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12 agosto 2009 - Helsinki

“Lei crede che ci siano speranze di riuscire a riavere il bagaglio entro domani?”,
chiedo tra l’ironico e l’innervosito alla biondissima dello sportello bagagli
smarriti. Lei alza lo sguardo dal modulo che sta riempiendo e risponde
sdegnata “Signora, temo che sia più probabile che lo riceva entro stanotte”.
Benvenuta in Finlandia! Qui dove l’efficienza ti toglie anche la fatica e il diritto di
arrabbiarti.
E così il mio viaggio nel nord Europa comincia leggero e… decisamente troppo
fresco: le maniche corte e i sandali dell’agosto romano sono un po’ fuori luogo
in questa prima, lunga serata sulle rive del Baltico. Mi guardo intorno per
cercare di capire dall’abbigliamento locale se questa temperatura frizzante è
usuale o se è invece un incidente momentaneo da acquazzone improvviso: ma
i finlandesi mi aiutano poco, alcuni sepolti in berretti di lana e giubbotti imbottiti,
altri in bermuda e infradito.
Decido che fa freddo e basta. Così riparo in un H&M di emergenza a spese
Lufthansa, per attrezzarmi un golf e una camicia a maniche lunghe in attesa del
mio bagaglio disperso.
Rinfrancata da un po’ di calore a maniche lunghe, faccio un rapido check-in
nell’albergo sulle rive del porto e, non avendo nulla da sistemare, mi concedo
subito una prima serata senza mappa, a zonzo libero, guidata solo dalla mia
macchina fotografica e dai colori di una città che tira tardi con le luci del
tramonto.
Origini da scugnizza napoletana mi portano verso il mare, richiamo di sale di
una darsena di navi vichinghe degne di un libro di fumetti: noleggio moderno
per turisti aspiranti pirati.

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Su qualcuna ragazzi biondissimi ripiegano vele e lucidano ottoni. Su un’altra si
allestisce una serata di birra e chitarra. Mi guadagno anche un invito a un sorso
di birra vichinga, ma mi sento troppo approssimativa nel mio abbigliamento che
odora di viaggio e nella mia stanchezza. E poi qualcosa mi dice che quella
chitarra non sta per intonare la solita Donna Cannone dei miei ricordi di falò da
spiaggia, che io possa seguire stonata e perdonata.
Vagabondo seguendo i miei sentieri pedonali rigorosamente contraddistinti dal
disegno di un uomo che tiene per mano un bambino (strano de-cliché rispetto a
quello della mamma che passeggia con prole). Non sono uomo e la mia mano è
vuota, ma credo di avere diritto lo stesso a questa corsia preferenziale.
Accanto a me sfrecciano fulmini di ciclisti con i loro caschetti e corridori serali
con musiche da trasporto: ognuno di loro è un innamoramento irresistibile, belli,
alti , biondi, trasudanti salute, di quelli che ti lasciano pensare che dietro occhi
così limpidi e fronti così aperte non possano che esserci menti altrettanto
schiette. Come se le contorsioni degli uomini mediterranei, quelle furbizie non
sempre simpatiche, non fossero altro che lo specchio della confusione nella
quale vivono.
Chi abita tra percorsi differenziati per pedoni e per bici non può essere contorto,
perché abituato a godere con naturalezza delle cose semplici.
Filosofia antropologica delirante con alibi stanchezza.
A un incrocio, per proseguire, il mio percorso pedonale mi imporrebbe di fare un
aggiramento a U dell’incrocio per ritrovarmi poi esattamente di fronte: davanti a
me quattro metri di viuzza tutta dritta mi porterebbero allo stesso punto ma sono
riservati alle bici. Esito, divorata da dubbi morali.
Di nuovo benvenuta a Helsinki!
Sto quasi per svoltare per il percorso più lungo, quando rinsavisco e, non senza
vergognarmi come una ladra, invado la corsia a ruote che non mi spetta e mi
risparmio un giro davvero inutile.
Un brivido di trasgressione con qualche finnico senso di colpa.
Emozioni sufficienti per queste prime ore finlandesi.

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Rientrata in albergo, mi infilo in una maglietta XXL omaggio di una Lufthansa
rammaricata del disguido del bagaglio e lavo i denti con un nécessaire di
qualità. Quasi contenta del disguido e dei miei regalini.

13 agosto 2009 - Helsinki

Il giorno dopo, neanche a dirlo, al mio risveglio di buon’ora lo zaino è lì in


reception. “Scusi ma quando è arrivato?” Il biondone, mio innamorato
finlandese numero 736534, controlla e mi dice “Alle 3.27 signora, ma abbiamo
pensato di non svegliarla per avvisarla in piena notte”.
Per un secondo regalo un invisibile sorriso di ringraziamento al ricordo della
signorina efficiente dell’aeroporto e le do atto di aver mantenuto la minaccia.
Il buffet della colazione trasuda nordicità non solo dai prodotti, ma anche dallo
spirito: le brocche di latte sono distinte a seconda di ben 4 diverse percentuali di
grasso e di lattosio, le uova divise tra quelle bollite per 4 e quelle bollite per 7
minuti, un enorme tavolo di prodotti specifici per chi soffre di intolleranze. Quasi
quasi prenoto un mese di soggiorno per mia madre e il suo esercito di
intolleranze alimentari.
“Vorrei affittare una bicicletta”, dico alla receptionista con occhi mozzafiato. “Le
nostre bici sono a sua disposizione e gratuite”. Ma che meraviglia questo
pianeta!
Inforco il mio bolide rosso con una soddisfazione da trofeo e mi fiondo alla
conquista dei non so quanti chilometri di ciclabile della città. Avida di senso di
appartenenza e allergica alle sensazioni di estraneità, sono già pronta a
festeggiare la mia rapidissima integrazione tra i finlandesi già a poche ore
dall’atterraggio, quando al primo semaforo sono costretta a volare basso: ma i
freni di questa cosa dove sono??? Schivo miracolosamente un paio di
passeggini e riparo in una frenata di emergenza alla Flinstones. La vergogna
brucia poco solo perché è ancora molto presto e in giro c’è poca gente che
possa ridere della mia performance. Freno a pedale, ovviamente: anche per
fermarsi bisogna faticare. Tutta salute.

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Uno sguardo alla mappa giusto per intuire dove sono quelle due cosette
segnalate dalla guida, ma basta guardarsi intorno per capire che questa non è
una città dalle grandi attrazioni culturali: il che, in qualche modo fa più vacanza,
più libertà di pedalare alla ricerca di atmosfere e indizi che mi svelino i trucchi
della vita locale, senza le ansie del turista con la lista degli imperdibili.
Mi infilo nei supermercati con chilometri di scaffali biologici, bevo caffè in locali
di design circondata da cravatte pronte a un'altra giornata di lavoro. Già,
dimenticavo, la Finlandia è un Paese moderno, non va in ferie in massa ad
agosto come da noi. Un rapido pensiero di compassione corre verso quei poveri
turisti che in questo momento si staranno invece aggirando nella mia Roma
fantasma e bollente.
Pedalo, pedalo: la città è già tutta mia, dalle ciminiere industriali, al porto
turistico, dalla stazione al centro. Tutto al ritmo di un ipod che ho deciso di
sacrificare per qualche ora a Sibelius: lo odio, ma è il mio modo di portare
rispetto al Paese che mi ospita. E di cercare anche di capire di più questo
spirito lineare che non lascia trapelare guizzi, né sbavature di genialità.
Esaurisco la mia dose di cultura da cartolina tra la buffa chiesa di Temppelianko
(assediata già alle prime ore del mattino da orde di giapponesi addobbati a
cerimonia) e il museo Kiasma: arte contemporanea da installazioni multimediali,
dove un paio di splendidi tagli di Fontana si perde poco notato, e un
immancabile business carissimo di gadgettistica divertente.
L'ora di pranzo è al colorato mercato di Kauppatori, sulla banchina del porto.
Coloratissimi frutti di bosco sistemati con ordine ossessivo e finnico, cascate di
ciliege scintillanti e dietro ogni banco corpi e visi sottratti alle passerelle d'alta
moda. Il pranzo è – doverosamente – in un chiosco del pesce, con un'overdose
di salmone fresco con contorno di immancabili patate e verdure. Fiumi di birra
gelida e riposino al sole nel parco.
Ma anche la vacanza itinerante armata di zaino necessita dei suoi meritati
intervalli di relax, perfino di lusso a volte, per assaporare quel riposo e
quell'appagamento che fanno di un viaggio una vacanza. E in Finlandia quale
migliore forma di relax e gratificazione se non un'irrinunciabile sauna?

