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AL BUON CORSIERO

NICOLAS BOUVIER

Dalla collana AL BUON CORSIERO Manlio Cancogni, Sposi a Manhattan Manlio Cancogni, Limpero degli odori Manlio Cancogni, Caro Tonino Manlio Cancogni, Gli scervellati Giovanni Michelucci, Lettere a una sconosciuta Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura Silvio DArzo, Casa daltri. Il libro Stefano Scansani, LAmor morto Eugenio Turri, Il viaggio di Abdu Gino Montesanto, Cielo chiuso Tano Citeroni, Il canto del verzellino Giorgio Messori, Nella Citt del Pane e dei Postini Emilia Bersabea Cirillo, Lordine delladdio Salimbene de Adam, Cronaca Antonio Bassarelli, Di Elena e dellombra Antonio Bassarelli, La trovatura Giacomo Scotti, Racconti dalla Bosnia Nicolas Bouvier, Diario delle isole Aran Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre Francesco Petrarca, Lettere allimperatore Adriana Zarri, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti Ea De Queirs, La corrispondenza di Fradique Mendes Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema Giorgio Prodi, Lopera narrativa

Vocazione: viaggiatore. Professione: fotografo e iconografo, cio raccoglitore di immagini. E come legame fra tutto questo: scrittore. cos che una scheda segnaletica elencherebbe i diversi lavori di Nicolas Bouvier. Bisognerebbe subito aggiungere che tutti questi lavori li ha fatti per vivere, in ogni senso del termine, a cominciare dal pi ampio. Quindi, per far vibrare e per consumare unesistenza. Non serve a niente viaggiare per chi non esce da s per fare incontri. Il dovere consiste nel darsi a tutto ci che la strada ci riserva, dimenticando la meta e il ritorno. Se si tratta solo di arrivare a destinazione, basta prendere laereo. Viaggiare via terra sar anche anacronistico nellera dei quadrireattori, ma che ne sar della grande madre Asia se ci si accontenta di sorvolarla? La sda autentica non la distanza da percorrere, ma la semplicit di spirito che bisogna raggiungere. In fatto di spoliazione, di atteggiamento contemplativo, era in grado di superare ogni maestro di sapienza. Si legge alla ne de La polvere del mondo: Come unacqua, il mondo ltra attraverso di noi, ci scorre addosso, e per un certo tempo ci presta i suoi colori. Poi si ritira, e ci rimette davanti al vuoto che ognuno porta in s, davanti a quella specie dinsufcienza centrale dellanima che in ogni modo bisogna imparare a costeggiare, a combattere e che, paradossalmente, il pi sicuro dei nostri motori.
Dalla Prefazione di Jean Starobinski

LA POLVERE DEL MONDO

NICOLAS BOUVIER

LA POLVERE DEL MONDO


PREFAZIONE DI JEAN STAROBINSKI

Nicolas Bouvier, svizzero di lingua francese, fotografo, iconografo, nato nel 1929 a Ginevra, dove morto nel 1998. Scrittore nomade nella grande tradizione di Michaux, Segalen e Chatwin, viaggiatore prima in Oriente e poi in Occidente, stato tradotto in tutto il mondo ed diventato un autore di culto. Lusage du monde ha ottenuto il Prix de la critique. Di Bouvier Diabasis ha pubblicato Chronique japonaise (Il suono di una mano sola), scelto in Francia fra i dieci migliori libri del 1990, e Le journal dAran (Diario delle isole Aran. Carte di viaggio).

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Il volume realizzato grazie al contributo di

In copertina Elaborazione grafica da un disegno di Thierry Vernet Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-607-3

Titolo delledizione originale Lusage du monde Payot 1998 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it

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Nicolas Bouvier

La polvere del mondo


Prefazione Jean Starobinski Traduzione e cura Maria Teresa Giaveri Disegni Thierry Vernet

