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blusubianco

Il libro che occupa lo schermo di fronte


a voi è già stato letto molte volte.
I racconti che troverete in questo ebook
vivevano su blusubianco.it, dove per otto
settimane è stato possibile esprimere
la propria creatività, scambiarsi opinioni,
commenti, impressioni.
Rispondendo alle sfide settimanali
lanciate da müller e dalla Scuola Holden sotto
forma di incipit, i partecipanti
al contest letterario blusubianco hanno
colto l’occasione per esprimere le proprie
emozioni, offrendo un saggio personale
di scrittura e ricevendo un feedback
immediato da un numero consistente
di lettori (oltre diecimila!).
Durante il contest sono stati selezionati
ogni settimana i racconti che per forma
e contenuto sono risultati più convincenti.
Un’ultima fase, quella dell’editing,
realizzata in collaborazione con gli autori,
ha offerto ai partecipanti un importante
momento di confronto tra il mondo della
scrittura professionale e quello dello
scrittore per passione.
Eccoli dunque i testi selezionati e votati,
trasferiti dalla pagina online a quella
di un libro elettronico. Non vi sorprenderà, a
questo punto, l’impressione che blusubianco
sia un prodotto dalle molte facce.
Come se alle stesse domande si fossero
date risposte sempre diverse, infatti,
questi racconti sono una miscela di voci
che si distinguono per stile e originalità.
Cinquantacinque modi diversi di declinare
la sensualità, il piacere, la dolcezza,
l’equilibrio, il benessere, la fusione,
la purezza e l’unicità in una sola, ricca,
antologia di storie.
Anna Bonazza, Andrea Corsiglia,
Elisa Pibiri, Alessandro Testa, Luana Presta,
Mara Cinquepalmi, Ludovica Masci,
Bruno Della Queva, Marta Fanello,
Laura Tommasi, Angelo Santoro,
Marcello Nicolini, Beatrice Lorenzini,
Andrea Cominetti, Alessandra Lusso,
Edoardo Brosio, Antonio Varriale,
Francesca Chiesa, Valeriana Maspero,
Mario Pirani, Alessandro Smith,
Iolanda Pompilio, Lucia De Filippo,
Veronica Morelli, Annapaola Paparo,
Giordano Genghini (Bruno), Matteo Boca,
Francesco Caronna, Clara Calavita (Legolas),
Annalisa Campanale, Luigi Costa
(Windzeross), Rita Rosa, Alberto Cecon,
Lia Gialanella, Bartleby, Vanessa Navicelli,
Grethel Ingrid Mavrovic', Elisa Versiglia,
Maria Sardella, Luca Manzo, Simone
Carabba, Francesca Baraldi, Silvia Seracini,
Alberto Tosciri, Antonello Grassi,
Chiara Agostini, Francesca Ramacciotti,
Valentina Sturli, Carlo Cascone, FC
Ringraziamenti

Più di diecimila persone hanno dato vita,


fantasia ed emozione a blusubianco.

Un prezioso contributo di intelligenza e sensibilità che ha trovato


spazio anche per merito di collaboratori appassionati
e competenti, capaci di unire le loro professionalità per creare
un progetto di comunicazione unico nel suo genere.

Scuola Holden, in particolare Giusi Marchetta, che ha curato


gli aspetti più squisitamente letterari,
Carat Italia per l’ideazione del progetto e la pianificazione
strategica integrata,
Ugo Mauthe per i testi d’atmosfera,
Phoenix Advertising, a cui si devono il contributo strategico
e la creatività dell’operazione.

A tutti va il grazie di müller, naturalmente blu su bianco.


L’antologia blusubianco è stata
interamente curata da Giusi Marchetta,
la giovane scrittrice di Caserta scoperta
dal grande pubblico grazie alla raccolta
di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu,
editore Terre di Mezzo, vincitrice
del Premio Calvino 2007 e finalista
del Campiello Giovani e del Premio Loria.
Suoi testi sono apparsi anche su Linus,
Il Mattino e Repubblica ed è sua la
sceneggiatura di DisAbili, il cortometraggio
che si è aggiudicato il prestigioso premio
riservato da Amnesty International
all’opera che meglio parla di diritti umani.
Giusi Marchetta ha da poco pubblicato,
sempre con Terre di Mezzo, il suo secondo
libro di racconti, Napoli ore 11.

L’antologia blusubianco nasce nell’ambito


del contest letterario blusubianco
condotto da müller e dalla Scuola Holden

I edizione
blusubianco
A tutti i co-autori
di blusubianco
Sei così vicina alla tua crema di yogurt bianco müller
che ne basta una sola goccia.
E’ il tuo segreto,
ma la pelle ti tradisce stillando una ad una
le gocce immacolate di questa esperienza meravigliosa.
Sono le perle che rendono felice ogni amore.
La tua pelle racconta il dono sublime di crema di yogurt bianco müller.
Capitolo 1

Sentirsi
La sua camicia è una macchia bianca sul letto.
Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita,
mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio,
apre la finestra e cambia aria alla stanza.
Va a sedersi davanti allo specchio. E’ bella, oggi;
sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso.
Ora può girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche,
poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.
Va all’armadio e cerca una stampella libera.
Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.
Lieve ma persistente 1

Anna Bonazza

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora:


infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul
ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla
stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. È bella, oggi; sembra
quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può
girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la pre-
me sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e
cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono
anche se è lì, sul comodino.

Si aggira ancora per la stanza, leggera e discreta come sa


essere nelle prime ore del mattino, quando si muove fra i re-
litti della notte appena trascorsa. Sotto la stoffa elegante della
camicia le è parso di sentire ancora il formicolare dell’ecci-
tazione che ha preceduto il sonno, come un volo improvvi-
so di farfalle purpuree, subito dissolte nel candore della luce
mattutina.

1 L’autore ha scelto di non avvalersi dell’editing. Il racconto è ripro-


dotto nella versione originale pubblicata sul sito blusubianco.it.

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Al contempo, agisce con precisione e meticolosità, im-
mersa nella sovrana calma di chi sa esattamente come impa-
dronirsi di ogni piccolo caos e ricondurlo all’ordine. Quando
uscirà dalla camera su ogni cosa sarà steso un velo di sag-
gezza, la saggezza delle cose al proprio posto, là dove le ha
destinate una coscienza superiore. A volte pensa a sé come
ad un demiurgo.
Non in questi termini, per la verità, non ha mai letto Pla-
tone né nessun uomo ha mai usato una parola simile con lei.
Hanno usato altre parole, non sempre spiacevoli. Ma demiur-
go no, non può pensarsi tale. Può però essere consapevole del
cambiamento che impone alle stanze, una ad una, e le sembra
tanto evidente da non credere che qualcuno possa ignorarlo.
Lui, lui soprattutto non può avere l’alibi dell’ignoranza. Lo
immagina stordito dai segni del suo passaggio. E questo è il
suo più grande piacere.
Non è mai (badate bene!) invadente. Non lascia biglietti-
ni ripiegati nel cassetto delle mutande. Non finge di dimenti-
care un orecchino sulla mensola del bagno. Non le è mai pas-
sato per la testa che queste cose potessero essere necessarie,
come piccoli contagi del quotidiano.
Non ne ha bisogno. Potrebbe averne bisogno una moglie
dimenticata, intenta a riconquistare le attenzioni del marito.
Oppure un’amante desiderosa di cominciare ad accamparsi
in quella casa.
Lei no, lei non è puerile, anche se ha un riso di bambina
che confonde gli uomini. E non ama i sotterfugi. Li chiama
mezzucci e non le appartengono. Sa, per istinto, che ricorrere
a piccole trappole, stuzzicarlo, incuriosirlo, sarebbe disone-
sto. Lei non vuole esserlo, nello stesso modo in cui lui non lo
è mai stato in anni ed anni.
Di donne ce ne sono state, eh.
Non una, non due, ma decine. Non sa bene dove le trovi,
probabilmente sono segretarie ed impiegate, che precipitano
l’una dopo l’altra nella tentazione di sedurlo. Lui (lo imma-
gina) non seduce nessuna. Non fa nulla. Non lancia sorrisi.
Non confeziona battute provocanti. Non si sforza di trovarsi

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da solo in loro compagnia. Semplicemente qualcosa della sua
natura è irresistibile e convince queste donne a tentarlo. E
dato che qualcos’altro della natura di lui è cedevole, cede.
Però (questa è la sua onestà) nessuna rimane più di una
notte.
Lei ne è certa, assolutamente certa. Non l’ha mai sorpre-
so con una di loro. Qualche volta si é lasciata cogliere dalla
debolezza di immaginare come sarebbe stato sorprenderlo
con una di quelle donne. Biondi lascivi riccioli sul petto di
lui, gli amanti ancora addormentati, oppure colpevolmente
stupiti dal suo improvviso ingresso nella stanza. Però non è
mai successo. La riempie d’orgoglio, ma soprattutto del ca-
lore dell’abitudine. Non deve aspettarsi nulla di spiacevole in
quella casa. Fuori sì, sempre, ma lì no.
Questo non significa che le donne non lascino segni. Una
volta è un capello sulla giacca (era biondo, per questo imma-
gina sempre una testa bionda al suo fianco) quella successiva
un piccolo orecchino a goccia nel bagno, per questo lei non
lo farebbe mai.
Queste però sono minuzie e sono rare. La conferma
dell’assiduità con cui le amanti si avvicendano è il letto, che
trova inevitabilmente disfatto. Conserva ancora il calore dei
corpi ed ogni singola piega prodotta dall’amplesso: quell’or-
ma del sesso che lei affronta per ultima.
Sa però che le donne cambiano in continuazione perché
nessuna ha mai portato lì i propri effetti personali. Entrano
ed escono da quella casa senza che lei possa anche soltanto
correre il pericolo di incrociarle sulle scale. Qualche volta,
una più ostinata o più ingenua delle altre prova a telefonare.
Spiegazioni, preghiere, insulti. Questo il genere di parole con
cui vorrebbero catturarlo, resistere alla propria scomparsa
dalla vita di lui, dopo una manciata di notti.
Una sola volta ha alzato la cornetta. Dall’altra parte c’era
una voce prima quieta, diplomatica, poi innervosita dal suo
silenzio. Ha riattaccato quando ha sentito le prime incrinature
del pianto farsi strada in quella voce di donna abbandonata.
Poi si é sentita sporca, come se avesse infranto il tacito

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patto che corre fra lei e lui. Così ha deciso di non rispondere
mai più, per nessun motivo. Però preferisce non guardare il
telefono, perché ha paura di ritrovare anche la propria voce
fra le voci, abbandonata.
Fra loro e lei c’è un abisso. Loro sono pesanti ed odorose.
Eppure basta poco per scacciare gli avanzi delle loro brevi
notti. Non riescono mai a tornare tanto frequentemente da
poter imporre il loro odore sulla casa: basta arieggiare la stan-
za e sono già sparite, come sparisce l’insignificante.
Lei è lieve ma persistente. Non lascia orme, ma visita
ogni cosa ed ogni angolo di quella casa. Lieve ma persistente,
queste sono le parole con cui un giorno lui l’amerà.
Le parole con le quali la riconoscerà. Come sua, lieve e
persistente.
Nel frattempo, si occupa della stanza. Finalmente arriva
al letto, che lascia sempre per ultimo.
Si stende sul ventre, braccia aperte a croce, naso pre-
muto. Rimane lì, nell’orma lasciata dall’ultima donna. Lascia
trascorrere qualche minuto, quieta, perché sa di non poter
essere intaccata dal loro odore.
Poi si rialza e, con gli stessi gesti precisi che ha dedicato
al resto della camera, rifà il letto. Fa prendere aria alle lenzuo-
la, sprimaccia i cuscini e restituisce ad ogni cosa la forma ide-
ale. Quella precedente l’ingombrante realtà che quelle donne
trascinano con sé.
Quando ha finito con il letto si riposa. Solo qualche at-
timo. La camera da letto è la stanza che preferisce in quella
casa. È la più intima, questo è banale, ma è anche quella dove
il cambiamento che lei porta è più significativo. Sistemare i
cuscini sul divano od occuparsi del calcare di un lavandino
non è la stessa cosa. Qui, qui dove vivono anche le donne,
seppure per una notte soltanto, c’è più lavoro da fare. Ed
anche lui, la linfa di lui che è in ogni oggetto e mobile e libro
e cravatta, nella camera da letto è così nitida che si stupisce di
non ritrovarsene le dita macchiate come fosse inchiostro.
Mentre si riposa, pensa. Le piace ripassare mentalmente
i gesti che ha appena compiuto. La borsa nuova le piace: è

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pratica, ma classica, in ufficio gliela invidieranno. La camicia
bianca però le è piaciuta più di tutto il resto, anche più di
sistemare la biancheria nei cassetti, attività che di solito pre-
ferisce alle altre.
Non è una sciocca: non è rimasta immobile, tutti questi
anni, in attesa. Le piace ballare ed esce più volte durante la
settimana. Indossa vestiti graziosi, seducenti, soprattutto blu
perché il blu le dona. Porta anche braccialetti tintinnanti e
mollettine colorate fra i capelli. Spesso esce con le amiche,
ma non si preoccupa di uscire anche da sola. Permette agli
uomini di notarla e non raramente permette loro anche molto
di più.
Questo però non ha a che fare con lei più di quanto quel-
le donne abbiano a che fare con lui. Quegli uomini, infatti, si
dileguano presto, nel tempo necessario a rifare il letto.
Più tardi, esce di casa. Sul pianerottolo incontra Lina, la
sua collega. Anche lei indossa un grembiule azzurro e porta
il proprio nome appeso al taschino, seguito da quello dell’im-
presa di pulizie.
Si sorridono, Lina si lamenta come al solito delle mac-
chie impossibili che costellano il pavimento della signora
dell’ultimo piano. Le chiede come si è trovata con il nuovo
detergente per sanitari. Scendono assieme, la voce di Lina è
un gracidio che riecheggia nella tromba delle scale, lei pensa
a se stessa crocifissa sul letto disfatto. Al terzo piano si sepa-
rano di nuovo, una per appartamento da pulire.
Lui torna soltanto a tarda sera. È in compagnia.
Lei è bionda e con una voce che scalda i lombi, fa la
barista. Non finge di avere bisogno di alcun preliminare. Pre-
sto sono nella camera, ancora più presto sono nudi e lei si
lascia cadere sul letto, allargando le cosce ed invitandolo con
lo sguardo.
Lui si abbassa, dirige il sesso in quello di lei, deve solo
flettere i fianchi ed é affondato. La barista si aggrappa alle sue
spalle, lui le bacia la spalla. Nel farlo, respira profondamente:
le lenzuola odorano ancora di fresco. È come se potesse im-
maginare ogni singolo gesto che ha steso quelle lenzuola e ne

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ha strappato via ogni singola piega. Ora, ad ogni spinta, torna
ad imprimere la ferita di nuove pieghe, estingue la frescura.
Sa che lei riconoscerà i segni e tornerà a cancellarli come ogni
giorno: sapere di costringerla a sfiorare l’impronta lasciata
dal proprio corpo, dal proprio corpo nudo stretto su quello
di un’altra donna, lo esalta. Lei lo sentirà.
E questo è il suo più grande piacere. Perché da anni,
quando torna a casa, la sente lì. Non sa come faccia, perché
non esistono tracce. Eppure è ovunque, satura ogni cosa. È
persistente, ma lieve.

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Vorrei che non venisse
mai domani
Andrea Corsiglia

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora:


infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul
ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla
stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. È bella, oggi; sembra
quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può
girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la pre-
me sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e
cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono
anche se è lì, sul comodino.

Appende la camicia all’unica gruccia inutilizzata. Chiu-


de l’armadio: il suo sguardo sfiora il telefono, solo per un
attimo. I suoi pensieri si perdono dietro i ricordi della serata
di ieri. Un’incertezza la sfiora appena, come se piccoli par-
ticolari le sfuggissero. Si rassicura: tutto è andato nel verso
giusto per lei.
Attraversa la stanza per arrivare in cucina. Qui, con gesto
d’abitudine, spalanca la portafinestra: l’aria del mattino so-
verchia l’odore di chiuso. Respira profondamente, sbadiglia.
Si volta verso il frigo, lo apre. Afferra un cartone di latte già
iniziato, lo annusa attentamente: è ancora buono. Prende un

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bicchiere, lo riempie. Va a sedersi al tavolo. I suoi occhi ri-
mangono fissi sul bianco del latte.
–Vorrei che non venisse mai domani. –
Questa frase riecheggia dentro di lei tanto viva che le
parole sembrano risuonare nella cucina altrimenti silenziosa.
E questo volteggio è accompagnato da un profumo: lo stesso
che impregna la sua camicia.
Il suo sguardo si sposta sul pacchetto di sigarette, accan-
to al bicchiere. Aspetta solo le sue mani: non lo fa attendere
oltre. Lo apre e ne prende una, l’ultima. Il fumo della sigaret-
ta volteggia davanti ai suoi occhi chiari, al di sopra della sua
testa e, in un attimo, svanisce.
Lei si alza, con la sigaretta penzoloni fra le dita, chiude la
finestra. I vetri le rimandano il suo riflesso. Si passa una mano
fra i capelli ed è come fosse ancora lui ad accarezzarli.
La cenere dalla sigaretta cade sul pavimento. Lei si volta,
non ci bada. Torna a sedersi.
È persa nel ricordo, eppure quel tornare indietro dei suoi
pensieri le sembra difettoso.
Nella sua mente rinascono le immagini: è lì, ancora in
quel locale, con le amiche. Bevono e ridono, si guardano at-
torno. Si sente osservata: uno sguardo insistente e sorridente
la corteggia. E quello sguardo diventa un uomo che si pre-
senta, le offre da bere.
Il vociare confuso degli altri avventori sparisce. Ora c’è
solo la voce dell’uomo che ha davanti. Il suo volto, il suo pro-
fumo.
I suoi occhi si ridestano: davanti ha solo il bicchiere di latte.
La sigaretta si è consumata, spenta. Il suo rovello non la lascia.
Sorride: ha voglia di risentire quella voce, ma il telefono
tace. E allora non resta che ricordare ancora, per indovinare
dove la sua memoria comincia a mancare.
Escono in strada. Ancora non capisce come l’abbia con-
vinta. Non le è mai capitato di accettare un invito a casa da
un uomo appena conosciuto ma sente che di lui ci si può
fidare. Non è una questione fisica. Certo, è bello, ma più di
tutto è sincero.

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Camminano, parlano. I loro occhi sorridono e s’intendo-
no. Le vie e le piazze scorrono sotto i loro piedi, sembra un
attimo e sono già sotto casa. Lei ha un’incertezza mentre lui
accende la luce nell’androne. Non sa se restare. Lui si volta,
le tende la mano: le porte dell’ascensore si aprono. Adesso
sono sul pianerottolo, l’uomo sembra pensieroso, si muove
con cautela, con passi triti. Sembra avere fretta.
Lei lo segue mentre lui le fa segno di non parlare e, sot-
tovoce, aggiunge: – I vicini. –
Lei sorride, le sembra buffa come preoccupazione. Lui
apre la porta di casa delicatamente e, allo stesso modo, la ri-
chiude. Sono nell’ingresso: il volto dell’uomo si rilassa in un
sorriso, ma in un attimo si corruccia, come avesse dimentica-
to qualcosa d’importante.
– Un attimo – dice, mentre si sposta verso la stanza da
letto. Lei aspetta e si guarda attorno. Si passa una mano nei
capelli, controlla quante sigarette le sono rimaste.
L’ingresso è spoglio, c’è solo un attaccapanni e nient’al-
tro. Sente dei rumori nella stanza: un cassetto aperto e richiu-
so. Un gesto rapido, furtivo. Lei, incuriosita, vorrebbe sapere
cosa stia facendo in quella camera. E poi no, non le sembra
carino che la faccia aspettare. Ora lui le è di fronte, sorride.
Le fa strada in un piccolo salottino, la fa accomodare, versa
da bere: un liquore alla menta. Si muove sicuro nello scarso
spazio della stanza. Accende lo stereo, musica d’atmosfera.
Si volta verso di lei, le dice che se vuole può fumare. Si
siede sul divano: i loro corpi non si sfiorano, anche se vorreb-
bero, si trattengono, per una sorta di strano pudore. Parlano
e si raccontano l’uno all’altra. Lei non chiede nulla, è lui che
racconta: il lavoro, gli amici, la sua vita. In quello che racconta
non parla di altre donne, forse per garbo. Ma lei è curiosa,
vuole sapere.
Alla domanda l’uomo sorride, scuote la testa. Si volta
verso di lei, dà una sorsata al liquore. Poi dice che no, non ci
sono donne nella sua vita. Sembra sincero e questo a lei basta.
Poi lui si alza, si avvicina allo stereo, abbassa il volume.
– Sai, i vicini. –

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– Capisco –, dice lei.
Un rumore sordo arriva dalla camera. Lei torna presente
a se stessa. Si alza dalla sedia e, con passo svelto, arriva nella
stanza da letto. Si guarda attorno, tutto sembra in ordine, poi,
seguendo un vago istinto, riapre l’armadio: la camicia è cadu-
ta dalla gruccia trascinando con sé un altro abito.
Sorride. Le sue mani si posano sulla camicia, la accarez-
zano e il profumo di lui sembra ridestarsi, tornare vivo. Lo
può sentire, come se le fosse accanto.
È una sciocchezza ovviamente: la casa è deserta.
Stringe la camicia al petto, guarda il telefono. Va verso
l’apparecchio e con la mano destra si assicura che il ricevitore
sia al posto giusto poi si abbandona sul letto, la camicia stret-
ta al seno e lo sguardo perso nel bianco del soffitto.
È ancora con lui, sdraiata su un letto troppo grande per
una persona che vive sola. Forse ama la comodità. Non vuole
indagare: si sente a suo agio, disponibile. Lui le accarezza i
capelli. Lei lo bacia. I loro corpi fremono sfiorandosi e poi si
sciolgono in un amplesso armonioso.
Ora, abbracciati, si guardano negli occhi; lui le sussurra:
– Vorrei che non venisse mai domani. –
Pochi istanti ancora abbracciati. Lui si alza dal letto.
– Un attimo, arrivo subito. – Si ritira in bagno.
Ancora un’attesa annunciata dalle stesse parole di prima.
Lei aspetta: il suo sguardo si posa sulla cassettiera, accanto
all’armadio. Uno di quei cassetti è stato riaperto e chiuso in
fretta. La curiosità diventa invadente, nutre un dubbio che
chiede soddisfazione.
Stringe i pugni come a trattenere quel che si agita dentro
di lei: lo sa, i cassetti, a volte racchiudono segreti che se svela-
ti, a volte, regalano solo dolore. E il dolore non si può scorda-
re, ma solo accantonare. Sgomita e si fa largo dentro di lei, il
dolore. Si nutre di ricordi: lei adolescente che ciondolava per
casa a piedi nudi, il caldo dell’estate che entrava dalle finestre
spalancate.
Girovaga e curiosa: apriva armadi e cassetti, scatole. Sul
comodino, accanto al letto matrimoniale, una chiave dimenti-

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cata: quella del cassetto del padre. In un attimo lo apriva: una
foto ritraeva una donna che non aveva il volto di sua madre;
due lettere profumate, parlavano d’amore ma quell’amore non
era per sua madre. Richiudeva il cassetto, riponeva la chiave.
Si alza dal letto di quell’uomo, vuole cacciare via il do-
lore, quel ricordo. Si accosta alla cassettiera. Le sue mani la
accarezzano, poi aprono il primo tiretto: una foto ritrae una
donna e un bimbo. Sorridono. Accanto, fra la biancheria, una
pistola. Indietreggia appena, sconcertata.
Eppure vuole sapere.
Le sue dita s’aggrappano a quella foto: spera che sia l’im-
magine di un passato lontano. La rigira, una data, scritta in
blu, le dice invece che quello è il presente. Fissa quei numeri
blu: il dolore d’allora diventa la rabbia di oggi, che le stringe
lo stomaco, toglie il fiato. Lentamente posa la fotografia. Os-
serva quei volti sorridenti, traditi. La sua attenzione si posa
sulla pistola, le sue dita ne seguono il freddo profilo. L’af-
ferra. Si avvicina alla sedia dove prima, spogliandosi, aveva
appoggiato i suoi vestiti. Nasconde l’arma nella borsetta. Si
riveste, siede sul letto. Lui esce dal bagno, entra nella camera.
Le chiede come mai sia già vestita, perché non resta.
Lei non risponde. Lui le siede accanto. Il suo corpo
nudo, se non per un asciugamano che gli cinge la vita, effon-
de nell’aria quel profumo che l’ha incantata.
Lo stesso che sente ora, mentre accarezza la camicia che
stringe al petto. I suoi ricordi si spiegano in un crescendo: si
fanno netti, tersi. La getta a terra. Sente ancora la mano di
lui che le accarezza una spalla. Le chiede nuovamente perché
vuol andar via. Lei con gesto muto gli indica il cassetto. Lui
comprende tutto. Si lascia cadere all’indietro, sorride. Lei lo
guarda; si alza, pallida di rabbia. Lui smette di sorridere, le
dice che in fondo si sono divertiti, che cosa cambia se è spo-
sato, perché rovinare tutto? Lei non ascolta: infila la mano
nella borsetta, sente l’acciaio e lo stringe. Lui giace sul letto:
ora vorrebbe solo che lei se ne andasse. Non dice altro.
La canna della pistola adesso è puntata dritta su di lui.
La rabbia le chiede che aspetta per premere il grilletto. Lui

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apre gli occhi, vede l’arma e lo sguardo di lei che getta faville.
Si alza a sedere sul letto, impallidisce; la sua ragione si aggro-
viglia nel cercare una soluzione, ma tutto un possibile giro
di pensieri si arresta quando una palla di piombo rovente gli
attraversa la fronte. I suoi occhi spalancati ricadono, con il
suo corpo, sul letto. Lei guarda la pistola, si volta, la ripone
nel cassetto con i suoi ricordi.
Ora, nella sua camera, lei si alza dal letto, scaccia via quel
torpore. Raccoglie la camicia da terra, non fa più caso al pro-
fumo. Va in cucina, dove c’è la lavatrice, la apre, mette dentro
la camicia. La richiude, schiaccia il pulsante d’avvio. Torna
in camera. Guarda il telefono: non suonerà, proprio come se
ogni cosa fosse andata giusta per lei.

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Sentirsi
Elisa Pibiri

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora:


infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul
ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla
stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. È bella, oggi; sembra
quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può
girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la pre-
me sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e
cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono
anche se è lì, sul comodino.

Sorride ancora: lascia vagare lo sguardo e si aggrappa


con la mano alla stampella quasi come se potesse reggere tut-
to il peso. Ma la camicia è ancora lì abbandonata come una
donna dormiente: aspetta. Come nella sua poesia.
Non farà la telefonata, non oggi.
Si sente positiva: va in bagno, apre i rubinetti, lascia che
l’acqua scorra. Sul davanzale ci sono i fiori gialli che le aveva
portato l’altra volta; ne stacca un petalo secco che si sbriciola,
i pezzettini se li porta via un alito di vento, se ne vanno per
non tornare.

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Si ostina a portare a casa i fiori vecchi dopo che li sosti-
tuisce con quelli freschi e li tiene finché non si seccano del
tutto; come si ostina a indossare le sue camicie e a lasciarle
buttate in giro.
Ogni tanto lo sente mentre la rimprovera ma la sua voce
è distante, le parole sono vuote, come la mancanza.
Poggia la guancia destra sulla manica dell’accappatoio
blu, come per trarne conforto, trattiene dentro di sé il profu-
mo di cui è intriso e per un attimo è come tornare fra le sue
braccia.
Le mani a coppa, sotto il rubinetto, si riempiono d’acqua
ed è un toccasana sulla pelle del viso che sembra aver trat-
tenuto tutto il calore delle sue emozioni. Chiude i rubinetti,
respira e guardandosi allo specchio si sente come un’estra-
nea, in quelle stanze piene di ricordi, di colori. Quasi come se
tutto questo in realtà non stesse accadendo a lei, come se lei
fosse ancora sotto le coperte con gli occhi chiusi ad aspettare
che lui le dia il bacio del buongiorno. Quasi come se queste
nubi temporalesche che avanzano dall’orizzonte fossero già
lontane.
I fiori freschi sono sul tavolo, le chiavi appese vicino
alla porta, la borsa sopra il cuscino. L’impermeabile di lui
sull’appendiabiti. Con un ultimo sguardo vede le maniche
dell’accappatoio blu che svolazzano: pare quasi che la stiano
invitando a tornare indietro a farsi un bagno caldo e a dimen-
ticare per un attimo.
La porta si chiude, lei sta già volando verso la macchina.
I fiori sono adagiati sul sedile dove viaggiava lui, la strada
scorre tranquilla, la radio suona una canzone che si chiama
“Unconditionally”.
Qualche goccia di pioggia, un ombrello rosso aperto in-
castrato nella ringhiera del parco, un edicolante trattiene un
manifesto che cerca di volare via. Lei sterza dolcemente. Si
lascia il temporale alle spalle.
Le porte dell’ospedale si aprono con un sospiro. L’infer-
miera accenna un sorriso, le porge la penna.
– Non ha telefonato oggi. – le dice semplicemente, ma

24
oltre la sfumatura amichevole vi è dell’altro: comprensione.
Compassione.
– No, stavo facendo una passeggiata ed ho deciso di ve-
nire di persona – risponde lei scrivendo il suo nome. L’infer-
miera guarda i tulipani avvolti nel giornale: c’è un articolo di
un attore morto l’altro giorno ma non lo conosce. Lei sospira
e si allontana: l’infermiera sa.
Il medico sta uscendo dalla stanza trentuno; in piedi, uno
di fronte all’altra, si guardano per un secondo.
– Non si è svegliato neanche oggi, mi dispiace – le dice
posandole una mano sulla spalla.
Lei fa solo un cenno di assenso col capo.
Vederlo le procura una sensazione confusa, un misto di
tristezza, gioia ma anche sollievo: è ancora lì.
Qualcosa le si scioglie dentro, qualcosa di caldo e piace-
vole: nella sua mente lui la guarda, le sorride, solleva le mani
e le dice che non vedeva l’ora che arrivasse.
Nella realtà lui è disteso sul letto, con i capelli ben rav-
viati, la pelle bianca senza una macchia, l’espressione rilassa-
ta e tranquilla. Il respiro regolare. Gli occhi inesorabilmente
chiusi.
Gli dà un bacio sulla fronte, sistema i tulipani nel vaso,
e avvolge le rose bianche appassite nel foglio di giornale. Si
siede. Prende un libro dal comodino, toglie il segnalibro e
riprende a leggergli le poesie da dove aveva lasciato la volta
precedente, perché sono i loro versi preferiti, questi. Perché
non vuole che il filo che li tiene legati si spezzi.
Gli sfiora la mano e intreccia le dita con le sue. Perché in
qualche modo lo sente.

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A caccia di leoni
Alessandro Testa

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora:


infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul
ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla
stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. È bella, oggi; sembra
quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può
girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la pre-
me sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e
cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono
anche se è lì, sul comodino.

Lo scroscio della doccia le arriva attutito dalla porta chiusa.


La camicia è candida e stirata alla perfezione e i gemelli
d’oro spiccano dai polsini aperti: così appesa sembra grotte-
sca, con quelle maniche troppo lunghe e il colletto rigido e
appuntito.
Il suo sguardo va al monogramma ricamato sulla stoffa.
“Non mi hai detto come ti chiami” mormora parlando
alla camicia, chiudendo i bottoni mentre elenca una serie di
nomi e cognomi che corrispondano alle iniziali. E non ti sei
accorto che non te l’ho chiesto, pensa con tristezza chiudendo
l’armadio.

26
Lo specchio le rimanda una nudità sfrontata e sfiorita
ma la luce gioca con grazia sull’inevitabile resa del corpo agli
anni di vita.
A volte i nomi le mancano: sono come piccoli strappi nel
velo che la copre e quando i loro volti le tornano in mente av-
verte una morsa allo stomaco e un senso di angoscia perché
sa che in quei momenti un solo, immondo nome le riempirà
la testa e rivedrà mani nodose e forti strette intorno alle sue
gambe di bambina.
Il suono dell’acqua che scorre si mescola al fischio di una
melodia allegra, di quando in quando interrotta da un ridico-
lo vocalizzo. Sono tutti così, i leoni del giorno dopo: ti hanno
cercata tra mille e riverita come una regina, hanno speso soldi
e tempo per mostrarti di quanta gentilezza e romanticismo
siano capaci.
Sono tutti romantici, pensa guardando il sole salire dal
mare, quando sono sicuri di portarti a letto. I leoni del giorno
dopo ti hanno comprato il mondo per toglierti i vestiti ed
esplorare ogni angolo del tuo corpo; ti hanno offerto la notte
per nasconderti e averti come giocattolo in esclusiva.
I leoni del giorno dopo ti hanno tirato per i capelli mon-
tandoti da dietro e sono ricaduti sulla tua schiena sudata,
esausti dopo quella che credono sarà la volta che non dimen-
ticherai.
I leoni del giorno dopo si alzano scostando con mala gra-
zia le tue braccia che gli accarezzano il petto e si buttano
sotto la doccia perché al mattino desiderano solo ritornare
al mondo che li conosce. I leoni del giorno dopo fischiettano
canzoncine popolari e arie d’opera mentre già pensano ai re-
gali da portare a casa: un profumo, qualche foulard, sopram-
mobili, e il suono dei tuoi gemiti.
Improvvisamente il fastidio diventa dolore e il dolore si
trasforma in rabbia; sente ancora i suoi colpi e la presa attor-
no ai fianchi. Porta alla bocca le mani strette a pugno e si pie-
ga su di sé mentre cerca di soffocare un urlo. Ci sarà tempo di
urlare, magari durante una corsa sulla spiaggia o nell’acqua
fredda della baia.

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Dovrebbe lavarsi, invece, ma lo farà più tardi. Ora vuole
solo liberarsi del ricordo di un incubo che l’assale ogni volta
che si lascia andare: è stata lei a cercare il leone travestito
da agnello. Sempre lei gli ha concesso di sbatterla come un
vecchio straccio, ancora lei gli ha dormito accanto nell’appic-
cicoso distacco del dopo.
È come guardare un’altra se stessa fare quelle cose, pro-
vando vergogna mista a odio: lavare l’offesa, vendicare la
donna leggera e indifesa che si è fatta comprare per una bor-
setta di marca e qualche gioiello.
Riapre l’armadio e fissa la camicia: immacolata, perfetta,
è l’unico ricordo che si porterà dietro, l’unica cosa di valore
che strapperà al leone del giorno dopo. Gli lascerà borsetta
e bracciale, calpesterà il suo vestito di sartoria e annoderà la
sua cravatta in tinta prima di lasciare la stanza.
Afferra il fagotto di panno che ha tirato via dalla borsa e
richiude l’armadio; di nuovo lo specchio la ferma in quell’in-
terminabile istante che precede il sorriso mentre srotola il
panno sul letto. Afferra il manico, passa un dito sulla lama.
Si accarezza la pelle col grosso coltello che si bagna dei suoi
stessi umori. La doccia va ancora, lei apre la porta e il suono
improvvisamente violento la costringe a socchiudere gli occhi
in una smorfia di disprezzo.
– Addio. –
Il sussurro è quasi un ringhio.
La belva fischietta: ignora di non essere più un leone. E
che non ci sarà un altro giorno dopo.

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Bolle di sapone
Luana Presta

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora:


infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul
ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla
stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. È bella, oggi; sembra
quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può
girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la pre-
me sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e
cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono
anche se è lì, sul comodino.

La stanza alle sue spalle le offre solo oggetti minuziosa-


mente disposti, tendaggi scelti con cura e un’eccessiva atten-
zione all’ordine delle cose. I suoi gesti lenti, silenziosi, han-
no il preciso scopo di non tradire al pensiero ciò che invade
il cuore. Quella stanza ordinata stride con il magone che le
stringe lo stomaco.
Chiude le ante con un gesto che mostra più riluttanza
che disinvoltura. Il telefono è ancora lì, muto, e lei si sforza
ancora di non guardarlo, di non toccarlo, cacciando via con
fatica istantanee della notte appena passata che la sfiorano
ancora, seducenti.
Fissa la finestra come un’ancora di salvezza e vi si avvi-
cina. Fuori i primi raggi di giugno incrociano le cassette di

29
frutta dell’ortolano mentre i tetti dei palazzi di fronte le par-
lano di mattini più leggeri.
– Anna – le diceva sua madre da bambina, – non far le
bolle di sapone dalla finestra che la signora Balzi poi dice che
le macchi i panni. Non ho voglia di litigare con tutti i vicini. –
Ascoltava sempre con timore le parole della madre ma
trovava talmente bello osservare quelle bolle delicate span-
dersi per il vialetto che proprio non riusciva a ubbidire. Del
resto poi quella strana signora si lamentava di troppe cose per
i suoi gusti, come quella volta che l’aveva rimproverata sul
pianerottolo perché faceva gli scalini a due a due.
Avrebbe passato intere giornate a fare bolle, le piaceva
fare quelle grosse che per formarle doveva soffiare piano. Le
sue preferite però erano quelle un po’ più piccole che volava-
no in alto, senza infrangersi contro le lenzuola stese della si-
gnora Balzi. Restava incantata a vederle allontanarsi e a ogni
metro che facevano cresceva la sua ansia di vederle superare
la barriera di alberi e alzarsi libere verso il cielo. Scrutava
l’aria con attenzione quando erano molto lontane e faticava a
distinguerle in tutto quell’azzurro.
A volte, passata qualche ora, tornava al davanzale e si
sporgeva nel tentativo di individuarne ancora qualcuna.
A volte si convinceva che le bolle stessero lì ad aspettarla e
prima le salutava con la manina, poi subito pensava: adesso
volate via, vi ho liberato cosa ci fate ancora qui? Volate via.
Altre volte si sentiva stupida, come adesso, e chiudeva la
finestra con aria furtiva guardandosi intorno per verificare
che nessuno fosse testimone di quel suo gesto ingenuo, buo-
no. Non voleva apparire buona. – I buoni sono tutti fessi – le
diceva la zia Linda.
Il suono del telefono la riporta alla realtà. Chiude la fi-
nestra e va a sedersi sul letto. A quello che le diceva sua zia
credeva sempre; o quasi.
– Pronto? –
– Pronto, Anna? –
E per un attimo soltanto, quasi fosse ancora bambina,
pensa a come le bolle di sapone possano sentirsi.

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La macchia 2

Mara Cinquepalmi

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora:


infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul
ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla
stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. È bella, oggi; sembra
quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può
girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la pre-
me sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e
cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono
anche se è lì, sul comodino.

Un’ossessione quel telefono. Non squilla, come era pre-


vedibile, e forse è meglio così. C’è tanto da fare oggi e non c’è
tempo per fantasticare su cose che non si ripeteranno.
Eppure lei sa quella camicia è lì, nell’armadio. È stato
bello rivedersi dopo tanto tempo, quando lei ormai non ci
credeva più. Quella volta a Roma, era dicembre, aveva cre-
duto che tutto fosse perduto. I mesi erano trascorsi liquidi

2 L’autore ha scelto di non avvalersi dell’editing. Il racconto è ripro-


dotto nella versione originale pubblicata sul sito blusubianco.it.

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fino a quella telefonata. Era accaduto all’improvviso, in fretta.
Non aveva avuto neanche il tempo di pensarci. Lui era di
passaggio e avrebbe voluto rivederla. Punto e basta. E ora di
lui rimaneva solo quella camicia.
Non pensarci, non pensarci. È questa la parola d’ordine.
Non cadere di nuovo nella trappola. Far finta di niente, far
finta di...
È tardi. C’è una giornata fitta di impegni che l’aspetta.
Doccia, caffè e poi subito via.
Succede, però, proprio quando lei si è già chiusa la porta
alle spalle. È allora che il telefono inizia a squillare. Una, due,
tre volte. Poi tace. Peccato che lei non lo saprà mai. Quel tele-
fono, una vecchia carcassa ereditata dal padrone di casa, non
lascia traccia delle chiamate perse. Se avesse tardato sotto la
doccia, se si fosse fermata ad ascoltare quell’ultima notizia
al telegiornale, forse avrebbe fatto in tempo a rispondere. E
allora chissà...
Alcuni mesi dopo.
La camicia è ancora lì, nell’armadio. Non è più bianca.
C’è una macchia di umidità sul petto, proprio all’altezza del
cuore. Il bianco ha lasciato il posto ad un alone verdastro che
sta consumando la stoffa. Non l’ha più toccata da quel gior-
no. È finita in fondo all’armadio, tra i vestiti che non indossa
più. Certo che se lui l’avesse cercata, avrebbero potuto chia-
rire molte cose. E invece di lui è rimasta solo quella camicia,
un bianco addio (così ha sempre voluto pensare), un ultimo
bacio a modo suo.
Tre anni e qualche trasloco dopo.
La camicia non è più lì. Lei ha cambiato casa più di una
volta, ha cambiato vita più di una volta. Quell’armadio è stato
smontato e rimontato, i vestiti non sempre sono stati rimessi
in ordine. Qualcuno è stato anche gettato via. Forse anche
quella camicia, ma non se l’è mai chiesto. Ormai il ricordo di
lui è sbiadito, solo una macchia nel suo cervello. Il tempo can-
cella tutto o quasi. Non il suo profumo. Quello riesce ancora
a sentirlo. Se la sera, al buio, chiude gli occhi e si concentra,
allora quell’odore torna.

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Molti anni dopo.
Lei non c’è più. È successo da qualche giorno. Una mac-
chia, così ha spiegato il dottore, ha consumato il suo cervello.
Ora tocca a suo figlio mettere ordine tra le sue cose. È fatico-
so riordinare oggetti che non ti appartengono, essere tu a sce-
gliere cosa conservare e cosa invece buttare via per sempre.
È stato allora che la camicia è saltata fuori. Quella cami-
cia un po’ ingiallita e probabilmente un tempo bianca. Suo
figlio l’ha guardata, l’ha toccata con un certo pudore e poi
l’ha presa. Prima ha sfiorato il colletto e accarezzato le mani-
che, poi se l’è premuta sul naso, sulla bocca. Ha sorriso: che
stupido. È l’odore di sua madre.

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Toccami ancora, toccami
Ludovica Masci

La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora:


infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul
ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla
stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. È bella, oggi; sembra
quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può
girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la pre-
me sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida. Va all’armadio e
cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono
anche se è lì, sul comodino.

Il solito brivido. Chiude la finestra: in fondo, perché far


entrare tutto quel freddo se quella stanza è vuota da ieri mat-
tina?
Mi manca tanto quell’odiato odore, pensa. Come mi manca
il portacenere lì sul comodino sempre troppo pieno di mozziconi.
– Chiudi quell’armadio! – dice a se stessa. Sguardo fis-
so sul pavimento, poi al soffitto, brivido, la finestra è chiusa,
confusione, cuore in gola. Ancora il brivido.
Sbatte l’anta dell’armadio dalla parte in cui ha appena
riappeso la camicia. La colpisce con un pugno. Apre l’altra
anta, verifica di aver riposto la sua borsa lassù, dove non può

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arrivare facilmente. Sbatte anche questa. Avrebbe voglia di
essere presa a botte come l’armadio, per dare un motivo, un
dolore fisico a quelle lacrime che sempre vengono, che sem-
pre seguono il brivido.
– Oddio non ricordo. –
Cade sul pouf davanti allo specchio.
Non ricordo di aver tirato fuori la sua camicia ieri. Per-
ché ho tirato fuori la sua camicia?–
Si ravvia i capelli con un gesto automaticamente sensua-
le. Se è per questo non ricordavo nemmeno di aver messo la borsa
nuova lassù nell’armadio.
Si guarda arricciarsi una ciocca col dito. Ride, piange, si
gratta la testa, lascia ricadere la mano e urta il flacone.
Ecco questo lo ricordo. Devo prendere questo.
Mentre conta a voce alta le gocce che dal flacone cadono
in un bicchiere pensa di nuovo alla camicia.
– Io non ho. Tirato. Fuori. La camicia. Dall’armadio. –
Beve d’un fiato, quasi fosse una grappa, ride, sembra non
abbia mai pianto, scuote la testa. Apre le gambe, le divarica
e cavalca il pouf. Ricomincia a giocare con i capelli. Chiude
le gambe.
Tiene la schiena dritta, si tira i capelli, improvvisa una
coda.
– Ora fai la brava. Basta pensare alla camicia. –
Inizia a struccarsi, prima gli occhi ma si lascia un alone
nero che le sfuma metà guancia. Si fissa. Somigli proprio a un
pagliaccio, pensa. Poi fa una smorfia.
È facile non ricordarsi della sua camicia – dice alla donna
nello specchio. – Per caso ricordi qualcosa di ieri sera dopo il
terzo Martini? –
S’infila le mani in tasca, tira fuori una ricevuta.
– Ottanta euro per dormire in albergo anche questa
notte! –
Va verso il letto, si siede e tira fuori voce ed espressione
da bambina.
– Io non ce la faccio a dormire qui – dice.
Poi di nuovo il brivido, di nuovo allo specchio. – Io lo

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amavo – urla e colpisce il suo riflesso sulla faccia. Carponi si
avvicina al comodino, prende il telefono e compone il nume-
ro della segreteria telefonica. Meccanicamente, quasi senza
guardare il display, digita i comandi e mette in viva voce.
– Amore torno alle sette. Preparati, sarai ancora più bella
di come ti ho lasciato stamattina mentre dormivi. Ho una
sorpresa. –
Voci confuse in sottofondo, poi il silenzio.
– Tornerò a dormire nel nostro letto. Ti ho tradito amore, ti
ho tradito anche stanotte, come tutte le notti da quando non ci
sei più. Ma tanto tu lo sai vero, tu mi vedi vero? Perdonami. –
Gira di colpo la testa attirata da una luce sullo specchio.
È come illuminata:
– Sei tu? –
Poi il rumore della chiave nella serratura della porta d’in-
gresso.
– Sei tu amore? –
– Signora buongiorno. –
È Anna. Soltanto Anna.
Riprende il batuffolo di cotone con una mano e finisce di
struccarsi, con l’altra compone un numero.
– Ciao Eduard, sono io. Ho bisogno che vieni qui da me,
devi aiutarmi. Vieni a prendere tutti i suoi vestiti. Tu o qual-
cuno dei tuoi amici... Prego non c’è di che. Ti aspetto. –
Apre l’armadio, prende la camicia e se la infila sotto la
maglia.
– Tanto lo so che sei stato tu a tirar fuori la camicia
dall’armadio. Amore? Vieni a prenderla, è qua sulla mia pan-
cia. Sfiorami amore. Toccami. –
Intorno i rumori di Anna che pulisce una casa già troppo
pulita.