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Un pomeriggio di sudore a cicli di 20 minuti, in un'illusione di benessere
garantito di cui non ho altre prove oltre all'aspetto impeccabile e salutare degli
abitanti di questo Paese. Mi fido dell'antica tradizione scandinava.
Dopo due ore disintossicanti a 80° senti di aver gu adagnato tutta la salute
necessaria ad affrontare un'ipercalorica cena lappone. Ristorante di atmosfera
che sarebbe perfetto, nel nome e negli arredi, con stalattiti alle finestre, metri di
neve sul tetto e un babbo natale alla cassa. Se non mi conoscessi abbastanza
mi riprometterei di tornarci a gennaio. Ma so che non succederà: non mi resta
che chiudere gli occhi, dimenticare le stalattiti e addentare chissà quale animale
un tempo senza dubbio cornuto, coccolata da biondi fidanzati estivi.

14 agosto 2009 - Helsinki

Il secondo risveglio a Helsinki è lento, come di chi non ha fretta di capire le


regole della città e i suoi itinerari perchè li conosce già e ha già un programma
per la giornata che non richiede rincorse né levatacce.
L'isola di Suomenlina sulla carta si presenta come uno specchietto per turisti-
allodole: una vecchia fortezza adibita a una specie di Disneyland per bambini
che vogliono giocare a fare i soldati tra i cannoni puntati contro la terra russa.
Ma pare non si possa dire di essere stati a Helsinki senza avere girato questo
pezzetto di patrimonio dell'umanità timbrato Unesco. La gita in traghetto dura
appena 15 minuti, tra scogli e isolotti. Lo sbarco, è vero, ha un po' il sapore
delle truppe d'assalto, ma per fortuna Sumonelina è grande abbastanza da
poter facilmente disperdere i grupponi. Al di là di musei di storie in realtà non
troppo antiche e di vestigia di fortezze buone per i giochi dei bambini, l'isola è
davvero un incanto: nella parte abitata ci sono case fiabesche con tanto di
bimbi biondi sulle altalene e mamme che stendono al sole pesanti coperte
“estive”. Per il resto è tutto prati e scogliere e viottoli deserti che seguono il
periplo. Cammino e cammino, per scoprirne ogni angolo e ogni scorcio di luce
sull'acqua. Alla fine scelgo il mio scoglio, piatto e degradante nel mare, intorno
a me solo gabbiani curiosi.

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La mia è una sosta che dura ore, con Bach nelle orecchie che ha
fortunatamente sostituito Sibelius, tra letture e spuntini, ogni tanto distratta da
una nave gigante che sembra sfiorarmi nel far rotta su Stoccolma e che smuove
un'acqua altrimenti immobile. Mi sento lucertola ad un sole che qui sembra più
pulito, accampato in mezzo a un cielo che qui sembra più blu: l'effetto civiltà
regala anche l'illusione di un mondo più limpido. Nel pomeriggio l'orizzonte si
imbianca di derive in uscita da allenamento velico.
Mi coloro la pelle e l'animo.
Certo può sembrare buffo che dai nostri bei mari io abbia deciso di venire a
passare intere giornate su questi scogli baltici e poco balneabili (anche se
qualche temerario l’ho visto). Ma quello che d’estate manca sulle nostre coste è
quel rapporto di intimità col mare che invece qui posso assaporare fino in fondo:
tra me e l’acqua non ci sono tappeti umani unti di solari, ma solo scogli deserti,
e il rumore delle onde non è disturbato da musiche disco, tam tam di
racchettoni o urla di bambini maleducati. La relazione viscerale che intrattengo
da decenni con il mare non tollera interferenze e, quindi, d’estate l’alternativa
alla barca a vela sono le coste del nord. Il mare nostrum lo riscopro poi a fine
stagione, quando gli stabilimenti ci restituiscono le spiagge e l’obbligo delle
maniche lunghe dissuade i fanatici dell’abbronzatura.
Così per ora sono qui, e più guardo quel faro in lontananza, più scrosciano le
vele in virata, e più mi compiaccio della scelta.
Nel pomeriggio il rientro in traghetto è incorniciato da nuvoloni neri e minacciosi.
Accanto a me una sposa radiosa rientra da Sumonelina dopo aver detto il suo
“si” nella chiesa dell’isola, come molte coppie pare usino fare per dare un tocco
suggestivo alla cerimonia e alle foto ricordo. Da noi avrebbero affittato un
motoscafo off shore e invece loro viaggiano sul traghetto pubblico da 4 euro.
Chissà se anche in Finlandia usano il detto “sposa bagnata, sposa fortunata”,
mi chiedo appena sento le prime gocce.
L’arrivo a Helsinki è uno scroscio di pioggia con tanto di fulmini. Il cielo mi dice
che non durerà a lungo, con quegli sprazzi di blu tutto intorno al nero che
adesso sta sfogando. E l’attesa del sereno è un ottimo alibi per regalarsi una

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fetta di torta con panna dal leggendario Faser. Confesso di non aver saputo
resistere neanche alla cioccolata calda.
Sauna e relax prima di quest’ultima sera a Helsinki.
Ancora faccio fatica ad uscire per cena con tanta luce: vita sociale da zanzare,
alle prime luci del tramonto, verso le 21.30 si riempiono i ristoranti e i caffè. Al
calar del buio, quando ormai l’orologio segna un orario da notte, la gente
scompare. Il buio a Helsinki svuota le strade esattamente come da noi, d’estate,
le riempie.

15 agosto 2009 - Tallinn

Il terzo risveglio finlandese è un preparativo di partenza: l’alternanza vuole che


a tre giorni di riposo e comodità segua un morso di fatica e avventura. Si svuota
la stanza dalle cianfrusaglie sparse e si richiude lo zaino. Ultima doccia infinita
e immacolato telo di spugna.
Mi aspetta una nave rossa che non poteva non appartenere alla Viking Lines,
ponte quotidiano di questa piccola striscia di Baltico che unisce Helsinki a
Tallinn, l’Europa veterana a quella più giovane.
L’attesa dell’imbarco è lo spettacolo di una regata di ferragosto, o di un sabato
qualunque dal momento che non credo che il calendario finlandese abbia
colorato di rosso questo giorno. La prima cosa che mi colpisce è la quantità di
scafi in legno, lunghi, slanciati ed eleganti, silenziosi siluri di bolina. Buffo
vederle sventare all’improvviso per lasciar passare un pachiderma da crociera
che pare aver diritto di precedenza.
I miei compagni di traversata cambiano un po’ i paesaggi umani ai quali sono
stata abituata fino ad ora: i colori restano gli stessi, ma l’eleganza sfuma e
improvvisamente compaiono dozzine di false Tshirt di Gucci e scarpe dozzinali.
Boccali giganti di birra dovunque per brindare a questo galleggiante inizio di
giornata. Non mi sento razzista, anche perché per me resta l’indistinguibilità
delle mille lingue gutturali della regione che non mi consente di individuare
provenienze che possano suscitare valutazioni preconcette. Pura curiosità
antropologica la mia.