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Il pensiero di viaggiare*

Vocazione: viaggiatore. Professione: fotografo e iconografo, cio raccoglitore di immagini. E come legame fra tutto questo: scrittore. cos che una scheda segnaletica elencherebbe i diversi lavori di Nicolas Bouvier. Bisognerebbe subito aggiungere che tutti questi lavori li ha fatti per vivere, in ogni senso del termine, a cominciare dal pi ampio. Quindi, per far vibrare e per consumare unesistenza. Nessuno come Bouvier mi ha fatto pensare alla radice lessicale che stabilisce il legame tra il francese travail e linglese travel. La lontana etimologia, comune ai due termini, il latino popolare tripalium, designante lattrezzo che soggiogava i bovini o gli equini ribelli, per ferrarli, per estensione lo strumento di tortura. Cos scrive Nicolas Bouvier: Se non si concede al viaggio il diritto di distruggerci un poco, tanto vale restare a casa. Il pesce-scorpione lo dimostra: questo traveller-travailleur, viaggiatore-lavoratore, si sottoposto ai tormenti. Un pungolo delizioso e doloroso lo ha spinto a raggiungere i viaggiatori straordinari evocati da Baudelaire, i soli che partono per il gusto di partire, inebriandosi di spazio e di luce per trarne un amaro sapere. Dunque lusura del mondo, per Bouvier, era anche usura di s. Voleva scoprire fin dove poteva giungere. Perch arrivare fino al termine della strada e giungere fino al termine di s era tutto per lui. Oltre a questo gli importava riaversi, ritornare a s, ma denudato, restituito al senso delle proporzioni insito nella condizione umana, che rimproverava ai sedentari di perdere troppo spesso. Lo ha ripetuto pi volte: ci che lo incitava a partire era il bisogno di non ottundersi, limpazienza di lasciare il benessere quotidiano, di uscire dalla sonnolenza a cui induce la comodit. Partire significava mettersi in guardia, iniziare un rapporto costantemente aperto con il giorno e la notte, gli umori del cielo, lo stato della strada o della pista. Un moltiplicarsi dellattesa grazie al movimento. Bouvier ha citato spesso questa frase di Emerson: Abbiamo diritto a tali espansioni e, una volta superate quelle frontiere, non saremo mai pi i miserabili pedanti che eravamo. In ci non si sentiva uneccezione fra i suoi concittadini. Lo ha scritto nellElogio della Svizzera nomade che apre LEchappe belle. Perch poteva fare appello a una splendida stirpe di predecessori, a cominciare dal piccolo capraio Thomas Platter che solc lEuropa del Cinquecento insieme a bande di scolari. Bouvier ha voluto farsi fratello degli sradicati, degli avventurieri, di quelli che