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Baciare quel bianco e quella crema uniti dal magico tocco
dello zucchero d’uva.
Ecco il tuo momento di piacere.
Crema di yogurt bianco müller scivola sui tuoi sensi
come una carezza pura, sublime, eppure così adulta.
E’ un’esperienza ogni volta unica.
Racconta. Ti ascolta crema di yogurt bianco müller.
Capitolo 2

Piccoli piaceri
Caterina dice che aspetta ogni mercoledì
a partire dal mercoledì sera.
Che è il suo piccolo momento di piacere.
Io non mi faccio illusioni, però: dice tante cose.
Quando arrivo ha già messo al loro posto
i pezzi sulla scacchiera e i cuscini,
visto che giochiamo sul pavimento
e ogni partita dura un’ora o più.
“Non tocca a me il nero” faccio, come ogni volta.
“Sì invece” dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi
come se fossero un piccolo esercito del bene.
Dopo dieci zanzare
Bruno Della Queva

Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal merco-


ledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio
illusioni, però: dice tante cose.
Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scac-
chiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita
dura un’ora o più.
– Non tocca a me il nero – faccio, come ogni volta.
– Sì invece – dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi
come se fossero un piccolo esercito del bene.

– Va bene allora: i bianchi li usi tu, però inizio io. –


– Ma non puoi! –
– E perché? –
– Ma papà, è la regola, me l’hai detta tu – dice lei con
l’aria spazientita di chi è costretta a spiegare sempre tutto.
– E quale regola dice che i bianchi li devi usare sempre
tu? –
– Uffa papà, vogliamo iniziare o no? – dice Caterina, e
muove di due caselle uno dei suoi pedoni bianchi. È furba.
Più di suo padre, senza dubbio.
Non avremmo dovuto farla così furba.
Apro con il cavallo. Lei muove un altro pedone.

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– Papà, perché lavori sempre di notte? –
– Perché il mio è un lavoro che richiede tanta concentra-
zione e la concentrazione richiede tanto silenzio. –
– Anche gli scacchi richiedono tanta concentrazione, ma
noi parliamo lo stesso. –
– Hai ragione. Se vuoi non parliamo più e stiamo tutto
il tempo a guardare la scacchiera grattandoci il mento. – Ag-
grotto le sopracciglia, metto le labbra in fuori e accarezzo la
mia barba incolta con la mano sinistra.
Caterina trattiene un sorriso e scuote la testa.
– Così sembri una scimmia. –
– Buga buga – dico io.
– Sei proprio un pagliaccio – mi dice lei, e abbandonata
ogni resistenza mi regala uno di quei sorrisi che l’evoluzione
della specie ha selezionato con cura nel corso di una millena-
ria danza creatrice e che il mio organismo traduce in tenerez-
za, protezione, cura. Un sorriso efficace, che abbiamo deciso
di conservare.
– Va bene, va bene, la smetto di fare il pagliaccio, ma
ancora non ho capito se possiamo parlare o dobbiamo stare
zitti – dico, e muovo l’altro cavallo.
Caterina non risponde. Fissa la scacchiera, concentrata,
poi punta gli occhi su di me e di nuovo sugli scacchi.
– Ma il cavallo non puoi muoverlo così! –
Lo dicevo che è furba.
– Lo hai mosso di una casella in più. – Rimette il pezzo
nero al suo posto.
– E come posso muoverlo? – le chiedo.
– Lo puoi mettere qua o qua – dice lei, indicandomi le
due uniche alternative possibili.
– Brava, volevo vedere se eri attenta; allora vuol dire che
possiamo parlare mentre giochiamo, tanto a te non sfugge
niente comunque. –
– Sì, però siccome tu hai provato a barare facciamo che
io ti faccio le domande e tu puoi solo rispondere. –
– D’accordo. Inizia pure. Sono a tua completa disposi-
zione. –

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– Voglio che mi dici cosa fai al lavoro. –
– Uhm. Questo è un discorso lungo e complicato – dico
guardando l’orologio – non so se faccio in tempo a spiegar-
telo per bene. –
– Non preoccuparti: la mamma ha detto che oggi devi
rimanere un’oretta in più, che lei deve fare delle cose. –
Certo. E lo fa dire alla bambina, senza avvisarmi di per-
sona.
– Se è così, non c’è problema. Anche se un po’ mi annoio
a parlare di lavoro. –
– Sei tu che hai barato – dice Caterina con aria senten-
ziosa – chi non ha cervello ha gambe. –
– E che c’entrano le gambe? – obietto.
Caterina solleva le mani a mezz’aria e poi le lascia cadere
sulle ginocchia, mi guarda con i suoi occhi grandi e maturi
inclinando la testa di tre quarti e resta immobile. So bene cosa
significa: la sua pazienza ha un limite, basta pagliacciate.
– Mi arrendo! Per farla breve, io costruisco gli insetti.
Anzi, non è che li costruisca, li progetto. In questo momento
stiamo lavorando a un particolare tipo di libellula. –
– Che vuol dire che li progetti? –
– Questo è difficile. Provo a spiegartelo con un esempio.
Ti ricordi quando abbiamo preso l’aereo? Bene, per costru-
ire l’aereo ci sono volute delle persone che l’hanno inventa-
to e cioè hanno deciso come doveva essere fatto un oggetto
di metallo così grosso che fosse capace di volare. Progettare
vuol dire cercare di capire come deve essere fatta una cosa
perché funzioni in un determinato modo. –
– Ma quindi gli insetti li hai inventati tu? –
– No, no. Gli insetti esistevano già: diciamo che erano
già stati progettati da qualcun altro. E diciamo che io pren-
do il vecchio progetto e lo modifico un poco, a seconda di
quello che ci serve in un determinato momento. Ora stiamo
progettando una libellula che possa mangiare un massimo di
dieci zanzare. Dopo che ha mangiato dieci zanzare: kaputt, la
libellula muore. –
– Ma quindi le libellule le hai inventate tu? –

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– No, te l’ho già detto. Le libellule esistevano già da tan-
tissimo tempo, non le ho inventate io, non le ha inventate
nessuno; ma questo tipo particolare di libellula lo sto inven-
tando io. –
– E a che serve? –
– Serve a risolvere un problema creato da quegli idioti
del reparto zanzare; hanno fatto una zanzara che si riproduce
molto più velocemente del previsto, così ora ci sono un sacco
di zanzare e non sappiamo come liberarcene. –
– E cosa c’entrano le libellule? –
– Perché si nutrono di insetti: abbiamo bisogno di libellule
perché possano mangiare le zanzare. Ma per evitare di ritro-
varci con un sacco di libellule al posto di un sacco di zanzare,
le abbiamo fatte in modo che muoiano dopo averne mangiate
dieci, così il livello di zanzare e di libellule presenti sul territo-
rio dovrebbe ritornare all’interno della giusta soglia. –
Caterina ammutolisce. Per qualche minuto non dice e
non fa niente. Osserva i suoi pedoni bianchi, ancora tutti sul-
la scacchiera, sempre pronti ad avanzare per divorare l’eser-
cito del male.
– Papà, ma tutto quello che esiste è stato progettato da
qualcuno? –
Domanda spinosa. Sudo, e nella mia testa si accende una
luce rossa: Allarme!
– Sì amore mio, ormai si progetta quasi tutto. –
– E anch’io sono stata progettata da qualcuno? –
Resto in silenzio. Prendo la torre nera tra l’indice e il pol-
lice della mano destra. Esito. La rimetto dov’era. Guardo ne-
gli occhi Caterina.
Dico: – No amore, tu no. Non ti ha progettata nessuno.
Sei Caterina e basta – e la sollevo dal suo cuscino per pog-
giarla sulle mie gambe incrociate. Caterina piange. Singhioz-
za. È troppo furba.
– Papà, non voglio morire dopo dieci zanzare, non voglio
morire dopo dieci zanzare. –
– Ma cosa dici – sussurro mentre le bacio i capelli – non
morirai dopo dieci zanzare. Non sei una libellula. Sei la mia

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bambina. Sei l’amore di papà. Facciamo così. Ora scendiamo
a comprare un bel gelato, poi torniamo a casa e finiamo la
partita. –
Idiota.
Maledettissimo idiota. Questa è la volta che non me la fa
vedere più.
– Non voglio più giocare a scacchi. Tanto lo so che mi fai
vincere per finta. Tanto lo so che dici sempre bugie. –
Lo dicevo io che non dovevamo farla così furba.

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L’ombra
Marta Fanello

Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal merco-


ledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio
illusioni, però: dice tante cose.
Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scac-
chiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita
dura un’ora o più.
– Non tocca a me il nero – faccio, come ogni volta.
– Sì invece – dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi
come se fossero un piccolo esercito del bene.

La osservo con la coda dell’occhio. La assecondo o sem-


plicemente la ignoro. Non ho dubbi e nulla può turbarmi
adesso: come ogni volta vincerò io. E come ogni volta lei mi
accuserà di aver barato e io tacerò, con un sorriso a mezza
bocca.
Al nostro primo incontro la cosa che mi colpì furono
le pareti di questa stanza: strane, informi, curiose. Un cubo
vuoto, con una sola finestrella sul soffitto a lasciar entrare la
luce.
Caterina in ginocchio sul pavimento, priva di ombra, cir-
condata da nulla, mi guardava, indifferente. Eppure era stata
lei a invitarmi, a chiamarmi, a costringermi a raggiungerla e

48
ad assecondare il suo desiderio, quell’inutile partita di scacchi
e quel fugace piacere del mercoledì.
Anch’io la guardai, con l’impressione che non mi avesse
visto veramente. Ma quando mi fui accovacciato davanti a lei
ed ebbi stretto fra le dita il primo degli scacchi, allora sentii
che mi fissava.
La scacchiera era già pronta.
– Non tocca a te il bianco – mormorai.
– Sì invece. –
Giocammo senza che nessuno di noi facesse domande,
senza parlar d’altro. Io vinsi. Ma le prime volte Caterina non
diceva nulla e io non possedevo altre parole.
Tornai ogni mercoledì da allora e in breve cominciò ad
accusarmi di barare, dapprima fredda, poi violenta e aggres-
siva. Infine perse la sua forza e divenne docile, sorridente.
Settimana dopo settimana mi accorgevo di quanto riu-
scisse a scorgermi sempre meglio e di quanto i particolari dei
nostri incontri si facessero via via più nitidi.
– Non tocca a me il nero – continuavo a dire mentre lei
sistemava i cuscini, accendeva candele colorate, scostava ten-
de nate da chissà dove.
– Sì invece. –
Quella sera aveva sfiorato la mia mano e sussurrato quel-
le parole come se stesse dicendo tutt’altro, caricandole di
un senso tutto nuovo che solo lei poteva afferrare, un senso
oscuro per me, che ancora una volta mi sforzavo di ignorare.
Quando arrivo di solito la trovo in ginocchio, con gli oc-
chi fissi su qualcosa che non vede o si sforza di non vedere.
È assente, lontana.
Eppure le basta un’occhiata e, quando è riuscita a ve-
dermi e intrappolarmi col suo sguardo, ritorna da quel posto
lontano alla realtà; visualizza la scacchiera, le candele, le ten-
de e si accoccola al mio fianco.
Allora posso sospirare: – Non tocca a me il bianco. –
– Sì invece. –
Di volta in volta il senso di queste parole cambia. E di
volta in volta mi dice: – Come stai? I tuoi occhi brillano.

49
Sono felice di vederti.
La luce è ancora troppo poca.
Il tempo è sempre troppo breve.
Tornerai? –
È tutto racchiuso in quel – Sì invece – che sussurra spau-
rita e che ho provato a ignorare per un po’, con scarsi risul-
tati.
Questo mercoledì il suo sguardo è più presente, il suo
colorito sanguigno, la sua mano calda. Riusciamo a parlar
d’altro, a toccarci e sentirci. Ascolto la sua voce e le sue storie,
ascolto compiaciuto le sue parole. Non potrebbe mai rinun-
ciare a me.
Aveva rinunciato alla luce, accontentandosi di quel rag-
gio che attraversava la finestrella e aveva rinunciato alla sua
ombra. Aveva rinunciato ai colori e ai suoni e sarebbe rimasta
per sempre in silenzio in quella stanza informe e incolore se
non fosse stato per me.
Rinunciare a me vorrebbe dire rinunciare agli scacchi,
ai cuscini, alle candele e alla luce. La mia compagnia, seppur
confinata a una sera soltanto, le basta, la aiuta a percepire il
tempo e la mantiene in vita.
Ma ho evitato a lungo di illudermi; il mio stato è troppo
precario perché io possa avere delle certezze.
Mi implora di tornare più spesso. Sento le sue urla da
qualche posto remoto raggiungermi e afferrarmi. Non posso
non tornare. Non posso sottrarmi alle sue preghiere e le pro-
metto che mi sforzerò per starle vicino.
Torno tutti i giorni ormai, e ogni sera la solita partita si
ripete. Nessuno di noi due è stanco delle serate tutte uguali,
delle solite parole e dei soliti sguardi.
Viviamo in simbiosi e io, che mi sottomettevo docilmen-
te al suo volere, provo lo stesso piacere nel tornare qui e nel
compiere il piccolo rito che ci fa sentire vivi.
Posso proclamarlo: mi sento vivo!
Ora posso illudermi senza timore, perché riesco a sentire
il battito del mio cuore e il fluire del mio sangue. Batto le ci-
glia e sento gli occhi frullare.

50
Sono vivo.
Non mi domando più a cosa sia servita la finestrella né
se vi sia mai stata. Ora potrò anch’io raccontarle delle storie e
avere qualcosa di nuovo da dire. Le parlerò delle mie sensa-
zioni e lei sorriderà, incredula.
L’unica cosa che mi interessa e che abbia senso è questa:
io esisto.
Esisto perché lei mi cerca, esisto perché ascolto tutte le
sere quel – Sì invece – che risuona di storie narrate e mai
udite. Esisto perché tutte le sere vinco e lei mi accusa di aver
barato, e in quell’accusa c’è la nostra vita e il senso di tutto.
Lei è felice di essere stata ingannata e io sono felice di
aver barato.
Anche adesso è così, e lo sarà domani e domani l’altro e
quello dopo ancora. Ci sorridiamo e mandiamo giù un altro
sorso di quella bevanda frizzante che dà alla testa.
Un rumore alle mie spalle mi induce a voltarmi. È un
rumore secco che non riconosco, e mi volto. Una figura in
camice bianco ha appena aperto una porta grigia e massiccia.
Entra, si avvicina impassibile.
Regge qualcosa fra le mani.
– Vieni Caterina, è l’ora della pillola. –
La fisso incuriosito, ma lei mi ignora. Caterina è pallida e
ancora una volta sembra appena tornata da un luogo lontano
e approdata in un posto da cui non può fuggire e in cui non
c’è spazio per me.
Si alza imperturbabile. Quella figura la trascina via e lei
si lascia trascinare senza dire una parola, assente e incespi-
cante.
Non mi dice: – Hai barato. – Non mi dice niente. Qualco-
sa è scomparso dal suo volto. Mi accorgo solo ora che anche
lei indossa un camice e che le sue mani sono invisibili, intrap-
polate in quello straccio.
Continuo a seguirla con gli occhi, sgomento. Anche il suo
sguardo è invisibile e ora non mi vede più. Questo basta per-
ché re, regine, fanti e cavalieri scompaiano e con loro tutto il
resto.

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Provo a battere le ciglia e non ci riesco; non sento più
battere il mio cuore. Sono solo un residuo, un’ombra di quel
che sono stato un attimo fa.
È bastata la figura in camice perché Caterina mi cancel-
lasse.
Non esisto più.
Attonito cerco ancora una volta di raggiungerla.
La chiamo ma non si volta.
– Non tocca a me il nero… – tento di dirle, ma non mi
sente.
Tutto quel che faccio è inutile e Caterina mi ha perso,
non riesce più a trovarmi e forse non mi cerca neanche più.
Dal mio mondo delle ombre, remoto e inesistente, attenderò
ancora che lei mi invochi e mi inventi, che mi raggiunga e mi
afferri affinché io possa ancora esistere.
Attenderò mercoledì. Attenderò che Caterina desideri
ancora uno stralcio di vita. Mi terrò pronto e la prossima vol-
ta impedirò che indistinguibili figure in camice arrivino sul
più bello a condurre Caterina alla realtà e a scacciarmi.
Caterina ingurgita la sua medicina insapore e rientra nel-
la stanza imbottita dove, forse, uno dei prossimi mercoledì,
inventerà qualcosa di nuovo e riserverà un posticino anche
per me.

52
La chiave in tasca
Laura Tommasi

Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal merco-


ledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio
illusioni, però: dice tante cose.
Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scac-
chiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita
dura un’ora o più.
– Non tocca a me il nero – faccio, come ogni volta.
– Sì invece – dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi
come se fossero un piccolo esercito del bene.

I capelli tagliati malamente con forbici inadatte le scopro-


no la fronte distesa. Il viso è come sempre uno scrigno di se-
greti senza importanza. Eppure ogni volta mi lascio irretire.
– Dai siediti. Potevi anche arrivare un po’ prima. –
Non rispondo: faccio fatica a trovare delle spiegazioni
che possano sembrare soddisfacenti.
C’è pochissima luce qui. Non capisco proprio come que-
sto possa non turbarla.
Si muove con la sicurezza di chi ha perfezionato un ri-
tuale antico e si appresta ad officiarlo. È come se la sua pre-
senza trasformasse l’atmosfera un po’ tetra di quest’ambiente
in un palcoscenico ombroso ma pieno di aspettative. Non un
dubbio sembra transitare in quello sguardo sicuro.

53
Ne avrei di cose da imparare.
Fa freddo nella stanza ma lei sembra non accorgersene.
Ha messo tutti e quattro i golf e nonostante tutto, continua ad
apparire minuta come sempre.
– Hai mangiato? –
– Solo la frutta – risponde calma, mentre si accerta che la
scacchiera sia equidistante dai cuscini che si fronteggiano.
– La pasta era scotta e lo spezzatino non mi piace. –
Mi siedo con un senso di inadeguatezza crescente che
non riesco a metabolizzare del tutto. Finalmente si decide a
guardarmi in faccia. Non è mai ostile e talvolta vorrei che lo
fosse.
Vorrei riuscire ad apparire sicuro, convinto del perché
sono qui, ma so che lei sa leggere senza difficoltà le mie in-
quietudini e magari è anche meglio così.
– Tocca a me – dice svelta, senza alzare la voce e come
sempre mi sorprende anticipando i tempi della partita e muo-
vendo il suo cavallo sinistro.
– Vuoi stupirmi? – le chiedo cercando di catturare di nuo-
vo il suo sguardo, ma so che non mi risponderà. Fa una cosa
alla volta, con meticolosità e ora sta giocando la sua partita.
Muovo i miei pezzi fingendo una concentrazione che
non mi appartiene. Stare in questa stanza mi trascina in
una dimensione non completamente solida, dove le certezze
prendono margini sfocati e le scelte diventano sbiaditi punti
interrogativi.
– Com’era il libro che t’ho preso in biblioteca? – le chie-
do per tornare alla realtà.
– Ma come, tu non l’hai letto? – mi fa lei, guardandomi
divertita mentre sta mangiando la mia torre.
– No. Avrei dovuto? –
– Non lo so. Però puoi leggerlo prima di riconsegnarlo,
c’è ancora una settimana di tempo. –
Sa che lo farò e anch’io. La sua voce non è affatto peren-
toria eppure ha la capacità di imporre un vincolo a cui faccio
fatica a sottrarmi. È un libro sottile con la copertina blu e sta
appoggiato sul letto: “Il piccolo principe”, di Saint-Exupéry.

54
Ora che la falange dei bianchi attornia minacciosa la mia
regina, lei si sistema meglio sul cuscino, appoggia il mento
sulle ginocchia e si abbraccia le gambe piegate.
– Avete telefonato oggi a mio padre? – chiede.
Vorrei che questa domanda non mi inquietasse così.
– L’ha fatto ieri Caruso. –
– Quanto gli avete chiesto, stavolta? –
Distolgo lo sguardo e prendo in mano il libricino.
Non dovremmo parlare di questo. Non così per lo
meno.
– Un milione di euro. –
Lei mette in fila i pedoni neri mangiati e li allinea sul lato
sinistro della scacchiera.
– Avete fatto male a chiedere così poco. Lui ha un sacco
di soldi. Così tanti che non ha il tempo per spenderli. –
Un rumore di ruote sul selciato interrompe la quiete for-
zata dei miei pensieri.
Mi alzo. Anche questa partita l’ho persa senza troppa
dignità. A scacchi non sono mai stato un granché e lei l’ha
capito fin dal primo momento.
– Su, adesso metti a posto. Stanno tornando gli altri. Per
cena ti faccio cucinare il pesce al forno; so che ti piace. –
La guardo seduta sul cuscino e mi sembra piccolissi-
ma. Improvvisamente è tornata ciò che il mondo reale vuo-
le che sia.
– Quando tornerò a casa, non ti rivedrò mai più vero? –
I suoi dieci anni si rivelano di colpo nello sguardo stupito
e nella lieve cantilena della sua voce esile.
– No, non credo sia possibile – dico, abbassando lo sguar-
do. – Dopo esco e vado in edicola. Vuoi le parole crociate o
“Topolino”? –
Per un attimo la sua voce si fa di nuovo indifferente e
sicura.
– “Topolino”. Quello mensile che ha più pagine e non c’è
la pubblicità. –
Mentre richiudo la porta a chiave le mani mi tremano
un po’.

55
Ho portato il gelato
al cioccolato
Angelo Santoro

Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal merco-


ledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio
illusioni, però: dice tante cose.
Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scac-
chiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita
dura un’ora o più.
– Non tocca a me il nero – faccio, come ogni volta.
– Sì invece – dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi
come se fossero un piccolo esercito del bene.

– Ho portato il gelato al cioccolato – dico.


– Perché? –
– Lo sai. –
Mi guarda con gli occhi luccicanti.
– Hai parlato con Lara? – chiede.
– No. –
– Avresti dovuto. –
– Ma non l’ho fatto. –
La stanza è illuminata dal caldo sole estivo, anche se or-
mai siamo vicini al tramonto.
Caterina muove il pedone della regina, la sua classica
apertura.

56
– Non mi va il gelato – dice.
– Lo mangeremo lo stesso. –
– E invece no, detesto il cioccolato. –
– Allora io prendo il bianco. –
Sorride increspando lievemente le labbra. Forse stavolta
ha capito.
– Fa caldo – sussurro. Non le propongo di aprire la fi-
nestra.
– Domenica pioverà – risponde.
Muovo il cavallo. So già che è una mossa sbagliata.
– La prossima settimana andrò a far visita a Don Fabio:
è tanto che non lo vedo – annuncia con la sua espressione
seria.
– Sei sicura? – Mi sposto e cerco una posizione più co-
moda. Anche il pavimento è caldo.
Lei muove l’alfiere, poi accarezza il rosario che tiene tra
le mani nervose.
Mi appoggio a una gamba del letto per dare sollievo alla
schiena. C’è poco spazio ma a Caterina non piace giocare
fuori. Manca l’aria, sto sudando.
La osservo mentre è concentrata sulla prossima mossa: le
piccole rughe intorno agli occhi, le guance pallide, le labbra
serrate. Muoverà la torre. Lo fa sempre.
– Scacco fra tre mosse – avverte. Mi lancia un’occhiata
soddisfatta. Sembra di buon umore.
Mi domando se valga la pena tentare.
– Venerdì c’è quell’esame. Mi piacerebbe che tu lo facessi
– azzardo timidamente.
Mi fissa e poi distoglie lo sguardo. Passano cinque minu-
ti, silenziosi e inerti.
– Ieri Maria si è fatta la pipì addosso – dice all’improv-
viso.
Sospiro. Avrei voglia di abbracciarla e piangere. Lei, im-
perterrita, muove la regina.
– Lunedì vado da Don Fabio – ripete.
Don Fabio è morto da quattordici anni, penso.
– Va bene – dico.

57
– Scacco matto – esclama e batte le mani. Le sorrido e
mi complimento.
– Ora mangiamo il gelato – decide allegra.
Mi alzo e scarto le due coppette avvolte nella stagnola
che avevo lasciato sul piccolo tavolino bianco. Il gelato è li-
quido ormai.
– Per me crema, per te cioccolato – spiego.
– Bravo, adoro il cioccolato. –
Quando le porgo la coppetta mi sfiora fugacemente la
mano. Mangiamo in silenzio, seduti sui cuscini. Credo di es-
sere un po’ felice.
È tardi, devo andare.
La bacio sulla guancia. Lei mi scruta inquieta, poi sor-
ride.
– Grazie, Flavio, ci vediamo mercoledì – dice.
– Grazie a te – dico. Io però sono Luca.

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Incredibile
Marcello Nicolini

Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal merco-


ledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio
illusioni, però: dice tante cose.
Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scac-
chiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita
dura un’ora o più.
– Non tocca a me il nero – faccio, come ogni volta.
– Sì invece – dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi
come se fossero un piccolo esercito del bene.

Sono partite strane. Caterina non è brava e io mi reputo


anche peggio. Quello che mi sembra sconvolgente è la sua
attitudine ad accostarsi ai vari pezzi e rimanere in silenzio per
alcuni secondi.
Dice che i pezzi le parlano, le spiegano cosa fare.
Io protesto, stando al gioco.
– Non vale però: hai un bel vantaggio. –
Lei risponde con una scrollata di spalle.
– Beh, ascolta anche tu –
La mia Caterina: come contraddirla? Come darle della
matta e negarle la nostra partita a scacchi, suo piccolo piacere
e mia tortura?

59
Mi sistemo su uno dei cuscini e ne stringo un secondo al
petto come faccio sempre. Il mio naso e i miei occhi sporgo-
no dall’orlo.
Caterina fa un’apertura classica spostando il pedone dal-
la casella A2 in A4. Carezza la testolina del pezzo e vi accosta
l’orecchio. Chiudo gli occhi e mi passo una mano sul viso.
– Che ti dice? – domando.
Ridacchia.
– Segreto. –
Scrollo le spalle e afferro un pedone a mia volta. Questi
pezzi non hanno una forma classica, ma sono accuratamente
sagomati nel legno a rispecchiare creature fantastiche. Il pe-
done sembra un selvaggio con la zagaglia, una specie di orco.
Lo sposto in B5, poi mi guardo attorno, annoiato. Accanto a
noi ci sono il divano bianco e il tavolino di vetro, così comodi
per una partita a scacchi. Caterina non li vuole usare, a lei
piace il pavimento. Quando sua madre cerca di convincerla,
le prendono i soliti attacchi.
La mia avversaria sorride, accosta l’orecchio al pedone-
orco, poi muove di una casella. Io faccio lo stesso e mangio il
suo pezzo en passant. Lei rimane attonita.
– T’hanno consigliato male stavolta – dico.
Vedo la sua faccia contrarsi.
– Non fare male al mio piccolino! – grida.
Si apre la porta della cucina e arriva sua madre. Mi guar-
da con aria preoccupata.
– Va tutto bene? – domanda.
Io annuisco.
– Sì, nessun problema. –
– Farà male al mio piccolino – le spiega Caterina.
Scrollo le spalle e le ridò il pedone; lei se lo mette in
grembo e gli fa una carezza. A volte può essere snervante.
La madre annuisce e mi guarda a lungo.
– Grazie – dice, – non sa quanto la ringrazi nelle mie
preghiere per il lavoro che fa con Caterina. –
Sorrido, poi lascio che la mia avversaria faccia la prossi-
ma mossa.

60
– Mi spieghi perché cambiamo sempre scacchiera? – le
domando, una volta che la madre è rientrata in cucina. Non
mi aspetto una risposta, di solito Caterina è troppo concen-
trata sul gioco per parlare. Invece.
– Loro sono vivi e dopo un po’ si stancano di dover sem-
pre lavorare, quindi bisogna cambiarli in modo che si ripo-
sino. –
– Ah – faccio io. Guardo il pezzo a forma di drago con
tanto di scaglie e baffi. Dovrebbe rappresentare il cavallo.
– Sono vivi? – domando.
– Certo! – grida lei.
– Okay, stai buona – dico. Dalla cucina appare la madre.
– Tutto a posto – la precedo. Lei annuisce e torna a rin-
chiudersi nella sua solitudine.
Non sono una cima, ma stavolta intravedo la possibilità
di vincere. Qualcosa però mi dice di fare il contrario: se fa-
cessi scacco matto Caterina potrebbe avere un attacco. Perciò
infilo una serie di mosse stupide mentre lei ridacchia e ascolta
quel che hanno da dirgli l’orco, il drago, la regina buona e gli
altri pezzi.
Guardo l’orologio: è quasi passata un’ora. Caterina ha
mosso un pedone-orco in E8 e ora batte le mani, contenta.
– Sai che succede? – mi domanda.
Annuisco.
– Puoi scegliere se trasformarlo in cavallo, in alfiere, torre
o donna – recito.
Lei cambia il pedone in donna, poi dice: – Credo che la
prossima volta dovrai portare un’altra scacchiera. –
– Sono già stanchi? – domando.
– Di più: sono arrabbiati. –
– Ma che ne sai, scusa? – faccio.
Con uno schianto, si apre la porta della cucina. La madre
di Caterina sta diventando isterica, forse. Alzo gli occhi e mi
trovo davanti una specie di selvaggio basso, ingobbito: ha la
pelle verde, gli occhi rossi, la sclera gialla e impugna una lan-
cia dalla punta di ferro.
La cosa che più mi impressiona è il suo vestito, sembra

61
una copia dei costumi femminili del Rinascimento. Sulla te-
sta porta una corona d’oro e ha le labbra truccate di rosso.
È una visione orribile.
Punta la lancia al petto di Caterina e urla: – Va bene es-
sere mossi come burattini, ma questo no! – Con un artiglio
stringe le falde della sua gonna.
Sospiro. Posso biasimarlo?

62
L’ultima mossa
Beatrice Lorenzini

Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal merco-


ledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio
illusioni, però: dice tante cose.
Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scac-
chiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita
dura un’ora o più.
– Non tocca a me il nero – faccio, come ogni volta.
– Sì invece – dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi
come se fossero un piccolo esercito del bene.

E così cominciamo.
Alle infermiere non piace che si sieda per terra, ma sono
sempre restie a proibire qualcosa ad una malata terminale.
– D’altra parte, non dev’esserci pavimento più pulito di
quello di un ospedale – risponde sempre Caterina alle loro
occhiate.
Gli scacchi sono il suo passatempo preferito.
– La televisione – dice, – non fa che trasmettere immagi-
ni di gente come me. –
Al contrario, gli scacchi sono il gioco delle eterne possibi-
lità a lei precluse. Probabilmente per questo mi batte sempre.
– Forza, datti una mossa. –

63
È così impaziente. Il tempo scorre via come l’aria dai tubi
che le violentano il naso.
Muovo un pedone, svogliato. Vorrei fare tutt’altro che
giocare a scacchi, vorrei stringerla, baciarla, salvarla; ma lei
non vuole, è una delle poche persone che conosco che de-
testi l’idea di essere salvata. Non vuole compassione, dice,
ma probabilmente preferisce escludere dalla rosa delle poche
mosse a lei rimaste quella di un amore senza lieto fine.
E così giochiamo.
– Muovi sempre lo stesso pedone, sai? –
Sorride. Bastò questo, otto mesi fa, per farmi perdere la
ragione.
I malati non hanno il dovere di sorridere, ma lo fanno più
spesso di quanto si pensi, si appropriano quel diritto a loro
negato e ne fanno una bandiera.
– Possiamo fermarci qui? Tanto lo sappiamo tutti e due
chi vincerà. –
Il suo volto si rabbuia, l’ho resa triste.
– Dai scherzavo, lo so che provi un piacere sadico nel
ridicolizzarmi ogni mercoledì. –
Caterina fa la sua mossa, il cavallo bianco comincia la sua
solita marcia geometrica di vittoria.
Era piena di speranze, prima.
La conobbi esattamente in questa stanza, in questa stessa
posizione, a giocare partite immaginarie da sola, in mancanza
di altro. Mia madre era ricoverata nella stanza accanto per
una banale caduta in bicicletta e, com’era prevedibile, infor-
cai la porta di Caterina convinto di abbracciare la mia con-
tusa genitrice: e invece incontrai i suoi occhi, azzurri, quasi
bianchi ed invisibili nel pallore della sua pelle.
– Vuoi giocare? –
Sorrideva.
Muovo il cavallo imitando specularmente la sua mossa:
di solito è il primo passo verso una disastrosa sconfitta, ma
non è giocare che mi importa.
– Ho incrociato tua mamma mentre entravo, ma non cre-
do mi abbia riconosciuto. –

64
Mi è passata accanto mentre io entravo e lei usciva, come
una furia, dall’ospedale. Giurerei che stesse piangendo, ma
non oso chiederlo a Caterina.
– Oh sì, può darsi. Era qui prima. –
Come tutti i giorni.
La fila di pedoni bianchi è ormai scompaginata e sembra
voler accerchiare il mio cavallo.
Mi chiedo se le abbiano dato della morfina, sembra così
placido il suo volto, oggi. È in genere a questo punto della
partita che comincio a giocare meccanicamente, perdendomi
in pensieri inadeguati, dove Caterina ha ancora i suoi capelli,
di cui nella realtà non conoscerò mai il colore, e dove siamo
fuori da qui, magari a casa mia, magari non a giocare a scac-
chi.
Forse è anche per questo che mi batte sempre.
– Sai Giacomo, volevo parlarti di una cosa. –
Sorpreso, mi risveglio dalle mie utopie. Caterina non
parla quasi mai mentre giochiamo.
– Ho aspettato che muovessi il re per dirtelo, così non
saresti potuto tornare indietro. –
Nemmeno recepisco il significato di quello che sta dicen-
do. Probabilmente è un po’ stordita.
– Ho deciso di farla finita, con questa partita. –
È allora che noto come i tubicini che le escono dal naso
ricadano tagliati sulle sue spalle, senza portare da nessuna
parte, e che i macchinari che ingombrano la stanza non emet-
tono i soliti suoni. C’è un gran silenzio.
– Ho deciso di farla finita – ripete, e poi sorride, muoven-
do la regina. – Scacco. –

65
Ti chiedi cosa sia il mondo bianco che stai osservando.
Dolci gocce di zucchero d’uva nevicano su tutti i tuoi paesaggi.
Crema di yogurt bianco müller pervade dolcemente
ogni tuo momento.
Solo la freschezza di un mantello cremoso
sa regalare sensazioni di velluto ai tuoi sensi.

Scrivi il dolce lieto fine di una storia


con crema di yogurt bianco müller.
Capitolo 3

Un dolce ritorno
“Assaggia.”
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia,
così le tiene incrociate sul tavolo.
Lei gli passa il cucchiaino: sta aspettando.
Ci sono tante cose da dire, adesso.
Prima di entrare in casa gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte
nello spazio che separa l’ingresso dalla cucina.
Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura.
Suo padre avrebbe fatto lo stesso. Il sapore del metallo
è la prima cosa che sente, poi c’è solo il dolce
che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello
che credeva addormentata.
“Lo so perché sei venuto” dice lei
nello stesso momento in cui lui si toglie il cucchiaino dalla bocca
e chiede: “Cos’è?”
Occhio per occhio
Andrea Cominetti

– Assaggia. –
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia,
così le tiene incrociate sul tavolo. Lei gli passa il cucchiaino: sta
aspettando.
Ci sono tante cose da dire, adesso. Prima di entrare in casa
gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa
l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo
padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il
dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello
che credeva addormentata.
– Lo so perché sei venuto – dice lei nello stesso momento in cui
lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: – Cos’è? –

Rimangono per un attimo in silenzio tutti e due. Poi


Francesca, stupita, lo guarda e ricomincia.
– Non hai mai mangiato un cannolo siciliano? –
Alessandro ammutolisce per la spontaneità della doman-
da. Gli sembra tutto così stupido: loro, quella conversazione,
i cannoli. Prova a tornare indietro, a ripescare ricordi antichi,

73
ma non trova niente. Per farla contenta prende un’altra cuc-
chiaiata di ripieno e le sorride. È davvero buonissimo. Ste-
fania non sarebbe mai stata in grado di cucinare niente di
simile. Non le piaceva stare ai fornelli, lo considerava tempo
perso. Lei era un’accanita fan delle rosticcerie, mentre per
quanto riguardava i dolci optava per le torte precotte, quelle
“versa e inforna” che si trovano al reparto surgelati del su-
permercato.
– No, non sono mai stato in Sicilia. –
Francesca camuffa un sorriso in una smorfia, ha la faccia
tutta contratta. Si vede che si sta sforzando, ma proprio non
riesce a trattenersi. Scoppia in una risata fragorosa, di quelle
belle e cristalline. Una risata che scaccia via ogni pensiero e
che, per un attimo, riesce a contagiare anche Alessandro.
– Non serve andare in Sicilia per provare un cannolo –
gli dice comprensiva, avvicinandosi alla dispensa. Spalanca
l’anta sinistra e poggia sul tavolo un portatorte. Torna indie-
tro di qualche passo, apre il primo cassetto ed estrae coltello
e forchetta. Dallo scolapiatti prende una fondina quadrata e
aziona il rubinetto.
Lo scroscio dell’acqua è potente e sovrasta ogni cosa:
costringe la conversazione a cadere, obbliga Alessandro ad
assaporare quel silenzio collinare. È un rumore che tanto gli
ricorda le gite fuori porta della domenica, quando, insieme
a sua moglie, partiva con la Vespa e si dirigeva verso i colli
di Bologna, attento a non far cadere il cestino del pranzo.
Ricorda benissimo i loro strambi picnic: gli sfilatini, gli affet-
tati in busta, i coltelli ricoperti da uno strato di Scottex per
non farsi male. Stefania era la casalinga peggiore del mondo.
Immancabilmente dimenticava qualcosa: la coperta, le parole
crociate, le bibite. Un vero e proprio disastro. E lui l’amava
comunque.
Quando Francesca chiude il rubinetto e l’acqua smette
di scorrere, sparisce tutto: Stefania, i colli bolognesi, i panini
tagliati storti. Alessandro la vede prendere un panno e asciu-
gare il piatto, bianchissimo. La scruta con curiosità e ammi-
razione: non è abituato a un simile trattamento.

74
Lei raggiunge il tavolo, solleva il coperchio e senza esita-
zioni taglia un’abbondante fetta di strudel.
– Dai, provalo. Ti risparmio un viaggio in Austria. –
Alessandro le sorride, imbarazzato, poi, con la forchetta
messa di sbieco, ne assaggia un pezzo. Mastica con la bocca
aperta, facendo ondeggiare la lingua da una parte all’altra del
palato. Sa di non sapersi comportare come si converrebbe e
un po’ se ne vergogna. Con la mano destra cerca di coprirsi
i denti punteggiati di mele e canditi, mentre con la sinistra
infilza un pinolo di netto.
– È buonissimo – dice, – scommetto che neppure in Au-
stria ne fanno di così buoni. –
Francesca gli sorride, poi ricopre la torta e la ripone nella
dispensa.
Cade il silenzio. È un silenzio di ghiaccio, che sa di fred-
do e di paura. Francesca pensa che è giunto il momento, che
ha solo ritardato quanto era possibile ritardare. Ormai non ha
più niente da fargli assaggiare.
– Lo so perché sei venuto – afferma e con un cenno del
capo indica il giornale locale buttato sul pavimento. Alessan-
dro annuisce e i due rimangono a fissarsi in silenzio.
La prima pagina dà notizia di un omicidio, di un uomo
che ha ucciso la moglie di un passante che si era rifiutato di
pagargli una birra media. “Gli nega la birra e gli ammazzano
la moglie”, dice il titolo in neretto.
Si tratta di un pezzo triste e cupo, una storia di rabbia
cieca e incomprensibile. Nessuno sa darsi una spiegazione,
nessuno riesce a trovare una logica dietro quel folle gesto.
Tutti gli abitanti del paesino di collina in cui è avvenuto
il fatto, si sono trincerati dietro un necessario silenzio. Lui-
gi Passante, l’omicida, era un uomo rispettato e rispettabile.
Aveva una moglie, un lavoro serio, un’utilitaria di seconda
mano. La vicina di casa, intervistata da un telegiornale regio-
nale, aveva detto che era un uomo perbene, che, quando la
vedeva, la salutava sempre.
Sono passati tre giorni da quel tragico evento. L’assas-
sino è fuggito e di lui sembrano essersi perse le tracce. Sol-

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tanto un video filmato è stato rinvenuto non molto distante
dall’ospedale in cui lavorava. Luigi parla alla moglie: le dice
mi dispiace, ti amo, non tornerò.
– Era tua moglie, quella che ha ucciso – dice Francesca
con un filo di voce.
– E lui è tuo marito. Quello che l’ha uccisa. –
C’è rabbia e disprezzo nella sua voce, per la prima volta
da quando ha iniziato a parlarle. È anche colpa sua, si dice,
perché non gli ha impedito di andare al bar, di ubriacarsi, di
chiedere ancora birra, di uccidere sua moglie.
Luigi Passante non si costituirà, questo sembra chiaro
a tutti. Probabilmente starà guidando verso uno di quei paesi
dell’est, pensa Alessandro, munito di sciarpa di lana e imper-
meabile d’ordinanza. Nessuno lo riconoscerà, smetteranno di
cercarlo e il suo gesto resterà impunito.
Luigi non pagherà per le proprie colpe. Vivrà magari
momenti di panico e di terrore, ma questi possono essere pa-
ragonati allo strazio di una moglie freddata inutilmente?
Alessandro pensa di no. Pensa che anche Luigi debba
soffrire, almeno quanto ha sofferto lui, che l’unica cosa che
possa fare sia di restituirgli il favore. Si sfila perciò la semi-
automatica dai pantaloni e la poggia sul tavolo. Sa di sudore
e di morte. La allinea al cucchiaio ancora sporco di crema di
ricotta e si blocca per un istante. Pensa che non è giusto, che
Stefania dovrebbe ancora stringergli la mano, che una donna
come quella che ha davanti, che fa cannoli così buoni, non
dovrebbe morire. Non toccherebbe a lei pagare le colpe di un
uomo così, un uomo da poco, che l’ha lasciata sola e indifesa,
in balia della sua rabbia e della sua vendetta.
– Mi dispiace tanto – le dice. Sembra sincero, almeno un
po’.
Francesca sorride impaurita e poi si guarda intorno per
l’ultima volta. Pensa che le mancherà tutto questo: la cucina,
i fornelli, la frusta. Montare albumi a neve la tranquillizzava,
ora cosa potrà calmarla più? Pensa che è un’ingiustizia, che
il mutuo della casa termina tra un solo anno e che lei non ci
sarà per brindarne la fine. Scorge macchie di succo sul pavi-

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mento, foglietti fermati da calamite sul frigorifero, poi la sua
borsa ai piedi del tavolo.
– Dammi solo un secondo – dice.
Afferra l’enorme bauletto cobalto e vi estrae una piccola
trousse in pelle. Applica mascara, rossetto, ombretto, giusto
un tocco di fard. Si guarda allo specchio e pensa che se deve
morire, vuole morire bella. Si slega perciò la coda di cavallo
che le teneva uniti i capelli e con una piccola spazzola inizia a
lisciarseli ciocca dopo ciocca. Passano cinque minuti, cinque
terribili minuti di vuoto.
Rimette tutto in borsa, prende una sedia imbottita e vi si
accomoda.
– Colpiscimi qua – gli dice indicandosi il petto – per fa-
vore, non rovinarmi la faccia. –
Alessandro annuisce e si alza. Si allontana di qualche
passo per trovarsela di fronte. Un po’ trema, sente il suo cuo-
re sussultare aritmico e sospira. Come potrebbe essere diver-
samente? Questa notte è la fine di tutto, anche la sua.
Si chiede se Stefania sarebbe stata d’accordo e si rispon-
de che no, lei non l’avrebbe mai fatto. Ma non è importante
questo, è la sua assenza che è importante. Che è atroce e
ingiusta.
Mi perdonerai dal paradiso, pensa, mentre carica la pistola
e punta l’indice sul grilletto.
– Sei bellissima – dice a Francesca e un attimo dopo
oscura i suoi occhi perfetti.

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Ci deve pur essere qualcosa
che teiere e paperelle
hanno in comune,
e non credo sia solo il becco
Alessandra Lusso

– Assaggia. –
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia,
così le tiene incrociate sul tavolo. Lei gli passa il cucchiaino: sta
aspettando.
Ci sono tante cose da dire, adesso. Prima di entrare in casa
gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa
l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo
padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il
dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello
che credeva addormentata.
– Lo so perché sei venuto – dice lei nello stesso momento in cui
lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: – Cos’è? –

– Allora, vuoi dirmi perché sei venuto? –


Lui aveva maturato negli anni un problema di personale
indignazione verso le domande dirette. Non che non se le
aspettasse, anzi. Però tutte, tutte lo facevano sentire come le
paperelle di cartone contro le quali si spara al Luna Park. Nel
suo caso si trattava per la precisione di una paperella di ottan-
ta chili, ben illuminata dal lampadario al neon della cucina,
capace, oh se lo era...

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Capace di arrossire.
Bofonchia qualcosa con la crema in bocca, sentendosi un
idiota. Una grossa paperella idiota.
– Che hai detto? – infierisce lei, la mano appoggiata su
un fianco in posizione da teiera, e il sopracciglio alzato come
lo avrebbero le teiere se fossero prive di pietà.
– Niente, tossivo. – Questa sarebbe stata geniale se non
avessero avuto trent’anni.
Avrebbe voluto dirle che la sera spegneva la luce un at-
timo prima per potersi immaginare meglio insieme, invece
dice: – Passavo da queste parti. – Questa non è geniale per
niente, ma è quanto di più sensato sia riuscito a raschiare dal-
le pareti momentaneamente vuote della sua testa.
Lei ora sbuffa, proprio come una teiera. Lui è perso nel
lucido pensiero di allungare una mano sulla sua, ma ha paura
di bruciarsi. Fortunatamente se c’è una cosa che le paperelle
di cartone sanno fare bene, è stare immobili.
Quando il cucchiaino tintinna sul fondo della ciotola, si
rende conto che quella è la clessidra che segna i minuti a sua
disposizione: il tempo di travasarne il contenuto dentro il suo
stomaco e avrebbe perso l’occasione di parlarle.
– Sai? Mi manchi. Si crede sempre che lasciar scivola-
re via volontariamente dalle nostre vite le persone che signi-
ficano qualcosa, anziché aspettare che la perdita si abbatta
sulle nostre teste come uno scappellotto, sia più semplice. Il
modo più semplice di proteggersi. Invece non è così, a volte
si assorbe una persona così a fondo che neppure strizzarsi a
morte la fa scolare via da noi. –
Questo avrebbe voluto dirlo lui, ma lo dice lei. Lei che ha
paura di cose stupide, come i delfini e i temporali, ma non ha
mai paura di parlare per prima. E gli suona tanto come una
domanda diretta, mascherata da affermazione, ma inspiega-
bilmente piacevole e piena di calore.
Ora sa che deve rispondere qualcosa di adeguato, ma
non sa cosa, e gli viene fuori solo un flebile – Anche tu mi
manchi. –
Si vede che a lei questo basta, perché gli sorride con gli

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occhi. Poi il sorriso le scende in fretta sulle labbra. Se li im-
maginava più leggeri questi sorrisi.
Gli versa un altro cucchiaio di crema (un’altra cucchiaia-
ta di tempo zuccherato) nella ciotola.
Se c’è una cosa che sanno fare bene le teiere è aspettare
sul fuoco.

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“Chop Suey”
Edoardo Brosio

– Assaggia. –
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia,
così le tiene incrociate sul tavolo. Lei gli passa il cucchiaino: sta
aspettando.
Ci sono tante cose da dire, adesso. Prima di entrare in casa
gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa
l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo
padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il
dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello
che credeva addormentata.
– Lo so perché sei venuto – dice lei nello stesso momento in cui
lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: – Cos’è? –

– Non è perché oggi è il giorno. – aggiunge lei.


