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LO SFREGIO

di stefania ruggeri

Il motore emise degli strani rumori, si strozzò un paio di volte e si spense.


Rigirai la chiavetta, accelerai leggermente e ripartii. Ma di lì a poco, appena
ebbi svoltato l’angolo della via Del Campo, l’auto sobbalzò ancora, singhiozzò
violentemente e si piantò in mezzo alla strada.
– Porco schifo! – Proprio non voleva sentirne e a me non restava che
parcheggiarla alla meglio e tornare a casa a piedi. – Ma guarda che mi doveva
capitare! E proprio in questo posto e di notte!
Posteggiai e cominciai a percorrere quella strada infernale.
Povera e lercia, disegnava con la sua serpentina uno sfregio sul volto di
Catania, una delle sue tante ferite che non rimarginano. Da una grande piazza
del centro saliva per qualche centinaio di metri fino alla vecchia chiesa, ormai
abbandonata da quando, un po’ più avanti, e in una strada ben più spaziosa,
ne avevano costruita una nuova, più grande, più ricca... E con le case terrene
che la delimitavano e i suoi vicoletti, la via Del Campo pareva il letto di un
fiumiciattolo in secca ricco di minuscoli affluenti. Erano per lo più vecchie
costruzioni in pietra, con i muri decrepiti e gli infissi malandati e con le lastre
rotte. A percorrerla di giorno, tra i volti delle donne, vecchie e giovani,
affacciate alle porte-finestre, le folle di ragazzini sboccati impegnati a giocare a
pallone e le gambe tozze e piene di varici delle massaie in sosta accanto ai
carretti degli ambulanti, si era confusi dalla sua vivacità e si aveva
l'impressione che persino i muri delle abitazioni fossero animati, parlassero o si
deformassero per offrire ai passanti una qualche smorfia, un ghigno, o una
maliziosa strizzatina d’occhio. Ma a inoltrarvisi di notte, con il silenzio e il buio
assoluti che restringevano gli spazi e dilatavano il tempo e con la bocca
insolente della miseria che vomitava immagini di rottami e spazzatura, pareva
che mille lamenti giungessero agli orecchi, che infinite e impalpabili braccia
tiepide sbucassero improvvise dal nulla e avvolgessero il corpo imploranti, e
che i due lembi dello sfregio si aprissero inondando l’aria dell’odore dolciastro
del sangue.

Evitai di correre. Camminai anzi lentamente. Scendevo giù lungo la strada


irretita da una sensazione di strano calore, una soggezione che mi inebetiva il
cervello, mi irrigidiva le membra, mi faceva sudare. Stavo attraversando una
trincea, un campo minato. Ogni mio passo era insieme un anello della catena
della morte e della salvezza. Come pure le poche finestre illuminate sul ciglio
della strada. Non sapevo se confortarmi della loro presenza o invece
paventarne una possibile minaccia. Certo, avrei sempre potuto sperare in
qualche auto di passaggio che mi traesse in salvo...
Quand’ero giunta in prossimità dello sbocco di uno dei vicoli della strada,
l’unico illuminato di notte, mi parve di intravedere man mano che scendevo
un’ombra proveniente dal vicolo proiettarsi sulla strada. Un brivido freddo
come una lama mi attraversò il petto. Non mi ingannavo: l’ombra avanzava a
passi lentissimi, quasi trascinandosi... Mi fermai, sentendomi perduta.
Dal vicolo venne fuori una sagoma piccolissima avvolta in un cappottaccio e
con una grossa gobba da cammello. Si accorse della mia presenza e voltò
lentamente il capo nella mia direzione. Io cacciai un urlo: era una vecchia
guercia e rugosa, con un foulard annodato in testa, l’occhio verdastro e la pelle
gialla come un limone. Da un avambraccio le pendeva una grossa busta di
plastica bianca.
Quella visione ripugnante mi parve un terribile preludio di sciagura. Rimasi
immobile, attonita, forse credevo già d’essere morta.
Vidi presto sbucare dall’oscurità prima un gatto, poi un altro, un altro ancora...
Gli animali accorrevano da ogni parte in grandissimo numero. Accerchiarono la
vecchia, strusciandosi contro le sue gambe fasciate da spesse calze color fumo
e camminandole appresso. Alcuni seguivano il suo ritmo lento e pesante, altri
si allontanavano da lei per poi riavvicinarlesi. Mentre io guardavo la scena
inorridita, certa che quella folla di gatti si sarebbe d’un tratto mutata in una
masnada di pipistrelli squittenti.
Finalmente, si udì il rumore di un’auto che si avvicinava di corsa. Forse ero
salva.
La vecchia, che ancora non aveva raggiunto il marciapiede, affrettò ansiosa il
passo e si agitò vistosamente, indirizzando agli animali degli strani versi e
degli orribili grugniti ammonitori.
L’auto non rallentò.

L’auto non rallentò e non s’accorse neanche d’avere lasciato sull’asfalto un


cadavere.
Un grosso gatto nero giaceva sul suolo fulminato da una morte che non s’era
nemmeno presa l’impiccio di chiudergli gli occhi.
– Assassini! – urlò la vecchia tornando indietro. – Assassini!
Poi si chinò sul cadavere, lo raccolse per le due zampe anteriori e lo scagliò
con rabbia dentro un cassonetto della spazzatura.
Aprì infine la sua busta di plastica, ne trasse degli involti e li depose per terra,
in un angolo del marciapiede.
– Perché dovete starmi sempre intorno, maledetti stupidi, per farvi
ammazzare! Volete che smetta di portarvi da mangiare? Non vedete che sono
vecchia e non posso arrancare?

[rielaboraz. del febbr. 2011]

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