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lai lungo i bordi della Sava, cercando senza successo di imbastire una qualche storia su questo tema. Data lurgenza della cosa, passai la serata a battere una piccola fiaba in cui il diavolo non entrava pi per niente, e che fu consegnata subito dopo alla redattrice, al sesto piano dun palazzo lesionato. Ci fece entrare, a dispetto dellora tarda. Non ricordo nulla della conversazione; mi colpirono in particolare le sue pantofole col tacco e la superba veste da camera rossa che indossava. Cose che a Belgrado danno nellocchio. E io le ero riconoscente per quella mise cos carina, perch fra tutti gli aspetti dellindigenza, uno dei pi mortificanti m sempre parso quello che abbruttisce le donne: scarpe monoprezzo massicce come protesi, mani screpolate, tessuti a fiori i cui colori sbavano e sbiadiscono. In quel contesto, una veste da camera cos era una vittoria. Ci riscaldava il cuore come una bandiera. Avevo voglia di felicitarmene con lei, di bere alla salute di quel fronzolo. Non osai essere cos esplicito. Ci congedammo con una profusione di ringraziamenti che un po la sorpresero. Quattromila dinari. Sarebbe stato necessario farne dieci volte tanto prima di lasciare la citt, ma era gi qualche giorno guadagnato per il ritiro che contavamo di fare in Macedonia. Per lavorare, per fuggire da una Belgrado che cominciava a sopraffarci. Lastricati del lungofiume, piccole fabbriche. Un contadino, fronte poggiata contro la vetrina dun negozio, che guarda interminabilmente una sega nuovissima. Palazzoni bianchi della citt alta sormontati dalla stella rossa del Partito, campanili a cipolla. Il greve odore dellolio dei tram della sera, gremiti doperai dagli occhi vuoti. Una canzone che spicca il volo dal fondo dunosteria sbogom Mila dodje vrm (addio mia bella, il tempo vola). Distrattamente, a causa delluso che ne facevamo, Belgrado polverosa ci entrava sotto la pelle. Ci sono citt spinte avanti troppo in fretta dalla storia per curarsi del loro aspetto. Da quando era stato promosso a capitale della Iugoslavia, il grande borgo fortificato sera allargato per strade e strade, in quello stile amministrativo che gi non pi moderno e sembra non dover mai essere antico. Il Palazzo della Posta, il Parlamento, i lunghi viali alberati di acacie; e i quartieri residenziali dove le villette dei primi deputati erano attecchite su terreni innaffiati da bustarelle. Tutto era accaduto troppo in fretta perch Belgrado potesse provvedere a quei cento dettagli che fanno la qualit della vita urbana. Le strade sembravano occupate pi che abitate; la trama degli incidenti, dei discorsi, degli incontri era rudimentale. Nessuno di quei recessi segreti e ombrosi che ogni vera citt offre allamore e alla meditazione. Larticolo ben curato era scomparso con la clientela borghese e le vetrine offrivano prodotti che a mala pena potevano dirsi finiti: scarpe ammassate come in cataste, pani di sapone nero, chiodi a chili o talco impacchettato come concime. A volte, un diplomatico che visitava la mostra e ci invitava a cena ci consentiva di ritrovare quella patina cittadina che tanto mancava alla citt. Verso le sette, deponevamo nella Sava la polvere della giornata, ci sfregiavamo in tutta fret21