– No. –
– Vuoi che parliamo del “Suey”, vero? –
– Non mi hai ancora detto che cos’è. –
–…–
– Fa parte di quelle ricette? –
Lei prende a sua volta un cucchiaino, tracciando una li-

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nea ideale sul velo bianco che ricopre il dolce. Questa è la mia
fetta di eredità, pensa, ma non ha il coraggio di dirlo ad alta
voce.
– No. Questa era una cosa che papà preparava quan-
do eravamo piccoli. È stato prima del “Suey”. Io avevo dieci
anni, tu cinque. Difficile che tu possa ricordarlo. –
– In realtà ti sbagli. –
– Ma su una cosa non sbaglio, vero? Il vero motivo per
cui sei qui. –
–…–
– Sei qui perché ora che mamma è morta niente ci impe-
disce di realizzare il sogno di papà. Perché è ora che smettia-
mo di riunirci a ogni anniversario provando una delle ricette
del “Suey” quando quello che potremmo fare è aprire quel
posto. Farlo esattamente come lo aveva pensato lui. –
Lui posa il cucchiaino. Era quello che pensava che sua
sorella gli avrebbe detto, ma ora sentirla parlare così produce
un effetto strano. Come se stessero facendo il primo passo in
un territorio inesplorato. Come se da qui in poi fossero liberi
di potersi reinventare, ispirandosi a una tradizione con cui
sono cresciuti ma senza dover più rendere conto a nessuno.
– Pensi sia sbagliato? –
– Non lo so. Mi piaceva quel che facevamo. L’idea di
provare quelle ricette. E in fondo non mi stupisce che mam-
ma sia morta proprio ora. –
– Che vuoi dire? –
– Ora che le ricette del “Suey” sono finite e non restereb-
be altro da fare che trasformarle in un successo. O in qualun-
que altra cosa avesse in testa papà. –
Lui prende un altro pezzo della sua parte e intanto cerca
di ricordare quando è stata la prima volta che ha sentito par-
lare del “Suey”.
– Quando è iniziato tutto questo? – le chiede.
– Gli piaceva cucinare. All’inizio lo faceva solo per la
mamma. Poi è diventata una cosa seria. Ha frequentato dei
corsi. È diventato bravo. Da lì al “Chop Suey” il passo è stato
breve. –

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– Quante volte ti ha raccontato del significato di quella
parola? –
– Tu non eri ancora nato e già era la mia storia della buo-
nanotte. –
Rivede la sagoma scura di suo padre, seduto accanto al
suo letto, sente il suono della sua voce, la storia del “Chop
Suey”, di un miscuglio indigesto di ritagli di carne, verdure e
germogli di soia inventato da un lavapiatti di San Francisco
all’inizio degli Anni Venti, dei primi ristoranti cinesi in Ameri-
ca, posti da quattro soldi fatti in serie, frequentati da disperati
senza un centesimo in tasca. “Chop Suey” era l’antitesi della
buona cucina, della cura nella scelta degli ingredienti, della
passione e della creatività nel prepararli.
– E poi la favola della buonanotte si è trasformata. Si è
evoluta, esplosa. Fino a diventare un’ossessione. –
– Aprire un ristorante tutto suo, il “Chop Suey”. –
Nessuno dei due aveva mai creduto davvero che ci sareb-
be riuscito. Era come se quel posto fosse destinato a restare
una storia, il romanzo di una vita senza un finale.
– Conosceva quel posto come se fosse esistito davvero.
Dal colore delle pareti a quello delle tovaglie. Ogni piatto del
menu. –
– Le ricette del “Suey”. –
Dopo la sua morte, la mamma non aveva più voluto
sentir parlare di quel posto, se non una volta l’anno, in oc-
casione dell’anniversario della sua scomparsa, quando li co-
stringeva a riunirsi, per preparare alcune di quelle ricette, un
pasto completo, dall’antipasto al dolce, che consumavano in
silenzio immaginando ognuno di loro, a modo suo, di trovarsi
davvero in quel posto, di cenare al “Chop Suey”, e che lui
non se ne fosse mai andato.
Poco prima di morire ci aveva provato davvero. Era sta-
ta la mamma a dirglielo. Aveva lasciato il suo lavoro e aveva
comprato un vecchio locale chiuso da anni. Era morto prima
di iniziare i lavori di ristrutturazione.
– Era come se fosse la storia a tenerlo in vita. Raccontar-
la, intendo. Arricchirla di sempre nuovi dettagli. O almeno

83
era quello che pensava la mamma. Pensava che se lui avesse
continuato a sognare, avrebbe continuato a vivere. –
– Sei d’accordo con lei? –
– E tu? –
– Certe storie dovrebbero restare tali. È questo che vuoi
dire? –
Il piatto è vuoto ora, solo un ricordo dei vari ingredienti,
macchie di diversi colori che accennano a qualcosa che non
c’è più. Lei si alza e lo mette nel lavandino. Fa scorrere l’ac-
qua su quei resti.
– Non lo so – risponde. – Ma forse è così, non credi? –

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Di padre in figlio
Antonio Varriale

– Assaggia. –
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia,
così le tiene incrociate sul tavolo. Lei gli passa il cucchiaino: sta
aspettando.
Ci sono tante cose da dire, adesso. Prima di entrare in casa
gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa
l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo
padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il
dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello
che credeva addormentata.
– Lo so perché sei venuto – dice lei nello stesso momento in cui
lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: – Cos’è? –

– Una ricetta semplice dei miei tempi. Se preparata a


dovere, però, non è male. –
– Di sicuro è la cosa più buona che abbia mai assaggiato. –
– E non è la prima volta che la mangi. – Lui solleva il
sopracciglio.
– Da bambino te ne avrò preparate per lo meno una de-
cina. –

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– Da bambino? Signora, ci siamo appena conosciuti… –
Lei mantiene ancora un po’ lo sguardo su di lui, gli sor-
ride con la bonaria incredulità degli adulti. Lui sospetta che
dietro l’aspetto arzillo si celino neuroni ormai alla deriva.
– Chissà perché ti piaceva tanto. È un dolce semplicissi-
mo. Ne so fare molti altri, assai più elaborati. Tuo padre me
ne chiedeva uno a settimana. –
Lui ha la gola secca, si schiarisce più volte la voce, si pu-
lisce la bocca con un fazzoletto di stoffa. Si alza, ci ripensa,
torna a sedersi.
– Ascolti – dice, cercando un tono comprensivo. – So che
la mia presenza può metterla a disagio… –
Lei scoppia a ridere. – Non sono io quella a disagio! –
Lui annuisce, si fa contagiare un po’ dalla sua allegria.
Malamente. – Credo che sia doveroso, utile… –
La donna sobbalza. – Devi assaggiarlo con l’estratto di
fragole! Ecco perché non l’hai riconosciuto. –
Taglia una fetta intera di dolce, la dispone al centro del
piatto e versa sopra l’estratto, spremendolo da una boccettina
rossa. Si siede di fronte a lui, gli porge il piatto.
– Assaggia ora. –
– Vorrei farle capire che… –
Lei agita la mano. – Prima assaggia. –
Lui trancia col cucchiaino un pezzo di dolce, lo infila in
bocca, mastica con calma. È molto più buono così. La donna
sorride, attende con aria trepidante.
– È vero, ora sì, lo riconosco. –
Lei scuote la testa.
– Sei un pessimo attore: le bugie non le sai dire. – Abbas-
sa gli occhi. – Neanche tuo padre le sapeva dire. –
– Senta, mi spiace aver dimenticato, di non averla ricono-
sciuta e che ancora proprio non ricordo, ma abbiamo tempo
per questo. Ora sono qui per un altro motivo. Sono qui per-
ché me l’ha chiesto lui. –
Lei lo ignora.
– Quando doveva mentire si voltava sempre da un’altra
parte – fissa il capo tavola, il posto di suo padre.

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Lui si sente costretto a guardare la sedia vuota, in fondo
al tavolo. Un brivido gli attraversa la schiena.
– Ho la sensazione di non sapere quasi nulla di lui. Tre
notti fa, all’ospedale, poco prima di… Se lei potesse… Se lei
potesse dirmi cosa… –
– Prendi un po’ di Martini che ci sta bene su quel dolce. –
Prima che lui possa fermarla, dirle che no, non vuole af-
fatto il Martini, che sono mesi che cerca di non bere affatto,
lei è già vicina al mobiletto dei liquori. È incredibile quanta
rapidità nasconda in quel corpicino raggrinzito. Versa nel bic-
chiere una quantità di Martini ben oltre il limite che lui può
permettersi in questo periodo. Limite che equivale a zero, a
essere precisi. Lo porta alla bocca, finge di bere, si bagna
appena le labbra.
Guarda di sfuggita l’orologio: non vuole sembrare scor-
tese.
– Cerco di capire. Per lui sembrava una cosa importante,
eppure se l’è sempre tenuta dentro. Avrebbe potuto dirmelo. –
– E che ti doveva dire? – la sua voce è calma, pare di sen-
tire la risata a ogni frase. – Tu neanche ti ricordi di quando
venivi qua. Ma hai ragione. Avevi sì e no… – solleva il capo,
stringe gli occhi, – cinque anni credo. I calcoli non mi riesco-
no più tanto bene. E non è la vecchiaia. Non mi tornavano i
conti neanche vent’anni fa. Era sempre tuo padre a occuparsi
delle bollette, delle tasse, dei 740… Anche di controllare gli
scontrini della spesa. Sai quante volte mi hanno imbrogliata?
Non si contano! Tuo padre invece, lui sì che ci capiva in que-
ste cose, e mi aiutava sempre a… Scusami. Vaneggiamenti di
una vecchia. –
Si versa un dito di Martini, lo beve tutto d’un fiato.
– Forse sei arrabbiato. Forse ce l’hai con lui. –
– Per niente. Mi spiace solo che abbia aspettato tanto a
dirmelo. O forse ero troppo distratto io per accorgermene. –
– Se te l’avesse confidato prima non l’avresti presa così. –
– No, credo di no. L’importante è che mia madre non
l’abbia mai saputo. –
– Tua madre lo sapeva. –

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– Davvero? –
La signora annuisce. Lui abbassa lo sguardo, fa girare il
cucchiaino nel piatto.
– Devo sembrarle molto stupido, in questo momento. –
Lei si alza, prende un’altra fetta e gliela porge. Lui le fissa
gli occhi come un mendicante cui è stata appena donata una
cifra esorbitante. Intacca la fetta, ma si ferma subito. Poggia il
cucchiaino nel piatto, unisce le mani.
– Ad ogni modo – dice con un tono più sicuro o for-
se solo più costruito. – Credo che lui volesse che la aiutassi,
che provvedessi ai suoi bisogni per quanto mi fosse possibile.
Credo sia per questo che me ne ha parlato. –
– In effetti mi servirebbe che mi prendessi delle scorte
d’acqua dallo scantinato. Le scale le faccio a difficoltà. –
– Beh questo è semplice. Ma credo intendesse… –
– Ah, e il lavello. –
– Il lavello? –
– È intasato. Almeno credo. L’acqua ci mette un’eternità
a scendere nello scarico. –
– Lo sta chiedendo alla persona meno adatta. Quando
provo a sistemare qualcosa mia moglie e le mie figlie mi fer-
mano sul colpo, neanche stessi tentando di dar fuoco alla
casa. –
– Oh, che sciocchezza – dice lei schermendosi la bocca
con una mano. Forse è stato questo gesto, pensa lui, ad attrar-
re suo padre, molte rughe fa.
– Che, per inciso, potrebbe anche essere un effetto colla-
terale del mio tentativo di risolvere il problema. Ad ogni modo
sarò felice di mandarle il mio idraulico. È davvero bravo. –
Lei agita la mano, minimizza.
– Ma non è a questo che mi riferivo. –
– Non ci pensare, ti stavo solo canzonando un po’. Sono
vecchia ma so rimediare a un sacco di cose. Non mi serve un
fattorino, ma avere ospiti mi fa sempre stare bene. Mi ringio-
vanisce – aggiunge, esplodendo in una risata appena celata
dal palmo usato a schermo.
Gli poggia la mano sul polso: è nodosa e raggrinzita come

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un ramo d’inverno. Ma la pelle è calda. Lui si interrompe
all’istante, eppure non è affatto a disagio. Quel contatto fisico
sembra giusto, ora.
– Dovevo essere davvero contento quando venivo qui. –
– Ti mangiavi un sacco di dolci, quello è certo. –
Lui guarda il piatto vuoto, la piastrelle in cotto passate
di moda da anni, la mano della donna è ancora sulla sua. La
cucina è calda, si sta bene. Che ci sia già stato o che questa
sia la prima volta, non ha nessuna importanza. Si sta bene al
centro della stanza, il camino rumina tranquillo.
– Credo proprio che prenderò un’altra fetta – dice.
Il viso della donna è radioso.

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Una storia eritrea
Francesca Chiesa

– Assaggia. –
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia,
così le tiene incrociate sul tavolo. Lei gli passa il cucchiaino: sta
aspettando.
Ci sono tante cose da dire, adesso. Prima di entrare in casa
gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa
l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo
padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il
dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello
che credeva addormentata.
– Lo so perché sei venuto – dice lei nello stesso momento in cui
lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: – Cos’è? –

Sono passati dieci anni dall’ultima volta in cui lui e sua


madre sono stati seduti insieme al tavolo della cucina. Tutto
sembra come allora: è sera e la casa dorme, lei lo guarda man-
giare. Tutto è cambiato, invece: allora sua madre non entra-
va mai in cucina se non in queste occasioni, quando riteneva
fosse suo dovere lasciare che marito e domestici dormissero e
preparare con le sue mani la cena al figlio che rientrava tardi.

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Marito e domestici adesso se ne sono andati: uno se l’è
portato via la malattia e gli altri la rivoluzione. Non è solo
passato il tempo, per donna Rosa Laurenzi, è cambiato il
mondo.
Lei invece è sempre la stessa, ha solo dieci anni in più: i
suoi capelli hanno sempre quel colore biondo chiaro che al fi-
glio un tempo sembrava oro, i suoi occhi sono sempre di quel
colore azzurro che a lui un tempo sembrava ghiaccio. Non è
mutato l’abbigliamento: indossa anche questa sera uno che-
misier sobrio ed elegante, assurdo di fronte ad un figlio che
porta una maglietta sudicia e sandali ricavati da un copertone
d’auto. Gli anelli alle dita, pochi e discreti, sono quelli che lui
ricorda. Il volto, sereno e composto, come sempre non espri-
me nulla. È mosso da un sorriso appena accennato che può
avere molti significati, o nessuno. Le mani dalle dita lunghe e
affusolate sono appoggiate sulla tavola.
Fabrizio le osserva con un senso di tristezza, gli ricor-
dano carezze mai ricevute. Le mani di suo padre erano state
molto diverse, con dita tozze e unghie raramente pulite. Mani
sempre in movimento: per lavorare, riparare, giocare, acca-
rezzare, discutere, rimproverare. Mani vive.
– Cos’è? – chiede di nuovo, per non farsi sopraffare dai
ricordi. Non sa cosa dire. Gli piacerebbe individuare un fi-
lone di tenerezza, tra lui e sua madre, forse è quello che ha
cercato di fare anche lei mettendogli davanti quella fetta di
dolce. È difficile, le frasi si inaridiscono ancora prima di esse-
re formulate. Si sente a disagio. È assurdo, pensa: sentirsi così
davanti alla propria madre.
Per un momento immagina la reazione del suo compa-
gno di tenda, Berhane, se glielo avesse raccontato: era stato a
casa sua e aveva visto quella famiglia di nove figli, tra maschi
e femmine, e quella madre alta come un soldo di cacio, tutta
nervi e sorrisi, che lavorava come quattro uomini ma per tutti
aveva sempre un sorriso di riserva.
Questo pensiero lo fa sentire ancora più a disagio.
Sua madre continua a fissarlo.
– Suppongo tu sia venuto per prendere la tua parte –

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dice lei muovendo appena le labbra – ma se è così sappi che
non è rimasto nulla, nulla di nulla. –
Fabrizio sente un gran freddo entrargli nel cuore. Donna
Rosa continua a parlare: – E se anche fosse rimasto qualcosa,
pensi che ti permetterei di usare la roba nostra per quella
stessa gente che ci ha rovinato? –
Ecco, ci siamo, pensa Fabrizio. Allontana il piattino con
il dolce, che non gli piace poi tanto, a dire la verità. Ancora
l’immagine di suo padre: nemmeno a lui piaceva quel dol-
ce sovraccarico di glassa e liquore, così inadatto alle afose
serate eritree. Solo che lui aveva deciso di fingere. Fingeva
di apprezzare la cucina della sua adorata Rosa e il tenore di
vita che lei aveva imposto in casa quando la loro fabbrica di
Asmara aveva cominciato a rendere bene.
Fingeva di non notare come la moglie trattava i domestici
eritrei, e poi la notte sgattaiolava nelle loro stanze per scusarla
e portare regali ai loro bambini. Fingeva di non accorgersi di
come la moglie sorrideva agli ufficiali in visita, ai gerarchi, a
chiunque fosse italiano e avesse un aspetto, come dire, impe-
riale.
Come aveva finto bene, a causa di quel suo amore ine-
sausto! Era riuscito persino a non farle capire che stava mo-
rendo, temeva che lei si spaventasse di dovere rimanere sola
in quel turbine del dopoguerra. Per proteggerla aveva pagato
tutti, prima di andarsene: inglesi ed etiopi pronti a sbranare
quella loro povera Eritrea, eritrei pronti a lottare contro tutto
e tutti per impedirlo. Non aveva capito, o non aveva voluto
vedere quante spine aveva la sua Rosa.
Appena rimasta sola aveva riunito tutto il loro personale
eritreo, operai e domestici. Senza un tremito nella voce, senza
una lacrima, aveva annunciato: – Ricordatevi che da oggi co-
mando io e che a casa mia non si fa politica. Nessuno dovrà
lasciare la casa o la fabbrica, chi lo fa sarà punito! –
Poiché gli eritrei sono gentili e intelligenti, non avevano
aperto bocca; avevano solo sorriso. Nella notte se ne erano
andati tutti. Tutti. Anche Fabrizio, per arruolarsi nel Fronte
Popolare di Liberazione.

92
Da allora è la prima volta che Fabrizio torna a casa e sì,
sua madre ha ragione: è venuto a chiedere soldi. L’avvento
al potere di Menghistu in Etiopia ha privato il Fronte anche
dell’appoggio sovietico e adesso c’è bisogno di tutto, dalle
armi ai cerotti alle scarpe.
Ancora un poco e dovremo rubare il cibo agli uccelli pen-
sa Fabrizio guardando oltre la finestra, nel cortile, l’albero
dei casimiri preso d’assedio dagli uccelli topo. Quante volte li
aveva presi a sassate, da bambino, per proteggere quei frutti
dolcissimi!
– Allora? Non rispondi? –
– Cosa ti devo dire? Abbiamo bisogno di soldi, abbiamo
bisogno di tutto. Abbiamo bisogno di fiducia. Siamo soli, mam-
ma, perfino i cubani combattono contro di noi, adesso. –
– E tu cosa c’entri? Io, cosa c’entro? Abbiamo portato la
civiltà qui, noi italiani, e come ci ripagano? La mia fabbrica è
chiusa da anni, io vivo come una miserabile. –
– Ma cosa dici! La civiltà? Noi? Questo è il paese che
mandava soldati a Troia, mamma, te lo ricordi Omero? È la
terra benedetta di Punt dove gli dei venivano a banchettare! –
– Non dire sciocchezze: città, fabbriche, agricoltura…
Abbiamo fatto tutto noi, li abbiamo istruiti, abbiamo dato
loro lavoro e case e per tutto ringraziamento loro se ne sono
andati, e hanno portato via anche te! –
È la prima volta che vede sua madre infervorata in una
discussione, la prima volta che vede quella sottile vena azzur-
ra attraversarle la fronte. La prima volta che gli appare sola,
fragile e impaurita.
– Mamma, questo paese è il nostro mondo: tu sei nata
qui, io sono nato qui. Io da piccolo giocavo con bambini eri-
trei e anche tu, me l’ha raccontato la nonna. I miei amici sono
eritrei, oggi, sono innamorato di una ragazza eritrea e voglio
avere dei figli da lei. Voglio che i miei figli vivano liberi. Da
vecchio è qui che voglio vivere. È qui che voglio morire, a
Massawa, disteso su un angareb a guardare il mare. Potresti
pensare, tu, di vivere altrove? C’è un altro luogo al mondo
bello come l’Eritrea? –

93
Non sa cos’altro dire. Rosa ha chinato il capo, non gli
risponde, non dice nulla, sembra non accorgersi che Fabrizio
si è alzato e se ne sta andando, esce da casa senza voltarsi e
appena uscito affretta il passo. Lo stanno aspettando vicino
alla chiesa di San Francesco, da lì partirà il camion che lo
riporterà al campo, tra le montagne del Sahel. Non c’è tempo
per essere triste. Il camion ha già il motore acceso.
– Fabrizio, zubbò? –
– Zubbò, Berhane, tutto bene, possiamo andare. –
Sul camion ci sono tutti. Lungo la strada ognuno raccon-
terà il suo giorno ad Asmara. Aida cambia di posto per stargli
vicino. Si assomigliano tutti, là dentro, con quella divisa da
rivoluzionari straccioni e quel sorriso da incoscienti.

94
Creature imperfette
Valeriana Maspero

– Assaggia. –
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia,
così le tiene incrociate sul tavolo. Lei gli passa il cucchiaino: sta
aspettando.
Ci sono tante cose da dire, adesso. Prima di entrare in casa
gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa
l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo
padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il
dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello
che credeva addormentata.
– Lo so perché sei venuto – dice lei nello stesso momento in cui
lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: – Cos’è? –

– ... dentifricio – e – ... a trovarti – dicono ancora insie-


me. Lei ride. Lui no.
– Vedi, non so mai quando devo parlare io – dice lei, ri-
prendendogli il cucchiaino di mano con un gesto rapido e
ficcandoselo in bocca.
Lui abbassa gli occhi sul tavolo. Paura di guardarla in
faccia.

95
– Capita a tutti – e le sorride alzando gli occhi. Ci sono
tante cose da dire.
Dopo avere bene ripulito il cucchiaino con la lingua, lei
lo affonda nel dolce come il braccio di una ruspa e ne cava un
pezzo. Lo mangia golosa. Poi gli porge di nuovo il cucchiaino
parlando a guance piene.
– Dai, prendi ancora un po’ di dolce. –
Lui obbedisce.
– Cos’è? – chiede di nuovo, gli occhi ancora in basso.
– È “ritorno”, te l’ho detto: il dolce che fa tornare chi lo
mangia. –
– E come fa a farlo tornare? – domanda. Anche suo padre
continua a chiedergli di tornare indietro, di ritornare a casa.
– Con la magia. Nella pasta ci metto il piangere e nel
bianco la saliva. –
A lui viene un conato di vomito. Cerca di nasconderlo e
inghiotte furiosamente.
– Perché fai queste cose Caterina? –
– Per fare la magia. Così i ragazzi tornano da me, te l’ho
detto. –
– Non è così che funziona. –
– E come funziona, allora? –
Lui pensa che l’impresa è troppo difficile. Ci sono tante
cose da dire. Intanto che sta cercando le parole, lei si alza, gira
intorno al tavolo, gli si siede sulle ginocchia e gli prende una
mano. Ci gioca accarezzandola.
– Dimmelo perché la gente si ritorna tra loro. Io non ca-
pisco perché lo fanno. Da me nessuno viene più la seconda
volta. Vedi che sono costretta a fare la magia con il dolce? –
Il cuore prende a battergli ancora forte e finge che quelle
ginocchia e quella mano non siano sue, mentre pensa che
anche lui, in fondo, non lo sa il perché. Questo non sapere se
è paradiso o inferno.
– Tornano perché... si vogliono bene. –
– Mi vuoi bene, te? –
– Sì... –
– Perché? –

96
– Perché siamo tutti fratelli... –
Lei sbuffa.
– Cominci ancora con le tue storie? Ancora Caino e
Abele? –
Dio, proprio quella. Proprio quella no. È già difficile con
quelli normali. Troppe cose da spiegare. Con loro poi. E in-
vece con loro dovrebbe essere più semplice, perché restano
sempre come bambini. Come bambini.
Infatti Caterina lo salva.
– Tanto io non ne ho di fratelli – dice, raggomitolandosi
in braccio.
E poi lo condanna.
– Dai, allora vieni di là con me. –
– Di là dove? – chiede lui, anche se lo sa. La ragazza
guarda la porta della camera da letto. È come una bambina
che vuole il dolce.
– Lo sai perché sono venuto, Caterina. –
– Ma a me non mi vuoi bene? –
– Sì – e lui sa di essere sincero quando lo dice.
– E allora perché non vieni di là con me? – Occhi luci-
di da lacrime per il dolce ritorno. Piccole mani lisce sul suo
collo.
– Tu non vuoi stare con me perché sono brutta? –
– No, sei più bella delle altre ragazze. –
Occhi neri a mandorla, bocca di pesca saturnina.
– Anche tu sei bello. –
Lo annusa. – Odori di dolce. Dai vieni di là. –
– No. –
Lo guarda negli occhi così da vicino che i loro nasi di
ragazzi si toccano.
– È perché sono... così? –
La fitta al cuore e la voce che fatica a uscire dalla gola.
– No, non è perché sei così. –
Meravigliosa creatura di Dio, con un cromosoma in più.
– A te ti importa se non sono perfetta? –
Nella parte di cervello che credeva addormentata si ma-
terializza ancora suo padre. Quando gli aveva detto che vole-

97
va andare a prete, aveva bofonchiato sardonico: – Nessuno è
perfetto. –
– No. –
– Ecco. Anche a me non m’importa se vai in giro a piedi
nudi coi sandali. –
Questo non capire mai se meriti il paradiso o l’inferno.
– Dai, vieni di là con me. Dai, vieni. –
Il cucchiaino rimane confitto nel bianco del dolce del ri-
torno.

98
Una cosa seria, per una volta
Mario Pirani

– Assaggia. –
Il cuore gli batte forte e non sa cosa farsene delle sue braccia,
così le tiene incrociate sul tavolo. Lei gli passa il cucchiaino: sta
aspettando.
Ci sono tante cose da dire, adesso. Prima di entrare in casa
gli sembrava che si sarebbero esaurite tutte nello spazio che separa
l’ingresso dalla cucina. Invece sono stati zitti.
Infila il cucchiaino nella parte bianca della farcitura. Suo
padre avrebbe fatto lo stesso.
Il sapore del metallo è la prima cosa che sente, poi c’è solo il
dolce che si scioglie sulla lingua e gli sveglia una parte del cervello
che credeva addormentata.
– Lo so perché sei venuto – dice lei nello stesso momento in cui
lui si toglie il cucchiaino dalla bocca e chiede: – Cos’è? –

Attenzione che tra questi due (che, tra parentesi, si chia-


mano Adele e Marco) c’è tutto un pregresso da raccontare:
sono importanti l’uno per l’altra anche se, a ben pensarci, se
utilizzassimo uno strumento in grado di misurare senza erro-
ri e approssimazioni sentimentali il numero di ore che ciascu-
no di loro ha trascorso in compagnia o alla presenza di ogni
persona, dal momento della nascita al momento in cui hanno

99
quasi quaranta anni e si incontrano in cucina e lui resta basito
con il cucchiaio in mano e il dolce sulla lingua e tutto il resto e
poi lo stravagante strumento dovesse stilare la classifica delle
persone con cui ciascuno di loro ha trascorso più tempo, fa-
cendo fuoriuscire dalle proprie viscere meccaniche un rotolo
di carta, allora emergerebbe che lui è al ventiduesimo posto
nella classifica delle persone con cui lei ha trascorso più ore e
lei addirittura al trentatreesimo in quella di lui.
E consideriamo che questi due hanno trascorso assieme
i cinque anni delle scuole superiori e dunque un fracasso di
tempo che influenza la statistica.
Ma al di là di questo, tutti sanno che l’importanza delle
persone non si misura sulla base del tempo trascorso assieme,
ma in base a quanto a quella persona si è pensato. E questi
due si sono sempre pensati un sacco. (Tuttavia, per misurare
il tempo trascorso a pensare ad una persona ci vorrebbe un
altro strumento e quello strumento lì al momento pare che
nessuno abbia voglia di inventarlo.)
C’è un attimo di stallo lì in cucina perché Adele attende
che Marco commenti il fatto che lei dice di sapere il motivo
per cui è venuto e Marco invece aspetta che lei gli dica che
torta è quella che sta assaggiando e che gli suscita sensazio-
ni stile madeleine di Proust. E allora nessuno parla e se ne
stanno zitti a guardarsi, lui basito, lei sorridente, soave e in-
sinuante.
Poi è naturalmente Adele a far ripartire l’azione, dicendo:
– Questa è quella torta panna e limone che faceva sem-
pre mia madre. L’unica che sapeva fare. Ogni volta che sei
venuto a fare i compiti a casa mia, l’hai dovuta assaggiare.
Era obbligatorio. Mia madre non ti avrebbe lasciato andare
via se non ne avessi mangiato una fetta. –
Lui sorride al ricordo e dice: – Comunque, questa torta la
faceva buona, era un obbligo molto piacevole, fossero ancora di
questo genere i doveri che mi tocca affrontare sul lavoro… –
Durante l’adolescenza e oltre, il rapporto di Adele con
la madre aveva seguito le dinamiche di quello di Biancaneve
con Grimilde la Strega. La quale, nonostante i buoni vecchi

100
Fratelli Grimm sostengano fosse la matrigna di Biancaneve,
era invece probabilmente, secondo l’attendibile parere di al-
cuni interpreti della nuova scuola, la madre biologica sotto
tutti i punti di vista e pare che trasformare la madre in ma-
trigna sia stato solo un patetico tentativo politically correct
dei Grimm di occultare quella rivalità che si crea tra certe
madri e certe figlie e che risulta particolarmente vomitevole
al nostro sentire.
La madre di Adele, d’altronde, era una peste bubboni-
ca: esuberante, teatrale ed eccessiva in ogni comportamento,
pareva godere particolarmente nell’umiliare la figlia. Alcune
scene, nel ricordo di Adele e Marco, avevano assunto una
potenza mitologica: tipo quando la madre, durante la festa
in giardino per il diciottesimo compleanno di Adele, aveva
riempito di attenzioni particolari un certo ragazzino della
classe, rimanendo in disparte dal gruppo a ridere sciocca alle
sue battute e consentendo che la mano svelta di lui le acca-
rezzasse a lungo le cosce.
– Questa non è una mamma – diceva Adele a quel tempo,
piangendo tra le braccia confidenti di Marco.
Lui adesso si taglia un’altra fetta di torta. Elude appo-
sitamente la frase di lei – Lo so perché sei venuto – che esi-
gerebbe quantomeno un feedback; lei continua a sorridere
maliziosa e prende posto nella sedia accanto a lui. Lo osserva
senza dire nulla mentre lui invece ha preso a fissare l’orologio
sulla parete di fronte. C’è silenzio, si sente solo il rumore delle
lancette che girano, ma né Marco né Adele trovano questo
silenzio imbarazzante.
Non può esserci silenzio imbarazzante tra loro due. An-
che se dalla fine della scuola si sono parlati effettivamente
poche volte (per la precisione trentuno, di cui almeno nove
per periodi di tempo inferiori ai dieci minuti), il loro tipo di
rapporto creato nell’adolescenza è tale da escludere a priori
il silenzio imbarazzante. È una cosa in cui credono e di cui
vanno fieri. Forse questo deriva anche dal fatto che tra loro,
nonostante i sospetti di molti compagni di classe dell’epoca,
non c’è mai stato alcun atto sessuale, se si escludono le carez-

101
ze piuttosto spinte che si scambiarono in corriera tornando a
casa dalla gita di quinta a Vienna.
O forse questa cosa qui del sesso mai consumato non
c’entra nulla. Fatto sta che adesso in cucina c’è silenzio e que-
sto non li imbarazza.
Adele sa bene perché Marco è venuto proprio quel gior-
no; venerdì scorso quando ha ricevuto la sua telefonata e lui
le ha detto: – Ciao, come stai? Pensavo che è tanto che non ci
vediamo e mi piacerebbe venire a trovarti; cosa dici se passo
da te mercoledì prossimo? – stava aspettando quella chiama-
ta già da qualche giorno e se Marco avesse aspettato ancora
qualche giorno l’avrebbe cercato lei.
D’altronde era sicura che lui avrebbe ricordato, men-
tre Marco non era per nulla certo che Adele avesse ancora
in mente quella cosa. E in questo momento sta valutando
il comportamento da tenere alla luce dell’informazione ri-
cevuta, ossia che Adele si ricorda perfettamente quella cosa,
proprio quanto lui. E sembra anzi insistere per tirare fuori
l’argomento (che non sarebbe obbligatorio tirare fuori).
E infatti Adele chiede: – E tuo padre come sta? –
Quando Marco e Adele erano adolescenti, il principale
problema del padre di lui erano i pensieri di lavoro che lo
inseguivano fuori dall’ufficio, perseguitandolo così come le
Erinni torturavano gli assassini della vecchia Grecia: rientra-
va a casa la sera carico di adrenalina paranoica, continuando
a chiedersi mentalmente se avesse fatto bene o male a gestire
quella tal pratica in quella determinata maniera, riesaminan-
do ogni decisione presa e valutando quali conseguenze deva-
stanti essa avrebbe potuto avere per lui o per la sua azienda o
per il mondo intero.
L’adolescenza senza responsabilità di Marco gli sembra-
va intollerabile. Il risultato era, agli occhi del figlio, un uomo
inavvicinabile, rigido, facile allo scoppio d’ira e alle rivendi-
cazioni rancorose, desideroso di imporre alla vita del figlio
una volontà che non riusciva a imporre alla propria. Un mo-
stro indemoniato, incomprensibile e temuto che nelle lunghe
confidenze roventi che Marco e Adele si erano scambiati in

102
quegli anni era stato il degno corrispettivo della madre di lei
nel ruolo di nemico storico ed esempio da non perseguire.
– Per quel che ne so, sta bene – dice Marco – è in pensio-
ne e passa la giornata guardando partite di biliardo sui canali
a pagamento. –
Detto questo torna zitto, con una piega ironica sulle lab-
bra, a mostrare che, con tutto il tempo che è passato, non è
ancora riuscito a perdonare suo padre. Nel frattempo cerca
di capire cosa deve fare.
Adele lo fissa insistente come a pretendere che sia lui a
tirare fuori l’argomento e questo sta diventando inquietante.
Tra l’altro, a Marco sembra che lo sguardo eccitato e fidu-
cioso che adesso gli rivolge Adele sia spiccicato quello che lei
aveva la notte d’estate di venti anni prima, quando, del tutto
inattesa, aveva suonato il campanello di casa sua e, sorpren-
dendo e preoccupando i genitori di Marco, si era precipitata
nella camera dove lui già stava dormendo, lo aveva svegliato
e gli aveva detto che, basta, non ce la faceva più a vivere con
quella donna là.
Marco non ha mai saputo perché Adele fosse scappata
da casa, sapeva solo che dai graffi sulle sue guance uscivano
goccioline di sangue. Ma in ogni modo, prima che la mamma
di Adele, avvisata dai genitori di Marco, spalancasse la porta
e trascinasse via con la forza la figlia urlante, lei, seduta as-
sieme a lui sul suo letto vergine, lo aveva guardato con quello
stesso sguardo infiammato di oggi e gli aveva fatto promette-
re che loro due non sarebbero mai diventati dei mostri come i
loro genitori, che lo avrebbero impedito, che si sarebbero in-
contrati tra venti anni esatti e se si fossero resi conto di averlo
fatto, si sarebbero aiutati l’un l’altro a morire.
– So perché sei venuto – ripete Adele e questa volta con-
tinua decisa: – Sei venuto per mantenere quello che ci siamo
promessi – e mentre ascolta queste parole Marco si sente ter-
ribilmente imbarazzato.
Era venuto qui per ricordare ridendo quella promessa di
ragazzi, armato delle parole di Busi su “dove è finito il dolore
che abbiamo creduto di soffrire da giovani”.

103
Sperava di riuscire, sull’agrodolce scia dei ricordi, a far-
sela, finalmente, la sua amica.
E ora invece lei mostra di volere tutt’altro e lui si mette
a calcolare mentalmente i pro e i contro di ogni sua possibile
azione: se rifiutasse di fare ciò che Adele gli richiede tradireb-
be la vecchia promessa e ciò non sarebbe un grosso problema
ma comunque in ogni caso rischierebbe una reazione pesan-
temente imprevedibile da parte di Adele che è chiaro aspetta
il suo aiuto per uscire da qualcosa di veramente pesante e
che, ora Marco lo capisce, è diventata uguale identica a quella
pazza isterica di sua madre.
Ma d’altronde se accontentasse la sua vecchia amica
chiuderebbe questa storia in modo veramente kitsch e di cat-
tivo gusto, nonché fortemente illegale.
Ora però la sua preoccupazione aumenta perché Adele
ha estratto dal cassetto un revolver, certamente carico e que-
sto particolare conferisce al tutto una certa tensione. E d’altra
parte, si chiede Marco per la prima volta, sono poi così diver-
so da mio padre?

104
Sulla punta di un pennino d’oro
c’è immobile una goccia perfetta che trema.
Come un racconto in attesa.
Ogni sua parte contribuisce alla sua perfezione.
Il bianco benefico divide lo spazio con la dolcezza cremosa
e su tutto il tocco sapiente dello zucchero d’uva.
Un equilibrio perfetto. Vuoi romperlo ?
Immergi il pennino in crema di yogurt bianco müller.
Capitolo 4

Un segreto star bene


C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina.
Si vede da come è entrato in ufficio,
da come ha centrato l’attaccapanni con la giacca
e da come mi ha salutato unendo pollice e indice
e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso
e non può fare a meno di sorridere.
Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato che ha davanti:
una piccola scritta storta spicca
sulla piega bianca dell’ingessatura.
Crisalide
Alessandro Smith

C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina. Si


vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attacca-
panni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e
indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare
a meno di sorridere. Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato
che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca
dell’ingessatura.

Una data. Piego leggermente la testa per inquadrarla me-


glio: è domani. La fulminea e camaleontica rotazione del suo
sguardo verso di me mi fa capire che si è accorto della mia
attenzione. Porto gli occhi altrove ma è troppo tardi. Seguita
a scrivere con la stessa seraficità.
Se dovessi quantificare il tempo impiegato dal suo oc-
chio per ruotare verso di me, analizzare la direzione del mio
sguardo, capire cosa stessi fissando e tornare sul suo foglio,
non saprei quale unità di misura utilizzare. Eppure il vago
socchiudersi dei suoi occhi tradisce compiacimento. Occhi
che sorridono sornioni, pur senza perdere di vista la danza
della penna che lascia la sua scia nera sul documento. È la sua
firma. Ora mi toccherà affrontarlo.

111
Lascia cadere la penna e finalmente solleva lo sguar-
do verso di me, poggiando il mento sul moncone nel quale
sembra terminare il suo gesso. Strana ingessatura, ora che
ci rifletto. Il braccio sinistro, piegato, è ingessato in un’unica
geometria triangolare che non lascia emergere nemmeno la
mano, che a questo punto immagino chiusa in un improba-
bile pugno costipato sotto la crosta bianca.
– Sì, è domani. –
La sua voce è gentile ma decisa e dal suo sguardo tra-
spare nuovamente la strana euforia che avevo notato al suo
arrivo.
– Domani? – fingo una sorpresa che non convince ne-
anche me.
– Il giorno in cui prevedo di non aver bisogno più del
gesso. Al più tardi domani. Mi è sembrato che avessi notato
il mio appunto. –
Volta di scatto la testa verso destra fissando la finestra.
Non capisco il perché fino a quando non noto la mosca che
urta caparbiamente contro la lastra di vetro convinta di gua-
dagnare la libertà.
Torno a guardare lui: se il tempo si fosse fermato non
potrei osservare una figura più immobile della sua. Non un
battito di palpebre, le pupille ipnoticamente puntate sul pun-
to sul quale l’insetto si è posato come per recuperare le forze.
Le labbra semiaperte in un’espressione che non so definire lo
fanno apparire come in trance, ma dura poco.
Torna a guardare me, riacquistando il colloquiale sorriso
di poco fa.
– Hai considerato l’idea di farti esaminare da qualcuno?
O stai continuando a gestire la situazione da solo? – la mia
domanda tradisce una preoccupazione che va oltre la nor-
male apprensione per la salute di una persona che conosci,
amico o collega che sia. Riconosco i sintomi della paura.
– E perché dovrei? Oramai ho capito perfettamente cosa
sta accadendo. –
Fa come per dire altro, ma si ferma. Lancia un veloce
sguardo attorno a noi, poi torna a me.

112
– Ti va un altro caffè? –
È chiaro che intende dirmi dell’altro, ma non vuole far-
lo in pubblico. Annuisco con un cenno, e lo osservo mentre
si alza, aggira la scrivania appallottolando con la mano un
foglio di carta, e si incammina verso la porta lanciando di-
strattamente il bianco proiettile verso il cestino posto ai piedi
della parete opposta. Solo qualche giorno fa lo avrei visto
recuperare dal pavimento l’oggetto di un lancio mal calibrato
e accompagnarlo nel cestino col consueto gesto rassegnato.
Mi chiedo come abbia fatto prima a centrare l’attaccapan-
ni con un lancio che avrebbe mandato al pavimento la giacca
di chiunque vi avesse tentato. Forse mi sto suggestionando.
Lo seguo fuori dalla stanza e lungo il corridoio, verso il
distributore di caffè collocato in fondo. Si ferma davanti alla
macchina e si volta verso di me, con un’aria improvvisamente
molto più seria.
– Quando è cominciata avevo paura, ricordi? Mi chiede-
vo perché stesse accadendo, perché proprio a me. –
Le sue parole sono scandite dalla luce lampeggiante del
neon che illumina il corridoio e che da un po’ funziona male.
Dovremmo sostituirlo prima o poi.
– Mi ascolti? –
– Sì. – È vero, lo ascolto, ma improvvisamente vorrei es-
sere altrove. – Ricordo. –
– E non ne ho parlato con nessuno, a parte te. –
Lo sguardo da vecchio amico riconoscente non riesce a
tranquillizzarmi.
– Sei il solo a sapere. –
– Ma non hai voluto dare ascolto al mio consiglio. –
La mia voce si sforza di rimanere impassibile.
– Se avessi accettato di farti esaminare da qualcuno che
forse avrebbe potuto aiutarti, è probabile che ora il tuo pro-
blema sarebbe già stato risolto. –
– Seguiti a parlare di problema. Non lo è, amico mio.
Non lo è più. Anzi, non lo è mai stato, ma non potevo saperlo. –
Riecco l’euforia.
– Quando apparvero le prime screpolature e la peluria

113
iniziò ad inspessirsi, ho temuto una malattia, un tumore della
pelle o peggio. –
– Ragione di più per affidarti a qualcuno. –
– Invece ho fatto bene a non farlo. Chiunque mi avesse
esaminato avrebbe tentato di soffocare il miracolo e strappare
la mia nuova pelle, convinto di agire per il mio bene. Ma chi
di voi può davvero sapere quale sia il mio bene? –
L’essere incluso nel “voi” libera un brivido che percorre
la mia schiena come una scossa elettrica. Qualcosa sta cam-
biando e il non sapere cosa mi rende più vulnerabile della
vittima di un predatore. Predatore. Movimenti repentini, im-
mobilità, sguardo ipnotico, precisione. Dio, perché ho evoca-
to questa immagine? Devo riprendere il controllo.
– Se fosse come dici, non avresti avuto bisogno di quel
gesso. –
Guardo al raziocinio come l’unica strada per ridare alla
situazione un minimo di gestibilità.
– Ho stampata nella memoria l’immagine del tuo braccio
quando è iniziato il degrado delle ossa. –
– Degrado? Non era un degrado. Era evoluzione. Le ossa
non stavano deteriorandosi, ma riducendosi, per lasciare il
posto ad altro. –
E se fosse vero?
– Quando sono stato costretto ad applicare il gesso, sa-
pevo che sarebbe stato per poco. Ed entro domani, o questa
sera, o tra poche ore potrò liberarmene. E sarò più forte. –
– Anche il gesso. Avresti dovuto lasciare che fosse un
medico a farlo. La postura che hai dato al tuo braccio è in-
naturale. –
– Sbagli ancora. Quando ho iniziato ad applicare il gesso
ho lasciato che il mio arto si articolasse e posizionasse da sé,
secondo la sua nuova natura ed anatomia. E ti assicuro che è
stata la cosa più naturale di questo mondo assumere la posi-
zione che vedi. –
Sottolinea le sue parole sollevando leggermente il brac-
cio ed abbassandolo nuovamente. Sarà la luce, la suggestione,
l’assurda geometria triangolare della medicazione, ma ho una

114
seria difficoltà ad associare ciò che ho visto muoversi alla mia
idea di un braccio umano.
E i suoi occhi. Maledetto neon: non riesco a capire se
sono le pupille ad essersi dilatate, o se è uno stramaledetto
gioco delle ombre. Non fissarmi così! Lo sfrigolio di un con-
tatto del neon cattura per un istante la sua attenzione. Sem-
bra come svegliarsi da un brutto sogno. Sorride.
– Caffè. Quasi ce ne scordavamo! –
Si volta verso la macchina distributrice, dandomi le spal-
le. Qualcosa mi dice che questo sarebbe il momento giusto.
– Maledetti fattorini! –
Colpisce per due volte il fianco della macchina con l’uni-
co pugno di cui dispone.
– Avessero per i nostri distributori la metà della cura che
hanno per il loro scooter, queste cose non accadrebbero! –
È vero. Siamo qui da diversi minuti e nessuno di noi due
si è accorto che il display del distributore è spento.
– Fammi pensare. –
Si volta di nuovo verso di me, con l’aria pensierosa e un
po’ agitata di chi ha assolutamente bisogno di sedare una crisi
di astinenza.
– Ascolta, io ho bisogno di caffè e di zucchero. Nel se-
minterrato dovrebbe essere in funzione il vecchio distributo-
re, quello che prima tenevamo qui. Vieni! –
Senza darmi il tempo di elaborare una reazione, si avvia a
passi rapidi verso la porta che dà sulle scale. La sua andatura
è diventata più frenetica, quasi disarticolata. Non ho scelta:
lo seguo.
Quattro rampe di scale, rincorro la sua schiena nel suo
immergersi nella semioscurità, ed eccoci nel seminterrato. Ha
ragione, il lieve bagliore verde del display che emerge prepo-
tente dalla penombra promette caffè e zucchero.
Si avvicina alla macchina frugandosi nella tasca, inserisce
frettolosamente gli spiccioli trovati, schiaccia il pulsante del
caffè molto dolce con un colpo di pollice che avrebbe sfon-
dato una tavoletta di legno. Aveva anche prima quegli spessi
peli irti sulla nuca?