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Le poche ore di navigazione, in realtà, rendono questo tragitto un passaggio
battuto verso sud da tutti gli scandinavi in cerca di prezzi più bassi (soprattutto
per alcool e tabacco) e verso nord… non saprei, forse per sovietici ed ex
sovietici in cerca di modernità.
L’arrivo a Tallinn, dopo due ore di sole e vento sul ponte vichingo, è un
avvistamento di guglie della città vecchia e un preavviso di medioevo nordico,
quello di fate e folletti, boschi e gnomi.
Il passaggio per l’ostello e il primo giro in città mi danno una prima sensazione
di fuori tempo anagrafico: i miei 35 anni sanno di vecchio in mezzo a queste
orde di ragazzini esploratori low cost. E a dire la verità, neanche il sesso ho
indovinato, visto che intorno a me sono principalmente bande di ragazzi, chissà
forse ancora attratti dal luccichìo delle bionde chiome e da leggendarie facilità
di conquista.
La città è effettivamente un gioiello di viuzze medioevali dai tetti a punta, le
finestre in legno e i muri colorati guarniti di fiori in ottima salute. Rimpiango solo
di non esserci venuta 20 anni fa, prima che diventasse un luna park per turisti.
E in effetti non sono l’unica ad aver avuto l’idea di un salto a Tallinn: sarà il
sabato, sarà agosto, sarà che le sigarette costano poco, ma insomma la piazza
centrale è un tappeto di gente. E, soprattutto, quanti italiani!
Mi lancio in un lungo peregrinare senza meta, rinviando al giorno dopo i
percorsi consigliati, per rifocillarmi prima con una gigantesca torta fiabesca al
cioccolato in un cortile fiorito, e poi addirittura con una cena “medioevale”. La
guida mi segnala un ristorante che ha tutta l’aria di un trappolone, con tanto di
camerieri in costume tradizionale. Ma il posto è affollato e i piatti giganti non
mentono. Così mi lascio avvolgere in una delle loro copertone (possibile che a
Tallinn faccia più freddo che a Helsinki?) e mi scelgo il mio tavolino all’aperto.
La zuppa e il trionfo di maiale mi saranno serviti da un simpatico biondino
vestito da elfo!
La guida decanta le meraviglie della vita notturna della città, e la presenza di
così tanti giovani ne è la prova. Ma io sono fuori tempo massimo e mi
accontento di un paio di birre nei pub del centro, ad ammirare estasiata trenini
di biondissime scosciate che urlano divertite, coppie di innamorati scuro lui –

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bionda lei, gruppetti di ragazzi profumati in cerca di una storia da raccontare al
ritorno.

16 agosto 2009 - Tallinn

Al risveglio di pioggia ho esultato: ho immaginato una città più mia, da godermi


lontano dalla folla magari tenuta lontana da postumi di sbornia e pioggia fitta. E
infatti così è. Un saluto agli incontri dell’ostello, già in rotta per altrove,
promesse di incroci nelle prossime tappe comuni, e poi via a zonzo per Tallinn
con cappuccio impermeabile.
Il grigio di pioggia smorza i colori da cartolina ma restituisce atmosfera a una
città più naturalmente votata, per geografia, al brutto tempo, o almeno così è
nel mio immaginario: fa più…medioevo, tutto qui. Non erano del resto “tempi
bui” quelli?
Segno il percorso indicato dalla guida e poi, come suggerisce la guida stessa,
la chiudo e vago. Non è difficile orientarsi in questo minuscolo centro storico,
dove mi ritrovo presto per stradine già percorse almeno un paio di volte. Mi
inerpico su verso il palazzo Alexander Nevskij a Troompea, Tom Mac Rae a
tutto volume nelle orecchie. A giudicare dalle mie inclinazioni per atmosfere
lugubri e nordiche, per i luoghi solitari e isolati, si potrebbe concludere che sono
un tipo triste e asociale. Non è così: ho un sorriso gigante sul viso, gioisco di
ogni scoperta, di ogni curiosità, e faccio amicizia alla velocità della luce. Non
sono tipo da discoteca, questo è vero, ma in compenso Mozart sa farmi
divertire. Insomma, tant’è, giusto per chiarire, non sono in crisi, non cerco fughe
e il mio umore è ottimo. Sicuramente migliore di quello di questi reduci di lunghe
notti che attraversano la città barcollanti e borbottanti: chissà se inveiscono alla
pioggia o all’alcool.
Mi infilo nella cattedrale, in mezzo a occhi azzurrissimi incorniciati da fazzoletti
variopinti, tra segni della croce al contrario: piena liturgia ortodossa. Tanto oro e
incenso, tante immaginette dei soliti Nicola e non so chi altro.
Verso ora di pranzo il sole comincia a riaffacciarsi intermittente. Mi rimpinzo in
un posto carino pieno di giovani affamati e poi cerco riposo e lettura su una

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panchina. Il centro della città, dentro le mura, non è ricco di giardini, né di
panchine. Così l’istinto mi porta a cercare un campanile, una chiesa, perché
dove ce n’è una normalmente c’è un cortile, un prato, un muretto. Ecco il
campanile, la chiesa, il giardino e… i lettini! Mai visto nulla di simile: invece di
mettere panchine, di fronte alla chiesa, nel piazzale, hanno costruito dei veri e
propri lettini in cemento. Orientati un po’ a caso o verso le guglie della chiesa o
verso i palazzi circostanti, a guardare chissà cosa.
Il vantaggio di chi ha tempo è quello di potersi soffermare: si notano le persone
che brulicano di domenica intorno al cortile di una chiesa, al primo rispuntare
del sole, i bambini che sguazzano nelle pozzanghere, incolumi nei loro stivali di
gomma, l’esercito di personaggi che riempiono i loro bagagli di plastica
rovistando nei cestini dei rifiuti per rubare anche un ultimo fondo di birra a una
lattina buttata un sorso prima della fine, i vecchietti incappottati di lana e ricordi.
Al rientro in ostello si organizza una serata con i nuovi arrivati della stanza:
birra, cena e lezione di salsa. Si ok, l’ultima parte non fa proprio per me, ma il
mio occhio curioso e la mia macchina fotografica non sono mai sazi di novità.
Ed è così che a pancia piena si finisce in un locale dove un gruppo di
acchittatissime ragazze estoni attira nella rete del ballo una nutrita folla di
affamatissimi e goffissimi turisti che sgambetta alla rinfusa, probabilmente
confusi dagli occhi di ghiaccio delle fanciulle. A tratti sembrano scene di lotta
fantozziane in cui animaletti scoordinati cercano di aggredire corazzieri
impassibili. L’atmosfera si fa presto calda: esco a prendere un po’ d’aria e a
scrivere qualche email. Vicino a me si siede Robert: tira fuori il suo quaderno di
disegni e una manciata di pennarelli e comincia a tratteggiare schizzi del
palazzo di fronte, uno di quelli che sembrano usciti dai libri di Hansel e Gretel.
Io scrivo, lui disegna. Entrambi con lo sguardo basso sui nostri fogli da riempire,
intrecciamo un’amicizia di strada, raccontandoci come siamo finiti su quel
muretto, lui con il suo aspetto da Gesù Cristo e il suo accento british, io con
tutta la mia italianità stampata addosso. Incontri di viaggio, storie di mondi che
si sfiorano.