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ta davanti allo specchio del pianerottolo e, vestiti di completi trasandati, ci lasciavamo beatamente andare in direzione dei bei quartieri, dei rubinetti cromati, con lacqua calda e le saponette, di cui approfittavamo col pretesto di doverci allontanare per lavare una partita di fazzoletti o di calzini. E quando infine quello a cui era toccata la corv finiva per ritornare, con la fronte sudata, la padrona di casa diceva maternamente: Non si sente bene? Ah, questa cucina serba nessuno la scampa, anche noi ultimamente. Anchio aggiungeva il ministro alzando le mani. Non ascoltavamo che a met la conversazione, tutta consacrata al cattivo stato delle strade, allincompetenza degli uffici, cio a carenze e penurie che non ci toccavano per nulla; riservavamo invece tutta la nostra attenzione al gusto vellutato del cognac, alla grana della tovaglia damascata, al profumo della padrona di casa. La mobilit sociale del viaggiatore gli rende pi facile lobiettivit. Queste escursioni al di l della nostra periferia ci permettevano, per la prima volta, di formulare un giudizio sereno su questambiente, da cui bisognava allontanarsi per distinguere i contorni. Le sue abitudini verbali, le ridicolaggini e lhumour, la dolcezza e appena ci sera fatti riconoscere la naturalezza, fiore raro questo in ogni terreno. Ma anche la sonnolenza e quella mancanza di curiosit che il frutto di una vita gi apprestata fin nei minimi spazi e dettagli dalle generazioni precedenti, pi avide e pi inventive. Un mondo di buon gusto, spesso di buona volont; ma essenzialmente consumatore, e dove le virt del cuore erano s mantenute, ma come unargenteria di famiglia riservata alle grandi occasioni. Al ritorno, ritrovavamo la nostra baracca arroventata dal sole della giornata. Spingendo la porta ritoccavamo terra. Il silenzio, lo spazio, quei pochi oggetti che ci stavano a cuore. La virt dun viaggio di purgare la vita prima di riempirla. Un nuovo vicino. Francese dorigine serba, Anastasio, che trovava troppo dura la vita a Montparnasse, aveva deciso di tornarsene al paese. Sera appena sistemato l con una dolce sposa parigina che ognuno della casa aveva segretamente sperato facile, e che non lo era. Anastasio parlava appena il serbo; e gli veniva difficile abituarsi a Samichte e ai suoi usi. Un forte accento parigino e una sorta di timido tono di scherno sostituivano quellaria di sicurezza che non aveva. Per timore di apparire borghese non smetteva mai delle magliette da teppista, mentre sua moglie sera confezionata una veste in bigello di taglio austero che sorprendeva non poco qui. Non aveva avuto occasione di portarla a lungo. Dopo una settimana infatti, papadatchi la zanzara della febbre laveva punta, e adesso se ne stava a letto, deperendo a vista docchio e piangendo come una Maddalena, in un cerchio di vicine burbere e caritatevoli. In breve, Anastasio procedeva di delusioni in sorprese. Anche le donne accrescevano il suo smarrimento: certo che la sua qualit di francese gli avrebbe valso qualche indulgenza, aveva bravamente assalito nelle docce la figlia del custode che laveva mezzo accoppato. Appena appena, mormorava con dispetto, se ho potuto allungare una mano. Milovan il critico se ne faceva beffe.
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INTORNO AL SAKI BAR