115
La macchina emette scatti e ronzii che recepisco a stento,
e finalmente lascia cadere il bicchierino colmo di caffè dolcis-
simo. Lo afferra e prende a trangugiarne rumorosamente il
contenuto. Ma non lo prendeva amaro il caffè?
Si volta di scatto verso di me, scagliando via il bicchie-
rino.
– Zucchero. Non avrei mai pensato che potesse essere
così rigenerante. –
Le pupille dilatate dal buio coprono quasi l’intera super-
ficie dell’occhio. Vorrei fuggire. Muove lenti passi verso di
me. Una lama di luce rivela la crepa che sta aprendosi sulla
pelle del viso.
– Sento la paura scorrere in te. –
Non è la voce di pochi istanti fa.
– Comprensibile. È la paura di ciò che non puoi capire. –
La contrazione della sua unica mano ne schiude i pori,
liberando nuovi filamenti neri.
– Ma la paura induce a distruggere. E io non posso per-
mettere che la tua paura ti porti a distruggermi o ad indurre
altri a farlo. –
Indietreggio.
– È l’evoluzione. Un balzo casuale. Colpisce per caso e
imprevedibilmente creando i suoi anelli di congiunzione. E
questa volta l’anello sono io. –
Uno scricchiolio. Il gesso. Qualunque cosa vi sia dentro
sta per venire fuori.
– Vedi? Non è stato necessario aspettare domani. –
Frammenti bianchi schizzano sul pavimento, mentre il
letale arto nero si snoda verso di me.

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Segreti e libertà
legati da un sottile filo
lungo una vita
Iolanda Pompilio

C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina. Si


vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attacca-
panni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e
indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare
a meno di sorridere. Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato
che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca
dell’ingessatura.

“Ti voglio bene.”


La scritta è traballante, le lettere mi ricordano gli esercizi
di scrittura che si fanno alle elementari e l’associazione di
idee non va a discostarsi troppo con la realtà: sicuramente
quella piccola scritta a caratteri tremolanti sarà opera dalla
piccola Ginevra.
Quella bambina è un angelo, per quanto, durante il Me-
dioevo, l’avrebbero presa per una piccola strega, con quei
boccoli rossi, le efelidi sulle gote e sul nasino a punta, quelle
stesse efelidi che lui ha trasformato in una benedizione.
– Ogni piccola lentiggine è un bacio che Dio ti ha dato. –
Una frase senza dubbio intrisa di retorica: come potrebbe
Dio baciare tante volte almeno un milione di persone afflitte
da un’imperfezione della pelle?

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Il mio cinismo torna preciso come un orologio svizzero,
proprio come la frustrazione, che mi conduce per mano a
scostarmi da quel tavolo con un flebile sorriso.
– Ogni giorno che passa rientri con un graffio, un taglio,
un cerotto o una ferita in genere. Questa volta sono proprio
curiosa di sapere come ti sei procurato quello lì – dico, indi-
cando con il capo il gesso.
Mi siedo in attesa, composta come una scolaretta alla sua
prima lezione in un’aula scolastica.
– È stata tutta colpa di Attila, il cucciolo di Ginevra: lo
portavo a spasso legato al manubrio della bicicletta, ha visto
una cagnolina e mi ha totalmente preso alla sprovvista. Ha
iniziato a correre coi suoi quindici chili dietro quella barbon-
cina e mi sono ritrovato faccia a faccia con un bel bidone
dell’immondizia. –
Ride mentre racconta quella che per altri apparirebbe
una disavventura con una dose di sfortuna bella grossa.
– Chiamare cucciolo quel pastore belga è veramente as-
surdo. –
Sorrido ancora a stento e lui invece continua ad avere
quello sguardo luminoso, come se l’incidente non fosse nulla
di negativo, come se quel gesso possa celare un segreto che
solo lui e pochi altri fortunati conoscono.
– Ginevra vorrebbe rivederti. Quando vieni a trovarla? –
Se ne esce ogni volta, in una sorta di trabocchetto stu-
diato, con queste frasi che mi spazientiscono, che mi portano
a non avere nulla da dire, a non avere alcuna possibilità di
rifiutare o declinare un invito che in fin dei conti non vorrei
accettare. Non per Ginevra che è adorabile, ma per quello
che lei rappresenta, per quello che lei è.
– Papà lo sai. Non ho molto tempo in questo periodo,
devo… Devo andare da mamma, da Francesca e poi… Poi il
lavoro… Insomma… Io… io… –
Sto balbettando come un’adolescente interrogata in una
materia che sa di non aver studiato in maniera adeguata; in-
vece sono una donna, anche se dubito che lui se ne sia reso
conto.

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– Ho capito – dice semplicemente e quella luminosità
nello sguardo mi pare essere diminuita un po’.
Torniamo entrambi alle nostre incombenze lavorative,
tra di noi non ci sono più parole, e gli sguardi sono imba-
razzati come l’aria percepibile attorno a queste due scrivanie
separate da un metro scarso.
– Verrò questo fine settimana. Domenica. Solo per
un’oretta – dico di fretta. Mi sento in colpa con me stessa per
non essere forte come vorrei, per quel mio essermi nuova-
mente sottomessa a un suo desiderio.
La giornata passa piuttosto velocemente: lui ha ritrovato
quella felicità velata dopo che gli ho confermato per l’ennesi-
ma volta che – Sì domenica ci sarò – , ma è difficile.
Sono legata a Ginevra. Tuttavia, quello che provo per la
mia gemella va oltre l’immaginazione dell’affetto tra fratelli
o sorelle: la mia gemella è la mia vera e unica sorella, la mia
metà, colei che mi completa.
Ginny, invece, è solo la figlia di mio padre e di un’altra.
Come Attila, quel “cucciolo” non troppo piccolo, che non
sostituirà mai Zeus.
In testa tornano con violenza le solite domande qua-
si come un mantra: dov’era quando avevo bisogno di lui?
Dov’era quando c’era da portare Zeus a spasso? Dov’era
quando avevo bisogno di qualcuno con cui piangere la morte
di quel cane che mi ha fatto da fratello?
Semplice: era con l’altra famiglia. Dimentico di noi due,
di Zeus e di mia madre.
Lui se n’è andato da una decina di minuti. Mi osservo
intorno, inspiro l’odore dell’ufficio che ha fatto da collan-
te a una relazione padre-figlia inesistente. Mi avvicino con
estrema sacralità alla sua scrivania. Vi poso una piccola busta
bianca con una scritta in grassetto: “Dimissioni”. All’interno
ho allegato anche una lettera personale. Spero che capisca
tutto quello che vi è contenuto.
Il tempo guarisce tutte le ferite e sono certa che le sue si
rimargineranno più velocemente rispetto alle mie.
Il mio segreto non lo scoprirà: nella lettera non gli ho

119
accennato della mia imminente partenza per il Giappone,
così come non verrà chiamato nonno dal bimbo che porto in
grembo. Non mi accompagnerà lungo la navata. Procederò
a testa alta da sola, con la speranza che da lassù mio nonno,
quello che ho sempre considerato il mio papà, mi protegga.
Ora sto finalmente bene.
Avvolta nel segreto che mi ha allontanato dalla fonte del
mio malessere, esco dall’ufficio. Non mi mancherà, non ho
più bisogno di fingere. Finalmente mi sento libera.

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La curiosità è femmina
Lucia De Filippo

C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina. Si


vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attacca-
panni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e
indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare
a meno di sorridere. Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato
che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca
dell’ingessatura.

Ecco, ci risiamo.
Ninuccia, a papà, la curiosità è femmina.
Mio padre mi chiamava Ninuccia, nonostante le mie nu-
merose proteste e le mie minacce (rimaste ovviamente tali) di
non rispondergli finché non si fosse deciso a chiamarmi con
il mio vero nome, Antonia.
Nonostante i miei rispettabili quarant’anni, non posso
fare a meno di sentire la sua voce ogni volta che so di star
facendo qualcosa che non approverebbe. Ovviamente, per lui
resto Ninuccia.
– La curiosità è femmina e io sono femmina. – gli rispondo,
in questo surreale dialogo che si sta svolgendo nella mia testa.

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Ma la vuoi lasciare stare? Te li vuoi fare i fatti tuoi o no?
Vi presento mia madre, Annetta: nata e cresciuta a Napo-
li, data in sposa a mio padre alla tenera età di anni diciotto.
Se mio padre parla, mia madre risponde. Il contrario
sarebbe del tutto impensabile. Che sia un bofonchio, uno
sbuffo, uno schiocco di lingua contro il palato. Ogni frase di
mamma è conseguenza diretta del pensiero di papà.
– Insomma questo caffè? –
Stavolta sono io.
Gianni si volta e mi regala un finto sguardo stupito di chi
non ha notato la mia presenza di avvoltoio affamato dietro le
sue spalle ossute.
– Embè glielo vuoi chiedere che si è fatto a quel braccio? –
Ecco di nuovo mamma.
Ti prego mamma, ti prego.
Anna Navona, (“come la piazza famosa”, ripeteva a
chiunque incontrasse), per tutto il paese “Annetta la Sarta”,
è la donna da cui ho ereditato l’assoluta incapacità di pensare
ai fatti miei.
Ogni giorno, da quando ricordo di ricordare, tornava a
casa con il bollettino degli avvenimenti del paese. Ovviamen-
te conditi di quel tocco fai da te che non mancava mai.
– Hai presente Totore il giornalaio? – esordiva mentre
sbucciava le patate.
– Ngnorsì – rispondeva mio padre che leggeva il giornale
sulla poltrona di pelle del salotto.
– Pare che mò si trasferisce a Milano. –
Al che io seduta al tavolo in marmo, coperto dall’incerata
gialla di limoni e con la testa appoggiata sulle braccia incro-
ciate, mi giravo verso papà che abbassava il giornale e mi
faceva l’occhiolino.
– Ma veramente? – diceva fintamente stupito, incorag-
giandola a continuare.
– Veramente sì: pare che la moglie l’ha cacciato di casa. –
Né io né mio padre abbiamo mai capito da dove traes-
sero origini queste fantasiose deduzioni di mia madre. Era
quell’impersonale “pare che” a sfumare i contorni di notizie

122
già fumose e a salvare mia mamma dall’accusa di malalin-
gua.
Ovviamente Totore non partì mai per Milano e qualche
mese dopo la moglie girava per il paese con un bel pancione,
a garantire che a casa il marito ci dormiva eccome.
– Certo, certo. Il caffè! –
Giovanni si alza in quella buffa posizione da burattino
arrugginito, con un braccio a boomerang e la schiena dritta.
– Hai perso a braccio di ferro contro un culturista? –
scherzo io mentre osservo non il suo braccio, ma quella scrit-
ta a pennarello blu.
– Lascia stare Nina. –
Nina. Sarebbe contento mio padre.
– Sono caduto dalle scale due giorni fa. Hai presente
quando ha piovuto che sembrava non la finisse più? –
Come non ho presente? Si è allagato il terrazzo ed è entrata
l’acqua in soggiorno!
– Sì ho presente. E allora? – non è una scritta, sono
cifre.
– Sono scivolato mentre scendevo in garage a prendere la
macchina ed ecco qua il regalo. –
Gianni ha cinque anni in più di me, ma se li porta bene.
Se lo incontrassi per strada penserei che al massimo ne ha
una trentina. Va in palestra tutti i giorni (me l’ha detto molto
poco spontaneamente in una delle sedute da terzo grado che
gli ho riservato in un attacco di Annite acuta); quando non
piove va in bicicletta e sta attento a cosa mangia.
È divorziato, ma di questo non parla volentieri. So solo
che quando aveva vent’anni, ha fatto il guaio con la fidanzati-
na di allora, il cui papà era uomo dai sani principi morali. Gli
risparmiò la vita in cambio di un fastoso matrimonio ripara-
tore. Quattro anni dopo la moglie l’aveva lasciato portando
via il bambino e gran parte dei mobili di casa.
E adesso quella scritta sul gesso e quel sorriso stampato
in faccia.
Ed ecco la voce di mia mamma che fa supposizioni nella
mia testa mentre papà legge il giornale.

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Antonia senti a me. Questo è il numero di telefono di qualche
donna. –
– Impossibile, mancano troppe cifre – le rispondo pron-
tamente, mentre Gianni parla e io non l’ascolto.
Allora sono i numeri del Lotto.
Sento papà che ride e rido anche io.
– Che c’è? – fa Gianni.
– Cosa? –
– Stai ridendo. Perché ridi? –
– Pensavo alla tua caduta. Sei stato fortunato che non eri
da solo – azzardo. Provo la tecnica imparata da Annetta: dare
per scontato fatti inesistenti al solo scopo di sentirli smentire
per ottenere la verità senza aver bisogno di chiederla.
– E chi l’ha detto che non ero solo? –
– Ah no, così mi era sembrato di capire. –
Povero ingenuo.
– Ero solo, mi ha accompagnato al pronto soccorso il
portiere. –
Guardo bene, sono sei cifre scritte storte: 121010.
– E ora quando te lo togli il gesso? –
Ora mi risponde dodici ottobre duemiladieci e io potrò
finalmente tornare a lavorare serena e soddisfatta.
– Il 30 settembre. –
E mi guarda da sopra il bicchiere di caffè fumante. Sta
capendo, la faina
A papà, ma lascialo stare a sto guaglione. Ma è mai possi-
bile…
Papà ci ha provato ma è durato un secondo: messo pron-
tamente a tacere da me e mia mamma.
Mi siedo, si siede. Sorride il perfido, ora che ha capito ha
deciso di divertirsi un po’, glielo leggo in faccia.
Butta il bicchiere di plastica e si accarezza la scritta con
la mano sana. Ci spalleggiamo un po’ sul ring in attesa della
prossima mossa.
– Ieri invece è stata proprio una bella giornata. –
Affonda la lama tagliente di questa frase nella spessa e
succosa polpa della mia avida curiosità.

124
È tornato con la moglie, dice mamma, mentre tagliuzza
l’aria con i ferri da lana.
– Ma davvero? – fingo disinvoltura e disinteresse. Guar-
do con attenzione le merendine che il distributore aziendale
ci offre. Mi alzo e ne seleziono una.
– Davide mi ha detto che ti è venuto a trovare a casa e
che sembravi un cadavere. –
Uno a zero per me.
Gianni arrossisce leggermente.
Dilettante.
Brava a mammà.
La curiosità mi sta mangiando viva. Un’infermiera che
gli ha lasciato il numero del suo cercapersone? La targa della
macchina che l’ha investito (altro che scale!)? Il numero del
tatuaggio del cane che l’ha azzannato?
Mangio la mia ciambella ricoperta di cioccolata mentre
Gianni mi parla dell’ultima giornata di campionato e di come
è disperato di non poter andare allo stadio per colpa del brac-
cio. Ha lo sguardo buono di mio padre. Le orecchie grandi
e le mani piccole. La bocca sottile si muove rapida su quella
faccia puntellata di barba appena rasata.
A papà, senti a me, perché non ci provi a uscire con questo
bel giovine? –
Mio padre ha sempre avuto il terrore che restassi zitella.
E comincio a credere che alla fine dei giochi io sia zitella pro-
prio per quest’ansia paterna.
Ormai non ci penso quasi più. A parte la mattina quando
mi sveglio e preparo la macchinetta del caffè piccola, per una
sola tazzina, prendo l’unico asciugamano che c’è in bagno,
guardo la fila di scarpe da sola donna nella scarpiera e carico
la lavatrice con soli abiti femminili.
Ah, dimenticavo la sera.
Quando vado a letto, nel mio letto a una piazza, e quando
le pizzerie mi rispondono che per le ordinazioni a domicilio
servono minimo due pizze.
Sospiro. Mi arrendo: lascio a Gianni il suo segreto e mi
prendo un’altra merendina anti-depressione.

125
– Non ti farà male tutta questa cioccolata? – scherza.
– Non più della voglia di cioccolata insoddisfatta – sor-
rido.
Ci avviamo silenziosi verso le nostre postazioni, Gianni
rigido al mio fianco, mamma e papà stranamente silenziosi
nella mia testa. Io che smascello senza ritegno e pudore al-
cuno.
– A dopo – mi saluta Gianni e va via con quella sua mi-
steriosa scritta sul gesso bianco.
Mi siedo, accendo il computer. Inserisco la password
(che, per intenderci, è la stessa per qualsiasi sistema ad acces-
so condizionato mi appartenga) e comincio la mia giornata.
Mentre sbadiglio svogliata suona il telefono, sbuffo e
guardo il led illuminato: 121010. Sorrido e un po’ stupida-
mente felice rispondo al nuovo interno di Gianni.
La curiosità è femmina, sorride mio padre scuotendo la
testa.
Senti, hai presente Michele il calzolaio? Pare che… attacca
svelta mia madre mentre mio padre scompare dietro il gior-
nale aperto sulla sua poltrona in pelle.

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Marlene
Veronica Morelli

C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina. Si


vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attacca-
panni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e
indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare
a meno di sorridere. Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato
che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca
dell’ingessatura.

– Marlene? –
Sono tremendamente curiosa, lo so.
So anche che a lui non piace, ma è più forte di me: quella
scritta in corsivo appartiene ad una mano femminile. È dolce
e aristocratica, suadente e sensuale.
Il nome stesso ha un suono tutto particolare: pronun-
ciandole, le lettere scivolano armoniosamente l’una dopo l’al-
tra, in un gioco di sonorità allusive e sussurri appena percet-
tibili.
Lui solleva lo sguardo dal foglio e inclina la testa per ri-
volgermi uno sguardo appena obliquo.
Mi risponde con un grugnito. Poco dopo le sue labbra
si allargano in un sorriso fugace: ha letto nei miei occhi un
interrogativo che non ho osato pronunciare.

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Si volta per osservarmi frontalmente, un guizzo divertito
negli occhi vivaci, e mi poggia una mano sulla spalla. Il movi-
mento è così fulmineo, nonostante l’ingessatura, che credo di
averlo soltanto immaginato.
Leonard è un uomo intelligente e ricettivo, ma di po-
che parole. Sul lavoro è instancabile, attento e puntiglioso; è
onesto (caratteristica notevole se si considera la nostra pro-
fessione) e sa essere molto trasparente con i nostri sfortuna-
ti clienti, ma sulla sua vita privata pende un enorme punto
interrogativo. Le mie colleghe ed io sappiamo soltanto che è
stato sposato, quando era ancora molto giovane, ma è pres-
sappoco tutto.
Muovo un passo per tornare verso la mia scrivania, ma la
sua voce ha il potere di bloccare il mio piede a mezz’aria. O
forse non è stata la sua voce; sono le parole che ha pronuncia-
to a rendermi immobile come una statua di sale.
– Ebbene sì, Doris. Marlene: la donna più importante
della mia vita. –
Provo a voltarmi per fronteggiarlo nuovamente, ma ho la
sensazione di muovermi al rallentatore. Lavoro per lui da nove
anni e mai una volta mi ha rivolto una frase così personale.
Lotto per ritrovare il mio cervello che in questo momen-
to rassomiglia pericolosamente a un ingranaggio inceppato;
riesco infine a recuperare il filo logico del mio pensiero e do
libero sfogo alle parole.
– Leonard, non posso crederci. Hai una fidanzata e non
l’hai nemmeno mai nominata? –
Sul suo volto si dipinge un’espressione indecifrabile.
– Non ho mai detto che sia la mia fidanzata – risponde.
– E non l’ho mai nominata perché l’ho incontrata per la
prima volta ieri sera. –
L’animazione nei suoi occhi svanisce ed io osservo i suoi
muscoli facciali distendersi, tornare inespressivi. Eppure
qualcosa di diverso dal solito c’è: una certa inesplicabile in-
quietudine lo porta a ondeggiare con continui, piccoli movi-
menti sulla sedia, impercettibili spostamenti che il mio occhio
allenato riesce ugualmente a cogliere.

128
Vuole parlare ancora, ma si trattiene. Ritrovo quel guizzo
fugace negli occhi scuri: la promessa di un segreto da svelare.
Ma quando? Il mistero si infittisce.
Decido che per il momento è il caso di abbandonare il
campo con una sconfitta. Ha avuto lui l’ultima parola, ha or-
chestrato tutto il nostro scambio di battute alla perfezione,
tutto è andato secondo i suoi piani. Chi è stato a dire che
è meglio perdere una battaglia ma vincere la guerra? Ecco,
condivido pienamente.
Mentre siedo alla mia scrivania il tarlo della curiosità pa-
steggia con le mie budella, ma io taccio e mi riprometto di
sferrare a Leonard il colpo mortale non appena si presenterà
l’occasione giusta. E arriverà, caro Leonard, arriverà: questa
volta tu hai voglia di parlare quanta ne ho io di ascoltare.
Sono le sette di sera. L’ultima vedova piangente ha ap-
pena lasciato l’ufficio di Leonard. Un lavoro meschino, quel-
lo dell’impresario di pompe funebri: mai la locuzione mors
tua, vita mea fu più azzeccata. Lo ammiro perché non si fa
corrompere dalle lacrime. Io, invece, quando mi compro un
vestito nuovo oppure mi regalo un massaggio con i soldi dello
stipendio, avverto l’odore della morte sulle banconote sgual-
cite.
Lo attendo sulla soglia della porta. Lui infila la giacca
con qualche difficoltà e mi squadra da capo a piedi.
– Mi hai aspettato. –
Prendo fiato e tento il tutto per tutto.
– Leonard, ceniamo insieme questa sera? Andrè è fuori
Londra per lavoro, e io non ho voglia di tornare in quella casa
buia e vuota dove mi aspetta soltanto il gatto. –
Lui sorride, intenerito.
– D’accordo. –
Il locale è semivuoto, in questo martedì sera di fine No-
vembre. Io e Leonard abbiamo ordinato l’antipasto e sorseg-
giamo un buon vino bianco nell’attesa. Il momento giusto per
tessere la mia ragnatela.
– Leonard, hai detto che ti sei rotto il braccio cadendo
dalle scale. Ma dov’eri? In ufficio non ci sono scale, e nem-

129
meno a casa tua: hai un appartamento al pianterreno, lo so
perché ti ci ho accompagnato molte volte. –
Lui finisce il vino con calma e allunga la mano libera
dall’ingessatura per prendere un grissino dal vassoio. Sorride
ancora: è lo stesso sorriso complice di stamani.
– In effetti non sono caduto dalle scale, sono stato inve-
stito da un’auto. –
Non riesco ad immaginare il perché di una bugia del ge-
nere. Decido di non indagare: mi porterebbe fuori strada.
Devo avere un’espressione decisamente buffa, perché
Leonard mi osserva e scoppia a ridere, poi torna improvvi-
samente serio.
– Non l’ho detto subito perché sapevo che mi avresti
sgridato. È stata colpa del cane. –
Quell’orrido sacco di pulci che avevo trovato io stessa
anni prima nel cassonetto della spazzatura di fronte all’uffi-
cio, quella lurida palla di pelo grigiastra che Leonard aveva
preso con sé nonostante le mie suppliche di portarlo al canile.
Spesso lo teneva in ufficio ed era un vero disastro: quel batuf-
folo si era trasformato in un enorme lupastro aggressivo che
a volte spaventava i clienti.
– Oh, tu e quell’orrenda bestiaccia. Si vedeva subito che
aveva problemi di socializzazione. Avresti dovuto lasciarlo in
mani più esperte. –
– Grieg è un ottimo cane. Mi vuole bene. E poi, è grazie
a lui se io… –
La sua voce si affievolisce fino a diventare un sussurro.
Ancora una volta, Leonard si esibisce in una danza impercet-
tibile a beneficio del mio sguardo indagatore.
Ti ho quasi preso, Leonard. Ti ho quasi preso.
Finiamo l’antipasto e la seconda bottiglia. Le guance di
Leonard hanno assunto un colorito appena rosato e la sua
posizione sulla sedia denota un’insolita rilassatezza. Decido
di tentare un approccio diretto.
– Leonard, ascolta. –
Lui coglie il mio tono serio e si raddrizza sulla sedia, per-
forandomi con lo sguardo.

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– Tu sei il mio capo, ma siamo amici da tanti anni. Abbia-
mo un ottimo rapporto, e molta confidenza. Se c’è qualcosa
che vuoi dirmi, io sono qui. –
Brava, Doris. Almeno hai evitato di buttargli in faccia
l’unica domanda per la quale vorresti davvero una risposta:
chi è Marlene?
Il volto di Leonard attraversa una serie di espressioni ra-
pidissime che vanno dal divertito all’arrendevole.
– Oh, accidenti, Doris, non posso più tacere. Divento
matto. Ieri sera ho fatto la scoperta più sensazionale della mia
vita. –
– Ti sei innamorato. –
Stupida: sta per svelarti il suo segreto e tu gli parli ad-
dosso? Taci!
Sorride, un sorriso luminoso, che si allarga a dismisura
con il passare dei secondi.
– Diamine, no. Vedi, Marlene è… – Leonard prende fiato,
e le sue guance si coloriscono di un rossore non dovuto al
vino, questa volta – Marlene è mia figlia. –
Il braccio che avevo alzato per portare il vino alla bocca
si ferma a mezz’asta, poi ridiscende lentamente, poggiando
con troppa veemenza il bicchiere sul tavolo. Il tintinnio che
produce risuona nelle mie orecchie a volume triplicato. Sono
pietrificata dalla sorpresa. Non avrei mai creduto.
– Ma, Leonard… – riesco a biascicare; lui blocca la mia
frase a metà con un gesto della mano.
Ormai gli argini sono rotti e le parole debordano dal suo
animo come un fiume in piena. Il volto sovreccitato tradisce
un’emozione senza pari, che per essere vissuta pienamente
ha bisogno di essere comunicata.
– Non sapevo di essere padre. Sua madre non me l’ha
mai detto. E a lei ha raccontato che suo padre era morto. –
Leonard fa una brevissima pausa, si osserva le nocche
bianchissime, stritola un grissino e torna a fissarmi, stralu-
nato.
Il problema è che io non l’ascolto più. Poco importa che
lui si esibisca nell’inanellare le frasi più lunghe che io gli ab-

131
bia mai sentito pronunciare, che racconti che lui e Marlene
hanno passato tutta la notte a parlare, scoprendosi in tutto e
per tutto simili.
Riesco solo a pensare ad Andrè, al nostro matrimonio
senza figli. Snocciolo frasi di circostanza decisamente fuori
luogo per l’incredibile segreto che mi ha svelato: non è colpa
mia, non riesco a pensare.
Leonard continua a descrivere Marlene come fosse una
statua di Fidia appena ritornata alla luce. Sono contenta per
lui. Davvero.
Sono anni che io e Andrè vogliamo un figlio. Lui, senza
saperlo, è padre da vent’anni. Ritrova una figlia ed è come se
si conoscessero da sempre.
Il mondo va alla rovescia.
– E poi… tieniti forte. Grieg la adora. Non ha nemmeno
ringhiato quando lei l’ha accarezzato! –
Dice questo con le lacrime agli occhi. Oh, Leonard, sei
un uomo davvero incredibile: hai appena ritrovato una figlia e
ti commuovi perché il tuo cane pulcioso non la morde?
Mentre aggredisce una coscia di pollo con un’energia
che non gli ho mai visto, Leonard mi parla di come Marlene
sia bellissima anche sul piano fisico. Il suo volto ha di nuovo
assunto un’espressione indecifrabile, lievemente spiritata.
– Ha i miei occhi – dice e assomiglia un po’ a un matto
mentre sorride, imbambolato.

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Il sorriso è standard
Annapaola Paparo

C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina. Si


vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attacca-
panni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e
indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare
a meno di sorridere. Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato
che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca
dell’ingessatura.

“Vercingetorige”.
La sua password appuntata lì con grafia sbrigativa ha
l’aria di un memorandum per la spesa, tipo “mele” o “lam-
padine”. Solo che quella password è la stessa da anni. Lui
dovrebbe averla sempre in mente come la data di nascita.
Sono in piedi dietro di lui e sono sicuro che lui non abbia
mai smesso di sorridere. Anche oggi, dai vertici, ci tediano
con queste teorie motivazionali. Oggi l’entusiasmo è fonda-
mentale sul luogo di lavoro. Soprattutto, è uno standard, una
delle cose da cui i dipendenti non possono prescindere.
“Thomson&Co. augura a tutti una buona giornata all’in-
segna del sorriso, ricordando che sorridere solleva il morale,
porta in alto i cuori, aumenta la produttività.”

133
È scritto sul foglio che finisco per leggere davvero. Ora
non lasciano in pace nemmeno noi nelle nostre scrivanie.
Studiano i nostri comportamenti in ufficio come se fossimo
anatre nello stagno.
Sorridere, per motivarci a vicenda.
Pensavo che Giulio non potesse farcela. Specialmente
dopo essersi rotto il braccio: sorridere a comando era l’ulti-
ma cosa di cui sembrava avesse voglia. E invece è contento e
molto ben disposto. Gli guardo la nuca e non mi stupirebbe
di trovarvi posata un’aureola.
– Perché hai scritto Vercingetorige, lì, sul gesso? – gli
chiedo, sedendomi alla scrivania di fronte alla sua.
Ci mette un po’ prima di alzare la testa e guardarmi negli
occhi. Capisco di averlo messo in difficoltà. È imbarazzante
ammettere che la propria memoria ha fatto cilecca.
No, mi sbaglio. Sorride, con il labbro superiore rialzato
sulla gengiva bianchiccia. Mi chiedo se non gli facciano male
i muscoli della faccia a furia di eseguire gli ordini aziendali.
– Giulio, rilassati, lo sai che a me non devi sorridere per
forza. Con tutto il rispetto, non è che se ti vedo sorridere mi
viene voglia di lavorare. –
In effetti oggi non farei nulla, non farei nemmeno finta di
stare dietro a qualcosa. Belli i tempi dei tornei di scala qua-
ranta in ufficio. Poi però sono arrivati gli americani con tutte
queste idee astruse sull’automotivazione, i tempi di lavoro, la
produttività.
Da qualche tempo tutti sono diventati impiegati modello.
Di più: la mission aziendale sembra l’unica cosa che stia ve-
ramente a cuore a tutti.
Cos’è successo a Giulio? Solo ieri mi ha detto: – Se cre-
dono di spremermi come un limone, hanno proprio sbaglia-
to, io qui ci vengo solo per guadagnare la pagnotta. – Io gli ho
allungato subito la mano aperta per battere il cinque.
Strano. Siamo nella stessa posizione di ieri, se anche ora
alzo il braccio e giurerei di aver toccato la mano opposta alla
mia. Cioè la sua sinistra. Che ieri, sono sicuro, non era inges-
sata.

134
Devo avere qualche decimo di febbre. Guardo la mano
libera di Giulio tracciare linee, cerchi e altri segni in corri-
spondenza di cifre da analizzare. È la mano destra. Ho un’al-
tra illuminazione che davanti all’evidenza dei fatti mi sembra
bislacca come quella di prima: Giulio è mancino. E il giorno
che si è rotto il braccio mi ha detto: – Per fortuna che non è il
sinistro. – Questo è successo davvero.
Fa improvvisamente molto caldo. Giulio continua a la-
vorare tranquillo. A volte alza gli occhi dal foglio, mi sorride.
Gli occhi continuano a scintillare. Forse è un altro tranello
dei suoi. Uno dei giochi che facciamo per trastullarci in uffi-
cio. Se è così, ci sta riuscendo bene. Sembra uno di quei volti
stampati sulle scatole dei biscotti. Irreale.
Apro la posta elettronica. Lucio, un collega dell’ottavo
piano settore legale mi ha mandato un messaggio.
– Ti conviene adattarti ai nuovi standard aziendali. Ho
sentito delle storie in giro, e non mi piacciono. Sembra che
ci saranno delle sostituzioni tra chi si rifiuta di obbedire in
maniera completa alla mission. Non ho ben capito a cosa si
riferiscano, però non promette nulla di buono. –
Chiudo la schermata e si affaccia alla porta un valletto
dei piani alti: il Presidente vuole vedermi.
C’è in tutto questo qualcosa di grottesco. Forse lo scher-
zo è in realtà uno scherzo molto più grande, tipo quelli che
una volta trasmettevano in tv. Sono in pochi quelli che hanno
visto il Presidente, e le leggende aziendali lo descrivono in
modi diversi. Chi lo vuole basso e seduto su uno scranno, chi
lo descrive con un capo avvolto in un turbante alla maniera
dei Sikh.
Tutte stupidaggini: siede su uno scranno e ha in testa un
cappello da cowboy. La sua assistente sembra una bambolina
caricata a molla. Mi offre un posto a sedere e mi sussurra
all’orecchio – Mi dispiace. – Le guardo nella scollatura.
Il Presidente inizia a parlarmi. Ha davvero un bel sorriso.
In effetti, quando si sorride si ottiene tutto con facilità. Sareb-
be bello vivere in un mondo di sorrisi.
– Marcozzi, lei capisce che non possiamo tenerci uno

135
come lei. La produttività è tutto. Abbiamo deciso di eliminare
le mele bacate dal cestino delle mele buone. –
Mi viene in mente Giulio e un paio di altri colleghi del
settore legale. Chissà perché gli altri riescono sempre a farla
franca.
– La manderemo al confino, ai lavori forzati. Si scordi
di famiglia e amici, perché non li rivedrà mai più. E loro non
sentiranno la sua mancanza, perché al suo posto manderemo
un altro Marcozzi, ossia un clone geneticamente modificato.
Per cui chiedo solo la sua collaborazione adesso che i miei
collaboratori la sottoporranno ad un semplice esame da la-
boratorio e le verranno scattate alcune foto, e le sarà chiesto
anche di rivelare la sua password privata. Dopodiché, dritto
al confino. –
E ancora sorride. Poi si rivolge ai collaboratori che sono
improvvisamente apparsi come i quattro moschettieri dal ca-
mice bianco.
– E voi, cercate di fare attenzione ai minimi dettagli
dell’originale quando lavorate alla copia! L’ultimo soggetto è
stato ingessato al braccio sbagliato, bisogna rifarglielo al brac-
cio sinistro, prima che sua moglie se ne accorga. –

136
Abbondio Tentenna
Giordano Genghini (Bruno)

C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina. Si


vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attacca-
panni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e
indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare
a meno di sorridere. Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato
che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca
dell’ingessatura.

Leggo: “Fra poco tornerò in ospedale”. Accanto, ha dise-


gnato un emoticon sorridente. Io capisco la ragione di quella
scritta e di quei sorrisi. Conosco Abbondio Tentenna fin da
quando era ragazzo. Lavoriamo insieme da anni: so tutto del-
la sua vita.
Quando era giovane, ai Tentenna (due genitori e lui, un
figlio rotondetto come un papero) succedevano le cose più
normali e probabili. Forse per compensazione, ad Abbondio
accadde una cosa improbabile: a volte non riusciva più a re-
spirare e dovevano portarlo di corsa all’ospedale San Tarita,
dove rinveniva solo se collegato a una bombola di ossigeno.
Dapprima quegli incidenti occasionali sembrarono non
avere strascichi. Una mattina però, risvegliandosi in un cam-
peggio, Abbondio è stato preso da uno shock anafilattico e,
dopo di allora, molte altre volte.

137
Erano qualcosa di più di semplici attacchi d’asma: dalla
volta del campeggio, respirando, sibilava e fischiava conti-
nuamente.
Le cure non avevano effetto: solo quando un’ambulanza
lo portava semivivo all’ospedale San Tarita, ritrovava la sa-
lute. Tentenna così si è affezionato all’ospedale della nostra
piccola città. D’altra parte non era piacevole, nel bel mezzo
di una gita in montagna o al mare, sentire come un petardo
esplodere nel cervello e risvegliarsi disteso a terra e attorniato
da un grappolo di persone che gli urlavano: – Chi sei? Cos’è
successo? – e non essere in grado di rispondere.
Non era bello nemmeno, mentre annusava il profumo
dei fiori in casa, sentire il volto gonfiarsi e assumere il colore
delle melanzane e poi via! con la bombola d’ossigeno alle na-
rici, fra pattuglie di barellieri.
Certo, appena giunto fra i letti delle corsie e il grandinare
dei calcinacci del gigantesco ospedale in eterna costruzione,
tornava a sentirsi bene. Perciò difendeva a spada tratta il San
Tarita, fra le polemiche che infuriavano a quel tempo, defi-
nendolo un’opera stupenda.
Nella cittadina in cui abitiamo si destinavano, allora come
oggi (con grande scandalo di alcuni) la maggior parte delle
risorse finanziarie alla costruzione di questo nuovo ospedale.
Definirlo “nuovo” è inesatto perché l’opera, iniziata mez-
zo secolo fa, era stata più volte finita e rincominciata daccapo,
in una sarabanda di appalti. Niente di strano in questo, se si
pensa che il San Tarita era un colosso che circondava la no-
stra cittadina come i monti una valle e che, per fargli spazio,
si erano dovuti demolire tre dei quattro rioni periferici.
Un fabbricato di tali dimensioni (mi faceva sempre pre-
sente Tentenna) non poteva sfuggire all’usura del tempo. Per
cui, quando è stata avviata la costruzione dell’ultima ala, c’è
stato un crollo nella prima, dove da anni si erano formate e
allargate crepe di qualche metro di ampiezza.
L’ingegnere che dirigeva i lavori ha deciso allora di so-
spendere ogni attività nel settore di più recente costruzione
(che, purtroppo, ha iniziato poco dopo a deteriorarsi a sua

138
volta, causando piccoli crolli di alcune tonnellate di mattoni),
di ricominciare daccapo i lavori nella prima ala e di radere al
suolo l’ormai fatiscente corpo centrale. Parte degli ammala-
ti della città venivano così assistiti nell’ala est, parte nell’ala
ovest dell’edificio. I due blocchi erano collegati solo da stra-
dicciole non asfaltate di terriccio e sassi che si incuneavano
fra le macerie del demolito corpo centrale. Per dimostrare ai
criticoni che il più era fatto, il suo progettista volle a un certo
punto far trasferire le avanguardie dei malati anche nell’ala
nord dell’edificio: una specie di grattacielo sbilenco.
Questi malati si trovarono in una situazione un po’ par-
ticolare, in quanto dovettero essere sistemati sui sacchi vuoti
del cemento usato dai muratori che, nel frattempo, prose-
guivano alacremente i lavori in un allegro sfarfallare di cal-
cinacci.
Secondo quanto mi diceva Abbondio fra un ricovero e
l’altro, l’assistenza infermieristica non era del tutto ottimale.
Dato lo scarso numero dei paramedici, il direttore era stato
costretto a ricorrere al geniale espediente di far risultare il
personale contemporaneamente in servizio, nel medesimo
orario, in tutti i settori dell’ospedale. Ogni infermiere era mu-
nito di walkie-talkie e schizzava da un settore all’altro del San
Tarita.
Improvvisamente, due banali e fortuiti incidenti diedero
fiato ai soliti rompiscatole.
Il primo coinvolse un noto luminare. Un giorno, dopo
un intervento a cuore aperto con il bisturi, il chirurgo si era
distratto e, mentre pensava ai cavoli suoi, aveva dimentica-
to nella torre nord il paziente in anestesia totale, immobiliz-
zato su una barella a ruote, partendo per le ferie natalizie.
Sfortuna volle che i muratori (i quali, mentre lavoravano in
quell’area, avevano pur sopportato senza reagire le fastidio-
se grida del degente risvegliatosi) ricevessero dal capomastro
l’ordine di trasferirsi in un’altra zona dell’ospedale, lasciando
per alcune settimane il paziente solo a gridare invano aiuto di
fronte a chilometri e chilometri di corridoi calcinosi, bianchi
e deserti.

139
L’uomo, perso inspiegabilmente il lume della ragione,
smuovendo a forza di colpi di reni la barella a ruote sulla qua-
le giaceva legato, l’aveva fatta giungere fino allo scivolo che,
con percorso a spirale, conduceva direttamente dal trentesi-
mo piano al pianterreno, e si era lanciato giù, forse sperando
(povero folle!) di arrivare vivo in fondo.
La seconda vittima fu un’anziana trasportata da un in-
fermiere, in pieno dicembre, da un’ala all’altra dell’ospedale.
La donna era stata issata su un ciclomotore, unico mezzo in
grado di incunearsi fra i rovi che si estendevano fra le mace-
rie della parte demolita dell’edificio e i viottoli.
La fatalità volle che l’addetto venisse convocato tramite
walkie-talkie in un altro padiglione: la vecchietta, abbando-
nata per qualche tempo da sola e rimasta accidentalmente
imprigionata con il ciclomotore nel cemento a presa rapida
appena steso dai muratori, vi era sprofondata fino alla cintola
come nelle sabbie mobili. L’assenza dell’infermiere era durata
soltanto qualche decina di ore: come osservava Tentenna, non
era colpa di nessuno se nel frattempo, smentendo i bollettini
meteo, sulla città si era scatenata una gelida bufera di neve
e se nell’ultimo piano, in cui strillava l’anziana cementata, il
tetto non era ancora stato costruito.
Abbondio non aveva perciò firmato una protesta (che
giustamente riteneva pretestuosa) contro i dirigenti del San
Tarita. Intanto, era riuscito finalmente ad ottenere un impie-
go: lavoravamo insieme negli uffici della biblioteca, grazie al
fatto che tutti (tranne me) avevano rifiutato quell’ambiente
di lavoro considerato malsano. Io ero stata sistemata lì da mio
padre, sindaco e fratello del costruttore del San Tarita.
Lo stato di salute di Tentenna migliorava. Abbondio ha
cominciato allora a dire che la calce, la polvere, la muffa e la
vita fra i libri gli facevano bene, mentre l’aria pulita, le piante,
il verde, i parchi e i giardini erano la causa delle sue malattie.
Poi si è messo a ripetere che, come chi lavora ha bisogno pe-
riodicamente di ferie, lui sentiva invece il bisogno di ritornare
all’ospedale San Tarita (il cui completamento era più che mai
lontano) perché temeva di avere ricadute.

140
Convinto che la salute è un diritto ma ammalarsi no, Ab-
bondio (ormai non più giovane) ricorre ancora ad espedienti
non del tutto legali per ottenere il ricovero: il più usato con-
siste nel rompersi una tibia, gettandosi sotto un camion con
una gamba tesa come un calciatore in takle, o nel farsi frantu-
mare un osso a caso, insultando gratuitamente o prendendo a
schiaffi un passante con l’aspetto dell’energumeno.

Oggi sospendo il mio lavoro di classificazione dei libri


e mi accosto ad Abbondio Tentenna, che mi mostra fiero il
braccio ingessato.
– Sei riuscito a farti ricoverare ancora, eh? Congratula-
zioni! – gli dico.
– Grazie! – risponde lui, luminoso come una lampada al
neon.
Gli altri lo guardano con occhi stralunati.
Ai nostri giorni, si parla apertamente di abolire gli ospe-
dali e si moltiplicano i libri che sostengono la necessità di
prevenire e non curare. La scienza sostiene che se si eseguo-
no ogni giorno i duemila esami di check-up raccomandati,
l’immortalità per ognuno di noi è ormai a portata di mano.
Che gli ospedali fra pochi anni si potranno demolire, e che
perciò tanto vale lasciarli andare a pezzi fin da ora.
Ma Abbondio non è d’accordo, e siccome ieri non respi-
rava bene dopo l’acquisto delle peonie da parte della vecchia
madre si è fatto ancora rompere un braccio, pestando un pie-
de in strada a un noto ex campione di kick-boxing. Come
al solito l’hanno ingessato male e così potrà farsi ricoverare
ancora per rompere l’ingessatura e rifarla. È contento come
una pasqua.
I miei colleghi dicono che Tentenna è pazzo. Anche mio
padre, che adesso è assessore, quando l’ho rivisto per concor-
dare con lui il modo per vincere il concorso interno alla bi-
blioteca, mi ha sconsigliato di frequentarlo. Io, invece, capisco
Tentenna. Forse solo l’ospedale gli permette, in questo strano
mondo in cui siamo rimasti in pochi ad essere onesti, di re-
spirare più liberamente e ritrovare il suo segreto star bene.

141
A volte essere pendolari
ha i suoi lati positivi
Matteo Boca

C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina. Si


vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attacca-
panni con la giacca e da come mi ha salutato unendo pollice e
indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare
a meno di sorridere. Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato
che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca
dell’ingessatura.

0778…
– Chi si fa i fatti propri campa cent’anni! – La tipica voce
da finto oracolo si leva a monito, mentre gli occhi rimangono
fissi sul suo monitor, ricoperto da mille e più celle colorate di
un foglio elettronico.
– Ma la lettura è il metodo più efficace per arricchire la
propria cultura – infilo di rimando simulando il pathos di un
consumato attore.
Con un gesto controllato e volutamente rallentato, siste-
ma il polsino della camicia in modo da coprire interamente
la scritta.
Mi butta un’occhiata distratta e mi chiede: – Avevi biso-
gno di qualcosa? –

142
– Sai, ti volevo avvertire che avevi una scritta sul gesso,
magari non te ne eri accorto. –
– Oh, grazie, anch’io mi sono spaventato stamattina
quando l’ho trovata. –
D’accordo non penso che ne caverò più niente, per ora.
In realtà non sono per niente curioso, ma la vita in ufficio è
così terribilmente monotona e monocorde che io e Mak non
perdiamo occasione per svagarci e, perché no, perdere un po’
di tempo.
Me ne torno quindi in postazione e continuo la mia opera
di archiviazione elettronica. Mentre batto sulla tastiera, sento
che il mio riccioluto collega se la ridacchia sibilando.
Con la rapidità da ninja che mi contraddistingue, lancio
verso il suo volto una graffetta come fosse uno shuriken.
– Scusa, c’è gente che cerca di lavorare. –
Sempre senza staccare gli occhi dal pc, Mak riesce a col-
pirmi alla spalla con una gomma rossa e blu.
– Argh. Adesso mi tocca chiedere l’infortunio. –
– Ovvio. Ma prima andiamo a prenderci il secondo
caffè? –
Non c’è bisogno di rispondere, perché tanto entrambi
percepiamo distintamente quando non abbiamo più voglia di
esser produttivi. Due sedie con rotelline frizionate sbattono
contro i rispettivi muri e ci avviamo.
– Vorresti sapere cosa nascondo sul braccio, eh? –
– Mah, sarà un numero di telefono di qualche tipa, final-
mente ne hai recuperato uno. Ti consiglio però di salvarli sul
cellulare, in futuro. –
– E invece no, è una partita IVA quella che stavi leg-
gendo. –
– Certamente, come ho fatto a non capirlo subito? In ef-
fetti chiunque sul gesso può farsi scrivere “Guarisci presto”,
“Sei forte”, “Grazie sei il mio eroe”, farsi fare dei disegnini
volgari... Così sei certamente originale. –
Arriviamo alla saletta break e mi metto ad armeggiare
con bicchierini e cialde.
– Guarda. –

143
Slaccia il bottone del polsino e mi mostra completamente
la scritta che stavo leggendo. È una partita IVA.
Va bene, ora sono curioso.
– La prego signore supremo degli aneddoti interessanti.
Mi metta al corrente! Mi narri quanto le è accaduto, o mono-
bracciuto imperatore del sesto piano! –
Finisce di rimestare il caffè con la mano sana, si appoggia
al tavolino e finalmente, gonfiando il petto, inizia a spiegarmi.
– Ti ricordi di quella ragazza del treno di cui ti parlo
spesso? –
– Certo, più o meno ogni giorno mi racconti di come è
vestita, se ha dormito o letto, se ha fatto qualche faccia buffa,
se si è raccolta i capelli... –
– Ok, lei. Non sono mai riuscito a parlarle. Sono timido
in fondo, quindi mi sono sempre limitato a cercare di sedermi
in un posto abbastanza vicino al suo per vederla, ma non ne-
cessariamente interagire. Oggi però credo ci sia stato qualche
problema con il treno precedente. Così il numero di posti
vuoti alla mia fermata era nettamente ridotto. –
– Maledette ferrovie. –
– Vuoi ascoltare il racconto o no? –
– Possiamo passare alla partita IVA? –
– O tutto o niente. –
– Niente. –
Butto giù il caffè in un sorso.
– Tutto. –
È troppo presto per tornare a spaccarmi gli occhi davanti
al PC.
– Bene. – Trangugia il suo caffè in trance narrativa.
– Fatto sta che per un attimo pensavo di non potermi
sedere in posizione strategica, ma mentre mi avviavo verso
di lei, un omone seduto di fronte si è alzato smaniando per il
caldo. Quindi, o mi beccavo quel posto, o avrei fatto un bel
viaggio d’andata solo. –
– Solo in mezzo a mille altri pendolari. –
Palettino del caffè vorticante evitato dalla mia cravatta
grazie ad un movimento alla Matrix.

