza dei corpi
stessi quali cose ha un valore formale, nel senso che questo deriva
dalla nostra esigenza che, come cose, essi siano comportati dalla
materia data sensibile (sensi puri). Ne segue che anche la scienza
ha un valore formale. Posto, cioè, che le nostre idee dei corpi non
hanno affatto come controparti cose, ne consegue che tutto ciò che
concepiamo circa i corpi medesimi (la loro stessa esistenza, la loro
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consistenza materiale, le loro variazioni, le loro relazioni, ecc.), ha


un valore formale. Questo significa che detto concepire non trova
affatto corrispondenza in una realtà che non si risolva in esso e che
ne stia al di là (come, invece, lo starebbe una realtà di corpi quali
cose). Così, una volta avvertito che i corpi non sono cose in sé, si
tratta di comprendere che il problema di fondo da risolvere è quello
di chiarire come essi siano o diventino possibili come nostre idee e
come lo siano o lo diventino anche le conoscenze che li concernono
e non di stabilire come dette idee e conoscenze possano trovare
corrispondenza in una realtà consistente in corpi quali cose. Per
questo le risposte, che la scienza ha date e darà a tutti i problemi
che si sono posti o si porranno, hanno e avranno sempre un valore
meramente formale, poiché non possono trovare corrispondenza
che nel mondo dei corpi in quanto nostri meri oggetti e non certo in
qualcosa che ne stia al di là. Conviene rilevare che, appunto, noi
parliamo di nostre conoscenze in relazione alla nostra pretesa che
le anticipazioni (in cui tutti i significati delle leggi delle scienze em-
piriche si risolvono) siano verificabili, ossia che troveranno corri-
spondenza in presentazioni (visive, tattili, ecc.) future. Si deve tutta-
via riconoscere che detta pretesa si fonda sulla nostra esigenza che
i corpi siano cose e, per ciò stesso, che valga l’induzione (ossia che
il futuro assomigli al passato). In effetti, nulla assicura che ciò si ab-
bia, ossia non possiamo essere certi che la predetta corrispondenza
continuerà a manifestarsi, poiché i corpi non sono affatto esistenze
in sé permanenti e la materia data sensibile non è in potere della
nostra anima, la quale non sa affatto attraverso quali vie o mezzi la
materia predetta le giunga.
Si può ben affermare che, con la scienza, si manifesta l’atteggia-
mento naturale della nostra mente, grazie al quale si ha il progresso
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intensivo delle nostre conoscenze e che, con la filosofia, si manife-


sta l’atteggiamento critico, grazie al quale si ha il regresso esplicati-
vo e, con ciò, la determinazione delle condizioni di possibilità del
progresso predetto. In tutto ciò, non c’è contrasto: ognuno di noi, in-
fatti, può ben intendere che, quando consideri i corpi stessi e i loro
mutamenti, valgono le conoscenze scientifiche, ossia verità di valo-
re formale, e che, quando, riconoscendo che i corpi non sono dati, si
volga, criticamente, a determinare le condizioni che li rendono pos-
sibili, valgono le determinazioni della riflessione critica, ossia verità
di valore reale. Tra queste, quella fondamentale è che esistono Dio
e la nostra anima, che, in quanto condizioni trascendentali, sono le
sole esistenze in sé di cui ognuno di noi può essere assolutamente
certo (è bene affermare, tuttavia, che non mancano argomenti, per-
ché ognuno di noi possa ritenere, validamente, che esistono altri
soggetti pensanti a lui simili).
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