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**Prologo**

È il 27 agosto del 1416, l’anno cinquantaseiesimo della sua vita.


È l’ultimo dei suoi anni.
Non vivrà più molto. Gli hanno rivelato la sua sorte.
Ha voluto sapere quando e dove sarà. Avrebbe almeno avuto un vantaggio,
tra gli uomini: conoscere l’ora definita e il momento, e il modo. Ha
domandato, più e più volte, la sicurezza della fine.
Gli hanno risposto malamente. È carne da macello, e alla carne da macello
non si devono gentilezze.
Restano le congetture, i sussurri che arrivano fino a quel buco, i conti, i
rimpianti e i ragionamenti, e le previsioni. Qui ha tempo per farne,
costruirne, demolire e ricominciare da capo.
Ma domani, dicono, lo impiccheranno. La corda strapperà e lui renderà
l’anima al Signore.
Lo può sopportare.
Ha avuto una vita piena e bastante. Una vita, crede, giusta.

Cerca di convincersi: giusta.


Perché, in fondo, che cosa si può chiedere a un uomo?
Di essere forte, sano, astuto e coraggioso.
Di fondare la prosperità propria e della famiglia sull’unica politica adatta e
utile, quella della conquista.
Di non lasciare spazio a lealtà e fedeltà, se son fuori dalla propria carne, e
talvolta neppure dentro di essa.
Questo è ciò che pensa; questo è ciò che lo ha portato lì.
In tutti gli anni passati ha cercato di entrare nei giochi, di uscirne indenne,
di prevenire le mosse, di figurarsi al posto di chi avrebbe potuto ridurlo in
polvere.
Ha perso, lo sa.
Lo può sopportare.
È del mestiere.

Ma è contro natura veder morire il proprio figlio e sapere che è per causa
sua che scorrerà sangue giovane. Lo stesso sangue che un giorno aveva
immaginato a succedergli e renderlo eterno.
Giacomo è nascosto da qualche parte, nelle segrete del duca Visconti e il
sangue di Luigi bagnerà le corde dei cavalli che li porteranno alle forche.
Riempirà gli occhi e l’aria di chi verrà a vedere com’è fatto un signore
caduto, e come si recidono anzitempo i suoi polloni. Non biasima il duca
che lo ha infeudato e che lo ucciderà. Avrebbe preso, lo sa, uguale
decisione. Tuttavia, brucia sapere i suoi figli nelle stesse mani e nello stesso
destino. Si spartiranno le sue terre, ma hanno già fatto a pezzi il suo cuore.

**Uno**

“Che succederà, ora?”


Sento la voce di Luigi ma stento a riconoscere le parole. Non rispondo.
“Padre… Padre, che succederà, ora?”
“Non sono un indovino. Taci”, replico infine a bassa voce, ma con una
scortesia secca che fa indietreggiare il viso di mio figlio, proteso verso di
me, pallido, spaventato e coraggioso insieme.
Lo sento che si appoggia al muro al mio fianco, ma fisso ostinato la porta
della nostra cella, la schiena curva, le braccia poggiate alle cosce, le mani
strette, intrecciate, nervose. Non ce l’ho con lui, ma la rabbia cupa che mi ha
preso non ammette distrazioni. La coltivo, la avverto crescere, la spiego e la
cullo dentro di me. Non voglio che se ne vada, mi piace sentirla annidarsi
nella mia testa, nelle mie braccia. Ho il mondo intero contro, nemico, e
voglio che così sia. Fermarmi, voltarmi a guardare gli occhi grigi di mio
figlio, rispondere, levargli dalle spalle la preoccupazione agitata delle sue
trasparenti parole, non lo voglio fare. Non ancora.
So che, se parlassi, perderei la concentrazione indignata che unica può
tenermi in vita, presente a me stesso, pronto a lottare e difendermi. Ad
alzarmi deciso, adesso che entrano quattro uomini e si avvicinano.
“Signore”, abbassano la testa in un saluto rispettoso.
“Signori”, saluto a testa alta, fissandoli bene in viso, mostrando che non li
temo, né loro, né il loro padrone.
Il primo, lo stesso che ha partecipato alla mia cattura, avanza di un passo. È
senz’armi, ma è forte dei tre che gli stanno alle spalle, con la mano alla
cintola, pronti a estrarre dal fodero le corte, sottili lame che si indovinano
desiderose di colpire.
“Vostro figlio, signore”, mi fissa e allunga il braccio sinistro a indicare
Luigi che si è già alzato e mi si è fatto di fianco, spalla contro spalla,
immobile.
“Mio figlio?”, echeggio inutilmente, ancora rabbioso, ma già pronto ad
aprire la porta all’angoscia. Faccio un passo a destra, copro per metà Luigi,
penso a difenderlo, mi chiedo come, mi chiedo che cosa posso, che cosa
vogliono, perché lui, perché non io, perché così, perché.
L’uomo accenna ai tre scherani, loro vengono avanti, li blocco, uno estrae
dal fodero il basilardo e lo stringe nel pugno, l’altro mi allontana col gomito,
come sapesse che, in ogni modo, non sarò in grado di oppormi; io allungo il
braccio, circondo il petto di mio figlio senza nemmeno vederlo, lo fermo,
sento il suo cuore che batte oltre la stoffa del mio abito, e me lo strappano, e
sono pronto a gettarmi avanti, a colpire, a far finire in fretta la giornata.
Adesso, però, la mano di Luigi si appoggia alla mia, mi allontana, si libera
dal mio abbraccio difensivo, mentre lui fa un passo avanti e si consegna,
tranquillo:
“Padre…”, mi guarda e scuote la testa, d’improvviso sicuro, non più
impaurito. Un’occhiata ancora, le sue dita che stringono la mia spalla, e poi
si gira, e segue i nostri carcerieri, e non c’è più, si chiude la porta e io sono
solo, e la mia rabbia è sparita, e l’ultima parola che ho detto a mio figlio è
stata: taci.