Quetta

Il cartello incontrato allalba annunciava Qui strada asfaltata. Ci credevamo fuori dai guai; ma, passata Nuchky, un valico tutto rampe e strati di polvere, che dovemmo conquistare metro dopo metro bloccando le ruote con dei cunei, ci obblig a doparci. A mezzogiorno, passavamo la barriera di Quetta. Pioppi bianchi e quadrati di meloni circondati di spine rimpiazzavano il deserto. La pista era diventata strada, poi viale, sotto le mosse fronde dimmensi eucalipti. Attorno a noi, la citt spiegava generosamente quel poco da cui fatta: lembi dombra fresca, coppie aggiogate di bufali grigi, qualche portale in stile vittoriano fiancheggiato da garitte e da cannoni di bronzo, e viuzze sabbiose dove vecchi inturbantati, duna grande prestanza fisica, fluttuavano sopra bellissime biciclette oliate e silenziose. Una citt sparsa, leggera come un sogno, piena di pause, dimponderabili cianfrusaglie e di frutti acquosi. Anche il nostro arrivo fu leggero. Tutti e due insieme, non raggiungevamo i cento chili. E dovevamo pizzicarci per non cascare addormentati; man mano poi che leffetto della droga diminuiva, una sorta di notte sadagiava nel cuore della giornata. Il piccolo hotel Station View, imbiancato a calce, a strati e sporgenze come una torta di nozze e costruito attorno a un gelso centenario, faceva proprio al caso nostro. Il proprietario, scuro come unicona e con un cappello dastrakan sul capo, era seduto sullentrata del suo cortiletto, dietro un registratore di cassa in ottone lavorato a sbalzo, la cui debole suoneria ci svegliava prima del canto del gallo. La minuscola camera dava su uno di quei rudimentali stanzini da bagno un rubinetto, un buco nel suolo umido tipico dellIndia duna volta, nei quali ci si lava da un mastello a grandi spruzzi dacqua, di fronte a una monumentale sedia-gabinetto i cui braccioli levigati splendono dolcemente. Cera anche una terrazza, dove, la sera del nostro arrivo, ci siamo messi a tavola per cancellare il deserto. Avevamo finalmente raggiunto la citt dove per questa notte i nostri letti erano pronti. I whisky scendevano su di noi in ondate compassionevoli e i malefici del Lut ci sembravano scongiurati. Sentivamo il tonfo leggero delle more che precipitavano gi nel cortile, dove due clienti, seduti alla turca sui loro letti, si scambiavano poche e circospette parole da zanzariera a zanzariera. Una felicit stremata ci faceva tacere. Da ogni lato scricchiolio di fronde. Il mondo era pieno dalberi. Tra i nostri bicchieri, un mucchietto di lettere care of Quettas Postmaster aspettava che avessimo voglia di leggerle.
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Puoi tenerti il tavolo disse Thierry io dipinger nella stanza da bagno. Ma non avevo cos tanta fretta di scrivere; per qualche giorno almeno lessere arrivato a Quetta mi sarebbe certo bastato come occupazione. Per via dun santuomo assai famoso arrivato da Kabul, lhotel era a soqquadro. Camere e corridoi ronzavano di devoti. Appena terminato il breakfast, la sala da pranzo si trasformava in un oratorio dove un mullah, seduto tra una pila di rotocalchi inglesi e le marmellatine sparecchiate in tutta fretta, riceveva i credenti. Una coda di fedeli vestiti a festa aspettava ore e ore per baciargli la mano, farsi benedire, guarire, consigliare; o ancora per porgli una di quelle domande a trabocchetto dargomento teologico cos care ai musulmani. Si sentivano risate, scatti daccendini, la recitazione continua delle sure, il plop conturbante delle bottiglie di gazzosa (anche se gonfi di t, noi avevamo ancora sete). Dopo il deserto, questi rumori di societ mi davano le vertigini. Bisognerebbe rientrare con prudenza nella vita cittadina. Dirimpetto allingresso dello Station View, un mendicante di bellaspetto era steso allombra di un platano, sopra un giornale aperto che sostituiva ogni mattina. Dormire a tempo pieno unoperazione delicata, e malgrado una lunga carriera di dormiglione, il nostro vicino cercava ancora quella posizione ideale che ben pochi trovano nel corso della loro vita. A seconda della temperatura o delle mosche, egli provava nuove varianti che evocavano di volta in volta il seno materno, il salto in alto, il pogrom o lamore. Da sveglio era un uomo cortese, senza quellaria consumata e profetica che hanno cos sovente i mendicanti iraniani. C poca miseria qui, e tanta di quella frugalit che rende la vita pi fine e pi leggera