144
– Mi siedo e incrocio ogni tanto lo sguardo facendo il
distratto. Prendo il mio libro facendo un po’ di smorfie come
se mi facesse malissimo il braccio: magari serve a rompere
il ghiaccio. Poi lei riceve una telefonata. Sicuramente lavoro,
perché la sento parlare di fatturazione, scadenze e quant’al-
tro. –
Sta per mettersi a saltellare come un bambino, ma lo
vedo controllarsi.
– Beh, ok, a un certo punto deve scrivere qualcosa,
prende dalla borsa una biro e la apre stringendo fra i den-
ti il tappo. Cavoli, dovevi vederla con quel rossetto appena
accennato. Aveva un atteggiamento così sicuro, ma sensuale
al contempo. –
– Allora l’hai presa lì, sul passante ferroviario davanti a
tutti. –
– Se ci fosse una gara di deficienza, riusciresti ad arrivare
secondo. –
– Se ci fosse un premio per i peggiori abbinamenti cra-
vatta-camicia non saresti ammesso per professionismo. –
– Comunque, ha questa penna in mano, il tappo in bocca
e tiene con la spalla il cellulare all’orecchio. Ma proprio non le
riesce di trovare un pezzo di carta. Allora io le allungo il brac-
cio, sguardo di intesa reciproco e... lei scrive sul mio gesso! –
Sono allibito.
– Fatto sta che lei poi chiude la telefonata, mi dice “La
ringrazio moltissimo”, si annota sul cellulare ciò che ha scrit-
to e... Ta-Dan! –
Solleva di più la manica della camicia e mi mostra con sod-
disfazione un nuovo pezzo di gesso: “Monica 3281123991”.

145
Apri il sipario su di un istante perfetto.
Hai tutto. La purezza del bianco, la dolcezza della crema,
la magia dello zuccherod’uva.
Stai per vivere un istante sublime
e la tua felicità si ripeterà ogni volta che vorrai.
Appagata e mai sazia, ecco la storia da raccontare.
Lasciati ispirare da crema di yogurt bianco müller.
Capitolo 5

Questione di equilibrio
È il suo segreto, questa forma di terapia.
Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a casa,
di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona.
Di solito ha un giornale e una bibita già pronti sul tavolino
perché a Paola piace coccolarlo.
Lui beve, legge, si riposa,
poi va a fumare una sigaretta sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezzo spunta il gatto sul terrazzo di fronte.
È un persiano bianco, di quelli di razza.
Si guarda intorno,
poi con un salto raggiunge il cornicione più in basso
e fa quella cosa.
Storia di una caduta 3

Francesco Caronna

È il suo segreto, questa forma di terapia.


Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a
casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona. Di solito ha un
giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace
coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta
sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezza spunta il gatto sul terrazzo di fronte. È
un persiano bianco, di quelli di razza. Si guarda intorno, poi con
un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

Inizia a leccarsi le zampe, piano, metodicamente, come a


volersi togliere di dosso i segni di una giornata da dimentica-
re. E l’uomo lo guarda, metodicamente, giorno dopo giorno,
senza aprire bocca. L’unico rumore che si concede è quello
dello scatto dell’accendino per accendersi la seconda sigaret-
ta, prologo fumoso e necessario alla sua rituale e ripetitiva
riflessione giornaliera.
Il solito giornale da democratico di sinistra, il solito anal-
colico rosso né cattivo né buono, la solita moglie gentile e
premurosa che inizia a trafficare con sacchetti della spesa e

3 L’autore ha scelto di non avvalersi dell’editing. Il racconto è ripro-


dotto nella versione originale pubblicata sul sito blusubianco.it.

153
tegami per preparare una cena prevedibilmente buona o ina-
spettatamente deliziosa. Piccoli rituali silenziosi di redenzio-
ne giornaliera; gesti e abitudini collaudati con i quali aneste-
tizzarsi la serata dopo il frustrante e scontato attraversamento
del giorno.
Paola ogni tanto butta un occhio fuori. Lo psichiatra ha
cercato di spiegarglielo bene il punto di equilibrio che avreb-
be dovuto tenere tra disinteresse e apprensione costante.
– Gli faccia sentire il suo affetto, la sua comprensione.
Gli stia vicino, insomma. Ma non in modo evidente. Non lo
tratti come un bambino piccolo o un cane che potrebbe scap-
pare e finire sotto una macchina, mi raccomando. Questo lo
farebbe sentire ancora più fragile. –
E lei ci provava a seguire quelle direttive e quei consigli
che i primi tempi le sembravano tremendamente vaghi e dif-
ficili da rispettare. Permesso di uscire un po’ prima dal lavoro,
in modo da arrivare a casa sempre prima del marito; musica
bassa nello stereo per riempire un po’ quelle grandi stanze,
il giornale, salviette pulite nel bagno, libri di cucina sempre
aperti per trovare ogni sera qualcosa di buono da fare.
Equilibrio, che parola complicata. Ci pensa lei, misuran-
do attenzioni e calorie e distribuendo coccole e antidepressi-
vi. Ci pensa lui, guardando dal balcone il gatto e la distanza
che lo separa da terra e rispettando l’appuntamento di due
volte a settimana dal terapeuta che lo sta ancora seguendo,
nonostante siano passati mesi.
Amici e parenti fanno discretamente ed educatamente
la solita domanda: – Come vanno le cose? – E c’è sempre un
tono diverso in quella banalità, un tono riservato solo a loro,
perché al fruttivendolo sotto casa o ad un conoscente qual-
siasi quella domanda sarebbe un semplice convenevole da ri-
spettare senza bisogno di ascoltare nemmeno la risposta.
Mentre, se la fanno a loro quella domanda, il discorso è
diverso. A lui si rivolgono quasi sottovoce, con tono da con-
fessore pronto ad accogliere, eventualmente, ogni necessità di
parola grave. A lei si rivolgono con voce attenta, come per te-
nersi aggiornati su qualcosa che anche per loro è importante.

154
E così va avanti il gioco del – Come stai? –, formula ma-
tematica della cortesia annoiata del mondo che nel loro caso
è diventata equazione complessa, predisposizione all’ascolto
da parte di chi in quel modo si rivolge e si interessa ai casi
loro. Se rivolta a loro, a quella domanda manca disinvoltura,
come un onesto che si improvvisa ladro. Il tono di voce, del
resto, non è che una maschera delle parole. Quello che vor-
rebbero dire a lui non è altro che un brutale e semplice: – Lo
rifarai? – Quello che vorrebbero dire a lei non è altro che un
preoccupato e ansioso: – Hai notato qualcosa che possa far
pensare che lo rifaccia? –
E così procede placidamente la vita, assestandosi morbi-
da tra pantofole e sigarette, gatti e Prozac, donne che prepa-
rano l’arrosto e, verificando la cottura delle patate nel forno,
osservano uomini che fumano, osservano gatti e misurano
la distanza che li separa tra la terra e un balcone di quarto
piano.

155
Primula gialla
Marta Fanello

È il suo segreto, questa forma di terapia.


Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a
casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona. Di solito ha un
giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace
coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta
sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezza spunta il gatto sul terrazzo di fronte. È
un persiano bianco, di quelli di razza. Si guarda intorno, poi con
un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

I gatti a volte lo fanno e questo gatto, come gli altri, nono-


stante le nobili origini achemenidi, non è da meno.
Lo fa con eleganza, certo, con aria sorniona, come solo
uno del suo rango potrebbe; però lo fa. Si accosta soffice alla
Primula nel suo vaso e ne strappa voluttuosamente un petalo
giallo, poi un altro e un altro ancora, poi li mordicchia e li
mastica fino a dissolverne le fragili fibre inerti.
La Primula, ridotta a brandelli fra quei dentini aguzzi e
impietosi, non può far altro che chinare con scarsa convin-
zione lo stelo umiliato e lasciar oscillare al vento i pochi petali
traslucidi ancora penduli, ancorati a uno straccetto untuoso
di vita.
Il gatto, incolpevole e indifferente per natura, arruffa il

156
pelo, inarca la schiena, sputa via quelle fibre acidule e succo-
se, volta le spalle alla Primula, al vaso e al cornicione e, il capo
sdegnoso e la coda eretta, fila via.
Conoscevo la Primula.
La conoscevo fin da quando era seme e la signora col
grembiule bianco l’aveva portata fin lì, ben chiusa in un invo-
lucro, ponendola a dormire fra zollette di terriccio umido.
Il suo stelo verde ha fatto capolino oltre la terra in un cre-
puscolo piovoso. L’ho visto stendersi e allungarsi e ho visto il
suo bulbo giallo prender forma. Ho assistito alla sua nascita,
allo schiudersi lento dei suoi petali che lasciavano cadere una
goccia di rugiada lungo il cornicione, proprio sulla punta del
naso di quel nembo di gatto che sonnecchiava all’ombra della
Primula.
Mi piaceva spiarla oltre la ringhiera, immaginarne il pro-
fumo e attendere che anche lei si accorgesse di me.
Anche Paola l’ha vista nascere e come sempre non ha
parlato.
Paola tace. Qualche goccia di rugiada cade giù anche dal
suo viso di tanto in tanto, ma si limita a posarsi sul collo,
mentre lei risucchia tutte le altre pronte a colare con un so-
noro sospiro.
Paola non sorride. Si limita a intonare soporifere cantile-
ne che solo noi possiamo udire, a prendersi cura di noi, a pre-
parare l’angolino intimo e accogliente per l’uomo che adora
coccolare, a far sì che tutto splenda, che tutto sia fragrante e
gustoso, proprio come piace a lui.
Lui che tutti i giorni torna alla stessa ora, che si butta su
quella poltrona senza baciare Paola, ingolla la sua bibita, fuma
sul terrazzo, aspetta che lei gli presenti ancora le sue pietanze,
i suoi manicaretti, il suo rispetto, la sua umiltà, la sua paura, il
suo silenzio. Cose segrete, che lo fanno stare bene.
Lui è sgraziato e rumoroso ma Paola lo coccola lo stesso.
Lo fa ogni giorno e ogni giorno lui è più sgraziato e rumoro-
so. A volte il suo equilibrio si incrina: le urla contro, le graffia
il volto e, in tutto simile al gatto, con superbia e indifferenza
le strappa via i petali.

157
Così Paola sfiorisce e, l’anima ridotta a brandelli fra quel-
le mani rudi e impietose, china con scarsa convinzione il capo
umiliato lasciando penzolare al vento morto le poche lacrime
rimaste e la voce, ancorata a stracci di preghiere.
L’uomo inarca la schiena, sputa i residui dell’anima di
Paola, le volta le spalle e fila via, ancora sul terrazzo, incolpe-
vole e indifferente alla colpa per natura. È indifferente anche
a me: inciampa nel mio vaso, fuma e getta via la cenere con
noncuranza fra i miei petali, anch’essi gialli.

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Un salto al contrario
Clara Calavita (Legolas)

È il suo segreto, questa forma di terapia.


Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a
casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona. Di solito ha un
giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace
coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta
sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezza spunta il gatto sul terrazzo di fronte. È
un persiano bianco, di quelli di razza. Si guarda intorno, poi con
un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

Lo sta facendo ancora. Come ogni sera.


Salta dal terrazzo al cornicione; si strofina sull’angolo del
muro, incurante del salto di alcuni metri che lo separa dal
marciapiede sottostante. Percorre il sottile bordo di cemento
fino all’angolo opposto, lo supera e sparisce.
Non l’ha mai visto risalire sulla terrazza.
Il gatto è una macchia candida sullo sfondo del muro
scurito dallo smog, che si muove sicuro e inarrestabile come
una nuvola, senza neanche abbassare la testa verso i dieci
centimetri di cornicione su cui sta camminando.
Giorgio non sa da dove venga quella sicurezza. Sa solo
che lui, ogni volta che deve attraversare un incrocio, guarda a
destra e a sinistra per almeno due minuti.

159
Oggi, fermo all’incrocio in centro dove i minuti di atte-
sa diventano almeno tre, dall’altra parte della strada ha visto
Chiara. Non ha avuto dubbi, nonostante i dieci metri di asfal-
to e i dieci anni di tempo che lo separavano dal loro ultimo
incontro.
Un paio di pantaloni grigi ha sostituito i jeans, scivolan-
do sulla curva dei fianchi un po’ più morbida, ma la tran-
quillità con cui Chiara ha attraversato la strada, lanciando
appena un’occhiata alle auto in arrivo, come se sapesse che
comunque erano troppo lontane per farle del male, è rimasta
la stessa di quando si aggirava intorno al palco senza degnare
di uno sguardo l’intreccio di cavi a terra.
È passata accanto a Giorgio senza vederlo e lui si è final-
mente deciso ad attraversare. Per niente al mondo si sarebbe
fermato a salutarla, consapevole dello sguardo rapido che lei
avrebbe lanciato alla sua fronte, dove i capelli stanno perden-
do la loro battaglia contro l’epidermide.
A casa, si sofferma un attimo a guardare il tavolino dove
Paola, come ogni sera, ha lasciato per lui il giornale e una
bibita. Un filo di aria gelida accarezza la sua schiena, dove il
sudore ha incollato la camicia bianca, provocandogli un bri-
vido eccessivo per l’afa di luglio.
Passa oltre il tavolino senza toccare niente e scende in
cantina. Apre l’armadio in fondo e ne estrae la morbida cu-
stodia nera. Lentamente fa scivolare la cerniera ed eccola:
rossa, lucida, con le corde ancora tese e ubbidienti e la super-
ficie liscia interrotta dal bordo sottile degli adesivi.
In alto, poco più in là dell’attacco delle corde, il cerchio
nero sbiadito dal sudore della sua mano, rimasto impresso
dopo ore di prove, racchiude ancora la scritta “Guitarist”.
Ci passa un palmo sopra, come la Chiara ventenne quan-
do aveva appiccicato l’adesivo.
Rimette a posto la chitarra e risale in casa. Paola gli va
incontro quando lo sente aprire la porta.
– Che succede? Ti serve qualcosa? – gli chiede dandogli
un bacio sulla guancia.
Giorgio scuote la testa.

160
– No, sono solo sceso a cercare una cosa in cantina.
Niente di importante. –
Si allontana di qualche passo e prende il giornale.
– Grazie – le dice, facendole un cenno con quello.
Lei sorride, poi prende la borsa della palestra.
– La bambina dorme. Ha mangiato mezz’oretta più tardi
del solito, quindi credo che non avrà fame fino alle sette. –
– Vai pure. Ci vediamo dopo – dice lui e Paola esce dopo
avergli dato un altro bacio sulla guancia.
Giorgio posa il giornale e va in camera. Si toglie la cami-
cia e le scarpe e rovista nei cassetti, finché in quello più basso
trova una vecchia maglietta blu. Sul davanti, sopra la sago-
ma scura di una figura umana a braccia aperte, campeggia la
scritta “The flying men”.
La infila quasi sulla soglia della stanza per evitare lo spec-
chio, poi torna in soggiorno ed esce sul balcone. Guarda il
sottile cornicione di cemento ruvido e la gente che passa in
strada, due piani più sotto.
Il persiano bianco spunta sul terrazzo. Sembra guardare
verso di lui, in realtà si accomoda e comincia le lente opera-
zioni di pulizia del lungo pelo già candido. Poi, come ogni
giorno, dopo un’occhiata indifferente intorno e uno sbadiglio
che gli fa tirare indietro le orecchie, come un impiegato che
la mattina si dirige verso la fermata della metropolitana, salta
sul cornicione e sparisce dietro l’angolo.
Giorgio si appoggia alla ringhiera del balcone.
– Perché la band si chiama “Flying Men?” – chiede la
Chiara ventenne nella sua testa, avvicinando troppo gli oc-
chi verdi. Lui sta quasi per dirglielo, che da un anno esce
con Paola, la più carina del corso di Diritto Costituzionale,
ma quegli occhi sono troppi vicini, e stanno aspettando una
risposta.
– Perché, a te non piacerebbe volare? –
– Ma io lo faccio spesso, non lo sai? –
E lui vorrebbe risponderle che ci crede, ma i suoi occhi
sono ancora più vicini e forse sarebbe più sensato baciarla.
Il Giorgio trentenne stringe la ringhiera liscia di vernice

161
tra le mani. Si sposta verso l’angolo del balcone.
Dall’altra parte della ringhiera di ferro, alla stessa altezza
del pavimento del balcone, c’è il cornicione di cemento ru-
vido, il bordo appena consumato dalle intemperie. Con gli
occhi fissi su quella destinazione, scavalca la ringhiera prima
con una gamba, poi con l’altra, mettendo con cautela i piedi
nudi sul cornicione. La schiena e le gambe sono appiattite
contro il muro, la mano sinistra ancora agganciata alla rin-
ghiera.
Guarda in alto e tutto quell’azzurro gli dà le vertigini.
Stacca la mano con cui si teneva e apre le braccia, come la
figura stampata sulla maglietta.
– Siete pronti a volare con noi, stasera? – urla al micro-
fono il Giorgio ventenne appena salito sul palco, mentre il
Giorgio trentenne si stacca dal cornicione verso il cielo az-
zurro.
Il gatto del vicino, tornato sulla terrazza, finalmente lo
guarda, mentre la sua ombra gli passa sopra. Forse, per una
volta, è invidioso di lui.

162
Tra moglie e marito
non mettere il micio
Annalisa Campanale

È il suo segreto, questa forma di terapia.


Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a
casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona. Di solito ha un
giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace
coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta
sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezza spunta il gatto sul terrazzo di fronte. È
un persiano bianco, di quelli di razza. Si guarda intorno, poi con
un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

Fabio è per la vita comoda: gustarsi le piccole cose ed


evitare sforzi inutili. La vita può essere veramente gratificante
se ti accontenti di poco. Meno in alto punti, meno sforzi devi
fare, più vivrai sereno. Facile, no?
Invece di una donna spigliata e dinamica, ne ha sposata
una più tranquilla e remissiva. È soddisfatto della sua scelta:
Paola sta sempre a casa ad aspettarlo, non avanza pretese,
non chiede neanche di uscire insieme il sabato sera. Perché
andare al cinema quando c’è la tv? Perché andare al ristoran-
te quando il frigo è pieno? Sforzi inutili.
Con la sua laurea poteva puntare a un incarico più pre-
stigioso, ma ha preferito un piccolo impiego sicuro. Un lavo-

163
ro importante porta troppi impegni, troppe responsabilità.
Troppi sforzi inutili.
Se Fabio fosse un animale sarebbe un gatto da salotto:
è sempre stato il suo sogno poter scambiare la sua vita con
uno di quei gattoni delle pubblicità. Stare distesi sul divano,
coccolati e viziati. Alzarsi solo per mangiare.
E quello stupido gatto, che ha la fortuna di essere un
meraviglioso persiano, invece di godersi la vita, saltella met-
tendosi a rischio come un qualsiasi gatto randagio. Per un
motivo assurdo per giunta: ha una splendida padrona, eppu-
re va a spiare la commessa del piano di sotto.
Salta sul cornicione, si volta, reggendosi con le zampet-
te anteriori indietreggia, finché con le zampe posteriori non
raggiunge il tubo della grondaia. Scivola giù come un pom-
piere nei film americani, poi frena all’altezza del balcone della
commessa e salta dentro.
Probabilmente, a una certa ora, si fa aprire la porta e ri-
torna dalla sua padrona attraverso le scale del palazzo. Perché
non fare lo stesso anche per scendere?
La stessa scena si ripete da un mese. Guardare le imprese
del gatto è più interessante che seguire qualsiasi altro pro-
gramma in tv: c’è azione, rischio reale e mistero.
Fabio è appena uscito da lavoro, si prepara ad essere ac-
colto a casa dalla sua mogliettina e a seguire le imprese del
gatto.
Squilla il cellulare. Sua moglie gli chiede se può passare
in farmacia, crede di avere un po’ d’influenza. Fabio detesta
questi imprevisti, (minuti rubati al suo relax), ma a volte col-
laborare è necessario.
Rincasando più tardi del solito, incrocia la commessa del
palazzo di fronte. Fare domande sarebbe inopportuno, que-
sto lo sa. Ma è più forte di lui.
– Signorina, mi scusi. Io abito qui di fronte, ho visto un
gatto che dal terrazzo scende abilmente sul suo balcone. –
– Non credo proprio: si sta confondendo. –
– Ma no, le assicuro. Io l’ho visto: lei gli apre ogni sera! –
– Ha le prove? –

164
– Non mi metto a filmare, non sono così impiccione. –
– Bravo. Continui a farsi gli affari suoi. –
Fabio rimane immobile, mentre la commessa rientra nel
suo palazzo sbattendo il portone.
Se l’è cercata. Non doveva fare domande.
Sale a casa e tutto è come al solito: nonostante i sintomi
del raffreddore, Paola gli ha preparato il giornale e una bibita
sul tavolino accanto alla sua poltrona preferita.
Non c’è tempo però: sono le sei e mezzo, l’ora di guar-
dare il gatto.
Anche stavolta con maestria il felino raggiunge il balcone
della commessa e lei gli apre.
– Ma guarda! – esclama adirato Fabio. Non sopporta di
passare per bugiardo. Si gira sui tacchi e va verso la porta.
– Dove vai? – chiede la moglie col naso chiuso.
– Vado a chiarire una situazione! Torno subito! –
È nervoso, chiude in fretta la porta dietro di sé. Monta in
ascensore, scende. Attraversa la strada, raggiunge il palazzo
di fronte, il portone è già aperto. Tanto meglio, pensa.
Chiama l’ascensore e sale verso il piano della commes-
sa. Di farla a piedi fin lassù non se ne parla neanche: evitare
sforzi inutili.
Mentre sale però, a Fabio viene in mente che questo è
proprio lo sforzo più inutile che abbia fatto in vita sua. Co-
munque sia ormai è arrivato, l’ascensore si apre. Fabio si
piazza davanti alla porta di casa della commessa, suona il
campanello con una certa urgenza.
A sorpresa apre un uomo dallo sguardo azzurro scintil-
lante. Mai visti occhi così. Dietro di lui la commessa.
L’uomo si volta verso di lei.
– Ancora grazie per tutto quello che fai! –
Lei sorride fiera, poi in modo complice e affettuoso gli fa
segno di sbrigarsi ad andare. Lui rapido e veloce sale dall’in-
quilina del piano di sopra che lo accoglie con un: – Amore!
Puntuale come sempre! – seguito da uno scoccar di baci ap-
passionati.
Fabio rimane interdetto. La commessa, che non ha nes-

165
suna voglia di dare spiegazioni, si affretta a chiudere la porta,
ma lui la blocca infilando il piede tra lo stipite e la porta.
– Dov’è il gatto? – chiede.
Lei lo guarda, seria.
– Sei sicuro di volerlo sapere? –
La moglie di Fabio, in tensione per il marito, uscito per
andare chissà dove, si inquieta per i versi che sente arrivare
dal pianerottolo.
Decide di seguire quel miagolio: apre la porta e si trova
davanti un bel persiano grigio che le fa le fusa.

166
Un senso non ce l’ha
Luigi Costa (Windzeross)

È il suo segreto, questa forma di terapia.


Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a
casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona. Di solito ha un
giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace
coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta
sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezza spunta il gatto sul terrazzo di fronte. È
un persiano bianco, di quelli di razza. Si guarda intorno, poi con
un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

Poi, un giorno, la terapia smette di funzionare.


Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a
casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona.
Trova un giornale e una bibita già pronti sul tavolino
perché a Paola piace coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi
va a fumare una sigaretta sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezzo si aspetta di veder spuntare il gatto
sul terrazzo di fronte. Dovrebbe essere un persiano bianco, di
quelli di razza. Ma niente, nessun gatto appare alla sua vista.
Poi si rassegna. Tanto, alla fine, chi se ne importa di uno
stupido gatto, anche se è un persiano bianco. Si guarda intor-
no, poi con un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa
quella cosa.

167
Però già così non è la stessa cosa.
L’incidente è presto dimenticato e alle cinque, quando ha
finito, non vede l’ora di tornare a casa, di togliersi le scarpe e
di mettersi in poltrona.
Trova un giornale e una bibita già pronti sul tavolino
perché a Paola piace coccolarlo.
Lui beve, legge, si riposa, ma non fuma. Non sa come sia
stato possibile, ma ha dimenticato le sigarette. Inutile pensare
a dove le ha lasciate, probabilmente non le ha proprio com-
prate.
Aspetta. Non sa neanche lui bene cosa.
Nessuna sigaretta, nessun gatto. Si guarda intorno, con
un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.
Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare
a casa. Ma non si toglie le scarpe, si limita a mettersi in pol-
trona. Trova un giornale e una bibita già pronti sul tavolino
perché a Paola piace coccolarlo.
Lui beve, legge. Evita di riposarsi, perché non è stanco.
Si guarda intorno, con un salto raggiunge il cornicione più in
basso e fa quella cosa.
Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare
a casa, ma non ha più senso mettersi in poltrona. Nessun
giornale e nessuna bibita già pronti sul tavolino perché anche
Paola è sparita. Chi era poi ‘sta Paola, si chiede, senza trovare
alcuna risposta.
Non beve, non legge, non si riposa. Si guarda intorno,
con un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella
cosa.
Alle cinque, quando ha finito, non vede più l’ora di tor-
nare a casa. Non si guarda intorno, con un salto raggiunge
il cornicione più in basso. Guarda in giù. Non fa più niente
perché pensa che ormai non ha più senso.
Alle cinque, non ha finito. Perché non ha iniziato nulla.
Non torna a casa.

168
Cadere in piedi 4

Rita Rosa

È il suo segreto, questa forma di terapia.


Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a
casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona. Di solito ha un
giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace
coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta
sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezza spunta il gatto sul terrazzo di fronte. È
un persiano bianco, di quelli di razza. Si guarda intorno, poi con
un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

Lento ed elegante, arriva al punto in cui si accumula la


fuliggine e si rovescia sulla schiena. Ha un’espressione assur-
damente soddisfatta mentre si strofina il dorso ondeggiante.
Poi si volta e termina l’opera con una strusciatina alla pancia
e un colpetto al muso. Un piccolo sternuto, e salta.
Al terzo piano, la finestra della cucina è chiusa. La signo-
rina Irma ha sempre freddo. Anche oggi è ancora in vestaglia,
sulla vecchia poltrona, davanti al televisore che non funziona
più da mesi.

4 L’autore ha scelto di non avvalersi dell’editing. Il racconto è ripro-


dotto nella versione originale pubblicata sul sito blusubianco.it.

169
Aspetta il tramonto. Il gatto ha perso la sua flemma, co-
mincia a miagolare grattando il vetro, cammina avanti e in-
dietro sul davanzale, mettendo a repentaglio la sopravvivenza
delle petunie. La vecchia si alza brontolando. – Sei di nuovo
qua? Possibile? Che fine hanno fatto i tuoi padroni?
Disgraziati delinquenti, ma come si fa ad abbandonare
una bestia così, guarda come sei ridotto! Hai fame, poveri-
no... non ho niente da darti, che disgraziati, mi capitassero
tra le mani... –
Intanto ha aperto la finestra e il gatto mette dentro la testa
gnaulando penosamente. La signorina Irma non ha proprio
voglia di uscire, è da tanto che non ha più voglia di niente,
ma adesso va a vestirsi, vuole fare in fretta e prende la prima
cosa che le capita a portata di mano, anche la giacca della
domenica e le scarpe nuove.
– Vado al supermercato e torno. Che disgraziati... –
E così esce e si accorge che è già primavera, che il macel-
laio nuovo è un ragazzino proprio gentile, che c’è un concerto
stasera in parrocchia e che la biblioteca è aperta fino a tardi,
lì sì che ci sono quei bei libri di una volta. Quando torna, il
vecchio gatto sporco è ancora là sul davanzale, in attesa.
– Dieci minuti ed è pronto, stasera petto di pollo per
due. Alla mia Mimì, buonanima, mai data una scatoletta, sai?
Adesso ti porto un goccio di latte. –
Intanto mette a posto la spesa, si è concessa qualche fri-
volezza, un cestino di fragole, una bottiglia di vino buono.
Riduce a pezzetti una delle fettine di carne cotte al vapore,
grattugia una punta di carota e aggiunge un cucchiaio di riso
bollito. Posa la ciotola sul davanzale e si gode lo spettacolo
della felicità del gatto. Poi apparecchia per sé, guarda l’oro-
logio e decide di non cambiarsi. C’è tutto il tempo per man-
giare con calma e recarsi al concerto. Pensare che un’ora fa
voleva quasi andare a dormire senza cenare. Il gatto ha finito
di ripulirsi scrupolosamente il muso ed esce.
– Disgraziati delinquenti... – lo saluta lei. Va a chiudere
la finestra, passa davanti allo specchio, la signorina Irma, e si
sorride.

170
Sul terrazzo del secondo piano, Hasna se ne sta avvolta
nella coperta come quando all’asilo giocava a fare la squaw.
Nessuno la trovava ridicola, allora. Ha chiuso tutto il mondo
fuori, ascolta una di quelle canzoni che piacciono tanto alle
sue compagne. A lei sembrano tutte uguali, strilli in inglese,
non capisce una parola. Nessuno capisce lei. A scuola mangia
cose diverse dagli altri, deve uscire dalla classe quando c’è
l’ora di religione, i suoi vestiti fanno ridere. I genitori litigano
spesso, il fratello più grande è prepotente e quello piccolo
è una lagna. Lei è nata in Italia ma agli altri sembra strana,
e quando va in Marocco sembra diversa anche là. È molto
arrabbiata, come al solito. Ha avuto una pessima giornata.
Durante la lezione di disegno, per l’ennesima volta qualcuno
le ha rubato la gomma, poi l’hanno accusata di aver rovina-
to con il chewing-gum i jeans di quell’antipatica del banco
davanti, ha troppi compiti da fare e tra un po’ il fratellino si
sveglierà e dovrà pure occuparsi di lui. A nessuno importa
di lei, a lei non importa niente di nessuno, neanche di questa
stupida lurida bestiaccia...
Il gatto, come ogni giorno, si è leccato per bene le zam-
pine prima di saltarle in braccio. Lei, come ogni giorno, ha
la spazzola a portata di mano. Spegne la radio e lascia che le
parole escano da sole, in un sussurro.
– Sara mi ha invitata alla sua festa di compleanno, è triste
che deve mettere l’apparecchio per i denti, ma io le ho detto
che anche così è la più bella della classe, e Michela mi ha fre-
gato la gomma, ma Filippo mi ha prestato la sua e poi mi ha
detto che potevo tenermela, e Giulia mi ha chiesto se le face-
vo provare il mio hijab e nell’intervallo siamo andate in bagno
e abbiamo riso che quasi ce la facevamo addosso perché le
veniva una faccia così buffa senza tutti quei ricci rossi, e la
verifica di matematica non è andata proprio male e la Murru
poi ha detto che il mio disegno era strabiliante, l’ha tirato su e
mi hanno pure fatto l’applauso, che io non sapevo che faccia
fare, e ieri sera mi ero addormentata con il libro di storia in
mano e non avevo fatto il ripasso dalle guerre puniche ma
oggi è venuto il supplente e non ha interrogato nessuno e

171
qualcuno ha appiccicato il cicles sulla sedia di Noemi e lei
credeva che ero stata io, ma poi Lorenzo glielo ha detto che
l’aveva messo lui che così per un po’ la piantava di prenderlo
in giro perché balbetta, e la Vesco mi ha chiamata alla lavagna
per scrivere il mio nome in arabo e poi tutti volevano vedere
come si scriveva il loro e Rachele ha detto se glielo facevo sul
foglietto perché era troppo bello e quest’estate se lo fa tatuare
sotto l’ombelico e... –
E intanto ha spazzolato il gatto come solo lei sa fare, dalla
testa alla punta della coda, poi lungo i fianchi e più leggera
sulla pancia, con lo stesso ritmo delle fusa. – Sei bellissimo!
– Lui approva socchiudendo gli occhi, si stira ed è già sulla
ringhiera. Hasna entra in casa, tira fuori il disegno dallo zaino
e va in cucina.
– Chiudi gli occhi, mamma, e conta fino a dieci... –
– Lascio la finestra un po’ aperta, come piace a te–, ha
detto la mamma di Luca uscendo dalla cameretta. Dal divano
del soggiorno non può vedere il persiano entrare e sedersi sul
davanzale, in attesa.
Luca fissa il muro, ma intanto allunga la mano. Sta per
lanciare la pallina e già il gatto è volato al centro della stan-
za, l’afferra con le zampe anteriori, ricade con leggerezza
sul tappeto e da lì inizia una carambola, velocissima e in-
credibilmente silenziosa: palla – Luca – gatto – palla – letto
– gatto – palla – muro – Luca – palla-tenda – gatto... Infine
il micio, esausto, crolla sui piedi scalzi del bambino e si ac-
ciambella.
Luca sente il battito del suo minuscolo cuore rallentare
a poco a poco, si china e cerca ad occhi chiusi, nella pelliccia
soffice, quel punto sotto il mento dove un leggero solletico
fa andare in estasi l’amico. Tutto finisce, anche oggi, con il
rumore di una chiave nella serratura, il trambusto nel corri-
doio, la voce e l’odore del padre che torna dal lavoro. Il gatto
sparisce oltre il davanzale.
La mamma ha ancora in mano il libro che ha quasi finito
di leggere.
– Un altro? “Autismo, nuovi aspetti diagnostici e tera-

172
peutici”... Non ti sei ancora stancata? – Troppo tardi lui si
accorge di quanto la sua domanda suona crudele.
– Non si è mosso dalla sedia, è rimasto lì, con la pallina in
mano, tutto il pomeriggio. –
– Almeno è tranquillo. Ti ricordi la settimana scorsa,
quante urla solo perché ho chiuso la finestra? –
Luca si dondola e ride. – Guarda come sorride al muro,
a me non ha sorriso mai. –
Il bambino non la sente, sta cullando i suoi pensieri.
– Caldomorbido nonfamale tornasempre. Caldomorbido
nonfavoci vuolenulla. Caldomorbido Lucabello Lucavabene-
così. Benecosì. –
Alle sette e mezza, il gatto ricompare sul cornicione.
Come sempre, perfettamente bianco. Bastano due balzi per
raggiungere il terrazzo. Francesco ha fumato altre tre siga-
rette, si è scolato la seconda bibita, ha curiosato nel frigo im-
maginando la cena e adesso è pronto, con il vecchio scialle
di Paola in mano. Lo tiene davanti a sé con le braccia tese,
oblique e parallele. Come un torero, praticamente. Sventola
lo scialle e non può fare a meno di ridere, mentre il gatto si
rannicchia e agita nervosamente la coda.
Eccolo sollevare leggermente le zampe posteriori e oscilla-
re, si sta caricando, scatta in avanti e raggiunge il muro. Man-
cato! Francesco ha lanciato lo scialle in ritardo di una frazione
di secondo. Lo raccoglie controllando, con la coda dell’occhio,
le mosse del felino alle sue spalle. È partito... preso!
Sotto la lana multicolore indietreggia, si contorce, inarca
la schiena, scopre uno spiraglio e schizza a nascondersi tra
due grossi vasi. Il gioco continua finché Francesco si rifugia
sulla sedia a sdraio. È ogni volta più stanco, dopo la dialisi.
Chiude gli occhi e aspetta di sentire sul petto il ritmico mo-
vimento delle zampe, un nasino umido che ispeziona il suo
collo, una lingua ruvida sul braccio, dove prima c’erano gli
aghi, e poi l’abbandono di un piccolo corpo caldo.
– Lo sai che sei la migliore delle mie terapie? E poi non
posso mica morire prima di capire come fai... –
Li risveglia lo scatto della macchina fotografica.

173
– Eravate così... così belli! –
Paola è arrossita come una bambina colta in fallo, ha gli
occhi lucidi. Non l’aveva mai vista piangere, neanche quando
il medico aveva detto che il trapianto del rene non gli sareb-
be servito a niente, che quella sua strana malattia progrediva
già, in modo diverso, anche nel cuore e nel cervello. Piange,
singhiozza, trema, s’inginocchia vicino allo sdraio. Chissà se
immagina già la sua vita senza di lui.
Il gatto sta scivolando via, è quasi notte, ormai.
– Prometti che tornerai, anche dopo. Insegnale come si
fa, tu che cadi sempre in piedi. Forse non è solo questione di
equilibrio. –

174
La linea d’ombra
Alberto Cecon

È il suo segreto, questa forma di terapia.


Alle cinque, quando ha finito, non vede l’ora di tornare a
casa, di togliersi le scarpe e di mettersi in poltrona. Di solito ha un
giornale e una bibita già pronti sul tavolino perché a Paola piace
coccolarlo. Lui beve, legge, si riposa, poi va a fumare una sigaretta
sul balcone e aspetta.
Verso le sei e mezza spunta il gatto sul terrazzo di fronte. È
un persiano bianco, di quelli di razza. Si guarda intorno, poi con
un salto raggiunge il cornicione più in basso e fa quella cosa.

Una cosa stupida, d’accordo.


Priva di significato.
Probabilmente la fanno tutti i gatti, anzi, tutti i felini. For-
se anche i cani. Chissà.
Eppure.
Lui non sa, non capisce perché quella cosa lo inquieti in
questo modo. Sta per alzarsi, per chiamare Paola, poi si fer-
ma. Sa già cosa direbbe.
– Vedi misteri dappertutto. Quando ti deciderai a cresce-
re? –
Forse ha ragione lei: la sua è ansia o desiderio di vedere
l’aspetto inconsueto delle cose, le stranezze della vita, le sue
peculiarità. Un eccesso d’immaginazione. È la sensazione che

175
ci sia qualcosa che sfugge, ragioni nascoste, cause segrete.
Tutto pur di ottenere un brivido lungo la schiena ogni tanto.
Non il Mistero, quello con la maiuscola, no. Qualcosa di più
piccolo e più sottile. Come un dito gelato che ti sfiora quando
pensi di essere da solo.
Fantasie, forse.
Eppure.
– L’ha fatto anche oggi? – chiede Paola.
La sua voce è come una carezza, un golfino di lana get-
tato sulle spalle in un pomeriggio invernale da qualcuno che
ti vuole bene. Una tenerezza con qualcosa di ruvido dentro.
Un rimprovero.
– Puntuale come un orologio. –
Si gira a guardarla, abbozza un sorriso, come per dirle
che in fondo lui non gli dà tanta importanza.
– Se ti decidessi a venire qui in tempo, lo vedresti anche
tu. –
Lei non sorride. Non oggi. Non come gli altri giorni, quan-
do lo canzona dicendogli di smetterla di vedere i fantasmi.
Non sorride. Non scherza. Continua a fissare il punto del
cornicione, come rapita. Dove fino a poco fa c’era il gatto c’è
un segno, come un’ombra. Sembra una macchia, che forse
era già lì da prima.
– Che cos’hai? –
Lui la guarda. – Che cosa... –
– È pronta la cena – fa lei, gli occhi sempre incollati su
quell’ombra, quella cosa.
Lui si alza, l’afferra per un braccio.
– Allora l’hai visto. L’hai visto anche tu! –
Finalmente lei sembra accorgersi della sua presenza. Lo
osserva in modo strano.
– È pronta la cena – ripete.
Si guardano a lungo, si abbracciano in silenzio. Poi, come
per una tacita intesa, rientrano e si mettono a tavola.
Quando lei si mette a piangere, lui si alza, le va vicino. La
stringe forte.
– Mi dispiace – sussurra.

176
Appena le tue labbra toccano
il velluto bianco di crema di yogurt bianco müller,
parole immacolate scendono ad avvolgerti il cuore.
E’ adesso che la trama vellutata della storia ti prende e sorprende
fino in fondo.
Accade sempre, in sincrono perfetto con il tuo battito.
Abbandonati all’abbraccio di crema di yogurt bianco müller.
Capitolo 6

Fondersi col foglio


Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.
Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta:
prenderei la penna e le parole non rimarrebbero incastrate
in una vena del cervello o nella gola;
scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il foglio,
ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano dietro.
È il potere della pagina bianca, credo.
Ti risucchia e ti libera:
è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
“Allora?” mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.
Metafora di un contest
Lia Gialanella

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.


Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei
la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del
cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero
il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano
dietro. È il potere della pagina bianca, credo.Ti risucchia e ti libe-
ra: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
– Allora? –mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

Ecco fatto.
Basta un “allora” e ogni volta mi spezza la magia.
Ma lui, Pino Marquetz, il mio editore, è fatto così. Ha
il cognome spagnolo ma è di origini napoletane. Gli piace
bloccarmi quella vena. La sigaretta sembra accenderla quasi
a voler essere sicuro di annebbiarmi per bene, direi che ne
gode.
Così, ogni volta, rassegnata, mi trovo a rispondere:
– Tranquillo Pino, ora ci penso un po’. –
Mi alzo mogia dalla sedia di fronte alla sua scrivania e
torno alla mia.
Sono una praticante, nella redazione di un settimanale

183
una di quelle che lavora gratis, rinuncia ai diritti su quello
scrive e quasi mai viene pubblicata.
Come me ce ne sono tanti altri: la nostra redazione a
volte sembra un’arena e ci sono giornate in cui ho l’impres-
sione che vi transitino settanta, ottanta persone. In realtà alla
fine siamo sempre gli stessi: le solite anime del purgatorio in
attesa di essere selezionate per l’espiazione propedeutica al
paradiso degli onori.
Ho mal di stomaco, le mie idee invece di incanalarsi nella
mano, sono scivolate giù nella trachea, hanno fatto autoscon-
tro nell’esofago e si sono completamente nauseate sulle mon-
tagne russe del mio intestino.
Fremo di rabbia, ma devo pur sempre tentare.
Mi siedo, guardo il monitor spento. È il buio. Quel buio
che mi vedo ora nel cervello.
Un’eco delle mie imprecazioni mi distrae: di fronte a me
siede Arianna. La adoro, ha sempre una parola che sa di pri-
mavera e gli occhi dolci.
Se fossi stata uomo l’avrei amata.
Accanto a Arianna lavora Giuseppe. Lo conosco da sem-
pre, o qualcosa che somigli a un sempre; mai avrei pensa-
to che in questa nostra esperienza di elemosina intellettuale
avremmo condiviso lo stesso piattino.
Luigi e Antonio non so perché si trovino qui: hanno un
modo di scrivere che a volte apprezzo, altre no. Poi, c’è Emi-
lio, uno che, a mio avviso, quando scrive urla, ma se provi a
scambiarci una parola subito ti penti per non essere stata tu
a urlargli contro. Barbara e Alessandra, madri come me, sono
mature nel cuore e nella penna. Sario, giovanissimo, ha un
pessimo rapporto con la consecutio temporum, ma lo stimo
tanto: segue i consigli di tutti e sa anche metterli in pratica.
Mi guardo intorno e provo una sorta di smarrimento
sintattico. Mentre quell’“allora?” continua a rimbalzarmi in
testa, quasi stesse cercando l’uscita di sicurezza nel mio naso,
mi chiedo cosa dovrò scrivere per stupire Pino. Cosa dovrò
ancora figliare affinché sposi i miei pensieri e mi renda final-
mente una donna rispettabile.

184
Tocca a me.
Il foglio è illibato, la tastiera è impura e io vorrei farli
amare.
Giuseppe mi fissa: vorrebbe che dessi uno sguardo al suo
pezzo, lo so. Mi dispiace ma non posso. Ora proprio no.
Scrivo.
Le parole mi sfuggono, allora decido di rincorrerle, ma-
ledette, vogliono giocare a nascondino. Decido di fermarmi,
non le cerco più: loro si stancano di aspettarmi e vengono da
me ed io, a quel punto, non vedo che loro.
Amo le parole. Non sono matematica, ma in un certo
senso mi sembrano la trigonometria della mia anima, le fun-
zioni dei miei pensieri, gli algoritmi del mio cuore.
Il sangue nelle mie vene diventa acqua e il mio ragionare
una regata di idee.
Batto le dita sulla tastiera e tocco i tasti come se avessi
raggiunto le tegole del tetto del cielo, il mio sconfinato peri-
metro di creatività, il mio deterso volo di passione. Il foglio
è il mio aquilone, i miei pensieri diventano l’aria che lo sol-
levano; io sono il filo ancorato a terra che lotta nell’aria, per
tenere alto il volo. Soffio sulla mente, ne alimento la brace, mi
brucia, ardo. Sì, io quando scrivo ardo.
Scrivere è il mio quinto elemento naturale.
Ho finito il mio pezzo. Alcuni dei praticanti stanno già
consegnando a Pino.
Non resta che aspettare.
Parlotto con gli altri, ormai, non provo neanche più a
nascondere la mia tensione.
Si sprecano pronostici. Arianna cerca di distrarmi e intan-
to arrivano anche Augusto, Maria e qualche altro di cui ho di-
menticato l’esistenza nel tentativo di gestire le mie emozioni.
Pino finisce la sua riunione, spegne l’ennesima sigaretta
in un sudicio e martoriato posacenere, trattiene più che può
l’ultimo tiro poi lo butta fuori a malincuore.
Affigge come al solito nella sua bacheca i pezzi che an-
dranno sulla rivista di questa settimana. Serve a farci sentire
ancora a scuola.

185
Giuseppe è il primo ad accalcarsi. Il suo pezzo non c’è,
già borbotta.
Neanche il mio c’è. Nemmeno questa settimana.
Pino ha scelto ancora una volta i soliti pezzi, quelli tran-
quilli, senza infamia e senza lode, quelli che se dovessi scri-
verli io, lo farei con la stessa infeltrita e accartocciata espres-
sione di quando si mangia uno yogurt acido.

186
Preferirei di no
Bartleby

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.


Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei
la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del
cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero
il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano
dietro. È il potere della pagina bianca, credo.Ti risucchia e ti libe-
ra: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
– Allora? –mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

– Preferirei di no. –
– Smettila di battere su quel tasto – dice lui, abituato, –
questa volta voglio una risposta più articolata. –
E aspetta.
Il fatto è che non parlo. Sì, non parlo più da almeno dieci
anni. Leggo, scrivo, e quella frase è la mia preferita: l’unica
cosa che direi se volessi tornare a parlare e, da muto, è la sola
che mi serve. Me la sono fatta incidere su una musicassetta,
la voce è quella di mio fratello, come me grande appassio-
nato di libri. Per il resto mi esprimo a gesti del capo, con gli
occhi o con le mani e, quando il discorso è più complicato,
scrivo.