17 agosto 2009 – Isola di Saaremaa

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Alla stazione degli autobus questo Paese boutique svela un po’ della sua vera
identità e, soprattutto, del suo passato: le facce non sono più quelle da vetrina
del centro storico, ma quelle che ricordano un’Unione Sovietica che ho visto in
tv. Le valigie sono diventate borsoni da sport di marche copiate e i palazzi
intorno hanno perso i tetti a punta e i colori accattivanti, per diventare squadrati
e grigi. Sull’autobus diretto all’isola di Saaremaa saremo non più di 15 persone
di cui 5 turisti. Già mi pregusto un viaggio comodo e spaparanzato quando
scopro con raccapriccio che i posti sono numerati: terrorizzata cerco il mio
numero e ovviamente (che dubbio c’era?) scopro che è quello accanto a un
vecchietto che siede a gambe larghe, occupando anche buona parte del mio
posto. Sì, è vero che adoro entrare in contatto con la vita locale, ma un contatto
di quasi 5 ore, così ravvicinato e per di più con un signore che di certo non
spiccica una parola di inglese… mi sembra un po’ troppo. Comunque faccio la
brava e mi raggomitolo in quel che avanza del mio posto, agguanto il mio
Proust e mi immolo sull’altare estone della precisione numerata. Ovviamente
non sono nemmeno dal lato del finestrino, quindi ogni tanto devo rubare scorci
di paesaggio tra un braccio e una smorfia del vicino.
E’ un viaggio che ricorda a tratti la Serbia, con le sue case di legno sgarrupate
in mezzo al nulla, e a tratti la Danimarca, con le sue villette pastello, con prato
ordinato e fiori coloratissimi. Per il resto betulle, pini e campi.
Dopo un’oretta mi volto e, alla faccia della precisione estone, mi accorgo che gli
altri avventori si sono tutti sparsi per il bus e ronfano allungati in posti non loro.
Caro vecchietto, non si offenda, resterei volentieri ma… Non l’ho detto ma l’ho
pensato. Via! magari non dormirò lo stesso, ma anche Proust scorre meglio a
gambe distese.
Nel percorso è compreso anche un breve tratto in traghetto. E poi di nuovo
betulle e betulle. La guida dice che l’isola è un gioiello naturalistico rimasto
intatto, e per questo ho prenotato 2 notti, nella speranza di trovare il modo per
girarla un po’.
Le indicazioni per raggiungere il b&b dalla stazione degli autobus sono chiare, è
delle distanze che comincio ad avere i miei dubbi. Sarà lo zaino in groppa, ma

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mi sembra tutto tremendamente distante! E infatti lo è. Cammina cammina,
svolta qui, svolta lì… Sono i momenti in cui ci si chiede “ma chi me lo ha fatto
fare? vanno tutti a Parnu a fare feste sulla spiaggia e io no, vero?” Alla fine, ma
proprio alla fine della mia pazienza e delle mie energie, eccolo lì il b&b. Carino,
non c’è che dire, stanza da sogno, non c’è che dire, ma lontanoooo. Il
proprietario è in vena di amicizia, io di doccia. Faccio 13 minuti di
conversazione e poi azzardo delle cose urgenti da sistemare. Pace, ora posso
apprezzare anche i gerani alla finestra e la televisione in camera. Devo trovare
una soluzione ai chilometri che mi separano dal resto del paese. L’unica mi
sembra quella di affittare una macchina, così che stasera non debba tornare di
nuovo qui a piedi e che domani abbia un mezzo per scoprire le meraviglie di
un’isola – per dimensione - non proprio a portata di bicicletta.
Gambe in spalla e torno in paese.
L’attrazione principale del posto, betulle e spiagge a parte, è il suo castello del
XIII secolo, con tanto di fossato intorno e vista sul mare.
Per il resto è il solito fiorire di bar carini e ristori di vario genere. A differenza di
Tallinn, però, questi mi sembrano vuoti e con atmosfere di fine stagione: sarà
perché è lunedì o perché ormai è passato il giro di boa di ferragosto, ma questa
che dovrebbe essere la Capri di mezza Svezia e Finlandia mi sembra piuttosto
una località della costa adriatica alla fine di ottobre.
Per scoprire l’isola, le sue scogliere e le riserve naturali che mi hanno attratto fin
qui, non mi resta che affittare una macchina. Arraffo qualche indirizzo all’ufficio
informazioni. Il primo ha solo macchine costose. Il secondo faccio fatica a
trovarlo: il paese non è enorme, eppure mi sembra di girare a vuoto. L’indirizzo
è quello, ma non vedo nessun rent a car. Entro nella reception di un albergo nei
paraggi per chiedere dove si trova il posto della locandina che sventolo sotto al
naso della ragazza. Un consulto con il collega, uno sghignazzo e poi mi
indicano una casetta in un cortile lì dietro.
Insegne nessuna, ma sulla porta un foglio artigianalmente confezionato al
computer pubblicizza effettivamente un affitto auto.
Entro circospetta in un vestibolo con divanetti in pelle e musica in sottofondo.
Avanzo nella penombra e una biondina dietro un bancone mi guarda incuriosita:

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sospetto di aver ancora sbagliato posto, ma visto che ci sono chiedo comunque
dell’autonoleggio. La ragazza sorride e, impacciata, prende il telefono. Dietro di
lei scaffali zeppi di superalcoolici. E’ un bar? Mentre la bionda gutturaleggia
qualcosa con qualcuno al telefono, io aguzzo lo sguardo nel buio alla mia
destra e, circondato da piccoli faretti rossi, scorgo un piccolo palco tondo
con…un lungo palo al centro!
Ma è un locale per striptease! Meno male che almeno sono fuori orario…
Nel frattempo la tipa ha attaccato e mi dice di aspettare 5 minuti e di
accomodarmi.
Perplessa, mi seggo su uno dei divanetti in similpelle e per i successivi 4 minuti
oscillo – nell’imbarazzo di un enorme fuori luogo – tra il desiderio di fuga a
gambe levate e la vergogna di abbandonare il campo senza dire una parola:
quasi mi faccio scrupolo di offendere la signorina.
Nel mezzo del mio titubare arriva roboante una vecchia familiare degli anni 70 e
ne scende un ventenne che mi viene incontro chiedendomi se sono io che
voglio affittare un’auto. Si, spiego che ne vorrei una piccola per un giorno solo.
Lui mi indica il catorcio dal quale è sbarcato e mi dice di avere solo quella.
“Peccato”, esulto, “ne volevo proprio una piccola piccola”. Sorrido e scappo
sollevata.
Provo a telefonare all’ultimo autonoleggio, ma ovviamente alle 19 ha già chiuso.
Non mi resta che annegare in una gelida Saku alla spina in un locale che fino a
qualche settimana fa doveva essere in pieno boom di gitanti e ora deve
accontentarsi di me e di un altro avventore solitario, con tutta evidenza
straniero, con altrettanta evidenza deluso dall’atmosfera da bassa stagione.
Le birre diventano tre, tra un appunto e qualche email. L’altro ospite ha appena
ordinato una pizza. Non è poi una cattiva idea, non quella della pizza, per
carità, ma quella di proseguire l’aperitivo con la cena. Così ordino un piatto di
pesci affumicati e una zuppa. L’altro sorride soddisfatto che io abbia seguito il
suo esempio. Ricambio il sorriso. Ormai siamo alle battute di avvio di un duetto.
Lui tira fuori dallo zaino un librone tipo Wilbur Smith e molto tedesco. Io tiro fuori
il mio piccolo pocket americano leggero e spiritoso che mi sono guadagnata per
aver finito i Guermantes. Lui mangia. Io mangio. Lui legge. Io leggo. Dopo

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un’oretta abbondante di perfetta sincronia, paghiamo i rispettivi conti, ci
incontriamo sull’uscio, uno scambio di sorrisi e un sincero, reciproco, “it was
nice meeting you”. Poi ognuno per la sua strada, la sua rotta, il suo viaggio, con
dell’altro solo il ricordo di un duetto riuscito.
Le lenzuola profumate della stanza tutta mia sono una carezza rassicurante alla
fine di una giornata poco concludente e vigilia di un domani che, senza
macchina, potrebbe decretare l’inutilità di questa tappa. Male che va riparerò su
qualche spiaggia con una bici.