della cenere. Sulla destra, guardando dal portale, davanti al chioschetto dun fruttivendolo, un ragazzo completamente nudo era legato per un piede a un anello incastonato nel muro. Canticchiava, tirando un po sulla sua cavezza e tracciava strane figure nella polvere; rosicchiava pannocchie di mais o fumava le sigarette che il bottegaio veniva a piantargli in bocca gi belle accese. Ma no, non mica in castigo; pazzo, mi diceva il padrone dellhotel; quando lo lasciano libero, fugge e ha fame; cos lo leghiamo un giorno qui un giorno l per non perderlo. una cosa ragionevole, no? La fatica del Lut persisteva tenace. Ci addormentavamo dappertutto. Dal barbiere, poggiati allo sportello dellufficio postale, o al trotto delle gialle vetture russe che qui sostituiscono i taxi. Nelle poltrone striate del piccolo cinema Cristal, cullati dai ventagli dei vicini, ci assopivamo, con un vassoio di t posato sulle ginocchia, mentre una Elisabeth Taylor che un debolissimo proiettore rendeva pi misteriosa e pi perfetta, scopriva lamore. Poi la notte la trascorrevamo a cercare il sonno; col lenzuolo tirato sugli occhi, lorribile canto del motore in seconda ci riempiva le orecchie e attraversavamo il deserto fino al mattino. Stanchi morti, sbadigliando sotto un sole gi forte, andavamo a sondare a piccoli passi la citt.
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Il 31 maggio 1945 un terremoto laveva interamente rasa al suolo, uccidendo un terzo degli abitanti. Ma gli alberi avevano resistito, e qui lacqua e lombra bastano per dar vita a un centro abitato. Quelli di Quetta avevano ricostruito il resto da uomini che non si sarebbero fatti fregare ancora. N fondazioni n pietre. Invece, muri dargilla imbottiti di paglia, graziose pareti divisorie in legno, e stuoie e bidoni, e tappeti dai colori stinti. Nel quartiere balucistano: bottegucce cos fragili ed esigue che un uomo robusto se le sarebbe caricate e portate via a spalle. Persino Djinnah Road, la strada moderna, spina dorsale della citt, ondeggiava con le sue costruzioni non pi alte di un piano e con le sue facciate in legno verniciato. Era il set dun western messo su durante la notte. Solo i grandi alberi, le zucche inclinate sul letame dei cortiletti e la porta di bronzo della Grindlays Bank avevano un podi stabilit e di seriet. Unammirabile profusione di cartelli, insegne, ingiunzioni a sproposito, pubblicit Cornflakes be happy Smoke Capstan Keep left Dead slow arricchiva questa urbanizzazione frugale. A dispetto di quella retorica imbrattata danilina, la citt non pesava nulla. Nessuna pania. Un vento forte se la sarebbe portata via. Ma il suo fascino stava nella sua fragilit. Quetta; altitudine: 1800 metri, 80.000 anime, 20.000 cammelli. Ottocento chilometri pi a ovest, al capolinea della ferrovia, la Persia dorme in un mantello di sabbia. laltro versante del mondo e nulla lo ricorda qui, eccetto il contrabbando. A nord della citt una piccola strada militare attraversa la zona delle colture, sinoltra in unarida pianura e poi risale fino al valico del Khojak e ai massicci della frontiera afghana, dove le trib dei dintorni di Quetta hanno i loro pascoli estivi. Malgrado leccellente pista che conduce dalla frontiera a Kandahar, il traffico praticamente inesistente e la piccola dogana di Shaman una fornace dove nulla passa fuorch il tempo. Verso nord-est, una diramazione della ferrovia raggiunge Fort Sandeman ai piedi dei monti del Waziristan. I clan patani che vi abitano massud e waziri sono i pi coriacei di tutta la frontiera, talmente esperti in rapine, aggressivi e pronti a non tener fede alla parola data, che i vicini sono unanimi a non ritenerli neppure musulmani; e che ci vollero ben quattordici spedizioni punitive per convincerli che non lavrebbero pi spuntata. Infine, verso sud, la linea ferroviaria principale, affiancata da una pessima strada, scende sulla piana dellIndu e la citt di Karachi, attraverso il passo di Bolan che nel periodo della transumanza singorga di immense mandrie di cammelli intirizziti e dilaganti verso il tepore e lerba dellautunno. Ecco i punti cardinali. Sono lontani luno dallaltro. Situano, dunque, la citt, ma non pesano su di essa, che vive per s, tra la stazione simile a un giocattolo stile Napoleone III, il canale insabbiato e vibrante di zanzare, e gli acquartieramenti della guarnigione, in cui lappello delle bag-pipes precede il mattino.