187
In questa redazione sono abituati al mio silenzio. Per loro,
a zittirmi, è stato il trauma per l’abbandono di mia moglie; la
verità è che ad ammutolirmi è stato il modo che ha scelto per
farlo. Le parole che ha usato.
È successo che quella sera, intanto che di spalle prepa-
rava la cena, lei mi dice che è una vigliacca. Così le chiedo il
motivo di quella parola, proprio mentre sistemavo il pane nel
cestino. Lo ricordo come fosse ieri.
Lei, senza girarsi, mi ripete che è una vigliacca, che po-
trebbe avere un figlio e non capisce perché continua a riman-
dare. Vi chiederete cosa c’è di strano in una frase del genere.
C’è che io sono sterile e si sapeva, ma quel che non immagi-
navo era che lei avesse un amante, e, soprattutto, che stavano
pianificando un figlio insieme.
Io non ero stato preso in considerazione nemmeno come
impedimento. Lei mi ha detto candidamente, pur se con altre
parole, che non vedeva il motivo di aspettare per farsi ingra-
vidare da un altro.
Detto in quel modo, lasciava intendere che le ragioni po-
tevano essere diverse: paura di ingrassare, delle responsabili-
tà, di perdere il lavoro o delle smagliature, paura di tutto, ma
non certo che a trattenerla fosse il riguardo nei miei confronti
o perché era sposata con me.
M’informò così di quel progetto che mi escludeva dalla
sua vita e lo fece di spalle, in quel modo obliquo e distaccato.
Me lo disse come per caso, come si parla ad un collega di
lavoro, a un’amica, non certo a un marito.
Non chiesi altro, e subito lasciai quella casa, senza finire
di apparecchiare.
Tempo dopo, in tribunale, mi disse che la colpa era mia,
che passavo più tempo a scrivere che nel nostro letto. Con-
tinuai a non replicare, e sbrigammo in fretta tutto. Da allora
non mi va più di parlare. Adesso lei ha due figli. Io ho la barba
e ho anche smesso di scrivere libri.
In redazione mi chiamano Bart, per via della frase che
uso all’occorrenza, semplicemente pigiando il tasto del pic-
colo registratore messo al posto del telefono.

188
Mi siedo alla scrivania alle nove e mi alzo alle sette: sono
circondato da torri di libri e manoscritti e al centro di tut-
to c’è il mio indispensabile portatile. Bianco, come un foglio
senza parole.
È inutile sottolineare che Bart è il diminutivo, un po’ irri-
verente, del celebre scrivano. Io, invece, da quando ho smesso
di scrivere libri, correggo il lavoro degli altri; faccio l’editor,
un mestiere decisamente più appagante del copista.
I rapporti con gli autori, le discussioni per gli aggiusta-
menti, e per quant’altro necessita la voce, li cura direttamente
il capo. Dicono sono il migliore nel mio lavoro e posso per-
mettermi di stare zitto. Io aggiusto, limo, giro, tolgo e metto
finché le parole degli altri brillano.
Ho una passione per la punteggiatura, va detto: uso le
virgole per riprendere fiato e i punti per fermarmi a riposare,
ma quando ho bisogno di una breve pausa rivaluto il punto
e virgola. Seguo molti scrittori famosi: con loro l’editing è
semplice, non c’è pericolo di ritrovare la zia, morta nel se-
condo capitolo, mentre saluta sorridente gli sposi alla fine del
romanzo.
Ai manoscritti dei miei autori preferiti, spesso, non devo
aggiungere o togliere nemmeno una virgola, anche se ultima-
mente si divertono a giocare con l’interpunzione, mettendo a
dura prova il respiro del lettore.
Quando invece mi arrivano le bozze di giovani scrittori,
passo il tempo a togliere una quantità imbarazzante di punti-
ni, punti esclamativi e di domanda. Eppure, serve un solo de-
ciso tratto verticale per essere categorico o stupito, così come
basta e avanza un sinuoso uncino per chiedere; mentre i pun-
tini devono essere sempre e solo tre e indicano la sospensione
di un pensiero, ma non possono selvaggiamente sostituire il
punto, tranne quando manca il respiro per poter continuare
la frase. Povere regole, sconvolte dalla tecnologia.
Un’altra cosa che mi piace del mio lavoro, è il fatto di sa-
pere subito come finisce il manoscritto che sto perfezionando.
Non voglio più sorprese, nemmeno nei libri, e mi tranquilliz-
za conoscere in anticipo cosa succederà al protagonista.

189
– Allora? Bart, hai finito di maltrattare i tasti? Sto aspet-
tando che tu scriva la risposta. –
Un attimo ancora, ricapitolo.
Il tempo di una sigaretta fa mi sono detto che è il mo-
mento giusto e che devo sbrigarmi. Che certo, sarebbe più
facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei la penna e le
parole non rimarrebbero incastrate in una vena del cervello
o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero il
foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si porta-
no dietro. È il potere della pagina bianca.
Ed è così, davvero: non rimangio quello che mi sono det-
to, sono tutte cose giuste. Sto solo decidendo se farlo o no.
Del resto conosco quel potere, è così che cattura gli scrit-
tori, e anch’io tanto tempo fa, in quello spazio bianco solita-
rio sospeso fra verità e menzogna, facevo parlare i personag-
gi che creavo con i miei pensieri più nascosti; riuscivo a far
ridere e piangere nell’arco di un solo capitolo, ero in grado
di far crescere i figli nel giro di poche pagine, persino di far
morire senza preavviso la mia eroina, magari dopo una cena.
Come fossi Dio.
Ma ora, nel limbo silenzioso in cui mi sono rifugiato, non
trovo più ispirazione. Scrivevo d’amore, e come ben com-
prenderete, non ho più niente da dire sull’argomento. Mi li-
mito a suggerire cambiamenti nelle vite scritte da altri, posso
modificare il colore del vestito se non suona armonioso con
la parola successiva, o far partire in anticipo il vecchio nonno
se i dialoghi risultano eccessivi, ma preferisco non indugiare
sui sentimenti.
Il mio editore ha finito di fumare, ha spento la sigaretta
conficcandola nella terra del ficus accanto alla finestra. Brut-
to segno: è seccato.
Sono giorni che aspetta che mi decida: quel premio let-
terario potrebbe riportarmi di nuovo alla ribalta come autore
e regalare lustro e soldi alla casa editrice. Dice che se non vo-
glio scrivere una nuova storia, sarebbe sufficiente correggere
e pubblicare quel libro dimenticato nel cassetto dieci anni fa.
Cambio pagina, apro un nuovo foglio, bianco e lumino-

190
so, invitante. Velocemente digito la risposta che sono certo
non vi sorprenderà e sarà così scontata da deludere qualsiasi
aspettativa di un finale a sorpresa.
Fatto.
Poi, con consumata maestria evidenzio, scelgo dalla bar-
ra il formato, carattere Arial, stile grassetto, dimensione 72,
colore del carattere, rosso.
Giro il computer in modo che lui legga lo schermo. Nel
centro del foglio elettronico spicca la risposta che lui non vo-
leva, ma che come voi si aspettava.
“Preferirei di no”.

191
Grossi problemi inspiegabili
Lucia De Filippo

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.


Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei
la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del
cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero
il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano
dietro. È il potere della pagina bianca, credo.Ti risucchia e ti libe-
ra: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
– Allora? –mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

È la terza notte che faccio questo sogno.


Mi sveglio completamente sudato con le lenzuola appic-
cicate addosso. Mi alzo, senza fare attenzione a non svegliare
Angela che dorme al mio fianco. Se non dormo io non dorme
nessuno.
– Hai sognato ancora tuo padre che in realtà era il tuo
editore che ti chiedeva del romanzo? – sbuffa girandosi
sull’altro fianco.
Che avrà da scherzare?
– Sì ma stavolta fumava anche – le rispondo scansando
Giulia che è in piedi davanti al letto.

192
– Tuo padre fuma, Luca. –
Come se non lo sapessi, è mio padre da trentanove anni.
– Il mio editore no – urlo dalla cucina mentre Andrea mi
guarda dal divano.
– È questa storia delle scadenze – Gli siedo accanto e lui
mi ruba un biscotto.
– Non riesco a scrivere se mi danno delle scadenze. –
Ci raggiunge Giulia che prende del latte in frigorifero e
beve dal cartone. Sa che odio che beva dal cartone. Anche
Andrea lo odia. O meglio, Andrea odia lei e di riflesso ogni
cosa che la riguarda.
Guardo l’orologio, sono quasi le sette.
– Potresti prendere un bicchiere? – dice Andrea.
Giulia lo fissa.
– Potresti non guardarmi se ti dà così fastidio. –
Siamo alle solite. Ed io ho mal di testa.
– Che ne dite di ignorarvi per qualche ora lasciandomi
in pace? –
Giuro che prima o poi li uccido.
– Sai dire solo questo. Fa’ qualcosa per risolvere il pro-
blema piuttosto – sbuffa Andrea.
Angela si è appena alzata, ha chiuso la porta del bagno.
Andrea si alza e va a fumare sul balcone. Giulia scrive qual-
cosa su un post-it.
Mi presento: Luca, trentanove anni, scrittore. A breve
solo Luca trentanove anni. Ho la consegna di un romanzo tra
pochi giorni e poche pagine scritte.
Qualcuno lo chiama “blocco dello scrittore”. Ottimisti.
Io non ho propriamente il blocco, io ho la scomparsa dello
scrittore, la morte dello scrittore. Svanito nel nulla.
Un giorno scrivevo, il giorno dopo stop, fine delle idee.
La mano mi è diventata un’appendice morta alla fine del
braccio, uno strumento per impugnare racchette, forchette
e mouse.
E tutto questo, perché ho cambiato editore.
Quello vecchio (buonanima) sapeva esattamente come
farmi scrivere: mai, mai darmi una scadenza. Sapere che avrei

193
potuto scrivere quando avrei voluto mi poneva nella condizio-
ne di scrivere continuamente.
Il mio nuovo editore non ha ben chiaro questo concetto.
Nonostante glielo abbia spiegato tutti i giorni da quando la-
voriamo assieme. Come si può dare una data di scadenza a
una storia che deve ancora nascere, mi chiedo io.
E ora eccomi qui a mangiare biscotti alla vaniglia in sa-
lotto, grasso e senza idee.
Angela passa distratta, prende la borsa che ieri ha lascia-
to in cucina.
– Io vado, ci vediamo per pranzo – mi bacia la fronte, ruba
un biscotto dalla scatola semivuota che ho in grembo e va via.
Andrea rientra in salotto.
– Allora? Come ci organizziamo per oggi? –
Suona il citofono. Giulia e Andrea mi fissano. Butto un
occhio sull’orologio alle loro spalle. Le otto.
– Chi è? – rispondo con voce titubante.
– Il vicino di casa. –
Potrà sembrare strano che il mio vicino di casa parli di lui
in terza persona. Beh, sembra strano anche a me.
– Ci sono dei grossi problemi – esordisce calpestando il
“Welcome” rosso del mio tappetino.
Lo guardo interrogativo.
– Grossi problemi – ripete.
Giulia si fa avanti.
– Quali problemi? –
Il signor vicino di casa, che per intenderci non ho mai
visto, mi guarda dritto negli occhi, prende un biscotto alla
vaniglia (con mio grande disappunto) e si lascia cadere pe-
santemente sul divano.
– Grossi problemi inspiegabili – sussurra scuotendo la
testa e continuando a guardarmi.
Comincia a girarmi leggermente la testa. Questa giornata
non promette nulla di buono. Vado verso il frigorifero a pren-
dere un po’ d’acqua e sbircio il post-it scritto poco prima da
Giulia.
“In trappola”.

194
Bevo direttamente dalla bottiglia, cosa che odio. E anche
Andrea lo odia, ma è impegnato a parlare con il vicino di casa
di grossi problemi inesistenti.
Ho cominciato a scrivere quando avevo diciassette anni.
Una dote innata, diceva mia madre mentre mi aggiustava i
capelli. In realtà ero solo un ragazzino ricoperto di acne e
pieno di complessi che non poteva far altro che scrivere.
Di nuovo il citofono, stavolta risponde Giulia.
– Chi è? –
Lei mi guarda, copre la cornetta con una mano e mi sus-
surra con un filo di voce: – Sono i carabinieri. –
Corro al citofono e li faccio salire. Il vicino di casa conti-
nua a ripetere che ci sono grossi problemi.
Un carabiniere si affaccia alla porta.
– Buongiorno dottore. –
Non sono dottore.
– Buongiorno, posso fare qualcosa? –
– Eravamo di pattuglia qui sotto e abbiamo deciso di sa-
lire. –
È solo. Un ragionamento che non fa una piega. Mi siedo
visibilmente stordito.
– Scusi ma non la seguo. –
– In realtà c’è anche il mio collega da qualche parte. Io
stavo seguendo qualcuno ma poi, non so cosa è successo, mi
sono ritrovato qua. –
Si toglie il cappello blu e si siede in cucina grattandosi la
testa e osservando Giulia con fare tutt’altro che casto.
Comincio a sudare freddo. Andrea si accende una siga-
retta, il vicino mangia i miei biscotti, il carabiniere si gratta la
testa e Giulia continua a scrivere post-it.
– Avrei molte cose da dire – sospira Andrea.
– Sapessi io! – gli fa seguito il vicino di casa.
– Ascoltate! – sbotto all’improvviso.
Tutti i presenti nella stanza mi fissano impazienti di sen-
tire ciò che ho da dire.
– Io devo scrivere un libro entro domani. Quindi potreste
gentilmente lasciarmi solo in casa mia? –

195
Pronuncio queste ultime due parole inclinando legger-
mente il tono della voce, quasi isterico.
– Ah, lei è uno scrittore? – chiede il carabiniere.
– Grossi guai! – si lamenta il vicino di casa.
– La smetti di scrivere idiozie? – fa Andrea.
– La smetti di guardarmi? – ribatte Giulia.
Vado nello studio e provo a concentrarmi sul foglio bian-
co da riempire. Arriva Giulia e si siede alle mie spalle. – Po-
tresti parlare d’amore. –
Chiudo gli occhi spazientito.
– Amore – ride sarcastico Andrea che ci ha raggiunti.
Alle nostre spalle, risuona improvvisa la voce del carabi-
niere.
– Senta, ma è uno scrittore di gialli lei? Di noir? Omicidi,
inseguimenti, cose così? –
– Io non ci voglio entrare in questa storia! – urla il vicino
di casa dal salotto.
Il citofono. Stavolta nessuno sembra interessato ad apri-
re. Dopo pochi istanti, mentre qualcuno inserisce le chiavi
nella serratura della porta di casa, raggiungo la cucina pen-
sando al mio foglio ancora inconfutabilmente bianco.
– Con chi parli? – Angela entra, dà un colpo alla porta
con un piede e posa la spesa in cucina.
Resto in silenzio, impietrito.
– Luca, con chi stavi parlando? –
Andrea, Giulia, il carabiniere e il vicino di casa sono se-
duti sulla poltrona e mi guardano silenziosi. Angela mi guar-
da interrogativa dalla cucina, poi scuote la testa, arresa.
– Ci risiamo – sospira mentre i personaggi del mio ro-
manzo in scadenza restano seduti, in attesa che io mi decida
a raccontare la loro storia.

196
Achab segreto
Giordano Genghini (Bruno)

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.


Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei
la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del
cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero
il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano
dietro. È il potere della pagina bianca, credo.Ti risucchia e ti libe-
ra: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
– Allora? –mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

È domenica. Sono seduta al tavolino del solito caffè di


Venezia con il mio imprevedibile piccolo editore.
Piccolo in tutti i sensi.
– Ecco il suo foglio, Elisa: scriva – mi dice. Mi dà anche
la sua penna mordicchiata come quella di uno scolaro. Posa
la sigaretta e beve la cioccolata con la panna. Si macchia di
bianco i folti baffi neri e la punta del naso.
Sa che adesso scriverò. Sa che le parole mi sgorgheran-
no da dentro (dal cervello e dalla gola) come il caffè dalla
macchinetta. Sa che scriverò di me stessa. Sa che quando le
parole saranno scese sul foglio mi sentirò più libera. Sa che
il candore della carta sarà (come dice lui) sporcato da storie
invendibili al pubblico.

197
Le leggerà e dirà: – Non ci siamo. Questo è uno sfogo e
basta. Non è fiction né letteratura. –
E spegnerà la sigaretta.
– Riproviamo domenica. –
Non so perché dopo il fiasco del mio primo libro insista
a darmi questi appuntamenti. Forse ha inventato una terapia
della scrittura e vuole collaudarla. Forse è sadico o masochi-
sta o sadomaso. Forse vuole portarmi a letto. Mah.
Oggi ha convocato al nostro tavolo anche un ragazzo con
una folta barba e con l’aspetto da hippy sopravvissuto. È più
giovane non solo di lui ma anche di me. Mentre parlano, scri-
vo ma una parte di me ascolta quello che dicono.
L’editore prende un tovagliolo di carta e pulisce baffi e
naso. Riprende a fumare.
– Dunque, lei è… –
– Chiamatemi Ismaele – fa il ragazzo. Ci siamo. Un altro
fuori di testa.
Riprendo a scrivere; le parole scivolano sul foglio e intan-
to ascolto il ragazzo con la faccia coperta da una folta barba.
Sta inventando una storia pazzesca che definisce segreta. Si è
rivolto all’editore per pubblicarla.
Il mio imprevedibile editore gli fa raccontare tutto dac-
capo.
– Ascolti anche lei, Elisa – mi dice, spegnendo improvvi-
samente la sigaretta accesa.
– Questa è la base per un buon libro. Continuerà domani
a usare il foglio per parlare di sé a se stessa. –
Il sedicente Ismaele, fra una bevuta di birra e un avido
morso al panino al prosciutto (offre l’editore) racconta la sua
storia.
Nel suo albero genealogico c’è (a quanto dice) Herman
Melville, che avrebbe messo al mondo suo nonno Tonin Baca
durante il viaggio in Europa. Della cosa, dice, l’inventore di
Moby Dick non parla per evidenti motivi (lo scrittore era già
sposato) né nel diario del viaggio né in nessun altro scritto.
Eppure il sangue di Melville scorre nelle sue vene. Anzi,
tutta la discussa simbologia del romanzo della balena bianca,

198
a suo parere, non si può intendere senza conoscere quello che
sta per dire.
Melville si sarebbe innamorato della sua bisnonna, tale
Dina Mobili (donna grassa e soda come una giovane poli-
nesiana dalla carnagione candida) già sposata a un capita-
no: il lupo di mare zoppo Marino Baca. Dalla passione fra
la bisnonna e Melville sarebbe nato un figlio, Tonin, che lo
scrittore avrebbe voluto riconoscere prima della partenza. O
meglio, della fuga, dato che la coppia sarebbe stata scoperta
dall’indemoniato capitano Baca mentre tentava di allontanar-
si di nascosto.
– Non c’è stato niente da fare – conclude il sedicente
Ismaele. – Il capitano Baca si era impuntato e, dopo aver per-
cosso con un remo la moglie, ha giurato che avrebbe ucciso
chiunque avesse fatto parola di quello che era successo. –
Il figlio di Melville (nonno dell’hippy Ismaele) è stato
così creduto figlio del capitano zoppo Baca.
– Allora? – mi chiede l’editore, accendendo un’altra siga-
retta. – Cosa ne dice, Elisa? –
– Mi sembrano frottole – faccio io – E neanche interes-
santi. Roba da falso gossip letterario. – Riprendo a scrivere.
Ma, che io lo voglia o no, la mia attenzione resta concentrata
sul dialogo fra l’editore e il ragazzo barbuto.
Ismaele infatti continua, mentre sbrana panini e trangu-
gia birra.
– Per un esperto di letteratura come lei, non sarà difficile
capire che la trama del romanzo Moby Dick cela una me-
tafora ontologica a chiave di interpretazione autobiografica:
nella balena bianca si nasconde la trasfigurazione della donna
amata e odiata, la mia bisnonna Dina Mobili, mentre il capi-
tano Achab è l’evidente allegoria del misterioso e insondabile
marito, il capitano Baca. Achab e Baca (come avrà notato)
sono quasi anagrammi. –
Mi aspetto una sgangherata risata dell’editore. Impre-
vedibile come sempre, invece, lui spegne la sigaretta e, con
un tono da investigatore, chiede: – Come è possibile ciò che
lei dice, dato che il romanzo era già pubblicato da Melville

199
nell’anno 1851, sei anni prima del suo viaggio in Italia? –
Il giovane buffone dice soltanto: – Ah. – Butta giù una
lunga sorsata di birra (ne ha davanti parecchie bottiglie) e
riflette.
Riprendo soddisfatta a scrivere, aspettando che l’imbro-
glione sia cacciato dall’editore a insulti e calci nel sedere.
Il ragazzo, che si è evidentemente lasciato crescere la bar-
ba per assomigliare all’antenato scoppia poi improvvisamen-
te in una poderosa risata.
– Che idiota sono! – esclama.
Forse, mi dico, qualche buona intuizione ce l’ha.
Mi smentisce subito.
– Quello che lei dice, editore, chiarisce l’ultimo mistero
che la nostra famiglia non aveva saputo spiegare. – Ed estrae
dallo zainetto quella che sembra essere una foto vecchia di
numerosi decenni.
– Questa è un’antica e preziosa calotipia, cioè un perfe-
zionamento effettuato da William Fox Talbot del dagherroti-
po. Come può vedere (e il barbuto Ismaele mostra la data sul
retro dell’immagine) si tratta di un ritratto del 1849. Le due
persone abbracciate qui fotografate durante il viaggio in Eu-
ropa dello scrittore per pubblicare White Jackets, sono Her-
man Melville e la mia antenata veneziana di cui le ho parlato:
la bisnonna Dina Mobili. –
Non solo l’editore, anch’io resto sorpresa per il colpo
d’ala dell’imbroglione. Mi domando dove voglia arrivare.
L’uomo ripreso presso un ponte sembra proprio Melville, se
non è un suo perfetto sosia. La foto non sembra un falso.
– Chi mai sarà questa donna? – chiedo aggressiva, indi-
cando la grassa giovane dal pallore cadaverico abbracciata a
Melville.
– Anche se lui fosse Melville, nessuno può provare l’iden-
tità di questa balena bianca. –
– Errore – dice lo pseudo Ismaele, affondando i denti
aguzzi in un altro panino, ed estraendo dallo zainetto un’altra
antica foto.
– Ecco la cara bisnonna Dina ripresa pochi anni dopo al

200
matrimonio del fratello, con tanto di cartiglio con indicazio-
ne di nome e cognome dei presenti. Non vi sembra la stessa
persona? –
– Potrebbe. Però… – obietto.
L’editore mi zittisce e mentre gli avventori si voltano a
guardarlo come se fosse impazzito, grida: – Nel 1851 Melvil-
le è venuto sì in Europa, ma non qui a Venezia. –
– Infatti la foto è scattata a Parigi, non a Venezia – dice
pronto il ragazzo. – Non riconosce la Senna? – E indica una
macchia marrone sulla foto.
Nel silenzio, Ismaele affonda il colpo decisivo, rivolgen-
dosi anche a me, che ho smesso di scrivere.
– Se non vi basta, leggete anche queste lettere che vi la-
scio in fotocopia. Sono datate, firmate da Melville e indirizza-
te a Mobili Dina, cioè, nel romanzo, Moby Dick. –
Con aria trionfante, getta due pacchi di fotocopie sul ta-
volo.
– Questo epistolario autografo inedito va dal 1851 al
1860. Fate pure esaminare la grafia di Melville da qualsiasi
esperto: queste sono lettere per la mia bisnonna vergate dallo
scrittore. –
Dopo un violento morso al panino, il pronipote di Mel-
ville esclama: – Per finire, sappiate che sono in possesso an-
che del diario di nonna Dina, in cui parla di ciò che lei pro-
vava per Melville. Vi propongo materiale di prim’ordine per
un best-seller. –
– Non sono convinto che l’investimento sarà coperto dal
ricavato delle vendite – bisbiglia, perplesso, il mio impreve-
dibile editore.
– Cosa vorrebbe di più? – chiede il barbuto giovane.
– Forse un delitto, per costruirci anche un giallo con
l’aiuto dei media? –
– Non mi dispiacerebbe – risponde serio l’editore.
– Accontentato – dice Ismaele Baca. – Il mio bisnonno è
stato sicuramente assassinato dalla moglie, la bisnonna Dina.
Ne parlano le cronache del tempo: è stato trascinato in mare
dalla moglie e lì è annegato, perché non sapeva nuotare. –

201
– Ma non era un capitano? – chiedo.
– E con ciò? Capita – risponde, e tracanna un altro bic-
chiere di birra. Poi continua: – Melville doveva avere con-
tribuito da anni a progettare il crimine, visto che lo anticipa
simbolicamente nel finale del suo romanzo, quando la bale-
na bianca Moby Dick, cioè la bisnonna Dina Mobile, uccide
Achab, ossia il capitano Baca, trascinandolo nel fondo degli
abissi. –
L’editore scatta in piedi come un pupazzetto a molla da
una scatola aperta.
– Stavolta ci siamo. –
Si alza e gira in silenzio intorno al tavolo. Quando si fer-
ma, mi strappa il foglio e legge le parole con cui intendevo
iniziare il mio romanzo autobiografico.
– Basta Elisa, la pianti con questa sua storia. Abbiamo
quello che vuole il pubblico. Vada a casa del dottor Ismaele
Baca e si faccia raccontare tutto. Qualcuno deve scrivere e
lei mi sembra la persona adatta. Domani ci rivedremo con la
vostra bozza e firmeremo il contratto. –
Poi appallottola il mio foglio e lo butta nel cestino della
carta straccia.
– Basta fondersi col foglio: bisogna usarlo. –
Ci saluta e va a pagare il conto. Dalla cassa però si volta
verso Ismaele e gli grida: – Cerchi di ricordare se fra i suoi
parenti c’è anche qualche vampiro. Sarebbe ancora meglio. –
– Adesso siamo in squadra insieme, Elisa – mi dice con
aria furbesca Ismaele, mentre usciamo e ci avviamo alla sua
costosa auto.
– È il caso di dire: nel sedere alla balena bianca – ride.
– Crepi – dico io. – Ma se la cosa non funzionasse? –
– Funzionerà – dice lui. – E in ogni caso ho già preparato
una soluzione di riserva. Ho un altro pacco di lettere della
bisnonna che parlano di ciò che avveniva a letto fra lei e il
capitano Baca. Pronte per essere pubblicate con un’introdu-
zione adatta e un titolo che prende. –
– “Achab segreto”? – gli chiedo.
– “Achab segreto.” – risponde.

202
L’editore ha sempre ragione
Vanessa Navicelli

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.


Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei
la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del
cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero
il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano
dietro. È il potere della pagina bianca, credo.Ti risucchia e ti libe-
ra: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
– Allora? –mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

– Sono stanco! – sbotto io, iniziando a camminare avanti


e indietro.
– Siediti – mi risponde calmo dalla sua poltrona, dietro
la scrivania.
– No, non in quel senso. È da un po’ che cerco l’occasio-
ne giusta per parlarti. Io sono stanco di scrivere gialli, noir,
polizieschi, thriller. Sono stanco di sangue, crudeltà, stupri,
serial killer, inseguimenti e sparatorie. Basta, non ne posso
più! –
– Riassumendo: sei stanco di vendere. –
– Ma no, che c’entra? –
– Certo che c’entra! Perché è con quei libri di sangue e

203
serial killer che hai comprato la villa in Toscana e quella in
Sardegna e tutto il resto che sappiamo. È con quei libri che
si vendono così bene e che i tuoi lettori amano tanto. Vuoi
smettere? Perfetto! Smetti e vai sotto un ponte! –
– Io non voglio smettere di scrivere. Voglio solo cambiare
genere. –
Mi siedo, davanti alla sua scrivania, e lo guardo in cerca
di approvazione.
– E di cosa vorresti scrivere? – chiede il mio editore, spe-
gnendo la sigaretta.
– Di fiori e piante – dico sottovoce.
– Cosa?! –
– Di fiori e piante – ripeto più deciso.
– E chi te lo compra, poi, un libro così? Tua zia Antoniet-
ta e le sue amiche? Vedo già la fila fuori dalle librerie! I tuoi
lettori ti sputeranno in faccia! Tu sei impazzito! –
– C’è una rivista che mi ha offerto una collaborazione.
Ho riflettuto molto. Comincerei con quello e poi… –
Il mio editore scatta in piedi e comincia ad agitarsi.
– Coi tuoi libri sei in cima alle classifiche e vorresti mol-
lare tutto per ricominciare da capo, scrivendo di… fiori? Tu
sei scemo! Ma se sei pure allergico alla natura? In primavera
sopravvivi solo grazie agli antistaminici! Forse sono i primi
sintomi di una malattia mentale. Ti faccio interdire. O ti rico-
vero in una clinica in Svizzera. –
Io tento di intervenire, ma è impossibile trovare un varco
nel fluire del suo discorso.
– A tua moglie l’hai già detto? –
Me lo chiede con una strana luce negli occhi e l’aria di
uno che ha avuto una folgorazione.
– Non… non ancora – balbetto io.
Il mio editore scoppia a ridere.
– Uh, questa scena non me la voglio perdere! Lei, che tiene
di più alle carte di credito che ai vostri figli! E tu che le dici che
molli tutto per scrivere su una rivista… di fiori! – Continua a
ridere. Incrocio le braccia e aspetto, cupo, che la smetta.
Ha smesso.

204
– E tua suocera ce l’hai presente? Quell’irritante donna
che avete parcheggiato in una sontuosa residenza per anziani.
Che fai, te la riprendi in casa come quand’eri un poveraccio?
Tu hai una vaga idea delle tue spese? Lo sai, ad esempio, che
stai pagando 200 euro al mese per far addestrare quel tonto
del tuo cane? Però, certo potresti mandarlo a delle più econo-
miche scuole serali. –
Riprende a ridere. Io, sempre più cupo, mi rimpicciolisco
nella sedia.
– Un’ultima cosa e poi ti lascio al tuo brillante futuro. Ti
ricordi quando lavoravi qua come editor? –
Me lo chiede con voce pacata, come avesse ritrovato d’un
tratto tutta la sua serenità.
– Sì, certo che sì – gli rispondo.
– Ti ricordi la tua scrivania? –
– Sì. All’incirca. –
– Io me la ricordo bene. E sai cosa ricordo più di tutto?
Che era l’unica, di tutto il piano, che non aveva neanche una
piantina! –
–…–
– E sai perché? –
–…–
– Sì che lo sai. –
–…–
– Perché le facevi morire tutte! –
Quanto può essere atroce la verità.
– Però, magari con le piante grasse… – insisto timida-
mente io.
– Ma fammi il piacere! – mi urla contro il mio editore.
– Le piante grasse! –
Poi si alza, mi viene vicino e, paterno, mi appoggia una
mano sulla spalla.
– Facciamo così: tu ora lasci perdere quest’idea malsana
della scrittura “floreale” io vedrò di dare un ritocchino… – ci
pensa un attimo e sospira – un ritocco consistente al tuo con-
tratto, nella sezione “compenso autore”. Possiamo provare in
questo modo? –

205
Abbattuto da tutte le motivazioni avverse alla mia idea,
faccio cenno di sì con la testa e mi alzo dalla sedia.
– Perché quando discutiamo, alla fine, tu hai sempre ra-
gione e io sempre torto? – chiedo con un po’ di spossatezza.
Il mio editore sorride compiaciuto.
– Perché tu sei un artista. E come la maggior parte degli
artisti, hai il dono della creatività, ma sei un disastro con la
praticità. Sei sulle nuvole, nel mondo reale non te la sai cava-
re. È meglio che lasci fare a chi ti sta vicino. –
Mi dà un paio di pacche sulla spalla poi mi porge un va-
setto di violette che teneva sulla scrivania e mi dice: – Tieni.
Consolati con queste! – E sorride.

Esco dall’ufficio con in mano le violette. Con lo sguardo


cupo esco dal palazzo e arrivo al parcheggio. Mi guardo at-
torno: non c’è nessuno.
Inizio a ridere e a saltellare da un piede all’altro. Chiamo
mia moglie al cellulare.
– Tesoro, prepara le valige e prenota la vacanza a New
York per tutta la famiglia! –
Butto le maledette violette nell’immondizia, dopo averci
starnutito su un paio di volte.
Fiori un accidenti!
Sorrido. Cosa si deve fare per ottenere un aumento.

206
L’importanza
di chiamarsi Roberto
Grethel Ingrid Mavrovic'

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.


Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei
la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del
cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero
il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano
dietro. È il potere della pagina bianca, credo.Ti risucchia e ti libe-
ra: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
– Allora? –mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

Va bene, adesso rispondo.


Guardo il mio editore che succhia il filtro della sua si-
garetta come se fosse una cannula di ossigeno e penso che i
suoi buoni propositi di smettere sono pari ai miei di parlare.
A sottolineare questa profonda incapacità momentanea sento
le note polifoniche di Mission Impossibile, la suoneria del suo
cellulare.
– Pronto? Ah Roberto, che fine hai fatto? –
Roberto? Oddio, non sarà mica Saviano? Eh no! Mi ci
manca pure lui. Se c’è una cosa che proprio non mi riesce
è la scrittura d’inchiesta. E poi su che cosa dovrei indagare?
L’ennesima ricostruzione del delitto di Via Poma? La Banda

207
della Magliana coinvolta in qualche altro atto delitto irrisolto?
Beh, forse uno spazio c’è per la copertura del Vaticano dei
preti pedofili.
Oddio, mi sento male, sto vaneggiando e il mio editore è
quasi ai saluti. Mi correggo, ha già salutato.
– Scusami, stavi dicendo? –
– Pensavo… –
Torna Mission impossibile. Respiro.
Lo slider del cellulare scatta nuovamente e il mio editore
mi guarda come a dire che non si può sottrarre.
– Ohi, Niccolò, che mi racconti? –
No, non può essere, Ammaniti, no: scrive troppo bene,
ha un’immaginazione oltre misura, non fa neanche inchieste.
Io vorrei essere lui da una vita, ma come faccio?
A questo punto non mi resta che scappare, inventare
una scusa, andarmene via, lasciare che il tempo faccia il suo
corso.
Purtroppo non ho tempo per spiegarti ma devo proprio anda-
re, scusami ma non posso trattenermi oltre.
Non è che sia una prova di grande dialettica ma d’altron-
de, se l’avessi non mi troverei in questo guaio.
Può andare. Devo solo calcolare bene i tempi.
Proprio mentre sta sul suo caratteristico terzo ciao con la
o finale tronca attacco, mi avvicino alla porta.
E se poi lui è più veloce di me e mi chiede comunque se
la risposta è un sì oppure un no? Reggerebbe dirgli che in
questo momento non sono in grado di rispondere? Neanche
fossi un imputato alla sbarra. Potrei sempre appellarmi al ter-
zo emendamento: anche lui guarda Law & Order e saprebbe
di cosa parlo.
Pagherei per sparire all’istante, vaporizzarmi, come in
un X Files, (quello non l’ha mai visto di sicuro e ne rimar-
rebbe veramente impressionato). Adesso è distratto con
qualcosa che sta scrivendo sull’agenda. Ecco sì, adesso.
Quando mi rivedrà non avrà il coraggio di chiedermi anco-
ra una risposta.
– Cià, cià, cià. – Continua a scrivere mentre mi dice:

208
– Scusami per le interruzioni. Torniamo a te – aggiunge
alzando la testa. Con uno sguardo interrogativo si guarda at-
torno. Si passa la mano sul viso e controlla tutta la stanza.
– Ma dov’è finito? –
Prende la cornetta del telefono.
– Paola, mi scusi, ha visto uscire Alessandro poco fa?
No? No, lasci stare, lo chiamo io più tardi. –
– Non è possibile – mormora il mio editore sprofondan-
do nella poltrona.
Mi guardo attorno e leggo: “Partita calc. richiamare Ro-
berto P. e Niccolò O.”
Non avrei mai pensato che fondersi con un foglio potes-
se essere così noioso.

209
Fondersi col foglio.
Ma non a causa del diluente
per le unghie
Elisa Versiglia

Mi dico che è il momento giusto e devo sbrigarmi.


Certo, sarebbe più facile se ci fosse un foglio di carta: prenderei
la penna e le parole non rimarrebbero incastrate in una vena del
cervello o nella gola; scenderebbero fino alla mano, sporcherebbero
il foglio, ci resterebbero attaccate con tutto quello che si portano
dietro. È il potere della pagina bianca, credo.Ti risucchia e ti libe-
ra: è la tua possibilità di buttarti da un’altra parte.
– Allora? –mi chiede il mio editore, accendendosi una sigaretta.

– Eh, allora – sospiro infelice disegnando con il dito una


margherita immaginaria sul tavolo in cristallo, – lo sai che
nonna Rosa è morta tre mesi fa, sono distrutta. E in fondo al
libro manca solo l’ultimo capitolo. Non puoi pensarci tu? –
Se avessi un foglio di carta lascerei un biglietto sibillino e
via. Tanti saluti a tutti.
Invece.
– Non scherzare neanche. Nei tuoi libri l’ultimo capitolo
è quello decisivo, con il colpo di scena e tutto. Io non sarei
mai in grado. Dai, dobbiamo chiudere nel giro di una deci-
na di giorni. E va bene che l’editing sul resto l’ho già fatto,

210
ma insomma se riesci a non farmi arrivare in stampa mentre
scrivi l’ultimo paragrafo te ne sarei grato. –
– Ma io… –
– Niente ma e niente ulteriori scuse. Riprendere a scrive-
re ti distoglierà dal dolore. Su, ora vai a casa, o in biblioteca,
o dove credi, scrivimi queste ultime venti pagine e non se ne
parli più. –
“Ghost writer”.
Premo Invio.
Non è il film, non è il libro, non è la serie tv. (Hanno fatto
anche una serie tv? Pazzesco!)
Comunque: remunerazione e crediti. Non pensavo gua-
dagnassero tanto.
Su internet dicono tutto dei ghost writer tranne come
procurarsene uno.
Accidenti!
Provo in un altro modo.
“Come diventare scrittori di successo.”
Invio.
Ah, addirittura un decalogo! Vediamo.
Punto primo: una grande casa editrice non è sempre sinoni-
mo di maggior successo. Punto secondo: Non trascurate i piccoli
editori raffinati e con fama di scoprire talenti (e voi siete tra que-
sti)...
Grande consiglio ma non mi serve.
Punto terzo: i critici non incideranno mai sulla vostra fortu-
na commerciale, molto sul vostro buonumore.
Niente. Ricominciamo da capo.
L’unico modo per imparare a scrivere è scrivere.
Vabbè, grazie tante.

Sono passate due ore. A mali estremi, estremi rimedi.


– Pronto? –
– Lalla, sono io. Devo consegnare il libro finito tra dieci
giorni e non so come uscirne. Idee? –
– Hai provato a fare le unghie a qualcuno della casa edi-
trice? –

211
– Ma mica posso usare quei contatti! Nonna potrebbe
tornare viva solo per ammazzarmi. –
– Internet? –
– Sono ore che navigo inutilmente, non ho trovato uno
straccio di indirizzo, nome o consiglio utile. –
– Prendi tempo, di’ che sei distrutta dal dolore. –
– Già fatto. Non basta, con il Generale. –
– Seduta spiritica? –
– Dici che la nonna sarebbe disposta a dettarmi le ultime
venti pagine dall’aldilà? –
– Beh, te le ha sempre dettate dall’aldiquà, che differenza
fa? –
– Non so, forse che prima non dovevo ricorrere ad una
medium. –
– Che te ne pare di un corso intensivo di scrittura? –
– Dici che potrei imparare in una settimana e poi scrivere
le pagine mancanti? –
– Non so, prova a chiedere a loro. –
– E come faccio con l’anonimato? –
– Già. E dire la verità? –
– Ma secondo te mi arrestano? –
– Beh, al massimo in carcere farai la ricostruzione con il
gel alle compagne di cella. –
– Bella consolazione. Ma tu non hai un cugino che lavora
alla Polifemo Investigazioni? Potrei farmi aiutare da lui… –
– Aiutarti a far cosa, a evadere o a trovare l’assassino,? –
– Beh, se capisco chi sarebbe dovuto essere l’assassino e
ci mettiamo sotto, magari due, tre paginette le buttiamo giù.
Poi la metto sul patetico, sai, il dolore e tutto il resto, e magari
il Generale le rende decorose. Che dici, può andare? –
Foglio bianco, penna a gel rosa. Margherite, per comin-
ciare. Tutte le parole incastrate nel cervello o nella gola non
vogliono uscire.
Penna a inchiostro viola. Lilla, tanto per restare in tema
di colori.
Ma assassini niente.
Nonna, nonna.

212
Già è dura senza le tue crostate condite di risate fragranti,
senza le tue unghie da decorare con i colori dell’arcobaleno,
senza le tue ipotesi su tutti quelli che passano in strada.
Quasi non sento più l’odore della tua crema per la notte,
non ricordo più il tuo modo di cominciare sempre le frasi con
il no, la tua eleganza d’altri tempi.
Ma pure senza assassino dovevi lasciarmi?!
L’unica cosa certa è che non può essere il maggiordomo.
Troppo banale, mi hai sempre ripetuto.
Ripenso ai tuoi ultimi momenti. Avevi indosso la mantel-
lina di lana rosa e sorridevi, come d’abitudine. Mi hai chia-
mata e mi hai detto: – Nora, il vicino di casa! – e poi te ne sei
andata in un soffio al sapore di borotalco. Chissà cosa volevi
dal vicino di casa. Te ne dovevi essere innamorata… ne par-
lavi anche nel libro!

213
Oggi hai una purezza che non sapevi di avere.
Perché hai un desiderio semplice:
la dolcezza più bianca, l’abbandono più morbido.
Per crema di yogurt bianco müller esaudirti è così facile
che ogni volta vuole darti qualcosa in più.
Oggi è l’ispirazione per una storia da raccontare.
Ti basta una goccia di pura crema di yogurt bianco müller.
Capitolo 7

Rinascere
Stamattina si è svegliata presto.
Un misto di ansia e gioia ha mosso tutti i suoi gesti:
ha fatto il caffè e per sbaglio
ha versato un po’ di zucchero nel lavandino.
Non le è importato. Il giornale era ancora sul tavolo
e quando si è girata per prenderlo ha alzato gli occhi sulla finestra
e ha visto la neve. Si è avvicinata al vetro: una pioggia gelata,
bianca, cadeva nel cortile a fiocchi spessi.
Non è riuscita a smettere di guardare.
Qualcosa ha cominciato a sciogliersi dentro di lei
e a scorrerle lungo le braccia, le gambe.
Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei.
E non è che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza.
Solo, non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.
Ce n’est qu’un début
Maria Sardella

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha


mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’
di zucchero nel lavandino. Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per pren-
derlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è av-
vicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a
fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha
cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le
gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è
che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo,
non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

Non c’è stato bisogno di caricare la sveglia. Sarà una matti-


na piena di cose da fare, questa. Eva ha calzato eccitata gli anfibi
senza allacciarli e per questo è inciampata nei lunghi lacci con la
zuccheriera in mano. Un po’ di zucchero si è versato nel lavello.
Per fortuna che la tazzina l’aveva già appoggiata sul ripiano.
Eva ci pensa un istante, poi con noncuranza lo fa scivolare giù
nello scarico, aprendo il rubinetto.
La cucina di sua madre riluce come la superficie del prato,
imbiancato di fresco dalla neve, che Eva ha appena intravisto,
sollevando le tendine a fiori e frutta. Deve far presto. Presto,
prima che il sipario del teatro famigliare si apra ed entrino

221
in scena tutti i personaggi della commedia: madre che urla,
padre che assiste con occhi tristi, fratello troppo piccolo
per avere una parte di rilievo. Potrebbe solo dire: – Ci sono
anch’io –, ma ha capito che il copione prevede solo compri-
mari e si rifugia tra i mostriciattoli della cesta dei giochi nella
sua stanza. L’ha fatto altre volte con l’intuizione della bufera
che i bambini, come gli animali, hanno.
E la figlia? Lei ha deciso: è ora di partire. È ora di lasciare
l’ovatta del nido, i libri della grande biblioteca di casa, gli abiti
puliti e stirati impeccabilmente dalla mamma, i buoni voti a
scuola, le medaglie al merito accumulate, il futuro luminoso
già tracciato in ferro e marmo.
Comincia il trambusto nella stanza accanto, diventa ru-
more sordo di cose spostate, di voci che si accavallano.
– Aspetta, ci parlo io. –
– No, è tutto inutile, ha deciso. –
Il caffè scende a ristorare la gola di Eva arsa dal pianto,
bruciata dal fuoco delle parole uscite fuori come schioppetta-
te. Mai bevuto caffè prima, ma stamattina ha bisogno di una
sferzata di lucidità per proseguire, per andare avanti.
Prende dal tavolo il giornale e lo butta nella spazzatura.
Il prestigioso concorso, annunciato in prima pagina, si farà
senza di lei.
La cucina si anima di voci lontane, l’eco pallida ed eva-
nescente dell’infanzia, dell’adolescenza che fugge via a passi
svelti, scalpitanti come un giovane puledro.
– Sai cosa mi ha detto tua figlia oggi? –
Il padre si mette in allerta. Quando sua moglie dice – Tua
figlia – comincia sempre a preoccuparsi.
– Mi ha chiesto un borsellino con dei soldi. –
– Ma ha solo tre anni! –
– Sì, per i suoi bisogni. Mi ha detto che certo, non le fac-
ciamo mancare niente, ma “Sai, mamma, io voglio decidere
cosa e quando spendere”. –
Il padre ride; si compiace dell’intraprendenza del suo an-
gioletto biondo.
– Giorgio, la bambina non c’è! –

222
La voce di sua moglie è piena di terrore.
– Era in cortile a giocare e adesso non la vedo più! –
L’hanno cercata per ore nelle strade adiacenti alla casa:
Eva sembra sparita nel nulla. Si è fatto quasi buio. La pioggia
scende lugubre da un cielo pesante e gravido di umidità.
Hanno chiamato la polizia. I cani ansimano nella luce
fioca di un giorno di novembre.
– Bisogna far presto, con l’oscurità dovremo interrompe-
re le ricerche. –
Il padre in una direzione, la madre nell’altra. Anche gli
zii e i nonni: tutti sguinzagliati nell’affannosa ricerca. A piedi,
lungo i sentieri deserti, tra le cascine alla periferia della città.
La madre, straziata, urla il nome della bambina; i richia-
mi si perdono al di là dei fossi e delle marcite, al di là del
tronco dei pioppi grondanti.
Nelle vicinanze c’è una casa di cura per malati mentali.
I malati escono liberamente, capita spesso di incontrarli nei
negozi e nelle botteghe del quartiere.
La paura che uno di loro possa aver incontrato e preso
Eva attraversa le viscere della donna e le fa contrarre l’utero
dove nuota, ignaro e pacioso, un altro bambino. E poi, quan-
do ormai non se l’aspettava più, la vede.
– Eva! –
Cammina tranquilla lungo il guardrail della tangenziale,
verso l’autostrada: un montgomery rosso e stivaletti di pelle
infangati.
– Dove stavi andando? La domanda muore in gola, men-
tre abbraccia la bambina con rabbia smorzata dal candore
della risposta.
– Mamma, avevo i fiammiferi in tasca per il buio e il fred-
do. Così potevo accendere il fuoco. Stavo andando a Milano,
sai, la grande città mi aspetta. Io voglio partire. –
I poliziotti con i cani ancora sotto casa, nervosi per la
ricerca andata a vuoto. Anche loro hanno respirato di sollievo
vedendole arrivare mano nella mano.
– Per fortuna signora che l’ha ritrovata, qui è pieno di
cantieri e di sterrati per le fondamenta. –

223
– Complimenti signorina! –
Il presidente della Commissione della Maturità ha voluto
stringere la mano a quella studentessa dalla faccetta angelica.
– Lei è stata veramente brava! Si farà strada nella vita! –
Già, la vita. Eva china la testa e sente un pizzicorino fa-
stidioso sul collo. Il pomeriggio prima si è rasata i capelli fino
a metà testa. I capelli sono lunghissimi, sciolti non lasciano
intravedere lo scempio. La vita prude, pensa e sorride luci-
ferina.
– Ma domani hai gli esami! –
La voce di sua madre è esasperata.
– Che cosa hai fatto? –
– E sì, la tua angelica bambina va all’esame di maturità a
farsi dire quanto sia intelligente, quanto sia bella. Sono stanca
di questa faccia da brava ragazza, insulsa e anonima. –
I capelli giacevano inerti in un morbido e vaporoso cu-
scino sul pavimento. E qualche giorno dopo Eva sfoggiava
una cresta fucsia, verde e bluette. La scatola della colla di
pesce accartocciata in un angolo del bagno.
Erano anche andate insieme al cinema, la sera stessa del-
la metamorfosi, lei e sua madre. La madre aveva pensato che
lo spettacolo l’avrebbe dato la figlia, conciata a quel modo,
ma lei non l’avrebbe lasciata da sola sotto lo sguardo divertito
e irridente degli spettatori di “Intervista col Vampiro”.
Le sembrava di doverla difendere dal giudizio degli altri,
quelli normali, con un lavoro decoroso, una reputazione da
difendere. Quelli come lei e Giorgio.
I fotogrammi incalzano, il sonoro si fa assordante. Lo
spazio di quella cucina le dà un senso di claustrofobia. La
cucina, il soggiorno, lo studio, la cameretta: celle di una pri-
gione. Lei vuole vedere il mondo. Andrà via senza garanzie,
senza paracadute.
Lei e il mondo faccia a faccia, corpo a corpo. E la vita da
prendere a morsi.
Eva appoggia la tazzina vuota nel lavello, stringe i lacci
degli anfibi, li allaccia facendoli girare due volte attorno al
polpaccio. Infila il giubbino stinto e si raddrizza il piercing

224
nella narice sinistra. Irrompe nel soggiorno, afferra le cinghie
dello zaino. Una montagna viola e nera sulle sue spalle di sil-
fide rocciosa. Il padre ha il braccio sulle spalle della mamma.
Un abbraccio fugace e pudico nel silenzio del distacco.
Eva apre la porta d’ingresso, incespica sullo stuoino pun-
teggiato di cristalli evanescenti. Esita. Volge gli occhi al cielo
di perla che regala coriandoli festosi. Si chiude la porta alle
spalle, e il rumore copre per un attimo, solo un attimo, il mar-
tellare incessante del suo cuore.
Avanza con cautela sul vialetto del cortile, passerella im-
macolata del suo debutto. Avverte su di sé il calore dell’alito
di sua madre, che appanna i vetri della finestra della cucina,
i dardi lampeggianti dei suoi occhi. Nella neve le impronte
profonde degli anfibi sembrano palpitare di uno spavaldo ar-
rivederci.