18 agosto 2009 – Isola di Saaremaa

Al risveglio ho come commensale di colazione una signora francese


ultrasessantenne che da anni passa le sue vacanze in posti sperduti della
Repubbliche Baltiche, della Scandinavia, della Polonia. Il che mette un po’ più a
fuoco l’idea da off the beaten track del posto dove sono finita.
Fuori diluvia, altro che bici, altro che spiaggia. Poi come per miracolo si apre
una porta e spunta un gruppetto di spagnoli trentenni appena arrivati e molto in
vena di esplorazioni. Secondo il copione svergognato dei routards, entro a
gamba tesa nei loro programmi per la giornata e propongo di dividere la spesa
dell’affitto di una macchina. Scambio di sguardi incerti ma educati tra di loro, nel
tentativo di capire in pochi secondi a) se sono un serial killer, b) se sono
simpatica, c) se conviene per così poco risparmio rischiare di essere
accoltellati, seviziati o quanto meno annoiati per un’intera giornata da un’intrusa
italiana.
Supero la prova, affare fatto.
Mentre io finisco di prepararmi loro recuperano la gita a piedi al castello che io
ho già fatto il giorno prima e poi ci diamo appuntamento per prendere possesso
dell’auto.
Mentre li aspetto all’ufficio turistico mi faccio decantare dalla signorina di turno
le meraviglie dell’isola che vale la pena di scoprire.
I ragazzi spagnoli non mi tirano il bidone e si presentano puntuali
all’appuntamento.

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Per 20 Euro da saldi di fine stagione ci rifilano una monovolume VW di una
decina d’anni, ma perfetta per la bisogna. Via, tra uno scroscio di pioggia e
l’altro. Fiduciosi decidiamo di far rotta su una delle punte nord dell’isola, dove la
cartina segna un parco naturale con flora e fauna protette e un percorso a piedi
di 8km da fare costeggiando il capo. Aggiudicato.
Corriamo lungo strisce di asfalto deserte che tagliano foreste infinite di betulle.
Bello, sembra di essere in una di quelle pubblicità di auto nordiche: ci manca
solo che da un momento all’altro passi in sovraimpressione la scritta “Volvo, il
piacere di guidare”.
Betulle e ancora betulle. Poi l’asfalto diventa strada sterrata, che con questo
tempo significa fango e pozzanghere. Gira qui, svolta lì, siamo sempre in
mezzo alle betulle, è sempre bello – per carità – ma del parco non c’è traccia. E
del mare nemmeno: ma non siamo su un’isola? A un certo punto, quasi per
caso, ci ritroviamo su una spiaggia di ciottoli, infinita e deserta a perdita
d’occhio. All’orizzonte un capo che potrebbe essere quello che stiamo
cercando. Indicazioni nessuna, esseri umani neanche. Solo betulle che non
rilasciano informazioni. Ci fidiamo dell’istinto e ci dirigiamo, tra i primi
sghignazzi, lì dove crediamo essere la nostra meta.
Pozzanghere, betulle, e neanche lo straccio di un’indicazione. Dopo un’oretta di
allegro vagabondaggio, finalmente compare la scritta del parco e una sbarra
segna l’inizio del percorso a piedi. Esultiamo al nostro successo e al sole che
benedice l’inizio del nostro trekking improvvisato: senza cartine né indicazioni ci
avviamo felici in quello che ci hanno detto essere un percorso circolare lungo la
penisola del capo, con passaggio accanto ad un vecchio faro abbandonato che
segna l’estremità del capo. Infatti dopo poche decine di metri c’è un bivio:
destra o sinistra? Se è circolare non farà troppa differenza in fondo. Sinistra.
Contenti e sgambettanti, vento in faccia, ci avviamo a passo sostenuto lungo la
costa. Chilometri di spiagge deserte, ciottoli, sabbia e baltico. Verso l’interno,
invece, prati e foreste sullo sfondo. Bello, bello, fico, fico. Foto qui e foto là.
Cammina, cammina, cammina. Il sentiero è segnato da paletti, ma non un
cartello che indichi a che punto si è del percorso. E non un essere vivente al
quale chiedere. Del faro nessuna traccia. Nel nostro ottimismo si insinuano i

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primi dubbi e ognuno di noi fa segretamente i conti con i nuvoloni all’orizzonte,
con la mancanza di viveri e con i chilometri già fatti che, comunque, anche a
volerli fare a ritroso, non sono pochi. Ma nessuno confessa pessimismo e
proseguiamo a passo svelto. Dopo altri 40 minuti siamo alla fine del mondo,
sulle rive del Baltico e… miraggio… alla nostra destra un faro in lontananza che
è poco più di un minuscolo puntino. Se quella è la metà del percorso siamo fritti:
i muscoli cominciano a far sentire la loro e lo stomaco si unisce alle lagnanze.
Ma ormai è diventata una folle questione di cocciuto principio e di tornare sui
nostri passi non se ne parla proprio. Non un lamento, solo qualche risata di
esorcismo e si va avanti. Ancora sabbia, ancora vento, ancora Baltico. Nel
frattempo quel po’ di ghiaccio da sconosciuti tra di noi si è completamente
sciolto, uniti rapidamente dalla sventura e dalla latinità. Il faro-puntino si fa
faticosamente sempre più vicino. Ahhhhhh, l’urlo è mio e nella tensione ormai
evidente della stanchezza provoca sobbalzi di paura. Ma il mio era un urlo do
giubilo per segnalare l’avvistamento di esseri umani in prossimità del faro.
Neanche avessimo avvistato la terra promessa, affrettiamo ancora di più il
passo e ci fiondiamo verso di loro in cerca di informazioni e di speranze.
Li abbordiamo festanti e chiediamo da dove siano sbucati, dove porta il
percorso dal quale sono arrivati e, soprattutto, quanto dura e quanto siamo
distanti dalla civiltà.
Lei, probabilmente svedese, tira fuori una mappa dettagliatissima del parco (ma
dove l’ha presa che non c’era nulla e nessuno all’ingresso?) e ci mostra dove
siamo, in un punto del tragitto circolare, ma non certo a metà: noi abbiamo fatto
la parte lunga, diciamo i ¾ del percorso per arrivare al faro, mentre loro,
venendo dall’altra parte, hanno impiegato appena 40 minuti!
Ci sentiamo degli eroi, anche se un po’ imprudenti, e ci consoliamo orgogliosi
all’idea che alla fine avremmo fatto l’intero percorso e non un avanti e indietro
fino al faro come quei pivelli di svedesi.
I 40 minuti che ci separano ora dalla macchina sono un conto alla rovescia su
terra finalmente battuta, costeggiando laghi e pinete alla cui bellezza ormai non
esultiamo più, avidi di riposo e di cibo. Desideriamo solo arrivare alla macchina
e a una bistecca con patatine, gelato, cioccolato e panna.