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Dopo dieci ore di lavoro tra i camion smantellati del Ramzan Garage avevamo finito di rimontare il motore. Scendeva la sera. Il garzone della vicina tchaykhane ficcava il naso tra i cric per recuperare i bicchieri sporchi. Quando aveva finito, i meccanici lo afferravano amichevolmente e, con energici spintoni amichevoli, cominciavano a lanciarselo, proprio come un pallone; poi si mettevano in testa la comica calotta ricamata dei balucistani e lasciavano il cortile trascinando le babbucce, in una nuvola di polvere rossa. Coi capelli sudici di morchia, anche noi emergevamo da sotto il telaio e la guardia notturna ci porgeva uno straccio inzuppato di petrolio per pulirci viso e mani. (Non provatelo adesso, il motore; vedrete che domani funzioner meglio: a ogni giorno la sua parte di fortuna). Nella sua gabbia di vetro, Ramzan Sahib archiviava delle fatture canticchiando con voce forzata. Era un gigante nero come la pece, con zazzera leonina e palmi rosa: il volto, una maschera regolare e superba. Era anche un asso della meccanica, che tagliava il gun metal quasi fosse torrone, e un uomo dalle molte risorse. Il suo Khyber Pass Mechanical Shop un capannone fatto di latte per la benzina sovrapposte, un piccolo cortile e un ponte sollevatore meritava quel nome signorile: Ramzan e la sua quipe riparavano di tutto e regnavano indiscutibilmente in un raggio di quattrocento chilometri. DallAfghanistan, da Fort Sandeman, da Sibi, gli mandavano delle macchine che usavano le loro ultime forze nel superare i valichi montani per venire a resuscitare da lui. Qui, dove gli autoveicoli si strapazzano fino alla rottamazione e senza il pensiero di rivenderli, i meccanici ignorano quel repertorio di gesti e mimiche costernate e sprezzanti che, dalle nostre parti, fan vergognare il proprietario duna carretta e lobbligano a comprare del nuovo. Sono artigiani, non rivenditori. Una testata scoppiata, un albero a camme in frantumi, un carter pieno di una specie di farina dacciaio: ci vorrebbe ben altro per turbarli. Le parti buone: fari, sportelli che si chiudono, telai solidi, li impressionano di pi; quanto alle altre, ebbene, essi sono l precisamente per ripararle! I macinini pi raccapriccianti li smontano, li rinforzano con pezzi strappati ai camion e li trasformano in blindati indistruttibili. un ammirevole lavoro dimprovvisazione, mai uguale a se stesso. A volte, essi firmano a colpi di cacciavite una rappezzatura particolarmente riuscita. Non ci si annoia, si guadagna bene. Saldando e aggiustando, si fanno dorare dei toast sul carbone della fucina, si sgranocchiano pistacchi i cui gusci risputati coprono il banco di lavoro, e la teiera bollente non mai lontana. La maggior parte di questi meccanici sono degli ex camionisti che hanno viaggiato; i loro luoghi e ricordi e amori sono distribuiti su un grande spazio. E ci vi mette di fronte a dei tipi aperti e portati al ridere. Impossibile lavorare con loro senza farseli amici. Quando ci arrendevamo, il pensiero fisso sulle carcasse spolpate dal Lut, riponevamo gli attrezzi e raggiungevamo una delle tchaykhane del quartiere chiuso. Seduti davanti alla botteguccia, con una tazza cremosa sulle ginocchia, guardavamo le tre stradine che si animavano dopo la preghiera della sera. Cerano
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un selciato fatto di pietre arrotondate e semicoperte di sabbia, negozi dalle dimensioni dun armadio che vendevano zucchero di canna, sapone, una manciata di albicocche posata sopra della carta stagnola, oroscopi e piccoli sigari. Qualche sottile figura se ne stava al fresco davanti alla propria casa, dritta nel suo sari color rosso e oro. Cerano anche delle porte blu in cui sapriva uno sportellino con le sbarre, e dietro giovani volti incorniciati da ciocche nere aspettavano il cliente. Un colloquio discreto procedeva attraverso quegli spioncini, poi il battente si apriva sullo spasimante che, se in vena di generosit, faceva venire anche un vassoio di t e un musicante. Il liuto risuonava dietro le porte chiuse e le stelle salivano su quel quartiere rustico dove dei grossi bricconi paciosi, venuti dal deserto per le loro compere, passeggiavano con le mani dietro la schiena e una rosa canina sul cappello, respirando lodore della sera e dirigendo i loro passi a seconda dei richiami provenienti dalle oscure soglie. Nessuno schiamazzo qui, nessun segno di fretta; la gente cercava non tanto il piacere quanto il piacere del tempo libero. E io pensavo ai neon, ai selciati sudici, ai festaioli color mattone, a quel che una certa Europa chiama baldoria. Non diventa canaglia chiunque lo voglia. I balucistani hanno troppo spazio intorno a loro, troppe razze; sicch tutto ci che li riguarda e persino lamore a pagamento evoca un certo grado di finezza e di semplicit. La meccanica mette sete: spendevamo le ultime rupie in t, in succhi di mango, spremute di limone. Grazie ad alcuni frammenti di Paris-Match vecchi dun anno ci informavaamo dei fatti del mondo e domandavamo, in plico sigillato, cinque o sei visti per certe contrade montuose e tutte innevate. Quetta non era che un incrocio, e noi avremmo scelto in seguito. Nel frattempo, mandavamo gi, con la fronte imperlata di sudore, delle porzioni di curry incendiario, e ci concedevamo con foga ogni sorta di ghiottoneria, per ingrassare un po prima delle strade dautunno, per dare di nuovo al nostro corpo unombra meno esile, e per sentire di nuovo il rumore dei nostri passi nella sabbia. La salute come la ricchezza, bisogna averla spesa per accorgersene.
Station View