225
Matrioska
Luca Manzo

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha


mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’
di zucchero nel lavandino. Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per pren-
derlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è av-
vicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a
fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha
cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le
gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è
che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo,
non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

La neve cade e i suoi fiocchi indugiano e incespicano


nell’aria prima di fondersi a terra con gli altri. Sorseggia il
suo caffè, dà uno sguardo fugace al lavandino: quei granuli
bagnati le ricordano la sabbia bianca e la sabbia le fa pensare
a luoghi lontani e a una vita nuova.
Quando era arrivata stava fuggendo da una vita ormai
impossibile. Da mani divenute sempre più pesanti sul suo

226
corpo leggiadro, da una favola divenuta un incubo, da un
principe diventato orco. Fuggiva dal tempo sottratto e dalla
felicità rubata.
Adesso non fugge più.
Se n’era andata cercando un posto sicuro e tranquillo e
la casa in montagna sarebbe stata il posto ideale, la casa delle
vacanze di un tempo e dei giorni felici. Lui non vi aveva mai
messo piede e non sapeva neanche dove fosse precisamente.
Quando era andata via di casa la paura che lui la ritro-
vasse era come un chiodo fisso. Fortunatamente non era sola,
con lei c’era Lillo: il suo migliore amico, novantuno kg di
pelosa dolcezza, un bestione docile dagli occhi intelligenti che
dall’infanzia non l’aveva mai lasciata. Quel San Bernardo era
stato il paziente compagno di giochi e il suo confidente.
In quel tempo trascorso lì aveva riflettuto molto. Pian
piano la paura era passata e un’idea confusa si era schiarita
nella testa.
Poi era arrivato lui: si era materializzato in casa con la sua
rabbia. Lei non si era spaventata: sapeva cosa fare. L’aveva
insultato, provocato e aveva aspettato che iniziasse, lui c’era
andato giù pesante come lei aveva previsto.
Un rivolo di sangue era uscito dalla bocca, poi, più fluido
dal naso. Era la prova che voleva.
Lui si era distratto un attimo, lei aveva afferrato il posa-
cenere appuntito messo lì, a portata di mano, prima che arri-
vasse. L’aveva colpito in testa con forza, lui aveva gridato, ma
non era svenuto; pronto a disarmarla era tornato alla carica.
Lillo però l’aveva impedito. Inaspettatamente sotto i suoi
occhi increduli aveva visto il suo cucciolone trasformarsi in
una belva: gli era balzato addosso con occhi belluini. L’aveva
azzannato ripetutamente e i suoi canini erano arrivati fino
alla giugulare.
Un mare di sangue, poi il silenzio.
È andata meglio del previsto, pensa. Lillo abbaia e si agita
ancora nell’altra stanza, si calmerà presto. L’immagine che
l’ossessionava di lei davanti a un giudice a provare la legitti-
ma difesa è svanita proprio come stava svanendo quell’incu-

227
bo. Lillo non avrebbe mai pagato quell’omicidio e nessuno
avrebbe mai sospettato.
D’improvviso sente una voce chiamare il suo nome come
un’eco lontana, è una voce femminile, apre gli occhi e vede
davanti a sé il volto della sua compagna di cella, si sente smar-
rita, guarda quelle pareti grigie e quel cielo di cemento che
ormai sono la sua casa e capisce di aver sognato.
– Fai presto, la guardia ti sta aspettando fuori per accom-
pagnarti dalla psicologa – le dice la compagna.
– Ho fatto di nuovo lo stesso sogno, è da una settimana
che mi perseguita. È tutto così assurdo: la casa in montagna,
quella dove trascorrevo le vacanze da ragazza; Lillo il mio
cane ormai morto da quindici anni e io… –
La sua voce viene strozzata dalle lacrime, nasconde
il viso in una maschera di dita. La psicologa la guarda con
un’espressione che non lascia trapelare emozioni.
Lei continua singhiozzando
– Io non uccido mio marito, non uccido Franco, non sono
io a farlo! È tutto così strano e reale allo stesso tempo che ogni
volta mi sveglio sempre più confusa. Che significa? –
La psicologa del carcere congiunge le dita appoggiando i
gomiti sulla scrivania, socchiude un attimo gli occhi come se
stesse riflettendo, poi li riapre e inizia a parlare.
– Vedi Elena devi sapere che l’inconscio è molto potente.
È quella parte della mente in cui si trovano contenuti psichici
rimossi e i contenuti stessi possono riaffiorare nei sogni in
forma simbolica. Per farti un esempio è come se fosse un
ripostiglio dove noi nascondiamo e riponiamo tutti i nostri
più reconditi desideri e paure che consciamente spesso non
sappiamo neanche di avere e quando sogniamo la porta di
questo ripostiglio si apre liberandole. Ti senti in colpa per
avere ucciso tuo marito tanto da sognarlo come un mostro
che ti maltrattava e picchiava: ma tutto per giustificare il suo
assassinio. Lillo il tuo adorato cane che da bambina era il tuo
compagno di giochi e forse con la sua mole riusciva a darti un
senso di protezione, nel sogno torna in vita per proteggerti ed
è lui a uccidere tuo marito liberandoti così dalla colpa. Tutto

228
questo avviene nella casa dei tempi felici, come mi hai spie-
gato tu, il posto sicuro e tranquillo dove desidereresti trovarti
adesso che sei costretta a vivere in questo che di certo non è
un luogo gradevole. Per quanto riguarda altri elementi come
la neve o lo zucchero, non so bene: non esiste un linguaggio
universale dei sogni, ogni simbolo è soggettivo alle proprie
esperienze. Potrei ipotizzare che la neve indica il cambiamen-
to, la rinascita; lo zucchero che cade nel lavandino potrebbe
simboleggiare l’omicidio commesso: sai di aver fatto un erro-
re, ma tutto ciò non importa perché è stato liberatorio e ti fa
pensare a una nuova vita. –
Lei rimane a bocca aperta pensando a quanta verità c’è
in quelle parole, poi accade qualcosa di strano: più la guarda
e più nota che si assomigliano, anzi sono identiche.
La psicologa è lei.
Un senso di inquietudine l’assale mentre al fianco della
dottoressa appare Franco che le sorride e le dice: – Svegliati
Elena, svegliati! –
Lei apre gli occhi e vede Franco in piedi davanti a lei.
– Si è fatto tardi, ti sei addormentata sul divano mentre
leggevi – le dice accarezzandole delicatamente i capelli. Elena
si guarda intorno: è a casa sua. Sul tavolino accanto al divano
c’è il posacenere pesante e appuntito. Un brivido le percorre
la schiena.
Poi vede il libro che leggeva caduto a terra mentre dormi-
va: Freud, “L’interpretazione dei sogni”. Franco lo raccoglie.
– Anche quando non lavori leggi questa roba – le dice
sorridendo.
Lei si alza ancora un po’ stordita, abbraccia suo marito e
gli stampa un bacio sulle labbra.
– Andiamo a letto. –
– Sì, avviati, adesso ti raggiungo, devo fare una cosa –
risponde.
Lui esce dalla stanza, lei afferra il posacenere, si dirige
verso la cucina e lo getta nel cestino dei rifiuti. Tira un sospiro
di sollievo, poi si gira: come un fantasma vede Lillo davanti a
lei con il muso sporco di sangue e la lingua che gli ciondola.

229
Vene di neve
Simone Carabba

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha


mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’
di zucchero nel lavandino. Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per pren-
derlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è av-
vicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a
fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha
cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le
gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è
che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo,
non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

C’è Carlo, suo marito, che urla e chiama il suo nome, ma


Anna è immersa in un freddo così avvolgente da togliere il
fiato.
La finestra la proietta in una colata di neve candida. An-
che i rumori che ne collezionavano l’udito si spengono fino
ad affievolirsi. Un silenzio di cristallo le si posa sull’anima.
È così strano come quella neve in realtà faccia l’effetto di
un camino, del crepitio di un fuoco.
Fuori dalla finestra si rincorrono due passeri, esibendosi

230
in ascensioni e picchiate degne del miglior aviatore. Forse c’è
anche un angelo nella neve: gli occhi azzurri, le ali di latte.
Mentre Anna sente la voce di Carlo sempre più distante,
rimane affascinata dalla monotonia del bianco, fino a perder-
si in un buio di marmo.
Ritorna con la mente a quando era bambina, a nemmeno
un anno. Le vengono in mente i respiri, le facce buffe dei suoi
genitori, le farfalle sul lettino. Allunga una mano nei ricordi.
Ora si vede bambina, a otto anni, i regali di Natale sotto un
albero gigante e pieno di luci sfavillanti.
Aveva un sorriso fra il radioso e l’ebete.
Ricorda quell’albero. Ricorda il nonno che lo ha tagliato.
– Anna –
La voce proviene dalla cucina, ma Anna adesso è una
monella di quattordici anni che si passa strisce di rossetto
sulle labbra, gli occhi marcati di matita e rimmel.
Fra i ricordi c’è Marco e il primo bacio dato davanti alla
chiesa. Baciare sotto la croce sembrava così eccitante, un atto
di sfida verso un tabù pesante come il sesso.
– Anna! – Ancora Carlo che grida il suo nome dalla cu-
cina. Ma cosa vuole?
Anche perché adesso Anna ha venti anni, è nel pieno del-
la vita, dello studio, dell’amore. A vent’anni passava le gior-
nata all’università. Aveva provato anche a fumare, ma poi,
sostenuto l’ultimo esame, aveva smesso così come aveva co-
minciato.
I trent’anni sono arrivati in un baleno, vincendo la con-
correnza del tempo. I capelli pettinati in modo diverso, il
trucco più sottile, gli occhi nascosti da un paio di lenti.
E poi? Non ricorda più.
Sa solo che è domenica, che si è svegliata da poco e ri-
corda perfettamente i gesti che ne hanno accompagnato il
viaggio dalla camera da letto alla cucina: ha fatto il caffè e
per sbaglio ha versato un po’ di zucchero nel lavandino. Poi
il giornale sul tavolo e la neve. Già, la neve: un freddo che è
sempre più gelido.
Si guarda le mani: sono blu come il resto della pelle. Ha

231
le vene d’inchiostro. Si gira verso il salotto per cercare Carlo.
Lui è in pigiama davanti al divano, in ginocchio. È agita-
to tanto da tremare. Capisce che sta piangendo dal sussulto
delle spalle.
Anna decide di avvicinarsi, mentre le sue mani continua-
no a diventare cianotiche. Ha gli occhi pesanti come lastre di
vetro.
– Carlo? – adesso è lei che chiama, ma lui non risponde.
Lei allunga una mano fino alla spalla destra del marito. Nel
tentativo di afferrarla, la trapassa come se fosse inconsistente.
Si spaventa e la ritrae. Si sporge: sul divano c’è il corpo di una
donna, sdraiata e senza battiti.
– Anna – la chiama Carlo con le lacrime appese alla
bocca.

232
L’odore della neve
Francesca Baraldi

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha


mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’
di zucchero nel lavandino. Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per pren-
derlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è av-
vicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a
fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha
cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le
gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è
che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo,
non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

Tutte le mattine, da un anno a questa parte, il suo risve-


glio è stato lo stesso. Mano tesa verso l’altra parte del letto, il
vuoto ad accoglierla e poi la consapevolezza che le piombava
addosso.
Lui non c’era più.
E allora si affidava a quel rituale quotidiano che aveva
inaugurato il primo giorno dopo la sua morte e che la teneva
a galla da allora. Doccia di prima mattina (perché a lui pia-
ceva svegliarsi così), capelli sciolti (come piacevano a lui),

233
caffè amaro (proprio come lo prendeva), scorsa veloce al
giornale.
Quel giornale. Con la data di quel giorno.
“Incidente mortale uccide un uomo in procinto di sposarsi.
M. B., di 32 anni, stava guidando…”
E prima di andare al lavoro il momento di contempla-
zione del suo armadio, dei suoi pantaloni dal taglio troppo
classico, delle sue cravatte troppo sgargianti: tutto conservato
come un reliquiario.
Ma ieri sera qualcosa è cambiato.
Ieri sera l’ha sentito nell’aria. Odore di neve.
Lei gliel’aveva sempre detto che la neve si percepisce pri-
ma, dall’odore, e lui l’aveva sempre presa in giro per questo,
e si era poi rifiutato di ricredersi anche quando in effetti la
nevicata seguiva all’allarme olfattivo che lei gli aveva dato.
L’ultima volta che aveva nevicato loro stavano progettando
il matrimonio, e si erano fermati, abbracciati, a guardare il
candido manto che aveva ricoperto il cortile.
– Ci ho preso anche stavolta, visto? –
– È una pura coincidenza. La neve non ha odore. –
– Perché non vuoi ammettere che ho ragione? –
– Perché avrò tutta la vita matrimoniale per farlo, volente
o nolente. Mica inizierò adesso che sono ancora libero, no? –
– Chissà quale scusa troverai, dopo, pur di non darmi
ancora ragione… –
Ieri sera quando ha sentito quell’odore nell’aria, si è vol-
tata verso di lui, per dirglielo, mentre rientrava da lavoro e ha
scoperto che lui non c’era. Ha scoperto che era già un anno
che lui non c’era e che lei ancora continuava a voltarsi verso
di lui.
Allora ha deciso. Ha chiamato alcuni amici che l’hanno
subito invitata a far loro compagnia, felici che si fosse final-
mente decisa a uscire dal suo guscio. Ha passato una bella
serata fuori di casa, per la prima volta dalla morte di lui.
Ha anche flirtato un po’ e quando si è fatta accompagna-
re a casa da quel belloccio moro, ha finto di non accorgersi
che nel bacio della buonanotte lui aveva sfiorato l’angolo delle

234
sue labbra e ha accettato il suo numero di telefono, che ora è
appeso al frigorifero con una calamita.
Forse lo richiamerà.
Poi stamattina, quando si è svegliata, non ha allungato la
mano, non ha dovuto mettere a fuoco la realtà. Non ha fatto
la doccia (lei preferisce lavarsi alla sera, perché le concilia il
sonno), ha legato i capelli (perché si sente molto più fresca
così), ha zuccherato abbondantemente il caffè (perché nulla
è mai abbastanza dolce per lei), ha contemplato il lento scen-
dere di quei soffici fiocchi.
Il frastuono nell’altra stanza sta crescendo e capisce che
è il momento di andare a controllare. Quando apre la porta,
trova la donna delle pulizie completamente sepolta sotto un
cappotto color cammello che lei ha sempre odiato e altri abiti
che appartenevano a lui.
– Mi scusi, signora, sono scivolata. –
– Ce la fai a portare via tutto entro oggi? –
– Dovrò fare un po’ di viaggi, ma sì. È un bel gesto di
altruismo, quello di donarli a chi ne ha bisogno. –
Lei sorride. Non si tratta di altruismo e lo sa.
– Stai uscendo? – le chiede, vedendola chiudere un gros-
so sacco pieno di vestiti.
– Faccio il primo giro. Le serve qualcosa? –
– Aspetta. –
Torna in cucina, prende il giornale, legge un’ultima volta
quel titolo, lo accartoccia e lo porta di là.
– Butta anche questo, per favore. –
La donna annuisce, inserisce il quotidiano nel sacco e poi
se ne va. E lei resta lì, a guardare la neve. Alla fine, si può dire
che lui l’ha fregata.
– Perché non vuoi ammettere che ho ragione? –
– Perché avrò tutta la vita matrimoniale per farlo, volente
o nolente. Mica inizierò adesso che sono ancora libero, no? –
– Chissà quale scusa troverai, dopo, pur di non darmi
ancora ragione… –

235
Prendi tre, paghi uno
Silvia Seracini

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha


mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’
di zucchero nel lavandino. Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per pren-
derlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è av-
vicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a
fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha
cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le
gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è
che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo,
non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

Torna al tavolo e gli occhi le cadono sul giornale ancora


aperto sull’inserto promozionale. Raccoglie con una mano
qualche granello di zucchero i cui cristalli dilatano i colori di
quella pagina, di quell’offerta imperdibile: “prendi tre, paghi
uno”.
Non aveva perso tempo e aveva chiamato subito il super-
mercato. Il suo, quello che con un minimo sovrapprezzo ti fa
le consegne a domicilio. I furgoni erano arrivati dopo poche
ore per consegnare i pacchetti.

236
Raccoglie lo zucchero sul palmo della mano e lo con-
fronta con i grani di neve, in controluce. Poi strofina il palmo
sulla guancia, in una ruvida carezza che diventa sempre più
calda e viscosa. Dall’esterno del terrazzino i sacchi della spaz-
zatura gonfi di pacchetti vuoti sembrano premere sul vetro
della finestra e sulla coltre che comincia a coprirli.
Loro, i bambini, erano come impazziti. Ci avevano mes-
so poco a svuotare il contenuto delle confezioni, fra gridolini
e risate. Era da troppo tempo che non li sentiva più ridere.
– Ma davvero possiamo, mamma? – le avevano chiesto
sgranando i loro occhi scuri.
– Certo. E fatelo adesso che non c’è vostro padre – si era
sentita rispondere.
– Ma se lui dopo… – la più grande aveva abbassato gli
occhi sul pacchetto mezzo aperto che stringeva fra le dita.
Lei aveva sorriso incoraggiante.
– Forza, prima che ritorni. Ci penserò io a pulire, dopo. –
Aveva allungato meccanicamente le maniche della vesta-
glia per coprire le ombre scure sui polsi.
Dopo lo svuotamento della prima cinquantina di pac-
chetti non ce l’aveva fatta, era dovuta tornare in cucina. Poi
aveva fatto avanti e indietro solo per portare via le confezioni
vuote, quasi non facendo caso alle valanghe di zucchero che
coprivano i tappeti, e poi i copriletto. Poi le sedie, le scrivanie.
Ricorda solo che l’ultima volta che è uscita dalla cameretta, i
primi fiocchi sbucavano già sulla cima dell’armadio.
Avevano continuato a strillare tutta la notte mentre lei
tentava di addormentarsi stretta come al solito in una morsa,
più che nel suo stesso abbraccio, i lividi sugli avambracci a
combaciare con le bruciature sulle gambe, le lacrime che le
incollano le gote sui gomiti sbucciati. Come quelli dei suoi
figli.
Poi però a sentirli ridere si era rilassata e finalmente ave-
va preso sonno distendendo le gambe, le braccia. Articolando
un sorriso che sapeva di polvere. Di ragnatele.
Stamattina invece sa di caffè. Di caffè e di zucchero. E di
là della porta il frastuono di nuove risate.

237
Il giornale è ancora aperto sull’inserto delle promozio-
ni del supermercato e quell’offerta speciale la fa sorridere di
nuovo. Anche lei non sorrideva da anni.
Gli occhi ancora incollati sulla pagina degli sconti, oggi
non ha ancora quasi pensato a lui con le sue ossessioni e le
sue gelosie. Le bastonate, la segregazione. A sentirli gioca-
re così allegri le pare di essersi dimenticata dei loro sguardi
amari. Non ha ancora ben chiaro se e come rimetterà le cose
a posto. Quando lui tornerà più tardi e capirà quello che è
successo in sua assenza…
Si vedrà.
Per ora sorride dei sorrisi appiccicosi di là da quella por-
ta. Per ora sa solo che non è giusto che siano loro, i più pic-
coli, a pagare.
“Prendi tre, paghi uno.”

238
Una fine, ora
Alberto Tosciri

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha


mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’
di zucchero nel lavandino. Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per pren-
derlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è av-
vicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a
fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha
cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le
gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è
che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo,
non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

Tra poco arriveranno.


Sono passati pochi minuti da quando ha fatto la telefo-
nata, dato il suo indirizzo, mentre tirava lo sciacquone nel
bagno, perché lui non sentisse. Tonio si fida ciecamente di lei,
sente le sue risate mentre continua a giocare con i bambini
nella loro camera da letto. I figli del suo primo matrimonio:
cosa ne sarà di loro, dopo?
Luciana sente una fitta al cuore. Continua a guardare
dalla finestra la neve che imbianca il cortile della loro villetta.
Sorride nervosamente morsicandosi un labbro.

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Vorrebbe che tutto fosse già finito, prova a immaginarsi
oltre con il pensiero, come se quello che deve succedere fosse
già successo e prova disagio nei soliti gesti della quotidianità
che, lo sa, non dovrà più ripetere.
Vorrebbe essere lontanissima da lì in un qualunque posto
sperduto, cercare di ricominciare, abituarsi a una vita norma-
le. Non poteva essere normale la sua vita, ma non avrebbe
mai immaginato che potesse finire così.
Ha dovuto tagliare i ponti con la sua famiglia per seguire
Tonio; ormai da due anni non ha più avuto nessun contatto
con loro. Adesso invece potrebbe.
No, è falso: niente sarà più come prima.
Vede dei movimenti oltre il cancello, il suo cuore acce-
lera i battiti: sono gli uomini di Tonio, che stazionano giorno
e notte nella strada davanti alla loro casa. Uno è sceso dalla
macchina e sta parlando con un altro, si accende una sigaret-
ta, indica qualcosa al suo interlocutore.
Luciana guarda con attenzione, preoccupandosi se sente
troppo silenzio dalla camera da letto e rassicurandosi alle gri-
da gioiose dei bambini e di Tonio.
Non deve uscire proprio adesso, pensa Luciana, guardan-
do con attenzione la scena sulla strada, sentendosi completa-
mente inerme, vuota. Apre il rubinetto del lavandino, come
a voler coprire dei rumori. Torna a guardare fuori dalla fine-
stra.
Ora non vede nessun movimento, non vede nessuno.
Deve farlo. È pericolosissimo, ma deve. Lascia l’acqua scor-
rere e si dirige verso la porta blindata all’ingresso. Gira la
grossa chiave lentamente, una, due, tre volte, maledicendo
ogni più piccolo rumore, maledicendo il battito troppo forte
del suo cuore.
La porta è aperta. Esita, dovrebbe uscire, invece ritorna
lentamente in cucina, lasciandola socchiusa.
Questo potrebbe compromettere tutto, pensa ma non ha im-
portanza. È troppo stanca.
Il tempo sembra non passare mai. Si mette con le spalle
appoggiate alla finestra della cucina. Vorrebbe accendersi una

240
sigaretta, ma da quando sta con lui ha smesso. Tonio detesta
le donne che fumano.
La porta si apre e compare la testolina spettinata di Ni-
colino, il più piccolo. La guarda con occhi sgranati.
– Ho fame. –
– Ora preparo la colazione. Vai da papà. –
– Ora veniamo, ora veniamo! – grida Tonio con la sua
voce gioviale mentre fa il solletico a Vito, il più grandicello.
Nicolino rientra in camera da letto, lasciando la porta soc-
chiusa.
Le ginocchia di Luciana sembrano diventare di gomma.
Qualcosa di freddo le scende dentro.
La porta d’ingresso si muove lentamente verso l’inter-
no. Compare una figura nera, incappucciata, mitraglietta in
mano.
E poi un’altra e un’altra ancora. Sono silenziosi. La guar-
dano e uno solleva impercettibilmente l’arma verso di lei. C’è
un lampo in quegli occhi freddi e acuti dietro il mefisto.
Solleva una mano e porta il dito all’altezza della bocca.
Lei annuisce, sentendo il cuore impazzire e le lacrime scen-
derle improvvisamente.
Gli incappucciati si avvicinano alla porta della camera da
letto. Entrano altri uomini, tutti incappucciati.
Non si sente un fiato.
Sulla porta compare un uomo con giacca e maglione
sportivi, pistola in mano.
Gli incappucciati restano in silenzio, poi si muovono
all’unisono, come un branco di lupi famelici. Chinano la te-
sta, danno un calcio alla porta spalancandola e irrompono
dentro.
Urla, tutti urlano: grida dei bambini, Tonio che bestem-
mia a più non posso, ansima come un animale ferito, ranto-
lante, rauco.
Qualcosa cade, sembra un cassetto.
Tonio si precipita fuori, sbatte sull’infisso della porta, an-
sima, si trascina tre incappucciati che lo stringono al collo,
alla testa, intorno al torace, alle gambe. Lo sbattono sul pa-

241
vimento, gli ammanettano le mani, tentano di infilargli una
calzamaglia in testa e proprio allora solleva lo sguardo rab-
bioso e lacrimante, guardando Luciana impietrita davanti alla
finestra della cucina.
I bambini non smettono di urlare, Tonio si dibatte furio-
samente, cercando di girarsi.
– Non è niente! – grida nella loro direzione. – Non è
niente! – ripete, guardando Luciana.
Lo sollevano, lo trascinano facendogli piegare la testa,
coprendolo con un giubbotto.
Un attimo prima che la testa sia coperta, lui solleva anco-
ra lo sguardo verso Luciana, uno sguardo impaurito, di belva
ferita a morte.
– Tu! – grida, con una voce che viene dal fondo di una
caverna spaventosa. Lo dice e lo ripete ancora, con la bava
alla bocca, dibattendosi, protendendosi verso le urla dei figli,
mentre gli incappucciati lo trascinano fuori e altri due escono
tenendo in braccio i bambini urlanti.
– No! – grida Luciana, andando verso i bambini, ma
l’uomo con la giacca l’afferra saldamente per un braccio.
– Lasci stare. Ci pensiamo noi. –
– Sono molto piccoli. Non hanno la mamma – dice Lucia-
na, vergognandosi delle lacrime che le scendono sulle guan-
ce, delle mani che le tremano. L’uomo con la giacca chiude
il rubinetto. Fuori si sentono altre urla, rumori di macchine,
sgommate rabbiose di ruote.
– Sigaretta? – chiede l’uomo, porgendole un pacchetto.
– No, grazie. Non fumo. –
– Bene. Se la sente di venire con noi adesso? –
– Dove andiamo? –
– Al comando, naturalmente. Deve riposare. Ci vorrà per
un po’. Venga. –
– Rivedrò i bambini? – Luciana sente l’innaturale tre-
molio della sua voce. L’uomo aspira il fumo della sigaretta.
Sorride. Guarda il cortile: fuori dal cancello d’ingresso si è
formata una piccola folla. Una squadra di uomini in unifor-
me ci staziona davanti.

242
– Dobbiamo andare prima che si riempia di giornalisti. –
– Rivedrò i bambini? – Ora la voce è più ferma, ma ha
un tono petulante.
– Non dipende da me. Venga. Dobbiamo andare. Si è
comportata molto bene. –
La prende gentilmente sottobraccio. Ripete: – Si è com-
portata molto bene, agente scelto Tadini. Venga. La prego. –

243
Dal rosso al bianco
Grethel Ingrid Mavrovic'

Stamattina si è svegliata presto. Un misto di ansia e gioia ha


mosso tutti i suoi gesti: ha fatto il caffè e per sbaglio ha versato un po’
di zucchero nel lavandino. Non le è importato.
Il giornale era ancora sul tavolo e quando si è girata per pren-
derlo ha alzato gli occhi sulla finestra e ha visto la neve. Si è av-
vicinata al vetro: una pioggia gelata, bianca, cadeva nel cortile a
fiocchi spessi. Non è riuscita a smettere di guardare. Qualcosa ha
cominciato a sciogliersi dentro di lei e a scorrerle lungo le braccia, le
gambe. Un po’ alla volta tutto è diventato nuovo, anche lei. E non è
che non abbia sentito il frastuono che viene dall’altra stanza. Solo,
non vuole muoversi, andare di là.
Si sente rinata ed è contenta di averlo fatto.

Si sente anche stanca. È stato faticoso, molto. Per un at-


timo aveva quasi pensato di lasciar perdere, di non farlo più.
Per Marco sarebbe stato meglio, lui che sa sempre cosa fare e
quando, che è così sicuro della sua vita, del suo futuro. Forse
l’ha sposato proprio per queste ragioni, questo suo modo di
essere così semplice e spavaldo che adesso le dà tanto fasti-
dio, la fa sentire ancora più stanca.
Lo squillo del telefono interrompe il breve tragitto fino
alla sedia.

244
Un passo a ogni squillo, uno squillo a ogni passo.
Sorride, divertita dalla filastrocca che le è venuta in men-
te. Poggia la tazzina del caffè sul tavolo e si siede con eleganza
mentre il telefono continua a squillare. Solo allora si accorge
che la tovaglia è macchiata. Si gira verso la porta che dà nel
soggiorno.
Oggi è venuto a trovarci in studio il Dottor Iannucci che ci
darà dei preziosi consigli sull’alimentazione come prevenzione di
alcune malattie importanti.
Buongiorno Dottor Iannucci, grazie per essere qui a quest’ora
del mattino per condividere con noi il risultato dei suoi studi
sull’importanza dell’alimentazione nella prevenzione dei.
Lo squillo del telefono viene risucchiato dalle parole
gridate dal televisore che è rimasto acceso nell’altra stanza.
Nessuno ha pensato ad abbassare questo frastuono. Nessuno,
neanche lei che è sempre la prima a fiondarsi sul telecoman-
do per far rientrare il giusto silenzio tra le mura.
Gira il cucchiaino nel caffè che ormai è diventato freddo.
Fuori si è alzato anche il vento e la neve adesso cade di tra-
verso. I fiocchi le sembrano tante piccole punte di lancia che
trafiggono prima l’aria e poi il terreno dove vanno a morire.
Anche lei si sente colpita. La libertà può ferire.
È ora di andare.
Scosta la sedia e si alza portando con sé la tazzina del caf-
fè che lascia nel lavandino. Ci penserà qualcun altro a lavarla.
Le luci blu intermittenti che filtrano dalla finestra si riflettono
sulla sua mano che afferra la maniglia della porta.
Entra nel soggiorno. Guarda suo figlio che è seduto sul
divano in un’innaturale compostezza con il telecomando te-
nuto stretto nella mano. Il suo sangue sarebbe bellissimo sulla
neve. Forse dopo lo porterà fuori.
– Se continua a nevicare così, resteremo isolati. Ma non
ti preoccupare: qui abbiamo tutto, ho pensato a tutto io. –

245
Ogni storia
sceglie un solo inizio fra tutti gli inizi,
uno solo fra tutti gli intrecci e uno solo fra tutti i finali.
Anche crema di yogurt bianco müller ha una storia unica. Come la tua.
Te la raccontano i tuoi sensi quando s’ immergono nella dolcezza,
nella cremosità, nel gusto sublime dello zucchero d’uva.
Questo è fare l’amore con il sapore,
questa è la tua crema di yogurt bianco müller.
Capitolo 8

Un’unica semplice cosa


“Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare.
E credo che tu sia la più buona che conosco
e più brava di me a fare praticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono precipitato qui.
Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello
e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco,
perché so dove abita e non sarebbe un problema.
Solo sì. Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa.
Perché ne ho bisogno, perché ti amo.
E perché sapresti farla benissimo.”
Ecco cos’è l’amore,
ma anche no
Antonello Grassi

– Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo


che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare pra-
ticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono preci-
pitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo
farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì da-
vanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove
abita e non sarebbe un problema. Solo sì.
Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché
ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo. –

Alberto smette di parlare. Ha due lacrime appese alle ci-


glia; restano lì, in bilico, non scendono e non si asciugano.
Maria, impassibile, dall’altra parte del tavolo, versa una
nuvola di latte nella sua tazza di tè. Accosta la tazza fumante
alle labbra. Intorno a lei, la cucina male illuminata.
Alberto si asciuga le mani sui pantaloni, sotto al tavolo,
poi si allunga verso una fetta biscottata, un gesto qualsiasi per
alleggerire il silenzio, e la marmellata di arance: afferra il col-
tello e in quel momento un fremito lo blocca. Rimane come

253
incastrato a metà del movimento, con il coltello in mano, per
un attimo. Alza d’istinto gli occhi verso Maria, ma lei non s’è
accorta di nulla.
Oppure ha fatto finta.
Il tempo è passato anche da lì, spietato, come sempre.
Però Maria è riuscita a difendersi: ha lottato, per anni, contro
il disfacimento dei suoi lineamenti, contro ogni singola ruga,
gli ha conteso ogni millimetro di pelle e ogni capello bianco.
La grazia dei suoi anni migliori l’ha nascosta in una nic-
chia da qualche parte dentro di sé, l’ha conservata come una
promessa, ancora vestita di camicette con le maniche a sbuffo.
E ancora adesso, a guardarla, quasi non riesci a crederci
alla bellezza salvata di quei gesti facili, leggeri, dal viso bello
appena stropicciato che sembra una vecchia foto.
Ci sono momenti in cui sembra invisibile, la sua vecchiaia.
A concentrarsi sulle mani intorno alla tazza, sul modo in
cui la porta alla bocca, pensa Alberto, sembra invisibile, la sua
vecchiaia.
Maria posa la tazza. Rimane in silenzio.
Alberto, dall’altra parte del tavolo, produce un leggero
colpo di tosse, il gesto più discreto che è riuscito a pensare
per invitarla a una risposta.
– È passato così tanto tempo ormai. –
Allora Maria solleva gli occhi, gli stampa in faccia uno
sguardo che in quel momento potrebbe incenerirlo, se solo si
concentrasse un po’ di più.
Pochi istanti e ritrova la calma. Poi si alza da tavola e
infila il corridoio, verso la stanza da letto. Alberto la segue a
due passi di distanza.
In paese dicono che per guardare Maria avere gli occhi
è superfluo. Lo sanno tutti, l’hanno capito dalla prima volta
che Maria è scesa in paese, gonna al ginocchio e borsa per
la spesa al braccio. Agli uomini s’è fatto spazio nel petto, alle
donne s’è chiuso lo stomaco. Non si vedevano molte facce
straniere a Matera, poco più che un grumo di case bianche
aggrappate alla collina, e ogni novità scatenava tutto un for-
micolio di gomitate, occhiate rapaci, commenti.

254
D’accordo. Ma non era questo.
Era che quando arrivava Maria sentivi un rimescolio den-
tro e ti veniva voglia di offrire da bere, oppure di fare l’amore.
La sentivi arrivare da lontano. Perfino Ninuccio Cataplasma,
il vecchio poeta, lo vedevi scuotersi dal suo torpore ossuto, lì
sulla panchina all’ombra, e riaprire precipitosamente il libro.
Lui diceva che quando andava via, Maria lasciava un
dono e anche una mancanza. Lo sapevano tutti, a Matera. Per
questo, non c’era conversazione, almeno una volta al giorno,
tra le donne, gli anziani, gli uomini, in cui non si parlasse
della donna che abitava nella casa appena fuori dal paese. La
donna più bella che si fosse mai vista. La donna più triste che
si fosse mai vista.
E non c’era giorno senza che gli uomini si radunassero
sotto la finestra di Maria, nello spiazzo davanti a quella casa
isolata, ai margini della campagna. Lei però usciva solo per
comprare da mangiare e non guardava mai nessuno.
S’era trasferita lì subito dopo aver saputo della morte di
Augusto, suo marito, e lì era nato il suo unico figlio, Augusto
pure lui, perché così si usava e poi glielo aveva promesso.
Avevano vissuto insieme, madre e figlio, fino alla maggio-
re età di lui, poi Maria l’aveva obbligato ad andare via. Perché
soltanto pronunciare il suo nome era una pugnalata. Così era
rimasta sola nel posto che aveva scelto per consumare la sua
vita. Mentre tutti parlavano di lei. Sotto le sue finestre gli uo-
mini del paese si radunavano.
La casa di Maria sembrava la dimora di una regina po-
verissima.
Alberto è andato davanti a quella casa ogni giorno, per
anni, dopo averla trovata. L’ha cercata ovunque, s’è rovinato
per pagare viaggi e informazioni. E quando l’ha trovata, con
gli ultimi soldi ha preso in affitto una stanzetta in paese. Poi
s’è messo ad aspettare sotto la finestra. Ha accettato ogni tipo
di lavoro, anche i più umili, nei primi tempi e ha dovuto su-
perare la diffidenza dei paesani. Alla fine è riuscito simpatico
a Michele Strozzacapre, il suo proprietario di casa, che gli ha
affidato le consegne col furgoncino.

255
Ne è sicuro: lei lo ha notato dalla prima volta, perché
da allora ha smesso di uscire di casa. Sentiva gli altri uomini
lamentarsi, preoccuparsi che forse era successo qualcosa e
bisognava andare a vedere. Invece Maria si affacciava due
volte alla settimana ed era sempre bella, calava un canestro
di vimini e le comari di cui si fidava lo riempivano di farina,
zucchero e tutto quanto: suggellava così l’unico scambio che
manteneva col mondo.
Alberto cercava tutte le volte di farsi notare tra il muc-
chio. Ficcava le mani in tasca, allungava il collo e prendeva fi-
schiettare e lanciare certi sguardi complici. Poi s’è reso conto
che lo facevano anche tutti gli altri.
È diventato vecchio, aspettando sotto quella finestra, l’ha
visto nei vestiti sempre più strani dei ragazzini, nei loro di-
scorsi incomprensibili. L’ha sentito nelle forze sempre più
fiacche.
Anche il suo amore era nato lì, in mezzo agli schiamazzi
e ai primi rossori, anche se in un posto lontano. Maria era la
più bella, quella che tutti volevano: Alberto s’era convinto di
poterla avere. Una certezza che non lo aveva mai abbandona-
to, neppure quando per Maria erano cominciati gli amori ed
era arrivato Augusto.
Non è giusto, pensava Alberto, io potrei farla davvero felice,
io per lei farei qualsiasi cosa.
Glielo ripeteva sempre: – Io per te farei qualsiasi cosa –
perché, come tutti gli innamorati, credeva di amare più degli
altri.
Aveva aspettato che l’amore per Augusto appassisse,
inutilmente, poi l’aveva supplicata, minacciata. Ai suoi scatti
d’ira lei rispondeva con dolcezza. Era una persona buona.
Anche Augusto era una persona buona. Un giorno ad
Alberto era venuta l’idea di farselo amico. Augusto era anche
uno che si fidava.
Alberto è tornato sotto la finestra ogni giorno. Anche
mentre Maria diventava vecchia e gli altri uomini, un po’ alla
volta smettevano.
Finché è rimasto solo.

256
Poi, quel pomeriggio, Maria s’è affacciata. L’ha guardato
e ha aperto il portone.
Senza dire una parola, Maria si alza e infila il corridoio,
Alberto la segue. In camera da letto, Maria lascia cadere la
vestaglia sulla poltrona, rivelando una camicia da notte ingri-
gita e smunta.
– Sai che Augusto s’è sposato? – dice, spazzolandosi i
capelli davanti allo specchio.
– Sì lo so, me l’hai già detto prima. –
Maria sorride.
– Che vuoi, sono vecchia. Comincio a perdere colpi. –
Posa la spazzola e guarda il suo viso nello specchio, le
labbra che sussurrano: – Ormai s’è fatto grande. –
Sistema i capelli con un fermaglio prezioso. Si guarda
ancora e sorride. Il suo viso ancora bello, l’ha difeso come
una promessa.
– Non sei vecchia – fa Alberto. – Hai due anni meno di
me. –
Non gli riescono mai le battute, non ha la faccia giusta.
Maria lo ignora e si stende sul letto, Alberto cincischia
ancora un po’ sulla poltrona, si torce la mani, poi prende co-
raggio. Il letto pigola sotto il suo peso. Maria è stesa accanto
a lui, è immobile, vicinissima, può sentirle i respiri. Si avvici-
na piano; a movimenti minuscoli, millimetro dopo millimetro
cerca il contatto con il suo corpo.
– Allora? – Sussurra cercando di fare la vocina da bimbo.
– Solo dimmi di sì. Un’unica, semplice… –
Le passa una mano tra i capelli bianchi. Maria lo inter-
rompe con uno scatto, gli afferra il polso, stringe con tutta la
forza che può, e getta via quella carezza.
È un attimo: un lampo attraversa gli occhi di Alberto, e
Maria lo vede bene.
In piazza, Alberto siede sulla sua panchina preferita,
quella di fronte al bar del paese. È chiuso, s’è già fatto scu-
ro. È la stessa panchina dove si è seduto durante tutti quegli
anni, prima di tornare a casa, la sera. Tira fuori dalla tasca il
pacchetto di sigarette e l’accendino.

257
Mi conoscono tutti qui, pensa. Ci metteranno poco a capire.
Ma ci vorrà almeno qualche giorno e potrei essere già lontano.
Getta via la sigaretta.
Sono stanco, pensa. Dietro casa, vicino alla rimessa, c’è il
furgoncino di Michele Strozzacapre. Alberto sale e accende
il motore. Gli sembra la cosa più logica, l’unica da fare. Un
atto di fedeltà.
È un pensiero che lo fa sentire bene.
Parcheggia il furgoncino nel garage minuscolo, scende
con il motore ancora acceso. Tanto tempo fa, non ricorda chi
gli ha detto che quello è il modo più indolore, il più dolce.
Si stende accanto alle ruote e trattiene il fiato più che può.
Quando riapre la bocca, il fumo ha già riempito tutto e gli di-
vora il respiro. Deve tossire dolorosamente più volte. Cercare
di tenere ferma la sua testa in preda alle vertigini. Soffocare
la nausea e sentire i polmoni spezzarsi.
L’ultima cosa a cui pensa è Maria che non sarà più di
nessuno. Ma questo non gli è di nessun conforto.

258
Patapum!
Chiara Agostini

– Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo


che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare pra-
ticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono preci-
pitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo
farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì da-
vanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove
abita e non sarebbe un problema. Solo sì.
Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché
ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo. –

Luca ha il fiatone.
Ha detto tutto in apnea. Alla svelta. Come una sgomma-
ta sull’asfalto, ha sollevato un bel polverone. Si è riempito i
polmoni e, volente o no, si è dovuto far bastare quell’unica
dose di ossigeno per pronunciare tutto il discorso. Tant’è che,
a guardarlo bene, ha il viso un po’ provato.
Forse per la fatica, mi dico, forse perché gli manca l’aria
o è emozionato. Non sono mai riuscita a capirlo a pieno.
Coprendomi con una mano gli occhi dal sole cocente, lo
guardo incerta mentre aspetta con fare dubbioso che prenda
aria io, stavolta.

259
È nervoso, questo lo vedo. È il mio turno.
– L’avevi detto... – faccio, vaga, iniziando a camminare su
e giù nel ghiaino di fronte a casa mia.
Lui mi segue con la testa: è uno spettatore imbambolato
durante una partita di ping-pong.
– Che cosa? –
È molto stupido, Luca. O meglio, direi che è infantile:
si presenta qui, senza scrupoli o preavvisi di alcun tipo, e ti
chiede di sposarlo.
Così.
Con la stessa naturalezza con la quale può notare la nuo-
va tinta dei tuoi capelli.
– Come sarebbe “che cosa”? –, cerco di destarlo dalla sua
epoché, strabuzzando gli occhi.
– Non ti seguo, Chiara. Che cosa? – ripete come un pap-
pagallo sul trespolo.
Scuoto la testa. Non ce la può fare. È inutile.
Luca me l’aveva promesso. Secoli fa. Che ci saremmo
sposati, intendo. Sono quelle cose che si dicono a vent’anni,
quando ancora sei capace di vedere le lucciole nella notte ed
esprimere desideri seguendo il percorso di una stella cadente,
col naso all’insù. Lui, un tempo, me l’aveva garantito: ci ritro-
veremo, un giorno, e ci sposeremo.
Io fumavo sigarette su sigarette, facendo finta di ascoltar-
lo, sdraiata su un divano bollente, durante quegli stranissimi
incontri che ogni tanto programmava, dopo qualche mese
di lontananza, per sapere come stessi componendo i pezzi
disordinati della mia vita.
Mi aveva lasciato otto volte, nel giro di due anni e mezzo.
Poi mi richiamava, con la scusa di voler chiarire alcune que-
stioni e tempo un’ora mi ritrovavo davanti a un posacenere
con le scritte blu a ridere ricordando di come fosse bello fare
l’amore assieme.
Ed era sempre in quella frazione di secondo che succe-
deva: uccideva il mozzicone nel piattino, alzava i suoi occhi
grandi su di me e sistemandosi quei dannati capelli, pronun-
ciava la solita formula magica.