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Quando finalmente arriviamo all’auto è un sospiro di salvezza con cui
ringraziamo la fortuna e il tempo che, se avesse voluto, avrebbe potuto
trasformare l’avventura lungo un percorso senza l’ombra di un riparo in un vero
incubo.
Partiamo a razzo alla ricerca di cibo, visto che ormai sono quasi le quattro del
pomeriggio.
Dopo betulle e betulle, il primo paese che sulla carta ha una dimensione
decente, se non da ristorante almeno da bar, non è invece altro che tre case,
una chiesa e uno sparuto mercato di abbigliamento triste. L’unica salvezza è
uno spaccio nel quale facciamo irruzione e dove ci avventiamo su pane,
formaggio, patatine in busta e tavolette di cioccolata.
Divoriamo tutto in religioso silenzio sul prato della chiesa.
Ingoiato l’ultimo boccone di cioccolata, abbiamo finalmente ripreso colore e
siamo quindi pronti per scoprire le altre meraviglie imperdibili dell’isola, basta
che non si debba camminare un altro centimetro di più. Così decidiamo di
andare a vedere le “famose” falesie della costa nord. Ce ne hanno indicate due
non distanti l’una dall’altra.
Betulle e ancora betulle.
I nomi di paesi sulla carta corrispondono solo a punti dell’infinita foresta, al cui
interno c’è probabilmente una o due case e nulla più: non una piazza, una
pompa di benzina, un bar. Nulla. Betulle e betulle. Nel tentativo di trovare
l’ottava meraviglia, ovviamente non segnalata, ci addentriamo in sterrate
fangose, orientati solo dal calar del sole che ci indica l’ovest sulla mappa: istinto
di marinai che però non ci conduce alla meta. Ci ritroviamo invece con la
macchina sui ciottoli di una spiaggia. Proseguiamo per un po’ nella speranza di
ritrovare una strada più in là, ma continuiamo solo a sobbalzare sui ciottoli,
convinti di star facendo qualcosa di severamente vietato. Alla fine, diamo forfait
e ci convinciamo che se proseguissimo saremmo solo un po’ più delinquenti
con l’automobile sulla spiaggia, ma non troveremmo nessuna strada a riportarci
sulla retta via.
Così giriamo la capa al ciuccio, come si dice a Napoli, e torniamo sui nostri
passi.

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Abbandonato il miraggio della prima falesia, puntiamo quindi sulla seconda, che
sulla carta sembra più facile da raggiungere.
Infatti è così, peccato solo che la nona meraviglia è poco più di un burroncino
sul mare alto solo qualche decina di metri. E le solite betulle e il solito prato
verdissimo che arriva fino al bordo del dirupino.
Al calar del sole che, nonostante siano le otto passate, non accenna ancora ad
arrossire, concludiamo tra le risate che l’isola in realtà non ha stupefacenze da
offrire, se non quella di uno spaccato di estonicità e di betullità, fatta di un
abitante ogni dieci chilometri quadrati di boschi.
Ci chiediamo come possa essere la vita di chi nasce qui, fuori dalla cittadina
principale, e che magari di inverno deve fare chissà quanti chilometri nel buio
per raggiungere la scuola più vicina e, da adulto, trenta chilometri in andata e
altrettanti a ritorno per fare un pieno di benzina e consumarne subito una buona
parte. Per non parlare di cinema e vita sociale.
Considerazioni che si perdono in un brivido di tristezza e desolazione, e di birra
gelata.
Cena al calduccio del b&b, fuori di nuovo pioggia a dirotto.

19 agosto 2009 – Tartu

La partenza da Saaremaa è un risveglio alle 6.30 già pieno di sole e un autobus


di prima mattina in direzione Tartu, la città universitaria dell’Estonia.
Mi piacciono le stazioni e i loro adii, le mamme che condividono senza peso la
levataccia dei figli per godere di loro fino all’ultimo istante. Nelle stazioni, la
mattina, c’è la vita che va ad essere guadagnata in una fabbrica, in
un’università: una vita a basso costo che non ha auto o risparmia i soldi della
benzina.
Salgo sull’autobus, ma questa volta non mi fregano e, vecchia volpe dei
trasporti estoni, me ne infischio del posto assegnato e mi accaparro un comodo
biposto tutto per me: ho davanti sei ore di torpedone e sul viso sonno e
sfacciataggine da vendere, quindi state alla larga dal posto accanto al mio!

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Certo non posso impedire che sul sedile dietro di me si segga il solito inglese
che ciancica gomme rumorose, forse per camuffare le esalazioni di birra.
La prima parte del viaggio è un percorso a ritroso di cose già viste, con la
variante che sul traghetto vengo improvvisamente attratta da un poster
pubblicitario che reclamizza un locale di spogliarelliste di Saaremaa: strip-tease,
massaggi e “servizi privati”. Neanche a dirlo, l’indirizzo è proprio quello del mio
noleggio auto! Arrivati sul continente puntiamo verso sud, località balneare di
Parnu. L’autobus si svuota di turisti e zaini e imbarca gente del posto e studenti.
Poi, diretto a est, nel profondo interno, costeggiando laghi e attraversando
parchi naturali. Verde a perdita d’occhio.
A un certo punto, miracolo, si sale sulla sommità di una collina: un centinaio di
metri non di più, ma un bel diversivo rispetto al resto del piattume e quanto
basta per vedere qualche chilometro di panorama circostante. Foreste e ancora
foreste, neanche a dirlo. Casette a punta e foreste. Comunque non mi dispiace:
il paesaggio non è vario, ma riposante e diverso dai nostri. E poi a me interessa
il viaggio, è come stare al cinema, potrei stare seduta qui, con la mia musica, i
miei libri, i miei sandwiches al salmone e il mio finestrino da prima fila, per giorni
interi.
Alla fine però arriviamo al capolinea: Tartu, si scende. La mia ultima tappa
estone.
L’ostello è bohemien, ma le persone che lo gestiscono sono molto carine e
giovani.
Crollo per un po’ sul letto e mi riprendo più tardi con una doccia lunghissima.
Tartu è davvero carina: al di là dei soliti colori pastello e caffè già visti un po’
dovunque, ha l’aria di una città più autentica, popolata essenzialmente da
giovani universitari. Sono belli, con i loro stili così diversi, dal punk
all’intellettuale, appena rientrati dalle vacanze, pieni di ricordi e racconti e già
pronti per il nuovo anno accademico. Il parco è un brulicare di gruppetti di
ragazzi che si ritrovano dopo l’estate.
Dopo qualche tempo all’ultimo sole in un bar della piazza, mi regalo un concerto
di musica jazz nella chiesa principale.

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Il resto della serata è in ostello a chiacchierare di luoghi e viaggi con gli altri
ragazzi.

20 agosto 2009 – Riga

Ancora una mezza giornata a Tartu prima di imbarcarmi su un autobus


internazionale proveniente da San Pietroburgo e diretto a Riga, Lettonia.
Atmosfera di mezza festa, una domenica infrasettimanale da gita al parco, per
via dell’anniversario dell’indipendenza dall’Unione Sovietica e dell’uscita dal
regime. Giornata perfetta per una passeggiata lungo il fiume e una lunga sosta
di lettura nel grande parco della città, tra i campi da tennis e lo spazio giochi per
bambini.
L’inizio dell’addio all’Estonia è un primo assaggio di come in realtà tutti questi
paesi, pur appiccicati tra loro e minuscoli al punto da essere percepiti come
pezzetti di una regione in realtà unica, siano in verità profondamente diversi. Gli
autobus presi fino ad oggi erano mostruosamente e morbosamente puntuali, al
minuto: questo che mi deve portare in Lettonia, che arriva da San Pietroburgo,
è già in ritardo di 45 minuti.
A guidarlo sono due ceffi inconfondibilmente russi e antropomorfologicamente
diversi dagli estoni. Ho quasi paura a protestare quando cercano di sbalzarmi
fuori dal posto che occupo e che dicono essere riservato agli autisti: e no ciccio,
questa volta sul mio biglietto c’è scritto posto n. 3, prima fila, e ho tutto
l’interesse a tenermelo stretto visto che il resto del bus è tutto pieno di gente
che smangiucchia attingendo da sbriciolose buste di plastica.
Il mio posto, assegnatomi probabilmente per errore della bigliettaia, è davanti a
tutto e non ha nessuno accanto. Ma carta canta, brutto ceffo energumeno
baffuto dall’aria minacciosa, c’è scritto posto numero tre e io resto qui. Il russo
si arrende, bofonchiando.
L’uscita dall’Estonia e l’avvicinamento a Riga rendono sempre più marcate
differenze che non mi aspettavo: il paesaggio rimane più o meno lo stesso, tra
betulle e abeti rossi, ma compaiono autostrade e scritte al neon, odori di
metropoli che Tallinn non aveva, Burger King e centri commerciali, periferie di

