Il motore emise degli strani rumori, si strozzò un paio di volte e si spense.
Rigirai la chiavetta, accelerai leggermente e ripartii. Ma di lì a poco, appena ebbi svoltato l’angolo della via Del Campo, l’auto sobbalzò ancora, singhiozzò violentemente e si piantò in mezzo alla strada. – Porco schifo! – Proprio non voleva sentirne e a me non restava che parcheggiarla alla meglio e tornare a casa a piedi. – Ma guarda che mi doveva capitare! E proprio in questo posto e di notte! Posteggiai e cominciai a percorrere quella strada infernale. Povera e lercia, disegnava con la sua serpentina uno sfregio sul volto di Catania, una delle sue tante ferite che non rimarginano. Da una grande piazza del centro saliva per qualche centinaio di metri fino alla vecchia chiesa, ormai abbandonata da quando, un po’ più avanti, e in una strada ben più spaziosa, ne avevano costruita una nuova, più grande, più ricca... E con le case terrene che la delimitavano e i suoi vicoletti, la via Del Campo pareva il letto di un fiumiciattolo in secca ricco di minuscoli affluenti. Erano per lo più vecchie costruzioni in pietra, con i muri decrepiti e gli infissi malandati e con le lastre rotte. A percorrerla di giorno, tra i volti delle donne, vecchie e giovani, affacciate alle porte-finestre, le folle di ragazzini sboccati impegnati a giocare a pallone e le gambe tozze e piene di varici delle massaie in sosta accanto ai carretti degli ambulanti, si era confusi dalla sua vivacità e si aveva l'impressione che persino i muri delle abitazioni fossero animati, parlassero o si deformassero per offrire ai passanti una qualche smorfia, un ghigno, o una maliziosa strizzatina d’occhio. Ma a inoltrarvisi di notte, con il silenzio e il buio assoluti che restringevano gli spazi e dilatavano il tempo e con la bocca insolente della miseria che vomitava immagini di rottami e spazzatura, pareva che mille lamenti giungessero agli orecchi, che infinite e impalpabili braccia tiepide sbucassero improvvise dal nulla e avvolgessero il corpo imploranti, e che i due lembi dello sfregio si aprissero inondando l’aria dell’odore dolciastro del sangue.
Evitai di correre. Camminai anzi lentamente. Scendevo giù lungo la strada
irretita da una sensazione di strano calore, una soggezione che mi inebetiva il cervello, mi irrigidiva le membra, mi faceva sudare. Stavo attraversando una trincea, un campo minato. Ogni mio passo era insieme un anello della catena della morte e della salvezza. Come pure le poche finestre illuminate sul ciglio della strada. Non sapevo se confortarmi della loro presenza o invece paventarne una possibile minaccia. Certo, avrei sempre potuto sperare in qualche auto di passaggio che mi traesse in salvo... Quand’ero giunta in prossimità dello sbocco di uno dei vicoli della strada, l’unico illuminato di notte, mi parve di intravedere man mano che scendevo un’ombra proveniente dal vicolo proiettarsi sulla strada. Un brivido freddo come una lama mi attraversò il petto. Non mi ingannavo: l’ombra avanzava a passi lentissimi, quasi trascinandosi... Mi fermai, sentendomi perduta. Dal vicolo venne fuori una sagoma piccolissima avvolta in un cappottaccio e con una grossa gobba da cammello. Si accorse della mia presenza e voltò lentamente il capo nella mia direzione. Io cacciai un urlo: era una vecchia guercia e rugosa, con un foulard annodato in testa, l’occhio verdastro e la pelle gialla come un limone. Da un avambraccio le pendeva una grossa busta di plastica bianca. Quella visione ripugnante mi parve un terribile preludio di sciagura. Rimasi immobile, attonita, forse credevo già d’essere morta. Vidi presto sbucare dall’oscurità prima un gatto, poi un altro, un altro ancora... Gli animali accorrevano da ogni parte in grandissimo numero. Accerchiarono la vecchia, strusciandosi contro le sue gambe fasciate da spesse calze color fumo e camminandole appresso. Alcuni seguivano il suo ritmo lento e pesante, altri si allontanavano da lei per poi riavvicinarlesi. Mentre io guardavo la scena inorridita, certa che quella folla di gatti si sarebbe d’un tratto mutata in una masnada di pipistrelli squittenti. Finalmente, si udì il rumore di un’auto che si avvicinava di corsa. Forse ero salva. La vecchia, che ancora non aveva raggiunto il marciapiede, affrettò ansiosa il passo e si agitò vistosamente, indirizzando agli animali degli strani versi e degli orribili grugniti ammonitori. L’auto non rallentò.
L’auto non rallentò e non s’accorse neanche d’avere lasciato sull’asfalto un
cadavere. Un grosso gatto nero giaceva sul suolo fulminato da una morte che non s’era nemmeno presa l’impiccio di chiudergli gli occhi. – Assassini! – urlò la vecchia tornando indietro. – Assassini! Poi si chinò sul cadavere, lo raccolse per le due zampe anteriori e lo scagliò con rabbia dentro un cassonetto della spazzatura. Aprì infine la sua busta di plastica, ne trasse degli involti e li depose per terra, in un angolo del marciapiede. – Perché dovete starmi sempre intorno, maledetti stupidi, per farvi ammazzare! Volete che smetta di portarvi da mangiare? Non vedete che sono vecchia e non posso arrancare?