**Due**

Per lungo tempo ho creduto che Luigi fosse, tra i figli, il preferito. Quando
l’ho udito strillare chiara e forte la sua venuta in questo mondo, quando ho
sentito le minuscole dita che serravano il mio indice mentre, chino su di lui,
ero intento a scostare la coperta e a rassicurarmi della sua buona salute, ho
pensato di essere di nuovo nato io stesso.
In quel momento, Giovannina era tenuta lontana e assistita da levatrici e
donne, chiamate in gran fretta per tirar fuori al mondo questo figlio che non
voleva più aspettare.
L’aria, intorno, profumava di caldo e di sangue. Un sangue buono, così
diverso da quello delle battaglie e delle morti.
“Chi è?”, ha chiesto Giacomo, aggrappato in punta di piedi alla cuna che da
non molti mesi aveva lui stesso abbandonato.
“Un fratello”, gli ho risposto, allontanando i suoi ricci scuri dalla fronte e
chiedendomi perché non avessi sentito per lui quel colpo profondo nelle
viscere che mi aveva preso davanti a Luigi.
“Chi è?”, ha chiesto ancora, e ho chiamato Mita, che venisse a prenderselo e
a portarlo nella sua stanza.
“È Luigi Ludovico”, ho risposto, mentre lo spingevo nelle braccia della
balia e pensavo a organizzare il battesimo e a come questa nascita avesse di
colpo spazzato via il ricordo fresco della morte di mio padre.
Mita è tornata subito, sola, mi ha fatto cenno alla porta e si è avvicinata alla
cuna.
“Cose per donne, non per uomini”, ha borbottato mentre si chinava sulle
fasce e sollevava il neonato, sicura che da lei avrei sopportato persino di
esser cacciato dalla stanza del mio secondogenito.
Ricordo di aver sceso piano le scale, cercando una delle sorelle: Toniola, o
anche Caterina. Erano ospiti da settimane, e si stavano occupando della
casa, dell’altra sorella, e anche di mia moglie, finché non avesse
abbandonato il letto. La mia dimora cominciava ad affollarsi e io cominciai
a intuire, allora, che cosa sarebbe successo dopo qualche anno. Sono entrato
nella sala grande e mi sono seduto a capotavola. Ho osservato i posti lasciati
vuoti quello stesso anno da mio padre Zilieto e da sua moglie Franceschina.
Ho immaginato mio fratello Antonino, cresciuto, al mio fianco, e dall’altro
lato Giacomo e il nuovo arrivato, e poi gli altri che sarebbero venuti dopo di
loro.
Avremmo festeggiato presto quella nascita, intorno a quel tavolo, con cosce
di cervo ben disposte sulle focacce, e altra carne arrosto, con salse di erbe
verdi e spezie, e salsa bianca agliata, mele e pere delle nostre terre e confetti
con nocciole e miele, cotti nel…
“Sei qui? –, mi ha chiamato Caterina, ferma sulla soglia, la mano che
stringeva la mano di nostra sorella, Margarita, poco più grande di Giacomo.
– Tua moglie può vederti, ora”.
Mi sono alzato e sono salito a ringraziare Giovannina e, insieme a lei, Dio.
E ora, chi posso ringraziare per ciò che mi è stato tolto?