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parallelepipedi di cemento, una sorta di skyline di ponti moderni e alberghi
internazionali multipiano.
L’ostello dove faccio tana giusto il tempo di lasciare i bagagli è variopinto e
zeppo di giovani.
Poi corro a incontrare Francesco, che è già qui da un giorno e che mi aspetta
per proseguire il viaggio insieme. La città è già sua e già mi descrive con
padronanza locali, ristoranti, chiese e ragazze mozzafiato. In effetti è
impressionante: dovunque mi volti, mi sento circondata da ragazze bellissime,
che ancheggiano ad arte nei loro corpi slanciati, emanando silenziosi e
irresistibili inviti significativi.
La città, pur avendo anch’essa il suo centro medioevale dai colori pastello, è
grande e con influssi diversi, dall’art nouveau ad un 700 vagamente
centroeuropeo.
Dopo una bistecca di racconti e ritrovi, Francesco mi porta in un locale notturno
selezionato tra i tanti della città. Una visita guidata, per me naturalmente
allergica a questo tipo di intrattenimento, ma la cultura di Riga, oggi, è anche e
soprattutto questo, e così mi lascio guidare.
Impressionante: un labirinto di sale con diversi DJ che sparano a palla uno zum
zum che scatena centinaia di corpi sudati e rapiti. Mai viste tante belle ragazze
tutte insieme: non ce n’è una che non sia vestita carina e che non abbia occhi di
ghiaccio che mordono ogni uomo che li incrocia. Non ce n’è una che non sia
carnalmente sensuale. L’età media è molto bassa e mentre le giovincelle sono
già promesse di donna e sapienza erotica, i ragazzi sono semplicemente
sbarbatelli poco interessanti.
Tanti gli inconfondibili italiani, con le loro camicie cifrate, le polo ralph lauren e
le hogan ai piedi. Così come tanti sono i russi che a Riga (a differenza che in
Estonia) imperversano e gestiscono la maggior parte dei traffici, di ogni genere.
Sufficienti impressioni per queste prime ore lettoni.

21 agosto 2009 – Ventspils

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Francesco dorme e io ne approfitto per scoprire quello che lui ormai già
conosce: i vicoli di Riga, i suoi colori, i suoi caffè e i suoi pennacchi (ovvero i
campanili delle chiese). Bello, piacevole, ma non suggestivo, almeno non
quanto i loro equivalenti estoni.
Dopo colazione ci dirigiamo alla scoperta della zona del mercato, a vedere cosa
mangiano i lettoni e a sentire i loro odori. Enormi bistecche di prosciutto, cetrioli
che galleggiano in giganteschi barattoli, pagnottelli fritti imbottiti di carni e
cipolle, formaggi dall’aria fresca e molliccia.
E poi fiori, tanti, belli, colorati, che tutti comprano per portarli a qualcuno o
goderseli in casa: i lettoni hanno una passione per i fiori, ogni giardino è una
festa.
Nel pomeriggio è previsto il prelievo di un’auto in affitto e la partenza per due
giorni di esplorazione.
Ma il nostro noleggiatore ha pratiche di affitto che aguzzano il nostro olfatto
sospettoso e così decidiamo di abbandonarlo e preferiamo avviarci verso
l’aeroporto nella speranza di trovare un noleggiatore più rassicurante.
Scegliamo una signorina carina che per un buon prezzo ci offre una Polo di
colore blu elettrico. Perfetto, si parte.
E’ pomeriggio inoltrato, ormai, e attraversiamo campagne e boschi illuminati
dalla lunga luce orizzontale del tramonto.
Ci fermiamo a Kuldiga, nella provincia del Kurzeme, tappa che mi era stata
caldeggiata dagli spagnoli incontrati a Saaremaa. Fiume e cascata all’ingresso
del paese, ma aria da far west per le strade. Tutto ha l’aria di essere
abbandonato e deserto, come se gli abitanti fossero fuggiti dopo l’annuncio di
un cataclisma. Tristezza che ci convince a non restare e a proseguire verso la
costa.
Arriviamo a Ventspils a buio calato e immaginiamo di poterci ristorare su un
lungomare animato e crollare su lenzuola pulite: leggiamo infatti che Ventspils è
lo snodo di traffici marini e comunque movimentata e…almeno abitata.
Ma il lungomare non c’è, perché la città è stata costruita sulla riva del fiume
prima che sfoci nel Baltico. Quanto ad animazione, riproviamo la stessa
sensazione di deserto di Kuldiga.

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I morsi della fame si fanno sentire, ma la città non ci offre molta scelta all’infuori
di un pub che ci sembra l’Eldorado. Almeno fino a quando la “bistecca” di
salmone non si materializza sotto i nostri occhi, incarnandosi in un orrendo
similburger perfettamente circolare appena uscito dal freezer.
Siamo troppo stanchi e affamati per protestare e men che meno per fuggire a
gambe levate.
Il miglior albergo della città, che a questo punto sentiamo di meritare senza
badare a spese, è un anonimo ed economico parallelepipedo di cemento in stile
anni 70, costruito con fierezza a ridosso del centro olimpico. Inutile dire che
ovviamente questa città non ha mai ospitato nulla di più impegnativo di qualche
gioco della gioventù.
Ci addormentiamo delusi.

22 agosto 2009 – Cape Kolka

Il giorno seguente ci aspettiamo dal prosieguo del viaggio ricompense e


contrappassi, ma per lunghe ore, sulla strada costiera che va verso nord, non
attraversiamo altro che foreste che ci nascondono la vista del mare e che, per
qualche motivo che mi sfugge, hanno meno fascino di quelle estoni.
Per spezzare la monotonia, Francesco propone un diversivo di guida lungo un
sentiero che si addentra tra abeti e betulle e già segnato da tracce di auto.
Andiamo a vedere queste famose foreste quale meravigliosa natura
racchiudono.
Più avanziamo e più la foresta si fa fitta e più le ruote affondano nel terreno
sabbioso. Siamo in un ombelico di alberi altissimi, felci, funghi e zanzare.
Proseguiamo. Dopo mezz’ora di guida solitaria nella natura ci pare finalmente
tempo di tornare sui nostri passi, ma il sentiero stretto non consente manovra,
per cui continuiamo alla ricerca di uno slargo per girare. Improvvisamente
sbuca sul nostro percorso una macchina parcheggiata che ci impedisce di
proseguire oltre, e due tipi lì vicino che non accennano minimamente a
spostarla. Francesco ed io ci scambiamo sguardi impauriti, ma obbedendo a