260
– Tanto ci sposeremo, lo so. Ci ritroveremo tra qualche
anno, casualmente, in un posto sconosciuto e ci sposeremo. –
Mi ricordo ancora l’effetto delicato che quelle parole ave-
vano su di me. Era come se tracciassero una linea sottile in
prossimità dell’orizzonte. Una linea indefinita, non marcata.
Però presente. Non la vedi bene, ma sai che c’è.
Io avrei seguito i miei percorsi, avrei affrontato il mio
viaggio, ma alla fine, dopo giungle, animali, palazzi, e cuori
sprecati, sarei approdata laggiù, su quella linea che mi stava
aspettando da quando lui aveva deciso di disegnarcela.
Poi, come uno schiaffo forte ma efficace, le mie amiche
afferravano la catena dell’altalena, e prendendomi con forza,
mi facevano cadere a terra, ricordandomi col dito puntato,
che lui voleva solo portarmi a letto.
Erano brutte botte quelle, che partorivano grosse ferite.
“Più ti avvicini a lui, più male ti fai.”
Me l’avevano scritto su un foglio, nel caso non bastasse
dirlo a voce.
Io, in compenso, avevo le ginocchia coperte di cerotti di
ogni tipo.
Erano stati anni così: un continuo saliscendi dalla stessa
altalena arrugginita.
Ogni volta che il mal di testa mi colpiva, mi convincevo
di essere abbastanza sdegnata da quell’andirivieni. Così, la
smettevo, con quel dondolare. Ma una curiosità febbrile mi
affiorava dalla pelle, e mi ci riportava sopra, a crogiolarmi
ancora.
Ed ora siamo di nuovo qui, io e lui. Con una fede tra le
nostre ombre.
– Perché ne ho bisogno, perché ti amo. –
Non so quanto possa realmente pensare ciò che ha detto,
ma almeno su un paio di cose sono sicura che abbia ragione:
sono buona, ma soprattutto sono più brava di lui. In tutto: nel
fare un piatto di pasta come nel gestire la nostra situazione.
È sempre stato difficile dirgli di andarsene. Ma ancor più
difficile, è stato dirgli di non tornare.
Continua a fissarmi, con lo sguardo di chi non sta capen-

261
do niente. È splendido il modo in cui non abbia in realtà mai,
capito niente. Sono stata sempre io, a prenderlo per mano,
e, come si fa con un bambino, spiegargli il perché di tante
cose.
Non so cosa gli risponderò.
Per adesso mi limito a strappargli la fede di mano, gettar-
la più lontana che posso, e baciarlo con angoscia. Il mondo ri-
prende a dondolare su e giù, ora piccolo ora grande, lontano
e vicino, in un’ottica volutamente e sapientemente distorta.
Vedo il mare, le trasferte in macchina; vedo quei mozzi-
coni mai spenti. E i miei piedi penzolano nel vuoto, prenden-
dosi la spinta per andare sempre più veloce. Corro il rischio
di ruzzolare per terra e farmi male davvero, a questo giro.
Vedo la paura graffiarmi la pelle.
È tutta una questione di eccitazione e di equilibrio. È
questo che mi tiene viva, ed è quello che vado cercando. È
risalire sulla giostra e continuare a sporgermi, nonostante mi
dicano che può essere pericoloso; è prendermi tutta l’aria,
ascoltare il vento che mi cancella i lineamenti del viso.
Cadrò, lo so già, e per di più dalla stessa arrugginita alta-
lena. Ma per adesso muovo le labbra e non voglio pensarci.

262
Una moglie perfetta
Francesca Ramacciotti

– Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo


che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare pra-
ticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono preci-
pitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo
farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì da-
vanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove
abita e non sarebbe un problema. Solo sì.
Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché
ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo. –

Carlo ripiegò il foglio in quattro e lo mise nella tasca del


pigiama a righe, color verde bile come le pareti dell’ospedale.
Aveva scritto la sua proposta di matrimonio la mattina
stessa e l’aveva ripetuta, nascosto nel bagno, per ben dieci
volte.
Ormai la so a memoria, si disse, battendosi la mano sulla
tasca, con soddisfazione.
Sentì, attraverso la stoffa, i contorni dell’anello della sua
povera mamma, che la badante ucraina gli aveva portato da
casa. Guardò un’ultima volta il suo volto riflesso nello spec-

263
chio macchiato, pensando che, a onta del colorito un po’ gial-
lastro, portava egregiamente i suoi settanta anni.
Poi tirò lo sciacquone.
Mentre percorreva il corridoio della corsia, con la bal-
danzosa velocità che la sua anca difettosa gli consentiva, sor-
rise fra sé e sé, pensando all’ardita irruzione che avrebbe fatto
nella stanza delle infermiere.
Sapeva che a quell’ora avrebbe trovato la sua amata Anna
lì da sola.
Prima l’avrebbe colta di sorpresa, entrando in quel luo-
go dove l’accesso ai pazienti era assolutamente vietato. Poi
l’avrebbe travolta con l’appassionata dichiarazione, in cui ave-
va messo accuratamente in evidenza tutte le incommensura-
bili virtù di cui la donna dei suoi sogni era tanto provvista.
“Un angelo misericordioso”: così l’aveva definita dentro
di sé, la prima volta che lo aveva accudito, dopo l’operazione
all’anca.
Gli aveva tolto la padella con un sorriso verginale, misto
di dolcezza e pudore. E quando aveva vomitato acidi succhi
gastrici per effetto dell’anestesia, gli aveva offerto la bacinella
con la grazia di chi porge un fiore.
Era stato amore a prima vista.
Era l’infermiera migliore, per bontà e bravura. Nessuna
cambiava le traverse bagnate o puliva i residui di semolino agli
angoli della bocca più velocemente e con più pazienza di Anna.
Carlo l’aveva eletta compagna ideale della sua vita.
Si era informato con discrezione: era sulla cinquantina,
vedova da qualche anno. E nonostante fosse ancora molto
attraente, era serissima, deliziosamente modesta, sempre a
occhi bassi, gentile con tutti ma senza dare mai troppa con-
fidenza a nessuno. Nemmeno al dottor Morini, quel dongio-
vanni da strapazzo che corteggiava tutte le infermiere, lan-
ciando sguardi assassini con i suoi lubrici occhi neri.
Carlo detestava la sua gioventù ostentata, il camice che
sembrava contenere a stento la spinta dei suoi possenti pet-
torali, il suo sensuale vigore così inopportuno in un ospedale,
un luogo dove la gente soffriva.

264
Aveva provato a fare qualche delicata allusione ad Anna,
mentre lo imboccava premurosa. Le aveva fatto capire quanto
disprezzava i cascamorti mentre invece stimava le donne che
non cadevano nella loro trappola e che mettevano al primo
posto la bontà, la gentilezza e la serietà. Le vere qualità, quelle
importanti. Non come la bellezza e la gioventù, ingannevoli
ed effimere.
Anna non aveva detto nulla ma porgendogli il pappagallo
aveva sorriso appena e lo aveva guardato con un’espressione
intensa, da sotto le lunghe ciglia ricurve.
Carlo allora aveva capito che era d’accordo con lui, che
anzi, gli era grata per aver apprezzato la sensibilità del suo
animo.
Da allora, ogni volta che si era presentata l’occasione,
avevano fatto lunghe discussioni sui veri valori, sull’impor-
tanza delle affinità elettive, sulla comunione interiore che ci
deve essere in una coppia. In realtà era soprattutto Carlo a
parlare. Ma da come Anna lo guardava con malcelato interes-
se, da come annuiva col suo sorriso pieno di riserbo, lui aveva
capito che lo comprendeva e lo ammirava.
Così aveva deciso di chiedere la sua mano.
Era ancora un uomo piacente, dopotutto.
A pochi passi dalla stanza delle infermiere, Carlo si im-
maginò le future, tenere scene di vita quotidiana: Anna che
gli puliva la ferita, che teneva la casa linda come uno spec-
chio, che l’aiutava a lavarsi e a mangiare con amore e dedi-
zione. E la notte avrebbe potuto indulgere ai legittimi piaceri
coniugali, senza preoccuparsi dell’anca: un’infermiera avreb-
be saputo condurre la cosa senza che lui corresse dei rischi a
causa di qualche pericolosa acrobazia.
Ebbe un brivido, ricordando il giorno in cui aveva quasi
deciso di chiedere alla massiccia e irsuta badante ucraina di
sposarlo, al solo scopo di risparmiare il suo stipendio e di
avere un’assistenza garantita per l’incipiente vecchiaia.
In cambio lei avrebbe avuto la cittadinanza.
Non avrebbe mai condiviso il letto con quel donnone ca-
pace di frantumargli l’anca se solo lo avesse urtato per sba-

265
glio, girandosi durante il sonno. Ma Anna era bella come un
fiore e sottile come un giunco.
Si schiarì la voce, ripetendo piano le prime parole della
dichiarazione, giusto per sicurezza. La porta era socchiusa.
Stava per dargli una spinta impaziente, quando la voce armo-
niosa di Anna lo bloccò.
C’è ancora la sua collega? Strano, pensò, a quest’ora scende
sempre a prendersi un caffè.
Si affacciò cautamente dallo spiraglio.
La sua futura dolce metà stava ridendo, i capelli legger-
mente scompigliati. Dalla fessura, Carlo vide due grosse mani
sbucare come dal nulla, poggiandosi sui seni dell’infermiera.
– Smettila! –
Anna si girò verso l’uomo dietro di lei – Te lo immagini
cosa direbbe quel vecchiaccio disgustoso della 25 se lo sapes-
se? Lui ti odia! Tutte le volte che vado in camera sua mi fa dei
pistolotti di una noia mortale sul pericolo che tu rappresenti
per una donna seria come me! Mi fa male la bocca, da quanto
la devo forzare in un sorrisino educato! –
La bocca non sembrava farle male, invece, mentre si in-
collava a quella del dottor Morini, in un bacio appassionato.
Perché ne ho bisogno, perché ti amo.
Carlo riflettè su quella frase della sua inutile dichiarazio-
ne mentre tornava, zoppicando mestamente, alla sua camera,
la n.25.
All’amore avrebbe dovuto rinunciare. Ma il bisogno ri-
maneva. Decise che avrebbe chiesto in moglie la badante
ucraina.

266
Voglio una nuora
per l’ora di cena 5

Valentina Sturli

– Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo


che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare pra-
ticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono preci-
pitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo
farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì da-
vanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove
abita e non sarebbe un problema. Solo sì.
Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché
ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo. –

E poi Gennaro allunga l’anello verso l’immagine anneri-


ta dello specchio. Trattiene il fiato e la saliva gli va un po’ di
traverso. Strizza gli occhi dietro gli occhiali un po’ appannati.
Sta sudando.
– Mi vuoi sposare, Hope? –
Un istante che è come un macigno.

5 L’autore ha scelto di non avvalersi dell’editing. Il racconto è ripro-


dotto nella versione originale pubblicata sul sito blusubianco.it.

267
Poi lo specchio gli risponde indifferente, né sì e né no,
come Ponzio Pilato. Gennaro lo capisce, e sospira. Neanche
lui si trova convincente.
Smonta dal panchetto su cui è salito perché è un po’ bas-
so, per provare meglio. Intorno a lui tutti tirano un sospiro.
Non ti perdere d’animo, Gennà – fa Amelio, stravaccato
sul letto, – Dobbiamo solo darci un’aggiustata. –
Gennaro scrolla la testa, un po’ depresso. Ci è salito da
tre ore, su quel panchetto, per provare il Discorso con cui
ha deciso di dichiarasi alla ragazza che lavora nel negozio di
fiori di fronte. La ragazza più bella del mondo. Doveva essere
pronto già ieri, ma invece gli manca il coraggio. Pensa che lei
non lo vede neanche, figuriamoci se gli di dice sì.
Comunque sono ancora lì che provano, nella stanzetta
lercia che fa da camera e da retrobottega per Castrese. Vor-
rebbe essere mille miglia lontano, perché la cosa non gli è mai
parsa impossibile come adesso. E invece e lì nella bottega di
Castrese a Little Italy a farsi dare consigli imbecilli dai suoi
amici. Intanto si tampona la fronte.
– Io non ci scommetto mezzo dollaro che quella mi dice
di sì. – Michele, davanti a lui annuisce, poi vede Amelio che
lo guarda male e si riprende.
– Ma no, vedrai. È solo che ‘ste cose ci vuole tempo. –
– Secondo me non ci capisce niente – scuote la testa Bia-
gio, – Se tu gli dici così, alla ragazza, quella ti manda dove so
io in un minuto. Tra l’altro, non è neanche paesana. Sei sicuro
che vuoi proprio lei? –
Dal letto sfatto Amelio commenta con un verso secco
della bocca. Anche a lui piacciono le americane. Sono più
alte, slanciate, sorridenti. E poi non hanno i baffi come sua
cugina, e sua sorella e la sorella di Michele. Anche lui vuole
una sposa americana, magari bella come quella di Gennaro.
– Fatti coraggio. Secondo me ci casca. Secca come una
pera cotta. Soprattutto se ti metti la cravatta. –
Gennaro alza gli occhi al cielo. Perché devono tutti pen-
sare che la ragazza sia una specie di coniglio selvatico che lo
devi aspettare nascosto e poi tirargli quando non se l’aspetta?

268
Non potrebbero pensare piuttosto se ha scritto bene quel di-
scorso lungo, che ci ha passato le notti a imbrogliare quintali
di fogliacci con l’inchiostro?
– E anche la giacca, quella a scacchi blu. –
– Meglio il gessato. –
– E la brillantina. La brillantina non te la scordare.
Cambia un uomo da così a così. – Gennaro prende l’asciu-
gamano e ci nasconde dentro la testa. Non c’è speranza che
la smettano. Anzi, non c’è speranza, forse era meglio se lo
chiedeva alla sorella di Michele, di andare dal prete. Avrà
anche i baffi (la sorella di Michele, non il prete), però è una
brava ragazza.
– E non ti scordare i gemelli. I gemelli fanno l’uomo di
stile. Solo i pezzenti portano i bottoni. –
Castrese, il suo compare di battesimo, staziona in un
angolo in silenzio e cerca di intrappolare una mosca verde-
azzurra in un bicchiere. Sembra che non ascolti nessuno.
La mosca gira e gira e gira. Si attacca al vetro e lo raspa
piano piano. Il vecchio, con i riccioli che gli cadono a cioc-
che su una spalla bisunta, aspetta ad occhi chiusi, indifferen-
te. Gennaro lo guarda e aspetta che abbia qualcosa da dire.
Qualcosa meglio di un consiglio sull’abito.
– Come si chiama la guagliona, Gennà? –
– Si chiama Hope – risponde Gennaro. È contento che
alla fine Castrese si sia deciso ad aprire la bocca.
Altro silenzio di mezzo minuto. La mosca continua a
ronzare.
Hope – mormora il vecchio. Assaggia il nome come se
fosse un sugo di cui non si conosce la natura esatta – Me lo
ripeti, ‘sto discorso, per piacere? –
Gennaro è sfinito, ma se Castrese chiede qualcosa per
piacere nessuno si rifiuta. È il loro capo, la loro autorità, la
loro guida. Ripete tutto dall’inizio alla fine. E visto che c’è gli
racconta anche di tutto quello che ha fatto in quei mesi.
– Davvero hai fatto tutte queste cose? –
– Certo che sì. – È stato tutti i giorni da lei, da sette mesi a
questa parte, dal giorno in cui l’ha vista per la prima volta col

269
cappellino calcato sulla testa, a metter fuori i fiori dal negozio.
Sembra una statua, è bella da far male.
E lui ha comprato da lei fiori tutti i giorni, da quel gior-
no, roba da rovinarsi. E ogni giorno le ha sorriso, e sorriso, e
quando passa dietro alla vetrata le fa ciao con la mano, solo
un cenno. Anche se lei non lo vede lui lo stesso le fa un sor-
riso. Sogna di lei tutte le notti e ha persino dato un nome ai
loro tre figlioli. Perché ne avranno tre e si chiameranno uno
Aniello come il padre di suo padre, una Rossella come sua
nonna materna e uno Michael perché è un bel nome.
E vivranno in una casa col giardino e ogni sera innaffie-
ranno il prato mentre lei, la sua Hope, sarà in cucina a prepa-
rare il polpettone con le patate. Con le patate fritte o arrosto,
a gusto di lei e dei bambini.
E avranno una veranda e un dondolo, e nella brezza della
sera, mentre i bimbi sonnecchieranno davanti alla TV, loro
guarderanno insieme, da lontano, Manhattan e la Statua della
Libertà. E lui le racconterà che quando l’ha vista per la prima
volta era un nessuno e invece adesso è tutto perché ha lei.
L’anello l’ha comprato da mesi. Le ha comprato fiori tutti
i giorni, mazzi e mazzi, ci si è quasi rovinato a comprare tutti
quei fiori. Ne ha parlato col prete, che è d’accordo. Col sin-
daco, anche. Non quello di New York, quello del suo paese,
che è emigrato anche lui e adesso vende i giornali all’angolo
con la diciassettesima.
– Come hai detto che si chiama, la guagliona? –
– Hope. –
– E tu lo sai che vuoi dire, in italiano? – Gennaro gira gli
occhi tutto intorno. La mosca vola ancora vicino al vetro.
– Speranza – deglutisce.
Quella parola gli fa più male di una coltellata. Speran-
za, la speranza che sa già che è una pazzia, come è pazzo
lui con i suoi fiori, il suo anello, il suo prete, la sua voglia di
attraversare di corsa la strada trafficata, di buttarsi di sotto ai
camioncini del pane e di gridare che lui la ama e che la vuole
adesso, che la vuole sposare anche se è povero è italiano è un
pezzente è peloso è basso è tarchiato è tutto lì. Perché è un

270
pezzente, un miserabile aiuto barbiere ma si sente nelle mani
una forza, e nelle labbra una potenza e nel cuore un inferno
di felicità infinita.
Perché la ama come ama la sua vita, perché l’ha vista,
come taglia i fiori e le sue mani scivolando accarezzano il
grembiule appena steso di bucato e tutti intorno dove c’è lei
c’è luce e la Speranza, la Speranza, la Speranza. Deve dire
solo sì. Un piccolo sì. Una sillaba.
– Come si chiama la ragazza, Gennà? – ripete il vecchio,
rimanendo immobile. Poi cala il bicchiere sulla mosca, con
precisione millimetrica, e l’acchiappa. Sorride soddisfatto, e
poi tira fuori dal vecchio panciotto un orologio. E poi, senza
aspettare una risposta: – Farai meglio a sbrigarti, Gennà. Il
fioraio tra cinque minuti chiude. Voglio una nuora per l’ora
di cena. –

271
Una semplice cosa,
tra principio e fine
Giordano Genghini (Bruno)

– Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo


che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare pra-
ticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono preci-
pitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo
farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì da-
vanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove
abita e non sarebbe un problema. Solo sì.
Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché
ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo. –

È il contenuto del foglio scritto che lui ha lasciato sul let-


to, vicino alla macchia bianca della sua camicia sulla coperta
blu.
Caterina lo legge e sorride amaramente.
Sa che è uno scherzo: lui non la sposerà mai.
Gli piace giocare con i sentimenti. L’anello cui si riferisce
lo scritto sembra d’oro. Ma potrebbe essere falso.
A lui piace giocare con tutto: nella casa di lei, organizza
tornei di scacchi. Gli piace giocare soprattutto con Caterina,
che è il suo divertimento preferito.
È ancora un bambino.

272
Quella macchia bianca sul letto contrasta con gli altri co-
lori della stanza. Lei la ignora, apre la finestra e cambia aria al
locale. Va a sedersi davanti allo specchio.
È bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia
rimasto addosso. Qualche ritocco, poi si gira e raggiunge il
letto e la camicia.
Caterina le sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi la
preme sul naso e sulla bocca.
Sorride e si sente stupida. Sarebbe bello diventare una
vera famiglia.
Va all’armadio e cerca una stampella libera. Non la trova.
Si sforza intanto di non guardare il telefono anche se è lì, sul
comodino.
La tentazione di chiamarlo al cellulare è forte. Anche se
in questo momento lui sta parlando con il loro editore.
Sarà poi questa la vera ragione per cui le ha detto di non
telefonargli? Non c’è amore senza sospetti e gelosia. E lei di
sospetti ne ha tanti. Lui è un bell’uomo. Molte donne lo cor-
teggiano. E lui non vuole sposarla. Non vuole fare quell’uni-
ca, semplice cosa.
Caterina si osserva ancora allo specchio. Si vede bella, an-
che se il tempo le sta lasciando alcune tracce sul volto. Si do-
manda cosa succederà fra loro quando lei sarà meno giovane.
Poi guarda dalla finestra: il suo persiano ha concluso la
passeggiata del mattino lungo il cornicione e sta ritornando.
È bianco come la neve.
Lei ricorda la neve caduta nell’ultimo inverno, in cui si è
alzata dal letto prima di lui e ha sentito un fragore nella stanza
dove dormiva. Era caduta la sua libreria, fissata male alla pa-
rete da quell’imbranato. Non si è fatto male, per fortuna. Lei
era talmente infuriata per quello che lui aveva preteso di fare
nella notte che non ha voluto nemmeno sapere cosa fosse
successo. È uscita fra i fiocchi. Nel bianco gelido dell’inverno
si sente sempre felice e come rinata.
Lui poi le ha rimproverato per un mese questa storia. Si
è lamentato soprattutto per i libri, alcuni dei quali si erano
rovinati. Forse li ama più di quanto ami lei.

273
D’altronde, lui ripete che i libri cambiano sempre e non
annoiano. Le persone dopo un po’ di tempo sì. Per questo
non vuole sposarsi.
Stanotte lui ha passato più di due ore sveglio a leggere.
I suoi due libri sono ancora lì, sul comodino, uno sopra l’al-
tro. Del titolo di quello che sta sotto si legge solo la parola
“Wake”. Sarà “Finnegans Wake” di Joyce o qualcosa di si-
mile, quella incomprensibile storia che finisce con le stesse
parole con cui comincia, e che a lui piace tanto.
L’altro volume ha un titolo che si legge per intero: è
“Quattro quartetti”, una raccolta di poesie di Eliot.
Caterina non glielo ha mai visto in mano. C’è un segnali-
bro inserito nel volume. Lei apre il libro: con il pennarello az-
zurro lui ha evidenziato due versi sulle pagine bianche stam-
pate. Lei li legge in italiano, perché conosce poco l’inglese.
“Nel mio principio è la mia fine.”
“Nella mia fine è il mio principio.”
Caterina scuote la testa. Da ragazza non avrebbe mai
pensato di mettersi con un tipo così strano e diverso da lei.
Con uno scrittore. Eppure stanno insieme da tanti anni. Si
trovano abbastanza bene, anche se (lui glielo ha detto) non si
sposeranno mai.
L’ha aiutata in tante cose: anche a trovare lavoro dal suo
editore. Ogni tanto lei pubblica qualcosa per la collana dei
romanzi fantasy per ragazzi.
Caterina si chiede quanto durerà la loro storia e come
finirà.
Riprende in mano la camicia e ne osserva il collo. Sul
tessuto candido scorge qualche segno grigio.
Devo lavarla, pensa. Non sopporta le macchie di sporco
sul bianco: le ricordano il momento in cui la neve diventa
poltiglia. Gli anni in cui i volti invecchiano. La fine delle cose
belle.
Per il suo psicanalista, si trattava di un’ossessione.
Adesso la camicia è ancora una macchia bianca sul letto.
Lei prende la borsa nuova sul ripiano alto dell’armadio. Lo
sguardo si dirige ancora al telefono sul comodino. La tenta-

274
zione di chiamare è forte. È un bisogno irresistibile di sentire
una voce a lei cara all’altro capo. Ma per Caterina è quasi ora
di andare in ufficio.
Suona il citofono. È Paola, la vicina di casa, che lavora
con lei. E che, come suo marito, adora il gatto persiano bian-
co di Caterina.
– Ciao. Vieni, Paola. –
La porta si apre. Si salutano. Caterina offre il caffè e una
fetta di torta, che lui ha già assaggiato con grande piacere.
La farcitura della torta è bianca. La tazzina è bianca.
– Sai, il bianco è il colore che preferisco – dice improvvi-
samente Caterina.
– Allora oggi in ufficio sarai contenta – fa Paola.
– Il nostro collega persecutore si è rotto un braccio e ha
un’ingessatura. –
Caterina ride.
– Come lo sai? –
– Me lo hanno detto per telefono. –
Caterina non smette di ridere. – Gli sta bene, fa sempre
lo scemo con noi. –
Si sente un po’ cattiva. Ma non è bello sentirsi toccare
da uno che non è stato autorizzato a farlo. Ci si sente oggetti
posseduti da altri.
Paola, adesso, sta curiosando nella pagina con il segnali-
bro del libro di Eliot.
– “Nel principio c’è la fine e nella fine c’è il principio”.
Cosa vorrà dire? – chiede.
– Mah – mente Caterina. Invece una risposta ce l’ha in
testa.
La vita di ognuno di noi è qualcosa che comincia a fi-
nire dal suo inizio. Un lungo conto alla rovescia. Forse però,
quando finisce, ricomincia in altri modi. E quando qualcosa
finisce, poi, subito comincia qualcos’altro di nuovo e sempre
diverso. Come le stagioni.
Il colore della vita è il bianco. I colori sul bianco cambia-
no: lo rendono bello. Tranne il grigio e lo sporco.
Caterina non vuole che il bianco diventi sporco. Ma non

275
è possibile opporsi: prima o poi succede. A volte si stupisce
per questi strani pensieri che attraversano la sua mente. La
vicinanza con lui la sta trasformando. Mah. Probabilmente
le sue idee annoierebbero chi le ascolta e nient’altro. Oggi i
lettori vanno a caccia di scandali, sesso e vampiri.
Paola vede il biglietto e l’anello.
– Te li ha dati lui? – dice, sorpresa.
– È uno scherzo – fa Caterina, mettendoli nel cassetto
della scrivania. – Scrive cose assurde. –
Intanto pensa. Un viaggio dal principio alla fine e forse an-
cora dalla fine a un nuovo principio. Un romanzo fatto di raccon-
ti collegati. Tutto è semplice. Basta dire di sì alle poche cose vera-
mente importanti. E fare in modo che il bianco non si sporchi.
– Sai che con le sue frasi fatte da scrittore mi sta facendo
andare fuori di testa? –
La camicia di lui è una macchia bianca sul letto. Lei la
ignora e si prepara ad andare in ufficio con Paola. Sorride al
gatto persiano bianco sul cornicione. Ne imita il miagolio. Si
sforza ancora di non guardare il telefono sul comodino. Tanto
sa già la risposta. Ma, un attimo prima di uscire, all’improvvi-
so dice a Paola: – Vai pure avanti. Devo fare una telefonata. –
L’amica esce e Caterina compone un numero di cellulare.
– Ciao, sto per andare al lavoro – gli dice. – Scusa se ti
disturbo, ma volevo sapere cosa significavano quel biglietto e
quell’anello che mi hai fatto trovare in camera stamattina. –
– Hanno il senso che vuoi dargli – risponde lui, di buo-
numore. – Come nei tuoi romanzi fantasy a interpretazione
multipla. –
– Piantala. Hanno un significato serio o mi prendi in
giro? – fa lei.
– Hanno il senso che vuoi dargli – ripete lui.
– Io so bene che senso dargli. A stasera. Ti voglio bene. –
– Anch’io, Caty – dice lui. Poi aggiunge: – Sai, stanotte
ho capito una cosa: tutte le cose devono finire. Ma non come
nel cerchio di “Finnegans Wake”. Per ricominciare in modo
nuovo, come scrive Eliot. C’è una grande differenza. Anche
noi dobbiamo fare così. –

276
Gli piace parlare per enigmi, come al solito, pensa Caterina,
mentre cerca le chiavi di casa. Ma credo di avere capito. Siamo
arrivati alle stesse conclusioni.
Uscendo con Paola, si gira e guarda per l’ultima volta la
camicia di lui, ancora sporca. Nella parte di cotone pulito e
candido adagiato a caso sulla coperta blu, le sembra adesso,
per la prima volta, di vedere un muso di gatto persiano bian-
co. Anche la faccia dell’uomo che ama assomiglia a un muso
di gatto.
– È vero che ci si può sposare da un prete o da un sinda-
co anche in poco tempo? – chiede a Paola.
– Sì – sorride lei.
Agli occhi di Caterina, la macchia bianca della camicia,
sul letto dalla coperta blu, è adesso un muso di gatto persia-
no. Che, come nelle fiabe, sorride.

277
Bugiardo patentato
Carlo Cascone

– Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo


che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare pra-
ticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono preci-
pitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo
farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì da-
vanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove
abita e non sarebbe un problema. Solo sì.
Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché
ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo. –

Niente male, davvero.


A dirle allo specchio queste cose sembro quasi sincero.
“Sì” non me lo direi nemmeno per sogno, inteso, però
sono bravo.
Con “bravo”intendo che riesco a dire con una certa ra-
gionevole credibilità parole cui non credo affatto, nasconden-
do bene quei dettagli che la menzogna la farebbero fiutare
anche a un bambino: la pupilla che se ne va in su e si dilata,
le mani umide che non stanno ferme, cose così.
Bugie.

278
Ad esempio, con i preti non ho confidenza. Sono agno-
stico: gli uomini che portano la gonna mi mettono un certo
disagio.
Dove abiti il sindaco non ne ho idea: nemmeno so chi sia,
se è maschio o femmina.
Credo nelle persone buone.
Certo, come no.
Ma, ovvio, la migliore di tutte è: sei più brava di me a fare
praticamente tutto. Se questa me la fai passare allora sul serio
mi metto a fare l’attore, o il prete, o il sindaco, o tutt’e tre le
cose insieme.
Senti, e se invece ti dicessi la verità?
Per esempio potrei dirti che quando sto con te non sono
più me stesso. La verità è che divento qualcuno che non co-
nosco. È una sensazione spaventosa alla mia età scoprire di
non sapere chi sono. O che in definitiva sono molto peggio di
quel che credevo.
La verità è che non ho la minima idea di quale sia la ve-
rità, a parte forse che per quanto ne so, per quanto mi hanno
insegnato i miei, tu fai venire fuori semplicemente il peggio di
me: insicuro, instabile, isterico, anoressico, bipolare, impoten-
te, violento, femminuccia, afasico, scostante, misantropo, an-
fetaminico, ridicolo, burbero, autolesionista, metereopatico.
Per cui, in effetti, si potrebbe dire che tu sia la persona
più cattiva che conosco.
Ma neanche.
Perché dire che ti conosco è un’altra bugia, la più grande
di tutte. Chi voglio prendere in giro? Stando con te non ri-
conosco neanche me stesso. Come posso solo immaginare di
conoscere qualcun altro? Di conoscere te?
Invece so a memoria ogni centimetro del soffitto sopra
il letto, quando lo fisso e digrigno i denti e tu di fianco, che
sembra non te ne freghi niente e leggi tranquilla un libro con
un titolo da mentecatti, con una copertina da mentecatti,
scritto da un mentecatto perché lo leggano altri mentecatti. E
tu, placida, che ti crogioli in questo tripudio di mentecattag-
gine mentre io mi distruggo le gengive e imparo a memoria

279
il soffitto, e penso a come fartela pagare, finché tu spegni la
luce e dopo sette secondi russi come un tricheco.
E conosco lo sguardo di tua madre. Che mi sorride, mi
abbraccia e desidera che io muoia, senza soffrire magari, ma
possibilmente in fretta, abbastanza presto perché la sua bam-
bina possa trovarsi qualcosa di meglio di questo fallimento
con il pollice opponibile.
Tu non le somigli, non ti appartiene quello sguardo.
Tu hai preso da papà.
Lui è più limpido, mi stringe la mano e ogni volta non gli
riesce d’impedire al labbro superiore di sollevarsi impercet-
tibilmente in uno spasmo e al naso d’arricciarsi di disgusto
(giusto per una frazione di secondo, ma io lo vedo), seppure
si sforzi di tirare un sorriso; e quando molla la presa, nem-
meno se ne rende conto ma fa come per scrollarsi la mano
al vento. È un gesto appena accennato ma fa proprio come
quando tocchi qualcosa che scotta, o che semplicemente ti dà
il voltastomaco.
A fare due conti, del tempo che ti conosco più della metà
l’ho speso a sorprendermi di quanto in effetti io sia inadegua-
to. Faccio altri due conti e senza dubbio è il tempo in cui sono
stato male supera quello in cui sono stato bene.
Con te, voglio dire.
E se guardo avanti voglio essere franco: lo capisco bene
che il domani significherà meno sesso, meno dolcezza, più
rancori, più scenate, piatti rotti, corna, sberle, avvocati, firme.
La verità è che il “ti amo” di oggi, (lo sanno tutti tranne i
quindicenni), è un’ipoteca sul “ti odio” di domani.
E sai, io mi porto avanti perché un po’ credo di odiarti
già.
Ti odio per il male che mi farai, quando mi mostrerai
cosa significa non desiderarmi più, essere indifferente alle
mie carezze, compatirmi per i miei silenzi. Biasimarmi, ma
senza darmi la soddisfazione di prendertela sul serio.
Ti odio perché farai di me ciò che non sarei mai voluto
essere, e lo farai quando per me sarà tardi per rimediare.
Mi renderai geloso anche del più insignificante tra gli uo-

280
mini, e tu non lo sarai mai, nemmeno della donna più bella
della terra, se pure si sedesse sulle mie ginocchia e mi soffias-
se tra i capelli (che ad ogni modo sono destinato a perdere, a
causa tua).
Mi porterai a desiderare con tutto il cuore la tua e la mia
morte, a maledire ogni santo giorno quello sciagurato in cui
t’ho chiesto di sposarmi.
Cioè, a maledire oggi.
La verità è che non ho idea di quale sia la verità.
So solo che nonostante tutto quello che ho detto e che
penso sul serio, nonostante tutto, io voglio te.
Se devo digrignare i denti credo che voglio farlo vicino a
te. Se qualcuno deve mostrarmi che disastro sono, voglio che
sia tu a farlo. Se devo deludere qualcuno voglio deludere te,
se devo essere mortalmente geloso di qualcuno voglio che sia
tu quel qualcuno; se devo odiare qualcuno più di ogni altra
cosa, voglio odiare te.
Capisco che non sia una proposta molto allettante e ca-
pisco anche che la tua naturale reazione, telefono alla mano,
indecisa se chiamare il 113 o la neuro, sarà di chiedermi
– Perché? –
O meglio: – Perché vorresti me? –
Ti rispondo subito: non lo so.
È vero, sono un cinico e un cretino e un bugiardo paten-
tato, però ora, giuro, provo a non esserlo per un istante e tu
prova a seguirmi, a capire quello che sto per dire.
È per via di quel “Non lo so perché” e di quel “Nono-
stante tutto”.
Sta tutto lì.
Sono i segni inconfondibili, i sintomi conclamati.
“Non lo so perché” e “Nonostante tutto”.
È in loro che in me ravviso il contagio.
E non c’è nulla che possa fare, nulla contro quella ridico-
la, irragionevole, irriguardosa, detestabile disfunzione endo-
crina e psicotica, per cui tra l’altro (inspiegabilmente) ancora
nessuno s’è deciso d’istituire un reparto al policlinico (che al
solo sentir qualcuno pronunciarle, paonazzo, nella balbuzie,

281
le parole – Non lo so perché... Nonostante tutto –, via! TSO:
trattamento sanitario obbligatorio!).
Quel coma irreversibile del buonsenso cui speravo di
scampare, e invece, anch’io... “Non lo so perché” e “Nono-
stante tutto”.
Eccola che m’investe senza che possa farci un bel niente,
la malattia, quella che comincia con la “A” e che solo pensare
di dirla ad alta voce mi fa odiare te, per avermi contagiato, e
odiare me stesso per non avere usato quelle precauzioni che
tutti, amici, parenti, tutti, mi raccomandavano di prendere,
ma soprattutto e comunque odiare te, per quello che mi hai
fatto ieri, per oggi e per domani, odiarti per sempre, per tutta
la vita, felicemente.
Senza sapere il perché, nonostante tutto.

282
Il ristorante francese
FC

– Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo


che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare pra-
ticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono preci-
pitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo
farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì da-
vanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove
abita e non sarebbe un problema. Solo sì.
Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché
ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo. –

Sicuramente aveva scelto quel ristorante per commuo-


verla: cucina francese, tovaglie stirate, vino più vecchio di lei
e pesci dai nomi impronunciabili. Pericolosi.
Lo aveva detto tutto d’un fiato, come se avesse imparato
le frasi a memoria. Veloci e quasi incomprensibili: erano le
ultime parole che si sarebbe immaginata di dover ascoltare.
Ebbe la tentazione di rispondere: no, grazie. E di andar-
sene.
Ma la notte era incredibile: colline nere e cielo giallo. Luci
che si accendono in serie, una dopo l’altra.

283
Di solito, al ristorante, Jeremy la guardava inclinando la
testa e dicendo sì e no senza prestare attenzione a quello che
gli diceva. Mangiava e non si interessava alle sue storie. La
conversazione diventava paradossale.
Come sempre.
Ogni volta che rivolgeva la parola a qualcuno, le sem-
brava di non avere niente da dire. A forza di pensarlo, aveva
finito col diventare una persona silenziosa.
Le piaceva andare a cena fuori e le piaceva avere la boc-
ca piena. Masticava durante la maggior parte del giorno e
quando passava la notte nei locali le sue labbra non smetteva-
no mai di muoversi. Un movimento ripetitivo, ingannevole,
vuoto.
Anche adesso, mentre rifletteva sulla risposta giusta, sen-
tiva le mandibole in preda a delle oscillazioni incontrollabili.
Sposarlo avrebbe significato andarsene dalla casa dei
suoi genitori.
Fantastico.
Nel migliore dei casi, in ambito domestico si sarebbe ve-
rificata una specie di liberazione dopo anni di assedio: niente
più test di gravidanza abbandonati sulle mensole del bagno,
tracce di bicchieri sotto forma di cerchi appiccicosi sul cri-
stallo dei tavolini e altri oggetti destinati alla cura delle parti
intime lasciati in preda alla curiosità di chi passasse lì vicino.
Addio all’obbligo di parlare a tavola e di simulare la per-
fezione, di lanciarsi in dibattiti senza regole su temi come: il
sesso, l’origine della parola “collera”, Biancaneve e i sette nani
e la libertà di movimento al di fuori delle mura domestiche.
Una serie interminabile di prospettive cominciò ad aprir-
si un varco nella sua testa, materializzandosi di fronte a lei e
distraendola dal progetto di rifiutare.
Sarebbe stata capace di trovare la sua strada. Di fare gin-
nastica ogni giorno. Di dire no, grazie, se le avessero offerto
qualcosa di compromettente o impuro.
Da quel momento in poi avrebbe impedito a sua madre
di rovistare fra le sue cose. Più efficacemente e semplicemen-
te, avrebbe buttato via tutte le sue cose.

284
Tranne quella fotografia, forse. La foto di lei e Jeremy
vicino a un albero. Non tanto per l’immagine spoglia, insi-
gnificante, ma perché oramai tutto ciò che quell’immagine
rappresentava era andato perso. Si era dissolto in silenzio e
senza sforzo. Inesorabilmente.
Come avevano potuto vivere così? Così in preda all’ur-
genza del momento presente, così incoscienti rispetto alle
conseguenze delle proprie azioni, del prima e del dopo?
Se lo chiedeva spesso. Qualunque fosse stata la causa, lo
avevano fatto. E adesso lei era lì. Senza riuscire a capire
da dove venissero la delusione e l’angoscia. Era lì. Da sola.
Ad ascoltare qualcuno che le chiedeva di sposarlo. Magari
questa volta avrebbe potuto funzionare. Che cosa rispon-
dere? Non so. Come vuoi. Plastica sui pori e sott’acqua
ossigeno.
Andando all’appuntamento aveva sentito uno slancio di
affetto verso la globalità del pianeta.
La strada era semivuota, l’aria chiarissima e le foglie si
muovevano vorticosamente in tutte le direzioni. Parcheggian-
do davanti al ristorante, aveva visto Jeremy che la aspettava
da solo, seduto in un angolo della veranda.
Vedendola arrivare, le aveva fatto un cenno con la mano
e si era alzato per venirle incontro. L’aveva baciata su una
guancia e aveva sorriso. Era un ragazzo gentile.
Tuttavia, quello che le aveva detto in seguito l’aveva la-
sciata senza parole, come se tutte quelle modifiche fossero
troppo radicali per essere fatte in una volta sola.
Deciso, irreale e a portata di mano, quel ragazzo era
come un antidoto a tutto quello che le era stato fatto. Era lì,
immobile e serio di fronte ai suoi occhi.
Non sapeva bene che cosa rispondergli senza sembrare
idiota. Non sapeva cosa dire. Ma doveva fargli sapere che su
di lei si poteva contare.
Andò in bagno per riflettere.
Lo specchio le restituì un’immagine alterata o piuttosto
un volto che non aveva il coraggio di accettare. La stessa ra-
gazza imbranata di dieci anni prima, troppo grassa, troppo

285
magra, con i capelli finti, solo che adesso utilizzava una cre-
ma antirughe e cercava qualcuno disposto a amarla.
Adesso sognava solamente di valigie a rotelle. Niente zai-
ni. Si chiedeva se anche gli altri stessero cambiando alla stes-
sa velocità (e tutto il resto), tutti uguali.
Sapeva che se si fosse concentrata abbastanza sarebbe
riuscita a morire. Avrebbe trovato abbastanza grazia e deter-
minazione per visualizzare e rendere attivo un grande STOP
sospeso da tempo sulla sua testa.
Aveva la pelle grassa. Tracce simili a polvere sulla faccia
e polvere in tasca proveniente da:
– un biscotto dimenticato lì dopo aver cercato l’accen-
dino.
– un pacchetto di chewing-gum che aveva perso la forma
originale e adesso somigliava a qualcos’altro di molle e
consumato.
Reggere il peso di una conversazione a due era impen-
sabile.
La settimana scorsa aveva visto un vestito da sposa e si
era chiesta come sarebbe stato indossarlo. Addosso a lei, pro-
babilmente, avrebbe perso la grazia e la bellezza. Addio voli
di colombe e primule coperte di brina. Quel vestito non era
stato fatto per una ragazza qualsiasi. Quello non era un nego-
zio in cui entravano ragazze qualsiasi, ma un posto chiamato
H. Defries dal quale lei avrebbe dovuto tenersi alla larga, sul
quale non doveva avanzare nessuna legittima pretesa.
Sentiva i suoi seni spingere, provare a prefigurarsi l’in-
contro con un bustino troppo stretto, anche se sapeva che il
pizzo bianco l’avrebbe resa quasi ridicola.
Un cioccolatino incartato. Era inevitabile e al contempo
sadico.
Ogni volta che ci passava davanti non riusciva a fare a
meno di chiedersi che cosa si provasse a essere accompagnati
in chiesa, a percorrere lo spazio tra la porta e l’altare senza
cadere a vedere tutta la gente che aspetta, che ti aspetta. I
volti degli amici che sorridono e giurano e chiedono. E Pete
al suo fianco.

286
Non sapeva nulla di queste cose, ma era certa che nessu-
no glielo avrebbe chiesto di nuovo.
Si asciugò le mani e tornò a tavola.
Dall’altra parte della strada, un uomo spingeva una ra-
strelliera piena di abiti lungo il marciapiede e la guardava in
modo strano. Non aveva nulla a che fare col paesaggio cir-
costante. Pensò a Jeremy e all’anello, probabilmente troppo
caro per lui. L’uomo era sparito. Jeremy somigliava a un bam-
bino terrorizzato.
Due piccole lettere per non spezzargli il cuore.

287
Indice

pag.
1. Sentirsi __________________________________________________________________________ 7
Anna Bonazza, Lieve ma persistente 11
Andrea Corsiglia, Vorrei che non venisse mai domani 17
Elisa Pibiri, Sentirsi 23
Alessandro Testa, A caccia di leoni 26
Luana Presta, Bolle di sapone 29
Mara Cinquepalmi, La macchia 31
Ludovica Masci, Toccami ancora, toccami 34

2. Piccoli piaceri _____________________________________________________________ 39


Bruno Della Queva, Dopo dieci zanzare 43
Marta Fanello, L’ombra 48
Laura Tommasi, La chiave in tasca 53
Angelo Santoro, Ho portato il gelato al cioccolato 56
Marcello Nicolini, Incredibile 59
Beatrice Lorenzini, L’ultima mossa 63

3. Un dolce ritorno _________________________________________________________ 69


Andrea Cominetti, Occhio per occhio 73
Alessandra Lusso, Ci deve pur essere qualcosa che teiere
e paperelle hanno in comune, e non credo sia solo
il becco 78

289
pag.
Edoardo Brosio, “Chop Suey” 81
Antonio Varriale, Di padre in figlio 85
Francesca Chiesa, Una storia eritrea 90
Valeriana Maspero, Creature imperfette 95
Mario Pirani, Una cosa seria, per una volta 99

4. Un segreto star bene _________________________________________________ 107


Alessandro Smith, Crisalide 111
Iolanda Pompilio, Segreti e libertà legati
da un sottile filo lungo una vita 117
Lucia De Filippo, La curiosità è femmina 121
Veronica Morelli, Marlene 127
Annapaola Paparo, Il sorriso è standard 133
Giordano Genghini (Bruno), Abbondio Tentenna 137
Matteo Boca, A volte essere pendolare ha i suoi lati
positivi 142

5. Questione di equilibrio ____________________________________________ 149


Francesco Caronna, Storia di una caduta 153
Marta Fanello, Primula gialla 156
Clara Calavita (Legolas), Un salto al contrario 159
Annalisa Campanale, Tra moglie e marito non mettere
il micio 163
Luigi Costa (Windzeross), Un senso non ce l’ha 167
Rita Rosa, Cadere in piedi 169
Alberto Cecon, La linea d’ombra 175

6. Fondersi col foglio _____________________________________________________ 179


Lia Gialanella, Metafora di un contest 183
Bartleby, Preferirei di no 187
Lucia De Filippo, Grossi problemi inspiegabili 192

290
pag.
Giordano Genghini (Bruno), Achab segreto 197
Vanessa Navicelli, L’editore ha sempre ragione 203
Grethel Ingrid Mavrovic', L’importanza di chiamarsi
Roberto 207
Elisa Versiglia, Fondersi col foglio. Ma non a causa
del diluente per le unghie 210

7. Rinascere ___________________________________________________________________ 217


Maria Sardella, Ce n’est qu’un début 221
Luca Manzo, Matrioska 226
Simone Carabba, Vene di neve 230
Francesca Baraldi, L’odore della neve 233
Silvia Seracini, Prendi tre, paghi uno 236
Alberto Tosciri, Una fine, ora 239
Grethel Ingrid Mavrovic', Dal rosso al bianco 244

8. Un’unica semplice cosa____________________________________________ 249


Antonello Grassi, Ecco cos’è l’amore, ma anche no 253
Chiara Agostini, Patapum! 259
Francesca Ramacciotti, Una moglie perfetta 263
Valentina Sturli, Voglio una nuora per l’ora di cena 267
Giordano Genghini (Bruno), Una semplice cosa,
tra principio e fine 272
Carlo Cascone, Bugiardo patentato 278
FC, Il ristorante francese 283

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