Seduto davanti alla locanda, vedevo transitare i venditori di crpes, con il fornello sulla spalla, o mercanti di flauti dalle guance gonfie di gamme stridenti, e anche dei cammellieri che piantavano l le loro bestie, per andare, a grandi falcate e con aria avida, a comprarsi una sigaretta. I balucistani continuavano a costituire la mia felicit. Secondo una delle etimologie proposte1, Ba-luch significa la sfortuna, che si cerca in tal modo di scongiurare. Similmente, i tibetani danno ai neonati nomi quale Tignoso, Merdoso, o Amarezza per allontanare gli spiriti fino al momento dello svezzamento. C molto ottimismo e coraggio in tale maniera di giocare dastuzia con la disgrazia. Si lascia a Dio la sua bella onniscienza, attri206

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buendo invece assai poca penetrazione ai demoni, se si spera di ingannarli per mezzo duna semplice antifrasi. Questo metodo riuscito molto bene ai balucistani; conosco pochi altri popoli che siano pi lontani di loro dal far pensare alla malasorte. Il balucistano piuttosto sicuro di s. La sua tranquillit danimo esplode in quel sorriso che galleggia allaltezza della barba e nel drappeggio di pezze sempre pulite. molto ospitale e raramente importuno. Per esempio, non si mettono in cinquanta per sghignazzare stupidamente attorno allo straniero che sta cambiando una ruota; al contrario, offrono t e prugne, poi vanno a cercare un interprete e vi subissano di domande molto pertinenti. Non maniacalmente dediti al lavoro, si dedicano volentieri al contrabbando sui confini della Persia e sparano dei razzi verdi per attirare le meravigliose pattuglie dello Shaga Frontier Corps mentre i sacchi passano da una mano allaltra, sotto gli occhi di Dio, allestremit opposta del deserto. Qui, nellora della preghiera serale, i prati sono coperti di forme prosternate di fianco ai loro pacchi: devozioni vigorose, ma che non escludono la frottola. I balucistani sono dei buoni musulmani sunniti, senza traccia di fanatismi. Un cristiano sar accolto bene come un correligionario, e con in pi una sfumatura dinteresse, e con domande, poich essi sono curiosi come donnole. Il bigottismo, i toni nasali, latteggiarsi, ecco cosa non proprio il loro forte. Nomadi, sardar laureati a Oxford o rattoppa-babbucce, essi vivono senza metterla gi dura, con un forte senso del comico. Il luogotenente Pottinger, della Compagnia inglese delle Indie, che allepoca di Bonaparte attraversava il paese sotto un travestimento subito chiarissimo agli occhi degli abitanti, salv la pelle in alcuni momenti difficili facendoli ridere e in tal modo rendendoseli complici. Tale gaiezza una virt cardinale. Molte volte a Quetta ho visto vecchi di fiera nobilt cadere dalle loro biciclette Raleigh, piegati in due dalle risate perch una battuta lanciata da un negozio li aveva colpiti al cuore. Il pignone della terza, che gi avevamo molato al Khyber Pass Garage, si ruppe nel tentativo di montarlo. Ramzan rigirava nelle mani quel pezzo dacciaio mutilato che ci bloccava in citt. Non riusciva a capire; eppure laveva tagliato in un pezzo di blindatura preso a prestito dalle scorte della guarnigione. Soffriva di rifarlo sorvegliando di persona il trattamento termico, ma ci significava perdere una settimana e rischiare una nuova rottura. Telefonammo a Karachi per ordinare il pezzo; stretti in una cabina dal pavimento imbrattato di betel, sentimmo una voce nasale articolare a ottocento chilometri da l un prezzo che metteva fine alle nostre vacanze. Sarebbe stato necessario lasciare lhotel: non avevamo ancora recuperato e stavolta la povert mi faceva paura. Neri di morchia, a testa bassa, ritornavamo dallufficio postale, quando due giornalisti in cerca di notizie ci tagliarono la strada. Fumiamo insieme sotto le tamerici e raccontiamo i nostri guai. Andate a stare al Lourdes Htel! Il proprietario alloggia a prezzi stracciati i viaggiatori venuti dalla Persia; ha appena
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Nicolas Bouvier

La polvere del mondo

Il pensiero di viaggiare, Jean Starobinski Premessa Un odore di melone La strada dAnatolia Il leone e il sole
Tabriz - Azerbaigian I turbanti e i salici Tabriz II Shahrah

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Intorno al Saki Bar Afghanistan


La strada di Kabul Kabul LIndukush Il castello dei pagani La strada del Khyber

Tradurre Bouvier, Maria Teresa Giaveri

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Poema dello sguardo e dellanima aperti alla polvere del mondo con linnocenza e lumilt di cui lo scrittore nomade capace questo libro viene stampato in seconda edizione nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni per conto di Diabasis dalla tipografia Sograte di Citt di Castello nel maggio dellanno duemila nove

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