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chissà quale codice non scritto del viaggiatore impavido che deve sapersela
cavare in ogni situazione, scendiamo entrambi ad affrontare il nemico.
I due, un lui ed una lei, ci chiedono come siamo arrivati fin lì: domanda invero
strana, visto che ci siamo limitati a seguire un desiderio di diversivo per il primo
sentiero senza indicazioni che abbiamo trovato. Ci guardano dubbiosi e
sospettosi. Lei, in un inglese approssimativo, ci spiega che quello è un posto
“dove si produce energia”. Nella mia ingenuità mi immagino lì vicino centrali
elettriche. Ma un istante dopo ci accorgiamo che per terra c’è una serie di
enormi cerchi concentrici disegnati con le pietre e segni di falò tutto intorno.
Neanche il tempo di dare un nome ai nostri sospetti, che la signora ci precede
dicendo “noi qui facciamo i riti”.
Francesco ed io, senza dirci una parola, proviamo la stessa terribile sensazione
di essere decisamente nel posto sbagliato e con i compagni sbagliati, ma
entrambi reagiamo istintivamente cercando di guadagnarci nel più breve tempo
possibile le simpatie dei due balordi per far spostare in fretta quella maledetta
macchina.
Il tipo è uno strano smilzo, infilato in orrende scarpe e con le unghie sporche.
Lei ha l’aspetto di una strega dal volto butterato e pustoloso.
Il quadro è perfetto: ci sono tutti gli ingredienti per una fine tragica da film
dell’orrore.
I due, però, non sono aggressivi e cercano di spiegarci le regole dell’energia
racchiusa in quel posto. A noi non resta che assecondarli, fingendo interesse
pur restando vigili e pronti a difenderci se l’atmosfera dovesse cambiare.
Francesco si presta anche a fare il girotondo concentrico tra i sette cerchi
disegnati, fino al centro dove si racchiude tutta l’energia: quando su
sollecitazione della signora lo sento addirittura pregare (o piuttosto imprecare)
in siciliano stretto, trattengo a fatica uno scoppio di riso nervoso.
Non vediamo l’ora che ci lascino andare e ci sgomberino la via, visto che
scappare a marcia indietro in mezzo ai boschi su una sterrata sabbiosa non ci
sembra una mossa vincente.

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Ma dobbiamo ancora fingere incontenibile interesse per la loro mappa di tutte le
zone energetiche della Lettonia (certo che fortuna a capitare proprio in uno di
questi!) e prestarci controvoglia ad una foto ricordo con i mostri.
Quando finalmente rientriamo in macchina, chiudiamo la sicura e… ad occhi
sgranati vediamo il tipo uscire dalla sua auto con un sorriso gigante e un coltello
in mano! E’ la fine – pensiamo. Invece il mostro, brandendo l’arma, si china
sotto il cofano della macchina, infila il coltello nel vano motore e – brrrrum –
mette in moto! Peccato faccia troppo poco caldo anche per sudare freddo.
Ma il calvario non finisce, perché il ritorno verso la statale è un corteo in cui noi
siamo costretti a seguire lenti la loro auto, visto che il sentiero non ci consente
sorpassi, e fino a quando non tocchiamo l’asfalto conserviamo la sensazioni di
essere in qualche modo in balìa delle follie di questi due.
Appena giunti alla statale i due accostano, probabilmente per un ultimo saluto
affettuoso, e Francesco invece sgomma via a velocità supersonica.
Libero sfogo a risate nevrotiche di due incoscienti che l’hanno scampata bella.
Il parco nazionale di capo Kolka non sembra granché diverso, quanto a
vegetazione e fauna visibili, dal resto del paesaggio attraversato fin qui. Ma
lasciata la strada principale per una delle sterrate che portano agli abitati sul
mare, ci si accorge di essere in una zona “turistica”. Le virgolette servono a
mettere in guardia dall’applicare alla parola concetti e aspettative nostrane.
Contestualizzata, invece, la parola significa solo che compaiono case di
vacanza, con giardini curati e fiorellini colorati. Niente alberghi, niente piazze,
niente borghi e niente ristoranti. Quelli che la guida chiama “villaggi di pescatori”
sono casette di legno sparpagliate in mezzo a un bosco. Non c’è porto, non c’è
molo.
C’è una spiaggia, lunga, bellissima, bianca. Interminabile distesa di sabbia
candida fiancheggiata da foreste oblique di vento. Ogni tanto una barca tirata
sulla spiaggia è tutto quello che fa della zona un villaggio di pescatori. Peccato
che sia il villaggio a mancare!
Il pescato è sostanzialmente una specie di sogliola romboidale che vendono già
affumicata e che tutti divorano agguantandola con le mani.

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La costa è effettivamente suggestiva, in particolare alla punta del capo, lì dove il
mar Baltico si scontra letteralmente con il golfo di Riga: d’inverno le onde che
provengono, gigantesche, dalle due direzioni opposte, producono spruzzi
altissimi e un frastuono assordante.
Ora che tempesta non c’è, ma solo un vento forte che spira da Riga, ci
accontentiamo di osservare il fenomeno buffo di onde che, incrociando il
Baltico, improvvisamente si bloccano: creste bianche che spariscono lungo una
linea immaginaria ma nettissima.
Famigliole passeggiano, qualche temerario si bagna a dispetto del vento. Noi
rovistiamo tra conchiglie e sassolini alla ricerca di minuscole schegge di ambra.
Il b&b è grazioso, con il suo viottolo privato per la spiaggia, il suo prato
verdissimo e i fiori multicolori.
L’unico punto di ristoro del luogo è un menu senza anima, di zuppa in busta e
prodotti da freezer.
Dopo letture, riposo e uno scroscio di pioggia, decidiamo di partire per una gita
verso l’interno, alla ricerca di una birra e di qualche essere umano.
Le luci del tardo tramonto sui campi sono spettacolari: un arancione scuro che
sfuma in ombre lunghe che danno tridimensionalità anche ai fili d’erba.
Alla fine, buio calato, e chilometri di sterrate percorsi, troviamo la birra agognata
e sparuti esseri umani in un pub, sopravvissuti per caso a chissà quale
cataclisma desertificante.
A Daundaga ci lasciamo rapire dalla schiuma fresca e da una triste tv
sintonizzata sui mondiali di atletica. Poi rientriamo nel buio pesto per strade da
“The day after”.

23 agosto 2009 – Riga

L’ultima giornata di questo viaggio baltico è un risveglio su un mare lacustre


senza bave di vento: quasi un invito a tuffarsi, se non fosse per colori e
temperature che ci lasciano perplessi. Pavidi, rinunciamo senza rimpianti al
battesimo del Baltico.

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Quiete ideale per una passeggiata sulla spiaggia e un lungo oziare al sole tra le
dune, tra chiacchiere e letture.
Prima di ripartire per Riga, riusciamo, grazie all’intercessione della padrona del
b&b, ad assaggiare l’unico prodotto genuino e locale: un formaggio fresco
ancora tiepido che divoriamo a cucchiaiate.
Il rientro lungo la strada costiera che porta a Jurmala è un lento avvicinarsi alla
civiltà dei luoghi di villeggiatura degli abitanti della capitale, con ville a pochi
metri dal mare e – miracolo – qualche albergo di buon livello.
Restituita l’auto in aeroporto, ci ricoveriamo nella nostra ultima camera lettone
in un alberghetto del centro. Sauna e cena di caviale per festeggiare la fine di
un bel viaggio, anche se curioso, e la mezzanotte di inizio del compleanno di
Francesco.
Troppo stanchi e troppo proiettati nella partenza del giorno dopo per concederci
un dopocena danzante.

24 agosto 2009 – Roma

Il mattino dopo Francesco parte presto e io posso indugiare ancora un po’ tra
docce e colazioni.
Poi taxi per l’aeroporto.
Quando salgo a bordo vengo colpita da due particolari: una mazza da baseball
agganciata al soffitto dell’auto e una radio che trasmette “Felicità” di Albano e
Romina.
Ultima, buffa immagine di questa estate nordica.

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