**Tre**

Tuttavia, se oggi chiudo gli occhi e accosto le spalle alla parete disordinata,
che ancora sembra trattenere il calore delle spalle di Luigi; se poggio i
calzari alle tavole sconnesse e le mani sulle ginocchia, abbandonate; se
respiro piano nel silenzio di questo mattino appena nato, e tiro profondo il
fiato su dai polmoni, le domande inutili si allontanano.
Rivedo, con lo sguardo del ricordo, così ingannevole, così gentile, la casa
che ho lasciato pochi giorni orsono per correre a riprendermi Giacomo e a
salvarlo dalle mani del duca.
Entro nell’androne annerito dall’ombra, più scura a me che arrivo dal sole
caldo della strada; salgo le scale larghe e silenziose, e spingo il legno
pesante che cede e mi apre la sala grande.
Chi sarà, a quest’ora, nella sala grande? Certo non i miei nipoti, i miei nipoti
senza più un padre, che non amano vedere le luci dell’alba. Ci sarà Toniola,
la sorella fastidiosa che pure, di nuovo, ha abbandonato la sua dimora per
tenere in piedi ciò che rimane della mia famiglia e affiancare Giovannina nel
governo della casa. Manco da nove, dieci giorni? Sarà corsa anche
Margarita, che è ormai grande, sposata, forse suo marito Ottone l’ha
accompagnata e, mentre io buco le mura della prigione con i pensieri, mia
moglie e le mie due sorelle sono sedute al lungo tavolo, in un angolo, a
tenersi le mani strette e a chiedersi quando torneranno gli uomini di casa.
Venti gradini più su, nel solaratum, le mie figlie stanno vegliando. Francina
saprà rassicurare la giovane Taddea, e può darsi che persino Leonarda,
benché già sposata, abbia lasciato per qualche giorno la casa di messer
Malaspina e sia tornata a Lodi a confortare le sorelle, a ordinare di lavare
bene le camisie e di passeggiare per mille passi prima di andare a dormire.
La città si sveglia, a quest’ora, e posso figurarmi che ci sia mercato e che si
passi strusciando per le vie strette mentre gli artigiani tolgon le assi alle
porte e i venditori preparano i banchi nella piazza. Si mormora e si urla, e si
chiama all’acquisto, e sotto il palazzo sfilano insieme mendicanti e ladri,
truffatori e bottegai. Le donne, allora, si affacciano e spingono fuori i servi,
ché acquistino vino e carni e dolciumi per la tavola, ché anche nella
disgrazia e nel dolore il corpo chiede la sua paga, per sopravvivere.
E io sono qui, che mi perdo in strade ormai lontane, e mi figuro luoghi cari
e sento grida fissate nella memoria. Veloce, affiora tra i pensieri
l'implorazione di Giobbe. Vorrei sapere ugualmente rimproverare Dio e
invocare la maledizione sul giorno che mi ha visto nascere. Ma più forti del
vedere finire i miei giorni nell’infamia, più acuti del tormento di vedermi
strappato un figlio e di sapere prigioniero l’altro, salgono adesso, insieme
alla luce, i ricordi di quello che è stato.

**Quattro**

C’è una riva dell’Adda che si raggiunge scivolando da un pendio dolce. Ci


si sgraffignavano i palmi e le ginocchia, quando si decideva di fuggire da
quelle parti, ma il gioco valeva la pena. A pochi minuti da casa, Antonino e
io potevamo perderci tra arbusti e canne e sciacquìo leggero. Nessuno
sapeva che eravamo lì, o almeno così ci facevano credere e ci piaceva
credere.
Allora, Antonino reputava io fossi un eroe. Allora, non dubitava che avrei
potuto sempre salvarlo con una sola mano, come feci quando davanti al mio
sguardo incredulo lui scivolò in Adda per non darla vinta a un suo trofeo, un
brutto rospo rugoso che gli era appena sfuggito e che, mi raccontò poi,
intendeva impalare e trasformare in segnale della sua furia combattente.
Lo salvai, Antonino, lui e il suo rospo, e gliele suonai pure, mentre tremavo
per l’acqua ghiaccia e la collera.
“Che ti è preso?” e gli mollai un ceffone prima ancora che aprisse bocca.
Non mi attendevo veramente una risposta, una scusa o una spiegazione.
Capivo soltanto, in quel momento, che aveva rischiato grosso. Capii solo
più tardi che ciò che mi arrossava il volto era lo spavento, non la rabbia.
È che il fiume in quel punto forma dei vortici: a guardarli, pare vogliano
portarti con loro e ti chiamano. Molto prima del giorno del rospo ho saputo
di dovermi negare, finché duravo a resistere. Ero stato più e più volte messo
in allerta da balie, servi, zii e padre. Ora toccava a me allertare mio fratello.
Quello schiaffone e le lacrime che ne derivarono mi sembrarono sufficienti.
Talvolta, però, più avanti, più grande e forte, mi sono arreso alle lusinghe
dell’acqua, ho rischiato, mi sono gettato. A volte solo, a volte con Antonino.
Siamo sempre tornati vivi.
Non me ne sono mai stupito: la vita, me ne convinsi presto, era per me un
dovere, un obbligo, ma innanzi tutto un regalo.
La sera, tutte le sere, poggiavo le ginocchia nude al pavimento. Per mio
padre, un modo per rafforzare il carattere; per mia madre, l’umiltà di
preghiera al Signore nostro Dio.
Recitavo a memoria le litanie dovute, e alla fine ringraziavo con fervore e
decisione. Qualcuno, mi raccontavano, mi aveva donato la vita, e dovevo
benedirlo. Lo facevo convinto, ma intanto pensavo che ormai quella vita era
diventata mia.
Nessuno avrebbe potuto togliermela.

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